Sineresi n. 1

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PUBBLICITA’ D’AUTORE


SINERESI Trimestrale edito dall’associazione PAN - Centro di produzione culturale Via Flavio Gioia, 1 - Brindisi di Montagna (Pz) Tel. 342 32 51 054 e-mail: sineresi.sineresi@yahoo.com Direttore Anna R. G. Rivelli Collaboratori Sara Errico - Aniello Ertico - Fiorella Fiore Cristiana Elena Iannelli - Giuseppe Passavanti Grazia Pastore - Rocco Romanelli - Mara Sabia Angela Maria Salvatore Direttore responsabile Angela Maria Salatore Responsabile editoriale Giovanni Cafarelli Concept Design Salvatore Comminiello Arcangelo Moles Impaginazione e stampa Vincenzo Cristiano Si ringrazia per la fattiva collaborazione Alessandro De Ponti, Michele Blasi, Daniele Cafarelli, Angelo Telesca, Antonello De Ruggeri, Marcella Bruno, Pino Lauria, Fondazione Zetema (Matera), Iacovera e Loguercio (Genzano), Pace Bio (Potenza), La direzione del ristorante Brezzamarina (Taranto), Le Gallerie Artea Gallery (Milano) Porta Coeli (Venosa - Pz) Memoli Arte (Milano - Potenza) Prezzo di una copia + inserto € 10,00 Abbonamento solo sostenitori € 50,00 Estero € 70,00 Per richiesta abbonamenti info: sineresi.sineresi@yahoo.com Registrazione Tribunale di Potenza n.457 del 13 agosto 2015

Sommario

Il diritto di essere eretici di Anna R. G. Rivelli.................................... pag. 2 Cultura, etimo del paesaggio di Vito Santarsiero............................. pag. 4 Il Musma di Matera di Grazia Pastore.................................................pag. 8 Se l’arte è antisistema di Sara Errico.................................................. pag. 12 Arte Pollino di Cristiana Iannelli.......................................................... pag. 14 Donato Linzalata di Franca Amendola............................................... pag. 18 Open Space Catanzaro di Sara Liuzzi................................................. pag. 20 Senza confini di Fiorella Fiore............................................................. pag. 24 Arcangelo Moles di Rino Cardone......................................................pag. 26 La voce della Lucania nelle pietre erranti di Giuseppe Antonello Leone di Fiorella Fiore......................................................................... pag. 28 Addio ai mondi di Angela Salvatore...................................................pag. 31 Il mio ricordo di Katmandu di Vito Grimaldi...................................... pag. 32 Se fosse poesia di Anna R. G. Rivelli...................................................pag. 38 Emotionage di Rossella Croce............................................................ pag. 42 Calliope e l’essenza dello zero di Mara Sabia................................... pag. 46 Ti porterò a Potenza di Oreste Lopomo.............................................pag. 48 L’ignota meta di una forma di Marco Pascarelli................................. pag. 52 Lo stupro di Anna R. G. Rivelli............................................................. pag. 54 La teoria delle rinascite di Ghino Mori............................................... pag. 56 Quel ponte dell’Arcobaleno di Anna R. G. Rivelli............................. pag. 58 Lo spettacolo si muta in memoria di Rocco Romanelli..................... pag. 60 Le grotte di Sant’Antuono a Oppido Lucano di Antonio Giganti....pag. 62 Chiesa di San Lorenzo nella Grancia di Brindisi di Montagna di Carmela Petrizzi e Giuseppe Marinelli................................................pag. 64


Il diritto di essere eretici Nel famoso discorso “La difesa della cultura” , pronunciato nel 1935 a Parigi durante il congresso internazionale degli scrittori, Gaetano Salvemini disse: “Siamo tutti d’accordo che la libertà significa il diritto di essere eretici, non conformisti di fronte alla cultura ufficiale e che la cultura, in quanto creatività, sconvolge la tradizione ufficiale”. Questo breve passo di un discorso quanto mai interessante ed articolato in difesa della laicità dello Stato e contro ogni forma di totalitarismo, appare particolarmente significativo anche perché in quella circostanza (quella di un congresso nato per sottolineare i valori dell’antifascismo) l’“eresia” di Salvemini (eresia che lasciò molti indignati e basiti) fu quella di non farsi scrupolo di stigmatizzare non solo il fascismo, bensì tutti i regimi totalitari perché tutti ugualmente capaci di ridurre ad uno stato di degradazione morale tutte le classi sociali, anche quelle intellettuali. Dalle parole di Salvemini, quindi, nasce il sottotitolo della rivista Sineresi attraverso la quale, in un momento di grandi criticità come quello attuale, si intende rispondere al monito di questo grande uomo del nostro Mezzogiorno invitando le classi intellettuali a riappropriarsi di un ruolo che storicamente gli appartiene, quello di essere eretici, per l’appunto, e di non riconoscere a nessuno e a nessuna dottrina il monopolio della verità. “Non disprezzate le vostre libertà,- dice ancora Salvemini a tutti

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noi- difendetele ostinatamente pur continuando a dichiararle insufficienti, a lottare per svilupparle”. Ed è a questa libertà, quella che non bisogna mai illudersi che sia stata acquisita una volta per tutte, che Sineresi guarda con la certezza che solo una cultura realmente priva di vincoli di qualsivoglia natura può con efficacia contrastare l’incertezza e il degrado dei tempi. D’altro canto il termine eresia deriva dal verbo greco che significa scegliere e Sineresi le sue scelte le ha già fatte. La prima è proprio nel suo nome; Sineresi è parola musicale, di uso non comune, portatrice di un significato che rimanda ad un’idea di unione che, tuttavia, non rinuncia all’identità; come infatti nella sineresi due vocali appartenenti a due diverse sillabe possono all’occorrenza unirsi, così nell’impegno culturale collaborare tra più soggetti, più territori, più linguaggi non significa rinunciare all’io, ma piuttosto rafforzarlo nel noi. La seconda “eresia” è quella di aver scelto di far nascere una rivista “vera”, materiale, cartacea insomma, in un’epoca che esalta la virtualità come una panacea, spesso rischiando di scrivere nel vento o nell’acqua vorticosa, per dirla con Catullo, pagine della nostra storia che poi sarà difficile recuperare. Quello dell’effimero tecnologico, infatti, è un rischio ancora assai spesso sottovalutato; la tecnologia, al contrario di quanto ingenuamente


si è portati a credere, non è assolutamente garanzia di eternità, anzi troppi fattori concorrono a che essa metta a rischio le nostre memorie; cosicché si può giungere al paradosso esemplificabile con quanto accaduto in Inghilterra con la versione multimediale del “Domesday book”, realizzata per celebrare il novecentenario dell’antico manoscritto: dopo 900 anni il documento originale, fatto di pergamena e inchiostro, era perfettamente leggibile, mentre la versione moderna non lo era già più dopo nemmeno 15 anni. La terza eresia è quella di privilegiare una visione del mondo forse anacronistica, fuori moda agli occhi di molti, nella quale tuttavia esiste l’unica probabilità di sopravvivenza di una cultura veramente libera; vale a dire privilegiare una sorta di “kalokagathia” del sociale, cioè il riconoscimento della divina unione del bello e del buono, a dispetto del principio imperante dell’utile quantificabile che oggi mortifica e tramortisce la cultura o le lascia come unica possibilità quella di farsi serva di una ufficialità precostituita o, anche, di una degenerazione di gusto che sembra essere l’unica committenza pagante rimasta. Quarta eresia: il protagonismo di un Sud stufo di non essere riconosciuto ed in particolare il protagonismo della Basilicata. Oggi in Italia la cultura è un’esigenza ed un enigma. È un’esigenza per-

ché è più che mai necessario superare la crisi morale e materiale che ci attanaglia, ma non si può continuare a farlo usando la grandezza del passato come baluardo dietro cui insistere ad accumulare la pochezza del presente; in Basilicata si aggiunge il dovere di non sprecare l’opportunità di Matera Capitale, Matera che non è più solo una città, ma la regione intera e l’Italia intera che diventa cuore dell’Europa tutta. La cultura è però anche un enigma che va chiarito a se stesso, perché non si confonda il senso dell’identità con una fissità ed un immobilismo che finiscono per far sparire proprio l’individuo ed esaltare, invece, una costruzione artificiale che si fa stereotipo e diventa perciò stesso una gabbia. La cultura d’altronde non è un oggetto naturale, bensì un prodotto dell’uomo, e pertanto resta viva solo se è capace di evolversi attraverso relazioni ed interazioni, solo se la consapevolezza e l’orgoglio delle radici restano luce per il presente e non zavorra per il futuro. È per questo che Sineresi mira ad essere territorio senza essere recinto, a porre al centro una Regione che non è più quella che un’ufficialità muffosa e stantia propaganda con la voce stentorea di un potere colpevolmente ignorante, ma è una regione capace di impegno e proposta, non solo Basilicata, ma anche Sud, ma anche Italia, ma anche Europa. Anna R. G. Rivelli

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Cultura, etimo del paesaggio di Vito Santarsiero

Il progressivo mutamento del concetto di cultura da mero processo di formazione e apprendimento a fattore base di una nuova economia e, soprattutto, a elemento fondante una nuova condizione dello stato sociale per la sua capacità di incidere profondamente e positivamente sullo spirito umano e sui processi di crescita di una comunità, ha portato ad un dato nuovo, quello di dover considerare in maniera profondamente diversa rispetto al passato tanto le azioni di tutela, salvaguardia e valorizzazione del patrimonio storico e artistico, tanto le azioni tese alla ideazione, produzione e sostegno delle attività culturali.Tali azioni vanno infatti sempre più considerate una fondamentale risorsa per attivare e alimentare processi nuovi di crescita di una comunità. Sempre più l’investimento culturale viene valutato in maniera ben diversa rispetto al passato quando gli economisti, da Adam Smith a David Ricardo, consideravano le attività culturali come attività non produttive, opera che “svanisce nel momento stesso in cui viene prodotta”, sino al punto che oggi non è più possibile analizzare i territori senza considerare i loro investimenti in cultura.Tali investimenti non incidono solo sui processi socioeconomici ma anche, ed è il nostro tema, sul territorio e sul suo paesaggio fino a dover spostare la riflessione dall’architettura e dall’urbanistica come produzione di manufatti, all’architettura e all’urbanistica come espressione di una nuova coscienza civile e culturale. Non è l’affermarsi di un nuovo stile, quanto invece una forma di trasformazione del territorio e del suo paesaggio, conseguenza di un nuovo modo di intendere i processi di evoluzione e crescita della società, che comincia ad imporsi rispetto a vecchi modelli deteriori e superati.Tale trasformazione assume inevitabilmente aspetti molteplici e variegati la cui connessione agli investimenti in cultura è difficile da cogliere in maniera diretta ed esplicita perché ancorata, fondamentalmente, al maturare di una nuova sensibilità e di nuove esigenze collettive.Vi sono però situazioni in cui i processi di mutamento del territorio e del paesaggio sono tanto significativi quanto direttamente relazionati all’investimento culturale. Sono i casi del recupero di beni storici, quelli della nascita di nuovi contenitori culturali e quelli della conversione di aree dismesse e vecchi siti in strutture artistiche e luoghi di attività culturali. Meritano di essere citati alcuni casi che assumono un valore simbolico molto forte. 4

Centro “George Pompidou” - Parigi MUSE museo delle scienze - Trento Matera Sassi


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Il complesso architettonico e paesaggistico della Venaria Reale, imponente residenza sabauda nei pressi di Torino, abbandonata per oltre un secolo sino agli anni ‘60 è stato dichiarato nel 1997 Patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Da sito abbandonato e in degrado diviene sito oggetto di un grandioso restauro urbanistico che ha interessato un intero territorio comprendente la Reggia, il Centro Storico di Venaria, la sua viabilità, il borgo castello della Mandria con il suo parco, 30 cascine, ville interne, terreni abbandonati riqualificati per 250000 mq di aree incolte ritrasformate in giardini nel rispetto dei progetti originari. Un recupero costato 280 milioni di euro che ha trasformato un intero territorio e fatto della Reggia di Venaria Reale un sito turistico visitato ogni anno da circa un milione di persone, quinto sito museale italiano più frequentato. I Sassi di Matera, patrimonio Unesco dal 1993, “paesaggio culturale “ unico al mondo, devono il loro straordinario fascino e la loro forza d’impatto al grande intuito di investire in un costante e progressivo progetto di recupero e salvaguardia avviato nel 1986 che ha interessato ogni angolo ed ogni elemento dell’intero insediamento urbano figlio delle progressive forme di antropizzazione succedutesi nel tempo, esteso per 370.000 mq e collocato nel calcare della gravina. Oggi Matera ha ricevuto il significativo riconoscimento di Capitale Europea della Cultura per l’anno 2019. Sono questi due casi in cui l’azione di recupero e salvaguardia incide sul paesaggio conservandolo e modificandolo al tempo stesso, oltre che confermarsi nuovo e possente fattore di sviluppo socio-economico. Il desiderio di frenare il declino e rilanciare il ruolo di Parigi sulla scena artistica e culturale mondiale hanno portato alla realizzazione del Centro Nazionale di arte e cultura George Pompidou, istituzione culturale multidisciplinare inaugurata nel 1972. Un grande edificio di forte impatto visivo che “ha rovesciato l’architettura mondiale”, come ha scritto nel 2007 il New York Times, divenuto una delle immagini simbolo di Parigi. Il Centro, visitato da circa 4 milioni di persone l’anno, ospita 70.000 opere d’arte, 350.000 libri e migliaia tra film, riviste, fotografie ed altro ancora. L’auditorium Parco della Musica, complesso multifunzionale inaugurato a Roma nel 2002 e realizzato per ospitare eventi mu6

