Sineresi n. 3

Page 1


Trimestrale edito dall’associazione PAN - Centro di produzione culturale Via Flavio Gioia, 1 - Brindisi di Montagna (Pz) Tel. 342 32 51 054 e-mail: sineresi.sineresi@yahoo.com www.sineresiildirittodiessereeretici.it

Direttore Anna R. G. Rivelli

Referenze fotografiche Amelio Taddeo Pino Lauria

Collaboratori Rossella Batassa - Sara Errico - Aniello Ertico - Donato Faruolo - Fiorella Fiore - Cristiana Elena Iannelli - Alessandra Asia Moles - Valentina Moles - Ghino Mori Giuseppe Passavanti Grazia Pastore - Rocco Romanelli - Mara Sabia - Vito Santarsiero

Impaginazione e stampa Vincenzo Cristiano Responsabile sito web Daniele M. G. Cafarelli

Direttore responsabile Angela Maria Salvatore

Prezzo di una copia + inserto € 10,00 Abbonamento solo sostenitori € 50,00 Estero € 70,00 Per richiesta abbonamenti info: sineresi.sineresi@yahoo.com

Responsabile editoriale Giovanni Cafarelli Progretto Grafico Salvatore Comminiello

Registrazione Tribunale di Potenza n.457 del 13 agosto 2015

Segreteria Roberto M. G. Cafarelli

Sommario

. .

.

. . .

.

.

.

. . . .

Guarderemo ancora le stelle Sans dieu La dimensione del sacro nell’arte contemporanea Si fece carne L’artista e l’uomo dentro un ex voto Il Cristo immanente Dal vangelo secondo Bansky Per l’Amor di Dio Senza dogmi La morte si fa bella Miei furono pennelli d’eresia e tele nefaste e sacre Eludendo lo sguardo degli Angeli I want to play God Tra preghiera, idolatria e bestemmia La luce e il mistero Apologia dell’incompiuto Dio Luce, Dio uomo, Dio Morte Dio o della voce del poeta Dopo il silenzio dell’universo Appunti rapsodici Dio infiniti dei Come porte di altri mondi Come Efesto Quasi un dio

. .

II

.

. .

. .

.

.

.


Ai morti di Orlando, ai morti ammazzati in nome di un dio

Dio, il suo volto inafferrabile, i suoi tanti nomi, le sue

infinite declinazioni.

Dio letto dai poeti, dagli artisti, dai filosofi; reinventato, nascosto, spogliato. Dio uomo, dio donna, vecchio e bambino. Dio nel passato e Dio nel tempo nostro. Qual è la chiave per la sua porta? La

molteplicità: questa è la chiave. I mille occhi che lo guardano, ciascuno

a suo modo, che lo ingigantiscono e moltiplicano in cielo, in terra e in ogni luogo; cosicché o ogni dio è

un brandello dello stesso dio - da scandire solo in

sillabe di Libertà ed Amore- o un dio neanche esiste, e forse è solo un gadget promozionale,

pubblicità ingannevole per un giro di giostra senza luci. E il nostro dio oggi è gay; ha appena fatto coming out sulla strage di Orlando; è donna, giovane donna lapidata; è un animale che non ha scelto di esserlo; è un profugo senza più dignità di uomo. E il nostro vangelo è l’arte, perché l’arte è un esperanto che di confini non ne vuol sapere, né sa di stereotipi o di regole imposte. L’arte è il miracolo della creazione che si rinnova, la settimana più lunga dell’universo; è lo specchio magico che riflette il pensiero; è l’estasi dell’umanità, carne di Dio. Dio. Qual è la chiave per la sua porta? La vita: questa è la chiave. Anna R. G. Rivelli

1


Guarderemo ancora le stelle

Giuseppe Passavanti

Ci hanno rubato il buio, con la scusa della civiltà. Le notti ora hanno il sapore di tungsteno, iodio, bromo, kripton e xeno, come esotici richiami a nobilitati ottetti atomici. Le stelle non si guardano più al buio, né alzando a tempo debito lo sguardo al cielo. Occhi artificiali e lontani catturano messaggi altrimenti invisibili, mentre altrove menti educate alle scienze esatte calcolano e ipotizzano nuove cosmogonie. Ma Orione, cacciatore celeste, percorre il proprio giro, sebbene solitario e dimenticato. Corriamo anche noi, persi nel flusso incessante di informazioni, merci e denaro, ridotti a variabile economica: censiti, misurati, scansionati, pesati, statisticamente dissanguati. Mentre diffondiamo e moltiplichiamo le nostre immagini, eco di un io sbiadito e ottenebrato, perdiamo le fila di un discorso senza senso. Svuotato è l’antico richiamo silente che di silenzi è tramato. Nonostante tutto, sentiamo nel fondo del nostro essere una specie di nostalgia. Nei canti che ancora qualcuno ricorda, gli uomini ammaestrati dal cielo hanno cantato questa nostalgia. A noi mancano non solo le parole per descriverla, ma la consapevolezza di esserne preda. Ci resta soltanto l’incancellabile sensazione di un dolore vago, che proviamo ad ammutolire nel bulimico consumarci e consumare compulsivi. Nostalgia significa dolore per il ritorno. Per secoli, più che alla terra, abbiamo pensato al cielo come luogo della nostra origine. Il manto stellato è stato il nostro primo maestro di geometria, di storia, di poesia, antichissimo padre dell’uomo. La fonte della sapienza e la sorgente dell’essere meravigliosamente coincidevano. Innumerevoli uomini hanno lanciato invocazioni, imprecato, benedetto, esortato, difeso, scrutato la volta celeste. Un celebre ateniese disse addirittura che l’uomo è pianta le cui radici sono piantate nel cielo. Noi uomini, perso del cielo contezza e


conforto, vaghiamo nella più buia delle notti, quella dell’assenza del divino: così cantò un poeta tedesco folle, rinchiuso nella torre d’un falegname a Tubinga. La sensazione di doloroso disorientamento, paradossale nell’età della localizzazione satellitare in tasca a ciascuno, è segno dell’altezza della nostra dignità. Non sappiamo d’avere nostalgia, eppure soffriamo. Ha ancora potere su di noi il richiamo di casa, nonostante non ne abbiamo memoria, visione, coscienza. L’infinito ha lasciato una traccia in noi, un varco doloroso e stupefacente, l’indicazione di un indicibile tracotanza di essere. Deità, l’essenza del divino, è il nome che diamo alla più profonda delle assenze, alla più inoggettivabile delle non entità. In Dio è una indicazione paradossale, contraddittoria. L’arte di ogni tempo parla di qualcosa d’indicibile, traccia i confini dello sconfinato, indica l’impossibile: attraversa la faglia dolorosa, la frattura interiore che è forma dell’allontanamento da sé, interrogando in una risposta, in ogni risposta, l’Origine. Intorno al principio sono disposti tutti i sistemi di pensiero passati, come costellazioni di tentativi falliti di pronunciare il nome del vero, come forme imperfette di richiamo abissale ordinate in una storia d’errori grandiosi. Certo, l’imperfezione dei frutti dell’ingegno umano non è da intendersi in senso deteriore. Posta la volontà d’esprimere l’indicibile, l’errore si fa necessario, e l’imperfezione si complica in enigma. Possiamo tentare la condensazione dei significati, dire ancora e ancora l’inesauribile, se coinvolti in una dinamica globale di alienazione e distrazione delle coscienze? Il richiamo nascosto nel fondo del nostro essere, nonstante tutto, sembra insopprimibile. Nel mare del tempo, il cielo attende silenzioso che l’uomo di lui si ricordi.


Sans dieu

Artaud, Vautier, Fontana e la fine di Dio Roberto Lacarbonara

La rinuncia a dio, la sua cancellazione, la rimozione dello statuto ontologico e teleologico della trascendenza segna uno dei punti più controversi nella ricerca artistica e filosofica del Novecento. La fuoriuscita dal secondo conflitto mondiale rappresenta un momento radicale nel disfacimento della fede, manifestando la piena bestialità e disumanità dell’uomo, quella creatura perfetta e simulacrale in grado di proiettare in terra l’ombra del dio della Scrittura. All’indomani del conflitto, l’inquieta interrogazione del sacro conduce a un deciso ripensamento della relazione mistica tra uomo e dio e della funzione religiosa delle istituzioni ecclesiastiche. Ci si chiede: a chi giova l’invenzione di un dio? E la domanda continua a segnare profondamente il nostro tempo di conflitti culturali e religiosi sempre più estesi, giocati sull’ambiguità stessa della fede come “ideologia”, come ragione e regione dello scontro tra culture. Nel 1948 l’urlo atterrito di Antonin Artaud manifesta la piena divaricazione, ormai insanabile, tra l’idea di dio e quella della morale. “Per farla finita col giudizio di Dio” attesta la definitiva realizzazione dell’assunto preconizzato da Nietzsche ne “La gaia scienza” del 1882, ovvero l’avvento del tempo degli dèi fuggiti, che recano le spalle all’uomo, che smettono di agire per mezzo della potenza di uno sguardo che osserva, misura, giudica. È la fine del principio moralizzante e, con esso, la liberazione dal senso di oppressione e dal senso di colpa dell’uomo occidentale.

4

Ben Vautier - Jeter Dieu a la mer, 1962


Il testo, nato per una messa in onda radiofonica e censurato già sul nascere, sarà rappresentato pubblicamente solo nel 1999, trasmesso da Radio France. Artaud propone la storia crudele di un padre che sovverte ogni legge morale uccidendo i figli e violentando la figlia. Alla fine la figlia ucciderà il padre, ma per questo sarà condannata a morte da una società che necessita di ordini precostituiti, giusti o sbagliati che siano, rimettendo il vero giudizio assoluto, alienato da ogni responsabilità terrena, a Dio. Artaud il folle, Artaud il blasfemo, Artaud libero da ogni condizionamento sovrastrutturale, può gridare al mondo la sua amara verità, agendo con parole che diventano forti, crudeli, terribili. Se l’atto straziante di Artaud si produce nell’urlo e nella rabbia, nella denuncia e nella vergogna, la performance di un altro francese, a distanza di un quindicennio, avrà toni e forme totalmente differenti. “Gettare dio a mare”, l’azione di Ben Vautier del 1962, enuncia la consapevolezza ironica di dover presto racchiudere (il problema di) dio entro una scatola, 80x100 cm, misurabile, manipolabile, controllabile. Dio non è più una fonte di giudizio da cui star lontani: egli è piuttosto un sapere archiviabile e un vecchio dogma di cui disfarsi. Nessun problema morale, niente di niente. Si getta a mare quello che qualcuno, un giorno, troverà fortuitamente, alla stregua di un messaggio in bottiglia. E quel giorno, forse, dio risorgerà, lontano da qui. Al di là. “La fine di Dio”, di lì a pochi anni, non sarà in

5


realtà così netta e definitiva. Impossibile disfarsene così radicalmente. Assisteremo piuttosto ad una lenta e inarrestabile agonia, non solo nel cuore della morale e della cultura occidentale, ma soprattutto nella rappresentazione e nelle forme estetiche. Con la serie di opere dal titolo citato, Lucio Fontana opera un capovolgimento straordinario della questione. La sua non è un’azione di critica sociale, né un atto di rivolta verso le forme della teosofia, bensì uno spossessamento della verità a favore dell’arte: la fine di dio è la fine della possibilità di “dire” dio, di ammettere una forma o una parola, di fermare la sua infinitudine nelle categorie del religioso, del mistico e del figurato. “Poi venne la Fine di Dio – ammette Fontana – [...] Naturalmente la Fine di Dio non è intesa nel senso religioso cattolico. La Fine di Dio per me significa l’Infinito, la cosa inconcepibile, la fine della figurazione, il principio del nulla”. Tra marzo 1963 e febbraio 1964 Fontana lavora alla serie degli ovali monocromi, feriti dalle lacerazioni dei suoi tagli e buchi. Una produzione che investiga le forme di Piero della Francesca con il tormento di Francis Bacon, che piega il fondo aureo bizantino allo spazialismo post-rinascimentale del Manifesto blanco. A distanza di 50 anni, Maurizio Cattelan porrà di fronte all’opera di Fontana un piccolo Adolf Hitler genuflesso (Gagosian Gallery, 2014).

6

Ben Vautier - Attettion cette boite, 1966


È una fine paradossale e aporetica. Una fine che ha tutta l’intenzione di operare uno squarcio nel rimosso della storia collettiva, auspicando un’apertura ed un sentiero verso una nuova visione e una nuova, rinnovata sensibilità.

Lucio Fontana Concetto spaziale - la fine di Dio, 1964

7


La dimensione del sacro nell’arte contemporanea Per una sacralità dell’incarnazione Antonio Leone

L’eclissarsi delle ideologie totalizzanti, che pretendevano di offrire risposte ad ogni domanda di senso a partire da una posizione dogmatica, e quindi l’attuale impossibilità di concepire visioni globali ed univoche con la conseguente frammentazione e dissoluzione dei principi-valori, ha portato al costituirsi di quella che viene definita da Lyotard « crisi dei fondamenti o delle meta-narrazioni »1, legata all’assunto nietzschiano “della morte di Dio”. All’interno di questo percorso, lo stesso rapporto con il sacro è rimesso al vaglio, all’interno di una dialettica volta a risignificare i codici espressivi, tendente alla ri-costruzione (o distruzione) di senso. Produzioni di artisti come Serrano, Hirst, Mapplethorpe, Wallinger, Kiki Smith, etc... e studi di autori come Danto, Foster, Kristeva, Heartney, permettono di definire una sensibilità tesa alla decostruzione del piano simbolico cristiano tendente a riguadagnare un rapporto con il sacro in un’accezione più lata e laica, delineando un nuovo senso dello spirituale fondato sulla costitutiva carnalità dell’uomo, definendo il sacro come territorio dell’immanenza. È il caso di citare Josè Saramago che nel Il Vangelo secondo Gesù Cristo, ricostruisce la vita di Gesù attraverso la narrazione in prima persona dello stesso protagonista. La focalizzazione interna rilegge l’enunciato evangelico in chiave intima e personale. Emerge così la figura di un Cristo incarnato, di un uomo completamente immerso nella drammaticità del reale, vittima, come tutti gli uomini, della collera, del risentimento, ma anche della gioia e della passione: un uomo dubbioso e perplesso, martire delle macchinazioni di un Dio spietato e inumano, calcolatore e razionale. Emerge l’eterna dicotomia tra umano e divino, ove Cristo è il portare di una spiritualità prettamente terrena, incarnata. In Untitled (1995-

8


1997) di Rober Gober, l’utilizzo della simbologia religiosa come enunciato di validità universale, è metafora della lacerata immanenza dell’uomo. Nei suoi lavori l’artista esprime la coscienza del corpo come luogo in cui si cicatrizzano i traumi, come luogo della frammentazione e della non conciliazione. Gober raffigura una Madonna letteralmente sventrata da un tubo circolare; utilizzando l’immagine universale del Corpo (Immacolato) denuncia l’agghiacciante lacerazione insita nel rapporto tra io e corpo e la determinazione del corpo soggetto ai meccanismi di mortificazione sociale, di repressione e agli stereotipi di natura borghese. Gober non prescinde dal fatto di essere omosessuale e tende ad evidenziare nei suoi lavori, essendone coinvolto in prima persona, le frustranti dinamiche sociali che lo coinvolgono. L’americano Andres Serrano, di cui sono note le contestate opere Piss Christ e Piss Light (1987), ha sempre mostrato una forte attrazione verso il simbolismo cattolico, non solo verso l’iconografia ma anche verso l’intero sistema organizzativo, dalla rappresentazione dei soggetti protagonisti (preti, suore, ecclesiastici), agli edifici, entrambi ritratti nella serie The Church (1991). Un’attrazione che tende ad essere nelle intenzioni dell’artista più visuale ed estetica piuttosto che filosofica, sostenendo di essere attratto più dall’immaginario cattolico che dalle sue complessità teologiche. Tra il 1996 ed il 1997 l’artista lavora al ciclo A History of sex, una serie di fotografie realizzate con l’intento di rappresentare la sessualità umana nelle sue varie forme, soprattutto quelle considerate tabù oppure socialmente inaccettabili. Ancora una volta Serrano affronta il complesso legame tra sfera sessuale e quella religiosa dando spazio ad aspetti repressi della cultura con-

Mark Wallinger - Ecce Homo

9


temporanea. In The Interpretation of Dreams (The Other Christ) (2001), una pietà che rimanda ad una compostezza classica, il Cristo rappresentato da un uomo di colore, attualizza riflessioni cruciali in chiave contemporanea. Di Damien Hirst è la serie Jesus Disceples (1994), un’istallazione composta da dodici teche contenenti ognuna la testa di una mucca sotto formalina, metafora eloquente di «come l’idea di religione oggi sia decapitata ». L’artista britannico, al di là dell’esplicito intento dissacratore, sembra voler recidere l’atteggiamento di pietas, fondamento della stessa morale cristiana, sottoponendo ad uno sguardo incessante la morte stessa. Le sue opere più rappresentative da A thousand years (1990), Pharmacy (1992), Love cost (2000) riproducono l’aspetto sacrale del rapporto tra la vita e la morte. La mostra Romance in the Age of Uncertainty (2003) è segnata dalla rivisitazione dei grandi temi dell’iconografia religiosa. La rappresentazione, pur subendo profonde e deturpanti variazioni formali, ne salva l’enunciato caricandolo di valenze archetipe ed universali. Così nella serie Cancer Cronocles (2003) la simbologia legata ai martìri veicola una riflessione sulle disastrose conseguenze derivate dalle malattie che minacciano e colpiscono le popolazioni disagiate. La serie su Adam and Eve Banisched from Paradise (2000- 2004), rappresentano la trasposizione del primo uomo e della prima donna da un perduto Eden a un, non più abbandonabile, obitorio. Negata ogni trascendenza per cui « nulla è sacro » il corpo, non più solo ancora terrena ma unico dato possibile, è affidato alle indagini di, poco scrupolosi, medici legali. L’opera Resurrection (1998-2003) porta alle estreme conseguenze quanto affermato. La trascendenza viene recisa di netto, ciò che è è il dato, ovvero lo scheletro immobile appeso alla croce. La mostra di Hirst inaugurata nel 2006 nella Galleria Hilario Galguera, si affida ad un titolo che lascia assai poco spaAndres Serrano

10


Andres Serrano

Andres Serrano

Mark Wallinger

zio alle interpretazioni: La muerte de Dios. Mark Wallinger ha esposto nel 2001, tra le polemiche dei giornali, un Cristo sul quarto plinto di Trafalgar Square. Ecce Homo è un calco d’uomo nudo, a grandezza naturale e distinto da un comune mortale solamente dalla corona di spine. La questione fondamentale del lavoro di Wallinger è il credere stesso. L’artista ha volutamente rivendicato il carattere umano e terreno della figura di Cristo, riducendola a uomo tra gli uomini. L’opera dichiarava il voluto annullamento della distanza tra il piano divino e umano, motivo per cui fu censurata e ritenuta scandalosa. « The Catholic question haunts writing about Mapplethorpe », scrive Elenanor Heartney in un saggio sul rapporto tra religione e postmoderno. Lo stesso artista in un’intervista del 1998 con Janet Kardon riconosce l’impatto formale del cattolicesimo nel suo lavoro. Sempre la Kardon individua nelle fotografie dei fiori di Mapplethorpe la più grande evidenza della sua origine cattolica: « perchè i fiori sono presentati in uno stato di perfezione assoluta, sono un segno più sacro che profano. Questi fiori sembrano emergere da un’atmosfera rarefatta nella quale la natura, come il Paradiso, è in mostra ». Nella sua interpretazione del cattolicesimo di Mapplethorpe, Dave Hockey in The Invisible Dragon: Four Essays on Beauty, sembra vicino ad una valutazione di carattere mistico quando suggerisce che lo X Portfolio (1978) esige dagli osservatori una « sottomissione estetica analoga alla sottomissione sessuale e spirituale ». La rivisitazione dell’iconografia religiosa tende a rivalutare il rapporto con il divino, rendendo divina la stessa carnalità: in questo senso sembra dover essere considerata letteralmente l’affermazione di Mapplethorpe che interrogato su ciò che per lui era sacro rispose laconico: il sesso.

