Sineresi n. 2

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grafica Miriam Spadoni


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grafica Miriam Spadoni


Trimestrale edito dall’associazione PAN - Centro di produzione culturale Via Flavio Gioia, 1 - Brindisi di Montagna (Pz) Tel. 342 32 51 054 e-mail: sineresi.sineresi@yahoo.com www.sineresiildirittodiessereeretici.it

Direttore Anna R. G. Rivelli

Referenze fotografiche Amelio Taddeo Pino Lauria

Collaboratori Sara Errico - Aniello Ertico - Donato Faruolo Fiorella Fiore - Cristiana Elena Iannelli - Ghino Mori - Giuseppe Passavanti Grazia Pastore Rocco Romanelli - Mara Sabia - Vito Santarsiero

Impaginazione e stampa Vincenzo Cristiano

Direttore responsabile Angela Maria Salvatore

Responsabile sito web Daniele Cafarelli

Responsabile editoriale Giovanni Cafarelli

Prezzo di una copia + inserto € 10,00 Abbonamento solo sostenitori € 50,00 Estero € 70,00 Per richiesta abbonamenti info: sineresi.sineresi@yahoo.com

Progretto Grafico Salvatore Comminiello Segreteria Roberto Cafarelli

Registrazione Tribunale di Potenza n.457 del 13 agosto 2015

Sommario

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Una spietata Topia Corpi come radici Dinamismo ed energia La sintesi dei contrasti Das orgien mysterien theater La prima prova è la vita stessa Le realtà capovolte Umano, poco umano Oltre il limite Il genio perduto I segni che dipingono il pensiero L’enigma del corpo Cinema corpo e corpo cinema Le sconosciute armi dell’arte Io canto solo allorquando Il corpo triplice nella poesia di Pierro Le concubine del diavolo O del corpo del canto Cercavo nei tronchi d’ulivo il segreto adulto dell’uomo Se non col corpo, almen con l’alma sciolta Nella camera di sangue Parole senza corpo Il corpo vissuto La reincarnazione e i segni di nascita Il polittico di Stigliano

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L’UOMO E IL CONCETTO DELLA MENTE SUA

Ma cos’è il corpo, il nostro corpo, oggi? Quell’orfica prigione dello spirito o il tempio cristiano dell’a-

nima? È la forma che conduce alla sostanza, il muro dietro cui ci asserragliamo o lo schermo che ci proietta in virtuale? Certo è che se da un lato oggi può apparire superato un dibattito che ha attraversato secoli di filosofia e il corpo, a lungo considerato vile materia, zavorra e porta del vizio, si è trasformato in un vero e proprio oggetto di culto, è anche vero che la posizione di quasi assoluta centralità attualmente conquistata lo sta in un certo qual modo snaturando e allontanando, in una spasmodica ricerca di perfezione, dalla sua stessa naturalità. Il corpo pertanto, sempre più artefatto, tende a dissolversi in immagine e mentre si fa icona di un mondo consumistico e globale -oggetto tra oggetti, merce tra merce- perde progressivamente la sua reale forza comunicativa. Provocatorio e catartico insieme appare in questo contesto il ruolo della Body Art che al corpo, spesso nudo, affida messaggi di elevato valore sociale e/o di notevole impatto estetico-emotivo e al corpo, almeno a quello dell’artista, restituisce la sua unicità, la sua capacità di farsi parola e segno per tradurre quel quid interiore in cui si mescolano comico e tragico, si altera o annulla ogni rapporto di identità di genere, si anima l’inquietudine per un sentimento stereotipizzante che è calato come tenebra minacciosa su tutto il nostro secolo. Corpo e spirito così si fondono, vicendevolmente si rappresentano e insieme emergono dall’artificio restituendosi la più spietata e personale naturalità. Catartico, dunque, questo cammino, ma, dicevamo, provocatorio anche, a volte fino allo scandalo -inteso nel suo significato etimologico- su cui incespica la nostra capacità di leggere e percepire l’arte, di condividerne un messaggio che si fa ultimatum e, incapace di conciliazione, ci costringe a interrogarci e scegliere se la disarmonia è bellezza, se il paradosso della vita può sfiorare impunemente la morte, se l’arte deve essere un assioma o solo un grammelot. Con questi interrogativi, ma anche con lo stupito rapimento per il gesto mistico dell’artista che ci offre in pasto il suo corpo in una capovolta transustanziazione, abbiamo affrontato questo viaggio imbattendoci nella denuncia, nelle lotte di liberazione, nel ricordo dell’antica prigionia e nelle prospettive futuribili della storia. Ma anche nella bellezza, nel sentimento del corpo sociale, nel dolore fisico delle creature. “Il buon pittore –scriveva Leonardo- ha da dipingere due cose principali: l’uomo e il concetto della mente sua”. E il corpo è forse proprio un buon pittore. Anna R. G. Rivelli


Una spietata topia Antonello TOLVE

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«Il mio corpo è il contrario di un’utopia, è ciò che non sarà mai sotto un altro cielo, è il luogo assoluto, il piccolo frammento di spazio col quale letteralmente faccio corpo». Non c’è dubbio che il corpo, nel pensiero di Michel Foucault, rappresenti il centro abitato con il quale fare i conti e dal quale è impossibile prendere le distanze. «Il mio corpo» è una «spietata topia» avvisa Foucault, lui «sarà sempre là dove sono io» perché è «il luogo a cui sono condannato senza appello». Al corpo – che tuttavia nel pensiero di Foucault non si fa ridurre così facilmente poiché rappresenta «l’attore principale di tutte le utopie»1 – l’uomo ha rivolto, dalla piattaforma della civiltà, degli sguardi smaglianti per comprendere, scoprire e forse anche correggere un linguaggio antico che si porta appresso, come una membrana attenta a registrare il divenire delle cose, come un giardino che trattiene i dolori del tempo. Sin dai suoi primi segnali, da quelle tracce lasciate nelle famose grotte di Altamira (tracce che testimoniano scene di caccia e simboleggiano un passaggio all’età matura), l’essere umano si è rappresentato, infatti, con l’obiettivo di scoprirsi, indagarsi, raccontarsi, cercarsi, misurarsi, protocollarsi sullo specchio cie-


co del mondo lasciando, ai posteri, un insegnamento: la certezza «che abbiamo un corpo, che questo corpo ha una forma, che questa forma ha un contorno, che in questo contorno ci sono uno spessore, un peso: insomma che il corpo occupa un luogo»2. E il luogo del corpo è stato, via via, quello della pittura e della scultura, quello allungato dell’Ombra della sera, quello rinascimentale e quello barocco, quello della misura classica e quello della misura romantica, quello consumato nell’ambiente che lo circonda e quello che non smette di stupire per la magnificenza che annuncia sulla superficie, quando viene raccontato con tecniche e materiali che aspirano a perfezionare la perfezione. Con le avanguardie storiche, accanto allo scacco mortale mosso nei confronti della tradizione e alla critica radicale ad una rappresentazione che lascia (che deve necessariamente lasciare!) il posto alla presentazione di un oggetto, il corpo entra nel campo lun-

go dell’arte per autopresentarsi e autonominarsi, per mostrare il suo splendore e le sue metamorfosi, per diventare paesaggio, area carnale, spazio di catalogazione dati, luogo privilegiato attraverso il quale raccontare la vita e quello che vita non è. Duchamp, ad esempio, con la comparsa di Rrose Sélavy nel 1924 evidenzia l’«impossibile riunificazione dell’androgino»3 e John Cage, dal canto suo, percepisce l’assenza del silenzio nel momento in cui (nella camera anecoica dell’Università di Harvard) fa i conti con il battito del proprio cuore. Opera d’arte ambulante, a detta di Lord Brummell, il corpo dell’artista diventa, così, locus e logos di una creazione in continuo divenire, soggetto e oggetto dell’opera, territorio che si spinge oltre i bordi dell’arte per conquistare i misteri del mondo. A potenziare la fortuna del corpo nel dispositivo dell’arte è il gesto dell’artista che impegna l’altro ad assistere e partecipare al rito di un mezzo (l’artista è «il

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<<Temerò me medesmo; e da me stesso sempre fuggendo, avrò me sempre appresso>>. Torquato Tasso

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mezzo attraverso cui si realizza l’opera»)4 che diventa, col tempo, e in particolare con il movimento eterogeneo della performance art, un timbro estetico. Jackson Pollock si trasforma, del resto, in pennello totale per danzare intorno alla tela, Alan Kaprow, accanto alle sperimentazioni portate avanti da Fluxus in Europa e dal gruppo Gutai in Giappone, crea i suoi sorprendenti Happening, Yves Klein, con le Antropometrie, utilizza il corpo come pennello vivente, Herman Nitsch (padre dell’Orgien Mysterien Theater) realizza nel 1961 i primi Schüttbilder, Beuys plasma la cosiddetta scultura termica sociale, Gina Pane con l’Azione sentimentale trasforma, nel 1973, il proprio corpo nel paese più straziato, ORLAN elabora un discorso sull’Art Charnel, Marina Abramović, con il suo Leone d’Oro alla biennale di Venezia del 1997 e la retrospettiva del MoMA (The Artist is Present, 2010), rappresenta la colonna portante di un terreno che si pone come strumento di comunicazione, «matrice identitaria dell’individuo»5. Vulnerabile, politico, socializzato, il corpo è dunque luogo che, tra pubblico e privato, avvia una riflessione creativa partecipata e partecipabile per rivendicare – utilizzando varie declinazioni linguistiche – un posto, un ambiente, una zona privilegiata. Ma è anche, e non può non esserlo, lo spazio esclusivo al centro del mondo, il «piccolo nucleo utopico» a partire dal quale sogniamo, parliamo, procediamo, desideriamo, fantastichiamo, percepiamo le cose al loro posto e anche le neghiamo attraverso il «potere infinito delle utopie»6 che immaginiamo. M. Foucault, Le corps utopique – Les hétérotopies, présentation de D. Defert, Éditions Lignes, Paris 2009 (la pubblicazione è la riscrittura di due conferenze radiofoniche tenute da Foucault per France Culture il 7 e il 21 dicembre 1966); trad. it. Il corpo, luogo di utopia, Nottetempo, Milano 2008, p. 23. M. Foucault, Le corps utopique – Les hétérotopies, cit., p. 23. L. Valeriani, Dentro la trasfigurazione. Il dispositivo dell’arte nella cibercultura, Meltemi, Roma 2004, p. 189. B. O’Doherty, B. O’Doherty, Studio and Cube. On the relationship between where art is made and where art is displayed, A Buell Center / FORuM Project Publication, The Trustees of Columbia University, New York 2007; trad. it., Studio e galleria. Il rapporto tra il luogo in cui l’arte si crea e lo spazio in cui viene esposta, in Id., Inside the White Cube. L’ideologia dello spazio espositivo, Johan & Levi Editore, Milano 2012, p. 92.

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Regina Josè Galindo

Regina José Galindo indaga la dimensione soppressa e rimossa della sofferenza, utilizzando il proprio corpo in chiave politica e polemica per riattivare i traumi del rimosso e le rovine della storia.

Corpi come radici Giulia INGARAO

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Nel 2015 Regina José Galindo realizza presso l’Orto Botanico

di Palermo una performance che intitola Raíces (Radici). L’Orto Botanico è uno dei luoghi più radicati nella realtà e nella cultura locale e «il grande fico magnoloide con il groviglio di radici colonnari e tubulari […] costituisce il simbolo di questa connessione con la città di Palermo» (Cfr. F.M. Raimondo, 1997). L’azione che l’artista guatemalteca realizza a Palermo vuole riflettere sulla multiculturalità che forma l’identità della città e che determina lo sviluppo del suo profilo urbano e sociale. In Raíces il corpo diventa metafora della terra d’appartenenza e, in una visione in prospettiva, l’artista riesce a mettere insieme le singole diversità in un territorio comune, l’humus in cui crescono le singole piante dell’orto che provengono da tutto il mondo e che, nel corso dei secoli, ha dato forma ad un contesto speciale: la somma degli ambienti naturali di ciascuna specie (F.M. Raimondo, 1997). Il corpo - dell’Artista e degli altri venti partecipanti alla performance esponenti delle diverse comunità straniere presenti a Palermo - diventa mezzo politico e organico nello stesso tempo: coniuga l’aspirazione ad un ricongiungimento fisico, di na-


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tura ancestrale, con le radici originarie, alla volontà politica di affermare la presenza delle molte culture immigrate nel territorio. La biodiversità che caratterizza il giardino botanico e che per l’Artista è stata determinante fonte d’ispirazione, configura da subito l’Orto come scenario perfetto per un’azione che ha forti fondamenta politiche e che contiene un nucleo estetico e catartico. Con Raíces Regina José Galindo ritrova e comunica un messaggio positivo, traccia una strada per la condivisione: trasforma le non persone (Alessandro Dal Lago Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, 1999) in divinità miste, creature metamorfiche, prolungamenti armoniosi di radici secolari e restituisce loro una dignità familiare, quella dello spazio di casa, quello della terra. Un’armonia che si riflette nella bellezza della forma dei corpi: le pelli chiare e scure si mescolano al nero della terra; i corpi appaiono come abbandonati con gambe e braccia ancorati al suolo terroso e gli arti coperti da foglie. Ognuno dei partecipanti indossa il proprio abito, alcuni vestono alla maniera occidentale altri hanno vesti tradizionali; ognuno di loro è portatore di una microstoria che costruisce un articolato racconto corale. La loro vulnerabilità è proprio nell’essere migranti, cioè sospesi tra un mondo e un altro - spiega l’Artista - : «per essere vulnerabile come loro, solo io mi spoglio, ovvero mi privo degli strumenti convenzionali di difesa contro gli attacchi esterni, e, completamente nuda, vado, insieme a loro, in cerca delle mie radici» (intervista con l’Autrice, 2015). Il suo corpo minuto e duro sembra essere una delle radici che 8

dal tronco della Ceiba guatemalteca si espandono sulla terra, allo stesso modo, in forma speculare, le ciocche dei suoi capelli si allargano sulle spalle nude. È un tempo sospeso, mitologico, dove tutto è possibile poiché il corpo è ibrido, in divenire, colto nell’atto irripetibile di sospensione del cambiamento. Il viaggio perde il contatto con la realtà, come raccontano tutti i partecipanti a esperienza conclusa: un abbraccio originario e liberatorio durante il quale, come in un percorso archetipico, ognuno ha ritrovato memorie lontane. I corpi, proni sulla terra, sono rimasti immobili, afferrati alle radici delle piante dei diversi luoghi di provenienza e, inebriati dagli odori intensi della natura, sono diventati parte integrante di uno spazio corale e condiviso. Ad accompagnare la performance un testo che, attraverso alcune parole scelte, spiega la connessione tra uomini e piante a partire da una mappatura geografica all’interno dell’Orto - realizzata da Manlio Speciale, esperto dell’Orto Botanico - ed emotiva, perché direttamente connessa ai ricordi visivi, olfattivi e personali dei singoli partecipanti alla performance: L’essere vegetale Regina José Galindo, Guatemala Ceiba speciosa, il viaggio Neonila Adgezalova, Ucraina Fraxinus ornus, il mito Amadou Ba, Guinea Encephalartos kisambo, l’ancestrale Laura Balcazar, Colombia Bauhina grandiflora, l’esuberanza Sandra Boakye, Ghana Encephalartos kisambo, l’archetipo Claudia Di Gangi, Italia Myrtus communis, la solitudine Niamkey Awatchi Germain Ghislain, Costa d’Avorio Coffea


arabica, il quotidiano Kali Jones, Francia Platanus orientalis, l’infanzia Andrea Kantos, Svezia Fraxinus ornus, Yggdrasill Lusiana Libidov, Romania Araucaria columnaris, il ricordo Mahbubur Rahman, Bangladesh Ficus benghalensis, il sacro Elpidio Miniado, Filippine Schefflera arboricola, il tropicalismo Nahar Mosfiqun, Bangladesh Carica papaya, la casa Sofian Mozian, Marocco Argania spinosa, il paesaggio Diego S. Paini, Argentina Tabebuia ipe, Claude Monet Mari-Dilusya Philippu-Rasa, Sri Lanka Ficus benghalensis, Siddharta Andy Samoisy, Mauritius Cussonia paniculata, l’australe Patrycja Stefanek, Polonia Platanus orientalis, la guerra Ale Voutsinas, Grecia Olea europaea, il dono Marjolein Wortmann, Olanda Quercus ilex, la forza Han Xinli, Cina Bambusa vulgaris, la familiarità Si dipana così all’interno dell’Orto Botanico un itinerario visivo di corpi e radici, un percorso labirintico attraverso una vegetazione mista dove i fruitori, che si inoltrano nel vasto spazio dell’azione, sono guidati da una stessa, condivisa, atmosfera di sospensione, messa in risalto dal silenzio stupito dei numerosi spettatori. aíces – Performance di Regina José Galindo, a cura di Giulia Ingarao, Paola Nicita, Diego Sileo, Palermo, aprile 2015 Le performance Raíces è stata realizzata in occasione della personale Estoy Viva a cura di Diego Sileo e Eugenio Viola, realizzata presso ZAC- Comune di Palermo (aprile-giugno 2015), in collaborazione con il PAC – Milano e con il coordinamento progettuale di Antonio Leone.