La Reggia di Venaria Reale - Torino


Città della Scienza - Napoli Auditorium Parco della Musica - Roma

sicali e culturali di vario genere, ha radicalmente trasformato uno spazio urbano di 55.000 mq nel quartiere Flaminio. Rappresenta oggi una delle immagini della Roma moderna e nel 2012 ha ospitato centinaia di eventi per un totale di un milione di visitatori. Sono questi altri due esempi di come invece nuovi investimenti culturali incidono anch’essi profondamente sul paesaggio urbano e sull’economia territoriale. Una incidenza, almeno quella paesaggistica, pari a quella già avvenuta nel passato con la realizzazione di grandi Istituzioni Culturali, dai musei ai teatri, che hanno segnato profondamente gli ambienti urbani. Cosa sarebbe Piazza Scala a Milano senza l’omonimo Teatro o il centro di Bari senza il Petruzzelli o tanti spazi di Roma senza i loro Musei e Gallerie d’Arte? La riconversione di aree dismesse , soprattutto vecchi siti industriali, in luoghi dedicati alla cultura e a spazi collettivi rappresenta non solo uno strumento per evitare forme di degrado urbano ma anche un’azione innovativa per contribuire allo sviluppo e migliorare la qualità della vita. Baltimora, Nottingham, Birmingham rappresentano esempi di città che attraverso una precisa strategia di investimento culturale hanno restaurato e recuperato vecchi patrimoni industriali aprendo nuove stagioni di sviluppo locale. In Italia meritano di essere citati il caso della Città della Scienza di Napoli, nata nella ex area industriale di Bagnoli su un’area di circa 7 ettari interamente riqualificata che oggi si caratterizza per una nuova immagine offerta al territorio e per la presenza di 500.000 visitatori l’anno, ed il MUSE a Trento, un polo museale innovativo visitato anch’esso da oltre 500.000 visitatori l’anno, nato nell’area dismessa ex Michelin, che con le sue dimensioni (130x35x18,5mt) e le sue grandi superfici di vetro e acciaio si immerge e caratterizza il paesaggio urbano e naturale del contesto. Una considerazione per concludere: se vi è dunque una relazione diretta tra cultura e ambiente e tra cultura e paesaggio, occorre essere anche consapevoli che laddove si spengono le comunità e le loro identità, come spesso accade nei piccoli paesi delle nostre aree interne, si spengono anche i territori e i loro paesaggi. Salvaguardare le identità locali è anche salvaguardare territorio e paesaggio. 7


Il Musma di Matera

Museo della scultura contemporanea di Grazia Pastore

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Nicola Carrino (Taranto 1932), Costruttivo 2/87, 1987 ferro cm 130 x 65 x 195 Carlo Lorenzetti (Roma 1934), Nubelunga 1985 - 1986 alluminio sbalzato e grafitato, cm 390x270x70


Antonietta Raphaël (Kovno, LT, 1895 - Roma 1975) La grande Genesi n. 4, 1960 gesso, cm 235,5 x 74 x 70

“Metamorfosi”, come evoluzione dinamica di uno stato preesistente, metafora del desiderio di rinnovamento, percorso creativo che muta continuamente di senso e cambia l’immagine di un oggetto, di un luogo, di un’identità. Il MUSMA (Museo della Scultura Contemporanea di Matera) nel Sasso Caveoso è il più importante museo italiano interamente dedicato alla scultura, una collezione d’arte che racconta la scultura italiana ed internazionale dalla fine dell’ 800 ad oggi. E’ uno dei luoghi della cultura, programmati e realizzati dalla Fondazione Zétema di Matera, ed inserito nel “Distretto Culturale dell’Habitat Rupestre della Basilicata”. MUSMA è anche emblema di metamorfosi. E’ al suo interno, infatti, che l’energia millenaria e primitiva della roccia si integra con la forza espressiva dei nuovi linguaggi dell’arte, in un netto gioco di contrasti, a tratti stridente e tuttavia di straordinaria efficacia visiva. Unico museo “in grotta” al mondo, interconnette contenuto e contenitore, tra

James Rosati (Washington 1912 – New York 1988) Senza titolo, 1961 – 1962 Bronzo m 106,5 x 116 x 53

ambienti di calcarenite ed una selezionata serie di sculture di estrema modernità, in un viaggio straordinario nella materia e nelle tecniche espressive. Sono più di 500 le opere in bronzo, marmo, pietra, ferro, acciaio, terracotta, ceramica, gesso, legno, cartapesta, ma anche disegni, incisioni, multipli, medaglie e libri d’arte, un patrimonio proveniente da donazioni di artisti, collezionisti privati, critici d’arte, gallerie nazionali ed internazionali e dal Circolo La Scaletta di Matera. Medardo Rosso, Cambellotti, Martini, Picasso, Mascherini, Raphael, Greco, Melotti, Fazzini, Accardi, Basaldella, Cascella, Manzù, Lassaw, Hare, Perilli, Scialoja, Uncini, Viani, Lorenzetti, sono solo alcuni dei numerosi Maestri ospitati. In un’antitesi riuscita, tra antico e moderno, il percorso espositivo si sviluppa per circa 2000 mq su due livelli, comprendendo dieci eleganti sale al piano superiore del Palazzo Pomarici (XVI secolo) o “Palazzo delle cento stanze”, ed i sottostanti ambienti ipogei, collocati in maniera irre9


Carla Accardi Coni, 2004 ceramica, cm 161x61 Carlo Ramous (Milano 1913) Di fronte alla luna, 1968 bronzo, cm 44,5 x 75 x 12 Teodosio Magnoni (Offanengo, CR, 1939) Solido vuoto 2, 1992 acciaio inox e vernice, cm 60 x 157 x 90

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golare, a quota più bassa rispetto ai cortili da cui si accede. Sono luoghi che si sono trasformati nel corso dei secoli: il complesso di grotte del piano terra era in origine un insediamento conventuale dei Domenicani; nel 1703 gli ipogei furono acquisiti dal notaio Cesare Pomarici come magazzini per la conservazione del cibo, stalle e carbonaie, entrando a far parte del nucleo abitativo del piano superiore occupato, già dal 1697, dalla sua facoltosa famiglia, originaria di Anzi (PZ). Dal primo cortile, al piano terra, si accede alle “Sale della caccia”, destinate a mostre temporanee e arricchite da raffinate pitture murali settecentesche, e alla Biblioteca “Vanni Scheiwiller” un’ area di studio, consultazione e documentazione, con più


di 6000 volumi tra monografie e cataloghi d’arte, 200 video (da Anton Giulio Bragaglia a Anish Kapoor) ed una fototeca (i fotografi degli scultori: H.Cartier-Bresson, Mario Cresci, Ugo Mulas, Isa Crescenzi, Romano Martinis, Pasquale De Antonis, Marina Franci, Milton Gendel, Arno Hammacher, Aldo Ballo, Lorenzo Cappellini, Mario Carrieri, ecc.). Sul secondo cortile si affaccia la “Sala della Grafica e della Ceramica”. Al piano superiore la collezione del museo è allestita in dieci sale, secondo un percorso storicocronologico sulla scultura nazionale ed internazionale, dalla fine del XIX secolo alle recenti avanguardie. Il MUSMA è anche spazio didattico; ospita cicli di proiezioni su argomenti di stretta contemporaneità e laboratori creativi

rivolti ai bambini della Scuola dell’Infanzia e agli adulti, per promuovere l’interesse ed il rispetto per l’arte. Se la scultura è mutamento della materia, Il MUSMA, come struttura tangibile, ha declinato il proprio retaggio storico per accogliere la testimonianza dell’arte contemporanea. Ha subito una metamorfosi di luogo e di significato che, a sua volta, è parte integrante di una trasformazione più ampia, spazio-temporale, perpetua ed inarrestabile, che coinvolge l’uomo e lo sconvolge, proiettandolo entro processi universali che, di nuovo, si fonderanno, o si sfalderanno, a generare nuovi e sconosciuti micromondi.

Quinto Ghermandi (Crevalcore, BO, 1916 – Bologna 1994) Foglia notturna, 1959 bronzo con base di legno, cm 135 x 62 x 30 Guido La Regina (Napoli 1909 - 1995) Senza titolo, 1958 gesso, cm 190 x 80 x 80 Servizio fotografico di Pino Lauria

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Se l’Arte è antisistema Il bello libero di Rosaria Iazzetta di Sara Errico

Moshi Moshi”, 2004, acciaio, casse, dentiere, stereo, 75 x 160 x 115 cm

Le sculture di Rosaria Iazzetta sono in ferro lucido e levigato. Una tecnica appresa durante i lunghi anni trascorsi in Giappone. Lo sguardo cade prima rassicurante per poi essere interrotto da spigoli e bruschi angoli. Si reggono in piedi, ma solo su tre gambe, sembrano cadere, ma resistono, più forti di quanto si direbbe, “tremano, ma non cadono”. Sono belle e armoniche, ma di un bello che rifugge l’idea stereotipata di bellezza. Si impongono con un senso del bello che sembra affermare un desiderio individuale e non più collettivo, rifuggono quella bellezza massificata e imposta, quella concatenazione di stereotipi che a oggi non sono più distorsioni o mistificazioni dei media, ma realtà, modalità con cui tutte le forme ormai si esplicitano. Le sculture della Iazzetta si contrappongono a queste forme che Jean Baudrillard definiva “simulacri”. Il filosofo francese ordina i simulacri facendoli riferire a tre epoche diverse e sottolineando come quello odierno non è più contraffazione, né produzione di serie, ma modello al quale si rifanno indistintamente tutte le forme. Le sculture di Rosaria urlano contro l’adesione all’unico modello possibile, in cui l’alternativa è sempre e solo la riproduzione dello stesso, perchè è l’unica azione che garantisce la creazione di un’i-

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Pig’s Bottom” 2001, alluminio e video 600x 250x 210 cm installato allo Stiffen Park di Newcastle (Australia)

dentità comprensibile e accettata. Rosaria Iazzetta crea una reale alternativa, la modella e la produce uscendo, come lei stessa ci dice, “dallo stadio della coscienza collettiva in cui spesso e volentieri ci si nasconde, dove si avverte una certa appartenenza qualunquista e una minore frustrazione a tal punto da essere quasi compiaciuti di far parte del sistema”. Rosaria Iazzetta non lavora solo il ferro, i materiali delle sue sculture sono moltepicli: la denuncia, la camorra, la politica, le tematiche sociali. Il suo medium non é semplicemente il materiale delle opere, ma citando Rosalind Krauss “un insieme di regole, una matrice generativa di condizione derivate, ma non identiche, dalle condizioni materiali, uno spazio disciplinato di possibilità che si apre all’artista, un vettore fenomenologico che apre una nuova dimensione e una diversa intenzionalità nell’esperienza dell’artista”. Il ferro della Iazzetta punta a far vacillare le nostre abitudini di pensiero, sovvertendole, sfidandole e creando alternative perché come lei stessa ci racconta “bisogna ridimensionare il sè e trovare il vero me di ognuno e collettivamente arrivare ad una trattativa per cancellare l’oppressione”.

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Arte Pollino

Forme contemporanee di natura di Cristiana Elena Iannelli

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Artepollino è un progetto di sviluppo locale inserito all’interno del programma Sensi Contemporanei, promosso dalla Regione Basilicata e insieme dal Ministero dello Sviluppo Economico, dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dalla Fondazione La Biennale di Venezia. Il progetto muove dalla convinzione che l’obiettivo principe sia quello di valorizzare le bellezze paesaggistiche della regione Basilicata, tra le aree naturalistiche più belle d’Europa, attraverso un valore estetico aggiunto, l’arte contemporanea. Ma prima del contemporaneo è d’obbligo un passo indietro. Quello tra arte, intesa come artificio, e natura è un binomio che ha origine con l’uomo, da quando i primi uomini trasformavano quegli spazi naturali e incontaminati in luoghi di culto o legati all’osservazione astronomica; al paleolitico superiore risalgono alcune delle prime pitture rupestri situate nelle grotte di Altamira nella Spagna settentrionale, segno di uno dei primi e più valorosi interventi d’arte. A distanza di milioni di anni il confronto tra uomo e ambiente è avvenuto sempre più direttamente, a partire dalla fine degli anni Cinquanta con il coinvolgimento dello spazio reale nell’opera d’arte e, particolarmente alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti d’America con la Land Art, forma d’arte contemporanea attraverso la quale gli artisti hanno tratto dal paesaggio naturale la propria ispirazione e ne hanno 15


fatto la propria creazione; i paesaggi subirono una radicale metamorfosi grazie ad artisti come Michael Heizer, Nancy Holt, Robert Smithson, Walter De Maria e Richard Long tra i più noti, rifiutando così la commercializzazione stessa dell’arte da museo, rendendo l’ambiente parte integrante delle proprie opere trasformandolo e rinforzando il legame tra uomo e natura. All’interno di questo spirito va letto Artepollino; sulle orme della Land Art, gli artisti di fama mondiale impegnati in questo progetto, hanno realizzato opere permanenti sul versante lucano del parco. Perfetto esempio di arte ambientale, le opere sono state pensate e realizzate a seguito di una interazione degli artisti con i luoghi naturali della Lucania, luoghi che hanno assunto un valore storico, politico, sociale e antropologico. L’anglo-indiano Anish Kooper con un’installazione dal titolo Earth Cinema, Cinema di Terra ha realizzato, scavando un 16

taglio lungo 45 metri e accessibile dai due lati, uno schermo da cui guardare la natura, il suono di quei luoghi e riflessi attraverso un monitor, ombre della vegetazione presente all’esterno. La finlandese Anni Rapinoja propone un’opera intitolata Skycleaner, rivolta ad una delle comunità arbereshe, italo albanesi, una pulizia del cielo da ogni inquinamento, invitando esclusivamente all’utilizzo di risorse naturali, simbolicamente riprodotte da una viale di scope fatte di ginestra infisse a terra e rivolte verso il cielo. L’RB-Ride a San Severino Lucano di Carsten Holler prevede attraverso l’utilizzo di una giostra, una passeggiata aerea con un’inclinazione verso il suolo, in modo da osservare la natura più da vicino e averne una percezione differente, data da un movimento lento e quasi esasperante che induce a una riflessione sul valore del tempo e sulla contemplazione. Il Teatro Vegetale (work in progress) di

Giuseppe Penone, nasce interamente dagli elementi presenti in natura, alberi, cespugli, pietre e acqua; uno spazio in cui la natura diventa teatro di se stessa e sfrutta se stessa senza alcun intervento invasivo, solo la creatività dell’artista. Numerose sono le attività svolte dall’associazione Artepollino all’interno dello stesso progetto. Un’iniziativa straordinaria nel paesaggio naturalistico lucano, alla scoperta di Un altro Sud.

Giuseppe Penone, Teatro Vegetale (work in progress) Val Sarmento, Noepoli , 2009 Anish Kapoor, Earth Cinema, Cinema di terra (Latronico) 2009 Anni Rapinoja, Skycleaner, Pulizia del cielo, 2009 Carsten Holler, RB-Ride (San Severino Lucano) 2009


Anish Kapoor, noto nel panorama dell’arte contemporanea, si evolve da sculture tese tra l’astratto e il naturale, a forme più monumentali che rappresentano il vuoto, reso evidente da cavità che si riempiono o da materia che si svuota, come in Earth Cinema, e dove il colore si avvale totalmente della sua purezza, come il bianco che avvolge il Cinema di Terra.

Nelle installazioni e sculture di Giuseppe Penone, il processo di formazione e compimento costituiscono parte integrante dell’opera. Scegliendo l’utilizzo di elementi naturali, incrocia il lavoro umano e quello della natura, come nel Teatro Vegetale e si rivela tra i protagonisti dell’arte povera. L’albero costituisce un elemento centrale nel suo lavoro.