Robert Gober

11


Si fece carne

Quando l’Arte dialoga col Sacro

Federica Chezzi

Per non sbagliare o, meglio, per cercaze (invano, naturalmente) di non sbagliare, può essere di grande aiuto avere dei maestri da seguire; così è nata la scelta di costruire la mostra attorno allo straordinario ex voto di Yves Klein. La sincera invocazione a una delle sante più popolari della tradizione italiana da parte di uno dei più anticonformisti, raffinati e spregiudicati artisti del Novecento, rappresenta – credo – una sorta di memento mori per chiunque voglia avvicinarsi al tema dell’arte nel suo rapporto con il sacro. E l’altro punto fermo è stato quel Si fece carne del titolo, espressione della volontà di rendere tangibile questa relazione, di farla divenire carne, concretezza, sostanza. È del resto proprio sulla carnalità che si distingue l’assunto cattolico da quello delle altre grandi religioni monoteiste, il Dio che si fa uomo, cioè carne e sangue. “Per quanto riguarda in generale il rapporto con le immagini – scrive la storica Maria Bettetini – a un primo sguardo teorico sulla religione cristiana emergono subito alcuni elementi che dovrebbero far pensare a una piena accettazione e a una valorizzazione dell’immagine, e soprattutto dell’immagine sacra. Infatti, il dogma dell’incarnazione e insieme la commistione tra teologia cattolica e filosofia neoplatonica avrebbero dovuto portare a una valutazione positiva dei ritratti di un Dio che ha preso (e mantiene, dopo la resurrezione) un corpo […]”. Vi sono stati episodi d’iconoclastia anche nella storia del cristianesimo, ma “il popolo cristiano non sembra accogliere questa proibizione”. È quindi evidente che anche tutto ciò che si prende cura, esteticamente parlando, dell’oggetto sacro (pen-

12

siamo alla preziosità di certe cornici) non sarà considerato “abbellimento superfluo” come avrebbe sostenuto Kant, ma piuttosto un modo per “offrire omaggio nel solo modo che si conosca – scrive il filosofo Arthur Danto – all’essere che è rappresentato nell’immagine”. Negli anni più tragici della storia d’Italia Renato Guttuso eseguì una Crocifissione (1941) che fu censurata dal regime fascista per empietà (ma alla quale fu comunque aggiudicato il secondo posto del “Premio Bergamo” diretto da Bottai) e per la quale arrivò addirittura l’interdizione della Curia. Non tutti, però, dentro la stessa Chiesa, furono d’accordo: il grande umanista don Giuseppe De Luca, grande amico di Giacomo Manzù, scrisse: “Perché incaponirsi a fare, per così dire in casa, anzi in sagrestia, un pensiero cattolico, un’arte cattolica, un’azione cattolica, e non entrare nel pensiero, nell’azione degli uomini?”. È proprio seguendo questa via “obliqua” che abbiamo incontrato e accolto i magnifici scatti fotografici della statunitense Nan Goldin, immagini di calda e velata bellezza, le serie fotografiche del francese Fabrice Fouillet e del torinese Gianni Ferrero Merlino, poste in stridente giustapposizione l’una all’altra, e l’intrigante libro-opera di Luciano Caruso e Franco Visco Storia eterna della stupidità umana (c’è vita sulla terra). È invece da ascrivere ai vertici del rapporto tra arte e devozione la magnifica e toccante Via Crucis dell’albanese Adrian Paci, realizzata per l’associazione ARTache, illuminata mecenate che getta un ponte tra linguaggi contemporanei e devozione, e la videoinstallazione Xfiction dell’artista italo-argentino Raul Gabriel. La mostra proseguiva


“Santa Rita da Cascia, Santa dei casi impossibili e disperati, grazie di tutto l’aiuto così grande, decisivo e meraviglioso che mi hai dato finora. Infinitamente grazie. Anche se non ne sono personalmente degno, aiutami ancora e sempre e nella mia arte e proteggi tutto ciò che ho creato affinché, nonostante me, sia tutto, sempre, di Grande Bellezza. ”. (Cartiglio nell’ex voto di Yves Klein)

il suo percorso incontrando le più autorevoli voci toscane, già da tempo aduse al confronto tra il linguaggio contemporaneo e il sentire religioso: partendo dal conosciuto e assai amato Giuliano Vangi e proseguendo con Filippo Rossi, Enrico Savelli, Massimo Lippi, Chiara Pasquetti, Gabriele Wilpers e Susan Kanaga. Chiudeva il percorso all’interno del Salone Donatello della Basilica di San Lorenzo una selezione delle opere realizzate dai più grandi artisti italiani per il Nuovo Lezionario CEI, testimonianza tangibile della volontà di rinnovamento dell’iconografia religiosa nel nostro paese. Il percorso espositivo era infine proiettato all’esterno, con grande potenza (con un larghissimo riscontro positivo da parte del pubblico), dai monumentali Testimoni di Mimmo Paladino, sculture in tufo di circa due metri di altezza: un’opera suggestiva, che racconta di una sacralità corale, segno e icona di una comunità in cerca dei propri valori spirituali.

13


Yves Klein

L’artista e l’uomo dentro un ex voto

Cristiana Elena Iannelli

.. Stabilito che per quindici anni ho dipinto monocromi .... Stabilito che ho creato delle situazioni di pittura immateriale....Stabilito che ho manipolato le forze del vuoto .... Stabilito che ho scolpito il fuoco e l’acqua e dal fuoco e dall’acqua ho tratto i dipinti .. Un tono fortemente mistico avvolge le parole del francese Yves Klein custodite e tratte dal Manifesto dell’Hotel Chelsea del 1961. Mai ci fu artista più rivoluzionario e spregiudicato; è Yves Klein il precursore della Body Art, l’esaltatore della monocromia e della smaterializzazione dell’arte, colui che presentò al pubblico una sala dipinta di bianco rivelando la presenza invisibile del vuoto. Personalità preziosa e innovativa nell’arte del ventesimo secolo, Yves Klein celebrò l’approccio al metafisico delle sue tele monocrome restando segretamente devoto a Dio, donando le sue opere come ex voto e lasciando che il mistico controllasse e regolasse la sua vita nonostante l’inflessibile esercizio richiesto. Nella sua breve esistenza Klein fu in grado di lanciare provocazioni di abissale valore estetico e malgrado tutto di nutrire un culto raffinato per Dio, riversato nel celebre blu spirituale, il blu della rivelazione, la cui intuizione nata dal blu giottesco nella Basilica di San Francesco d’Assisi, venne brevettata in forma monocroma dall’artista e meglio conosciuta con la formula International Klein Blu. La scelta di donare il monocromo blu in maniera del tutto anonima come primo ex voto a Santa Rita da Cascia, venerata dalla sua famiglia, fu un gesto nobile da parte di Klein, un gesto di grande umiltà, un autentico e sincero confronto con la fede,

14

come si legge nella miracolistica preghiera che rivolge alla Santa supplicandola che l’Impossibile arrivi presto e fondi il suo regno. Ma cosa spinse l’artista a invocare l’impossibile? La megalomania o l’impaziente attesa di una condizione edenica? Klein concepì un creato dal tono decisamente mistico, una condizione impossibile quanto spirituale, che abbandonando la materialità della forma, giunge all’anima rivelandola in tutta la sua nudità e bellezza, in tutta la sua leggerezza. L’instancabile ricerca artistica culminò nella grande triade eletta dall’artista francese, dal rosa che rimanda al sangue e alla passione sofferta da Dio, al blu simbolo dell’infinito e della spiritualità, alle foglie d’oro simbolo del raccoglimento materiale della luce divina. Klein racchiuse minuziosamente quegli stessi colori in forma di pigmento puro in una semplice scatola di plexiglass custode della ricchezza “materiale” dell’artista: i suoi colori, la sua segreta devozione e tutta la sua debolezza di uomo. La scatola, contenente il pigmento ei lingotti d’oro frutto della vendita e segno di profonda venerazione nei confronti della Santa, è accompagnata da un cartiglio centrale con una preghiera dal tono intimo e implorante che invoca protezione, bellezza e autenticità del suo creato. L’opera di Klein è una preghiera commovente; l’artista si sveste completamente e affida la sua arte a Dio, invocando un’intercessione divina di cui non è degno nella condizione originaria di uomo, consapevole che solo attraverso una concezione dal trascendente valore estetico e morale si potrà compiere.


BLUE HAS NO DIMENSION IT IS BEYOND DIMENSIONS Yves Klein.

15


Adrian Paci

Il Cristo immanente

Alessandra Sernissi

“Quello che amo è la semplicità delle cose perché è li che vedo una pluralità di letture e significati diversi. Non ho la chiave di lettura del mio lavoro che secondo me deve rimanere aperto agli spettatori”

Chi è Dio all’interno della nostra società; chi è disposto a crederci; come si manifesta ai nostri occhi; qual è la sua essenza nell’epoca presente: a questi interrogativi sembra voler dare risposta Adrian Paci con la sua Via Crucis, che esprime perfettamente il dialogo tra il Verbo che si fece carne e la fede che si manifesta nelle opere di arte sacra contemporanea. L’artista è costretto ad un certo conservatorismo dal soggetto, ma al tempo stesso si discosta da esso destabilizzando lo spettatore, non cadendo però nella provocazione. Quest’opera, composta da 14 stampe fotografiche, esposta nella chiesa di San Bartolomeo a Milano, risponde al desiderio dei fedeli di ripercorrere fisicamente e spiritualmente i luoghi e i momenti della passione di Cristo. Paci rielabora i modelli quattrocenteschi di Piero della Francesca e Andrea Mantegna per l’organizzazione delle figure nello spazio, contrapponendo a questa impostazione classica della rappresentazione figure, personaggi e luoghi appartenenti alla quotidianità del nostro tempo. Egli, infatti, filma ed in seguito fotografa le scene all’interno del cortile del suo atelier bergamasco, utilizzando come modelli amici e collaboratori e trasformando così i luoghi del suo quotidiano in luoghi sacri. Gesù è incarnato da un uomo del nuovo millennio, scarno, schiacciato da una trave o crocifisso a un’impalcatura, abbandonato da tutti e dalla società che lo circonda. Quest’opera, ispirata chiaramente al Vangelo secondo Matteo di Pierpaolo Pasolini, unisce in maniera perfetta linguaggio attuale e fede ed è stata definita da molti critici “bella e straziante”. Per Paci è fondamentale sottolineare

16


la dimensione domestica e intima del dolore umano attraverso la figura di un uomo abbandonato e non martirizzato. Una dimensione domestica del dolore che l’artista ha vissuto in prima persona, non potendo manifestare il proprio credo in quella patria che ha dovuto abbandonare con mezzi di fortuna. Sicuramente Paci ci aiuta a guardare verso una divinità più moderna, una divinità del nuovo millennio che può manifestare la sua sacralità, la sua essenza e la sua luce interiore in qualsiasi situazione all’ interno del quotidiano. È chiaro che l’ artista, vista la sua biografia e il contesto originario nel quale è inserita l’opera, prediliga la religione cristiano-cattolica che gli veniva insegnata dalla nonna in Albania durante il periodo della sua gioventù, epoca in cui per motivi politici era proibito professare il cattolicesimo. Tuttavia quel Cristo abbandonato e crocifisso può essere simbolo di qualsiasi credo e proporsi come una nuova visione di Dio, uomo moderno sottoposto ai soprusi del prossimo, ma capace di rinascere grazie ai suoi ideali e al suo credo.

17


Dal vangelo secondo Bansky Anna R. G. Rivelli

“Dio è l’unico essere che, per regnare, non ha nemmeno bisogno di esistere.” (Charles Baudelaire)

18

Bansky è come Dio: un bisillabo senza altri orpelli. Bansky è come Dio: non ha un volto e perciò tutti gliene cercano uno. È come Dio: non si sa dove sia eppure e ovunque, ma non si vede altrove che nelle sue creature. Perciò Bansky regna, sovrano indiscusso di un arte epifanica che appare inaspettata col suo messaggio profondo, sferzante, inappellabile. Le opere di questo artista senza identità, grafitista famoso forse quant’altri mai, sono parabole evangeliche disseminate lungo il cammino di una umanità distratta e diniegosa. Le capisci per forza, per empatia assai prima che per concettualità; le capisci perché l’ironia, la bonarietà, persino la dolcezza che a tratti le pervade sono solo la nostalgica eco di un’età mitica di un uomo umano; sono i toni di un Messia pietoso che non rinuncia a dire pane al pane. Bansky fruga nella memoria del mondo, fa affiorare il male sepolto dallo sfavillio del nostro tempo, elenca i peccati capitali di un’età confusa che riduce a simbolo il valore e fa valore il simbolo, che obbliga se stessa in un grande circo luccicante di insensatezza e di do-


lore. L’apparente perfezione della nostra esistenza è sotto i nostri occhi strattonata e lacerata da Bansky con le “parole” straniate del suo vangelo. Laddove la colomba della pace offre il petto nel giubbetto antiproiettile a un cecchino, laddove il Cristo Crocifisso ha appena fatto shopping o una gialla emoticon ridente diventa il volto sconcertante della guerra, per contrapposizione il senso più profondo della vita riprende il sopravvento, violenta la farisaica atarassia della coscienza e costringe alla resurrezione il senno. Ci rende testimoni. Bansky come un dio illumina ciò che è coperto dall’oscurità, rende grande il piccolo: nella serie di graffiti Rats, i topi, creature spregevoli e perseguitate, invadono Londra con simboli e messaggi di pace; a Brighton l’immagine di due poliziotti che si baciano teneramente mette in crisi il senso comune e scuote l’omofobo inconscio collettivo; così il rimosso

graffito antirazzista in cui grossi piccioni scuri emarginano e scacciano il grazioso uccello colorato. Il consumismo, il capitalismo, nulla sfugge a quest’artista senza volto. La sua opera più sconcertante è un’aspra critica a quell’America che è simbolo di un mondo ingiusto, ipocrita e superficiale: la foto di Kim Phuc, la bimba di Saigon ritratta nel 1972 da Nick Ut mentre fugge nuda e con le braccia spalancate dopo un bombardamento con bombe al napalm, è rielaborata da Bansky in un’immagine il cui la bambina terrorizzata e in lacrime è tenuta per mano da un Mickey Mouse e un pagliaccio Mc Donald’s festanti. Questo è il vangelo di Bansky. Il verbo univoco e senza sfumatura; la frusta sui mercanti del tempio; la maledizione eterna alle insidie luciferine del nostro tempo. E la speranza di un mazzo di fiori lanciato come una molotov su tutti noi.