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Antony Gormley

Dinamismo ed energia

Angela SALVATORE

Sono consapevole che il corpo umano è presente nell’arte quasi dallo stesso momento in cui si è avuta coscienza del corpo stesso. Gli esseri umani hanno sentito l’esigenza di riprodurre il corpo per poterlo comprendere in quanto oggetto, in quanto luogo tra altri luoghi. La mia strategia è indicale: queste figure sono fossili prodotti industrialmente. Sono tracce di un corpo reale, plasmato o scansionato, e poi costruito; non è una strategia emotiva ma scientifica, che fornisce prove evidenti. Ho cercato di ripensare al corpo in termini di sopravvivenza piuttosto che come specchio della vita. Voglio che le figure celebrino le pose del corpo umano e ci invitino a riempirle basandoci sulla nostra esperienza. Loro non hanno ciò che abbiamo noi: la libertà di pensiero e di movimento, la capacità di esprimere gioia o paura, la possibilità di esercitare la propria volontà… ci aspettano come una trappola che attende i nostri pensieri e sentimenti. Questi oggetti continueranno ad aspettare e io non so cosa faranno o diranno a un pubblico che non è ancora nato

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Dinamismo ed energia sono i campi entro i quali si muove la

produzione artistica dello scultore inglese Antony Gormley. Noto per installazioni e opere d’arte frutto di una costante ricerca e analisi del rapporto tra essere umano spazio, è Docente presso l’ Università Europea di Saas-Fee in Svizzera, membro onorario del Royal Institute of British Architects e Dottore onorario dell’Università di Cambridge Nelle sue opere l’energia che si sprigiona dalla relazione tra l’io e l’altro in un contesto spazio-temporale indefinito genera luoghi in costante divenire. Da una mutevole percezione dell’ambiente circostante scaturiscono sempre nuovi atteggiamenti e sentimenti, capaci di alleviare la preoccupazione e il tormento che investono la finitezza dell’essere. Gormley colloca le sue opera nei contesti urbani per analizzare da vicino le contraddizioni della società. L’uomo al centro dello spazio diventa vulnerabile, ma nello stesso tempo assume una maggiore consapevolezza della forza che promana dalla congiunzione con l’ambiente circostante. Calzante il paragone che egli stesso compie tra scultura e agopuntura: “ l’inserimento della scultura è come l’inserimento di aghi di agopuntura in un corpo collettivo. Il punto è vedere come il corpo nel suo complesso reagisce alla presenza di questa irritazione”. Questa “liberazione” verso lo spazio di derivazione futurista ricalca l’affermazione di Boccioni: gli oggetti non finiscono mai e si intersecano con infinite combinazioni di simpatia e urti di avversione.

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La sintesi dei contrasti Grazia PASTORE

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MARCO DE LUCA

Equilibrio instabile

La sposa


Paesaggio Astrale Il vello d’oro

Le isole di luna

Il mosaico, o “arte delle Muse” come la definì lo storico dell’ arte

L’ultima luce

italiano Carlo Bertelli, è l’arte del ravennate Marco De Luca, a cui il Circolo culturale “La Scaletta” di Matera dedica l’edizione 2015 delle Grandi Mostre nei Sassi. La rassegna, dal titolo “Materia & Luce”, curata da Bruno Bandini e Beatrice Buscaroli, è un evento artistico di rilievo che rappresenta anche la prima mostra organizzata nei Sassi dopo la designazione di Matera a “Capitale Europea della Cultura 2019”. Sono trentacinque le opere, allestite nel percorso del complesso rupestre “Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci”, con cui De Luca apre la rassegna annuale di scultura contemporanea. Artista di prestigio internazionale, Marco De Luca è impegnato da quarant’anni nello studio dell’arte del mosaico, tecnica che utilizza con un approccio personale ed innovativo, sposando scultura e pittura insieme. Le strutture plastiche così prodotte dialogano con lo spazio e declinano il linguaggio lirico del mosaico a comporre un personale universo narrativo. Nella sua dichiarazione di intenti, l’Autore così spiega il suo amore per la tecnica musiva: “Con la pittura mi accorsi di avere dei processi ripetitivi, così recuperai l’uso del mosaico perché con esso ho ritrovato il tempo”. L’Arte musiva è un linguaggio antico, giunge dal Medio Oriente 13


Oltre

fin dai tempi delle città sumere, è “gioco di materia frammentata e ricomposta” come scrive Beatrice Buscaroli in catalogo. In questo “gioco” De Luca compone la luce degli smalti e la zona opaca dei marmi, fino a generare sculture dinamiche e puntute - nelle opere “Il Vello d’oro” o “L’ultima luce” - o curve rassicuranti e algide come ne “La Sposa”. Il gioco dei contrasti ritorna nelle articolazioni plastiche, dove le tessere esplodono in caleidoscopici colori (“Stele”), fino a placarsi nella brillantezza e nella ieraticità dell’oro (“Emissario”, “Sole”) o nei toni grigi e freddi dell’argento (“Luna”), lasciando prevalere, nel resto delle composizioni, gradazioni cromatiche ed una tavolozza musiva apparentemente ridotta. De Luca crea equilibri provvisori, forme che dialogano con lo spazio e che aprono al fruitore una dimensione estetica essenziale e rarefatta, una “espressione plastica, come pura ipotesi decorativa”, è la definizione in catalogo di Ivan Franco Focaccia, presidente del Circolo “La Scaletta”. E ancora contrasti, nella riflessione e nell’assorbimento della 14

Il giardino immaginario


luce, nella brillantezza e nell’opacità di superfici regolari o ruvide. Dunque, non solo l’applicazione di smalti, ma anche interventi sulla materia, come in “Sedimentazione” o ne “Il monte”; fori e cicatrici, crittogrammi sulla superficie porosa, in una continua tensione tra segno e semplificazione della forma. De Luca intacca le bordure ed il ritmo della materia, e la sua grammatica espressiva si compone quasi inconsapevolmente, poiché i frammenti di smalti e marmi sono disposti senza il supporto di disegni preparatori. È un gioco creativo che lascia che le tessere seguano, accarezzandole, le modulazioni della struttura plastica, itinerari che modulano lo spazio in un percorso di intuizione, guidato a tratti dalla resistenza della materia, altrove dall’estro dell’Autore e, al più, dal riverbero della luce, in quello che Bruno Bandini definisce il “proposito seduttivo”, lo scontro tra “l’immagine, da una parte, e il nostro sguardo, dall’altra”.

L’emissario 15


Hermann Nitsch

Das orgien mysterien theater Emilia VALENZA

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la nostra società non ci permette di provare emozioni profonde, di penetrare a fondo il senso degli avvenimenti a livello sensoriale, corporeo, cosa che è propria appunto del sentimento del disgusto. Invece, quello che io cerco di fare con il mio teatro è proprio superare questa imposizione esterna data dalla società e dalla morale, che non ci consentono di entrare nel profondo delle cose e di percepirle a fondo .


Palermo, Cantieri Culturali alla Zisa: nel padiglione di ZAC – Zisa Zona arte contemporanea – si è tenuta la grande mostra “Hermann Nitsch - Das Orgien Mysterien Theater”. Lo spazio, con un allestimento interamente progettato dal grande esponente dell’arte austriaca, membro del Wiener Aktionismus, si trasforma per due mesi nell’esperienza coinvolgente di una “Gesamtkunstwerk”, ossia di un’opera d’arte totale. Nitsch a Palermo ha eretto un tempio, delimitando l’hangar di ZAC come un luogo dove accade qualcosa di diverso dal circostante, dove prende forma e si rappresenta la sua concezione del “sacro”. Le quaranta tele che costituiscono il corpus della mostra, insieme ai cicli fotografici delle azioni, ai cinque video che documentano le sue performances più importanti, agli oggetti liturgici, ai tavoli-bacheche e alla grande farmacia, rispondono ad un disegno spaziale che misura un nuovo ordine, continuamente perimetrato, che lascia fuori il caos. Scrive lo storico delle religioni Mircea Eliade “Ogni spazio sacro implica una ierofania, un’irruzione del sacro che provoca il distacco di un territorio dal cosmo che lo circonda rendendolo qualitativamente diverso”. L’artista dispiega le sue mappe mentali, simboliche, culturali lungo questo territorio che lo spettatore assorbe nella sua pienezza spirituale. Nello spazio del sacro Nitsch ripropone in forma diversa, ma altrettanto intensamente, il valore della ritualità, che si fa esperienza visiva e che – come leggiamo nelle parole dell’artista in catalogo - “strappa l’esperienza dell’inconsapevolezza o dalla semiconsapevolezza e la conduce alla luce della consapevolezza”. La consapevolezza di cui parla Nitsch è una disposizione nuova che l’osservatore acquisisce se si lascia guidare in questo territorio “pre-disposto” per rigenerare una religiosità della natura 17


e del cosmo. Qui l’arte con i suoi elementi primari, il colore, la forma, il suono ha la potenza e la forza di farsi luogo dove si separa l’ordinario dallo straordinario. Tutta la sua arte in questi cinquant’anni ha mirato allo svelamento di tale armonia. Innanzitutto è la pittura che si dispiega tra le pareti e lungo la grande navata, esperita come il segmento lungo di una croce latina. All’inizio degli anni sessanta Nitsch decide che la pittura informale, nella direzione del tachisme è la pratica che si adatta alla sua idea di arte, ma sostituisce ai materiali usuali altri pigmenti, come il sangue o le frattaglie animali. È evidente la dimensione esistenziale e vitalista del pensiero di Nitsch che, associata alla pittura gestuale, è spinta fino al suo estremo nella reiterazione dei rituali sacrificali. Il sacrificio, dunque, è la porta verso la salvezza, ed è un concetto attinto a tutte le religioni, pagane, cristiana, ebraica, islamica. Insieme alla pittura e sulla pittura Nitsch dispone le pianete e le stole, il calice, la coppa altri elementi della funzione liturgica che rendono evidente il richiamo al cristianesimo. Queste presenze puntellano lo spazio anteriore e posteriore alla farmacia. Il vertice si raggiunge nella sequela delle dieci teche, luoghi dove regna l’ordine, dove Nitsch disegna armonicamente con gli oggetti una trama in cui i concetti di vita e morte, di conforto e disperazione, di purezza e malattia convivono. “La Farmacia dell’astrazione” è l’apoteosi. La partitura del sacro, che il maestro/compositore ha scritto fino a questo momento, trova

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sostanza e bellezza nel misterioso ordine con cui sono collocati gli oggetti negli scaffali della farmacia. Armonia, misura, ordine, ritmo, pause e picchi, liquidi trasparenti e liquidi neri, il rosso del sangue e l’argento del metallo, i tessuti decorati, tutto sembra rimandare a un codice segreto, memoria dell’esistenza del creato e del suo creatore. Il cammino di scoperta di una nuova spiritualità passa anche attraverso l’azione orgiastica collettiva che porta ad un’estasi liberatrice. Dietro la Farmacia l’allestimento continua lungo il pavimento e alle pareti. Un nuovo ordine emerge in questa parte, dove il racconto del rito, del sacrificio, della purificazione nel sangue e nelle viscere, dell’abbraccio orgiastico finale testimoniano l’esperienza di ricerca e di conquista del sacro e in ultima istanza di una bellezza superiore. È il lato più forte e più crudo all’interno del tempio. Qui lo spettatore si appropria visivamente dell’eccesso praticato nell’azione rituale per liberare le proprie più nascoste pulsioni, per attuare quel programma generale di liberazione della vita dalla violenza. Sono testimonianze fotografiche e video delle azioni che Nitsch ha condotto nel suo castello di Prinzendorf e in giro per il mondo. Il corpo dell’artista si fa strumento e mezzo di una autentica redenzione all’interno di un discorso critico sulla società che aliena valori e persone.

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Seo Young Deok

La durezza del ferro e dell’acciaio e l’idea della catena rimandano a un’idea di imprigionamento del corpo ma l’effetto ottenuto non è quello della pesantezza o dell’imprigionamento, le sue sculture anzi richiamo a qualcosa di fluttuante ed etereo.I suoi corpi sembrano sospesi, come nuvole adagiate per caso lì ma che all’improvviso potrebbero svanire.

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La prima prova è la vita stessa Sara ERRICO


“Non si può mai sapere che cosa si deve volere perché si vive una vita soltanto e non si può né confrontarla con le proprie vite precedenti, né correggerla nelle vite future. [...]. Non esiste alcun modo di stabilire quale decisione sia la migliore, perché non esiste alcun termine di paragone. L’uomo vive ogni cosa subito, per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza avere mai provato. Ma che valore può avere la vita se la prima prova è già la vita stessa? Per questo la vita somiglia sempre ad uno schizzo. Ma nemmeno “schizzo” è la parola giusta, perché uno schizzo è sempre un abbozzo di qualcosa, la preparazione di un quadro, mentre lo schizzo che è la nostra vita è uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro.” Così Kundera definisce l’esistenza dell’essere, quella a suo avviso insostenibile perché leggera, perché nevrotica, perché in equilibrio per mantenere un equilibrio, mai dato, mai naturale, ma autoimposto e in continuo bilanciamento. Le sculture di Seo Young Deok, scultore coreano giovanissimo, classe 1983, conquistano un equilibrio, che seppure resta precario, hanno per un momento la solidità della pesantezza, hanno per un momento la certezza che l’asse resti in equilibrio. Le catene che formano i corpi abbozzati e le teste, malgrado l’inestricabile matassa di metallo che le compone, sembrano leggere, quasi eteree. Ed è in questo punto le sculture di Young Deok trovano l’equilibrio, tra l’insostenibile umana leggerezza e la necessaria pesantezza che dà valore alle cose, in un perenne tentativo di restare in quel punto o ritrovare un nuovo asse, a riproporre quel tentativo tutto umano di mantenere l’equilibrio, uno sforzo quotidiano, faticoso e pesante, perché solo ciò che è necessario è pesante e solo ciò che pesa ha valore.

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Vanessa Beecroft

Le realtà capovolte

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Con uno stile unico e intrigante, Vanessa Beecroft ci fa capRossella BATASSA

tare relazioni complesse senza darci risposte; attraverso moduli astratti e rigorosi, ricreati ogni volta, propone principi di una serialità frammentaria, metafora della perdita dell’identità, dove naturalezza e artificio si mescolano, l’attenzione si focalizza sul corpo femminile nudo o appena coperto, fonte di piacere estetico ma anche e soprattutto di ambiguità e mistero. La sua arte usa l’immobilità e il silenzio per provocare, dando il via al pensiero e a libere associazioni. Nelle performance l’artista mette in scena il dualismo percepito in ogni aspetto della vita, che comincia con il contrasto forte e simbolico tra la passività silente delle modelle e il vocio rumoroso del pubblico. Una barriera invisibile divide fisicamente i performers dagli spettatori come se si trovassero in diverse realtà. Crea ‘spettacoli’ sospesi e volutamente perturbanti, paralizza


la realtà, dispone le modelle su un palcoscenico virtuale dando loro poche indicazioni di lavoro: nessun contatto visivo né di parola, né d’espressione facciale, fino a farle diventare una presenza assente. A questo ordine iniziale subentra, con il passare del tempo che influenza il comportamento delle modelle, un disordine che le porta ad assumere atteggiamenti più naturali, ad umanizzarsi fino a portare l’evento in una direzione non prevista. Le performance durano ore e questa dilatazione del tempo, che rimanda alle atmosfere metafisiche di De Chirico, scelta dall’artista permette a chi guarda e alle modelle di non sentire più la nudità. Perché il punto di partenza è sempre il corpo nudo, la modella-clone, perfezione di giovinezza e di bellezza dei canoni contemporanei; alta e magra, con chiome folte che ricordano

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le dee del Botticelli e le sante dipinte nel Quattrocento. Icone che ci riportano alle ossessioni che Vanessa ha avuto da sempre per il cibo e per il culto del corpo, proprie della nostra cultura, che collegano tutta la sua attività e diventano territorio di ricerca e di provocazione. Anche se nudi, non sono mai volgari, non trasmettono sensualità, sono eterei, asettici, seriali, in pose derivate dalla statuaria classica e arcaica, eleganti e aggraziati. Si differenziano dalla moda imperante del nudo a scopo di lucro. La modella è vista come un vaso, un materiale, entità svuotata fino ad apparire manichino, viva ma non vera, fredda e distaccata, simbolo ambiguo in luoghi indefiniti, immersa in una dimensione atemporale. I corpi spersonalizzati, inseriti in un rigoroso progetto geometrico e spaziale, a volte anche mescolati a statue o frammenti di esse, vengono esposti, vulnerabili e sospesi, ad imbarazzare il pubblico a creare disagio, a destabilizzare. In VB66 vengono presentate donne dipinte di nero, sculture viventi, mescolate a frammenti di calchi in gesso, disposte su banconi del pesce in posizioni che hanno come riferimento iconografico i corpi ritrovati sotto la cenere del Vesuvio e nel quale viene indagato il rapporto tra vita e morte in stretta sinergia con il luogo. L’artista ci vuole liberare dagli stereotipi proprio usando donne 24


stereotipo, caricando i loro corpi di valenze simboliche. Idealizza la realtà per liberarla dai pregiudizi attraverso la presa di coscienza che la nostra società è omologante. Quasi mai ci sono storie da raccontare, forse solo realtà capovolte, per questo la visione dei suoi lavori apre un ventaglio di domande che possono portare a esplorare vissuti emotivi, immagini e pensieri, paure e desideri che abitano l’inconscio. In VB61 l’artista per ricordare il genocidio in Sudan rovescia secchi di vernice rossa sui corpi delle donne dipinte di nero, sdraiate su un telo bianco, bocconi a occhi chiusi, con grazia e pensosità, senza aggressività, realizzando un momento duro e commovente. La Beecroft sostiene che ogni suo lavoro fa parte di un’unica performance, infatti all’interno di esse si sono notate piccole modificazioni, in alcune l’età delle donne, in altre un uso più adeguato delle tecniche di spettacolo, l’utilizzo delle prime figure maschili. Oggi, forse, si pretenderebbe di più, proprio perché conosciuta e ricercata potrebbe spingersi oltre per trovare una nuova voce con qualcosa che rompa gli schemi nei quali lavora, attraverso una denuncia più esplicita meno legata al pubblico del “palazzo”, una scelta di campo per attuare la rivoluzione al femminile, che sostiene di voler provocare, senza usare i guanti. 25