Affermatosi negli anni Novanta il tedesco Carsten Holler si serve dell’arte come strumento cognitivo per alterare l’esperienza emotiva e sensoriale dell’uomo. Attraverso le sue opere, dall’aspetto apparentemente giocoso, è in grado di mutare i tradizionali meccanismi percettivi, insinuando smarrimento ma allo stesso tempo partecipazione attiva.

La finlandese Anni Rapinoja concepisce l’arte come appartenente alla gente e non come un’astrazione irraggiungibile. L’obiettivo della sua poetica è prima di tutto quello di documentare tutte le fasi di realizzazione dell’opera d’arte, ma soprattutto quello di legare due realtà distanti; l’arte contemporanea e il contesto di riferimento dell’opera. 17


Donato Linzalata, artista del mito di Francesca Amendola

Lo scultore Donato Linzalata, è stato definito “artista del mito” per la suggestione delle sue sculture, sia in legno, materiale predominante, sia in ferro, sia in marmo o in cotto, atte a stupire, a meravigliare. Egli attinge dalle sue radici etno-antropologiche, che hanno origine nell’aspra terra lucana ed hanno per icona la verticalità dell’albero e come materiale il legno, essenziale nell’arcaico, diffuso nell’antico e marginale nel moderno, trattato nella scultura totemica con uno stile sintetico e ancestrale. Nella sua opera è come se avesse voluto “pietrificare la società arcaica, raccontare la società pastorale e guerriera che sta a monte della normalizzazione magno greca” (Raffaele Nigro ). La sua scultura si ricollega ai menhir, memore di una cultura italiota, che distinse i primi lucani prodi e bellicosi nella valle di Notarchirico ( nei pressi di Venosa) e i Greci che assoggettarono questa terra, lasciando tracce nelle colonne, nei capitelli del metapontino o nei fregi dell’antica Maratea. Ma il tutto è rivisitato e ricollegato ai riti arborei propri del mondo contadino; di quel mondo che Levi, Scotellaro, Sinisgalli, prima, e Nigro, ora, raccontano. Di questo mondo, filtrato dal suo intellettualismo, ci narra con passione e abilità la vita fatta di stenti nel populismo abbarbicato nelle sculture a grappolo del primo periodo; i riti ancestrali, dove la figura umana si riappropria di un’espressione primitiva e sofferta, salmodiata dalle “masciare” (maghe) che un tempo da noi sostituivano il sociale (secondo Levi-Strauss e De Martino); le feste imprigionate nelle forme e nei marchi del pane.

Cariatide Monteserico cm 90 La porta degli Dei lucani 1969, quercia, cm.260x165x30 18


Le Crocifissioni, Genesi, L’albero della vita sono delle “macchine architettoniche e non semplicemente totem” esprimono un dinamismo “nella disperata impresa di liberarsi dalla materia lignea che li tiene prigionieri e di arrampicarsi, braccia su braccia, gambe su gambe, pur di raggiungere la vetta”. 19


Open Space Catanzaro Work in regress per work in progress di Sara Liuzzi

Dal 2005 la città di Catanzaro si è arricchita di un nuovo spazio dedicato all’arte contemporanea: Il Centro Open Space. Un luogo aperto e pronto ad essere “abitato” da ogni linguaggio visivo, un cantiere culturale, un laboratorio sociale di idee e di produzione artistica, spazio poliedrico in continua evoluzione, ma soprattutto luogo di condivisione e di aggregazione dove alle iniziative culturali e agli incontri d’esperienza − con personalità del mondo dell’arte e della cultura − afferiscano numerosi giovani creativi per vivere momenti di intenso dialogo, confronto e di scambio sui diversi saperi della conoscenza umana: dall’arte alla filosofia, dalla sociologia all’antropologia, ecc. Un progetto culturale solido, sorto in una location, immersa tra colli e verde pubblico, nell’ex-studio del noto artista napoletano Toni Ferro (già docente di Scenografia e direttore della locale Accademia di Belle Arti) e voluto da un gruppo di artisti e intellettuali provenienti da altre geografie e docenti all’Accademia di Catanzaro (Giulio De Mitri, Caterina Arcuri, Guglielmo Gigliotti, Gianluca Murasecchi, Vittoria Biasi, Angela Sanna, Dimitri Kozaris, ecc.), che hanno realizzato in questo 20

Claudio Costa Senza titolo I, 1993 Terra e oggetti africani su lamina di ruggine cm 100 x 70


Luca Maria Patella,...il nome del Padre-quelli che non si fanno ingannare, errano!, 2013, Stampa, acrilico

decennio numerosi eventi: mostre, seminari, conferenze e workshop, in un accorato progetto che ha innescato dinamiche di scambio tra storie, linguaggi e differenti culture. Dal 2005 a tutt’oggi il Centro ha realizzato oltre cinquanta eventi di particolare rilevanza regionale e nazionale con il contributo e la collaborazione di addetti ai lavori: critici, curatori, storici dell’arte¹, e con la partecipazione di artisti di chiara fama nazionale ed internazionale² e con giovani emergenti under 30 ai quali è stato dedicato un premio nazionale (intitolato alla memoria dell’artista Toni Ferro). Il Centro si è caratterizzato, fin dalla sua nascita, con una ben specifica identità che ne ha distinto, a tutt’oggi, l’attività cultu-

rale e quella divulgativa, ovvero, quella di porre in continua relazione esperienze diverse con priorità e particolare attenzione agli aspetti della ricerca e della scientificità, nel segno distinto della qualità e dell’attualità dell’arte. Gli eventi promossi e organizzati dal Centro hanno esercitato una funzione trainante, una crescita dell’arte sul territorio calabrese, stimolando positivamente la funzione educativa e formativa per l’Alta Formazione Artistica. Non è un caso che i padri fondatori del Centro siano, oltre che artisti, docenti all’Accademia di Belle Arti del territorio e come tali si sono attivati per stimolare ulteriormente i giovani attraverso incon-

tri d’esperienza, happening, workshop, mostre e performances, progetti svolti dentro e fuori dalle mura del territorio, occupando anche spazi e geografie diverse. Come asserisce significativamente lo storico dell’arte Luigi Paolo Finizio: “il lavoro interdisciplinare svolto da Caterina Arcuri e Giulio De Mitri per le rispettive cattedre di Pittura e di Tecnica e Tecnologia della Pittura all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro. Due mondi espressivi, due esperienze ed esercizi di didattica dell’arte confluenti e defluenti interattivamente in un progetto di formazione e creatività. Campo aperto di linguaggi e intrecci culturali in cui l’arte si dispiega e mobilita in plurime dimensioni e strutture 21


espressive, in cui il tempo e lo spazio, le forme e i materiali, le pratiche tradizionali e le sopraggiunte tecnologie rimescolano e rigenerano il passato della memoria con l’attesa del futuro. Qui lo stare dietro e avanti all’arte si fa complementare dinamica transitiva, pendolo di pensiero e del fare. Cosa è per l’artista che insegna il proprio mondo espressivo se non il teatro di vissute pratiche espressive, di richiami e confronti, di esperienze e sfide creative nelle stagioni della memoria dell’arte e del suo tempo scandito al presente e vol22

to al futuro. Un teatro di pratiche e comunicazioni da compartecipare, da trasmettere e condividere, da evocare e rivivere nei pretesti e nei metodi della didattica”³. La mission del Centro è quella di continuare ad essere in Calabria e nel sud un punto di riferimento stabile, una presenza permanente per la divulgazione dell’arte contemporanea e della sua didattica. Le esperienze di fruizione della creatività e del bello individuano il senso interpretativo della realtà, favorendo così la modifica della percezione del mondo.

La fruizione pedagogica dell’esperienza dell’arte si delinea quale soluzione pertinente per creare una riqualificazione del mondo tramite cui il soggetto rappresenta ed interpreta la propria esistenza nel mondo e con gli altri. L’arte permea l’esistenza, è un’esperienza complessa, emotiva ed emozionale nella ricerca di senso e di significato. È un’opera libera ed aperta dove si può trovare ogni cosa… anche il mistero della vita.


Vettor Pisani, Pesci rossi, 2000-2011 Caterina Arcuri, Un mito, 2014, foto Antonio Renda Giulio De Mitri, Percorso di Origène I, II, 2011 legno, smalto metalizzato - specchiante, plexiglas, corpi illuminati e proiezione meccanica cm 330x330x58, installazione ambientale

1. Renato Barilli, Arturo Schwarz, Maurizio Calvesi, Gillo Dorfles, Massimo Bignardi, L. P. Finizio, Lorenzo Canova, Paolo Aita, Lucrezia De Domizio Durini, Antonio d’Avossa, Rino Cardone, Angela Sanna, Miriam Cristaldi, Giorgio Bonomi, Vitaldo Conte, Guglielmo Gigliotti, Ada Lombardi, Teodolinda Coltellaro, Valerio Dehò, Lara Caccia, Enrico Pedrini, Simona Caramia, Graziano Menolascina, Roberto Lacarbonara, Tiziana Altomare. 2. Jannis Kounellis, Piero Gilardi, Nicola Carrino, Vettor Pisani, Getulio Alviani, Toni Ferro, Mrdjan Baijc, Pino Pascali, Mimmo Rotella, Mimmo Paladino, Mario Schifano, Salvo, Claudio Costa, Giuseppe Spagnulo, Junko Matsumoto, Bruno Ceccobelli, Renato Mambor, Giulio De Mitri, Antonio Violetta, Luca Maria Patella, Cesare Berlingeri, Giulia Caira, Stefano Cagol, Caterina Arcuri, Corpicrudi, Fernando De Filippi, Giuseppe Restano, Antonio Paradiso, Pietro Coletta, Iginio Iurilli, Lucilla Catania, Danilo De Mitri, Andrea Fogli. 3. vL. P. Finizio, Due Artisti, due didatti: dietro l’arte avanti all’arte, in Parola & Immagine (a cura di C. Arcuri, G. De Mitri), Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2011, p. 7. 23


Senza confini

Lo sguardo mediterraneo di Porta Coeli International Art Gallery di Fiorella Fiore

Aprire una galleria d’arte al giorno d’oggi è un’operazione coraggiosa, e in una regione come la Basilicata la sfida si fa ancora più complicata. Eppure c’è chi ha deciso di correre il rischio, per promuovere con l’attività espositiva la ricerca sulle dinamiche dell’arte contemporanea e lo studio di quella del passato. La Galleria Porta Coeli è profondamente cambiata da quando, nel 2011, ha aperto i suoi battenti ad Acerenza, borgo in provincia di Potenza. Si può dire che abbia vissuto due vite: la prima, iniziata appunto nel 2011, con l’intento di costruire uno spazio dedicato alla cultura e all’arte, in primo luogo sacra, con una collezione permanente, quella del Direttore Aniello Ertico, composta dalle icone bizantine della Scuola di Lepanto e dalla incisioni sacre della scuola di San Biagio dei Librai. Accanto a questo percorso si è affiancata sin da subito la volontà di iniziare una ricerca sui passi del contemporaneo, in un primo momento specificatamente lucano, con mostre legate all’arte presente sul territorio. Oggi, nel 2015, la Galleria ha iniziato una seconda vita, con l’apertura di nuovi spazi a Venosa, presso Palazzo Rapolla, ma il cambiamento questa volta ha un respiro decisamente più ampio: la nuova denominazione, quella di Galleria Internazionale, si accompagna ad un nuovo scopo, quello di diventare un punto di riferimento come Centro Studi del Mediterraneo. Un fine, questo, già palesato con l’apertura di Shamal, collettiva di sedici artisti provenienti dal Medio Oriente, ma che è apparso

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ancora più evidente con PuroSangue. Il culto del cavallo nelle opere di Rima Almozayeen e Jameela Al - Shraim. La mostra, infatti, inaugurata a Venosa il 21 marzo e replicata poi a Doha, capitale del Qatar, il 5 maggio, presso gli spazi del Souq Waqif Art Center, ha sancito un tipo di collaborazione nuova e ancora in divenire, che si affaccia su un mondo pronto a sperimentare, fare ricerca, costruire, con alle spalle il bagaglio di una storia millenaria e sul quale sono puntati gli occhi della scena artistica contemporanea. Che si possa avere un punto di vista privilegiato su questa dimensione da una città lontana “dai fasti dell’impero” come Venosa, in una regione ritenuta da sempre isolata, come la Basilicata, è l’aspetto più interessante dell’operazione culturale portata avanti da Porta Coeli e da Aniello Ertico. Ma il Mediterraneo abbraccia soprattutto la Magna Grecia, le nostre origini, la nostra Storia. Ed è su queste basi che la Galleria vuole fondare i suoi futuri progetti, con l’ambizione di trasformare i suoi spazi in laboratori di idee e ricerca, per creare un ponte tra passato, presente e futuro, con uno sguardo rivolto all’Oriente. A giugno, l’appuntamento con l’artista spagnolo Pedro Cano, per una mostra dedicata a Matera e ai suoi Sassi: per ricordarci, ancora una volta, che l’obiettivo da centrare nel 2019 è quello di un viaggio corale di un’intera Regione che possa parlare all’Europa, e non solo, di Basilicata nelle sue più diverse sfaccettature e del suo posto all’interno della storia.

