Sineresi n. 4

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Periodico edito dall’associazione PAN - Centro di produzione culturale Via Flavio Gioia, 1 - Brindisi di Montagna (Pz) Tel. 342 32 51 054 e-mail: sineresi.sineresi@gmail.com www.sineresiildirittodiessereeretici.it

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Obsistenza nell’arte d’oggi Il silenzio eloquente della dissidenza Draghi - aquilone e Libri “in volo” fra parola e arte Cuba. Tatuare la storia La storia riscritta da William Kentridge C’era una volta l’Arte rivoluzionaria che non voleva più essere Arte I’m no longer scared of death. La resilienza dei rivoluzionari d’Egitto Ai Waiwei the hanging man Radici Ci salveremo disprezzando la realtà (questa, almeno) Il rapito E la scrittura ci salverà Omaggio ad un eretico senza tempo Mingus the Fingus Epitafio per un angry man Bernardo Panella L’obsistenza dell’essere nel tempo dell’apparire Progetti di resistenza Sakin Cansiz Tutta la mia vita è stata una lotta L’arte prestata al rito: il bisbiglio tra l’uomo e Dio Oltre la resilienza Il polittico del Bellini a Genzano di Lucania un patrimonio che resiste Sperimentare è resistere Teatro e musica dell’associazione Lost Orpheus Multimedia

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L’obsistenza L’abbiamo chiamata obsistenza, perché obsistere è più che resistere, più che essere resilienti. L’abbiamo chiamata obsistenza perché obsistere è contrapporsi, opporsi, impedire. Ci interessa dell’Uomo lo slancio titanico talvolta dolente e persino rassegnato, talvolta eroico e pieno di aspettative. Ci interessa il sogno di chi crede di poter cambiare il mondo e la rabbia di chi non ci crede, ma non smette di lottare perché non smette di essere uomo. Ci interessa tutto ciò che è inequivocabilmente ed inesorabilmente contrario alla passiva accettazione di uno status quo, tutto ciò che si erge contro la deformazione personale/sociale nell’ottica dell’adattamento finalizzato alla propria mera sopravvivenza; ci interessa ciò che cambia il male e non ciò che cambia in male per poter restare. Per questo noi tutti parliamo di obsistenza e parliamo di poesia, di musica, di politica e narrativa, di arte… parliamo di cultura perché la cultura è per sua natura obsistente, perché la cultura è pensiero, è riflessione, è movimento e bellezza. La cultura è ciò che cambia lo sguardo per poter cambiare il paesaggio, è il mutamento del cielo che crea le stagioni; la cultura è scomoda, profetica, scandalosa, spesso arrabbiata; la cultura che ha bisogno di obsistere sperimenta l’angoscia, l’emarginazione, lo smarrimento, l’umiliazione, ma resta viva, viva e oppositiva e propositiva e salda nella sua lotta troppe volte denigrata e incompresa, mai suddita, mai sconfitta davvero. L’abbiamo chiamata obsistenza perché è obsistere che si deve. Anna R. G. Rivelli

Direttore Anna R. G. Rivelli Collaboratori Rossella Batassa - Merisabell Calitri - Sara Errico Aniello Ertico - Donato Faruolo - Cristiana Elena Iannelli Alessandra Asia Moles - Valentina Moles - Ghino Mori Giuseppe Passavanti - Grazia Pastore - Rocco Romanelli Mara Sabia - Vito Santarsiero - Giuseppe Satriani Direttore responsabile Marco Lovisco Responsabile editoriale Giovanni Cafarelli Progretto Grafico Salvatore Comminiello Segreteria Roberto M. G. Cafarelli

Referenze fotografiche Amelio Taddeo Pino Lauria Impaginazione e stampa Vincenzo Cristiano Responsabile sito web Daniele M. G. Cafarelli Prezzo di una copia + inserto € 10,00 Abbonamento solo sostenitori € 50,00 Estero € 70,00 Per richiesta abbonamenti info: sineresi.sineresi@gmail.com Registrazione Tribunale di Potenza n.457 del 13 agosto 2015 1


Obsistenza nell’arte d’oggi

Antonello Tolve

L’arte è oggi luogo d’obsistenza e rappresenta uno dei pochi farmaci felici, un perimetro protettivo, un orizzonte dentro il quale si respira ancora aria salubre, un ambiente dove si dibatte sulla demagogia religiosa e politica (quella che oscura i ragionamenti) del presente.