Umano, poco umano

Roberto LACARBONARA

Il “realismo psicotico dell’arte contemporanea” preconizzato

Franko B. 26

da Perniola (2001), e già al centro dell’estetica lacaniana, è uno dei caratteri più ostici al centro della copiosa produzione di opere che ricorrono all’utilizzo, all’esibizione e alla commercializzazione della materia organica. Non più, o non solo, la presenza ipertrofica del “corpo d’artista” al centro del progetto autoriale, bensì il superamento – talvolta oltraggioso – della sua stessa “in-dividualità”, della sua unità funzionale e strutturale, a favore di uno smembramento in cui organi, frammenti e secrezioni giungono all’estrema ostentazione. Una tale messa in scena del reale corrisponde a una forma di realismo che, sebbene giunga a esiti intriganti già negli anni ’60 (come nelle ricerche del gruppo “nouveaux” di Pierre Restany), sembra tuttavia rincorrere, in tempi recentissimi, forme estreme e posteriori, deiezioni del reale corporeo ridotto a materia molecolare. Indubbiamente spetta a Piero Manzoni uno degli atti primordiali di questa proposta artistica che promuove persino gli escrementi a oggetto dell’arte. Tuttavia, il caso Manzoni va annoverato nel novero di un vero e proprio “atto mancato”, negazione dell’enunciazione, sigillo di non-visibilità e nonaccesso rispetto a quanto dichiarato sulla “serie” di “Merda d’artista”. E la stessa serialità declina l’ipotesi di un gesto affatto intenzionato a un’esegesi della secrezione organica, bensì a una riduzione a marchio, o impronta, di tutto quello che il sistema qualifica come “arte”. In contesti totalmente differenti, invece, l’opera di artisti come Gina Pane, ORLAN, Franko B, Stelarc – prodotta nel pieno di una rivoluzione della morale e del costume occidentale – ha inferto un colpo ferale all’idea di un soggetto-agente in gra-


Stelarc - Sospensione

Stelarc

do di manipolare la realtà ai fini della rappresentazione. Senza alcuna velatura, l’artista assume il proprio corpo come luogo di un acting-out dell’orrore: corpo straziato, tagliato, lacerato, mutilato, deformato, invaso da supplementi tecnologici, alterato nelle sue funzioni. Brillante la tesi di uno degli studiosi e curatori epigoni del fenomeno, Jeffrey Deitch, che intese come “post-human” tutta una serie di azioni destinate a scardinare l’umanezza dell’artista, la sua compiutezza di corpo e psiche. Uno dei punti di maggior criticità è tuttavia rappresentato dalla spregiudicata assunzione della materia organica come strumento di rappresentazione del sacro e della spiritualità, ovvero la deliberata intenzione di profanare i termini più profondi del pensiero mediante le sostanze che il corpo esclude. In un cortocircuito giocato sul doppio senso di lecito e illecito, morale e immorale, Andres Serrano ricorre all’escremento per significare una espulsione molto più problematica e radicale, ovvero quella sociale, culturale e religiosa. Nella controversa opera “Piss Christ” (1987), il fotografo statunitense immerge un piccolo crocifisso di plastica in un contenitore di urina. La blasfemia di Serrano si autoalimenta grazie a una inversione del paradigma transustanziale che, paradossalmente, traducendo il corpo-organico in oggetto-opera riporta lo spirituale al di qua della sfera umana ponendosi come atto di denuncia “contro” la secolarizzazione e il disprezzo del divino da parte dell’uomo. Non è l’unico intervento che Serrano produce a partire dalla materia organica. Due opere successive “Blood and Semen III”, creata con sangue e liquido seminale, e “Piss and Blood”, creata con urina e sangue, diventeranno addirittura le copertine di due dischi dei Metallica: “Load” e “ReLoad”. “...Sono stato educato a vergognarmi del mio corpo. Uso sangue, urina e merda come metafora perché è questo ciò che sono...”. La dichiarazione di Franko B, artista milanese residente a Londra dal 1979, rappresenta, tra tutte, l’esperienza più radicale nel processo di identificazione tra vita e arte: una contiguità giocata in verità sull’orlo della critica sociale e morale. Il corpo dell’artista diviene infatti corpo sociale, luogo della denuncia, zona di modificazioni indotte dall’esterno e non controllabili. Nelle performance degli anni ’80 e ‘90, il sangue sgorga dalle sue vene tagliate e si sparge sul suo corpo in un rituale viscerale e liminale. Per preparare le sue performance, l’artista arriva a raccogliere anche due litri di sangue al giorno per quattro, sei settimane prima dei suoi spettacoli (dopo alcune sue performance è stato spesso ricoverato per aver perso quasi un litro di sangue in meno di quindici minuti). “...Per me – prosegue – il sangue è qualsiasi cosa. Il mio sangue è il mio corpo. Quando lo sento, mi dà un senso di libertà, specialmente il fatto che sia il mio sangue, non lavoro con il sangue animale, o qualsiasi altro sangue perché non potrei avere relazioni Arnulf Rainer

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Stelarc

con esso. Inoltre la gente ha vergogna dei propri fluidi corporali. Sono spaventati dai loro rifiuti, pensano che siano cose molto private, che quel che c`è nel corpo deve rimanere nel corpo...”. Con Marina Abramovic invece il meccanismo estetico si ribalta. L’artista è deprivato della propria identità, il pubblico è il protagonista di una manipolazione che “opera” sul corpo dell’artista superando i limiti della vergogna e del pudore. In “Rhythm 0” (1974) la Abramovic dispone 72 oggetti su un tavolo in una stanza: oggetti di piacere, dolore e morte. Il pubblico è invitato ad usare gli stessi oggetti nei confronti dell’artista, al solo fine di provarne godimento o, a tratti, sadismo. Dopo una iniziale titubanza, il pubblico si scatena; i vestiti di Marina vengono tagliati con le lamette, in seguito stessa sorte spetta alla pelle dell’artista. Alcuni uomini le succhiano il sangue dalle ferite giungendo ad assumere atteggiamenti inclini alla violenza sessuale. Estremo il momento in cui nelle mani dell’Abramovic viene messa la pistola carica, appoggiata e diretta al collo, con un dito della stessa artista appoggiato sul grilletto. Il limite tra vita e morte, e quello tra organico e inorganico, rappresenta dunque la costruzione di uno spazio totale e indistinto dove ogni possibilità estetica ha luogo: emotiva, sensoriale, carnale, erotica, mortale. È la profezia di Artaud e di Deleuze: come farsi un corpo senz’organi. “Un campo di carne – spiega Perniola nel già citato saggio “Il sex appeal dell’inorganico”, (1994) – che è illuminato da giorni i quali hanno la stessa durata delle notti, che è immerso in un clima senza variazioni: esso è un territo28

rio che non conosce stagioni sempre sprofondato in una umida calura che decompone e disfa ogni forma. Il corpo senza organi, che non appartiene a nessuna volontà, che non obbedisce a nessun progetto, che è libero da ogni vincolo, sembra liquefarsi in un fluido che tuttavia non ha niente di vitale, né di spirituale”. In tutti i casi suddetti, si tratta dunque di intendere l’organico non tanto – o non solo – come pigmento, mezzo alternativo al tradizionale materiale pittorico, bensì come vera e propria pratica rituale svolta tra estasi e autolesionismo. Centrale l’esempio dell’Azionismo viennese – pensiamo ad Arnulf Rainer, o a Rudolf Schwarzkogler, morto, si dice, in seguito ad un tentativo di autocastrazione – e di molta Body art. O ancora Chris Burden che si fa sparare nel braccio per esibire la propria resistente pulsionalità; Gina Pane che si tagliuzza la pelle con una lametta affilata; Claudio Cintoli che rappresenta nascita e morte attraverso un’azione basata sul sangue mestruale; e Tracey Emin, l’autrice del lavoro più noto su questo versante: l’installazione “My Bed “ – letto dell’artista disfatto e cosparso di sangue e contraccettivi – vincitrice nel 1998 del prestigioso Turner Prize. “Tutto non è che Dioniso”, sosteneva Schelling a proposito della poesia. Perché difatti la creazione artistica è sempre un atto dionisiaco speso nella relazione tra interiorità ed esteriorità. Fino a intendere, fuor di metafora, persino la più abissale interiorità, quella fuori dal campo del visibile e del plausibile. Quella che spaventa la morte e che imbarazza la vita.


Andres Serrano, ANSE, Infectious Pneumonia 1992 29


Marina Abramovic

Oltre il limite

Cristiana Elena IANNELLI

La performance mi permette di esplorare ciò che fa paura, ovvero il dolore e la morte, e di mettere in scena queste emozioni davanti a un pubblico ricevendone il riflesso come in uno specchio: in questo modo ho imparato più dal mio lavoro che dalla vita. Intorno a noi abbiamo costruito così tanti muri che tutti dovremmo essere più aperti e vulnerabili .. 30


Tra i comportamenti e i linguaggi espressi nella storia dell’arte

degli anni ’70 del Novecento, uno dei primi è proprio quello del corpo che diviene soggetto e oggetto dell’azione artistica; una grande coscienza di sé, del proprio corpo e dei propri limiti sono necessari alla realizzazione dell’azione. Molti sono gli artisti contemporanei che hanno utilizzato il proprio corpo, talvolta quello degli altri, come mezzo espressivo e in modo differente, pensiamo a Gina Pane, Vanessa Beecroft, Orlan e ancora, alle rappresentazioni degli azionisti viennesi tra cui Hermann Nitsch, per citarne solo alcuni. Ma nella rosa degli artisti che agiscono sul proprio corpo, un’attenzione particolare meritano le straordinarie Performance dell’artista serba considerata l’antesignana della Body Art, Marina Abramovic. Nell’arte dell’Abramovic l’utilizzo del corpo diventa provocazione che sfocia spesso in autolesionismo, il corpo diventa un mezzo per fare dichiarazioni che possono essere in alcuni casi molto violente, come nella performance Rhythm 5, eseguita nel 1974, dove l’artista rievoca l’energia prodotta dal dolore attraverso una grande stella a cinque punte intrisa di petrolio, che accende all’inizio dell’esecuzione; all’interno della stella getta unghie delle mani e dei piedi e capelli, strappati e tagliati dal suo corpo, come a voler purificare fisico e mente, riferendosi alle tradizioni politiche del suo passato. Ma non basta, Marina entra all’interno della stella che brucia, perdendo i sensi, raggiungendo quel limite fisico senza il quale, secondo l’artista, si deve e si può performare. Nella serie Freeing The Body, Freeing The Memory e Freeing The Voice, è la liberazione la parola chiave, ed è lei a condurre le performance; purificarsi è un momento catartico che Marina porta all’estremo, fino a perdere coscienza, percezione della realtà, una volta ballando, l’altra pronunciando ogni parola im31


pressa nella sua memoria, l’altra ancora urlando. L’Abramovic sfida se stessa ma anche il pubblico e lo fa in maniera diretta e coraggiosa; tende a concedersi, a concedere il proprio corpo così com’è, integralmente nudo; la sua è un’arte di condivisione, condivisione di un’esperienza tra il performer e il pubblico, vissuta con un’intensità tale da renderla trascendente. È l’approccio emotivo a fare la differenza nella performance, è lo stato d’animo con il quale l’artista l’affronta di volta in volta e che “come un guerriero conquista nuovi territori, ma anche se stesso” per dirlo con le sue parole. L’artista serba si pone come obiettivo il proprio limite, mentale e corporeo e chiede allo spettatore di affrontarlo e superarlo con essa offrendogli il suoi aiuto, come quando in Imponderabilia del 1977, insieme all’artista Ulay, compagno di vita e lavoro e con il quale condivide per molti anni opere di Body art, arriva a suscitare nello spettatore un forte imbarazzo; i due protagonisti si pongono nudi e faccia a faccia sulla soglia di uno stretto passaggio attraverso il quale lo spettatore deve passare strisciando con il proprio corpo su quello di uno dei due artisti, superando così secoli d’interdizioni sessuali. Il corpo, da oggetto privilegiato dell’arte e filtrato dalla “rappresentazione”, diventa soggetto e azione che nelle opere dell’Abramovic si compie ferocemente, comunicazione estrema, come nell’incisione di una stella a cinque punte (Lips of Thomas, 1975) che l’artista pratica con un rasoio sul proprio ventre: è un’immagine violentissima e cruda che diventa una vera e propria icona della Performance Art. 32


Marina vive un forte approccio emotivo nelle sue performance; per dire addio allo storico compagno del duo The Others e grande amore della sua vita, Ulay, percorre 2.500 chilometri della Muraglia Cinese (The lovers 1988), per poi incontrarlo al centro del percorso, abbracciarlo e lasciarlo andare per sempre. L’artista percorre una sfida intensa con il proprio corpo, ma allo stesso tempo riesce ad esprimersi affrontando qualcosa di “molto vicino al nulla” con lo stesso corpo; nel Marzo 2010 esegue al MoMA di New York una performance dal titolo The Artist is Present, durante la quale, seduta ad un tavolo su una sedia e al centro di uno spazio completamente vuoto, affronta milioni di spettatori che a turno le siedono di fronte e la fissano in silenzio per qualche minuto, emozionandosi semplicemente guardandola. L’artista si concede totalmente al pubblico protagonista della performance, che le racconta la propria storia e le emozioni vissute in quell’istante, empatia pura. È il pubblico il suo vero amore, è con lui che dialoga, è al pubblico che trasmette sensazioni, è da lui che ne riceve, Marina ha bisogno del suo pubblico, non sarebbe la stessa senza di esso, lo ama con tutta se stessa. Per tre lunghi mesi ogni giorno è disposta a concedersi totalmente, e lo fa in uno stato di grazia, di armonia, eliminando lo spesso confine tra corpo e ambiente, dimenticando completamente la sua vita. Una “provocatrice di emozioni”, un’ artista che si emoziona fino al punto di annullare i propri sensi per concedersi pienamente a qualcuno che non conosce neppure. Un atto generoso il suo, una profondità straordinaria, un fine nobilissimo. 33


Gaetano Pompa

Il genio perduto

Fiorella FIORE

Girasole e farfalla

Camaleonte Paesaggio bronzeo

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Piedi di Mercurio


Dorothee e la biscia

Dell’artista su se medesimo

E’ molto difficile affrontare lo studio di un artista come Gaetano

Pompa: troppo raffinata e vasta la sua cultura, troppo rilevante il suo estro creativo, tanto è ricca la fitta trama di simboli, riferimenti storici, filosofici, musicali, contenuti all’interno delle sue opere. Forse è per questo che la critica italiana, tranne alcune eccezioni come Vittorio Sgarbi, lo ha ignorato per anni, laddove la fama che ha all’estero è pari solo all’amore che continuano a nutrire per lui i collezionisti. Ma le opere di Gaetano Pompa non hanno bisogno di cappelli: parlano da sole del loro valore, anche se custodiscono narrazioni che in pochi riescono a leggere nella loro interezza. La biografia di questo artista è quella di un esule che, partito dalla città lucana dove nasce nel 1933, Forenza, ha viaggiato tra Italia e Germania, terminando poi prematuramente il suo viaggio ad Ansedonia, nel comune di Orbetello, dove morirà nel 1998. I luoghi della sua esistenza, quelli che gli hanno dato i natali e quelli adottivi, tessono una geografia affettiva e immaginifica che è la quintessenza della sua poetica e che per questo è fondamentale ripercorrere. A Tarquinia, la città dove il padre insegna, trascorre la prima infanzia: qui ha modo di entrare in contatto con la storia degli Etruschi e viene catturato dallo sguardo

Nei giorni in cui moriva Ezda Pound

E’ molto difficile affrontare lo studio di un artista come Gaetano Pompa: troppo raffinata e vasta la sua cultura, troppo rilevante il suo estro creativo, tanto è ricca la fitta trama di simboli, riferimenti storici, filosofici, musicali, contenuti all’interno delle sue opere. Forse è per questo che la critica italiana, tranne alcune eccezioni come Vittorio Sgarbi, lo ha ignorato per anni, laddove la fama che ha all’estero è pari solo all’amore che continuano a nutrire per lui i collezionisti. Ma le opere di Gaetano Pompa non hanno bisogno di cappelli: parlano da sole del loro valore, anche se custodiscono narrazioni che in pochi riescono a leggere nella loro interezza. La biografia di questo artista è quella di un esule che, partito dalla città lucana dove nasce nel 1933, Forenza, ha viaggiato tra Italia e Germania, terminando poi prematuramente il suo viaggio ad Ansedonia, nel comune di Orbetello, dove morirà nel 1998. I luoghi della sua esistenza, quelli che gli hanno dato i natali e quelli adottivi, tessono una geografia affettiva e immaginifica che è la quintessenza della sua poetica e che per questo è fondamentale ripercorrere. A Tarquinia, la città dove il padre insegna, trascorre la prima infanzia: qui ha modo di entrare in contatto con la storia degli Etruschi e viene catturato dallo sguardo 35