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Arcangelo Moles

Fermate il cosmo: per intermittenze di analisi di Rino Cardone

Manifesta, attraverso i suoi lavori – altamente lirici e fortemente progettualizzati – la trasversalità osmotica dell’arte occidentale, rispetto a quella orientale e viceversa. Nei suoi disegni e nelle sue pitture , palpitano due dissomiglianti anime estetiche e due differenti criteri di bellezza. Da una parte ritroviamo la rigorosa razionalità descartesiana (che non lascia spazio all’insensatezza della fantasia) e dall’altra scopriamo, invece, l’istintività emotiva che è tipica della filosofia zen. Questa è quella che è giusto definire pittura della trascendenza. L’idea manifesta il suo assoluto e indiscusso predominio, nel mondo delle arti visive ( dalla pittura, alla scultura, al disegno, pure inglobando tra questi contenitori accademici – l’elaborazione digitale e la fotografia) attraverso la progettualità dicasi pure la progettazione : ovvero sia mediante la capaci26


tà, che possiede qualunque valido artista, qualsiasi genio della creatività, di magnificare il ruolo dell’individuo umano – all’interno del mondo della creazione – mostrando, di questi, il potere universale della conoscenza in tutte le sue diverse espressioni e sfaccettature. Nel caso specifico, dell’arte Arcangelo Moles, ne deriva un genere di espressione creativa – al tempo stesso assai ricca e sobria sul piano semantico – capace di indurre nel fruitore suggestioni liriche molto forti. Nelle opere la forma è per lo più racconto visuale. In breve essa finisce con il rappresentare, per volontà esplicita dell’artista una descrizione ideografica, una narrazione pittografica, una sorta di realtà relazionale (nata dall’elaborazione concettuale dell’artista) che supera, di fatto, la realtà fisica delle cose e che colloca l’espressione creativa nel firmamento dell’inopinabile e dell’assoluto.

war is over?, 2012 matite cm 30x30 L’ età dell’ eternità, 2011 digitale su plex cm 65x50 Parusia, 2013 smalto cm 90x70 T- Visioni speculari, 2014 digitale su plex cm 70X50X9 27


La voce della Lucania nelle pietre erranti di Giuseppe Antonello Leone di Fiorella Fiore

Nella lunga e intensa carriera di Giuseppe Antonello Leone la metamorfosi è stata una costante, fin da quando, ancora bambino, nella bottega del nonno tuttofare e in quelle del padre ebanista, impara a maneggiare la materia in tutte le sue forme: quelle del legno, come falegname, quelle del ferro, come fabbro, quelle della terra, come ceramista. E’ da questa versatilità artigianale che impara a nutrire un immenso rispetto per ogni materiale, sia che si tratti di argilla o del pregiato ebano: lo affascina profondamente il percorso attraverso il quale si può dare nuova vita alle cose, rendendo ogni oggetto un’opera d’arte. Una caratteristica che porterà Philippe Daverio a definire la sua creatività “straordinaria”, “nel senso più letterale del termine e cioè fuori dall’ordinario”, in grado di trasformare un tappo di spumante in un ritratto, un rotolo di carta in un animale e così via. Giuseppe Antonello Leone la definisce risignificazione, perché nell’arte ogni oggetto ritrova la sua vera essenza. E in questa parola sta tutta la poetica di questo sorprendente artista. Qualsiasi riepilogo della sua carriera è riduttivo, ma è doveroso: nato il 6 luglio del 1917 a Pratola Serra, in provincia di Avellino, si diploma prima come maestro d’arte in ceramica e poi in pittura con il massimo dei voti nel 1940, a Napoli, sotto la guida di Pietro Gaudenzi, Eugenio Scorzelli e Mino Maccari. Proprio in quell’anno 28


espone alla XXII Biennale di Venezia con un affresco “Le nuove città”, esposto poi a Zurigo nella mostra di pittori e scultori italiani contemporanei presentato con la nota critica di Antonio Maraini. Ma è negli anni Cinquanta che avviene un incontro fondamentale nella sua vita, quello con Maria Padula, con la quale inizia un sodalizio di vita e di arte in Lucania, entrando a far parte di quell’ampio movimento culturale di riscatto che proprio in questa terra muove i suoi passi con Rocco Scotellaro, Manlio Rossi Doria, Tommaso Pedio, Concetto Valente. I riconoscimenti alla sua attività non si contano, le commissioni prestigiose non mancano: l’allestimento del Padiglione ITI Italia del 1961 a Torino per il Ministero del Lavoro con la “Dea Trifase”, i pannelli di bronzo per la Porta del Duomo di Messina, gli affreschi per la Rocca dei Rettori a Benevento sono solo alcuni esempi. E’ proprio con Maria, compagna di vita e di lavoro, che rende possibile la formazione di una vera e propria scuola d’arte lucana, attraverso la fondazione del primo Istituto d’Arte a Potenza, arginando la diaspora verso Salerno e Napoli dei ragazzi del luogo intenzionati ad imparare il mestiere dell’artista. Dopo Potenza dirige altri tre istituti, a Sessa Aurunca, San Leucio e Napoli, la città che, dopo la scomparsa di Maria, lo accoglie ormai artista e uomo maturo. Pur non essendo un nativo della Basilicata, Giuseppe Antonello

Leone ne ha saputo esprimere l’essenza, attraverso opere che cantano gli spiriti silenziosi di questa terra, delle anime degli avi, cui ha dato un volto e, soprattutto, una voce. Se questa capacità appartiene a tutta la sua produzione artistica, fatta di pittura, incisioni, scultura, è a maggior ragione espressa nelle sue “Pietre Erranti”, straordinari esempi di quel progetto di risignificazione citato pocanzi. Erranti, perché trasportate dalla forza degli eventi, dalle acque, dal vento, dalla terra; ma anche perché hanno viaggiato a lungo, con infinita lentezza, nel corso dei secoli, prima che l’artista potesse scovarle e, finalmente, riportarle alla luce sotto una nuova ed inedita forma. La ricerca di Giuseppe Antonello Leone lungo i sentieri delle cave delle montagne o i letti dei fiumi della Lucania, ma anche della Puglia, della Campania e della Calabria è durata oltre quarant’anni: trentatré dovevano essere le pietre, scovate e poi forgiate dallo scalpello, ma alla fine esse sono diventate decisamente di più. Questo perché sono state proprio le pietre o, meglio, coloro che esse custodivano, a chiamarlo: egli ha rincorso i sussurri che provenivano dall’involucro di roccia, in attesa, da secoli, di qualcuno che potesse dare finalmente voce ai loro eterni silenzi. “Arrampicandomi per le montagne intorno a Moliterno, Tra-

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mutola, Marsicovetere tra migliaia di pietre una mi venne incontro. Era un fantasma in cerca di aiuto, non voleva più stare in quel luogo, voleva venire in città. Mi sembrò di udire: Cerca nella spazzatura di Dio, dove senza profanare la sacra legge troverai un pensiero altro dell’Universo” (Giuseppe Antonello Leone da “Eretico”, Colonnese Edutore, gennaio 1993). Sono voci queste che, pur mescolandosi ai miti e alla storia di una sola anima, quella mediterranea, sono intimamente legate alla Lucania, e in particolar modo a Maratea, il luogo dove “nasce un sogno di museo della pietra”. Giuseppe Valente diceva che è insito nella gente del sud e, in particolare nei lucani, la ricerca delle pietre e, soprattutto, la volontà di conservarle e mantenerle con sé: un modo, questo, per portarsi dietro, viva, la memoria della propria terra. Giuseppe Antonello Leone, attraverso queste opere, recupera quella reminiscenza e ci riconnette ad un antico dialogo con i Lari, con i Penati, con gli spiriti della nostra Terra e di chi ci ha vissuto, amandola. Seguendo la massima michelangiolesca, l’artista ha eliminato il di più da ciascuna pietra, liberandola dal “soverchio”, dalla polvere del tempo e scoprendo in ciascuno di quei volti i tratti della memoria di questi luoghi. Un’operazione questa non semplice, data la diversa natura della materia: calcite, silice, graniti, a volte sottoposti ad un abrasione veloce e irruenta, altre ad un lungo processo di erosione con acqua a pietre quarzifere. Con questo processo di metamorfosi Giuseppe Antonello Leone ha dato finalmente pace ad una storia di silenzi ed eterno vagabondaggio, per donare allo spettatore un incredibile simposio di voci: Il Sannita, Andromaca, Il Licantropo, Il Dio dei Pesci, Omero, Glaux finalmente ci parlano. A noi tocca il compito di osservarli in religioso silenzio per cercare di scoprire ciò che hanno a dirci. 30


Addio ai mondi

Se la natura e l’uomo cancellano la storia a cura di Angela Salvatore

Le trasformazioni dei luoghi nella loro interezza sono eventi traumatici sotto molteplici punti di vista. La metamorfosi traccia una netta cesura tra passato e presente. Ciò che è stato diventa un semplice tassello di un’infinita serie di immagini. In questo eterno e inesorabile divenire si iscrivono due eventi della medesima portata per impatto sulla civiltà, ma generati da diverse cause: la conquista di Palmira da parte dell’Isis e la distruzione del Nepal a causa di un terremoto. Fanatismo religioso e calamità naturali convergono nel profondo cambiamento determinatosi, ma divergono nella loro origine. Da una parte la furia distruttiva e dissennata dell’uomo ha voluto infliggere una duro colpo al patrimonio architettonico e artistico di uno dei siti archeologici più famosi al mondo. Palmira, snodo strategico nel deserto siriano, non a caso nel corso dei secoli ha

assunto l’appellativo di “perla del deserto”. Il fondamentalismo islamico ha iniziato la sua folle impresa demolendo “il leone di Al-Lat”, statua risalente al I secolo dopo Cristo, e posta all’ingresso del Tempio di Bel o Baal, situato in una delle aree più antiche di Palmira. All’irragionevole azione dell’uomo si affianca l’imperscrutabile disegno della natura. Il terremoto in Nepal ha irrimediabilmente cancellato un pezzo di storia, ma non ha tolto la speranza a quanti, seduti sulle macerie, guardano al domani per ricominciare sempre e ancora. Non esiste oblio laddove sono stati numerosi i viaggiatori, anche di origini lucane, che hanno seguito il richiamo di una terra densa di fascino soprattutto agli inizi degli anni ’70 quando Kathmandu era il punto di ritrovo degli hippies di tutto il pianeta. Nelle opere dell’artista lucano Rocco Aristide Guarino è decifra31


bile, infatti, il racconto di un’esperienza umana e artistica intensa a diretto contatto con realtà come il Nepal, geograficamente distanti ma emotivamente vicine. Attraverso l’arte, intesa come suprema rappresentazione dell’io in relazione al mondo, è possibile sottrarre beni materiali e immateriali alla loro caducità.

Il mio ricordo di Katmandu di Vito Grimaldi

Lacerata mortalmente nel suo cuore Katmandu è in ginocchio; strazianti i reportages dell’immane disastro provocato dal terremoto in Nepal. Ovunque crolli, macerie, desolazione, disperazione, mor32

te. Le immagini si soffermano su ciò che rimane della torre di Dharahara detta anche di Bhimsen. La bianca, snella, elegante torre, alta 62 metri, punto di riferimento del paesaggio urbano di Katmandu, dalla cui balconata si godeva del più bel panorama della città vecchia e della valle sottostante, dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità, è ormai un cumulo di macerie. Il terribile terremoto l’ha sbriciolata in un attimo, inghiottendo centinaia di visitatori. L’immagine delle macerie della Torre ritengo sia tra quelle destinate a rimanere emblema della grande tragedia che il 25 aprile 2015 si è abbattuta sul Nepal. Il pensiero va al “Bodhnath stupa”, a quel meraviglioso complesso architettonico, con al centro un enorme “Stupa”


bianco, il più grande dell’Asia, e rivedo la mia Opel Rekord 1900 grigia che, ormai acciaccata da incidenti e dai tanti kilometri percorsi, non più in grado di tornare a casa, fui costretto a barattare nel 1971 con il figlio del Lama del Bodhnath. Penso al centro antico di Katmandu e alla sempre affollata Durbar Square, non una, ma tre piazze tra loro collegate, ove si snodava in maniera disordinata la teoria dei maggiori templi della città. Rivedo il tempio di Harayan, pagoda a cinque piani e a tre tetti, dedicata a Visnù; il “Kasthamandap” del XII secolo, il più antico di Katmandu; il “Kumari Bahal”, la dimora della dea vivente, la cui entrata era sorvegliata da due leoni di pietra; penso al “Swayambhnath” o tempio delle scimmie, stupa con la tor-

re in oro. Cerco di ricordare le atmosfere autentiche respirate a Bhagdaon oggi più nota come Bhaktapur che, insieme a Patan, la più vecchia città reale, e a Katmandu, era una delle tre antiche capitali dei tre regni Hewa della valle. Ricordo Nagarkot, a quota 2.300, da cui si gusta la visione della superba catena dell’Himalaya, con i suoi monti da ottomila metri e con la poderosa piramide dell’Everest. Quanti ricordi bellissimi ormai sfumati in più di quaranta anni di lontananza. Cerco le mie diapositive del 1971 che raccontano di un viaggio di tanti anni fa, quando con altri due amici a bordo della mitica Opel Record 1900 targata PZ 45423, attrezzata nel migliore dei modi, con il portapacchi carico di gomme di scorta, 33


foto di Vito Telesca e Vito Grimaldi

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“L’arte è la parola dell’uomo oltre il tempo, testimone prezioso del suo spirito. Ma capita che ciò che è sopravissuto millenni possa essere cancellato in un colpo. Drammatico quando avviene per l’imprevedibilità della natura, inaccettabile se per mano dell’uomo. E allora come diceva Foscolo, non resta che la poesia indistruttibile, eternatrice. Ed è poesia anche il racconto di un viaggiatore lucano degli anni ‘70”. Anna R. G. Rivell


taniche per l’acqua e la benzina, viveri, qualche pezzo di ricambio, decidemmo di partire per Katmandu. Ricordo ancora a memoria il percorso che seguiva l’itinerario dell’ ”Hippy Trail”, ovvero quello che negli anni ’70 i figli dei fiori facevano per andare in India. Le tappe erano le stesse: Istanbul-Ankara-Ararat-TabrizTeheran-Mashad-Herat-Kandahar-KabulPasso Keiber-Peschawar-Lahore-Delhi e poi Katmandu. Un viaggio che negli anni ’70 ogni giovane avrebbe voluto fare; la più epica delle esperienze era un viaggio a Katmandu, un viaggio verso l’oriente, da farsi via terra, con pochi mezzi economici e tanta disponibilità di tempo, sulle orme dei Figli dei Fiori, contagiati dai Beatles, che in India avevano trovato nuove psichedeliche fonti di ispirazione, allietati dalle canzoni di Joe Cocher, eroe del Festival di Woodstock, e da quelle di Scott Mc Kenzie, simbolo del raduno del “Sammer of Love” del 1967. Desiderosi di vivere una esperienza di conoscenza e di libertà nella primavera del 1971 ci avventurammo verso Katmandu. Le diapositive risvegliano più puntualmente i ricordi. Lo rivedo ancora il “Bodhnath stupa”, simbolo della terra, che per la purezza delle linee e l’elegan-

za dei volumi non ha paragoni in Nepal. Tutto il complesso architettonico, dalla bianca cupola alla dorata guglia quadrangolare sui cui lati campeggiano gli occhi severi del Budda, sviluppa un insieme di perfette proporzioni che esprimono una forte valenza simbolica, quasi una allegoria tridimensionale del sentiero che il Budda compie verso il risveglio spirituale. Dalla base si eleva leggera la cupola bianca, il “Khumba” che rappresenta l’acqua, sulla quale poggia la guglia quadrangolare, l’ ”Harmika” simbolo del fuoco con gli occhi vigili del Budda su ogni lato. Dalla guglia si eleva un pinnacolo, simbolo dell’etere, del vuoto oltre lo spazio, al quale sono legate bandiere colorate che sventolano libere affinché ogni alito di vento porti lontano le preghiere dei fedeli. Intorno allo stupa si dispone un corollario di monasteri tibetani che pullulano di monaci indaffarati, di fedeli in preghiera, di artigiani intenti al loro lavoro. Nel villaggio del “Bodhanath” si respira una atmosfera quasi mistica nella sua semplicità, una atmosfera che ti prende nell’animo tanto che anche Bertolucci vi ha voluto girare molte scene del suo “Piccolo Budda”.