Hans Haacke 2


Liu Bolin

In contrasto con le smagliature politico-economiche che opprimono le civiltà complesse in cui l’uomo cerca di trovare un lavoro, di reagire alle demolizioni del sapere, di adattarsi alle fulmineità delle cose o alle autopsie che la comunicazione planetaria svolge – mediante la raccolta dei dati pubblicitari – sul cervello del singolo e della specie per propinare disinformazioni, per elaborare sputi e spot pubblicitari (Zanzotto), per traghettare verso le rive dell’oblio, l’arte è oggi luogo d’obsistenza e rappresenta uno dei pochi farmaci felici, un perimetro protettivo, un orizzonte dentro il quale si respira ancora aria salubre, un ambiente dove si dibatte sulla demagogia religiosa e politica (quella che oscura i ragionamenti) del presente. Generatori di speranze e bruciatori di luoghi comuni, gli artisti intraprendono con il nuovo millennio che avanza e lascia alle sue spalle le illusioni comunitarie del secolo breve una serie di scommesse che trasformano l’opera in punto di incontro, in alimentatore di riflessione, in costruttore e proliferatore di idee atte a ripensare l’arte nel contesto della globalizzazione e a scatenare circuiti di resistenza, di inosservanza, di insubordinazione, di trasgressione, di emergenza, di obsistenza. L’artista obsiste, si ferma appunto: e coglie con uno sguardo più articolato i traumi delle società multiculturale: e riflette sulle rapide trasformazioni del modello contemporaneo: e legge le cause e gli effetti che scuotono i piani sociali, economici e geografici del nuovo pianeta in cui vive. Obsistere vuol dire per l’artista non solo fermarsi a riflettere, ma 3


anche resistere, obviare a inconvenienti scottanti, impedire, rimuovere gli steccati del silenzio e urlare con mosse creative, armandosi di strumenti atti a schiacciare il silenzio, il qualunquismo, il perbenismo dei pochi funzionari che governano incontrastati sulle maggioranze silenziose. L’arte assume così (in alcuni casi) un valore paralizzante, assolve a assistenza sociale, assurge a medicinale in grado di guarire o quantomeno rianimare il cervello avariato dell’umanità. E certo non vuole cambiare il mondo (vorrebbe farlo ma sa di non poterlo fare, di non poter cadere nei giardini d’utopia) piuttosto fornire materiale di lettura a un pubblico sempre più ampio – anche a quello di non specialisti – per far conoscere i rituali dell’autoritarismo. Di fronte al nemico di turno l’arte obsiste e usura i linguaggi. Se da una parte infatti avvia un processo di democratizzazione linguistica dall’altra inserisce nel proprio frullino creativo le varie gamme cromatiche di un mondo, quello della vita, che stupisce, percuote, fa mordere le labbra, fa ricordare di essere passeggeri e perché passeggeri figli di una rivoluzione, di un fermento, di una insurrezione che dapprima sosta e dopo si infrange sulla scogliera delle autorità prestabilite dai governi centrali per ripristinare i diritti umani. Con un armamentario che si nutre di interdisciplinarità e di necessaria “indisciplinatezza”, Gianfranco Baruchello propone, ad esempio, sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso, la società fittizia Artiflex (l’azienda Agricola Cornelia S.p.A. sarà organizzata tra il 1973 e il 1981), costituita ad hoc per promuovere azioni artistiche (Finanziaria Artiflex,