19


Per l’Amor di Dio

DAMIEN HIRST

Rossella Batassa

20


Damien Hirst, molto noto per le quotazioni stratosferiche delle sue opere e le installazioni chiacchierate, affronta il concetto di religione nell’arte contemporanea, in un tempo dominato da tecnologia e scienza medica. Attraverso titoli ben formulati e dissacranti e l’uso sfrontato di icone religiose stravolte scandalizza e crea disorientamento, svuota e ridicolizza la vera essenza della Religione, sembra proporre una New Religion, ma punta, con talento manageriale non comune, al business. Lontano dal considerare la Religione come tensione spirituale e ricerca della presenza del trascendente nel quotidiano, utilizzando la sacralità degli apparati con gusto teatrale e separando il contenuto dalla forma, Hirst presenta opere nelle quali vengono vanificati il senso dell’assoluto, la sospensione temporale e la forza dello spazio dedicato al sacro. Mette in vetrina, con precisione chirurgica, creazioni nelle quali si coniugano il senso del sensazionalismo e una evidente presa in giro dello stesso concetto presentato, legati in una forma pulita e fredda. Alle tematiche squisitamente cristiane della crocifissione, dell’agnello sacrificale, del martirio, associa corpi di animali interi o squartati e crocifissi, per invitare, forse, a riflettere sulla morte e sull’uso della scienza che permette la conservazione dei corpi, una specie di vita eterna regalata alla bellezza del creato che meglio si può ammirare in formaldeide. La sostituzione dei simboli cattolici con farmaci salvifici sembra essere la vera nuova religione, nella quale i medicinali diventano l’apparente panacea, i santi di una nuova fede che posticipa la morte fisica. Nelle sue opere però è la morte il tema fondamentale, continuamente mostrata, in modo diretto e chiaro; Hirst non si fa domande, rifiuta complicazioni intellettuali, con le sue crude presentazioni non ci dà scampo: qualsiasi religione è un bluff. La sua è una visione pessimistica e amara: accosta due credo opposti e li vanifica, li rende sterili, li svuota. In altre installazioni, utilizzando comunanze di forme e colori, sempre tratti dalla pratica cattolica, crea nuove reliquie che si materializzano in oggetti risibili e, irriverente, si fa beffe degli uomini che professano una fede. La derisione dei devoti continua attraverso opere dove vengono associate ai santi le medicine che curano i dolori provocati dai martirii subiti; ad esempio a San Giovanni Decollato propone un farmaco per la tiroide e a San Bartolomeo, scuoiato vivo, un antidolorifico. Il sarcasmo continua nella presentazione della Trinità attraverso un grafico a torta che divide il farmaco in percentuali uguali, Padre, Figlio e Spirito Santo. Nei suoi lavori è completamente assente la

21


spiritualità e il senso di trascendenza e anche la sbandierata New Religion non ha alcun fondamento, è una comica illusione. Attraverso queste associazioni ci spinge nel vuoto. Le immagini sacre, sostituite con parti di cadavere, fotografate e manipolate, mancano di eleganza e buon gusto, diventano kitsch e la serialità toglie valore all’unicità dell’idea. Tutto è pianificato da un freddo e geniale mister Hyde che monetizza, in nome di chissà quale teoria estetica. La sua opera più famosa è For the Love of God, cranio di un uomo, ricoperto di platino e tempestato di diamanti. Nessun rimando alla morte e alla brevità della vita, nessun dio del quale temere il giudizio o al quale affidarsi. Non c’è in questo assemblaggio che il dio denaro! “Per l’amor di Dio” è un’esclamazione che ben conosciamo, è dire “ma proprio no, per carità, lasciamo perdere”, e Amore e Dio, parole maiuscole, qui così lontane dal loro significato, sono una grandiosa trovata pubblicitaria. Adam ed Eve, soggetti più volte utilizzati, sono simboli di chi arriva a morire per inseguire la propria libertà di trasgressione, nella scelta di voler sostituire a Dio altri dei, per eludere le leggi della vita che pretende moderazione ed 22


equilibrio. Forse questa è davvero l’opera più religiosa di Hirst. Il peccato è presente negli stravizi di alcool, fumo e forse droga e i due sposi sono morti stecchiti, scomposti, ancora nei loro abiti da cerimonia, stesi sotto il tavolo tra bottiglie vuote, mozziconi e soldi, vicini eppur così lontani e consumati, giovani bruciati e senza più futuro. Il loro stile di vita, che ha cancellato Dio, e la scelta di nuovi dei non li ha portati lontano. Questo set è una riflessione aperta e chiara sulla nostra epoca sregolata e viziosa, un ripiegarsi a scandagliare la società indifferente e cinica che manipola l’uomo e lo acceca. Nell’ opera si esplicita il messaggio, senza le ambiguità che sembra di cogliere in altre. Inutile cercare il senso dell’esistenza, non c’è; la morte è incontrastata padrona del nostro destino. Dio non c’è, né altri dei, solo demoni che ci conducono a una fine prematura. Non c’è eternità mai, neppure in un corpo conservato. È inutile aggrapparsi, la fede è stupida, è il nulla che ci sopravanza: messaggio chiarissimo, estremamente contemporaneo, proposto con disincantati quadretti e ironia. L’importante è mantenere vivo il sensazionalismo e la visibilità psichedelica che portano fama e denaro, il nuovo vero dio. 23


Senza dogmi

L’Uomo e Dio prigionieri del nostro tempo Sara Liuzzi

Avanzare un discorso, una tematica come quella riguardante Dio o le divinità in generale, nelle mille sfaccettature, è un’avventura alquanto delicata, vasta e complessa. Numerosissime sono le opere d’arte che si sono relazionate e confrontate con l’idea di Dio, con un concetto altrettanto esteso come la spiritualità stessa o la fede. Partendo dai tempi più remoti sino ad arrivare ai giorni nostri non sono mancate le varie interpretazioni artistiche. Certo è che a partire dal Novecento le varie rappresentazioni sono andate ben oltre la sfera pittorica e le comuni raffigurazioni iconografiche alle quali si è ormai abituati. Tra i primi a rompere i “classici” schemi furono alcuni protagonisti del gruppo Fluxus, ad esempio Ben Vautier o il guru della video arte Nam June Paik il quale, nel 1974, realizza TV Buddha, un’installazione con monitor, telecamera e Buddha: quest’ultimo è seduto di fronte a un monitor in cui appare la sua

24


propria immagine ripresa dalla telecamera. Ci troviamo davanti ad una sorta di contemplazione, condivisione in cui divinità e fruitore combaciano, infatti chiunque si avvicini alla figura sacra sarà ripreso dalla telecamera e proiettato sullo schermo. Altro non è che la funzione della Tv, ovvero rimandare alla società le immagini della società stessa. Questo passaggio è determinante per comprendere come si è evoluto, nel corso dei secoli, il rapporto tra l’essere umano e Dio e che l’artista contemporaneo ha enfatizzato, apportando ulteriori indagini attraverso l’ironia, la provocazione, la società in cui viviamo, raccontando la nostra epoca e così via. Si innescano, di conseguenza, nuovi spunti di riflessione, non tanto sull’idea di religione, ma sui meccanismi generati dalla fede, sul nostro modo di rapportarci con ciò che è difficile comprendere. Scaturisce dunque un dibattito che fa riflettere i fruitori, i quali, incuriositi, diverti-

25


ti, sorpresi, sono indotti a interloquire con se stessi. Sbaglio o è proprio questo il ruolo dell’arte? Siamo circondati da molteplici credo religiosi, significati esistenziali indottrinati dalla storia e dalla società a cui apparteniamo, valori a cui fare riferimento. Tra questi valori c’è, ad esempio, l’identità dell’essere umano che, nella realtà attuale, è complicato cogliere perché circondato da desideri materiali. Siamo inglobati in un mondo che ci sommerge di cose e queste cose le desideriamo, le progettiamo, le distruggiamo anche se ci è stato insegnato sin dalla tenera età che le cose materiali non sono importanti, anzi dovremmo ridimensionarci dando priorità e valore a ben altri aspetti. Il consumismo, dunque, è un fattore imprescindibile del quale non possiamo non tenere conto. Religione/consumismo è senz’altro un’interpretazione alternativa con la quale fare i conti; siamo infatti ossessionati dal possesso di oggetti come delle vere e proprie dipendenze. Riassume egregiamente questa sinossi Christ You Know It Ain’t Easy, l’opera di Sarah Lucas del 2003, ovvero la figura di Cristo crocifisso composto interamente da sigarette intrecciate, esempio calzante di un prodotto di consumo nella società odierna. Con un approccio irriverente l’artista attua un processo contraddittorio, mettendo a confronto le pene, la sofferenza del Cristo in croce e le pene dell’uomo condannato ad una dipendenza. Il “credo” è alla base: è difficile smettere di credere così come è difficile smettere di fumare. l consumismo è comunque un fat-

26

Katarina Fritsch


tore presente anche a coloro che abbracciano la fede. Si pensi ai luoghi di culto, all’oggettistica e ai vari souvenir in essi presenti. L’essere umano sembra aver bisogno di icone, statuette votive da adorare. Katharina Fritsch coglie questo aspetto e presenta nel 1987 Display stand with Madonnas, una gigantesca versione gialla e fosforescente della classica immagine devozionale della Madonna ripetuta in piccolo, formando una torre. Ciò che si evince è l’aspetto ossessivo implicito nella moltiplicazione dell’oggetto religioso. La scelta del vivace colore racchiude un tentativo di riqualificare l’immagine trasformandola in fonte di disorientamento, stupore, decontestualizzandola dal solito uso, ovvero quello di boccetta contente acqua santa. Gli artisti contemporanei ci ricordano l’impossibilità di scappare dal nostro tempo ed è per questo che, a volte, ci rifiutiamo di capire le loro opere, non rispondendo esse a determinati schemi iconografici prestabiliti, quindi di facile e immediata lettura. Ma la consapevolezza dell’arte sta proprio nello scuoterci mentalmente, nell’attivare in noi processi di riflessione. L’arte, a differenza della religione, ha il vantaggio di essere libera, non dipende da alcun dogma, non ha principi da seguire e può indagare attraverso il paradosso, il dubbio, la contraddizione, senza preoccuparsi di ciò che può scatenare, anzi pone le condizioni che tutto questo accada.

Sarah Lucas

27


La morte si fa bella

28

Marco Lovisco


Sarebbero mai esistiti gli dei se non ci fosse stata la morte? Sarebbero esistite le religioni? A questo si pensa ponendosi di fronte all’opera “For the love of God”, del discusso (e apprezzato) artista britannico Damien Hirst. Il teschio, da sempre tramite tra il mondo degli uomini e quello degli dei, in questo caso diventa prezioso feticcio riservato ad un’elite privilegiata, che può permettersi di acquistare un teschio umano autentico fuso in platino e ricoperto di 8.601 diamanti, incluso un diamante rosa a forma di goccia, posto sulla fronte. L’opera può essere considerata la summa dell’arte di Damien Hirst che, giocando da sempre con il tema della morte, ha deciso con quest’opera di esaltare il potere di un mistero su cui si sono fondate gerarchie sociali e religioni. Quella del teschio non è stata una scelta casuale. Il suo potere evocativo ha esercitato un fascino ancestrale sull’uomo in tempi, culture e luoghi diversi, segno di un istintivo rispetto e un’innata devozione. Nel tantrismo tibetano di matrice induista o buddista il teschio umano viene utilizzato come coppa in diversi rituali sacri. Viene chiamata “kapala” ed è ricavata dalla calotta cranica. L’osso viene scavato, finemente scolpito e infine decorato con abbellimenti in metallo e pietre preziose fino ad ottenere come prodotto finale un oggetto di pregio che sembra perda il suo riferimento con l’essere umano per diventare opera d’arte e sacro talismano. In molte rappresentazioni sacre dell’arte orientale le divinità indù stringono tra le mani la kapala usata per raccogliere il sangue, ma tale uso cruento pare più legato alla narrazione che ad un reale uso dell’oggetto. I sacerdoti tibetani pare che la utilizzassero per scopi meno “sanguinosi”, impiegandola per custodire pane o dolci a forma di occhi, lingue e orecchie da offrire agli dei. In questo modo il teschio, simbolo di morte viene legato all’atto del nutrirsi, alla base della vita. Questo legame apparentemente antitetico si riscontra non soltanto nella cultura orientale, ma anche in

www.dueminutidiarte.com

29


Diego Rivera - Suono de una tarde dominical en la alemeda central 1948

quella del centroamerica, in Messico, dove il giorno dei morti (Día de los Muertos) si celebra offrendo ai defunti variopinti dolci di zucchero (alfeñiques) a forma di teschio (calavera). Il termine “calavera” (cranio), oltre a indicare questi caratteristici dolciumi, è usato anche per definire ogni rappresentazione del teschio umano in forma artistica: sculture, dipinti, tatuaggi o litografie, come quelle celebri di José Guadalupe Posada. L’incisore messicano (morto nel 1910) amava ritrarre nelle sue opere alcuni teschi agghindati con lussuosi copricapo o scheletri con indosso gli abiti tipici della borghesia dell’epoca. Il suo ritratto più noto è sicuramente la “Calavera de la Catrina” (“Il teschio della gran dama”). Lo scopo delle opere di Posada è quello di ironizzare sulla caducità e l’inutilità di alcuni atteggiamenti sociali che appaiono fatui se rapportati alla fragile condizione umana. Da queste opere prenderà spunto un altro grande artista messicano, Diego Rivera, famoso anche per essere stato il marito della pittrice Frida Kahlo. Rivera inserirà infatti la “Calavera de la Catrina” nella sua opera del 1948 “Sueño de una tarde dominical en la Alameda Central”. Una curiosità: nel murale, oggi conservato in Messico al Museo Mural Diego Rivera, al fianco della calavera è ritratta Frida che ha una mano posata sulla spalla di un bambino, il cui volto riprende i tratti somatici dell’artista. Alla luce di tutto questo possiamo presumere che nella cultura centroamericana il teschio assume una valenza più popolare (per non dire “pop”) diventando una figura familiare che diviene spunto per t-shirt, souvenir e variopinti tatuaggi. ll teschio perde quindi la sua austerità e concede maggiore spazio alla creazione artistica, 30


Salvador Dali - Volto della guerra 1940

lasciandosi ritrarre come monito di morte e sfida alla vita. Lo aveva intuito il maestro del surrealismo Salvador Dalì che aveva “sfidato” il potere sciamanico del teschio dando vita alla più sensuale rappresentazione della morte, facendosi ritrarre dal fotografo Philippe Halsman dinanzi a un teschio composto da sette modelle completamente nude. L’opera, dal titolo “In voluptas mors” (1951) è diventata un’icona per via della sua bellezza compositiva, per l’idea creativa e per il significato insito nell’opera, capace di miscelare in un unico colpo d’occhio morte, vanità e piacere erotico. Che il teschio abbia perso la propria aurea di sacralità lo dimostrano le numerose stampe che vediamo su t-shirt, sticker e oggetti di design che sempre più lo qualificano come oggetto puramente estetico. L’artista cinese Jacky Tsai, ad esempio, con il suo progetto “Floral Skull Original” trasforma il teschio in una composizione floreale con una resa estetica di indubitabile effetto, tanto che il celebre stilista Alexander McQueen collabora con l’artista alla creazione di una linea di abbigliamento “Skull Style”. Se le opere di Tsai scollegano del tutto il teschio dal sacro, ci pensa ancora una volta Damien Hirst a fare ordine restituendogli il suo potere di mediazione tra il mondo degli uomini e quello degli dei. In una società in cui l’unica divinità pare sia la quantificazione economica di beni e persone, ricoprire il teschio di diamanti pregiati appare l’unico modo possibile per restituirlo al suo ruolo ancestrale di feticcio da adorare e misterioso medium nelle mani di caste privilegiate. 31


FRANCIS BACON

“Miei furono pennelli d’eresia e tele nefaste e sacre”

Merisabell Calitri

Accade che il Secolo d’Oro squarci ancora senza delicatezza gli stipiti del Novecento. Accade che venga, senza preavviso, a riportare un passato oltraggiato dalla delusione del presente. Accade che nel 1909 si apra alla vita un uomo ed il suo destino. Francis Bacon fu essere iracondo e tirannico, capitano della fanteria leggera dell’esercito britannico nonché veterano della seconda guerra boera. Ma amò la pittura più della sua vita. Gli bastò vedere i Picasso della collezione Rosemberg per affermare: “Boh, cercherò anch’io di fare il pittore”. Sminuito agli occhi di suo padre in quanto aveva troppa asma per essere un uomo vero, si legò alla nonna materna, che lo vedeva bimbo speciale e un po’ stonato mentre guardava in alto tra le strade di Dublino. Ma fu grande anche lui e si trasferì a Londra. Lì non ebbe più paura di essere omosessuale anche se doveva restare nei circoli che ne permettevano la manifestazione. Fuori di là era un crimine. Bacon non cercò di dire qualcosa nella sua vita, bensì volle fare qualcosa. Volle ribellarsi al sistema, ma farlo in silenzio. Si mosse come in punta di piedi tra le vie del mondo, arrivò a Parigi per la sua prima esposizione e non gli interessò di piacere o no a quel pubblico disinteressato di cavalieri e donzelle. La sua era una rivolta senza colpi di fucile e fu così da subito. Niente nella sua pittura stava al posto giusto, nulla si depositava dove la logica richiedeva. Bacon era un verme di quelli che vanno piano ma che passando lasciano la scia del disprezzo.