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Chissà se i monasteri che facevano da corona allo stupa e le povere case del villaggio, costruite con i mattoni rossi, sono ancora in piedi. Le mie immagini mi restituiscono Katmandu, Patan, Bhaktapur come erano prima del terremoto, con i templi e le pagode ben tenuti, le case in legno intarsiato accuratamente decorate, le città pulsanti di vita: una realtà povera ma tanto bella. Mi restituiscono ancora i siti dichiarati “Patrimonio dell’Umanità” dall’Unesco; sono ben sette e testimoniano l’enorme valore del patrimonio architettonico ed artistico presente nel Nepal. 36

Il Nepal, una terra incastonata tra India e Cina, ricca di miti e leggende, di arte e cultura; una terra in cui si incontrano Buddismo e Induismo, culla di civiltà e religioni; una terra meravigliosa che il terremoto ha sconvolto più di quanto fece nel 1934. Una terra povera economicamente, ma ricca spiritualmente; una terra che deve ricominciare a vivere con l’aiuto indispensabile della Comunità Internazionale. Sarebbe bello ritornare in quella terra, non più in macchina a causa della pericolosità del percorso in Afganistan e in Pakistan, e rivedere Katmandu ricostruita e bella come prima. E mi piacerebbe sapere se la


Sito archeologico di Palmira

mia Opel è ancora viva lì tra gli spazi del Bodhanath. Giuseppe Tucci, che ritengo essere il più grande conoscitore italiano della cultura nepalese, scriveva: “Qualcuno mi ha domandato che cosa interessa a noi del Nepal. Ed io rispondo:dove c’è un uomo, un solo uomo, lì siamo anche noi; dove c’è memoria di un passato, lì troveremo la modulazione nuova delle stesse illusioni, l’inveramento diverso, ma non discordante, degli archetipi dello spirito umano”. 37


Se fosse poesia

Alfredo Rapetti Mogol di Anna R. G. Rivelli

“La scrittura pittorica non ha una lingua – mi dice continuando a passare il nero sulla tela - e perciò stesso non ha barriere culturali”; e infatti il rigo che scorre sotto i miei occhi sembra conoscere la risposta ad ogni domanda e comporsi esattamente per me che in quel preciso istante lo sto leggendo. Eppure quella di Alfredo Rapetti Mogol è una pittura misterica per addentrarsi nella quale necessita l’iniziazione dell’abbandono alla sensazione pura, ad una sorta di istinto primigenio che svela in ogni opera una pagina di quel grande libro dell’Universo in cui la soluzione dell’enigma nasce prima dell’enigma stesso. E le sue sono pagine in cui ci si vede come allo specchio, pagine che frugano negli sguardi, che bisbigliano una verità che ti riaffiora dentro, mistiche ma non dogmatiche, presenti ma senza tempo, e di una silente imperiosità di verbo capace di scardinare la logica e ritrascrivere il Caos in un perfetto rigore che tuttavia non lo snatura. Dominano l’oro, il nero, il bianco; gli altri colori sembrano nascere dalla rifrazione di una luce intrinseca nelle cose in cui l’artista soffia divino spirito, dio 38

L’azzurro della croce, cemento bitume e inchiostro su tela, cm 100x120

come un dio, uomo come un uomo. La parola in fondo assente, la profonda sonorità del silenzio ed il rigore cromatico sono le tre persone del mistero trinitario di questo culto in cui la bellezza si percepisce concreta e inafferrabile, esoterica forma per il più essoterico dei messaggi.

Se fossero poesia, queste opere sarebbero vento tra i capelli del giorno; se fossero suoni, sarebbero gli occhi socchiusi sopra i sogni di un figlio; ma se fossero una qualsiasi lingua, sarebbero le lacrime che non si trattengono nella stanza “Ches ein eici eli”.


Anna Rivelli incontra Alfredo Rapetti Mogol

Chi è Alfredo Rapetti Mogol? È una persona che ha scelto la scrittura come suo mezzo espressivo; da una parte la forma canzone, dall’altra il segno della scrittura, la forma del pensiero attraverso la sua rappresentazione grafica. Tu sei nipote e figlio d’arte, hai scritto canzoni bellissime e di grande successo ma sei anche pittore. Che rapporto c’è tra queste due forme espressive? Il fatto che usi il tuo nome vero da pittore ed uno pseudonimo come paroliere vuol dire qualcosa? Il tuo io più profondo è nella pittura? No, non mi sento più pittore o più scrittore; lo pseudonimo lo ho usato per differenziarmi da mio padre cosi come mio padre lo aveva fatto con mio nonno, anche lui altro grande autore. Per la pittura, essendo un altro campo, mi sono permesso di usare il mio nome vero e completo, anche se inizialmente mi firmavo solo Alfredo Rapetti; ho aggiunto in seguito anche Mogol perché mio padre ci teneva molto. In molte tue opere la scrittura resta protagonista. Credi nella possibilità di dialogo tra le varie forme d’arte? Sì, assolutamente, di dialogo e anche di

amplificazione reciproca, di sinergia; molte volte faccio delle installazioni dove c’è un supporto sonoro, lavoro di solito con giovani musicisti del Conservatorio. E nel dialogo tra l’arte e la quotidianità? Quanto secondo te l’arte può trasformare

la vita di chi la fa e di chi ne fruisce? Qual è la sua missione? Il dialogo con la quotidianità è continuo e l’arte è sì capace di trasformare la vita; quella di chi la fa sicuramente, perché io ho solo voglia di svegliarmi al mattino per 39


Come in cielo così in terra, acrilico, cemento e bitume su tela, dittico cm 60x120

andare in studio a lavorare, quindi per me è terapeutica perché poter creare bellezza è assolutamente un privilegio; poi la bellezza, l’arte è un antidoto alla violenza, all’ignoranza, a derive autoritarie, religiose, comunque assolutiste. L’arte è una possibilità di intendere l’uomo nella sua dimensione più spirituale. Io coniugo sempre l’arte con la spiritualità e credo che l’arte vera possa e debba sempre portare ognuno di noi a fare un passo avanti, ad essere migliori. E credo che la bellezza sia salvifica; la bellezza, la cognizione della ricerca della bellezza e la sensibilità per poterla apprezzare; ma bisogna anche essere un po’ preparati a vedere e ascoltare la bellezza, specie con l’arte contemporanea. E con le Istituzioni? L’arte può dialogare con le Istituzioni, o meglio, le Istituzioni hanno l’obbligo di dialogare con l’Arte? 40

Sicuramente le Istituzioni ne hanno obbligo; peraltro credo che l’Istituzione che dialoga con l’arte alla fine ne esce vincente perché oltre a dare molto, riceve anche molto. A me tocca ringraziarti adesso perché tu hai subito sposato il progetto di Sineresi, nonostante il nostro sia stato un po’ un appuntamento al buio visto che Sineresi è ancora così giovane. Io credo che l’umiltà, l’apertura mentale e la disponibilità debbano sempre caratterizzare chi è considerato artista, ma credo anche che la superficie delle cose prende forma dal suo fondo e quindi subito ho visto già solo nella superficie che c’erano valori che arrivavano dal fondo. Conosci la Basilicata? Se sì, che idea te ne sei fatta? Se no, quanto ancora aspetterai per conoscerla? Conosco poco della Basilicata, forse solo

Matera; la Basilicata è un oggetto misterioso perché a chi non ci sta appare un po’ sospesa nel tempo. Forse bisogna proprio andarci in Basilicata. Io aspettavo l’invito, ma l’invito ora c’è e quindi verrò prestissimo.


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Emotionage Il desiderio di esprimersi che diventa emozione di Rossella Croce

Si è soliti pensare che l’opera d’arte ci riveli e ci esponga ad un’esperienza emozionale, che essa sia il risultato di un’illuminazione, di un lampo del genio artistico; cosa accadrebbe se provassimo a sovvertire questa abitudine e pensassimo all’emozione in sé come opera d’arte? Se l’emozione stessa fosse il risultato di un insieme di sensibilità che si incontrano nel desiderio di esprimersi fuori dai canali istituzionali? È questa la sfida che l’artista lucano Giuseppe Satriani ha lanciato con il suo progetto “Emotionage” seguito poi da “Emotionage Back”, sfida che quasi duecento persone hanno colto e realizzato. La sfida è uscire da una condizione di solitudine e di smarrimento che caratterizza la nostra epoca attraverso un’arte aperta, democratica e soprattutto partecipata; persone comuni spinte dal desiderio di esprimere se stesse si incontrano nello spazio di un’emozione che disegnano a quattro mani come una sinfonia, persone comuni che vivono l’arte come possibilità di rigenera-

zione, di auto-comprensione, di vera e propria terapia. Satriani sperimenta questa democratizzazione dell’arte con un progetto che mette insieme immagine e parola: attraverso la piattaforma web e la pagina Facebook, distribuisce versi di grandi autori chiedendo a ciascuno di affiancargli un’immagine, una foto, nella convinzione che l’arte possa essere circolare e che il baricentro dell’espressione debba essere l’aspetto emozionale, immagine e parola si legano non perché la prima spieghi la seconda ma perché entrambe suscitano la medesima emozione, ecco la “fotopoesia”. Satriani riesce a sovvertire il binomio artista-fruitore, partendo da un apparente non-luogo come il web, trova soggettività pronte e desiderose di creare una rete basata su un comune sentire emozionale, un vissuto che vuole disperatamente esprimersi. Da una parte del mondo un verso, dall’altra parte una foto: insieme prende forma un’emozione che diventa essa stessa un’opera d’arte. Continua il desiderio di sperimentare, continua la ricerca e prenGuillermo Carballa

Necesito lograr el equilibrio en este bosque creado para todos menos para mí, callar el ruido de mis silencios y crecer alto, muy alto, hasta evaporarme en suave brisa. Y así, cerrando los ojos como oprimiendo un instante de paz, creo que seré capaz de cerrar las heridas, dejar de echarme de menos y comenzar a ser grande. Conmigo alguna vez, sin ti de vez en cuando. Sara Tejeart 42


de forma il secondo progetto, legato al primo: l’artista lucano individua la possibilità di invertire l’ordine, partendo da un’immagine, creare la voce, la parola. “Emotionage back”: dalla foto al verso quindi, la sfida si fa più entusiasmante, la comunità creativa cresce e con essa anche la possibilità di esprimersi. L’esperienza della scrittura, certamente più intima, concretizza la possibilità di una nuova forma espressiva che Satriani chiama “Microrelatos”, terza fase di questa esperienza assolutamente innovativa. Non più di cento parole, questa la cornice in cui ciascun partecipante può raccontare una storia, ancora una volta “disegnare un’emozione”, ma la circolarità dell’arte che diventa chiave di lettura di tutti e tre i progetti si riafferma, i microrelatos diventano linfa e trampolino di lancio per la creazione di “micrografias”, di nuovo dalla parola all’immagine. Satriani riesce ad incontrare quel desiderio di esprimere se stessi, di uscire dall’isolamento esistenziale che caratterizza i nostri giorni, assiste alla nascita spontanea di una comunità, trova

in questo progetto il canale non convenzionale in cui urlare il proprio bisogno di arte, di bellezza, di emozione. Gli artistifruitori vivono un’esperienza partendo dal basso, da quel web che spesso, invece di legarci, ci divide lasciandoci nella nostra solitudine emotiva. Questo artista lucano è coraggiosamente eretico: sovverte i canoni stessi dell’arte fruita, concretizza la possibilità di un’arte vissuta, disegnata e in continua evoluzione: definendo la “micrografia” come fotografia dell’invisibile ci ricorda il senso ultimo dell’arte, l’emozione è di per sé invisibile, non possiamo toccarla, non possiamo incorniciarla eppure la viviamo, quotidianamente, facendoci guidare da essa nelle nostre scelte, nelle nostre vite. Non possiamo fotografare l’invisibile dell’emozione ma possiamo e vogliamo renderla un’opera d’arte ed è proprio questo bisogno umano che si cela dietro questa esperienza.

Giuseppe Satriani

Anche quando non c’è, e l’inchino sconfitto al vento che s’oppone e le dita anelanti d’erbe implorano l’assassinio di una carezza, il tuo sguardo preistorico d’albero s’appiglia muto a un cielo attonito dove non c’è parola che non si sgrani dolce ai dubbi increduli di questa Terra. Anna R. G. Rivelli

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Silencio, silencio, ni los sabios que moran este reino sabrán que estamos aquí. Estamos solos en nuestro jardín secreto. Nos respiramos, nos emborrachamos de labios, de caricias, de carne de gallina. Y así quiero quedarme, que pare el tiempo en este instante. Aquí no hay dolor, no hay sufrimiento, ni hay “eres tu” o “soy yo”. Ni hombre ni mujer, ni animales ni otros seres. Casi somos aire. Sin hacer ruido nos amamos. Fuera, lejos, donde nadie puede vernos. No me despiertes, quedémonos así. Ges Rules 44

Fatima Ruiz


Nacho Carrasco

Un brivido di pioggia mi ha regalato un sorriso del cuore e la certezza dell’attimo. Giuseppe Satriani

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Calliope e l’essenza dello Zero

Leonardo Sinisgalli o della metamorfosi delle muse di Mara Sabia

Pensare a Leonardo Sinisgalli significa evocarlo in compagnia delle sue Muse. Quelle che egli vide la prima volta, meravigliato sulla collina. Quella di Vidi le Muse sarà solo la prima di innumerevoli volte in cui il poeta incontrerà queste presenze dalla saggezza antica - la stessa che conobbe Orazio - eppure sempre nuova. E per tutta la vita, con l’aiuto della parola, il poeta le spoglierà della sacralità. Le Muse di Sinisgalli, infatti, sono gracchianti e appollaiate, non eteree, nessuno le invoca, si fanno vedere dal poeta senza incutergli alcuna inquietudine. Incontrarle non è rassicurante, ma neanche rischioso: è fonte di meraviglia. Splendide nel loro doppio di esseri divini eppure caduchi, invecchiano con il poeta che, in Commiato, scriverà: “O musa, vecchia musa decrepita, il poeta è ogni anno più cieco, il tuo riso è una smorfia Calliope nel losco mattino. Su una striscia di sole il gattino va a caccia di mosche. Anche il poeta reumatico stenta a cogliere a volo un pensiero, sempre meno matematico, sull’essenza dello Zero”. Calliope e l’essenza dello Zero. Entrambe fiaccate. Quali sono state, dunque, per tutta la vita di Leonardo Sinisgalli le sue Muse? È la poesia o la non-poesia che gli si è presentata (là dove la non