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Shirin Neshat


Shirin Neshat

Sala d’attesa Artiflex o il Piccolo capitale a fondo perduto) «volte a fare dell’artista stesso una sorta di industria in grado di commercializzare tutto e porsi in contrapposizione con l’industria vera e propria». Lo slogan della società pensata da Baruchello è Artiflex mercifica tutto: negli spazi della Galleria La Tartaruga – Roma, 11 giugno 1968 – con l’azione Artiflex (Finanziaria Artiflex) l’artista apre uno sportello per un gruppo di «scatole contenenti 5 lire in vendita a 10 lire» e un gruppo di «scatole contenenti 10 lire in vendita a 5 lire» per interpretare intelligentemente (e pionieristicamente) la dimensione politica, sociocommerciale di un periodo che è, oggi, amplificato e incontrollabile. Con obsistenza – e non è forse obsistenza (camaleontismo o vera guerriglia semiotica) anche quella che adottano un Hans Haacke (con la critica alle istituzioni e al sistema stesso dell’arte), un Liu Bolin, un Giuseppe Stampone, una Zeinab Rebeca Bulhossen, un Ai Weiwei, una Shirin Neshat o una Elena Bellantoni? – l’artista affronta la dimensione del tempo presente con la consapevolezza che spazio e tempo sono corrosi dalle morse della comunicazione planetaria e che la mondializzazione ha ridotto le visioni temporospaziali in anello d’una catena economica devitalizzante e assillante. Ad una resilienza il cui perimetro si stringe nella linearità della creatività di massa, alcune parabole artistiche d’oggi adottano dunque una vivacità obsistenziale che pone mente sulle grandi questioni della vita e difende a spada tratta i diritti e i doveri dell’intera umanità.

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Luisa Raffaeli - Silver Fling Book - Tela e piombo argentato

Il silenzio eloquente della dissidenza Draghi - aquilone e Libri “in volo” fra parola e arte Melanie Zefferino

In molti modi, attraverso le arti, è stato possibile contrastare ideologie, politiche, attività e cambiare forme di pensiero se non il corso degli eventi che, nel tempo, sono divenuti racconto nelle pagine dei libri di storia. Forse per questo motivo non trova corrispondenza univoca, nella lingua italiana, il verbo latino “obsisto”, che esprime la volontà di opporsi a qualcuno o qualcosa non senza la determinazione e la fierezza necessaria a contrastare uno status quo o un accadimento in divenire sentito come inaccettabile. È in quei termini che Lucrezio celebrava l’ardire di Epicuro con il primo inno a lui dedicato nel De Rerum Natura, poema didascalico d’impronta filosofica, in cui si legge (I, vv. 62-74):

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Humana ante oculos foede cum vita iaceret in terris oppressa gravi sub religione […], primum Graius homo mortalis tollere contra est oculos ausus primusque obsistere contra […] Ergo vivida vis animi pervicit, et extra processit longe flammantia moenia mundi atque omne immensum peragravit mente animoque […]. unde refert nobis victor quid possit oriri, quid nequeat, finita potestas denique cuique qua nam sit ratione atque alte terminus herens.


Weiwei

( Mentre, agli occhi di tutti, la vita umana sulla terra / era miseramente oppressa sotto il peso della religione […],/un uomo, un Greco, per primo osò alzare gli occhi suoi mortali/ e, ancor per primo, opporsi ad essa […]/La forza vitale dell’animo prevalse, dunque egli/ avanzò al di là delle mura fiammeggianti del mondo/ e percorse con la mente e l’anima tutta l’immensità,/ da dove, vincitore, rese a noi [la conoscenza di] ciò che/ può nascere e ciò che non può, e della ragion per cui/ a ognun si dia potere limitato e un termine fisso nel tempo.)

Scandito in questi versi è l’anelito alla conoscenza, alla libertà e alla creatività che anima gli spiriti liberi – artisti in primis, ma anche scienziati, scrittori e teatranti e burattinai. Non a caso agli esordi di ogni dittatura, comprese quelle che hanno insanguinato il Novecento in Europa, Cile e Argentina, sono le luci dei teatri a spegnersi prima ancora che serrino i battenti le “fucine” di parola scritta non asservibili al potere e si dia fuoco ai libri proibiti così come alle opere d’arte scomode. Eventi del genere hanno segnato l’Asia e l’Africa anche in anni recenti, mentre nella cosiddetta digital era di quel terzo di mondo globalizzato che ne beneficia, il processo per eresia a Galileo Galilei non è bastato a evitare che Rita Levi Montalcini dovesse arguire “non si può mettere il lucchetto al cervello”. Piangono le Muse guardando alle