32


Nessuna delle sue opere farebbe presagire un rapporto così forte con l’arte del passato ed in particolare con quella della prima metà del Seicento. Appare quasi un avanguardista un po’ più timido, più introverso nelle sue sconvolte fattezze. Invece è un essere che decide di imitare il mondo a modo suo, pur amandolo nella veste originaria. Il suo Dio era un po’ ovunque ed al tempo stesso non c’era mai. Sempre occupato a far qualcosa di meglio, ad ispirare un pittore tardo-accademico, o a donare l’ultimo colpo di sole all’ultimo impressionista che nell’ultima parte della giornata ancora ostentava e pretendeva di cogliere quell’ultimo scabro raggio di luce passante sulla Senna. Francis Bacon si sentiva l’ultimo, l’ultimo in fila per ricevere amore dalla vita e da Dio. Per lui la luce non esisteva. E se esisteva era per rendere le ombre. “Perché io sono un’ombra, e cammino stanco, di lato, accanto al trascinarsi del mio corpo”. Cittadino del mondo e padrone di nulla, il pittore faceva la posta agli attimi in cui decideva di capire chi fosse ed in quei momenti rovesciava sulla tela il suo tempo. Scorrevano lente le ore di Bacon, non uno stimolo, e se c’era passava troppo presto perché la tela era pronta, ed un’altra costava troppo per quel giorno. A mala pena copriva le spese per le lezioni di disegno che gli impartivano. Quando tornò a Londra prese un garage e ne fece il suo studio. Poco del divino penetrava le pareti grigie. Ma se così era il suo mondo, le sue tele non potevano far altro che ritrarlo. Bacon visse la guerra. Come poteva credere in Dio, volere la luce, schiarire la tavolozza, amare la vita? Bacon era

malato, alcolizzato, giocava d’azzardo e perdeva i pochi soldi che non erano caduti per strada dalle tasche bucate dei calzoni di fustagno anche d’estate. Dov’era Dio? E se c’era, per quale ragione non era con lui? Il pittore non si lamentava però. Si autorappresentava. Era uomo, frangente anche sbagliato di creazione, ma c’era, esisteva, e qualcuno o qualcosa gli aveva dato la vita. I conflitti mondiali erano finiti. Scoccava la metà del 1900 e lui dipingeva il suo volto devastato su tele sporche di resti di esistenza. Head I (1948) e Head II (1949) possono essere considerate le prime forme che l’artista propone come rappresentazione di sé. Già in esse si annida il groviglio di sentimenti ed il credo profondo di un uomo che fa la cosa più sacra di tutte. Nonostante il peggio che la vita gli riserva, si ama. Intorno ruota un mondo che vede Dio nei soldi, nei colori brillanti e nelle luci che come meteore baciano gli attimi. Il Dio di Bacon è eretico quanto lui, ed è il più vero. È un Dio-Uomo che come lui soffre, che come lui prega nel buio perché è lì che la luce brilla più forte. I suoi volti sono scimmieschi almeno quanto quelli dei cattivi dei quadri di Caravaggio. Quelli dagli atomi “amara atque aspera” di cui tanto ha parlato Lucrezio nel “De Rerum Natura”. Nessuna rotondità, non alcun tipo di rimando al cerchio perfetto. Ma della creazione parla comunque Bacon. I suoi dipinti rivelano una percezione di sé nei termini di umanità incompleta. Prevale la componente animale sull’uomo, la bestia batte l’artista. In quegli stessi anni in cui egli si afferma, Jung, allievo di Freud, parla in questi termini:

33


“Il ricorrere nei sogni ad immagini in cui si assiste alla trasformazione di animali in esseri umani si colloca all’interno di un percorso che mira a costruire l’identità dell’individuo. Il paziente deve sottoporsi a una notevole trasformazione per divenire un uomo nuovo attraverso la reintegrazione della sua istintività finora rescissa”. Nel repertorio simbolico e iconografico la scimmia rappresenta da un lato la tensione dell’uomo-artista ad imitare e riprodurre l’atto della creazione; dall’altro è anche figura dell’umano ridotto ad una dimensione istintuale. Significativo è il fatto che l’elemento scimmiesco sia una presenza forte anche in altri dipinti di questo periodo. In altri autoritratti dei tardi anni ’50, dell’uomo Bacon resta solo un abito, ora grigio, ora nero, camicia bianca ed il contorno di un’assenza. Ma assenza è presenza costante. Lui c’è ma vuol solo mostrare il suo mondo, quello dove un altro dio fittizio si fa strada ed è preponderante. “Autoritratto del dio denaro”, potrebbe chiamarsi. Bacon si ritrae nei panni della società che vive, che ripudia, di cui talvolta è schiavo ed altre rivoltoso. Ma quale è davvero il Dio di Bacon? Ce lo dice egli stesso. Lui vive, dipinge, quindi crea. Esiste qualcosa di più grande. Esiste il meglio di un mondo che pare tendere vorticosamente verso il basso. Quello dell’artista è un rapporto calzante con il passato. Studia ciò che è stato per essere migliore di ciò che pensa. Fu proprio lui il miglior esegeta dell’opera e del mistero del grande Velazquez. Dialogando con David Sylvester nel 1962, Bacon confessava: “In Velazquez è il modo in cui ha saputo tenere l’immagine così vicina alla cosiddetta illustrazione e al tempo stesso rivelare con tanta intensità le emozioni più grandi e più profonde che un uomo possa provare, che fa di lui quel pittore incredibilmente misterioso che è”. Uno su tutti tra i dipinti di Velazquez ha segnato l’arte di Bacon: l’Innocenzo X della Galleria Doria-Pamphilij a Roma. “Compro un libro dopo l’altro con dentro la riproduzione del Papa di Velazquez semplicemente perché mi assilla e apre in me ogni sorta di sensazione e persino di immaginazione. Ho sempre pensato che fosse uno dei più grandi dipinti dell’arte mondiale e l’ho usato in modo ossessivo”. Perché quell’ossessione? Per la necessità fisiologica di stravolgere il sacro, di oltraggiare il perbenismo, di abbattere finte deità. Occorreva l’essenza, quel contorno che appariva tenue e si faceva strada sotto velluti e trina bianca. Il rosso cardinalizio del papa del 1650 diveniva urlante quanto lui, d’un viola morte che sfondava il sacro per affondare nel demoniaco. Una rivolta. Ma in realtà quel sacro Bacon lo amava. Nella ricostruzione del processo che segna l’evoluzione interiore e psichica dell’artista, acquistano un’importanza determinante i trittici realizzati negli anni sessanta: “Three studies for a Crucifixion” (1962) e “Crucifixion” (1965) i quali, se da un lato contengono riferimenti alle atrocità del XX secolo, dall’altro rivelano anche il suo autorappresentarsi. L’artista si dichiara non credente con questa frase: “Le immagini di mattatoi e di carne macellata mi hanno sempre molto colpito. Mi sembrano direttamente legate alla Crocifissione. Odore di morte, animali sgozzati e strozzati sull’ultimo sgrido. Per chi è religioso, cristiano, la Crocifissione avrà, credo, un significato completamente diverso; ma per un non credente è solo un comportamento umano, un modo di essere nei riguardi di un’altra creatura”. Ma la verità sta nelle sue opere. Chi è dunque Bacon? Un caffè caldo servito con dentro tre gocce di limone. È la tradizione amata ma sconvolta, la memoria omaggiata ma devastata, un presente dal sapore intenso ed acre. Il pittore si ritrae crocifisso come Gesù. Dunque, o rinnega se stesso (ma non avrebbe lasciato un segno nella storia) oppure crede in Dio, quello vero. A voi la scelta.

34


35


Eludendo lo sguardo degli Angeli

ANSELM KIEFER

I sette palazzi celesti di Anselm Kiefer Sara Errico

36

Nel 2004 Anselm Kiefer venne invitato da Lia Rumma a realizzare un’installazione per inaugurare la neonata Fondazione Hangar Bicocca di Milano: uno spazio di 15000 mq nato dalla riconversione di uno stabilimento industriale per la produzione di locomotive. L’opera site-specific realizzata dall’artista tedesco è, oggi, parte della collezione permanente della fondazione e palesa tutta la poetica e la ricerca di Kiefer. I Sette Palazzi Celesti, così chiamati rifacendosi al trattato ebraico Sefer Echalot (Il Libro dei Palazzi/Santuari), occupano uno spazio di 7000 mq e rappresentano un percorso, un cammino di iniziazione spirituale per presentarsi al cospetto di Dio, una ricerca della luce che implica il percorrere i cieli e i Palazzi, attraverso i quali è possibile passare solo nei momenti in cui gli Angeli non guardano. Le sette torri di cemento armato che si stagliano nello spettacolare e, a volte, inquietante spazio dell’Hangar Bicocca hanno dei nomi: Sefirot, che ha in cima una pila di libri di piombo che nessuno può leggere; Melancholia, in cui sono caduti listelli di vetro con inscritti i nomi delle stelle; Ararat; Linee di campo magnetico; JH&WH; Torre dei quadri cadenti in cui sono appese in disordine cornici con dentro vetri frantumati. Le torri sono alte tutte dai 14 ai 18 metri, hanno la forma di contaniners per il trasporto delle merci e rappresentano simbolicamente il passaggio attraverso i sette livelli di spiritualità per arrivare a Dio. La torre più alta delle sette è Linee di campo magnetico, raggiunge i 18 metri ed è percorsa interamente da una pellicola di piombo che termina con una bobina cinematografica e una cinepresa, depositate ai piedi del Palazzo. L’intera opera di Kiefer porta con sé numerosissimi riferimenti e letture, è come se l’artista avesse, a sua volta, concluso un percorso per arrivare a realizzare questa meravigliosa opera. Un percorso che parte dalla Bibbia, dai Sette palazzi ebraici, dal passaggio dal buio alla luce, che attraversa le macerie degli edifici e delle città della Seconda Guerra mondiale e denuncia l’olocausto degli ebrei e il tentativo di dimenticarlo. Un percorso di vita, della vita dell’artista e di tutte le vite. Sette Palazzi ad indicare il cammino di luce fino al cospetto di Dio, un cammino che, però, passa attraverso la distruzione e la violenza della Storia. Un percorso di memoria storica per non dimenticare. Quest’installazione rappresenta la memoria intesa come percorso di resistenza. Scriveva Jacques le Goff in Storia e Memoria del 1986: “La memoria collettiva ha costituito un’importante posta in gioco nella lotta per il potere condotta dalle forze sociali. Impadronirsi della memoria e dell’oblio è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi, degl’individui che hanno dominato e dominano le società storiche. Gli oblii, i silenzi della Storia sono rivelatori di questi meccanismi di manipolazione della memoria collettiva”; e auspicava l’uso della stessa come strumento di liberazione e non di asservimento dell’uomo. Ricordare è, dunque, per lo storico francese uno strumento di lotta, un’arma di conflitto per sottrarsi al giogo del potere e alla salda amnesia della società contemporanea. In un tempo di eterno presente, in cui il passato è soltanto un bagaglio di immagini e simboli scevri di significato a cui attingere all’occorrenza, e il futuro è un generico “domani andrà meglio”, concepito come migliorativo, ma solo se questo miglioramento avviene naturalmente senza sforzo alcuno, ricordare è un atto di resistenza; ricordare la propria storia e la Storia con tutte le ombre che essa porta con sé, perché, per dirla con Jung, l’accettazione delle ombre è l’unica strada percorribile e per accettarle bisogna illuminarle quel tanto che basta per riconoscerle. E chissà che non sia propria il ricordare le ombre della Storia a consentirci di arrivare al cospetto di Dio, eludendo lo sguardo degli Angeli e portandoci dietro le macerie della nostra Storia.


37


Cao Hui

I want to play God L’anima sotto la pelle

Anna R. G. Rivelli

Un cavallo, una pecora, un ominide; una dea di antica bellezza, un giovinetto eroico ed eterno. Comune denominatore: la carne. Si può essere bianchi, gialli, neri; si può essere insulsi o incantatori; si può abbaiare o nitrire, belare o ridere, avere un dio o non averne, o averne cento, mille: nella carne è il dolore e nel dolore l’anima. Tutti figli di un dio, lo stesso o uno qualunque, o dio noi stessi; tutti oltre quello che appare, accomunati e vivi nella parte più orrida di noi che protegge e cela il nostro essere eterni, quel soffio vitale che ci fa spirito nello spirito, che ci imprigiona in un obbligo di amore. Raccapriccianti, sconvolgenti, disgustose perfino, le sculture di Cao Hui sono un viaggio nell’inconscio dei nostri corpi, un vademecum per la nostra arroganza antropocentrica, una decurtisiana “Livella” pre morte. Imitare la natura non basta più, bisogna penetrarla, comprenderne il mistero, denunciarne le verità nascoste. “Sembra che gli artisti non siano più felici di essere solo artisti – dice Cao Hui - ma che siano guidati dal loro innato amore per la performance per provare nuovi ruoli , come il filosofo, lo scienziato, il medico o forse anche l’ingegnere. Credo che gli artisti vogliano veramente giocare a fare Dio più di ogni altra cosa, e non si fermeranno davanti a nulla pur di costruire una verità che rafforzi il sé”. Giocare a fare Dio significa, però, creare; creare, come Lui, dal nulla o creare, come Cao Hui, andando oltre il nulla dell’apparenza, calarsi nel reale per trovare l’iperreale, nella carne per liberare l’anima. Le sue sculture sono sferzanti come domande retoriche a cui si vuole negare risposta; terrificanti come solo sa essere la verità di fronte alla coscienza sopita del mondo; misteriche come un culto iniziatico di tragica e oscura potenza. Saper guardare oltre è un lusso che va condiviso; significa non perdere mai di vista la vita, non smarrirne il senso; significa empatizzare il palpito dell’universo, trovare l’altezza nella condivisione orizzontale dell’esistenza. Perciò il nostro sguardo stupito di fronte alla bellezza ha bisogno di trovare il meraviglioso orrore della sua essenza. Non importa che sia la Venere di Milo, il Davide di Michelangelo, un maiale bipede o un bovino seduto: sotto la pelle è tutto muscolo, nervo, ossa e sangue. È tutto anima. Ed è anima perché la carne altro non è che l’abito con cui lo spirito si palesa a noi, è il concreto per l’astratto, la parabola evangelica per il nostro occhio così limitato. Così Cao Hui come Dio ci interroga sulla vita e sul dolore di quel mondo “non umano” di cui l’uomo si è fatto padrone, addita quel sistema economico

38


39


si è fatto padrone, addita quel sistema economico che nega la sofferenza, l’emozione, il diritto stesso all’esistenza agli animali ora, e che un poi -forse neanche tanto lontano- li negherà anche a quella “umanità inferiore” già spesso liquidata con un diniego. Non c’è in questo artista cinese quel mancato riconoscimento che il sociologo Stanley Cohen diceva essere la prima e più profonda radice dell’immoralità collettiva. C’è invece la realtà gridata nella poltrona che si squarcia lasciando debordare le interiora, nella borsa in cui ancora sembrano palpitare gli organi, nei guanti di carne viva che vestiranno una mano assassina. C’è l’urlo della sofferenza misconosciuta negli animali “nudi”, derubati della loro dignità di esseri senzienti prima ancora che della loro pelle. E c’è come un monito, la proiezione di un giudizio universale imminente, nelle antiche statue scomposte, affettate, frugate nelle viscere, tradite dal sangue che rende orripilante la loro eterna bellezza. Le sculture di Cao Hui non attraggono, respingono; si lasciano guardare di traverso forse, solo sperando che non ci siano ancora, che siano magari un incubo fugace; e invece le resine, i colori sobri, la tridimensionalità apparecchiano il sacrificio più realisticamente cruento sull’altare delle nostre coscienze di spettatori. C’è da chiedersi se mai continueremo ad indossare una giacca di pelle senza avvertire quel nauseante odore umido di macelleria, se mai più veleremo col silenzio lo sguardo mesto d’agnello scuoiato. Non c’è da chiedersi invece se è arte quella che violenta il senso comune ed espropria secoli di costume; non c’è da chiederselo perché l’artista forse non gioca a fare dio, piuttosto è frammento dello specchio di dio e perciò un dio egli stesso. E dio, qualsiasi dio, ha braccio fermo e voce che risuona tonante.

40


“The Artists first delude themselves, then maybe move on to people around them�

41


Tra preghiera, idolatria e bestemmia: talvolta l’arte propone Dio Aniello Ertico

42

Se Dio mi ama, mi darà da mangiare. Questo pensarono, forse, gli autori delle pitture rupestri ancori visibili in località Carpini di Filiano. Scene di caccia, certo, con bovidi resi sanguigni più dal ghiaccio e dal tempo che non dai pigmenti. Eppure, alla fine, se quella cacciagione venne interpretata come dono funzionale alla propria sopravvivenza, il disegnarli dovette essere un tributo alla divinità terribile che sottraeva ed aggiungeva prede alla lancia. Io ti rendo grazie perché mi ami sfamandomi e ruffiano ti rabbonisco rendendoti un’immagine che non hai. Se non hai materia e fattezze, il tributo sarà l’immagine di ciò che mi hai donato, tuo prodotto, mia salvezza. Primi istintivi tentativi di un colloquio mediato dai segni. Qualcuno direbbe che trattasi d’arte sacra primitiva. Non risulta che alcuna divinità abbia avuto a risentirsene; i più raffinati intenditori di divine reazioni, sospettano un atteggiamento di sincera indifferenza da parte del dio del tempo ( o di Dio d’ogni tempo). Insomma, gli arcaici artisti hanno disegnato perché tutto sommato ci hanno pensato, il pensiero gli è pure piaciuto e nessuno gli ha impedito di tradurlo in atto creativo. Ecco, allora, forse l’origine del ricorso al segno nel proporsi a Dio sta essenzialmente nel sentirlo come istintivamente desiderato e nello scoprire che è pure possibile farlo. Il teorema si conferma, come prova del nove, avocando il caso delle dottrine religiose che non consentono il ricorso alle immagini nel sacro. In


quel caso, non si può e a furia di non potere ci si dimentica di volerlo fare. Si sa, è assai improbabile che il pesce d’acquario desideri una nuotata controcorrente nella vastità degli oceani. Non si può e quindi non esiste. Non è solo e tanto una questione di “libertà”, chimera questa più che prerogativa. È questione di verità. Siamo come viviamo e dove viviamo. Semplicemente non si può. Certo, qualche pesce d’acquario, ogni tanto, salta fuori dal soprammobile della famiglia borghese. Forse un istinto primordiale. Ma sono certo, precipitato sul parquet, magari mentre la famigliola sceglieva in negozio il mangime ed il nuovo accessorio per l’acquario, il pentimento lo assale ed il desiderio unico si rivela nella sua drammaticità: “rimettetemi dentro ad attendere che il moccioso di casa sparga il mangime a pelo d’acqua”. Disegnare Dio è solo questione di possibilità e quindi di latitudini terrestri in cui si nasce. Nessuna particolarissima sventura né fortuna: anche in questo caso, Dio si riserverà un atteggiamento di sincera indifferenza. Dopo tutto è Dio. Ma allora a chi serve l’arte che parla di Dio e con Dio? Potremmo chiederlo, e l’ho fatto, a Padre Ignatios Stavropoulos, segretario della congregazione monastica di Lepanto, ove risiede il prestigioso laboratorio di icone bizantine di scuola cretese. Lui ha sorriso prima di chiarificare che l’icona, quella sacra, non è solo immagine, essendo prima di tutto luce. Non è arte in senso stretto ma è rinuncia alla creazione. Non