Don Giovanni visto in un gionro di riposo

enigmatico delle loro sculture; è in questo periodo che visita per la prima volta Ansedonia, una piccola cittadina dove condurrà poi l’ultima parte della sua vita. Ancora bambino torna in Lucania, dove trova rifugio dalla terribile Guerra, e coltiva quella familiarità con la terra, la storia e la leggenda di questi luoghi, che saranno una eco costante nelle sue opere. Ormai ragazzo va a Roma, dove termina gli studi e apprende l’arte dell’incisione: quella del disegno e della pittura le applica giorno per giorno da autodidatta, mostrando già uno straordinario talento. In questi anni, come sottolineato nel catalogo “Visionari Primitivi Eccentrici” (Marsilio), a cura di Laura Gavioli, frequenta l’ambiente di Via Margutta, il Caffè Rosati, e ha modo di esporre nel 1957 una personale di acqueforti presso la Galleria l’Obelisco di Roma, dove incontra Alexander Calder e Alberto Burri. Parte poi alla volta della Germania, a Monaco prima e poi a Schwabing, dove assimila gli stimoli di ambiente in pieno fermento artistico e culturale, in grado di arricchirlo di nuove suggestioni, soprattutto musicali, che diverranno poi una parte importante della sua poetica. Ormai uomo, ritorna in Italia, al fianco di Dorothea, sua moglie, conosciuta in Germania e madre dei suoi cinque figli tra 36

Ulisse e le muse

i quali Adriano, che eredita dal padre il gene dell’artista. Gaetano Pompa continua a sperimentare, conoscere, dedicandosi anche alle arti applicate, come la pittura su ceramica, in seguito ad un soggiorno siciliano nel 1960 presso Santo Stefano di Camastra. Le sue opere vengono esposte a Milano e in Germania, dove inizia ad affermarsi come artista di spessore; non mancano le collaborazioni eccellenti come quelle con i critici Enzo Carli e Fortunato Bellonzi e i galleristi Fabio Failla e Mario Apolloni; arrivano i primi riconoscimenti importanti: nel 1962 la Medaglia d’oro del Presidente del Senato, nel 1965 la partecipazione alla Quadriennale di Roma, il San Paolo per Papa Paolo VI, ora ai Musei Vaticani. Ma il suo eclettismo lo porta a collaborare anche con il teatro, realizzando per la regia di Bolognini costumi e scenografie. Questo tortuoso itinerario di viaggi, incontri, conoscenze è espresso pienamente nella sua arte: ritroviamo le fantasie oniriche di Bosch e la Roma degli imperatori; il bestiario medievale, Wiligelmo, Guidoriccio da Fogliano immortalato da Simone Martini e la “nobilissima scuola di Siena” come la chiamava l’artista, Pisanello, Kafka ed Ezra Pound. Nei paesaggi rivediamo le


Il principe di legno - Bela Bartok

colline della Tuscia che si mescolano a quelle del natio agro lucano; nei bronzi, che raccontano la storia dei Dauni e quella degli Etruschi, è evidente l’eredità delle straordinarie maestranze che lavorarono in terra di Forenza sin dal periodo romano e che Federico II adoperò per forgiare le sue armi durante il periodo trascorso tra Melfi e Lagopesole. E poi c’è Gaetano Pompa che trasla questo immenso bagaglio accumulato in una vita intera in congetture, “Mutmassungen” come le battezza l’artista, appropriandosi di questa parola tedesca rubata da un testo letto a casa di amici, quasi magica, in grado di dare vita ad un incantesimo che trasforma queste opere in visioni sospese tra passato, presente, futuro. L’artista racconta una storia fantastica che si riallaccia alla storia ufficiale, espressione di una dimensione altra di cui egli è il demiurgo e che carica il nostro sguardo di meraviglia. Nelle grafiche, nei disegni, nei dipinti, nelle maioliche incontriamo un mondo abitato da animali fantastici e da cavalieri, in cui le rocche e i profili delle mura di antiche città ci riportano ad un medioevo immaginifico, complice l’utilizzo dell’oro che nei dipinti amplifica ancora di più la ricchezza dei dettagli; ma an-

che ispirazioni esotiche che raccontano di Africa, Sud America e Oriente, perché nell’universo di Gaetano Pompa i confini non esistono. Piccoli brani scritti ai margini delle opere ci aiutano nella lettura e costruiscono narrazioni simili a quelle dei taccuini di un viaggiatore instancabile. Nella scultura il genio si fa tutt’uno con la τεχηε, e l’artista diventa Homo faber, come afferma Marina Pizzarelli: ritroviamo l’atlante zoomorfo che abbiamo imparato a riconoscere, e gli echi, qui più che altrove, dell’archeologia. I libri di bronzo, che raccontano la vita dell’autore attraverso le parole di Dorothea, sono di fatto pagine inaccessibili che celano il mistero di un amore, l’intimità di una vita e rappresentano bene l’inafferrabilità di questo artista. Per chi li guarda c’è solo la possibilità di elaborare la propria “Mutmassungen” per cercare di carpire il segreto di Geatano Pompa, artista perduto, ma indimenticabile, che è stato in grado di aprire una finestra su quella straordinaria dimensione che è l’Arte.

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Eliana Petrizzi

I segni che dipingono il pensiero

Antonello TOLVE

Delicate e sensuali, viscerali e appassionate, carnose ed eroti-

che, equilibrate e vibranti, sovrastoriche e a volte metafisiche, cristalline, marmoree. Le figure proposte da Eliana Petrizzi mettono in evidenza non solo una particolare modalità compositiva da tableau vivant, ma anche un principio edificante che mostra interesse nei confronti del materiale e, naturalmente, della tecnica trattata. La sua pittura – flessibile ad ogni discorso affrontato – si nutre di forme legislative che affondano le radici in territori di matrice teatrale. Difatti, è proprio una sottile estrazione spettacolare (che si congela in felice scenario pittorico) ad essere – assieme all’incidenza del carattere cromatico – uno dei centri nucleari del suo lavoro, in cui la questione della posa si fa ridefinizione compositiva del reale, osservatorio esoterico di un tragitto all’interno della physis. Dalla pittura alla tecnica mista, per giungere poi alla fotografia, Eliana Petrizzi formula un’asse grammaticale teso a levigare la realtà tanto da metamorfosare il presente in scenario arcaico, in territorio intangibile e silenzioso, lontano e inaccessibile; ‘un territorio che assapora la vita e i mille significati che la riguardano’ (Angelo Trimarco), mentre la vita – essa stessa, rilkeianamente parlando – tace. «Nelle mie figure», ha suggerito l’artista in una recente dichia-

razione «soltanto il viso, sede di ciò che nel corpo non muore mai, resta giovane e perfetto. Tutto il resto (corpo, spazio, cose) si decompone in un magma purulento che si trasforma senza sosta, seguendo un ansimare inquieto, il flusso inarginabile e selvatico del sangue e dei venti». Il viso è, così, stazione eterotopica e, parallelamente, territorio di riflessione attraverso il quale mettere lo sgambetto al tempo, alla fragilità e alla caducità del corpo, per circoscrivere le linee del divenire in ambienti assoluti e assolutistici, legati ad una sovratemporalità cromatica che inchioda lo spettatore tra le maglie di una attualità smarrita, astratta ed autoastraente. «Il corpo», racconta ancora Petrizzi (lasciando intravedere una fuga poetica dalle cose della vita e dai dolori del quotidiano), «è dimora inagibile, maceria da cui evacuare. È la sede di una morte che convive con noi in ogni istante e che riconosciamo come inaccettabile estranea. È metafora di tutto ciò che percepiamo come limite e confine: corpo è una condizione emotiva intollerabile, è la vita che non abbiamo scelto, la passione dannosa, l’attracco senza porto delle parole, la primitiva solitudine che ci lega a chi ci vive accanto. Nei miei dipinti, il volto si astrae dal corpo, a ricordare una parte spirituale inattaccabile dalla mediocrità e dall’abbandono, pur recando con chiarezza lo stigma della lacerazione congenita all’essere al Mondo. Il 39


paesaggio naturale che spesso affianca le mie figure, fermato in una luce che è insieme quella dell’alba e quella della sera, suggerisce di tradurre in dimora definitiva la fragilità, assumendola a misura e conferma dell’abitare la vita. La mia è una pittura di carne e di cenere che insegue la nostalgia dell’immagine, e questo malgrado il risultato iperrealista dei miei lavori. Più che la presenza, dipingo la sua sospensione e la sua impossibilità, il silenzio che ne precede la comparsa o che ne segue la perdita. Del corpo non mi interessano l’individuazione sessuale né la bellezza. Cerco piuttosto la fibra nuda, quella che resta oltre la povertà delle linee che si disfano; un tipo d’identità che si sciolga nel racconto delle proprie avarie, rivelando in questo passaggio un’essenza metafisica. Abbandonati infine i guasti della vita nel corpo, i miei volti approdano in uno spazio limpido e calmo, con gli occhi spesso chiusi in un rapimento che dice ora l’ignoranza della condizione umana, ora la definitiva saggezza di chi ha molto sentito e compreso. I colori, richiamo alla dimensione fisica della percezione, scompaiono per lasciare campo alle tonalità monocrome. Il quadro si racconta in un percorso di simbologie spirituali: la trasformazione di tutto ciò che esiste, l’armonia di ciò che è riunito in un universo indistinto, il principio della Vita portatrice di intelligenza, meraviglia, felicità completa, oltre i dolori della consapevolezza.» Tuttavia, è da questa Bedingung umana, dal corpo in quanto linfa vitale, che Eliana, spiritus phantasticus, sugge una infinità di forme e di immagini legate a rêve de rêves, a veglie e a speranze che, attraversando l’arduo tema del rapporto tra luce, colore e forma, generano una vera e propria peinture théatrale (per dirla con Diderot) violenta e, nel contempo, muta, segreta. Apparato scenico denso e luminoso – che richiama alla memoria, a volte, la lunga sfilata degli escamotages frequentati da Caravaggio e dalle sue varie declinazioni napoletane – il progetto estetico messo in campo da Eliana Petrizzi destabilizza la realtà per mostrare dei volti immaginifici con una conformazione anatomica che lambicca la natura per procedere verso sentieri in cui riformulare alchemicamente le cose della vita. Di volta in volta – e di sogno in sogno direi – l’artista ispeziona e oltrepassa il bello naturale (Hegel) presentando un bello più bello del bello che sgretola i tratti chiari e oftalmicamente tangibili della classicità, per evidenziare, con agilità e chiarezza, il profilo distintivo d’un’arte silenziosa in cui ogni segno dipinge, timidamente, il pensiero.

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La buona ventura , olio su tavola, 44x37cm, 2014 Nudità, olio su tavola, 20x35cm, 2009 Alfa - Omega, olio su tavola, 50x100cm, 2015


«La morte non finisce mai». Giorgio Caproni

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Danilo De Mitri

L’enigma del corpo

Rino CARDONE

Un corpo inteso non solo - come affermava Omero - come libera espressione, autonoma e indipendente di quell’«alito vitale che spira dalla bocca» o come rivelazione materiale di quel «confine dell’anima» che racchiude le emozioni e l’intelletto - come sosteneva, di contro, Eraclito - ma un corpo che ci mostra, invece, attraverso il processo creativo e immaginifico dell’arte, che esiste una materia sensibile dotata di una sua autosufficiente funzione estetica. È questa la fotografia di Danilo De Mitri, giovane artista tarantino che utilizza il corpo in forma espressiva per comunicare la complessità dell’idea, congiunta alla potenza della superficie semasiologica della fotografia, collegata a sua volta al gesto visuale e narrativo dell’immagine ritratta. Nei suoi scatti fotografici l’illustrazione di un corpo fisico si trasforma in qualcosa di enigmatico, ermetico e misterioso, che ha molto a che fare con un feticcio semantico/creativo dove la taglia fisica - in particolare quella della donna - mostra, sì, la dimensione effimera e transitoria della materia, ma anche il nucleo centrale della coscienza da cui trae origine la perenne e duratura facoltà creativa dell’essere umano (poièsi). È questa la maniera, per l’appunto, tramite la quale Danilo De Mitri infrange, sbriciola e frantuma la naturale “dimensione empirica” della realtà. Così facendo egli spalanca il comune pensiero umano a una pura visione interiore, che è ben altra cosa rispetto al concetto d’idea. Insomma, in queste foto spirito e 42

mente viaggiano insieme. E non basta. Operando in maniera creativa, egli ci spalanca le porte di quell’universo cognitivo che rappresenta un piano speculare di quella dimensione intellettiva che supera il semplice uso dell’organo della vista. Attraverso l’occhio egli aggancia quel cosmo conoscitivo che appartiene alla “funzione ermeneutica” (esegetica, critica e interpretativa) dell’osservazione e del controllo della realtà. Ed è anche questo lo spazio della mente in cui si svela (al di là della struttura fisica della materia e della sostanza dei corpi) la triplice natura dell’individuo, composto di spirito, psiche e intelletto. Tutto questo nella piena consapevolezza da parte sua che -come diceva Friedrich Nietzsche- “L’essere umano è corpo e anima”. Riteniamo, in ogni caso, che l’attuale ricerca fotografica di quest’artista si fonda oltre che sull’uso lirico e fantastico dei corpi di donna (con figure umane che si fanno forme di contrabasso e di tavolino) su tutti quegli ingredienti magici, fatati e suggestivi su cui poggiano le “arti performative” in generale. Ecco, dunque, che gli elementi che ritornano in queste sue fotografie sono la simulazione e dissimulazione simbolica della realtà, l’esaltazione della sfera dell’immaginario e l’apoteosi del fantastico, avendo ben presente (come diceva Theodor Adorno a proposito dell’effimero espressivo) che “l’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità”. Orbene, quelli che ci mostra Danilo De Mitri non sono, solo, degli affascini onirici apparenti (calibrati sulla diversità di genere, di


Sonia, stampa da plotter su carta fotografica, 50x70cm 43


Sonia, stampa da plotter su carta fotografica, 50x70

carattere e di condizione che esiste, ad esempio, tra il maschile e il femminile, il verosimile e l’incredibile, il singolo e il doppio, l’uguale e il diverso, lo specchiato e il riflesso, lo speculare e l’opposto) ma anche dei veri e propri ammaliamenti fantastici che pervengono da una perdita immaginifica e fantastica di quel centro di gravità permanente che è rappresentato dal mondo fisico. Le sue figure finiscono, in questa maniera, con l’essere proiettate in una dimensione di assoluta irrealtà che subisce, a tratti, la seduzione surrealistica e i rimandi favolosi e fiabeschi della sua stessa pulsione immaginifica: quella che lo libera, al momento dello scatto fotografico (e che ci libera al momento della visione delle sue fotografie) dalla dimensione apparente e transeunte della natura. Il moderno messaggio estetico che ci consegna Danilo de Mitri è quello dell’abitare il proprio corpo e la propria mente, senza or44


Laura, stampa da plotter su carta fotografica, 50x70

pelli retorici. È quello del vestire l’anima con estrema tranquillità, superando la normale pulsione erotica, attraverso la bellezza elegiaca del creato: quella che fa dire alla cultura chassidica - nelle parole di Rabbi Pinchas di Korez - che «ogni creatura si rinnova nel sonno» spogliandosi della sua forma e raccomandando la sua anima nuda a Dio. Solo in questa maniera egli «sorge e riceve nuova vita» in una sorta di dimensione olistica della materia e monista dello spirito, dove la Bellezza rappresenta lo specchio illuminante, che riflette la luce della Perfezione e che riverbera la contemplazione assoluta della Grande Meraviglia del Creato. Una dimensione questa che giunge alla coscienza dell’individuo - come avrebbe detto Diogene Laerzio attraverso l’azione “plasmatrice e educatrice dell’istinto” umano. Una lezione questa che appare molto bene nell’opera di Danilo De Mitri. 45


PA S O L I N I 46

Cinema corpo e corpo cinema

Paride LEPORACE

Per il mezzo secolo del film “Il Vangelo secondo Matteo” ho contribuito ad allestire a

Matera una straordinaria mostra tematica che ha attratto migliaia di spettatori e attenzioni critiche di altissimo spessore, ma soprattutto ha inciso in modo straordinario per far assegnare alla città lucana, fortemente pasoliniana per la realizzazione di quell’incredibile pellicola, la designazione a Capitale europea della cultura 2019. In quella mostra allestita a Palazzo Lanfranchi uno spazio molto significativo è dedicato all’installazione citazionista dell’esperimento che il regista realizzò con il fotografo Fabio Mauri. A Bologna Pasolini si fece proiettare il “Vangelo” sul suo corpo facendosi ritrarre in questa straordinaria performance. È evidente che Pasolini sottolinei che il suo corpo era lo schermo utile ad accogliere le immagini di un Cristo che è fortemente autobiografico (la Madonna anziana nel film è interpretata dalla madre). Nel cinema pasoliniano si segna un’intensa vocazione allo scandalo che annuncia il martirio pubblico e privato di Pasolini. Anche due settimane prima della morte Pasolini si fa fotografare nudo nella sua stanza con un libro in mano, protetto solo da un vetro. Probabilmente si trattava di una promozione meditata per il libro uscito postumo alla morte “Petrolio”. Sostengono Luciano Mariti e Alessandra Fagioli che il punctum di quella foto compone “l’allegoria vivente tra la Forza del corpo e della Forma”. Libro o film l’allegoria è uguale per il corpo dell’intellettuale Pasolini che non ha mai mercificato la Forma della sua espressione per il recondito interesse dell’industria culturale di cui fu sempre un feroce antagonista pur essendone , in magnifica contraddizione, uno dei principali protagonisti. A quarant’anni dalla tragica morte di Pasolini all’Idroscalo di Ostia, dove il suo corpo venne brutalmente massacrato diventando materia filmica e fotografica, è motivo di orgoglio proiettare a Matera e Potenza l’ultimo film di Pier Paolo, quel “Salò o le 120 giornate di Sodoma” che tanto panico e ansia provocò a censori, benpensanti e fascisti. Nelle allegorie di quel complesso e straordinario film il fascismo si ripropone come Potere “che manipola i corpi in modo orribile (…) trasformando la coscienza del mondo peggiore, istituendo dei nuovi valori alienanti e falsi, che sono i valori del consumo” come testimonia questa citazione del regista tratta da una conversazione con la rivista “Filmcritica”. In quel film esiste una scena chiave che esalta il corpo in allegoria antifascista. È quella del giovane sorpreso a copulare con una giovane nera che per questo viene ammazzato dagli scherani della villa. Ma poco prima il corpo sceglie la sfida del gesto clamoroso. Un pugno chiuso si alza nell’aria a dimostrazione che la speranza laica si affida al corpo. Un cinema in corpo quello di Pasolini. Atti impuri di un eretico. In Pasolini, al pari di Foucault, la sfida è tra il Potere e il corpo. E tanto, se permettete, ancora ci basta e avanza.