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poesia non è altro che “il territorio segreto della Poesia”)? E a quale delle due egli ha dato ascolto? Quale ha ospitato? In Calcoli e fandonie (1970), Sinisgalli dichiara: “i fisici si trovano di fronte a un bivio: mondo e antimondo. E i poeti devono scegliere tra poesia e non-poesia”. Il poeta Sinisgalli non sceglie. Egli è colui al quale si presenta, nell’arco di una esistenza, il “furor” del gioco intellettuale che inebria, come dichiarerà a Camon in una intervista, e al quale non rinuncerà. Egli è colui che scrive a Gianfranco Contini “... nell’azione del poeta, per la nascita e lo sviluppo della poesia, entrano in giuoco delle cariche di energia incommensurabili, che vivono magari per attimi infinitesimali e si consumano in un soffio. Tuttavia non sono i fenomeni del mondo fisico che possono offrirci qualche analogia di questi transiti, ma proprio alcuni fenomeni biologici cosmici e nucleari”. Allora riconosciamo in Leonardo Sinisgalli colui che dichiara “Posso dire di aver conosciuto giorni di estasi tra gli anni 15 e gli anni 20 della mia vita, per virtù delle matematiche” e anche colui che rifiuta l’invito di Fermi nel 1929 e che ad aprire l’era atomica con quei ragazzi di Via Panisperna preferisce “seguire i pittori e i poeti e rinunciare allo studio dei neutroni lenti e della radioattività artificiale”, eppure alcun lettore


riconoscerebbe il Sinisgalli che afferma:”il mio sforzo per scrivere versi è stato appunto il disprezzo della mia saggezza”. Il lettore che evoca Sinisgalli lo ritrova con le sue Muse ambivalenti, parte di un universo coabitato dall’essenza di Zero e Calliope, là dove poesia e matematica si compenetrano e si alimentano a vicenda, dove ricerca poetica è interpretare “euristicamente” la matematica e farne fonte e fine, mischiando immagini e spazi e cifra e formula (ricordiamo il celebre binomio a+bj coniata dal poeta). La poesia sinisgalliana diverrà per Contini dodecafonica, ovvero “seriale nella combinazione dei suoni e nella analogica di derivazione ungarettiana” (M. T. Imbriani). Contini, nelle immagini sonore di grida, dolci rumori e motti superbi della poesia Monete Rosse, sente la musica di Bartók. Il sapere sinisgalliano è anch’esso olistico: un sapere indifferenziato e tendente all’oblio nella crisi personale, ma che egli tenta di salvare attraverso la poesia. È con la poesia che Sinisgalli salva il suo mondo ideale, quello “dove vorremmo restare sepolti”, come dice in Furor mathematicus e che egli rappresenterà nella Lucania mitica, quella dei suoi genitori, della Vigna Vecchia, dell’infanzia lontana cantata ne I Campi Elisi, e a cui tenderà da tutte le città e i non-luoghi

che andrà abitando ramingo in una vita intera. Intellettuale lungimirante e di respiro internazionale, Sinisgalli elegge la Lucania a luogo delle sue Muse bifronti, ma anche della Sapienza che chiede asilo:Vengono anch’essi a scaldarsi/ accanto al camino i vecchi Dei. Viene intirizzita a chiederci asilo la civetta della neve scrive il poeta-ingegnere. È “la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo” di hegeliana memoria e che sceglie per scaldarsi il camino di dimore umili. Le sapienti Muse di Siningalli sono dunque in perpetuo movimento, confuse, mischiate, complesse, preziose come quelle che ispirarono anche Borges, ma con qualche elemento razionale in più. Rimane, il poeta di Montemurro, un intellettuale geniale nelle intuizioni e per certi versi disorientante, poiché ha fatto delle crepe la sua forza espressiva. È attraverso questo frangersi della conoscenza e la simbiosi raggiunta “tra intelletto e istinto, tra ragione e passione, tra reale e immaginario” che l’essenza di Zero e Calliope daranno origine ai mondi della fulmineità, dell’istantaneità irrisolta tra cifre e lettere tipica non solo della poetica, ma di tutta la figura di Leonardo Sinisgalli.

Sulla collina io certo vidi le Muse appollaiate tra le foglie. Io vidi allora le Muse tra le foglie larghe delle querce mangiare ghiande e coccole. Vidi le Muse su una quercia aecolare che gracchiavano. Meravigliato il mio cuore chiesi al mio cuore meravigliato io dissi al mio cuore la meraviglia. (L. Sinisgalli, Vidi le Muse, Mondadori, 1943)

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Ti porterò a Potenza

Il Sud oltre il Sud di Michele Parrella di Oreste Lopomo

Qui sono nato. /Qui ritornerò. /Ma come un aquilone ho attraversato il Serrapotamo, la Camastra, il Basento./ Come un aquilone ho attraversato gli Alburni, il Tanagro, il Sele, gli acquedotti, il Tevere. /Come un aquilone. Una profezia affidata alla poesia, un testamento in versi, trasportato dal vento che s’ode nelle sere d’estate, tra i vicoli di Laurenzana, lungo la valle della sua infanzia. Era l’8 marzo del 1996 quando Michele Parrella, il poeta che, con una certa superficialità veniva definito il vate giramondo, si spegneva in una corsia dell’ospedale San Giovanni a Roma. Sono trascorsi poco più di diciannove anni da quel giorno e il rischio di confinare la poesia di Parrella in una sorta di limbo offuscandola con l’eccentricità del personaggio dal cappello bianco e dalla vita sregolata è tuttora presente. Non ha torto Mario Santoro quando sostiene che nel caso di Parrella si è radicato il luogo comune di parlare di Michele attaccandosi solo ad elementi esteriori o di poca importanza facendo passare in secondo piano la figura e l’arte poetica , i suoi motivi , le sue ansie, il richiamo costante alla terra, la sua terra dove sarebbe tornato in una bara attorno alla quale aleggiava il suo spirito libero. Il suo funerale a Laurenzana fu una sorta di rito catartico come ci ricorda Gaetano Fierro nel suo volume “Omaggio a Michele Parrella, vita e morte di un intellettuale non organico”. Un rito catartico che lo stesso Parrella aveva riportato nei suoi versi: “Per i Basilischi come già per gli etruschi morire è l’inizio di un viaggio nella terra” ma il viaggio come metafora riusciva ad avere sempre una chiave descrittiva rimandando ai temi del distacco come elemento di rappresentazione collettiva: “la gente del paese si assiepa lungo i muri o negli spiazzi come alla partenza d’un treno, d’un vapore”. 48

La capacità di Parrella , il suo comportamento stravagante, il suo atteggiamento sovente scanzonato e talvolta fintamente allegro e oltre il naturale e oltre misura - come ha fatto rilevare Santoro erano espressioni di una sorta di dissociazione, di allontanamento dai problemi profondi ed esistenziali e un rinviare al giorno successivo le note della quotidianità e la monotonia di un vivere ordinario al quale non era abituato e non tentava nemmeno di adattarsi. Anche la necessità di sbarcare il lunario, che era diventata una delle costanti della sua vita romana agli angoli di Piazza del Popolo, ai tavolini del Bar Rosati, aveva superato la condizione della mera esigenza di sopravvivenza per diventare modo di essere, di presentarsi, nella totalità delle contraddizioni e nell’esplicitazione talvolta autocelebrativa di una sorta di elemento bohémien fortemente connaturato alle ragioni profonde della sua poetica. Giuliano Ferrara nella prefazione a “La Piazza degli uomini” scrive: “ Parrella non viene dal tragico, le sue poesie civili sono sempre d’amore, litanie capricciose ed infedeli come la sua accesa passione per le donne (aveva avuto due grandi amori, con l’attrice Maria Michi e poi con Irene Papas). Ha però un senso molto forte e riposto della gloria politica, un contatto acutissimo con la terribile questione della ingovernabilità della terra. Al barone e al prete, l’anarchismo contadino reca in dono versi istituzionali e offre un caposaldo linguistico del divino sud, un paradigma della religiosità mediterranea”. Non a caso tale concezione traspare in versi dai forti contrasti sul piano del contenuto ma anche del linguaggio: “per fare una chiesa ci vuole eresia. Per dire preghiere ci vuole una guerra. /Per fare una chiesa ci vuole la guerra, un fulmine che apre la terra”. Giovannino Russo in un


MA I POETI NASCONO AL SUD

articolo scritto sul Corriere della sera all’indomani della scomparsa di Parrella ne indicò dettagliatamente l’itinerario letterario, riuscendo a far comprendere la molteplicità degli elementi che caratterizzano la poesia di quello che può essere considerato uno degli esponenti della diaspora lucana. Parrella come Rocco Scotellaro, l’altro poeta lucano di cui era amico, prendeva ispirazione da quella civiltà contadina dignitosa e povera, dalla sua terra in cui portava accenti dettati dalla malinconia del paesaggio e dal sentimento di nostalgia per un mondo perduto. Ma non si trattava solo di una semplice riproposizione di temi già cari alla poesia lucana di quel tempo, perché essi erano invece trasfigurati in una chiave letteraria in grado di aprire proprio alla modernità dei linguaggi (dall’elegia all’ermetismo) e non avulsa dalla poetica civile e dalla passione politica di chi, nato nel 1929 , figlio di una famiglia della buona borghesia (il padre era medico ), faceva parte di quel gruppo di poeti, intellettuali, artisti come Antonello Trombadori, Renato Guttuso, Leonardo Sinisgalli, che erano un solido punto di riferimento per il mondo culturale italiano tra la fine della guerra e il secondo Novecento. L’amore per la Politica fu un’altra costante dell’autore di “ Poesia e Pietra di Lucania” del 1954, di “Paisano” del 1958, di “Immagine di una fabbrica” del 1959, di “La Piramide di Pietrisco” del 1981 e soprattutto di “La piazza degli uomini” del 1994, edito da Marsilio. Ma la passione politica in Parrella non si trasformò nemmeno per un attimo in ideologia e il poeta di Laurenzana non tradì mai la poesia per l’ideologia - come ebbe a dire Duccio Trombadori- anche se avvertì come altri intellettuali vicini al PCI il senso profondo e drammatico dei fatti d’Ungheria del 1956 (“in questo mondo

spaccato in due i semi non potranno marcire”), visse con malcelato distacco la morte di Togliatti (“i nostri vent’anni se ne vanno con te / nei drappi rossi della tua bara”). La poesia non poteva essere tradita perchè la poesia era in cima ai suoi pensieri, era il suo pane quotidiano, anche quando mancava il pane , nella forza dei suoi versi si manifesta la determinazione della partenza, dell’allontanamento, della fuga (“prima di partire ho detto ai compagni : non so se ce la farò ad attraversare il confine”), ma anche il senso dell’ironia, il tono scanzonato e scherzoso che lo contraddistingueva con una costruzione poetica nella quale è sempre in agguato la mescolanza di generi: “Aveva semi d’ulivo in testa e noci fresche nell’inguine”. Ed è proprio quella mescolanza di generi, frutto anche di quelle frequentazioni “degli artisti alla carbonara” all’osteria romana di Naride e di Domenico Menghi, ma anche delle serate in casa di Renato Guttuso alla salita del Grillo, a dare il senso di una poetica per nulla basata sugli stereotipi della retorica meridionalista, ma fondata sull’alternanza e la commistione dei generi, rilanciata da costruzioni immaginifiche, non inquinata dalla ghettizzazione territoriale. Ne sono un esempio forse illuminante i versi che Parrella dedicò al grande pittore Franco Angeli suo amico: “A te Franco amico mio, mio compagno./Un giorno , a Roma passando nelle strade della tua infanzia, via Ripetta, Via del Vantaggio, ti dissi: ti voglio portare a Matera, ti voglio portare a Laurenzana. Per una mostra dei tuoi quadri meravigliosi. Ti porterò a Potenza nel Granducato che da lontano pare Manhattan strascinata sulle colline. /Oggi ti abbiamo portato in due tra le mie montagne/ In due: Livia ed io. Ti abbiamo portato in un aeroplano trasparente”. 49 49


Ti hanno avvolta in un manto nero ma le tue piaghe non si possono nascondere. Non ci sono veli né bende per coprire i tuoi fianchi di ginestra e il grembo scavato dalle frane. Non ci sono più veli per i fanciulli e le ragazze che battono il piede nella piazza, né bende per fermare la rivolta perché i muri splendono come lame e la quercia si apre per gettare a terra i secoli, e riunire i semi ai frutti i semi ai frutti. Ti hanno chiusa in una leggenda terra che non hai confini e ti dilaniano i fiumi, i fiumi dividono le tue carni, è salita a noi la piena a riunire i vivi ai morti i vivi ai morti. Ti hanno abbellita con frasi splendenti, ma non ci sono parole né ghirlande per racchiudere il tuo respiro, né balconi e chitarre per cantare le notti e i giorni le notti e i giorni.

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Richiamo Non sapevo che era quasi un allarme quando mi chiamasti con la tua voce cristallina nella campagna. Quel giorno che gridasti il mio nome con la tua voce di vergine fontana. Non sapevo non sapevo il pericolo che correvo, quando, per una sola volta e per sempre, guardai con amore nei tuoi occhi.


Sei la siepe di rosmarino Sei la siepe di rosmarino al cancello della curva sotto le case bianche Sei il volo delle rondini che aprono e chiudono una fuggitiva corona sui neri comignoli. Sei la striscia di terra che scende con rari ulivi nel fiume, sei quel ramo che si affaccia sulle ultime pietre, dove una foglia appena nata si apre come fresco smeraldo sullo scettro d’aprile. Sei la buia sorgente dove tutte le acque corrono per aprire un torrente di rubini tra le spighe.

Respirano i nostri morti nelle pietre dei conventi. Oh le ginestre umiliate, terra mia gettata sopra il letto delle serve, la serva battuta e persa. Oh la chitarra spezzata alla ringhiera, i poeti non ti possono alzare, sono semenze gettate nella ruota che macina i pezzenti. Lucania teatro perso le marionette si aggrappano a noi, non ce la facciamo più a cucire gli arlecchini appesi alle monete. Solo i fanciulli restano a te, i tuoi figli carcerati e persi, madre mia coi capezzoli rotti la tua voce è dilaniata e persa.

Sei l’innocente profilo e la sapiente acconciatura in quel punto della fronte dove tutti i sogni passano. La tua mano non permette all’ombra di crescere sul foglio bianco, dove un ritratto appena nato è gia sbocciato come un frutto verde e rosso.