43


Maurizio Cattelan

è un quadro: è una preghiera. La foglia oro non serve per nobilitare ma per illuminare in permanenza e l’immagine non persegue alcun canone di bellezza preferendo invece la ricerca di tratti somatici che inducano all’ascesi. L’artista non crea ma copia l’immagine che l’ortodossia ha battezzato sacra. L’iconografo non firma l’opera perché la sua mano è solo strumento al servizio di Dio, unico titolare della vera opera d’arte ammessa al rango dei capolavori: il creato. Realizzare una icona, processo talvolta lunghissimo anche solo nella fase preparatoria del supporto, diventa allora una vera e propria pratica mistica in cui si generano le condizioni ideali per una preghiera non più declinata in termini verbali ma grafici e cromatici. A chi serve? Non a Dio, certo. Dio non necessita di preghiere, quella è specifica prerogativa umana. L’arte della iconografia fa bene allo spirito dell’iconografo. Forse è per questo che la pratica dura da un millennio: molto più di quanto possa durare qualunque prassi medica. Parlare con Dio attraverso la pratica ortodossa dell’iconografia, dicono, sia un toccasana per lo spirito. Allora, questa cosa mi pare convincente perché ciò che fa bene all’uomo, certamente deve anche far piacere al suo creatore. C’è stato poi chi non ha fatto ricorso all’arte per parlare a Dio ma, niente meno, per parlare agli altri uomini di Dio. La committenza, in tal caso, ha reso un gran servizio all’umanità: la gran parte dei capolavori assoluti realizzati nei secoli hanno soggetto sacro e sono stati custoditi dalla Chiesa. La prassi nella commissione, tuttavia, era legata a scopi funzionali all’affermazione di capi saldi dottrinari. Il popolo degli illetterati molto cedeva alla suggestione di una narrazione figurativa. Molto più che alla predicazione in latino pressoché incomprensibile. Parlare agli uomini

44


Pino Lauria Caravaggio Pino Lauria

di Dio, presentandolo graficamente riformato a seconda dei Concilii, presupponeva la conoscenza di Dio. E così, bestemmiando bestemmiando per secoli nella presunzione di conoscere Dio al punto di poterlo rappresentare, è stato prodotto quel patrimonio inestimabile che i popoli di cultura cristiana romana presentano al mondo come testimonianza di scuola eccelsa e forse non replicabile. A furia di parlare agli uomini di Dio, finisce però che gli uomini iniziano a parlar di Dio tra di loro. E parlando parlando, si comincia pure a dipingere, a scolpire, a tirare incisioni. Non c’è più la committenza ma il sentimento popolare che rende privato ciò che nasceva universale. C’è la pietà popolare che legittima la permanenza domestica delle immagini sacre. La casa diventa la nuova chiesa in cui consumare un dialogo privato e familiare. L’arte sacra evolve in arte emotiva: l’immagine del Cristo finisce sul comodino accanto alla foto dei cari estinti. Anche in questo caso, pare, Gesù non è apparso contrariato. E perché mai, allora, dovremmo contrariarci noi altri mortali allorquando l’arte contemporanea, assimilando la familiarità con il divino ereditata dal secolo scorso, perde ogni residua traccia di reverenza verso Dio e si rivolge a Lui schietto come fa quotidianamente un qualunque figlio incazzato con il padre? Certo, esiste la prerogativa del pentimento sincero ma questo ha senso solo se pure il misfatto si è consumato nella sua autenticità. Il figlio che chiede perdono al padre deve aver davvero sbagliato. Qualche volta, con mio padre, ho litigato per davvero anche solo per il bisogno di poter far pace per davvero. Accadeva inevitabilmente ogni volta che si faceva intollerabile l’assenza di dialogo con lui. L’arte ci aiuta anche a litigare con Dio, se questo ci risulta il solo modo per ritrovarlo. In tal senso, niente più dell’arte somiglia alla Misericordia: non consente condanne a nulla ed a nessuno.

45


L’oggetto misterioso, 2014

46


L’illusione delle certezze assolute nelle immagini di Karmil Cardone Fiorella Fiore

La luce e il mistero

“Credo nel Dio di Spinoza, quello che si rivela nell’armonia di tutte le cose” Albert Einstein

Sfogliando il portfolio di Karmil Cardone, (lucano, classe 1985) sono evidenti due caratteristiche della sua poetica: un sentimento malinconico e un’intima spiritualità, di tipo quasi panteistico, molto vicina a quel concetto di sublime espresso nel periodo del Romanticismo. Il profondo senso di solitudine che aleggia nelle sue composizioni, all’interno delle quali la figura umana, se presente, è di passaggio, molto più spesso in trasparenza, diventa uno specchio della contemporaneità. Lo studio compositivo, mai casuale, la scelta di toni freddi e, soprattutto, del bianco e nero, diventa funzionale ad enfatizzare una presenza - assenza che raramente è contestualizzata: quelli di Cardone sono molto spesso dei non-luoghi, che possono esistere nell’adesso, come in un passato remoto e si trasformano quindi in archetipi di sapore universale. In Crono, del 2013, dominava il senso nietzschiano e pessimistico di “eterno ritorno”, di ciò che non termina ma appunto, ritorna in eterno; in Friedrich, sempre del 2013, si dichiarava esplicitamente il riferimento romantico, evidenziando, attraverso una figura umana in trasparenza che contempla le rovine di una chiesa crollata, una crisi, sicuramente spirituale, ma che già, nelle precedenti opere, era stata politica (come in Caravaggio’s, 2011), familiare, (Uncertain Balance, 2012), sociale (La stanza di Vicent, 2011). La permanenza a Londra, che ha rappresentato una crescita e una maturità professionale dell’artista, ha enfatiz-

47


Karmil L’impero delle luci, 2014

zato questi aspetti propri della sua fotografia, calandoli in una dimensione urbana. In tutte le opere è costante la ricerca profonda della bellezza, causa e motore della rinascita: perchè è proprio nella possibilità di meravigliarsi ancora che può scoccare quella scintilla in grado di innescare un nuovo umanesimo, unico rimedio al nichilismo. Nelle foto dell’ultimo periodo tutto questo viene rappresentato da ciò che l’uomo, attraverso l’arte, ha identificato da sempre con la divinità: la luce. La pelludicità, ovvero quella trasparenza che caratterizzava già i primi lavori, prologo di una scomparsa e di una ineluttabile perdita, manifesto dell’incertezza, è ormai scomparsa. All’indeterminatezza si è sostituita la luce: quella che esce fuori da una valigia (L’oggetto misterioso), che appare dal riflesso di un’ombra sull’asfalto bagnato (L’impero delle luci), quella che inaspettatamente si ritrova alla fine di un vicolo cieco (La stella dell’aurora). Sin dai tempi di Caspar, la foto presentata per il Padiglione regionale della Basilicata nella Biennale di Venezia del 2011, la luce simboleggia l’elemento spirituale, incarnazione di una divinità non meglio specificata che mescola le religioni per uscirne sintetizzata come pura essenza. Una costante della fotografia di Cardone, che diventa ora assoluta protagonista. Cardone, in questa nuova serie, opera con fare surrealista: l’atmosfera di mistero, che ha so48


Cardone La stella dell’aurora, 2015

vente accompagnato le sue opere, spesso in modo esplicito, come in Metafoto, del 2013, si è trasformata adesso in una dichiarazione di intenti che, immortalando la realtà, ne mostra l’arcano, troppo spesso sovrastato dal rumore di fondo che accompagna il nostro quotidiano. In queste immagini viene fuori l’illusione delle certezze assolute: la meraviglia sorprende in luoghi inconsueti, in attimi imprevisti. Limitando al massimo l’uso del fotoritocco, Karmil ricrea fotograficamente la realtà, tramite le luci e le ombre, enfatizzando le inquadrature secondo il proprio punto di vista. Nell’assenza della presenza umana, per lo più solo evocata, avviene quell’estraniazione tra il mondo circostante e l’uomo, propria della fotografia surrealista, in particolare quella di Eugène Atget, che negli anni Venti del Novecento ha saputo catturare la bellezza profonda di Parigi attraverso atmosfere sospese. Non abbondando la realtà, Cardone ne enfatizza gli aspetti più nascosti, all’interno dei quali spesso si cela lo stupore, rappresentato dal faro di una notte buia. L’invito è quello a lasciarsi sorprendere, accudire, guidare da quella luce: a fare attenzione al mondo che ci circonda, nei cui dettagli si manifesta quel “Dio, armonia di tutte le cose”, citato da Spinoza, di fronte al quale, talvolta, riusciamo a prendere finalmente consapevolezza dell’enormità del creato di cui facciamo parte. 49


Donato Faruolo

Apologia dell’incompiuto Marco Pascarelli

Vernissage 50

Quella che Donato Faruolo, giovane artista potentino, mette in scena nella sua personale è solo apparentemente un’esposizione neutrale; si tratta, infatti, di un’interrogazione radicale sullo statuto delle immagini. Utilizzando il paradigma fotografico ne indaga la pulsione di potere, la capacità edificatoria di immaginari e la natura di dispositivo - ovvero di una struttura cui apparteniamo e in cui agiamo, che ci cattura, orienta e determina; intercettando modelli, controllando desideri, volizioni e coazioni. In quanto riproduzione ottenuta per contatto, svincolata dunque dal principio di somiglianza, la fotografia appartiene al registro della traccia. L’indagine - pur pienamente consapevole della sua strutturale fallibilità e incompiutezza - è concepita come interrogazione artistica sui risultati di un ritrovamento, quasi casuale, di immagini. Perché l’artista non ne è, in questo caso, l’autore: è il cercatore, l’ostensore, è l’ironico e profondo suscitatore di visioni e contesti semantici, il curatore, infine, del loro nuovo luogo di vita. La mostra si snoda in quattro ambienti, ognuno dedicato ad una diversa serie di Pictures - di tematizzazioni della riduzione del soggetto a immagine - offrendosi al processo di sublimazione iconica, ovvero ad uno strumento di apparizione dell’invisibile, e alla progressione seriale quale espressione di una tensione verso l’ineffabile. La prima serie fotografica, Pictures/Each, si costituisce attorno ad un’esposizione accumulata e frammentaria di volti e soggetti, di ignoti ritratti d’occasione variamente


ritualizzati. Si tratta di oggetti ritrovati e amplificati - non semplici objet trouvé - il cui statuto estetico rimane ricoperto da un’aura d’incompiutezza, resistente alla nuova destinazione offerta dall’artista. Sono immagini che non ricercano l’indifferenza visiva, ma esercitano nello spettatore una curiosità non soddisfabile, generano il bisogno di una narrazione, di una cornice di senso. Tale tensione, però, è destinata a rimanere delusa, perché, ancor prima che l’invisibile (la psicoicona, il “pensiero che pensa se stesso”, favoleggiata da Barraduc), qui si offre l’indicibile, l’incapacità di incarnarsi nella phásis, “nella voce che dice”. L’intimità privata, cui è toccata in sorte l’ostensione pubblica, solleva nuovamente la questione intorno alla fotografia, intesa come moderna forma acheropita (cioè “non dipinta da mano umana”), improntata ad uno stile assolutamente non narrativo ma auto-evidente, in virtù del carattere puramente ostensivo della figurazione. Simili ad icone, queste copie agiscono in luogo e per conto del loro prototipo, manifestando desideri, intimità, relazioni, per lo più sconosciute. Pictures/Either - seconda sezione della mostra - espone sei dittici, sei coppie di volti che incarnano le forme transeunte del potere, tratte da raffigurazioni istituzionali riprodotte digitalmente in bianco e nero. Il dittico si realizza a partire da una piega, da una stortura che separa senza dividere, è una struttura che ricaccia le figure ai due estremi dello spazio rappresentativo rendendole apparentemente opposte. Questa condizio51


ne di leggibilità permette di illustrare la natura stessa del potere che, nota Georges Dumézil, ha sempre due facce: il despota e il legislatore, colui che lega e colui che organizza. I termini, che si oppongono in maniera relativa, in realtà funzionano in coppia, esprimendo contemporaneamente la divisione interna all’Uno e ricomponendo l’unità sovrana. Simultaneamente antitetici e complementari: either, più che un vel disgiuntivo è l’espressione rafforzativa che rende conto della doppia articolazione di uno stato, del suo farsi strato. Nella serie Pictures/Everyone, l’intervento sembra ispirarsi a quella che Pavel Aleksandrovič Florenskij chiamò la Prospettiva rovesciata. Sui quadri fotografici campeggiano, in varie fogge, i segni di un puntamento, viene individuato lo spazio di azione del telescopio e del microscopio, del radar e delle armi da fuoco. Il campo della rappresentazione è così invaso da un tentativo unilaterale di effrazione. Il mirino non è dunque una traccia prospettica, un segno che svela la visione e ne rende intellegibile il principio di costruzione: è, invece, uno strumento di offesa e di lacerazione, rappresenta la promessa di un vulnus, di una cancellazione. Lo spettatore non è perciò più il vertice di una «piramide visiva» classica, ma colui che, intercettando una falsa posizione di precisione, rileva l’essenza iconoclasta, nullificatrice, dello sguardo. Il percorso di interrogazione sul dispositivo/immagine si viene affinando con 52


una ricerca, delicata e preziosa, sulla figura di Nino Gennaro, scrittore e autore teatrale palermitano, attivo tra gli anni ’70 e ’80; personalità controversa e dai mille volti. Nino Gennaro/Anthology, Nino Gennaro/Atlas, Nino Gennaro/Tazebao rappresentano tre ordini diversi della medesima indagine su un volto, su una scrittura e su una vita che ha sapientemente saputo sconvolgere e irridere ogni tensione identitaria, ogni visione perbenista e pacificatoria dell’esistenza. La forma-volume, altro paradigma in cui si appunta la vis documentativo-creativa dell’artista potentino, riceve, nei due testi presentati - Nino Gennaro/Anthology e Nino Gennaro/Atlas - le tracce antologiche delle scritture di Nino Gennaro e le mappature delle variazioni/dissoluzioni del suo volto. In Nino Gennaro/Tazebao, con l’utilizzo di uno strumento di massima ostensione e comunicazione democratica, caratteristico della pratica politica degli anni ‘70, si esibisce, ancora una volta iconizzata, la figura dello scrittore palermitano, reso universale proprio dalla povertà del supporto e dall’impudicizia della tecnica grafica. L’itinerario, infine, si chiude con due video di Giuseppe Zimmardi, sempre su Nino Gennaro: L’elogio del plurale e Alla fine del pianeta; quasi che la messa in moto del fotogramma rappresenti il meccanismo di perdita dell’immagine, la confessione della sua costitutiva incompiutezza; il naturale approdo, forse, dell’indagine compiuta da Donato Faruolo. 53


Dio Luce, Dio uomo, Dio Morte

Lucio Tufano

Il tutto e il niente, la volontà di luce e le tenebre, la vita e la morte, le stagioni ed il loro periodare, la realtà e il segno, tutti i dualismi hegeliani che ci riguardano, è il passato prossimo, è quello più remoto, è il tempo e lo spazio! Che cosa, chi è Dio? È Natura Naturans e natura naturata dei grandi pensatori come Telesio, e il pensiero di Giordano Bruno, è la coincidentia oppositorum di Niccolò Cusano … il divenire di Parmenide, è la scultura del genio, la sua creativa enfasi, l’afflato della poesia, è il sublime, struggente lamento degli oboe e il melodico pianto del violino, quello nevrotico e infernale di Paganini, è la follia del vento e degli uragani, quella delle catastrofi, la vicenda umana così lunga, così breve, monotona o frenetica? E se è tutto questo, anche l’immanente è quello che trascende, il Noùs di Anassagora, l’architettura dei quattro elementi di Eraclito o, dentro i trattati, o nelle formule dei filosofi e degli scienziati, nella curiosità degli studiosi, si può declinare? È nominativo o soggetto, è genitivo e dativo, è l’ablativo assoluto … e l’accusativo perfino? Tutto quello che è nella nostra esperienza corporea, infine, è uno spazio abitabile condivisibile, è Dio in noi e noi in Dio? È così nel cristianesimo, così nel sufismo islamico, si configurano la shari’ha, la legge ampia ed eseguibile da chiunque; e la tariqqah, il percorso angusto e per molti impraticabile, il sentiero o porta stretta. Perciò la cultura giudaico-cristiana ha spesso affermato verità assolute, dogmi, spesso legati a Jahvè, “Dio collerico e vendicativo”, come sostiene Alberto Moravia, ebreo, quando parla dell’influenza babilonese-caldea di un dio del male, anche se non studioso di esegesi biblica, in contrasto alla 54

tradizione francescana e monacale dei cristiani, alla kabbalah ed al pensiero di Spinoza per i giudei. Lo sancisce Blaise Pascal, quando parla di Dio come luce. “L’uomo contempli la natura intera nella sua alta e piena maestà … Contempli questa luce sfolgorante, posta come lampada eterna per illuminare l’universo, la terra gli appaia come un punto in confronto all’amplissimo giro che questo astro descrive e si meravigli … Tutto questo mondo visibile non è che un punto impercettibile dell’ampio seno della natura … È una sfera il cui centro è ovunque, la circonferenza in nessun luogo. Inoltre il maggior carattere sensibile dell’onnipotenza di Dio, e la nostra immaginazione si perde in questo pensiero” (B. Pascal, Pensieri). È quello che dice Kierkegaard, quando lo intravede: “Da questo sito ho visto il mare incresparsi alla brezza leggera e giocare con la rena; ho visto le creste spumeggianti scuotere la superficie come una raffica di neve e ho inteso il rumoreggiare sordo della tempesta cominciare i suoi striduli sibili; qui ho visto la nascita e la fine del mondo … Qui l’uomo incede con maestà da signore della natura; sente anche in essa rivelarsi un non so che di più alto, al cui cospetto … prova la necessità di abbandonarsi alla Po-


tenza che tutto regge”. Lo sente Giacomo Leopardi nel suo afflato poetico, e tanti altri poeti. DIO LUCE È pur sempre la luce che, intensa o ritratta, è un tutt’uno con il Creato. Tutto è luce e in questo vi sono le certezze empiriche. “Fra le cose si sta come tra suoni di campana in una foresta di notte – scrive Paracelso – e se la loro ragione è ancora sconosciuta, è perché non camminiamo nella luce. Ogni cosa ha nella memoria la sua luminosità e quindi i suoi colori e le sue variazioni e chi non riesce a vederla nella sua sorgente e nella sua immensità è come se stesse nel buio. Tutto si svolge nella luce: la tenebra non ha memoria né rappresentazione”. Lo hanno rivelato gli artisti, riproponendoci la realtà, e che dai tempi più remoti furono alchimisti prodigiosi. Evan Eyck, come pittore, scoprì la luce nelle lande di terre e le stese con gli olii in successive velature. E Vincent Van Gogh catturava la luce nelle sue tele, la luce del sole … e Giorgione, e Durer e Bosch ed il Parmigianino, celebrando la luce di Dio. È infatti sorprendente come dalla luce immateriale tutte le cose ed i corpi ricevono la forma del loro colore e la possibilità di manifestarlo; lo afferma Plotino, ed