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Le sconosciute armi dell’arte Vito SANTARSIERO

“L’Arte per l’Arte”, vale a dire una idea di arte puramente fine a stessa e senza alcuna funzione sociale, è una formula che viene attribuita allo scrittore francese Theophile Gautier autore del romanzo “Mademoiselle de Maupin” scritto a soli 22 anni. In effetti Gautier non si esprime sui fini dell’arte, ma l’aver dato nel suo romanzo all’estetica la precedenza su tutto aprì a metà dell’Ottocento un ampio dibattito sul tema. Baudelaire portò fino in fondo tale separazione sino ad affermare che “la poesia non può, se non vuole rischiare la decadenza, lasciarsi assimilare alla scienza o alla morale: il suo oggetto non è la verità, bensì se stessa”. Oggi il tema ritorna di grande attualità in un villaggio globale sempre più affollato, tecnologico, veloce ma anche sempre meno giusto e sempre più diseguale, capace di esprimere ai massimi livelli un appeal elefantiaco ma incapace di esprimere una qualsiasi seria forma di appeal culturale e valoriale. Pensando alla fame nel mondo, alle 300.000 persone che ogni anno muoiono per mancanza di cibo, ai corpi denutriti di milioni di bimbi - tema purtroppo clamorosamente sfuggito alla gran kermesse di Expo 2015 - il sociologo svizzero Jean Ziegler afferma che il suo sogno è quello di vedere la musica, il teatro, la poesia, in una parola l’arte, portare l’uomo a superare i propri limiti, “l’arte possiede armi sconosciute alla ragione umana: è capace di mettere in subbuglio l’animo e di abbattere le mura invalicabili dietro alle quali si trincerano l’egoismo, lo straniamento e il distacco emotivo; l’arte sì che può colpire l’uomo nei suoi punti sensibili e risvegliare nell’animo le emozioni più nascoste”. È davvero un sogno quello di Ziegler, in un mondo violentato da un oscurantismo neoliberale che ha imposto il mercato quale legge naturale ed ha trasformato l’economia in un freddo mostro globale, o davvero l’arte è l’arma magica per combattere questo sistema cannibale e ricostruire il mondo? Se è vero

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che è l’uomo che produce meccanismi assassini ed è sempre l’uomo che può intervenire per modificarli, appare del tutto evidente che tutto ciò che incide sull’uomo è ciò che può incidere su tali meccanismi e cambiarli. Se dunque l’arte è capace di incidere sullo spirito umano occorre dedurre che epoche di crisi sono epoche in cui l’arte ha perso la sua forza e la sua funzione, epoche in cui se ne produce, sostiene e promuove poca. C’è una strana connessione tra i corpi di quei bimbi malnutriti, senza speranza, senza futuro, e l’arte, la cosa apparentemente più lontana ed estranea da loro. La nostra è purtroppo una stagione di crisi dell’arte perché poco compresa, poco valorizzata, poco praticata. Occorre tornare a credere in essa, occorre che lo faccia la società civile, ma occorre che lo facciano ancor più le istituzioni, soprattutto nel nostro Paese, salvaguardandone l’autonomia e la libertà. Occorre credere nel suo valore intrinseco, nella sua capacità di essere, in quanto libera e in quanto arte, soggetto rivoluzionario capace di scuotere le coscienze e cambiare il mondo. Lorenzo Ostuni, filosofo, artista e simbologo lucano, parlava dell’arte come “dell’amore che guarisce la vita”. Papa Francesco nell’enciclica “ Lumen Fidei” dice che “essendo la verità di un amore, non è verità che si imponga con la violenza, non è verità che schiaccia il singolo. Nascendo dall’amore può arrivare al cuore, al centro personale di ogni uomo”. La verità dell’amore espressa dall’arte più vera e più alta resta allora liberata da ogni forma di chiusura e diventa costruttrice di bene comune, fondamento di un nuovo modello di società. Il fermento culturale che, soprattutto dal basso, cogliamo oggi nelle nostre comunità, e le sensibilità nuove delle nuove generazioni che cominciano a comprendere che internet e la supertecnologia sono un mezzo e non un fine ci fanno cogliere un segno di speranza, e chissà che arriveremo davvero ad avere l’arte in prima pagina.

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Oreste LOPOMO

Io canto solo allorquando Oreste LOPOMO “Io canto solo allorquando/l’aguzza croce affondata/in mezzo al mio petto/la scuotono i venti/del dolore e dell’estasi/fugace d’oblio, /canto solo allorquando/sento d’essere io”. Cosìscrive in Ecco il mio canto, una delle sue poesie che fa parte della prima raccolta in lingua, Liriche del 1946, Albino Pierro, il poeta di Tursi noto soprattutto alle storie letterarie come “dialettale”. Fu nel 1959 – come scrive il critico e storico letterario Pasquale Stoppelli-che Pierro ebbe la conversione dalla lingua al dialetto quando nel corso di un viaggio di ritorno a Roma da Tursi compose Prima di parte,ora in ‘A terra d’u ricorde. Una conversione avvenuta come una folgorazione e che lo proiettò in modo determinante verso la scoperta del dialetto dando vita a quella novità della poesia tursitana-come annota ancora Stoppelli-che segnò la nascita di una raffinata lingua poetica costruita con i mezzi linguistici di un lontano paese lucano. Spunto importante per una decisiva svolta della ricerca letteraria di Pierro in direzione di una sperimentazione, a tutto tondo e in una molteplicità di registri, delle risorse della sua invenzione. Nonostante più volte i critici abbiano fatto rilevare come in un certo senso ci sia stata una sorta di continuità e non frattura tra i due tempi della poesia di Pierro ( appellandosi anche al fatto che in piena stagione dialettale Don Albino abbia continuato a pubblicare in lingua ,come dimostrano le ultime raccolte e soprattutto la sezione di inediti nell’antologia d’autore Appuntamento del 1967)c’è da dire che l’intuizione dialettale per meccanismi legati anche all’approfondimento dell’originalità dei codici linguistici ha messo spesso in ombra la produzione letteraria in lingua italiana. Produzione che, oggi grazie anche alla ristampa delle opere voluta dal centro studi Albino Pierro, ci permette di verificare quell’assunto fatto proprio da un altro critico e storico della letteratura come Giovanni Caserta che sostiene come oggi ci sia materia sufficiente per un ritorno alle origini e per cercare la parte migliore di Pierro proprio nella poesia in lingua che troppo presto egli aveva

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ALBINO PIERRO

Io canto solo allorquando


deciso di abbandonare. Non a caso nella prefazione a Liriche, il suo primo volumetto pubblicato dall’edizione Palatina, si fa presente come figurino poesie per lo più brevi in cui l’espressione è ridotta all’essenziale e la potenza suggestiva è formidabile: ”anima mia, che sei?/Voce dell’eterno più immensa di un urlante deserto,/ ogni granello divenuto un grido”.Pierro non viene accostato a nessuna scuola letteraria” come tutti i grandi in atto o in potenza” e nel considerarlo “difficilmente incasellabile” gli viene riconosciuta “la capacità di sintesi degli ermetici e la chiarezza degli umanisti ma anche la dolce vena dei crepuscolari e la robusta tempra dei poeti del buon tempo antico”. Se- come sottolinea ancora Stoppelli- in Nuove liriche del 1949 si va a definire una presenza non trascurabile della poesia religiosa che sarà una componente essenziale della poesia di Pierro, facendone uno degli esponenti più significativi del secondo novecento, in Mia madre passava (Palombi editore 1955) -come scrive Mario Zangara nella prefazione- elementi intellettualistici e slanci di sentimento hanno raggiunto un equilibrio esemplare dove se la parola s’inasprisce nell’ironia del nuovo “comandamento” subito dopo ritrova l’accento della mesta meditazione e si fa voce pregna di lacrime quando accenna all’uomo “costretto ad errare e a nascondersi ,a sorridere e a morire”. Ed anche i segni di particolare originalità dati dalle poesie evocatrici della terra natale, dell’ambiente domestico dell’infanzia, dei cari defunti si caratterizzano ed appaiono come parvenze incorporee ed evanescenti e i richiami all’immaginazione Leopardiana non possono essere confinati in una semplice riproposizione di costruzioni letterarie colte, ma diventano spunti per un’ ulteriore tappa di maturazione del percorso poetico di Pierro: “dolore,rimani alto,più alto del sibilo dei venti dalla dolce lusinga dei tetti nell’azzurro dei comignoli braccia accoglienti la sera;/o,se tu pace vuoi venire,sii tu la pace d’una stella morta che lieve si riaccende”. Ed è in Il passero sincero (del 1956 edizioni Porfiri), che reca una copertina di un grande maestro come Pericle Fazzini, che il Pierro che frequenta il cenacolo di scrittori ed artisti di via Margutta diventa il cantore della meditazione sull’essere dell’uomo. E lo fa- come scrive Giovanni Fallani- tacendo la teoria ma sapendo che l’esito

della sua dialettica è insito nell’organismo perfetto dei suoi canti migliori. “Il sole che splende sulla collina e sul muro di fronte alla finestra di casa mia al villaggio. /Ora è deserta: solo i morti vegliano nelle vuote stanze solenni per l’alta quiete”. Ne Il transito del vento del 1957 ( edizioni dell’Arco con una copertina di Emilio Greco) il poeta di Tursi discopre in modo più esteso la visione della realtà nei suoi giochi effimeri e nelle certezze migliori, raggiungendo con voce umanissima, uno dei punti più fermi e solitari della poesia moderna. In Incontro alla notte forse più che in altre liriche si avverte il senso profondo della ricerca poetica come elemento di armonia e disarmonia,di provvisorietà temporale della contemporaneità: “Sull’anima filtrò il bianco delle barelle portate a braccio nelle corsie./Ma nessuno s’accorse che io fui l’onda del mare subito dopo il passaggio della nave./Forse, vedrò ancora remeggi, e sentirò tanto freddo. / E infine, anche nell’ora triste, luce non vista andrò incontro alla notte”. Ma la maturità della poesia in lingua di Pierro che scrisse nel 1959 Il mio villaggio, con la prefazione di Giorgio Petrocchi, e Agavi e Sassi del 1960 (raccolte nelle quali il paese di Lucania diventa un motivo poetico più asciutto, puro ed essenziale) si può constatare nelle liriche del volumetto Poesie del 1958, edito sempre dalle edizioni dell’Arco, e che i critici maggiormente attratti dalla svolta dialettale hanno considerato o addirittura frettolosamente archiviato come versi dallo sfondo prevalentemente urbano. Quello sfondo urbano che, anzi, toglie del tutto anche il solo sospetto di una provincializzazione della poesia o di sua connotazione identitaria che ne possa svilire il contenuto. Nella Lettera a Cheril, la giovane figlia di Lana Turner che per difendere la madre accoltellò un gangster, Pierro ripercorre lo schema tragico senza ridondanze (Mia cara Cheril,il cielo oggi è nero:la notte ha gridato a lungo nell’inferno dei tuoni) e la lirica sull’Esedra che diventa teatro di un fatto di cronaca (un pazzo tuffatosi nella fontana fu catturato dopo lunghe peripezie dai vigili del fuoco) riesce a superare la contingenza degli eventi per resuscitare l’originalità e l’universalitàdell’invenzione della poesia delle stagioni senza tempo: “era la torrida estate, ma poteva essere inverno, quando l’Esedra immobile vinse, e in un punto l’eterno”.

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Il corpo triplice nella poesia di Pierro Anna R. G. RIVELLI

Quanne accirìne u porc Quanne accirìne u porc, mi ni scappèje adàvete chiangenne e sunèje a catarre cchi nun sente chille grire strazzète. Ma quanne pò’ mi féce grannicèlle mi ci chiantèje tise mmenz’ a gente e pure ié, cch’i vrazze affurtichète, i’ére tante cuntente di réje u pére e appuntillè i chinucchie dasupre a quillu porc ca murìte da tutte chille mène attenagghiète. Ll’avére rutte ‘a chèpe cchi na pétre si angùune mi dicìte - nun mbògghi’a Die ca i’ére ancore zinne: ié c’apprime chiangìje e lle guardèje amère chilla murra arragète di cristiène iettet sopr u porc ca scamait chi grir ca arrevain alla pullar.

Poesia letta da Dino Becagli

Quando uccidevano il porco Quando uccidevano il porco, / me ne scappavo di sopra piangendo / e suonavo la chitarra per non sentire / quelle grida lacerate. / Ma quando poi mi feci grandicello, / mi ci piantavo dritto in mezzo alla gente / e pure io, con le maniche rimboccate, / ero tanto contento / di reggergli il piede e di puntellarmi con le ginocchia / sopra quel porco che moriva / attanagliato da tutte quelle mani. // Gli avrei rotto la testa con una pietra / se qualcuno mi diceva / - Dio non voglia - / che ero ancora piccolo: / io che prima piangevo / e lo guardavo amaro / quel branco furente di cristiani / gettati sopra il porco che strepitava / con le grida che arrivavano / alla Via Lattea. 52


Non esiste poesia, forse, in cui il corpo appaia più presente e

tangibile che in “Quanne accirìne u porc” di Albino Pierro. E non esiste in poesia corpo più vivo e vigoroso e martoriato, né più eterogeneo che nella compattezza emozionale generata da questi due fotogrammi in cui viene raccontata, in tutta la sua umana disumanità, una storia antica, chiusa nell’urlo che riecheggia fin nelle profondità remote dell’universo. In un gioco sapiente di rimandi, l’animale e l’uomo che si affrontano si rivelano uniti da uno strazio che una spietata tradizione impone ad entrambi, al primo con il rito cruento cui è destinato sin dalla nascita, al secondo con l’obbligo di crescere nell’insensibilità del maschio adulto, votato anch’egli, proprio come la bestia, ad un destino di forza da dover sempre dimostrare. Cosicché, in questa sorta di cerimonia sacrificale in cui le grida lacerate del maiale ricevono il battesimo delle lacrime infantili e incontrano la pietà della chitarra, i corpi che si avvinghiano diventano un’unica cosa, perché alla vittima, nell’innocenza e nell’impotenza, resterà l’umanità proprio di quel dolore che invece al suo carnefice, che si ciberà delle carni straziate come di una pagana eucarestia, sarà sottratto d’imperio dalla necessità di non essere considerato “ancore zinne”. Privato del dolore, l’uomo resterà corpo “tise mmenz’ a gente”, abbrancato e svuotato dalla stessa atrocità di tutte quelle mani che attanagliavano “quillu porc ca murìte”. Ma il corpo, così invadente e concreto in questi versi, si fa triplice nella “fisicità” del dialetto tursitano che con Pierro diventa lingua universale; le sue sonorità sono tali da rendere superfluo per il significante il rimando puntuale al suo significato; la violenza dell’uomo, infatti, si coglie già tutta nell’asprezza timbrica di quelle “vrazze affurtichète”, di quell’ “appuntillè i chinucchie”, di “chilla murra arragète di cristiène/iettet sopr u porc”; come si coglie il sentimento dell’ineluttabile nell’andamento più lento e regolare della prima strofa - dove settenari ed endecasillabi si avvicendano ritmati dalle rime e dalle assonanze imperfette di questa lingua difficile anche da trascrivere - che precipita, si spezza, inciampa nella seconda dove l’incalzante durezza dei fonemi trascina il poeta, la sua soffocata angoscia ed il ricordo amaro della sua pietà fino a scagliarli, insieme a “chille grire strazzète” del disgraziato animale, nell’infinito dove il corpo è solo un latte di stelle. 53