Weiwei - installazione

terre fra oriente e occidente segnate dal cadere di Palmira, Nimruq e altri siti millenari nelle mani di chi teme la memoria di civiltà: quale specchio implacabile del vero, l’eredità della Magna Grecia restituisce la loro immagine abominevole di bruti accecati dal fanatismo religioso che non coltivano né le messi, né la bellezza, né le arti. Focalizzando il nostro sguardo sulla produzione artistica del nuovo millennio, con la sua pluralità di linguaggi, approcci tematici, mediali ed estetici, risulta evidente che – oggi come ieri – le arti rappresentano una forza inesauribile quanto multiforme di opposizione a poteri occulti, lobby o regimi forieri di negazione di libertà, opportunità e diritti. Si pensi per esempio all’artista iraniana Morehshin Allahyari, che nel 2015 ha ricevuto Premio speciale “Lorenzo il Magnifico” dalla Florence Biennale per Material Speculation: ISIS, progetto che fonde tecnologia, ricerca storico-artistica e scultura per la conservazione del patrimonio culturale dell’umanità. Il caso più eclatante, tuttavia, è forse quello di Ai Weiwei, nominato “the most powerful artist in the world” dalla redazione di “ArtReview” nel 2011. Ambasciatore di Amnesty International, ha denunciato l’incarcerazione subita come azione repressiva del governo ci7


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Luisa Raffaeli - “Nido”


nese nei suoi confronti per il suo fare artistico, di forte impatto e non privo di spinosi risvolti politici. Peraltro, analoga sorte era toccata al padre di questo artista dissidente, il poeta Ai Qing. Queste esperienze di libertà ingiustamente negata, affrontate forse pensando a un’ideale evasione sulle ali della creatività, hanno forse ispirato l’artista a realizzare l’installazione With Wind (2014), il gigantesco drago-aquilone mosso dal vento attraverso il New Industries Building di Alcatraz .Nel settembre 2015, a Londra, Ai Weiwei ha guidato la marcia di otto miglia per esprimere solidarietà ai rifugiati di tutto il mondo insieme ad Anish Kapoor, considerato da molti il più grande artista del nostro tempo per la sua capacità di osservare e rappresentare simultaneamente una realtà e il suo contrario. Ai Weiwei, rimarcando come ogni essere umano si ritrovi ad essere in qualche modo a “cercar rifugio” nel corso dell’esistenza, in quell’occasione ha posto l’accento sul valore della compassione nell’accezione delle discipline orientali. Questa presa di posizione di due “icone” dell’arte contemporanea in relazione al fenomeno dei rifugiati trova un parallelo nella nozione di “prophetic activist art” delineata da Tom Block, artista-ideatore del Shalom Project e del Human Rights Painting Project presso Amnesty International, ribadendo come essa vada oltre la semplice denuncia sociale espressa dalla “shock or rage art” poiché tesa a infondere un “healing impetus” (impeto di guarigione) nella società in generale. E aggiunge che “Unendo concezioni storiche del profetico al nostro culto post-moderno dell’individuo, questo modello offre un palliativo spirituale contemporaneo per lenire l’animo umano. Introduce un misticismo dell’azione per cui l’antica ricerca di realizzazione personale è sostituita da un ideale dell’individuo con potere sociale, che fa rivivere Dio in questo mondo attraverso l’azione. [...]. Gli artisti-attivisti profetici devono considerare le questioni a portata di mano, comprenderle, e offrire una candela per aiutare a far luce sulla via d’uscita da qualsivoglia problematica sociale o culturale in cui siano essi stessi coinvolti. Questa luminescenza è fornita mediante l’attivazione di particolari energie attraverso il lavoro dell’artista”. (Tom Block, “Prophetic Activist Art: Art Activism Beyond Oppositionality”). Alla luce di quanto sopra assumono valenza particolare le parole di Anish Kapoor riguardo alla marcia da lui gui-