Empedocle illustrava nelle creazioni dei pittori, nei quadri votivi, anathemava, cose consacrate ed icone come riedizioni della genesi. Poiché vedi i pittori plasmare sulle icone il colore, i maestri la cui arte sapienza ha educato, le cui mani scelgono le multicolori droghe mescolandole con armonia, e ne compongono forme simili ad ogni cosa: alberi, uomini, donne, uccelli, pesci e gli dei perenni primi per rango; allora scorgi trasparenza (gli elementi). Allora ti sembra di udire la parola di Dio. Anche Benny Golson, compositore di musica jazz, afferma come chi sappia imitare, sottolineare, modificare e riplasmare un tale cammino in luce, questo fantasticare nel concreto produrre, giacché il solo pensare non è atto creativo, sente Dio … i colori restano, sempre e dappertutto, i supporti del pensiero; presentano un simbolismo cosmico ed intervengono nella rappresentazione di Dio in tutta la cosmologia. I sette colori dell’iride, le loro sfumature che sono in sintonia con le sette note musicali sono i colori e i suoni di Dio; il rosso e l’arancione esprimono il fuoco, il giallo o il bianco l’aria; il celeste i cieli; il verde l’acqua; il marrone la terra; il nero il tempo; il bianco l’atemporale e tutto ciò che è il tempo, il gioco della oscurità e della luce, del sonno e del risveglio. DIO UOMO La liturgia della Chiesa oggi ha un linguaggio accessibile alle masse, ricorre ad espressioni e rappresentazioni affabulatorie, mentre l’autentico messaggio evangelico tende alla interiorità, contro la tendenza levitica di monopolizzare la conoscenza di Dio. Perciò Gesù, il Dio55


uomo, è contro la gerarchia; il suo è un atto di ribellione alla precettistica del dogma, e mentre il Deuteronomio lapida l’adultera, Gesù la salva e le raccomanda di non peccare più. La legge vuole che il sabato non si lavori, Lui afferma che non è l’uomo al servizio del sabato, bensì il contrario: “Il padre mio opera sempre … e guarisce nel giorno del riposo”. “Non affannatevi dunque per il domani … a ciascun giorno basta la sua pena”. Ecco che i Vangeli offrono pietre vive per l’edificazione del nostro spirito. Quello individuale, intimo. Origene diceva che le scritture hanno significati nascosti, anche ambigui, ma hanno quello per il quale è necessario esercitare l’intelletto ed uno spirito accessibile solo a coloro che hanno Cristo nel pensiero. È tanto vero tutto questo che da secoli nel mondo le due sillabe Ge-sù sono indissolubilmente legate al nostro spirito, il solo uomo nella storia del quale si dice sia tornato dalle voragini della morte. Questo prova la sua divinità, come attestato della sua potenza che domina tutte le rivolte del male e come testimonio della sua santità … Chi mai ha seriamente pensato che Mercurio, Apollo, Bacco fossero veri Dei? Alessandro ha potuto proclamarsi figlio di Giove, ma tutta la Grecia sorrise di quella soverchieria; l’apoteosi degli imperatori dell’antica Roma non fu mai considerata cosa seria dal popolo romano; Maometto si fece credere un inviato di Dio e non ne diede altra prova che la 56

spada. Perché da noi la divinità di Gesù Cristo è cosa tanto indiscussa? Perché sono più di venti secoli che se ne discute? Da Celso a Strauss, a Nietzsche, a Marx, ai filosofi antichi e moderni … quante penne al lavoro, quanti scritti e libri pubblicati, “quante armi rinnovate i cui avanzi sono sparsi o interrati ai piedi di quell’Incudine che ha infranto tutti i martelli” (Vittorio Messori); tutti coloro che giacciono in una celebrità peggiore dell’oblio osarono aggredire quell’invincibile Dio. Ed è per tutto questo che Dio è anche morte. DIO MORTE È l’irrisolta equazione vitamorte, il modo come Atropo arcigna, dal volto duro e impassibile, recide nerovestita e implacabile, lo stame della vita, con le affilate cesoie, il quadrante polare e la bilancia. Eppure l’inesorabile gradualità della morte, questa sincronia e questi vasi comunicanti che Platone nel suo Gorgia, fa dire ad Euripide: “E chi sa se non sia esser morti il vivere e il vivere l’esser morti!” L’espressione dialettale dei nostri

contadini “acqua e morte ‘ndret a porta” sta ad indicarne la fatalità, la esecuzione di una volontà non nostra, e tuttavia probabile; e Claude Bernard: “fiamma che arde e che si spegne”, il fenomeno che abbellisce e divora se stessa come elegia di morte, la molecola che palpita, la cellula che freme, mentre Bichat sostiene come la vita consiste nell’insieme delle funzioni che resistono alla morte, mentre la foglia morta è sim-


Arcangelo Moles - L’indifferenza della bellezza

bolo di vita che risorge, metamorfosi della materia, il colore delle querce, la traspirazione delle piante, il fiore che appassisce, il verde velluto del muschio; tutto spiega l’eternità della vita, quella della morte, l’eternità di Dio. La morte, fatto intimo, personale, anche se a ciascun’esistenza corrispondono milioni di decessi; “… mentre parliamo, la nostra età svanisce – scrive Orazio – tutto il tempo che è passato fino a ieri, è finito,

il giorno che stiamo vivendo, lo dividiamo con lei.” Gabriele D’Annunzio ci dà la sua magica visione, la sintesi della Dottrina del Risveglio, il Corpo Astrale, la Luminosa Liberazione, l’annullamento nella luce nel sonetto de La Chimera: Ove tendono li astri in lento coro? Tendono per la via de l’ombre al Giorno, Anima, ti congiungi a’ raggi loro! La via de l’ombre sale ad auree porte: fiumi d’oblio fluiscono d’intorno; sta nelle foglie fulgide la Morte… «Nel giorno sacro al culto dei trapassati ed alle memorie, una gran folla ebbe il nostro cimitero, la croce di ogni tomba ebbe una corona, un fiore pietoso ebbe ogni nome … un vasto sommesso mare di sospiri e sussurri ebbe il sigillo delle lapidi, i baci impressi sulle lastre fredde ebbe il giorno, triste nel dileguante novembre …». È così che “Il Lucano” del 1899 scrive dei crisantemi esangui e dell’aria intrisa di amaro, il nebbioso mattino della città di “ebbe”. Ma chi è Ebbe? Ebbe è la città di timbri e sigilli.

Ebbe come possesso? Passato remoto? La città di Ebbe fagocita, ingoia. È la città dell’Ade, l’Acheronte, l’alfa e l’omega che si coniugano. Qui si portano i pensieri, le azioni che si rimuginano per l’eternità. Momento cruciale della vita in cui ciascuno si lega alla sua scelta, donde il contrappasso, il capovolgimento del soggetto, il ricordo assillante di essere polvere, polline, vento, di essere stato fiore, fanciullo, vecchio. La vita è un dono, la morte è un mutamento di condizione che non ha posti per coloro che credono sia un posto, né luogo per tutti quelli che hanno vissuto e che sono accanto agli altri. Paure ancestrali, impotenze, coprifuoco, rispetto per chi solo da morto è stimato, è temuto. La certezza che sappia il nostro segreto e le vicende del nostro presente. Eccola la Morte dal velluto nero, coscienza di noi. Il dio Morte, scoperta e radiografia assoluta, radiologo che ci legge dentro, l’infallibile. Eppure la vita è «stop», intuizione, battito d’ali, di ciglia, lampada che si accende, notizia, amore a prima vista, rigetto, separazione, ricongiunzione e riconiugazione. Maschere e scene del teatro, simboli vittoriosi sull’orrore? Ambito di elezione, del riaffiorare e del rammemorarsi. Religiosità degli affetti, sentinelle mute, idola theatri, «taùto» che ricompone vizi e virtù, progetti e risparmi: liturgie da antico teatro greco. 57


Rainer Maria Rilke

Dio o della voce del poeta

Mara Sabia

Esistono pochi poeti complessi come Rilke. Anche per i lettori più avvezzi al linguaggio poetico; forse è questo il motivo -ingenuo- per il quale lo si è sempre annoverato tra i filosofi più che tra i poeti. Quello di Rilke è un linguaggio composito e oscuro, spesso difficile anche da rendere in traduzione. Parliamo di un maestro della parola, autore fecondissimo ed errante, che ha fatto di un percorso poetico una scoperta iniziatica. I temi rilkiani, compresi fra le rose (il celebre epitaffio del poeta è: “Rosa, contraddizione pura, piacere d’essere/ il sonno di nessuno sotto tante/ palpebre”), i soggetti biblici, le visioni, gli angeli, gli dei pagani, orientali, il Dio cristiano, la riflessione sul tempo e l’uomo non possono che far salire alla mente Hoelderlin o un certo Nietzsche. Il risultato è un caleidoscopio di divino e, a narrarlo, è un poeta altamente ispirato, “mosso”, nel vero senso della parola, nei suoi viaggi, dalla letteratura e dall’esperienza intellettuale. Il verso di Rilke è profondamente intriso, anche a livello linguistico, di deità. Il misticismo, non fanatico, è la cifra della sua poesia. Dio qui è una sorta di alito magnificente che pervade la parola celebrante e la tiene insieme. Dio è ovunque: nei particolari, nelle descrizioni, nelle produzioni poetiche finali in maniera non diversa che nel celebre Libro d’ore. Dio è vicino all’uomo, è umanizzato, in ogni forma. Anche le Madonne rappresentate dai monaci sono dette “umane”. Il poeta ci parla della primavera e del tempo e degli amanti e Dio è lì. Talvolta si lascia costruire dall’uomo, Dio è “cattedrale” (“Ti edifichiamo con mani tremanti atomo su atomo, ma chi può compierti cattedrale”) eppure spirito che tiene e che comunica con l’uomo che lo invoca, senza intermediazione. Più volte Rilke esprimerà la necessità di non avere bisogno di intermediari, neanche di “Cristo”. Rilke cercherà Dio fino alla morte rendendolo struttura stessa, filo all’interno delle sue opere eppure altro: una sorta di ricerca e scoperta all’interno dell’Io stesso. Una vita intera di evocazione ed invocazione del divino, in cui il poeta si confonderà e nulla lascerà d’inesplorato. Saranno insieme, infine, il Dio e il poeta, e la 58


Non attender che Dio su te discenda e che ti dica: Sono. Senso alcuno non ha quel Dio che afferma l’onnipotenza sua. Sentilo tu, nel soffio ond’ei ti ha colmo da che respiri e sei. Quando, non sai perché, ti avvampa il cuore, è lui che in te si esprime.

parola sarà il “vincolo divino”, (“perchè un vincolo divino la leghi, / la parola si fa evocazione, / ma invece di dissolversi si erge/ nell’ardore che esaudisce/ cantando incolume”). Non è raro trovare similitudini tra il Dio e il poeta, in Rilke: entrambi unificano, entrambi svelano, si compenetrano alle cose. Entrambi cantano il canto che Dio insegna: “un Dio lo può. Ma come potrà un uomo, / dimmi, seguirlo sull’esile lira? [...] canto è esistenza. Al Dio facile cosa./ Ma noi, noi quando siamo? [...] vero canto è un altro alito. [...]. / Uno spirare nel Dio.” È, quello tra Dio e poeta, un dialogo aperto e senza giudizio; è descrittivo, esplorativo, estremamente intimo, fino ad essere il mezzo che mette in evidenza l’umanità e destino di poeta. Non è lontana qui una certa visione che apparterrà poi a Merini: Rilke è una delle pochissime “fonti” riconoscibili della poesia meriniana. L’Orfeo (colui che è “ovunque quando la voce canta”) sarà filo e guida di poeti contemporanei altamente ispirati: Rilke, come Campana e Merini. Il lungo percorso poetico ed esistenziale di Rilke è anche un dipanarsi di concezioni della deità che terminerà nelle ultime poesie in un verso trascendente, oscuro. C’è una poesia del 1925, Idolo, che probabilmente unisce ed annulla tutti i caratteri che Rilke ha annoverato nella sua poetica ispirandosi alla deità, è una poesia che ha odore di declino. Qui Dio può essere anche dea, ha attributi animali, ha una essenza di abbandono che non evoca altro che un potere che crolla e si trascende...ed infatti è un “idolo”, non è un Dio. Il Dio della poetica di Rilke va indagato in altri versi: quelli che ci invitano a sentire, a non attendere altro. Il poeta canta: “Non attender che Dio discenda.[...] /Senso alcuno non ha quel Dio [...] / Sentilo tu È lui che in te che si esprime”. Quasi a intendere che un Dio senza uomo non può cantare. Sono interdipendenti. Dio ha bisogno di una voce in terra. Probabilmente è la voce del poeta. 59


Dopo il silenzio dell’universo

Il respiro del dubbio e della trascendenza nella parola dei poeti Oreste Lopomo

Mi piacerebbe che ogni lettore, anche senza credere in Dio, riuscisse a gettare sulla poesia quello stesso sguardo microscopico e compartecipe, appassionato e onnicomprensivo che Gerard Manley Hopkins posò sulla natura nei versi di Pied Beauty, ossia Bellezza multicolore Sia gloria a Dio per le cose variopinte per i cieli pezzati come vacca macchiata; per i nei di rosa che picchiettano la trota nuotatrice; per le castagne crollate dai rami sui rossi tizzoni; per l’ale del fringuello; pel paesaggio ordito e frammentato - stazzo, maggese, ed arativo; e per tutti i mestieri, e lor ferri e strumenti. Tutte le cose, le contrarie, le primordiali, le superflue e strane; tutto che è mutevole, screziato (chi sa come?) col veloce, il lento; dolce, acido; fulgido, opaco; Quegli le procrea la cui bellezza è oltre mutamento. Lodate Lui. L’intuizione di Valerio Magrelli -poeta, saggista e critico letterariosull’approccio del lettore alla poesia può diventare anche la chiave di lettura per ribaltare il discorso e chiedersi se ad una visione della poesia da parte del lettore, improntata proprio sulla ricerca della bellezza multicolore come espressione di una trascendenza delle parole, corrisponda in senso lato un approccio del poeta che, al di là di ogni connotazione dichiarata, cerchi nel verso “il respiro” come elemento non di religiosità laica ma come un “quid” che caratterizzi il tentativo di uscire dalla ghettizzazione semantica e settoriale per affermare una sorta di trascendenza in sé anche quando l’oggetto della poesia sembra contrastare proprio con la trascendenza esaltando una immanenza dissacrante. Un “quid” che paradossalmente si identifica con il dubbio, che non è ob60

bligatoriamente incertezza esistenziale, ma linguistica. Questo ovviamente non vuol dire che non possa esserci una simbiosi tra il dubbio esistenziale e quello legato alla composizione poetica vista nella sua fattispecie di costruzione del verso. Non a caso sempre Magrelli sostiene che chiunque scrive poesie ha dubitato di sé cedendo alla tentazione di una conferma. “Non c’è poeta (spero) -annota- che prima o poi non sia giunto a tradire la propria vocazione, come Pietro con Cristo. Basti pensare alla grande Emily Dickinson, che anche dal sommo della sua sapienza sentì il bisogno di una rassicurazione, di un gesto di sostegno, tanto da chiedere a un suo corrispondente: è troppo occupato per dirmi se i miei versi respirano?” Il nodo è proprio nel concetto del respiro del verso che va analizzato nella dualità del significato, cioè sia come respiro linguistico, ma anche come anelito ad una trascendenza che è parte integrante e costitutiva della poesia, al di là del tema trattato. Un esempio illuminante di questa capacità di coniugare forma e sostanza della trascendenza poetica lo si può trovare nel misticismo letterario di Gialal al–Din Rumi , il poeta persiano che scrisse L’uomo di Dio e che nell’espressione del verso aveva già indicato il ritmo