Le concubine del diavolo

Lucio TUFANO

È il cosidetto “sesso debole” che torna malvagio? Le titolari

delle imprese di brigantaggio, anche più rapaci degli uomini? Era solo la dedizione al primo uomo o anche l’ambizione che faceva di quella donne le più crudeli ed efferate, per emergere o per solo compiacergli, rinunciando perfino alla maternità? Eppure la Storia ci racconta di donne che, escluse dalle decisioni e dai diritti politici, hanno dominato con il corpo e con il carattere influenzando il potere, da Mirra scellerata ad Erodiade che istigò il patrigno Erode Antipa a fare uccidere Giovanni Battista. È Lady Macbeth che istiga la ferocia del marito: la lucida stratega dell’agguato ordito al re Duncano. E dietro il terribile Attila non ci fu una donna che, al fianco del “Flagello di dio”, si rivelò esperta nelle devastazioni e nel gioco degli scacchi? È il lato oscuro della femminilità che dalla mitologia, da Circe a Medea, le nefaste maghe dai sortilegi più sottili, avrebbero ucciso i loro figli se avessero visto insidiato il loro potere? Ecco le brigantesse, il loro selvaggio ruolo, le loro primordiali esigenze, il loro corpo. Occorre sfidare le ripugnanze della storia per andare oltre la igienica proiezione immaginaria o virtuale; occorre accingersi a raccontare ed affrontare le cose innominabili …, ecco perché sparliamo di ciò di cui altri magari non hanno ancora parlato o scritto. Forse neppure chi ha scritto e pubblicato storie anagrafiche ed episodi di scaramucce e processi in modo rude e primordiale. È l’era della puzza, delle epidemie e dello sporco, delle parti del corpo più a buon mercato, anzi gratuite

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e senza ipocrisia del perbenismo, la condanna della pornocrazia, del chi si arrangia, del “culo e camicia”, amici non sempre indissolubili, della scorreggia non repressa, del rutto e dello stupro ripetuto, ossessivo, lecito e consenziente; è l’era della prepotenza agraria alla quale si oppone la reazione altrettanto violenta e prepotente del proletario, onde spetta al capobrigante, finalmente, consumare la nemesi dello ius primae noctis nei fienili, nelle stalle, nell’aperta campagna o presso le concimaie dall’odore afrodisiaco, nelle aie e nei pagliai. Un istituto che si è tramandato dai nobili ai cafoni, ai danni della donna, a seconda dell’auctoritas e del potere detenuto dai maschi. Brigantesse? Animalesse senza bagno e senza fissa dimora, senza doccia, né bidet, senza sapone, arbitre del torrente e dei rovi, esposte ad ogni tipo di intemperie. Orinano in piedi, mangiano in piedi, anzi divorano, a cavallo. Indossano il reggiseno? Usano biancheria? Forse! Quando riescono a far bottino di tutto ciò che trovano per rapina nella casa del massaro o dell’agrario. Esse si sporcano; fugacemente adempiono ai loro bisogni ed hanno, come tutte le giovani donne il loro mestruo. Hanno i volti scolpiti dal freddo e dal sole, le logore vesti frustate dal vento e dalla pioggia. Sono figlie e madri dell’infamia, non hanno religione, né morale, sono le concubine del diavolo. Da una sorta di voluptas dolenti la femmina dura e ribelle cade in assoluta balia del suo stupratore e ne diventa la compagna fedele ed innamorata. Ma quello che le rende creature umane è riportato nella relazione dell’inchiesta parlamentare e nei dibattimenti dei processi sommari. Il brigante


è sublimato da un’aureola di eroismo, non è più l’assassino, il fuorilegge che uccide e saccheggia, ma è il proprio uomo, quello che si ama e che rende giustizia, che difende i poveri e che dà “ai poveri togliendo ai ricchi”. È quest’illusione, quasi foscoliana, dell’uomo “bello di fama e di sventura”, vittima di offese e di dolori mai leniti. Tempi e giorni pervasi di sensualità, di bestialità, di un mondo rovesciato, di una vita trascorsa all’aperto, dall’aria più rarefatta, monda di impurità, carica di ossigeno, tra le piante che operano la loro fusione di traspirazione di notte e clorofilliana di giorno. Un rapporto costante, diretto, immediato con i sensi dell’animale, dell’ambiente, del caldo e del freddo, dell’olfatto e del tatto, del rumore e del silenzio da decifrare e da sondare, un’osmosi tra natura e vitalità, una vigoria del partecipare come essere, componente del tutto, come entità in simbiosi con le foreste ed il territorio .Il naturismo del brigante e della sua donna? Forse un ritorno disperato all’Eden biblico, alla fiaba dell’abbondanza e della crapula, della cuccagna come fatto illusorio, fugace, onirico così come le trafelate scorribande, le sortite furtive ai casali. È la seconda metà dell’Ottocento; nella società industriale le donne sono già mobilitate nelle fabbriche e nelle lotte politiche. La scrittrice George Sand cavalca in costume da maschio, allora motivo di scandalo, fumando grossi sigari, separata dal marito e con spregiudicate relazioni d’amore con uomini famosi del suo tempo, come De Musset, Chopin ed altri, con la popolarità di donna libera ed evoluta. È l’epoca di Flora Triston, dalla travagliata vita coniugale, perseguitata dal marito dopo la

separazione e che enuncia, in analogia con l’oppressione della classe operaia: «la moglie proletaria oppressa dallo stesso proletario». È l’epoca delle prime rivendicazioni della donna borghese nelle città d’Europa, anche degli obiettivi del femminismo operaio, ma i temi dell’amore, del corpo e del sesso, l’indiscreto della vita privata sono ancora tabù, anche se si avverte la loro drammaticità. Ma le brigantesse d’istinto, di amore viscerale e di odio, sono creature selvatiche della vendetta e del riscatto. Forti, belle e selvagge, con il coltello ed il fucile, la bandoliera ed il cordame, il basto delle cavalcature, sono le confidenti più sicure – scrive franca Maria Trapani – le messaggere più mimetizzate, le più fedeli custodi dei segreti, feroci e coraggiose più degli uomini, le più eccitate. Donne che agitano le falci, che approntano la stoppa per i fucili, che urlano e gesticolano per aizzare la folla, che fomentano i parenti ad aggredire i liberali, che fanno scempio dei corpi dei garibaldini e delle guardie civiche, che imbestialite, inzuppano il pane nel sangue della vittima e se ne cibano. Neppure le erinni della mitologia classica, le furie indemoniate, furono capaci di tanto.Quelle donne ci fanno pensare alle tragedie medievali, a quelle di Valpurga, alle streghe ed alle baccanti. Perciò ci riportano a quella rassegna delle femminemostro presenti negli incubi degli uomini: la Gorgone, le arpie, le parche, le sirene, le divinità inferiche e quelle temperamentali di Odisseo e degli Atridi.

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Alda Merini

O del corpo del canto

Mara SABIA

Piccola ape furibonda, meretrice, santa, sanguinaria, solo una

isterica, la pazza della porta accanto. Inutile e riduttivo tentare di definire Alda Merini, anche attraverso le sue stesse autobiografiche definizioni. Conviene piuttosto prendere atto delle infinite, singolari e contraddittorie caratteristiche del suo vissuto e del suo genio. Scrivere di Merini implica trattare l’incandescente materia manicomiale, fare i conti con il canto che sorge terribile e splendido in momenti di una speciale lucidità benché i fantasmi che recitano da protagonisti nel teatro della sua mente provengano spesso da luoghi frequentati durante la follia, come scrive Maria Corti. Una poesia, quella meriniana, in cui spesso bisogna discernere il fango dai diamanti, proprio perché nata in dette, eloquenti, condizioni e che sarebbe impossibile da leggere se fosse scissa dalla biografia della poetessa. Una poesia difficile, contrariamente a quanto appare, e che

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presenta caratteristiche specifiche e originali. Forse Rilke, o forse nessuno, costituisce, oltre alle matrici classiche, la tradizione a cui si rifà Merini. Una lirica metaforica, dal linguaggio contrastante, forbito e modesto, comune e spirituale, degno di messali, alle volte. Un canto che avvicina Dio e uomo in molteplici modi. Li mischia, li sovrappone, li confonde. Misticamente. Leggere Merini significa prepararsi al dualismo e al compenetrarsi di cielo e terra, di carne e spiritualità, di corpo e anima: probabilmente non vi è aspetto più interessante di questo nella poetica meriniana. Una voce potentemente ossimorica che trae il suo meglio dalla tensione dolorosa della eterna convivenza di angeli e demoni. Per dirlo con le parole di Merini: “solo angeli e demoni parlano la stessa lingua da sempre”. Puro corpo e puro spirito, quasi a ricalcare le Scritture, è il motivo dell’intera opera meriniana e delle figure che la compongono. Gli Amanti


sono puro corpo e puro spirito: coloro che umani, terrestri, gemono e contemporaneamente, in tale linguaggio, sono vicini a Dio come i santi più ebbri. Sono puro corpo e puro spirito i matti dipinti nelle pagine del capolavoro la Terra Santa in cui sono profeti, mistici, angeli, santi. Puro corpo e puro spirito sono i poeti, i medici, gli amici della poetessa ritratti in versi. Ella stessa e il suo canto sono pura carne e puro spirito. E allora “corpo” è parola amata e ricorrente. È scelta emblematica nel titolo del testo “Corpo d’amore. Un incontro con Gesù”. Quel Gesù che è pietra, carne e spirito, che da solo si annienta nei sensi e nello spirito per una prova d’amore. Il “corpo” meriniano non è mero un contenitore per l’anima o un mezzo per la poesia, ma è un modo, un mistero meraviglioso, una domanda sconvolta, è la poesia stessa. Scrive Merini: Gli inguini sono tormento/sono poesia e paranoia/delirio di uomini. /Perdersi nella giungla dei sensi, /asfaltare l’anima di veleno,/ma dagli inguini può germogliare Dio. Il corpo qui è poesia, paranoia, perdita, ma anche porta sul divino. Il corpo cantato da Merini è spesso esaltato alla maniera biblica, chiari, ad esempio, sono i riferimenti al Cantico dei cantici: Forse tu hai dentro il tuo corpo/

Un seme di grande ragione - scrive Alda Merini nel suo Canto dello sposo, concludendo sfinita di passione - eppure in me è la sorpresa/di averti accanto a morire/dopo che un fiume di vita/ ti ha spinto fino all’argine pieno. Nella complessità del tema della carne e del corpo in Alda Merini, emergono altri connotati, come ad esempio la bellezza. Bellezza, per la poetessa è ciò che salva l’atto carnale dalla miseria, così come la nudità è salvata dal disgusto, dal pudore. Il corpo senza trascendenza nell’altro non è altro che il ludibrio grigio nominato ne La Terra Santa. In questa ottica anche l’eros si trasforma in arte, in poesia. Gianfranco Ravasi la descrive come capace di intrecciare eros e agape, carne e anima, desiderio e fede: come il peccato cede e travolge la fede stessa/ fino a diventare a sua volta/il ritmo stesso della fede. Come il peccato è arte/ e come l’arte è il peccato. Spirito e materia, anima e corpo hanno senso nel compenetrarsi. La vita stessa e il suo maturarsi sono chiuse nello spazio di un amplesso, come esistesse una corporalità dello spirito: Io vivo nello spazio di un amplesso - scrive Merini - tu stesso mi maturi senza accorgerti/sotto il tepore delle tue carezze. 57


Cercavo nei tronchi d’ulivo il segreto adulto dell’uomo

Anna R.G. RIVELLI

Bianco come biassico sguardo. Verde di verecondie ignorate.

Blu come blues di un rimpianto. Rosso di rosura profonda. I colori sono l’alfabeto e l’alfabeto è la policroma traccia di un viaggio che inizia alla controra, “l’ora in cui le ombre svaniscono per andare ad animare i desideri”. Per questo le pagine di “Scirocco” più che lette vanno contemplate, ascoltate, annusate, sentite sulla pelle come l’aria polverosa ed afosa che le pervade, quell’aria che esalta le sensazioni, gonfia e dilata il corpo espandendone il dominio, rendendolo malleabile e docile al desiderio. La scrittura di Aniello Ertico è di un’aulicità istintiva, un monolinguismo solo di rado aggredito da un aggettivo, da un verbo, contraddetto da un lampo che schianta e riduce fintamente l’attesa. Le povere cose come i cardi, il ramarro, il finocchio selvatico e quelle illustri come madrepora e protallo si mescolano fino a creare un unicum e quell’unicum si concretizza nel desiderio maschio/femmina della donna, perché nell’erotismo femminile si intrecciano corpo e mente fino a fondersi in una inscindibilità frastornante. La donna crea, trasforma, reinventa e lo fa con “la voluttà del finocchio selvatico che succhia alla terra più di quanto possa contenere”, con la palude “che scorre tra le dita come fosse ancora viva”. La donna liberata dalla finzione del pudore non è spudorata, è viva, è libera ed è creatrice; “ogni pensiero mansueto è solo resistenza”, è il lutto nella testa con cui “le vecchie assaggiano la vita”. Ma il desiderio di Makeda nasce dal fascino della saggezza di re Salomone, è per questo che non la si può seguire, non si può camminare sui suoi passi, cercare nei suoi tronchi d’ulivo, confondersi con un medesimo vento, con l’ombra immane del suo

Scirocco di Aniello Ertico, edizioni Telemaco - Acerenza (Pz) Foto di Roberto Lacava 58

finalmente scoperto maniero. Il suo viaggio lo si può esplorare, foglia tra le foglie, sabbia nella sabbia. Si può avvertire il suo palpito, il suo corpo madido, il suo profumo di erbe selvatiche, la scintilla del suo pensiero che le accende tra le gambe quella bramosia di onnipotenza che la farà tornare a Saba gravida del suo re; perché il desiderio-femmina è avido e vorace, capace di appropriarsi dell’essenza profonda e darle corpo risucchiando “il segreto adulto dell’uomo” nella trappola delle proprie viscere per rimetterlo al mondo e diventarne sovrana. Non si può seguire Makeda; si può vivere con lei, condividerne l’arcano, ascoltare i suoi silenzi echeggiati dalle cicale che “accompagnano il rito come tamburi” o il “suono che si respira marciando sul selciato di pietra”. Si può volere ciò che vuole, quello che non ha, si può sentire la sua forza ostinata e selvaggia, smarrirsi nel suo coraggio di essere l’oltre già presente e reale. Ci si può abbandonare alla terra, perché Makeda è anche terra, esuberanza di carne e aridità di scheletriche crepe della terra lucana, terra femmina e maschio, terra/cielo di volontà non taciute. Dalla A alla Z Makeda ci attraversa, siamo noi il suo tragitto e lei è il nostro viaggio. Noi siamo il vortice polveroso che le contende la meta e lei è l’orizzonte che si apre allo sguardo. Lei saprà “essere abitata” e finalmente sarà quel che vuole; noi torneremo indietro oppure sentiremo che “non è un vento qualunque quello che smuove le spighe”. “Scirocco” non si legge: si contempla, ascolta, annusa. Si sente sulla pelle.