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L’ignota meta di una forma di Marco Pascarelli

“Metamorfosi” è una strana parola. Appartiene allo stesso ceppo linguistico della lingua attraverso la quale leggete questi pensieri, ma non vi coincide completamente. Questo lieve scollamento apre una faglia linguistica, una piccola tragedia sulla quale siamo abituati a passar sopra mediante la traduzione. Eppure, il tentativo di traduzione di una parola come “metamorfosi” non si esaurisce nella translitterazione di un alfabeto in un altro (dal greco al latino). È a tutti noto il sistema di funzionamento di una lingua, quello che istruisce un’espressione del suo significato legandola all’esposizione del suo riferimento. Bene, tale processo è quasi irriferibile alla parola “metamorfosi”. Non solo è difficile immaginare lo stato mentale che si compie in una persona che richiami alle labbra la parola “metamorfosi” (cosa pensa qualcuno quando dice “metamorfosi”, o cosa immagina, quale idea ha?). È anche più difficile immaginare la situazione in cui qualcuno, per insegnare o mostrare a qualcun altro il corretto uso di questo termine, cerchi e trovi all’interno di un processo di formazione, di trasformazione, il modo di dire “ecco guarda, questa è la metamorfosi”. Immaginate un naturalista indiscreto che assista allo schiudersi di una crisalide. Se domandaste a questo privilegiato testimone del fenomeno metamorfico di spiegarvi la trasformazione cui ha assistito egli vi par52


lerebbe di una sequenza di istanti, di attimi selezionati quali significativi, di immagini scelte perché potessero dargli il sapore di un’idea. “Metamorfosi”, lo si diceva prima, è parola che non nomina una cosa, un oggetto o uno stato di cose definibile, ma un processo e, all’interno di tale processo, il mutamento inesausto che vi si compie. Quando si pronuncia la parola “metamorfosi” si carica la materia linguistica del massimo livello di allusività, ma il momento metamorfico, propriamente, non si può vedere, esso è privo di idea. La metamorfosi nomina un evento, qualcosa che accade in un tempo irriferibile, mai completamente descrivibile né contabilizzabile; indica un complesso cambiamento della realtà, un processo di perdita e di conquista insieme. La “metamorfosi” è lo spazio tra le forme, quello che accade tra due stadi, quello che aleggia attorno ad una forma, attorno alla sua stabilità e alla sua incertezza. Detto questo la lingua recede dal suo prezioso e limitato compito e affida la possibilità di scoperta del senso dell’evento metamorfico ad un’esperienza che non esiterei a chiamare iniziatica o, se volete, artistica. Nessuna esperienza come quella artistica può dirci qualcosa di rilevante sul processo metamorfico. Se di ciò voleste una dimostrazione, potreste prendere in considerazione il fenomeno metamorfico che vede tradurre il grumo indistinto di una pasta cromatica in un paesaggio o la materia plastica dello scultore in un volto. Tale fenomeno è indubbiamente sorprendente, non meno che illustrativo circa il potere di conversione delle forme attraverso la ricorsività del segno che agita una materia informe su un supporto stabile. Provate però a riflettere sulla metamorfosi che avviene su una scena (teatrale o cinematografica non importa) ai danni di alcuni oggetti comuni, di una sedia, di un letto, di uno straccio, così come di una postura o di un’espressione corporea alla quale daremmo, fuori scena, un significato univoco e (quasi) irrevocabile. Cosa succede sulla scena ad un oggetto comune, come viene trasfigurato della propria forma, come diviene funzione di altri gesti, latore di un senso tutto nuovo, moltiplicato del proprio valore spirituale, dotato di una nuova valenza materiale? Una sedia,

ad esempio, diviene, di volta in volta sulla scena, scala verso il cielo, strumento di sospensione (non solo corporea), nascondiglio d’occasione, luogo di proiezione di ricordi e insospettabile acceleratore narrativo. Si stanno citando aspetti forse marginali, celando la metamorfosi più grande che avviene in scena: quella che interessa l’attore, il suo corpo, la sua affettività e l’intelligenza che ha di entrambi. L’attore sulla scena non è solo personaggio, azione, ruolo, ma immagine vivente della metamorfosi, una sua epifania latente. È un esercizio di astrazione, questo, difficile a prodursi nello spettatore, specie quando lo spettacolo ha raggiunto la sua forma stabile, tale da entrare in cartellone e venire proposto ogni sera in pasto agli abbonati, costretto ad essere replicato per un’intera stagione. Ma è un fenomeno che diventa lampante se si assiste, attraverso le prove, al costruirsi di una pièce, al processo di smontaggio e trasformazione di una storia, di un corpo attoriale, di un universo di affetti personali e collettivi, in funzione del costituirsi di una soglia plurima di senso. Sulla scena tutto si movimenta e si trasforma. Come il greto di un fiume che disarticola corpi e pensieri, organizza racconti e visioni e poi torna a scompaginarli, ecco prendere forma istanze rappresentative, abbozzarsi caratteri come linee di forza destinate a puntare ad una forma ignota, per asindeto. Il realizzarsi dell’azione scenica si dimostra allora un fenomenale motore di estraniamento, di un’estraneità che abita e divelle ogni identità, anche la nostra, che mina l’idea di stabilità dall’interno, per insinuare il pensiero che noi consistiamo nel cambiamento continuo e metamorfico che essa mobilita. È allora che il senso di quella strana e selvaggia parola, “metamorfosi”, si dimostra inadeguato a finire nei vocabolari. Privata di un significato univoco, la metamorfosi si realizza in un’indicazione d’azione, in un atto performativo. La sua area semantica è così pericolosamente vicina al codice teatrale, da sembrare quasi la naturale funzione espressiva di un’arte, che non ha nessuna presunzione di rimanere, che è scritta sulla sabbia. Eppure, se nulla sembra destinato a rimanere, un’indicazione etica abita la metamorfosi, quella che ci dice di andare oltre la forma, di esplorare il dietro le quinte delle cose per scoprire come tutto si forma incessantemente e solo illusoriamente si ferma, un attimo, per noi. 53


Lo stupro

di Anna R. G. Rivelli

Qualcuno ancora lo chiamava amore, ma il viscido sapore di quelle labbra non lo avrebbe dimenticato mai più, nemmeno se altre sei eternità si fossero sommate alla sua vita che in quel dolore era già stata eterna. L’odore dell’abito di lui che l’avvolgeva era accecante ed acre come luce senza calore, il suo abbraccio solo la prima nota discrepante su cui poi il branco avrebbe modulato la sua danza. Le loro verghe alzate ferivano impietose quella notte, il loro fuoco dissanguava il buio sull’agonia di un sogno; ogni orizzonte si risolveva nelle loro teste, tutta la terra vibrava l’ombra infida dei loro passi. Eppure li aveva guardati mentre il suo corpo veniva inghiottito da tutto quel male, lo aveva guardato ed i suoi occhi, quieti di sgomento che sottrae ogni verbo, si erano spinti dentro il suo viso fino a svelare la tracotanza fiera che terrore rimuginava, quale incapacità assoluta e inerte di tornare indietro. Ma la sciagura che iniziava appena con l’onda vaga del suo lungo crine il manto della colpa già intesseva e diradava il senso del cambiare il mondo fino alla blasfemia della condanna, fino alla croce per la vittima inerme. Oltre quel vivere la morte sarebbe stata forse un paradiso ed il perdono, forse, un giorno pure sarebbe giunto, o meglio mai, mai, mai ! Mai neppure se zavorrato di disperazione da un ramo si gettasse penzoloni spento quel Giuda.

IL RACCONTO

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La teoria delle rinascite di Ghino Mori

Uno degli argomenti che maggiormente divide il pensiero religioso occidentale - giudaismo, cristianesimo e islam, i tre monoteismi che credono in un’unica esistenza - dal modo di concepire la vita e la morte da parte dell’Oriente è rappresentato senza dubbio dall’idea della reincarnazione. Incomprensibile è il motivo per cui, tre o quattro millenni orsono, si produsse questa frattura che inaugurò non soltanto due diversissime visioni metafisiche e due concezioni dell’Aldilà, bensì due modalità di essere al mondo. Ma fu proprio nel periodo di maggiore fulgore dell’elaborazione filosofica occidentale, cioè di quel pensiero illuministico e positivistico che intendeva liquidare una volta per tutte le polverose idee della religione, che l’Occidente, per iniziativa della contessa russa Helena Blavatsky e della Società Teosofica da lei creata, si mise in contatto con l’Oriente. E non è affatto strano che l’evento si sia realizzato ad opera di una russa nata in Ucraina, quasi ad evocare un simbolico luogo di frontiera o una cerniera fra i due mondi. È anche meritevole di attenzione, tra l’altro, una sorprendente coincidenza temporale, come se una misteriosa “regia” abbia fatto da cornice a tutto il quadro degli eventi storici. Ed infatti, anche se la concezione delle successive rinascite faceva già parte di alcune culture europee come quella dei Celti, della gnosi cristiana, dei cabbalisti ebraici, del sufismo islamico, nonché del pensiero greco, degli Orfici, di Pitagora, di Platone, e via via su per i secoli in parallelo con le religioni ufficiali, fu solo verso la metà dell’Ottocento che prese piede, nello stesso periodo della Società Teosofica, un più vasto movimento di pensiero con lo spiritismo di Allan Kardec, la ricerca che voleva essere scientifica della parapsicologia, e con quel moderno movimento spirituale (e di costume) che va sotto il nome di New Age. Di lì a poco avrebbe visto

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la luce anche la psicanalisi, con Freud e Jung, e tutte quelle scuole psicologiche che hanno caratterizzato il XX secolo. Oggi le persone che credono alla reincarnazione vanno gradualmente aumentando, in Italia e nel mondo. Un dato rilevante riguarda il Brasile dove vi crede più del 50% della popolazione. Nei Paesi europei si viaggia verso il 30%, con una cospicua componente di cattolici tra i quali forse pochi sanno che simili cose vengono insegnate all’Università del Laterano di Roma. Secondo la rivista “Luce e Ombra” (n° 1 del 2015), il padre Andreas Resch dell’Ordine dei Redendoristi è professore emerito di psicologia clinica e paranormologia (vale a dire, la tanto vituperata parapsicologia) presso l’Accademia Alfonsiana di Roma che fa parte della suddetta Università. Seppure brevemente qualcosa va detta sulle indagini scientifiche che avvengono nel mondo relative all’ipotesi delle rinascite. In Turchia, il professor Bayer ha esaminato centinaia di casi di reincarnazione, individuandone la prova nei cosiddetti segni di nascita, cioè cicatrici o particolari nei che attesterebbero di una probabile morte violenta. L’Università di Jaipur, in India, raccoglie e registra tutto quanto si riferisce alla memoria di una vita precedente, e poi, tenuto conto che la memoria delle vite passate è viva soprattutto fra i due e i tre anni, vaglia concretamente sul posto ogni riferimento per verificarne l’autenticità. Il professor Ian Stevenson dell’università della Virginia, il massimo studioso in materia, ha viaggiato in tutto il mondo raccogliendo 1300 casi. Su quelli che ha ritenuto più probanti, ha scritto un libro, “Reincarnazione, venti casi a sostegno”. Vanno segnalati anche gli studi che vengono condotti con l’ipnosi regressiva da molti psicologi, medici e psichiatri di tutto il mondo.

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Quel Ponte dell’Arcobaleno

N.Michele Campanozzi “Anche gli animali hanno un’anima!” di Anna R. G. Rivelli

In un mondo dominato da un irrisolto pregiudizio antropocentrico, e ciò nonostante di fatto ancora incapace di riconoscere e salvaguardare almeno i diritti fondamentali di tutti gli esseri umani, porre interrogativi sulla possibile esistenza di un’anima negli animali appare un atto quasi temerario; eppure Michele Campanozzi, nel suo “Anche gli animali hanno un’anima!” edito da Armando Editore, non solo non si fa scrupolo di proporre la questione, ma neanche si preoccupa di celare il suo punto di vista, pur consapevole delle “ovvie ragioni” che potrebbero costargli incomprensione e sfavore. “Troppa cosiddetta economia si regge sull’uccisione sistematica degli animali” scrive l’autore in premessa sottolineando la “muta e indicibile sofferenza di questi esseri viventi”. Gli animali come gli uomini usano l’astuzia, sono capaci di altruismo, giocano, sanno fingere e mentire, hanno consapevolezza dell’errore e provano senso di colpa, sanno organizzarsi, hanno senso estetico, sanno essere grati e compassionevoli, s’adirano e soffrono, sanno amare fino al sacrificio della propria vita per il bene di chi gli è caro; e tanto basterebbe a non avere alcun dubbio, ma l’autore, teologo e filosofo e psicologo, con un argomentare serrato e preziosamente ricco di citazioni ed esempi, si muove tra sacri testi e poesia, tra passato e presente alla ricerca di quel soffio vitale che, con lo scorrere delle pagine, in modo

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sempre più evidente sembra accomunare a noi questi “fratelli più piccoli” che proprio il Dio dei Cristiani ha affidato all’uomo perché li guidasse e non perché li opprimesse, sfruttasse, uccidesse. Campanozzi cita la Genesi, ma anche i Salmi e i profeti; cita i filosofi antichi e i Papi contemporanei, i vangeli apocrifi e i Santi e poi matematici, scienziati, poeti. La sua non è fantasiosa interpretazione, bensì rigorosa proposta di testi che supportano chiaramente una tesi che si trascina dietro altre questioni, come quella della sperimentazione sugli animali o quella di una dieta carnivora che oggi si ritiene essere certamente nociva oltre che eticamente discutibile. “Occorrerebbe superare, allora, lo strabismo scientifico e anche quello teologico” ammonisce Campanozzi servendosi anche delle parole di Enrico Marabini, padre della Biopsicocibernetica: “L’immensità dell’ignoto che ci circonda deve essere l’incentivo per continuare il faticoso cammino della ricerca, mentre l’ortodossia e l’arroganza illuminista e scientista non sono più espressioni accettabili”. Passare dall’antropocentrismo al biocentrismo, dunque, servirebbe a meglio far comprendere l’armonia dell’Universo e a far riconoscere se stessi in ogni creatura, e consentirebbe quella grande rivoluzione culturale, sociale ed economica atta a garantire a tutti spazio vitale e diritti salvando l’Homo Sapiens dalla sua incombente tragica trasformazione in

Homo Insipiens. Ma Michele Campanozzi che, come ci confessa, avvia la sua riflessione in seguito alla casualità apparente dell’incontro con una gattina di cinque giorni, non impugna soltanto la passione delle scienze, ma vibra anche dell’emozione della poesia che – si sa – scaturisce sempre da un “avvertimento” istintivo, immediato e profondo del mistero della vita; e così il commiato al lettore lo offrono scrittori e poeti come Coelho, Jammes, Neruda, Dickey con le loro straordinarie rappresentazioni di un paradiso in cui per gli animali ci sarà resurrezione e amore. Cosicché, a lettura ultimata, oltre la forza delle convinte e testimoniate argomentazioni, resterà l’intima certezza che esiste “un posto in Paradiso, chiamato Ponte dell’Arcobaleno” dove le nostre divine bestiole ci attenderanno un giorno con gli occhi lucidi tremando di impazienza.