Salvatore Comminiello - Perfetta imperfezione - 2016 - dittico cm.143x85

dell’invocazione come elemento fondante di quel “salto oltre la terra che conduce al di là del bene e del male”. Un verso quello di Rumi che nella sua essenzialità, nella parca aggettivazione, nella sobria bellezza propone molti secoli prima l’antagonismo della poesia (soprattutto del Novecento) che si configura come reazione nei confronti dell’impiego usuale, prosaico del linguaggio. La poesia, cioè, si oppone all’uso strumentale della parola e si presenta come una specie di anticorpo, sottraendo i materiali verbali alla mercificazione quotidiana. Ogni forma che vedi ha il suo Tipo supremo nell’Oltrespazio: se la forma scompare, non temere: la sua radice è eterna. Ogni immagine che vedi, ogni discorso che ascolti non penare quando scompare, che questo non è vero. Poiché eterna è la fonte, i suoi rami scorrono sempre, e poi che ambedue mai cessano, inutile è il lamento. Ma se questi versi di Rumi si avvicinano ad un’idea della poesia concettuale, in quelli tratti da L’uomo di Dio che apre il volume dedicato alle poesie mistiche, il poeta persiano riesce a trovare nel ritmo un elemento non secondario che richiama il respiro del verso inculcando nel lettore quello sguardo partecipe e onni-

comprensivo che va oltre la dimensione semantica. L’uomo di Dio è, senza vino, ubriaco. L’uomo di Dio è,senza cibo, già sazio. […] L’uomo di Dio è oltre fede e non fede. L’uomo di Dio è oltre il male ed il bene. Un incedere letterario che non è desueto e che ci riporta anche alle espressioni più mature della poesia italiana di questi anni: “Signore della morte e della vita, nessuno più di lui merita vita /Signore di ogni tempo di ogni vita, per la sua vita ti dò la mia vita” Così scrive, ad esempio, Patrizia Valduga nel libro delle Laudi , raccolta di versi nella quale la poetessa milanese affronta lo stesso viaggio di Rumi in una sorta di sapiente rigenerazione dell’invettiva come genere poetico, facendo perno sul passaggio dall’interiorità più segreta all’esterno e al collettivo con ritorno all’interiorità e alla preghiera. Ma anche in questo caso il misticismo non diventa oscurantismo, ma traccia profonda del dualismo letterario e contenutistico che riesce ad identificare bene lo spartiacque tra etica poetica tout court e poesia religiosa nell’accezione più comune del termine. Di luce in luce vengo verso te, e la luce si fa sempre più chiara. Poso la testa sopra i tuoi ginocchi…. Sto bene……Ce la faccio , anima cara …. Guarda! Il cielo è sereno… È tutta luce la neve sulle cime dello Schiara. Quel ritorno alla luce che non sconfigge il dubbio, anzi è il dubbio l’elemento forte dell’anelito alla trascendenza come sintetizza splendidamente Alda Merini: “Come si fa a tornare a Dio dopo il silenzio dell’universo?” 61


Rosella Corda

Appunti rapsodici per un’estetica della deità Giuseppe Satriani - Infierno-Pecadores

Assumiamo un punto di partenza provvisorio – e anche caduco: la proporzione (aberrante) per cui diremo che come l’umanità sta a l’uomo, la deità sta a Dio. In altri termini, se domando cosa sia l’uomo, mi interrogo circa la sua umanità – possibile? Se mi domando cosa sia Dio, mi interrogo circa la sua deità – possibile? E questo è il punto d’intersezione nella proporzione (aberrante): la domanda circa l’essenza e la sua possibilità; o, più profondamente, la domanda circa la possibilità - e le condizioni di possibilità - di un’essenza in generale: che potrebbe declinarsi in Assenza e/o Mancanza, postulandone un desiderio; oppure come ordine gerarchico di eminenze possibili, in una sospensione graduata tra atto e potenza; oppure come gradiente intensivo-virtuale per un attuale emergenziale. E il punto è che questo stesso punto di domanda può essere un anello, un cristallo, un sasso, 62

una freccia. Umanità dell’uomo e deità di Dio alluderebbero alla “natura” o “sostanza” dell’umano e del divino in una sorta di circolo vizioso dove una cosa rincorre rispettivamente un’altra senza via d’uscita, a meno che non si ponga la domanda sostanziale, cioè la domanda circa l’essenziale. E allora la vicenda si complica preludendo a delle vie d’uscita (dal senno), che sono tanto fughe quanto ferite nel corpo compatto dell’Eterno – la “follia” atea dei moderni. L’anello della fedeltà è ceduto in nome del tradimento /sfondamento della Critica – e qui la questione si fa aberrante: un cristallo (nel segno della rifrazione), un sasso (per colpire come un martello), una freccia (per indicare ultradirezioni vettoriali). Si può rispondere alla domanda che cos’è l’umano immaginando che ciò coincida con la sua umanità possibile, e che cos’è Dio immaginando similmente che ciò coincida


con la sua deità possibile? La questione concerne la posizione della domanda, essendo questa non un problema che presupponga una soluzione – un’essenza preordinata che possa essere possibile: né necessaria né impossibile, ma forse attuale (se liberamente si voglia); bensì essendo essa sostanzialmente problematica: indecidibile, come un cristallo di tempo, attraverso cui tutto può accadere. L’evento del problematico concerne l’estetica di un gioco di dadi: una scommessa su tutto il Reale che ne scompagina per ogni esito la trama e la forma. La domanda della Critica prende avvio (provvisoriamente) dal possibile prevedendo proporzioni e rapporti, malcelando la dimensione aberrante di questi nessi; per poi radicalizzarsi oltre il possibile nella dimensione del virtuale, che è un modo del reale opposto solo all’attuale. Per cui, deità come umanità sono due facce di uno stesso dado-cristallo lanciato su di un tavolo labirintico – un flipper dove ci si aspetta un ritorno a rimbalzo, ma la ripetizione trasforma la pallina in una macchina del tempo a rifrazione virtuale. Deità e umanità, che dovrebbero dirci qualcosa attorno all’essenza possibile dell’umano e del divino, ovvero attorno all’identità, in realtà, se poste in questione rispetto a ciò a cui pure vorrebbero alludere, svelano la crisi e dell’umano e del divino: in un unico crepuscolo degli idoli. Nella morsa del possibile, che funge da leva (o molla) della domanda, si rischia il tutto per tutto nel nulla: ed è la teologia negativa dell’Uomo – e del divino: la mancanza di identità come reciproca, oscura specularità; oltre la morsa del possibile, ciò che è in potenza accede all’immanenza del virtuale, dipanando ogni volta attualità eventuali: produzione differenziale. G. Deleuze scrive: “Il mondo si fa mentre Dio calcola, e non si darebbe mondo se il calcolo fosse

giusto. Il mondo è sempre assimilabile a un resto, e il reale del mondo non può essere pensato se non in termini di numeri frazionari o anche incommensurabili”(Differenza e ripetizione). Aristotele distingueva tra atto e potenza; il possibile è un effetto critico (kantiano) del dubbio (cartesiano); M. Proust suggerisce, a proposito degli stati di virtualità, “reale senza essere attuale, ideale senza essere astratto”: il virtuale è l’accelerazione della potenza oltre le sospensioni mistificanti del possibile. E il reale deleuziano si gioca nelle cifre frattaliche di campi di forza (l’essenza) e linee di fuga (esistenti concatenati tra loro). Ogni ente è problematico: non perché sia sospeso sul nulla ma perché ogni essenza è differenziale, come ogni differenziato è in rapporto contiguo (toccante/toccato) ad altro. La proporzione, allora, che fa convergere ed esplodere l’essenza dell’umano e del divino, non è solo aberrante e sostanzialmente provvisoria, ma propriamente “mostruosa”: «Mostro è innanzi tutto un essere composto. (…) Mostro ha un secondo significato : qualcosa o qualcuno di cui l’estrema determinazione lascia pienamente sussistere l’indeterminato (per esempio un mostro alla Goya). In questo senso il pensiero è un mostro“, G. Deleuze (Lettera a A. Villan, in G. Deleuze, Lectres et autres testes, Les éditions de Minuit, Paris, 2015). C’è qualcosa di mostruoso potrebbe voler indicare l’essere della sensazione, impossibile eppure reale: tra il dis-umano, l’oltre-umano, il sub-umano, aperti e disseminati nelle dissimmetrie spericolate delle ultime deità – dif/formi tra l’amorfia preindividuale di Dioniso e l’iperrealismo di Apollo.

63


Dio, infiniti dei

Ghino Mori

Non so se le rappresentazioni mentali che gli uomini hanno del concetto di Dio siano infinite, ma la loro cifra eguaglia pressappoco il numero degli esseri umani presenti sulla terra. Ognuno ne ha un’idea particolare. E ciascuno poi quest’idea la trasforma a modo proprio, secondo la personalità, la cultura e la propria visione della vita, e, così personalizzata, la proietta sui rapporti umani e nei discorsi che elabora. Vorrei avvertire il lettore che questo non è certamente un discorso improntato ad ateismo. Non è in discussione, sia chiaro, l’oggettiva esistenza di un essere supremo o di un principio originario da cui tutto sarebbe derivato. Ci occupiamo invece delle tante creative raffigurazioni cui gli esseri umani danno vita quando pensano a Dio. Il Quale, essendo per intuizione e/o per ragionamento logico, infinito ed eterno, non può albergare in una mente limitata come quella degli uomini, se non come un’arbitraria e soggettiva fantasia. Eccone un esempio. Prima del Dio “maschile” a cui la cultura giudaico-cristiana ci ha abituati, i popoli del Mediterraneo hanno conosciuto una divinità al femminile. Secondo lo storico delle religioni J. Bachofen (Il Matriarcato, 1861), la prima forma di organizzazione sociale, nel periodo pre-storico, sarebbe stata una ginocrazia, caratterizzata dal culto della Dea Madre, dalla successione matrilineare, nonché dalla promiscuità sessuale. Il governo delle regine-sacerdotesse prevedeva la comunanza dei beni e si basava sul diritto naturale. La fecondità femminile era messa in relazione con l’acqua e la fertilità della terra. Le decorazioni grafiche rinvenute su vasellame, manufatti e statuette, richiamavano i simboli del “generare”: il parto, la vulva, l’acqua, le fasi lunari. L’accentuazione di seni e fianchi nelle statuette serviva a mostrare la Dea come dispensatrice di nutrimento. Il crollo del matriarcato avvenne fra il 4000 e il 2800 a.C. a causa di invasioni di tribù provenienti dall’Est e dotate di una cultura “maschile”, basata sull’allevamento del cavallo e la fabbricazione delle armi. La successione matrilineare diventa così patrilineare, il diritto non è più naturale ma storicamente istituito, la promiscuità sessuale si trasforma in monogamia, e la comunanza dei beni in proprietà privata. Da una simbologia religiosa legata all’acqua e alla terra si passa ad una simbologia celeste, e la figura di Dio viene associata al sole e al bagliore del giorno. Se ne trova traccia infatti nel Deus latino, che rinvia al tema indoeuropeo dyeu, da cui il dies latino che vuol dire giorno. In quanto principio di ogni essere, Dio è stato inteso nella storia del pensiero in modi diversi. Ad esempio, come causa ordinatrice del mondo e artefice dell’ordine. In questo senso, possiamo risalire al filosofo greco Anassagora (V sec. a.C.), che considera il divino una intelligenza ordinatrice di una materia già esistente: produce un ordine, non crea la realtà. Analogamente, Platone

64


considera Dio come artefice che dà forma all’universo, non traendolo dal nulla, ma modellandolo in una materia preesistente. Pure il Dio di Aristotele non è un creatore: solo la cosa individuale, dice, ha nascita e morte, la materia dell’universo è eterna. Ed anche con l’avvento del cristianesimo, l’idea di un Dio artefice dell’ordine, ma non creatore, non scomparirà dalla filosofia occidentale, e le sue tracce sono ravvisabili nel pensiero moderno con Voltaire e J. S. Mill. La seconda connotazione di Dio, affermatasi con la tradizione ebraica e cristiana, è quella di un Essere Supremo trascendente che crea il mondo traendolo dal nulla. “Dio ha prodotto il mondo … … dal non essere all’essere”, scrive Filone di Alessandria. Così ragionano anche i primi padri della Chiesa come Ireneo ed Origene. Quindi, diversamente da ciò che riteneva il pensiero greco, secondo cui il mondo e la materia erano eterni come Dio, Sant’Agostino afferma che ciò che è mutevole non può esserci da sempre, ma è costituito a partire da un non essere. L’essere di tutte le cose, scrive Tommaso d’Aquino, è creato da ciò che già possiede l’essere. Conclusioni analoghe verranno riprese nel pensiero moderno da vari autori come Cartesio e Leibniz. La terza versione è quella di una Divinità immanente e intrinseca alla materia, la quale costituisce l’essenza stessa di ogni cosa, la natura stessa del mondo. Quest’immanenza aveva già fatto capolino nel pensiero greco con Eraclito, e lo stoicismo aveva indicato in Dio la qualità propria di ogni sostanza. Secoli dopo, il neoplatonico Plotino ha paragonato il rapporto tra Dio e il mondo a quello del profumo rispetto al corpo odoroso e della luce con la sorgente luminosa. E Giordano Bruno diceva che “la natura o è Dio stesso o è la virtù divina che si manifesta nelle cose stesse”. Anche B. Spinoza scriveva che questo rapporto consisteva “in un solo e medesimo ordine, una sola e medesima connessione di cause, una sola e medesima realtà”. Questa stessa prospettiva può essere rintracciata in epoca moderna nell’ambito della filosofia idealistica tedesca. Quanto detto finora non esaurisce certamente il multiforme ventaglio delle raffigurazioni in cui la figura di Dio viene declinata in tutti gli angoli del mondo. Ma credo sia difficile rintracciare qualche idea di divinità le cui caratteristiche si allontanino di molto dai tre grandi contenitori appena descritti.

65


Come porte di altri mondi

Quando è la scienza a parlarci di un Autore Vito Santarsiero

Negli ultimi anni due scoperte hanno cambiato la nostra visione dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, offrendoci con le loro interazioni elementi significativi di riflessione filosofica e teologica. Il bosone di Higgs, chiamato “particella di Dio”, è l’elemento che costringe le particelle elementari (i quark e i leptoni, i veri elementi base della materia) ad interagire ed aggregarsi sino ad acquisire massa; ed esso stesso prende massa interagendo con se stesso. È qualcosa di più piccolo del più piccolo che si può immaginare, un qualcosa che quasi non c’è, difficile da concepire. È grazie ad esso però che c’è posto per l’universo, la sua evoluzione e c’è posto per la nostra stessa specie umana. Per scovare questa particella gli scienziati hanno dovuto esaminare oltre quattro triliardi di collisioni tra protoni. L’altra scoperta che apre ad una nuova stagione per l’astrofisica e rivoluziona il mondo della fisica è quella delle onde gravitazionali, previste un secolo fa da Abert Einstein nella sua Teoria della Relatività Generale. Quelle rilevate sono state prodotte nell’ultima frazione di secondo del processo di fusione di due buchi neri che, con masse superiori a 30 volte quella del nostro sole, si sono scontrati ad una velocità di 150.000 chilometri al secondo, il tutto un miliardo e mezzo di anni fa. Le onde in tale periodo hanno viaggiato verso di noi alla velocità della luce ed hanno investito il nostro pianeta nel settembre scorso. La scoperta di tali onde conferma la presenza di quelle che possono essere considerate piccole increspature nella connessione spazio-tempo che caratterizza l’universo. Le onde gravitazionali ci aiuteranno a comprendere meglio l’universo, la sua origine, la sua dimensione, i processi di espansione. Quello che più eccita gli scienziati è però l’ignoto; “ci sono là fuori – affermano- cose in cui non ci siamo mai imbattuti nemmeno con i telescopi”. E c’è chi ipotizza la presenza di tunnel spazio-temporali capaci di mettere in relazione eventi dell’universo distanti nello spazio e nel tempo o addirittura universi diversi dal nostro. La dimensione delle due scoperte è epocale, e la chiara connessione che emerge tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, tra il sub nucleare e la dimensione delle galassie e delle stelle che popolano l’universo, richiama non già al caso o al caos, ma ad un disegno, una visione, una logica; e se c’è disegno

66


o logica o visione deve esserci un Autore. Come non leggere in tutto questo la declinazione di un Dio capace di dare senso, ordine e logica a tutto ciò che ci circonda? E come non leggere in tutto questo il richiamo ai limiti della nostra condizione di specie umana confinata in un punto infinitesimale di un universo immenso e indefinito che non conosciamo, o conosciamo poco, o di cui da poco abbiamo cominciato a cogliere qualche aspetto e che certo non vive in funzione della nostra biologia? Così come poco conosciamo quella stessa presenza infinitamente piccola che rende possibile la presenza stessa dell’universo a cui si correla non certo attraverso la nostra specie. Emerge un qualcosa che va molto oltre i nostri sensi e il nostro stesso raziocinio costretto, come nel caso di Einstein, quando pur intuisce qualcosa, a rinviare alla sua evoluzione e ad analisi future per scoprire ciò che era stato prima intuito, quasi ci sia un percorso da dover compiere verso la conoscenza e verso la verità. Una esistenza chiusa nell’immanente si esaurisce nei confini del presente e rinuncia a guardare oltre, l”altro” che c’è, che esiste, che è tra noi, e che noi semplicemente non conosciamo. Solo se si è connessi con quell’ “altro” che esiste e che va oltre lo stesso universo che ne è figlio possiamo comprendere. Questa connessione, che oltrepassa la fede o che non è solo fede ma è il saper desumere la presenza di ciò che vi è, rappresenta l’elemento che ci consente di passare da soggetti destinati a cogliere con il proprio raziocinio solo una parte di ciò che esiste, nonché da soggetti destinati a chiudere la propria esperienza terrena con una morte che annulla ogni elemento materiale, a soggetti capaci di andare oltre i propri sensi e la limitatezza della propria materia per diventare capaci di cogliere gli aspetti più veri, intimi e misteriosi della realtà che ci circonda. La testimonianza dell’altro e del mistero, inteso come qualcosa di difficile da percepire ma che è dentro la nostra realtà e la nostra esistenza, occorre saperla cercare ed arguire innanzitutto dentro di noi. È questa la ricerca che in fondo rappresenta il percorso di vera conoscenza che appartiene in ogni epoca alla specie umana e che da sempre affanna filosofi, teologi e pensatori.