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Isabella Morra

Se non col corpo, almen con l’alma sciolta

Alessandra Asia MOLES

Si immagini di essere Isabella e di guardare dal castello verso il Sinni - Siris nei suoi versi - un fiume navigabile da piccole imbarcazioni. “Torbido Siri, del mio mal superbo, or ch’io sento da presso il fine amaro…” Si immagini di parlare con il “torbido Siris” e di chiedergli di far tornare a casa il proprio padre. “…fa’ tu noto il mio duolo al padre caro, se mai qui ‘l torna il suo destino acerbo.” Si immagini di parlare al vento e di confidargli la propria sofferenza, di osservare dall’alto ogni tegola delle case sottostanti ed essere consapevoli del disprezzo di cui si è fatti oggetto da parte di chi non comprende una sensibilità superiore verso la natura. Solo così si può cogliere la drammatica condizione d’isolamento fisico e mentale alla quale Isabella fu costretta e si può coglierla fino in fondo leggendo le sue “Rime” e visitando la sua “Favale” (oggi Valsinni) dove nel Parco Letterario Isabella Morra ci si adopera per far rivivere la sua storia. Seppure sconosciuta alle moltitudini, infatti, la breve vita di Isabella, nata nel 1520, emoziona i visitatori, così come la vista sulla valle e sul paese dal suo castello, dove ha luogo il percorso proposto dal Parco Letterario. Nel suo esile canzoniere, le “Rime”, rivalutato nel ‘900 da Benedetto Croce, composto da 10 sonetti e 3 canzoni, racconta con vena malinconica e appassionata la sua impetuosa vicenda esistenziale. Decisivo fu l’abbandono del fratello gemello Scipione, colto e di animo gentile, e del padre, il barone Gian Michele di Morra, partigiano dei Francesi che, incorso nell’inimicizia del principe di Salerno, fu costretto a emigrare in Francia presso la corte di Francesco I. Isabella crebbe con la madre Luisa Brancaccio, chiusa nella solitudine del “denigrato sito”, sotto la tutela dei fratelli incolti e sempre più imbarbariti nel loro isolamento. Nonostante la sua emarginazione e la lontananza dalla società letteraria del Regno di Napoli, del quale la Lucania faceva parte, trovò riparo dalla sua solitudine e conforto alla sua sofferenza nelle letture dei classici, nella composizione di versi e nella corrispondenza con il governatore spagnolo di Taranto Diego Sandoval de Castro che occasionalmente soggiornava presso il feudo di Bollita (oggi Nova Siri), poco lontano da Favale. I fratelli, scoperta la corrispondenza e convinti che tra i due ci fosse una relazione amorosa, infuriati per essere stati oltraggiati nell’onore di padroni e custodi della sorella ed anche smaniosi di punire il nemico spagnolo, attuarono una tremenda vendetta, uccidendo dapprima il precettore che agevolò la corrispondenza, poi Isabella, a soli 26 anni, ed infine Sandoval. Isabella, definita la Saffo lucana, nelle “Rime” dimostra di aver ben assimilato la lezione del Petrarca, sommo maestro dei lirici cinquecenteschi, oltrepassandola. Infatti nei suoi versi, in cui alcuni critici hanno addirittura rilevato toni e tematiche che saranno care a poeti come Tasso e Leopardi, il pae60


saggio subisce una trasfigurazione lirica, diventando partecipe dei suoi stati d’animo, come il torbido Siri, testimone dell’infelicità e del pianto di Isabella, così copioso da accrescere il corso del fiume. La poesia di Isabella Morra da sempre conquista immediatamente in virtù della romantica vicenda alla quale rinviano i suoi versi, ma in questi non si trova traccia della tematica amorosa (indizio che avvalora il fatto che la corrispondenza con Sandoval fosse solo letteraria e non amorosa come sospettarono i fratelli), piuttosto in essi Isabella esprime con tragica potenza il suo tormento. La sua opera è una protesta contro il destino avverso, contro la volubilità della fortuna, contro la crudele sorte, per cui sarebbe ingiusto considerarla esclusivamente una testimonianza autobiografica, in quanto la sua voce poetica non è solo illuminante della personale storia di segregazione, solitudine e violenta morte, ma l’espressione del suo tormento e del suo dolore trascende dal privato, offrendo occasioni di meditazione e riflessioni universali. Nonostante la reiterata lamentazione per la propria sorte infelice, definita fato avaro, le sue rime divengono la voce di tutte le donne vittime di una realtà ostile, che impedisce loro la libera espressione di sé, senza però mai sfociare nel vittimismo, anzi nei suoi versi c’è un fiero compiacimento per il proprio io, simbolo di sventura. L’accettazione del proprio infelice destino terreno non è mai remissione, ma un’accorta e quasi mistica esaltazione. Le sue rime sono testimonianza della grande libertà intellettuale con cui Isabella è riuscita a riscattarsi dalla reclusione a cui era costretta, oltrepassando la finitezza del suo corpo. “Or, rivolta la mente a la Reina del ciel, con vera altissima umiltade, per le solinghe strade senza intrico mortale l’alma camina già verso il suo riposo, ch’ad altra parte il pensier non inchina, fuggendo il triste secol sì noioso, lieta e contenta in questo bosco ombroso”. Ecco il coraggio di questa giovane poetessa lucana. 61


Nel 1979 Angela Carter, poco dopo aver pubblicato La Donna

Nella camera di sangue Valentina MOLES

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Sadiana, un saggio di storia culturale basato sugli scritti del Marchese de Sade, e aver lavorato alla traduzione dei Racconti di Perrault, scrive La Camera di Sangue. L’autrice, partendo da favole della tradizione popolare, ha creato dei nuovi racconti ribaltando spesso le dinamiche di quelli originali, in particolare per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi femminili, il cui corpo, inteso in tutta la sua fisicità e sessualità, irrompe spesso sulla scena. Nei racconti ispirati a La Bella e la Bestia – La corte di Mr. Lyon e La sposa della tigre – le eroine compiono due percorsi inversi come donne-figlie all’interno di un sistema di scambio patriarcale. Con il primo la Carter effettua una riscrittura quasi puntuale della favola originale di Madame Leprince de Beaumont, arrivando a presentare una parodia del matrimonio convenzionale borghese mediante l’evoluzione della posizione sociale della protagonista, prima di possesso del padre e poi del marito: Bella dapprima viene rappresentata come una fanciulla che sembra fatta di neve, alludendo al suo status di verginità, poi da “agnello scarificale”, costretta a vivere con la Bestia, diventa un “gatto viziato”, ormai abituata ai lussi della vita coniugale. Ne La sposa della tigre, invece, quando la Bestia si mostra nudo Bella ne rimane affascinata, nonostante si tratti di un essere più tigre che uomo; per cui si avvicina alla Bestia, tornato allo stato animale, e

“SI SPOGLIA DINANZI A LUI CHE LE LECCA VIA LA PELLE,


si spoglia dinanzi a lui che le lecca via la pelle, lasciando il posto ad una splendida pelliccia. Questa volta è l’eroina a trasformarsi in bestia, simbolo di quell’istintività e sessualità che, se vissute in maniera positiva, conducono ad uno stato di autorealizzazione. Nel racconto La signora della casa dell’amore, ispirato a La bella addormentata nel bosco e ai racconti sul vampirismo, la protagonista è una giovane Contessa-vampira, che si nutre del sangue di ragazzi vergini. I termini negativi che definiscono il suo aspetto evidenziano che la bellezza non è determinata dalla perfezione delle caratteristiche fisiche, ma dall’animo che il corpo racchiude. La bellezza della Contessa, non essendo espressione di un’anima, appare come una mostruosità: pur essendo una bellissima donna viene percepita solo come una “forma”, paragonata allo scheletro di una falena per via della sua magrezza e fragilità. Dopo una lunga attesa finalmente l’amore la trasforma in un essere umano; tuttavia, per la Carter essere “umani” non significa essere giovani e belli, bensì passare ad una condizione in cui si è vittime del tempo e dei cambiamenti che comporta, perciò tale passaggio per la protagonista implica acquisire l’aspetto fisico corrispondente alla sua reale età e, inevitabilmente, morire. Gli ultimi tre racconti, Il lupo mannaro, La compagnia dei lupi e Lupo-Alice, ispirati a Cappuccetto Rosso e ai racconti sulla licantropia, rappresentano le tre tappe che portano alla maturazione individuale: nel primo la protagonista afferma la sua individualità

LASCIANDO IL POSTO AD UNA SPLENDIDA PELLICCIA”

nella società in cui vive, intuendo che la nonna è una strega e allertando gli abitanti del villaggio; nel secondo avviene l’incontro e l’accettazione dell’altro, infatti l’impavida ragazzina non ha paura del lupo mannaro che trova al posto della nonna e, anzi, si sveste, spoglia e seduce il lupo; nel terzo l’individuo mette da parte il proprio ego e si dona all’altro incondizionatamente. In quest’ultimo racconto la protagonista compie il percorso inverso delle eroine dei racconti precedenti, poiché prima scopre e accetta la sua sessualità e successivamente la sua umanità, che conquista quando compie un atto d’amore verso il Duca-licantropo che la ospita. L’amore è quindi ciò che differenzia l’umanità dalla bestialità; in questo caso poi, si tratta di un amore diverso da quello dei racconti precedenti, non basato sull’attrazione sessuale ma istintivo e misericordioso. L’esito finale di questo amore materno rappresenta anche il trionfo della femminilità, intesa nella sua essenza più profonda di forza in grado di dare la vita: Lupo-Alice con il suo amore trasforma il Duca in uomo. La Carter sigilla dunque la sua raccolta di racconti, spesso erotici e violenti, con un finale di un romanticismo quasi struggente, in cui l’umanità non necessariamente deve essere meravigliosa come in una favola tradizionale, in cui la bellezza esteriore e la bontà d’animo combaciano, ma semplicemente vera nell’espressione dei sentimenti che la animano.

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Parole senza corpo

Giuseppe PASSAVANTI

La musica delle vostre voci, orchestra

d’alate parole, chi la trattiene? Chi ode i suoni che da innumerevoli lingue di carne erompono? L’aria, più veloce e trasparente del mare ondeggiante, sostenne il volo delle parole, ben prima che ci fossero storie da raccontare, all’alba dell’uomo. Ci si scambiava parole da volto a volto, serbandole nella memoria - una sorta di instabile testo interiore ché l’aria nessun suono trattiene. Con le parole si possono dire i “prima”, le cose che non sono, le non presenti, e immaginare i “poi”; ancora, è possibile mentire, ovvero dire qualcosa al presente diversamente da come stava. Il discorso vero, se pensato in opposizione al falso, è definibile come “dire qualcosa, al presente, che sia conforme a ciò che era”. Sembriamo forse degl’ingenui, quando decidiamo di tenere separate verità e menzogna e di trattare la relazione fra parole e cose come un rispecchiamento reciproco, realizzato nel vero e mancato nel falso? In fin dei conti, dire le cose che “non sono presenti” non risulta già essere, di per sé, una specie di menzogna? Il passato, in quanto tale, certamente non è, ma era: dato che non è più, dove è andato? Nella parola,

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in qualche maniera e misteriosamente, il passato può farsi presente - si presenta, come presenza di un passato. Si è in condizione di mentire quando si abbia la possibilità di rendere presenti le cose che non sono; ancora, più originariamente, quando ci sia una memoria che trattenga il passato in una specie di presenza. Medesima è la condizione necessaria e non sufficiente al discorso veritiero. Entrambi i discorsi si riferiscono ad assenti: ciò che chiamiamo “cultura” affonda le proprie radici nella cura di assenti. Problematico è comprendere se e come le cose passate, riportate al presente, restino le stesse. C’è stato un tempo, e basta figurarselo lontano per approssimarvisi, in cui gli uomini, solo gli uomini, serbavano parole e ricordi; l’aria li conduceva da volto a volto, intrecciando bocche e orecchi, e di tempo in tempo, rannodando una presenza arricchita dagli echi di un passato rammemorato e accudito. Non vi era parola se non nell’incontro fra uomini vivi, in carne ed ossa, nel luogo minimo e primitivo del discorso, ossia nell’unità coesiva di un “qui ed ora” irripetibile. Le parole erano radicate nei corpi umani: nella esoterica materia grigia che le tratteneva, nell’apparato fonatorio che le lasciava sbocciare, nell’aria che ne sosteneva il volo, nel timpano che per primo le raccoglieva. La parola e il corpo umano crebbero insieme in un processo doppiamente retroattivo e catalitico, per cui il gioco del “suono che indica le cose che non sono” potenziò il cervello e produsse l’uomo come lo conosciamo, e un cervello potenziato sostenne giochi di suoni sempre più complessi. L’ambito del presente si allargò e si riversò nelle memorie di passati fondativi di identità culturali di tipo politico, che si sarebbero poi costituite come dispositivi collettivi per il riconoscimento del proprio e del diverso fondati sulla parola e sulla violenza e non semplicemente su quest’ultima. Specularmente crebbe lo spazio per l’immaginazione del futuro. Cosicché l’uomo imparò a vivere nel progetto, teso fra la solidità preziosa ma grave di un passato reiterato nel rito, rammemorato collettivamente, e lo slancio e l’apertura al nuovo e all’imprevedibile, vissuto nelle immagini personali o comunitarie dei


futuri possibili. L’uomo in quanto tale non è semplicemente inseparabile dal linguaggio, ma linguaggio e uomo sono cresciuti e diventati insieme ciò che sono. Dunque, in quale luogo è avvenuto tale processo di plasmazione reciproca? Solitamente pensiamo al dialogo come a uno scambio di parole fra uomini. Di certo è così, ma c’è un dialogo più sottile fra i dialoganti e i loro propri, rispettivi corpi. Il linguaggio è il prodotto di un corpo, che a sua volta è stato alterato dal linguaggio, così da adattarsi a una richiesta sempre maggiore di funzioni linguistiche superiori. La più antica e impersonale di tutte le memorie, il corpo, è il luogo in cui l’umanità dell’uomo e il suo linguaggio sono cresciuti e si sono formati nei millenni. Esistono anche parole senza corpo. Semplicemente, senza corpo umano è ogni parola scritta. Essa è muta e indifferente a chi non le riconosca una propria carica comunicativa, a chi non la sappia leggere: a chi, in definitiva, non la faccia rivivere dandole corpo. Pare che la parola senza corpo non abbia più un luogo in cui abitare. Eppure, se è scritta ad esempio su un coccio, ha una consistenza e una presenza sue proprie. Il coccio è collocato in un punto esatto dello spazio, ed è stato lavorato da un certo vasaio con la creta di un certo tale luogo e non di un altro. La parola scritta sul coccio non può vivere senza un lettore, perché si è “staccata” dall’uomo che l’ha prodotta: è come un gesto, un’indicazione, senza indicatore. L’autore del messaggio sul coccio è nascosto, resta di lui solo il messaggio. Ciò nonostante il coccio segnato, nella sua materialità, non porta con sé solo i segni della lingua che vi sono impressi, ma anche tutta la sua (ceramica) storia extratestuale. Oggi non usiamo più uomini per inviare messaggi, e nemmeno pietre, cera, cocci, papiri, pergamene, carta. Usiamo gli elettroni, più veloci di Hermes. Le parole, nell’era della rete delle reti, hanno un sostrato materiale che, propriamente, non le contiene:

un qualsiasi strumento di comunicazione collegato ad Internet ci mostra ciò che non porta dentro sé. Abracadabra, scriviamo senza curarci di sapere come tecnicamente funzionino gli strumenti di comunicazione di massa che utilizziamo in ogni contesto. Non ci curiamo di conoscere il luogo in cui i messaggi sono depositati, né, se i messaggi sono pubblici e in rete, di conoscere chi li stia leggendo. Le parole hanno un luogo e un tempo qualunque, e non c’è nessun testo fuori dal testo che ci racconti la storia di chi le ha scritte. Hanno perso luogo e tempo, perché memorizzate nell’indifferenza della materia che le conserva. Sono doppiamente senza corpo – non sono nella memoria di un uomo e conoscere il luogo ed il modo della loro memorizzazione ci è indifferente – e in più sono inaccessibili a uno sguardo privo di un lettore elettronico capace di decodifica (provate a leggere i dati conservati in un disco rigido guardandolo). Siamo immersi in un mare di parole senza tempo, senza storia, senza luogo e senza corpo: parole disumane. La musica delle vostre voci, orchestra d’alate parole, chi la trattiene? Chi ode i suoni che da innumerevoli lingue di carne erompono?

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“corpo libero“ foto di Giuseppe Satriani

La domanda, a impostazione socratica, “che cos’è il corpo”?,

attraversa l’intera storia della filosofia e ancora oggi è importante motivo di dibattito. È la filosofia del Novecento che tuttavia tematizza in modo spiccatamente originale natura e funzione del corpo, non limitandosi ad un generica nozione di esso, quanto piuttosto focalizzandosi su concetti quali “corpo vissuto” e “corpo animato” (Husserl, Sartre, Merleau-Ponty, Foucault ecc...). Queste posizioni ratificano peraltro un netto distacco rispetto alla tradizione filosofica precedente, la quale può sostanzialmente essere sintetizzata nelle concezioni di corpo inteso come “oggetto” o “rappresentazione”. Concezioni, quest’ultime, che sottendono inoltre un metafisico distacco anima-corpo, segnato dalla subordinazione del secondo termine rispetto al primo. Vanno infatti in tale direzione, ad esempio, la platonica definizione 66

Il corpo vissuto

Alessandro SABIA

del corpo come tomba-prigione dell’anima e la cartesiana separazione del corpo (res extensa) dall’anima (res cogitans). Ad ogni modo, nelle filosofie precedenti si tratta di un “corpo che ho”, posseggo e strumentalizzo, laddove in quelle novecentesche si va elaborando una nozione di “corpo quale sono”, avverto e percepisco, al punto da poter genericamente affermare: “io sono il mio corpo”. Questa svolta novecentesca, tuttavia, ha i suoi prodromi nella speculazione, marcatamente anti positivista e anti idealista, di due grandi pensatori del secolo precedente: Schopenauer e Nietzsche. Nel Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer muove da una descrizione kantiana del mondo come rappresentazione (fenomeno), ossia come un insieme di contenuti rappresentativi organizzati dal soggetto e dalle sue forme a


priori (spazio, tempo, causalità). Il filosofo seguita interrogandosi: “se il mondo è una nostra rappresentazione, è possibile andare oltre questo modo di conoscere, pervenendo ad un’esperienza più profonda: quella dell’essenza stessa del mondo non più come rappresentazione fenomenica, ma come volontà (cosa in sé)? Come è possibile squarciare il velo illusorio e ingannatore di Maya giungendo a scoprire nella volontà l’essenza del mondo”? Quale sarà dunque la via che ci conduce alla volontà, a questo strato profondo dell’essere? Per rispondere a questo interrogativo, Schopenauer fa appello agli “ultimi, profondi segreti” che l’uomo porta nel suo interno, ciò che ci “è accessibile nel modo più immediato” e che funge da “passaggio sottorraneo”, ossia l’intuizione immediata del nostro corpo. Quest’ultimo non è più considerato, nella fattispecie, come oggetto di rappresentazione sottoposto all’azione organizzatrice delle forme a priori, ma piuttosto oggetto di un’esperienza peculiare che consiste nell’avvertire se stessi come titolari di volizioni (bisogni, appettiti, desideri, impulsi, tendenze) e di atti scaturiti da queste stesse volizioni. Egli puntualizza infatti che nell’appetito, nelle tensioni, nel desiderio sessuale noi attiviamo un’esperienza del nostro corpo che ci fa andare oltre la sua caratterizzazione in termini di rappresentazione, rivelandocelo piuttosto una personificazione della volontà. Il corpo è la manifestazione esteriore delle nostre brame interiori, della nostra vita e della nostra volontà di vivere; il corpo con i suoi movimenti istintivi e incontrollabili, coi suoi processi metabolici, con i suoi apparati, la fame, la sete e le sue molteplici funzioni chimico-fisiche si presenta come qualcosa di più di un oggetto fra gli oggetti e ci esibisce una volontà che va oltre la nostra singola volontà. Non siamo “alate teste d’angelo”, afferma il filosofo, ma esseri incarnati in un corpo e proprio

il corpo diventa il mezzo per un’esplorazione che consente di oltrepassare il limite della rappresentazione del mondo e di sconfinare oltre il Velo. Una simile rivelazione ci consente allora di trascendere la conoscenza del mondo quale rappresentazione, arrivando, in definitiva, a considerare la volontà come il principio essenziale che costituisce e informa tutta la realtà. Questa riabilitazione della corporeità, come espressione originaria di una forza universale, innerva radicalmente anche la filosofia nietzscheana: “Colui che è desto e cosciente, dice: sono tutto corpo e nulla all’infuori di esso”. Per realizzare le potenzialità umane è necessario innanzitutto combattere la tirannia della razionalità (che ha prodotto una drastica svalutazione del corpo a favore dell’anima) in nome della tirannia dell’istinto, del dionisiaco, della fedeltà alla terra. Se per i filosofi il corpo è sempre stato visto come tomba dell’anima, Nietzsche capovolge il rapporto intendendo l’anima come tomba del corpo. L’uomo è il suo corpo ed è questo la scaturigine dell’io, è questo la sua “grande ragione”. Esso è quanto di più intimo vi è nell’individuo, mentre la coscienza è solo la superficie. Con toni fortemente antisoggettivisti e antiumanisti, Nietzsche sostiene infatti che tutto ciò che di sostanziale accade nell’uomo perviene dal di sotto della sfera della coscienza e precisamente da quel “saggio ignoto” che è il corpo. Questi due pensatori, in ultima analisi, costituiscono uno snodo fondamentale: se da un lato hanno il merito di riabilitare la corporeità e quindi esaltare la componente materiale e fisica dell’esistenza umana, riconoscendo al corpo vissuto uno status ontognoseologico, dall’altro, individuando nell’uomo forze e pulsioni irrazionali, decretano la bancarotta dell’io, ossia l’epilogo della sua millantata autonomia e centralità. 67