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Lo spettacolo si muta in memoria di Rocco Romanelli

Ci sono terre riarse dal sole del sud che di tanto in tanto bruciano di una passione sopita e non c’è modo di arginare l’incendio. È cenere di vespri oscuri immortalata nei canti di cattedrali dimenticate dal giubilo di baccanali fiabeschi e lotte di libertà. La storia non permette l’oblio, ha la forza di un fiume che erode la roccia e traccia percorsi sulle vicende umane: dove c’è armonia porta pace, dove c’è il sopruso porta la ribellione. La Storia Bandita, che da quindici anni viene narrata nel parco della Grancia, a Brindisi di Montagna in provincia di Potenza, è la storia di un popolo che si riscatta, che rivendica promesse non mantenute, che ama la terra come una divinità pagana a cui dedicare la propria vita. Nel 1999 si compiva il prodigio di uno spettacolo unico in Italia: la Grancia è infatti il primo parco storico in Italia ed il secondo in Europa dopo Puy Du Fou in Francia. Un primato di cui essere orgogliosi ed i volontari del cinespettacolo “La Storia Bandita” si fanno, ogni anno, testimoni di un passato, quello della Lucania, che non può essere dimenticato. Ciò che è rappresentato è la storia delle insorgenze popolari in 60

Basilicata attraverso le vicende di Carmine Donatelli Crocco, il leggendario generale dei briganti. La pazzia della madre, maltrattata dal signorotto locale a tal punto da farla abortire, e l’arresto del padre fanno sorgere nel piccolo Crocco il germe dell’ingiustizia che maturerà negli anni attraverso i racconti dello zio Martino, l’unico superstite della famiglia. Le rievocazioni dei moti del 1799 e poi la crescita del fenomeno insurrezionale porteranno Crocco ad affidare le proprie speranze prima ai borboni e in seguito ai piemontesi, ma tutti furono accumunati dalla disillusione che stillarono nel popolo meridionale. E così Crocco decide che è arrivato il momento di prendere in mano la situazione. Ed ovunque, come in una cassa di risonanza, la Basilicata divenne teatro di guerra che attirò l’attenzione di molti stati europei, di qui la presenza di un manipolo di legittimisti francesi e spagnoli, tra cui Langlois e Borjes, accorsi a combattere in terre lontane. Bollati come briganti, gli insorti sono trattati come belve da un esercito di repressione che arriva a mobilitare oltre centomila uomini. Alla violenza del nuovo


Stato corrisponde la feroce resistenza dei briganti guidati da un capo che è uno del popolo. Crocco è il volto di una terra che cerca finalmente il riscatto. Con il Generale dei Briganti un numero incredibile di combattenti, e fra questi Caruso. Tra i due c’è Filomena, una donna che, come tante in Basilicata, svestono i panni della sottomissione e si affiancano ai loro uomini per partecipare attivamente alla rivolta contadina. Sarà l’amore di Filomena il perno della contesa tra i due briganti che terminerà con il tradimento di Caruso e l’arresto di Crocco che, dalla prigione, traccia le linee di quel momento in cui il popolo lucano si svegliò da un atavico torpore. “La Storia Bandita” non è un documentario sul brigantaggio, è uno spettacolo che riporta alla memoria un passato troppo spesso dimenticato. Nessun vincitore viene proclamato in questa storia, tranne uno, il popolo lucano che dalle brume del proprio percorso si imprime nella mente dello spettatore attraverso la policromia di uno spettacolo che stupisce chiunque. Nomi di grande richiamo sono presenti nel Cinespetta-

colo. Voci intense come quelle di Michele Placido, Lina Sastri o Orso Maria Guerrini; musiche evocative composte, tra altri grandi nomi, da Antonello Venditti e Lucio Dalla. Ma la Storia Bandita è soprattutto la potenza di centinaia di figuranti e danzatori che plasmano le proprie radici in un evento che scompone le leggi dello spettacolo e travolge per intensità. È questo il vero cuore della Basilicata, gente che dona sé stessa per la propria terra, ai tempi del brigantaggio, come oggi. Magari non ha il sorriso facile, ma è pronta allo sforzo pur di accogliere al meglio l’ospite. In fondo la Grancia non è solo spettacolo, è come un film proiettato su un velo d’acqua, reale eppure intangibile. La Grancia è una melodia che si imprime nella testa e non riesci a cancellarla. La Grancia è il volto di un popolo che sfida la memoria. foto di Davide Becce 61


Le grotte di Sant’Antuono a Oppido Lucano di Antonio Giganti

La chiesa rupestre di Oppido Lucano, dedicata a Sant’Antonio abate, conserva un ciclo pittorico del secolo XIV di notevole interesse artistico e storico, oltre che suggestivo e di grande fascino. Orientata a sud-est, fu costruita a circa un chilometro dal centro abitato nei pressi di un’antica sorgente d’acqua dolce, lungo la strada che da Oppido conduceva a Genzano, Irsina e Gravina. Scavata in parte nella roccia, fu descritta per la prima volta nel 1962 da Alba Medea.La documentazione più antica della chiesa rupestre “Sant’Antuono” di Oppido Lucano è il ciclo evangelico, che al tempo della Medea si presentava “ben conservato, anche se di epoca tarda e di carattere popolare”, la cui narrazione evangelica visiva comprende l’intero corso storico della vita di Cristo e della Vergine con il trionfo dei due personaggi chiave della fede cattolica. Che gli affreschi siano nati in ambiente monastico antoniano lo si deduce soprattutto dalla ricorrenza del segno Tau in più punti, sia nelle croci dei due ladroni accanto al Cristo crocifisso, sia nel bastone di San Giuseppe che conduce la sua famiglia in Egitto. Il ciclo evangelico è da collocarsi fra la terza e la quarta decade del secolo XIV. Nel ciclo figurativo l’espressione icastica dei personaggi che accompagnano la crocifissione sembra riflettere ciò che serpeggiava all’interno della cristianità

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LUCANIA INVENIENDA

del tempo intorno al valore e al senso delle spedizioni belliche contro i turchi. Nella sequenza evangelica di Sant’Antuono il movimento dei personaggi non è di oltraggio ma di sottomissione profonda, come in quel militare che indica col dito la figura vincente del Cristo crocifisso e sembra alludere all’espressione del buon ladrone “veramente costui era il figlio di Dio”. La scena non è pertanto di condanna, ma di esaltazione e i soldati sono lì in atteggiamento di soggezione e di sottomissione, avendo deposte le lance. Il frescante sembra annunziare la conclusione delle lotte contro i Turchi che ostacolavano l’avanzata dei Crociati. Tutti alla fine avrebbero deposto le armi accostandosi al Crocifisso, anche perché vi erano interessi economici da difendere con trattative e non con le armi. Anche l’immagine di Longino risente delle leggende che circolavano intorno al personaggio. Longino, riconosciuto dalla tradizione nel militare che trafisse il costato di Cristo con la lancia, fu canonizzato il 2 dicembre 1340. Nell’affresco di Sant’Antuono non è assimilato agli altri militari, ma è raffigurato in abiti squisitamente monastici. Segue la deposizione con la figura della Vergine aiutata da un personaggio femminile. A sinistra della croce s’intravede appena San Giovanni e la scala, uno dei simboli iconografici della crocifissione, con


la deposizione del corpo di Cristo nel sepolcro vegliato da un orante. L’autore, le cui origini possono collegarsi alla partecipazione di elementi locali alle crociate, nonostante le assonanze con la cultura pittorica del suo tempo, si allontana dalla fissità tipica delle raffigurazioni bizantine e il suo pennello si avvicina sempre più all’uomo e alle sue esperienze esistenziali, per cui mostra di trarre molti dei suoi elementi dalla vita umana vissuta ogni giorno. Conosce pertanto le correnti pittoriche del suo tempo, dalle tradizioni bizantine all’arte del Cavallino, traducendole in termini più popolari e rendendo il suo linguaggio più idoneo ad essere ascoltato dalle comunità che frequentavano il cenobio di Oppido Lucano. A San’Antuono, nel cunicolo opposto a quello della Natività è affrescata una Madonna in trono col Bambino, che la Medea definiva “di minore interesse, perché quasi obbligatoria nelle grotte affrescate, ove difficile non trovarla”. La Vergine è raffigurata con un manto infiorettato color terra e veste rossastra. Il capo coperto con velo bianco decorato con cerchietti e linee scure, abbondantemente panneggiato e ricco di pieghe. La Vergine siede su di un trono riccamente decorato con due cuscini e postergale con disegni a losanghe. Il pittore rispetta in questo caso l’icono-

grafia tradizionale della Vergine regina, dal volto accennante un sorriso. L’icona, come osservava in proposito la Medea, è molto comune nelle chiese rupestri soprattutto della fascia ionica e a Massafra in particolare dove è possibile ammirarne una molto simile a quella del Sant’Antuono di Oppido nella Cripta del Crocifisso o della Buona Nuova. Nel ciclo pittorico di Sant’Antuono di Oppido vi é un particolare di notevole interesse. Si tratta della figura di Giuda Iscariota, l’apostolo traditore del Cristo nel Getsemani. Nell’affresco di Oppido Giuda è raffigurato insolitamente col nimbo dei santi, sia durante lo svolgimento dell’ultima cena, sia nella raffigurazione dell’arresto di Gesù da parte dei militari romani, sopraggiunti durante l’orazione del maestro con i discepoli nell’orto degli ulivi. In conclusione si può affermare che l’intero ciclo evangelico della grotta di Sant’Antuono, come del resto molte altre opere ancora, non appare soltanto una testimonianza dell’industria umana, ma uno specchio dove un pellegrino reduce dalla Terra Santa ha lasciato il riflesso della sua anima e del suo credo, permettendo di contemplare la sua opera per meglio conoscerla.

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Chiesa di San Lorenzo nella Grancia in Brindisi di Montagna di Carmela Petrizzi e Giuseppe Marinelli

Le vicende storiche della Chiesa di San Demetrio, a partire dal 1505, sono strettamente legate a quelle della Certosa di Padula, proprietaria dell’immobile e dei beni annessi. Più antica e più ricca, la Certosa esercitava la propria influenza sulla Grancia di San Demetrio che, nonostante la consistenza dei possedimenti, non fu mai sede di una fiorente comunità religiosa, rimanendo di fatto una rettoria. Nel corso del secolo XVIII i padri certosini di Padula amministrarono direttamente la Grancia e curarono il recupero dei fabbricati e della chiesa probabilmente danneggiata dal disastroso terremoto del 1456 e dal successivo stato di abbandono. Alle dipendenze della Certosa la Grancia attraversò un periodo di prosperità e benessere; verosimilmente proprio in questi anni l’originaria e diruta chiesa di San Demetrio, che dava titolo all’intera struttura della Grancia, venne trasformata in chiesa di San Lorenzo ed arredata con pregevoli opere artistiche e manufatti dismessi alla Certosa di Padula e trasferiti a Brindisi di Montagna. L’analisi e lo studio di una serie di elementi venuti alla luce durante gli interventi di restauro hanno confermato l’ ipotesi, formulata inizialmente da Anna Maria Amelio del C.R.R. Marinelli, che la preesistente chiesa, intitolata a San Demetrio Martire, venne trasformata in chiesa di San Lorenzo tra la fine del Seicento e i primi anni del Settecento. L’ iscrizione posta sulla campana bronzea (AVE M.G.P.D.T. SANTUS LAURENCIUS DE PADULA A.D.1565) attesta la realizzazione dell’opera nel 1565 per San Lorenzo di Padula e non per la Grancia di Brindisi di Montagna. In maniera analoga, l’iscrizione posta sul portale di ingresso alla chiesa (DIVO DEMITRIO MAR. DICATUS), rinvenuta dopo lo smontaggio del tavolato dipinto che copriva l’androne dell’ingresso principale, testimonia che il controsoffitto venne realizzato sempre dai padri certosini nel 1700, su modelli ancora oggi presenti in molti ambienti della Certosa di Padula, per nascondere alla visione l’epigrafe che attestava la consacrazione a San Demetrio Martire. In questo quadro di riferimento risulta particolarmente significativo anche il restauro del paliotto di altare in scagliola posto 64

davanti ad un preesistente altare realizzato in muratura, stucchi e pietra locale. Il complesso intervento di restauro del paliotto, ridotto in quaranta frammenti, con numerose lacune, ha messo in evidenza che il manufatto fu realizzato insieme a molti altri ancora esistenti nella Certosa di Padula, riservati agli altari laterali della chiesa. Tali opere di pregevole fattura sono state attribuite a Gian Domenico Vinaccia, Antonio Fontana e Bartolomeo Chetti che le realizzano tra il 1683 e il 1699 ma, probabilmente, gli esecutori materiali dei paliotti in scagliola furono gli stessi frati certosini, interessati ed attivi alla pratica artigiana. Di questo corpus di opere certamente faceva parte anche il paliotto oggi a Brindisi di Montagna ed è plausibile che anche l’altare in legno policromo e dorato con l’alzata e i dipinti realizzati da Filiberto Guma nel 1638 provenga dalla Certosa di Padula committente dell’opera, come viene confermato dalla sigla CAR posta al centro della cimasa. Una data importante nella storia della chiesa è conseguente agli effetti delle leggi eversive napoleoniche che comportarono la soppressione degli ordini monastici: nel 1879 il Barone Antonio Blasi di Pignola, divenuto proprietario di una parte della Grancia e della stessa chiesa, esegue lavori di adeguamento dei fabbricati secondo le esigenze della famiglia e “rinnova” la chiesa e le opere in essa esistenti. Tutti i muri della chiesa furono scialbati e ricoperti da nuove decorazioni. Le tempere settecentesche, realizzate da Filippo Pascale di Napoli che negli anni successivi (1730 – 1745) dipinse vari ambienti della Certosa di Padula utilizzando gli stessi modelli e la stessa tecnica, vennero definitivamente nascoste, fino al completo recupero effettuato durante i lavori eseguiti dal 2010 al 2014. Come spesso accade, il lavoro di recupero e restauro svela percorsi inediti e diventa occasione per approfondire la conoscenza del passato e la storia del territorio attraverso le opere di architettura ed arte realizzate.


foto di Davide Becce 65


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L’azienda il Fornaio, con sede in Genzano di Lucania (PZ) fondata nel 2006 è attiva nella produzione e commercializzazione di prodotti da forno. La struttura dell’azienda è stata nel tempo sempre più potenziata sia tecnicamente che nell’organico tale da renderla idonea alla produzione diversificata di prodotti da forno. Il principale obiettivo dell’azienda è valorizzare la cultura agroalimentare, riscoprire le antiche ricette fornaie e adattarle alle moderne esigenze alimentari, garantendo sempre la massima qualità. La varietà dei prodotti offerti alla clientela è varia, dal pane di semola rimacinata di grano duro, al calzoncello, tipico prodotto delle nostre terre. Il grande intento dell’azienda è diventare uno dei più importanti produttori italiani di prodotti da forno, focalizzando il lavoro sulla qualità, l’innovazione e il servizio.


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Il Fornaio - Iacovera & Loguercio - Via Sandro Pertini - Genzano di Lucania (Pz)


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