data con Ai Weiwei, una “walk of compassion that is peaceful, quiet, creative”. Più che l’attivismo, ciò che lega Anish Kapoor e Ai Weiwei sotto il profilo artistico è la capacità di coniugare passato, presente e futuro scavalcando qualsiasi linea di demarcazione fra discipline (arte e architettura, ad esempio), media e linguaggi per restituire “visioni” intelligibili e di forte impatto emozionale a un’audience che parrebbe non avere limiti. Un’audience plurale che nei loro lavori riesce istintivamente a cogliere significati politici, poetiche, risvolti spirituali e istanze estetiche. Si pensi, ad esempio, agli Sky Mirror e al Cloud Gate di Kapoor, la cui estetica esprime la convinzione che “it is the artist’s duty to find poetic meaning in things” (sia dovere dell’artista trovare poesia nelle cose). Come non citare poi dire l’installazione F-Lotus (2016) di Ai Weiwei sul tema dei migranti nello stagno del Castello del Belvedere di Vienna. In quella residenza ha sede la 21er Haus, che quest’anno ospita la mostra personale “Translocation-Transformation” dell’artista, il cui motto è “Everything is art, everything is politics”. Su questa affermazione, che lo avvicina ad artisti-attivisti quali David Hammons, Robert Gober, e Doris Salcedo, avrebbe certo convenuto Nathan Lyons, fotografo e scrittore attivista che, sul finire degli anni Sessanta, dopo aver lasciato il ruolo di curatore alla George Eastman House/International Museum of Photography di Rochester (New York), fondò il Visual Studies Workshop, o VSW (galleria, biblioteca, archivio, nonché centro studi e casa editrice). Su come si relazionassero arte, attivismo ed estetica in quel contesto, certamente noto ad Ai Weiwei, ha fatto luce Grant H. Kester con la sua analisi critica di articoli scelti pubblicati nella rivista del VSW, AfterImage. Da quegli scritti si evince l’idea che, lungi dall’essere essere in antitesi con l’estetica, la activist art, possa invece tradursi nella sua espressione più legittima (G. H. Kestner, “Ongoing Negotiations: Afterimage and the Analysis of Activist Art”). A suffragio di quel convincimento potremmo citare diverse sculture e installazioni di Ai Weiwei quali Divina Proportio (2006), F-Size (2015), Grapes (2014). With Wind (2014) così come Tea House e Circle of Animals/Zodiac Heads,Circle of Animals/Zodiac Heads (2016), presentate a Vienna, rivelano come Ai Weiwei nutra un profondo senso di appartenenza

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alla Cina, ma un altrettanto forte senso di ribellione a una cultura segnata da governi tutt’altro che garanti della libertà di espressione. Questo aspetto, esplicitato anche nella prima retrospettiva italiana di Ai Weiwei, “Libero”, a Firenze, Palazzo Strozzi, caratterizza il sentire di ogni individuo creativo che abbia sofferto la privazione di libertà personale, di pensiero o di espressione. Non fa eccezione Ma Jian, noto per i suoi scritti su temi censurati in Cina, e preceduto da molti autori. Attraverso l’arte, ha restituito i loro sguardi e le loro storie Luisa Raffaelli, artista eclettica che spazia dalla fotografia al video all’installation art. Nella sua mostra personale evento-off del Salone Internazionale del Libro di Torino 2015, ha ripreso l’idea all’origine dei Flying Books che aveva presentato anni prima a Firenze, nel Castello di Volpaia, dando vita allora a un discorso sulla libertà di espressione drammaticamente aggiornabile al contemporaneo. Quei “libri in volo” affascinarono Giulio Einaudi, forse perché rispecchiavano quella leggerezza che l’editore tanto amava nella scrittura di Calvino, o forse perché gli ricordavano quell’ideale di libertà mai sopito e messo a dura prova nel 1935. Sulla superficie increspata delle loro pagine in tela e piombo argentato la parola non è segno, bensì scintillio di luce riflessa, ossimoro di ciò che diviene storia. In alcuni Flying Books si scorge lo sguardo di autori che hanno subito la censura. Primo fra tutti Bertolt Brecht, esule mai tacitato nonostante il rogo dei suoi lavori a Darmstadt, il quale descrisse la sua condizione di esule nella celebre poesia Über die Bezeichnung Emigranten. A al commediografo tedesco si aggiunge Federico Garcia Lorca, poeta amato in tutto il mondo, le cui opere furono bandite in Spagna fino alla fine della dittatura franchista. Vi sono poi Boris Pasternak e la scrittrice bengalese attivista per i diritti delle donne Talisma Nasreen, alla quale è stato assegnato il Premio Sakharov per la libertà di pensiero (1994) e l’Humanist Award dall’Unione Internazionale Etico10