La reincarnazione e i segni di nascita

Ghino MORI

Facendo seguito all’articolo sulla Reincarnazione del numero

precedente di Sineresi, occorre aggiungere che dall’analisi di migliaia di casi esaminati da studiosi e ricercatori di tutto il mondo (tra cui figura eminente è il già citato prof. Ian Stefenson, medico e direttore dell’Istituto di Neurologia e Psichiatria dell’Università della Virginia), si possono trarre alcuni punti che ricorrono come costanti di tutta questa vasta ricerca. Ecco quelli fondamentali. La maggior parte dei bambini che ricordano una precedente vita, cominciano a farlo in un’età compresa fra i 2 e i 3 anni circa; poi, mano a mano che l’età aumenta, diminuisce la probabilità che si conservino questi ricordi, i quali verso i 6 o 7 anni sembrano sfumare del tutto. Solo una parte dei bambini con simili flashback sono in grado poi, al momento della verifica, di riconoscere realmente la famiglia e le persone legate alla probabile precedente incarnazione. Il numero più rilevante di reminiscenze riguarda persone che nella precedente vita sono decedute di morte violenta o improvvisa; quando ricorrono simili circostanze, le rievocazioni sembrano essere più vivide rispetto a quelle che si riferiscono a soggetti vissuti fino a tarda età e deceduti per cause naturali. Vi sono poi casi in cui i bambini con ricordi mostrano conoscenze concettuali e capacità teoriche e pratiche incomprensibili se confrontate con l’ambiente di nascita

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e l’educazione ricevuta. Ma l’aspetto più interessante che scaturisce dalle ricerche sull’ipotesi reincarnativa, è quello riguardante i cosiddetti “segni di nascita”, vale a dire cicatrici, segni particolari o malformazioni corporee che sono, con ogni probabilità, da mettere in relazione con le cause di morte della precedente esistenza. Segni che alla nascita e ad una prima osservazione risultano misteriosi, e trovano un barlume di spiegazione negli anni successivi, allorché il bambino comincia a rievocare storie che sembrano giustificare simili anomalie. E’ come se l’esperienza tragica e mortale si imprimesse nel deposito mnemonico dello spirito, e questo ricordo lasciasse poi traccia di sé sulla pagina ancora bianca del corpo del nascituro nel corso dello sviluppo embrionale relativo alla nuova incarnazione. La casistica più vasta riguarda i paesi asiatici, quelli cioè nei quali si crede alla dottrina delle rinascite e dove i ricordi dei bambini vengono presi sul serio e seguiti con attenzione; a differenza di quanto può accadere nella parte di mondo non reincarnazionista, dove queste memorie vengono considerate fantasie infantili (anche se le ricerche di Ian Stefenson comprendono pure casi americani ed europei). Sul numero di aprile 2014 della rivista di paranormale “Luce e


Ombra”, in un articolo su questo argomento, Paola Giovetti cita lo studio di due ricercatori docenti universitari in America e Australia, Jim Tucker e Jurgen Keil, che stanno proseguendo le ricerche dello Stevenson relative ai “segni di nascita sperimentali”. Perché sperimentali? A prescindere da tagli, lesioni, ferite, colpi che la persona senza volerlo ha subito sul proprio corpo in situazioni tragiche, ad esempio le guerre, in alcuni paesi asiatici come la Tailandia e il Myanmar, vige la consuetudine di imprimere segni particolari sui corpi delle persone morenti, essendo convinti che quando quell’anima nascerà a nuova vita, il neonato si porterà addosso quello stesso segno. In questi paesi, già Stevenson aveva studiato decine di casi e in quasi tutti, nel confronto effettuato con i parenti, aveva riscontrato che il bambino era nato recando sul nuovo corpo segni uguali o simili a quelli praticati sulla persona defunta. Il che forse testimonia del fatto che la cultura appresa fa sentire i suoi effetti anche sulle dinamiche psicologiche (quindi psicosomatiche!) della mente di uno spirito che passa dal vecchio al nuovo organismo. E’ il caso ad esempio di una piccola tailandese di 5 o 6 anni, A.W., di cui il nonno sessantenne era morto 5 anni prima della nascita della bambina. Una delle figlie del signore morente (futu-

ra zia della bambina A.W.) ebbe l’idea di praticare sulla caviglia destra di suo padre un segno con la fuliggine di una pentola, desiderando intensamente che suo padre portasse con sé quel segno se fosse rinato. Alla nascita, la piccola A.W. (il cui spirito evidentemente, questa volta, “aveva scelto” di vivere in un corpo femminile), recava sulla caviglia destra una grossa “voglia” che, a detta dei parenti, corrispondeva esattamente a quello realizzato sul corpo del nonno. Fatto curioso, nei primi anni di vita la bambina mostrava interessi e inclinazioni maschili e voleva urinare stando in piedi. In conclusione, se si accetta che noi siamo un “quid psichico” che, per le proprie esperienze evolutive sulla terra, utilizza un corpo e sopravvive ad esso quando il corpo muore, questo tipo di fenomeno non deve meravigliarci più di tanto! Visto che le nozioni di psicosomatica sono entrate ormai a far parte della cultura dell’Occidente, e nessuno più si stupisce se si dice che un mal di stomaco o un mal di testa o un’asma bronchiale sono il riverbero di una dinamica psicologica, non diversamente si esprime il processo del “segno di nascita”, dove la dinamica psichica si svolge anziché in una mente già corredata di un corpo, in una mente che il corpo sta per acquisirlo.

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Mimmo CECERE

La recente designazione di Matera “Capitale Europea della Cul-

tura 2019” è un evento che non può riguardare la sola città dei Sassi. Il coinvolgimento di altri comuni della Basilicata, nelle manifestazioni che seguiranno, non è solo auspicabile ma necessario. Questo ambìto traguardo è un’opportunità straordinaria per far conoscere, in primo luogo alle stesse genti lucane, il ricco e misconosciuto patrimonio artistico regionale. Realizzare una rete delle opere d’arte, presenti nei diversi comuni della regione, è il primo passo per la creazione d’itinerari turistici a tema. Due esempi: le opere dei pittori veneti in Lucania (Lazzaro Bastiani, Mantegna, Cima da Conegliano) e i Polittici di Simone da Firenze (Stigliano, Senise, Salandra, San Chirico Raparo, Maratea). Per motivi a noi ignoti «in Lucania - scrive, negli anni ’70, A. Rizzi - si conservano opere di due pittori toscani la cui attività non è altrove documentata. Essi sono Bartolomeo da Pistoia, che lasciò il suo nome nel trittico della parrocchiale di Calciano del 1503, e Simone da Firenze» che, al contrario, ha lasciato numerose opere. Simone appartiene alla cerchia di artisti che, sconosciuti nei grandi centri d’arte, risultano presenti in località minori e periferiche; nel nostro caso in Lucania dove ha lasciato gran parte del suo corpus pittorico, al punto da legarsi artisticamente a questa terra. Per quanto concerne il Polittico di Stigliano, è bene ricordare che dei quattordici dipinti che compongono l’opera solo quelli della cimasa sono attribuiti alla mano di Simone. Gli altri nove, al contrario, sono stati profondamente modificati da un pessimo restauro ottocentesco. Ma chi è Simone da Firenze? Della sua vita, della bottega dove apprese il mestiere, o della sua presunta vocazione ministeriale ignoriamo tutto. Non sappiamo neppure i motivi o le circostanze che l’indussero ad abbandonare il capoluogo toscano, nei primi anni del Cinquecento, per raggiungere le isolate terre di Lucania. Simone è un artista dotato di uno stile personale dai rimandi tardo-quattrocenteschi, ed è il pittore rinascimentale più documentato in Lucania. Trattandosi di dipinti destinati a chie70

LUCANIA INVENIENDA

Il polittico di Stigliano

se annesse a conventi francescani, qualcuno ha ipotizzato che si trattasse di un frate, anche se non vi è alcuna testimonianza della sua vocazione ministeriale. La parte più interessante del Polittico di Stigliano è la sua intelaiatura lignea. L’imponente cornice è, nel suo genere, la più monumentale della Basilicata. Priva della predella, che in origine doveva essere certamente presente, misura m. 5.45 di larghezza per m. 6.00 d’altezza. La pala è ripartita in due ordini, suddivisi in cinque registri verticali e 14 scomparti, conchiusi da una cimasa. All’esterno dei riquadri compaiono figure dipinte, sculture in altorilievo e a tutto tondo e decorazioni in oro. Al centro della serliana centrale – sormontata da due puttini reggi corona - si erge la statua della Madonna delle Grazie, il cui andamento sinuoso ed allungato fa riecheggiare reminiscenze tardo-gotiche. Ai due lati della fascia centrale, invece, emergono i tondi con le sculture ad alto rilievo dei quattro evangelisti. Al centro del fregio, un’iscrizione in oro, su fondo turchese, riporta la dedica ad Antonio Carafa e la data d’esecuzione del Polittico: 1521. Nel cartiglio, Antonio Carafa, è indicato come duca perché il titolo di Principe di Stigliano gli verrà conferito l’anno successivo. Una parte degli studiosi che si sono occupati dell’intelaiatura lignea concordano nell’attribuire l’imponente cornice ad una bottega locale che, secondo il Naldi, era dislocata tra la Val Basento e la Val d’Agri. Il “Maestro del Polittico di Stigliano” – questo è il nome che è stato assegnato all’ignoto scultore del monumentale retablo - dà l’impressione di aver avuto contatti con l’ambiente culturale napoletano, come testimonia il coevo gruppo scultoreo della “Sant’Anna Metterza”, presente nella stessa Chiesa Madre. Stigliano nel Cinquecento non ha ancora assunto quella centralità politica e amministrativa che avrà nel Seicento. Tuttavia, essere stata la sede del feudo dei Carafa potrebbe aver favorito, in questo territorio, la presenza di un’importante bottega d’arte. Il Polittico restò a lungo nella Chiesa della Madonna delle Grazie, annessa al Convento di Sant’Antonio di Padova dei Minori Osservanti. Nel 1842, a causa del pessimo stato dell’edificio, le autorità del tempo fecero trasferire l’opera nel coro della Chiesa Madre, dove ancora oggi è possibile ammirarla.


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LA GALLERIA D’ARTE INTERNAZIONALE E IL CENTRO STUDI DELLA CULTURA MEDITERRANEA “Porta Coeli” è una galleria d’arte internazionale con sede a Venosa nel seicentesco “Palazzo Rapolla”, ubicato alle spalle di Piazza Orazio, proprio nel cuore del centro storico. Nato come innovativo spazio espositivo, col tempo si è evoluta in Centro Studi della Cultura Mediterranea, proponendosi a visitatori ed appassionati con una suggestiva commistione di espressioni artistiche. Due le sezioni: la prima di Arte Sacra, dedicata alla pietà popolare con incisioni, litografie ed una ricca esposizione di icone bizantine di scuola cretese; la seconda di arte contemporanea che in via continuativa propone opere di artisti di levatura nazionale ed internazionale. Per garantire la conoscenza e la valorizzazione della cultura mediterranea “Porta Coeli” realizza attività di studio e di ricerca attraverso seminari, laboratori, premi letterari e si fa promotrice di artisti emergenti. La Galleria ad oggi ha già all’attivo numerose mostre personali e collettive, ed ha sottoscritto nel tempo importanti partenariati con organismi ed enti, nazionali ed internazionali, come la Florence Biennale di Firenze, il Monastero Ortodosso di Lepanto (Grecia), il Souq Waqif Art Center di Doha (Qatar), i Bastioni - Associazione per la ricerca e lo studio delle opere d’arte” di Firenze. 72


Palazzo Rapolla - Sede Porta Coeli - Via San Domenico - Venosa (Pz)

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Porta Coeli International Art Gallery vanta un’esperienza pluriennale nel campo dell’arte e della ricerca artistica, e dopo diverse iniziative formative come comitato non profit, si costituisce in Ente di Formazione ottenendo l’accreditamento presso la Regione Basilicata: nasce così Porta Coeli Academy. Tale accreditamento ci consente di rilasciare titoli spendibili nel mondo del lavoro; tutte le certificazioni e le qualifiche, ottenute alla fine del percorso di formazione, hanno valore curriculare riconosciuto in tutti i paesi dell’Unione Europea. A seguito di un’attenta analisi, infatti, e consapevoli della necessità di internazionalizzare le conoscenze per essere davvero competitivi nel mercato globale del lavoro, Porta Coeli Academy si propone di formare figure altamente specializzate nei settori trainanti dell’economia della cultura prima e di tutti quei settori strategici in grado di rispondere alle nuove esigenze che emergono nel mondo del lavoro di oggi. Gli ultimi anni sono stati segnati da profondi cambiamenti che hanno portato operatori e organizzazioni culturali, e non solo, a ripensare il proprio ruolo e le proprie attività. Diventa quindi fondamentale utilizzare strumenti e approcci nuovi, innovare i linguaggi e costruire relazioni tra discipline diverse, per formare figure capaci di gestire processi complessi ed adottare un approccio strategico, che combina obiettivi di medio periodo con gli impatti culturali, sociali ed economici che possono essere sviluppati nel tempo. La nostra formazione si rivolge sia ai giovani che vogliono approfondire in maniera pragmatica e specialistica la propria preparazione o trovare nuove strade per affermarsi nel mondo del lavoro, sia ai professionisti interessati ad arricchire il proprio bagaglio di competenze, ad aggiornarsi e ad essere sempre competitivi nel pro-

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prio settore. Restando fedeli alla passione per l’arte e la cultura che ha ispirato da sempre le nostre iniziative, una parte della formazione è dedicata a tutti quegli aspetti legati alla conoscenza e al perfezionamento delle tecniche artistiche, della storia dell’arte, delle attività di curatela artistica, di allestimento, solo per fare alcuni esempi. Infatti, con l’obiettivo di rispondere anche alle esigenze provenienti dal mercato estero della formazione nel campo artistico in tutte le sue forme, Porta Coeli Academy progetta e realizza percorsi specifici. Tra le attività presenti all’interno del nostro ente di formazione c’è anche quella del restauro che si avvale dell’accordo di partenariato sottoscritto con l’Associazione I Bastioni di Firenze nata con lo scopo di avvicinare conservatori e restauratori con specializzazioni specifiche nella tutela e il recupero dei beni culturali. Un vero e proprio laboratorio di restauro per le opere d’arte che vede uno spazio dedicato all’interno della nostra struttura La nostra sede, ubicata in uno dei più antichi palazzi storici di Venosa, offre la possibilità di seguire le attività formative all’interno degli ambienti espositivi, circondati da opere d’arte. Le aule didattiche, infatti, si articolano sui due piani dedicati alle esposizioni di arte contemporanea e di arte sacra. Ad un corpo docente referenziato, selezionato ad hoc per i percorsi formativi che di volta in volta si realizzeranno, si affiancano attrezzature e metodologie didattiche e laboratoriali efficaci ed innovative. Uno staff interno dinamico e qualificato, si occuperà di progettare, organizzare e gestire la formazione che Porta Coeli Academy realizzerà, curandone con la massima attenzione e professionalità ogni aspetto.

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Vico San Domenico - Venosa - PZ

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