67


Antonio Saluzzi

Come Efesto

La forza espressiva del metallo

Sonia Gammone

Pensare all’arte di Antonio Saluzzi significa in primo luogo seguire la forza del metallo fuso che lentamente si fa strada nella terra, in un percorso indicato ma mai seguito fino in fondo, perché il fuoco è vivo e sceglie dove andare mentre va, e non prima. Esistono figure fuori dal tempo, che ci raccontano il presente attraverso saperi antichissimi e faticosi, che usano attrezzi realizzati manualmente, volutamente semplici e non meccanizzati, perché un’opera è tanto più autentica quanto più irripetibile nei suoi dettagli, nelle sue “imprecisioni”. Una personalità mite quella dell’uomo, che si fa dirompente nelle sculture di fuoco che crea nel suo laboratorio artistico. Perché Antonio Saluzzi è prima di tutto uno scultore abilissimo che forgia nel metallo la veste ultima delle sue creazioni. Grande appassionato di storia e profondo conoscitore della simbologia propria della pietà popolare, branca ancora troppo poco indagata, ha realizzato negli anni tantissime opere: dalle medaglie celebrative, pezzi unici o a tiratura limitata, ad opere di sorprendente bellezza. Una fra tutte Phoenix, selezionata anche per la prestigiosa Florence Biennale 2015, mostra d’arte contemporanea internazionale di Firenze. Una creazione che racchiude in sé tutta la potenza espressa dal fuoco insieme all’abilità propria di questo artista così originale. Quando i saperi antichi di mescolano alle visioni contemporanee non possono che imporsi in maniera forte, ma discreta allo stesso tempo, riuscendo a mettere insieme capacità di sintesi dei sistemi precostituiti e grande innovazione. Fra i pochissimi in Italia ad utilizzare queste antiche tecniche di fusione, Saluzzi si sta facendo strada con la sua arte in circuiti sempre più importanti. Con la discrezione che lo contraddistingue riesce sempre a stupire chi ha il privilegio e la fortuna di incontrare le sue opere.

LUCANIA INVENIENDA 68


In un contesto dove tutto è in evoluzione e dove spesso tutto passa a grandissima velocità, sorprende e fa riflettere la necessità di attesa, aspetto fondamentale e necessario per la realizzazione delle sue opere. A voler descrivere tecnicamente la fonderia, che è forse la tecnica più antica di formatura dei metalli, si può semplicisticamente dire che essa consiste nell’immettere un metallo fuso in una cavità della quale il metallo dopo il raffreddamento ricopia al positivo la forma. La realtà è ben più complessa di così, è fatta di un lunghissimo e paziente lavoro di scultura che porta prima di tutto alla realizzazione di una forma scultorea definita, già di per sé opera d’arte, e che arriva alla fusione vera e propria solo alla fine. Il bronzo, metallo prediletto da Saluzzi, splende ed esalta queste forme finemente scolpite dall’artista. È suggestivo vedere trasformarsi una forma di argilla quasi un po’ anonima per consistenza e colore, in un pezzo di bronzo brillante, forte ma elegante allo stesso tempo. Per contattarne la forza espressiva le sue opere non vanno solo guardate,ma vanno toccate, sentite, seguite nelle loro forme. Bisogna immaginare il metallo fuso, rovente, infuocato che è stato plasmato e che sembra palpitare ancora anche se immobile, anche se freddo. San Francesco diceva che “Chi lavora con le mani è un operaio, chi lavora con le mani e la testa è un artigiano, chi lavora con le mani, la testa e il cuore è un artista”; perciò Antonio Saluzzi è un artista, autentica passione di metallo e fuoco.

Antonio Saluzzi - Phoenix - bronzo diametro cm100 69


Melfi Cripta di Santa Margherita

Quasi un dio

Il vero volto dello “Stupor Mundi” Franco Cacciatore

LUCANIA INVENIENDA 70

Intorno all’anno mille si verifica una migrazione,verso il Meridio-

ne d’Italia, di ordini monastici dell’Oriente, in fuga dalla loro terra a causa delle lotte iconoclaste, Fra gli insediamenti rupestri in Lucania, quelli nell’area del Vulture, dove un rilievo particolare riveste a Melfi la cripta di Santa Margherita di Antiochia, interamente affrescata, situata nei pressi del camposanto, a circa tre chilometri dal centro della città sulla statale che porta a Rapolla. È questa, fra le chiese rupestri, l’esempio più significativo e per l’impianto (scavata nel tufo a due campate con volte a crociera e ampio cenobio) e per la decorazione pittorica. Ritenuta dagli studiosi “una delle più importanti, tra le poche a stile bizantino del 200, dell’Italia Meridionale”. La cripta ha una sua magicità. Siamo in pieno Medioevo e contrariamente all’invalsa concezione di un periodo tetro e buio, il luogo è un autentico trionfo del colore, una simbiosi di misticità e arte, nella rappresentazione di una moltitudine di immagini sacre. I preziosi dipinti richiamano schemi figurativi del periodo, legati stilisticamente a caratteri propri di una cultura meridionale, ma risentono di esperienze bizantine e modelli influenzati dalla cultura catalana. Ma a colpire il visitatore, che entra nella chiesa rupestre, in alto a sinistra un inusitato affresco, denominato “il monito dei morti”, che nel 1973 Jurgis Baltrušaitis ne “Il Medioevo fantastico” scrive essere la prima raffigurazione del genere in Europa e premessa al ciclo delle “danze macabre”. Ma sarà proprio questa raffigurazione a riservarci un’altra sorpresa. Nel 1994, in coincidenza con gli ottocento anni della nascita di Federico II, lo studioso Lello Capaldo, giornalista e naturalista, scopre l’immagine dell’Imperatore e la sua famiglia in abiti da falconiere. La tesi è sostenuta da un’ampia ricerca che ne avvalora l’autenticità. L’affresco, denominato altresì “Il contrasto tra i vivi e i morti” e “Il trionfo della morte”, mostra due scheletri dall’aspetto terrifi


71


cante e ripugnante, con teschi orripilanti e il ventre brulicante di vermi che si ergono contrapponendosi a tre vivi. Il primo ha veste scarlatta ornata di ermellino, guantone e falco. Alla cintura una daga orientale ingemmata. Il suo volto ha barba rada e rossiccia. È in atteggiamento ieratico e cerca con lo sguardo e con la mano sinistra di allontanare gli scheletri dai suoi cari: una donna dai tipici tratti fisiognomici del nord, abbastanza alta, dai capelli biondi e gli occhi cerulei; ella, come si legge in “S. Margherita, cappella vulturina del duecento” di G.B. Guarini del 1899, pone con aria di protezione materna, le mani sottili sulla spalle di un figura infantile, dai larghi occhi attoniti,dai capelli biondi finemente ondulati. Tutti hanno al loro fianco borsa da falconiere con ricamato il giglio e il fior di loto a otto petali, oggi nel primo personaggio poco leggibili. Una simbologia, per quanto riguarda il numero otto, alla quale Federico II era molto legato. Basti pensare all’esoterico Castel del Monte e all’anellosigillo, rinvenuto nella sepoltura di Palermo, con impresso proprio il fior di loto. D’altronde l’otto è numero inferiore al nove che è la divinità, e in posizione orizzontale è l’infinito, qual era il potere dell’Imperatore. Mentre per il giglio araldico, che ha forviato precedenti ricerche, sino a vedere nei vivi tre mercanti 72

fiorentini, immancabile è la sua presenza nelle raffigurazioni della famiglia sveva: da Federico Barbarossa a Arrigo VI e lo stesso Imperatore. Finanche le corone e la coda dell’aquila imperiale sono gigliate. Infine, davvero sorprendente, il raffronto fra l’immagine della cripta di Melfi e quella tratta dalla Chronica Regia Coloniensis, documento coevo del periodo federiciano, conservato nella Biblioteca Reale di Bruxelles. Questi gli elementi principali che portano a identificare nell’affresco l’immagine di Federico II, Isabella d’Inghilterra terza moglie dell’Imperatore e Corrado, figlio di Jolanda di Brienne, seconda consorte,morta al parto. Alla sensazionale scoperta, che suscita largo interesse culturale e mediatico nazionale ed estero, fa seguito restauro della Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici della Basilicata, unitamente al progetto della Fondazione Zetema di Matera che la inserisce nel Distretto Culturale dell’Habitat Rupestre regionale e l’impulso promozionale dell’APT Basilicata, proprio con l’intento di allargare l’orizzonte della fruizione in ambito nazionale e internazionale della cripta. Ignorata dai vari Schultz,Lenormant e Bertaux nei loro viaggi del Grand Tour, fu scoperta e studiata nel 1899 da Giambattista Guarini di Melfi, unitamente al concittadino Luigi Urbino, pittore, che degli affreschi produce disegni


che,con ampia relazione dello stesso Guarini, saranno pubblicati sulla rivista di Benedetto Croce, “Napoli nobilissima”. Ma dopo un iniziale interesse la cripta riprenderà ad essere una grotta per il rifugio degli armenti. Solo negli anni ’70, dopo una campagna di stampa, sarà avviato programma per la conservazione del monumento. Nella chiesa rupestre colpisce quella moltitudine di rappresentazioni sacre che mostrano con evidenza l’essere state eseguite da più mani, in vari periodi e influssi. Così S. Nicola, S. Guglielmo da Vercelli, che istituì il suo ordine a Melfi, il martirio di S. Lorenzo, S. Lucia e S. Caterina con ricchi abiti bizantini, il martirio di S. Andrea e di S. Stefano, frammenti di una Natività di rara bellezza, la duplice rappresentazione di S. Michele, che evidenzia un culto micaelico diffuso verso l’Arcangelo (nella simbologia cristiana,il Figlio), S. Giovanni Battista e S. Giovanni evangelista, Cristo e Madonna in trono. Su tutte campeggia sull’altare maggiore, nella cui volta è rappresentato il Cristo Pantocratore di alta scuola bizantina, l’immagine di Santa Margherita di Antiochia (in origine Marina, poi Margarita ad evidenziare il suo candore) contornata dalle “storielle” della vita e del martirio, e fra le raffigurazioni di S. Paolo e S. Pietro. L’abbigliamento della santa, chiaramente regale, è proprio della pittura rupestre

meridionale con motivi di gusto nordico. Le figure delle “storielle”, sia pur nella loro semplicità dei tratti, si ispirano a un’arte miniaturistica, permeata dall’inconfondibile stile bizantino. Esse, come in una sequenza filmistica, ci narrano la storia della santa. A sinistra, l’incontro con il prefetto Ollario che tenta di sedurla mentre Margherita pasce le sue pecore; la santa, accusata dal padre Edesio, sacerdote pagano, è interrogata dal prefetto; imprigionata e tentata dal demonio nelle vesti di un drago, ucciso da Margherita con la croce; nell’ultima, sempre in prigione, con la visione di un diavolo. A destra il martirio: è flagellata, scorticata con un pettine di ferro, calata nell’olio bollente, decapitata mentre la sua anima vola in cielo. Rappresentazione questa insolita per benedire con la mano destra, mentre con la sinistra regge una croce. Ma al visitatore, nell’uscire dalla cripta, un’ultima sorpresa, quasi ad avvalorare la scoperta dell’immagine dello Stupor Mundi. Alle sue spalle l’affresco del “monito”, di fronte si staglia imponente la sagoma del castello delle Costituzioni di Federico II. Non sarà questo il messaggio dell’ignoto eremita, autore della raffigurazione? La grandezza dell’Imperatore si annienta di fronte alla morte.

73


LA GALLERIA D’ARTE INTERNAZIONALE E IL CENTRO STUDI DELLA CULTURA MEDITERRANEA “Porta Coeli” è una galleria d’arte internazionale con sede a Venosa nel seicentesco “Palazzo Rapolla”, ubicato alle spalle di Piazza Orazio, proprio nel cuore del centro storico. Nato come innovativo spazio espositivo, col tempo si è evoluta in Centro Studi della Cultura Mediterranea, proponendosi a visitatori ed appassionati con una suggestiva commistione di espressioni artistiche. Due le sezioni: la prima di Arte Sacra, dedicata alla pietà popolare con incisioni, litografie ed una ricca esposizione di icone bizantine di scuola cretese; la seconda di arte contemporanea che in via continuativa propone opere di artisti di levatura nazionale ed internazionale. Per garantire la conoscenza e la valorizzazione della cultura mediterranea “Porta Coeli” realizza attività di studio e di ricerca attraverso seminari, laboratori, premi letterari e si fa promotrice di artisti emergenti. La Galleria ad oggi ha già all’attivo numerose mostre personali e collettive, ed ha sottoscritto nel tempo importanti partenariati con organismi ed enti, nazionali ed internazionali, come la Florence Biennale di Firenze, il Monastero Ortodosso di Lepanto (Grecia), il Souq Waqif Art Center di Doha (Qatar), i Bastioni - Associazione per la ricerca e lo studio delle opere d’arte” di Firenze. 74


IL LABORATORIO DI RESTAURO E SCULTURA Il laboratorio di restauro e scultura attivato presso la sezione d’arte sacra della galleria Porta Coeli rappresenta un elemento d’eccellenza a sostegno delle attività didattiche e di alta formazione. In forza dell’accordo con l’Associazione Bastioni - Associazione per la ricerca e lo studio delle opere d’arte con sede in Firenze, e grazie alla competenza di professionalità interne allo staff, il laboratorio va ad arricchire l’offerta di “Porta Coeli” garantendo competenze specialistiche nel restauro e nella conservazione di opere d’arte sacra (dipinti su tela e tavola, sculture lignee, lapidee, bronzi, gesso e argenti). Ogni fase del restauro viene documentata e certificata dai professionisti restauratori incaricati. Il committente potrà seguire l’intero processo divenendo, in tal modo, protagonista nell’operazione di riappropriazione materiale ed affettiva dell’opera. Il laboratorio, oltre che di restauro, si occupa di realizzare sculture, bassorilievi, manufatti personalizzati e medaglie celebrative create, anche in ossequio a specifiche richieste della committenza, con la tecnica antichissima della fusione a terra che garantisce esclusività ed irripetibilità del singolo manufatto, elevandolo al rango di opera d’arte. 75


Porta Coeli International Art Gallery vanta un’esperienza pluriennale nel campo dell’arte e della ricerca artistica, e dopo diverse iniziative formative come comitato non profit, si costituisce in Ente di Formazione ottenendo l’accreditamento presso la Regione Basilicata: nasce così Porta Coeli Academy. Tale accreditamento ci consente di rilasciare titoli spendibili nel mondo del lavoro; tutte le certificazioni e le qualifiche, ottenute alla fine del percorso di formazione, hanno valore curriculare riconosciuto in tutti i paesi dell’Unione Europea. A seguito di un’attenta analisi, infatti, e consapevoli della necessità di internazionalizzare le conoscenze per essere davvero competitivi nel mercato globale del lavoro, Porta Coeli Academy si propone di formare figure altamente specializzate nei settori trainanti dell’economia della cultura prima e di tutti quei settori strategici in grado di rispondere alle nuove esigenze che emergono nel mondo del lavoro di oggi. Gli ultimi anni sono stati segnati da profondi cambiamenti che hanno portato operatori e organizzazioni culturali, e non solo, a ripensare il proprio ruolo e le proprie attività. Diventa quindi fondamentale utilizzare strumenti e approcci nuovi, innovare i linguaggi e costruire relazioni tra discipline diverse, per formare figure capaci di gestire processi complessi ed adottare un approccio strategico, che combina obiettivi di medio periodo con gli impatti culturali, sociali ed economici che possono essere sviluppati nel tempo. La nostra formazione si rivolge sia ai giovani che vogliono approfondire in maniera pragmatica e specialistica la propria preparazione o trovare nuove strade per affermarsi nel mondo del lavoro, sia ai professionisti interessati ad arricchire il proprio bagaglio di competenze, ad aggiornarsi e ad essere sempre competitivi nel pro-

76


prio settore. Restando fedeli alla passione per l’arte e la cultura che ha ispirato da sempre le nostre iniziative, una parte della formazione è dedicata a tutti quegli aspetti legati alla conoscenza e al perfezionamento delle tecniche artistiche, della storia dell’arte, delle attività di curatela artistica, di allestimento, solo per fare alcuni esempi. Infatti, con l’obiettivo di rispondere anche alle esigenze provenienti dal mercato estero della formazione nel campo artistico in tutte le sue forme, Porta Coeli Academy progetta e realizza percorsi specifici. Tra le attività presenti all’interno del nostro ente di formazione c’è anche quella del restauro che si avvale dell’accordo di partenariato sottoscritto con l’Associazione I Bastioni di Firenze nata con lo scopo di avvicinare conservatori e restauratori con specializzazioni specifiche nella tutela e il recupero dei beni culturali. Un vero e proprio laboratorio di restauro per le opere d’arte che vede uno spazio dedicato all’interno della nostra struttura La nostra sede, ubicata in uno dei più antichi palazzi storici di Venosa, offre la possibilità di seguire le attività formative all’interno degli ambienti espositivi, circondati da opere d’arte. Le aule didattiche, infatti, si articolano sui due piani dedicati alle esposizioni di arte contemporanea e di arte sacra. Ad un corpo docente referenziato, selezionato ad hoc per i percorsi formativi che di volta in volta si realizzeranno, si affiancano attrezzature e metodologie didattiche e laboratoriali efficaci ed innovative. Uno staff interno dinamico e qualificato, si occuperà di progettare, organizzare e gestire la formazione che Porta Coeli Academy realizzerà, curandone con la massima attenzione e professionalità ogni aspetto.

77


La giovane e leggendaria regina di Saba, Makeda, è dall’autore immaginata in terra lucana a compiere il suo avventuroso cammino per incontrate il saggio Salomone. Nel suo viaggio iniziatico Makeda incontrerà i turbamenti del proprio essere femmina, e che risulterà epifanico e rivelatore. Il femminile di Makeda, nella trasfigurazione donna/terra intesa come sensualità, fertilità e seduzione, sospinto dalle folate di vento di Scirocco, significherà, in un’unica parola, Desiderio. Il percorso è scandito da 21 componimenti in prosa poetica, punteggiati da iscastici Haiku, da 12 tavole che rilanciano, in assonanze cromopatiche, i versi in pittura e dal cortometraggio che, dai paesaggi dal chiarore arido dei calanchi, al castello di Monteserico, segue l’andamento rapsodico di questo viaggio lucano.

78


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.