Umanistica (1996), ma la cui autobiografia è tuttora al bando nel suo Paese d’origine. Ad animare l’universo di “libri in volo” di Luisa Raffaelli è anche il romanziere e sceneggiatore iraniano Shahriar Mandanipour, vincitore del Mehregan Award (2004), del Golden Tablet Award (1998) e del premio della critica per il miglior film al Press Festival di Teheran (1994). All’autore di Censoring an Iranian Love Story e The Book of Shahrzad’s Ghosts il governo del suo Paese ha vietato la pubblicazione nel periodo compreso fra il 1992 e il 1997, costringendolo così a emigrare negli Stati Uniti. Le storie di Mandanipour sono enigmatiche tanto quanto il suo approccio creativo al linguaggio, che questo scrittore elabora per evocare una dimensione sospesa fra realtà e illusione, mai totalmente distaccata né dall’una né dall’altra. È una dimensione analoga a quella in cui opera Luisa Raffaelli, che con la sua serie di scatti fotografici “Nido” paradossalmente coniugava escapismo e attivismo ritraendo una ragazza munita di scudo e altoparlante che urla contro o si difende dal mondo che percepisce come ostile e a cui fa opposizione restando però circoscritta nel suo improbabile “rifugio


Weiwei e Anish Kapoor

naturale”. Con i suoi Flying Books Luisa Raffaelli si oppone a quella parte di mondo che priva gli individui della libertà di espressione. Riprendendo il messaggio di scrittori tacitati, aggiunge dunque la propria voce all’eco di un racconto infinito, permeato di inedite alchimie. L’ineffabile si esprime, a dispetto di qualsiasi censura, attraverso sguardi catturati in una immagine riflessa sui fogli argentei di questi “libri in volo” che restituiscono e al tempo stesso incorporano luce. Come direbbe il fiammingo Karel Van Mander, quella che qui si sprigiona è la lux del giorno ma anche quella interiore (riflesso del divino) di autori che hanno lottato con chi voleva impedire loro di scrivere, di dire, di essere. A suo modo, nell’opporsi per immagini al silenzio imposto a scrittori, poeti e commediografi, Luisa Raffaelli offre quel “palliativo spirituale contemporaneo per lenire l’animo umano” teorizzato da Block.

Forse questa artista torinese non prospetta soluzioni vere e proprie ai mali che la circondano, come invece avrebbe voluto il teorico della Prophetic Activist Art. Riproponendo per immagini il pensiero di scrittori e poeti perseguitati, esiliati o uccisi, alla stregua di costoro, Luisa Raffaelli “offre prospettive, non consuntivi”, come aveva detto Giulio Einaudi riferendosi ai suoi autori preferiti. D’altro canto, offrire soluzioni non è necessariamente lo scopo dell’arte quale espressione di pensiero critico. Come ha osservato Michel Foucault, “la critica non deve essere la premessa per una deduzione che conclude:questo è dunque ciò che si deve fare. Dovrebbe essere uno strumento per coloro che combattono, quelli che oppongono resistenza e rifiuto a ciò che è”. (M. Foucault, “Questions of Method”).I Flying Books di Luisa Raffaelli sono dunque “libri che hanno visto e che vedono”, dice l’artista, che esprimono ciò che sta oltre la parola e l’immagine opponendosi a ogni possibile tacitazione, oppressione o limitazione. A tutto ciò si sottraggono grazie allo spirito indomabile di autori il cui sguardo permea la stessa essenza di questi libri d’arte, “in volo” fra memoria e immaginazione, per sfuggire al dogmatismo e alle barriere culturali di un mondo in continua trasformazione. 11


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VERNISSAGE

Pilar Delhante Matienzo

Carlos Martiel


Cuba. Tatuare la storia

Antonio Leone - Giulia Ingarao

Cuba è nell’immaginario collettivo luogo utopico e di contraddizioni: simbolo di resistenza per alcuni, di protesta per altri. Confrontarsi con un processo storico in pieno atto, tentando di metterne a fuoco le specificità o semplicemente tracciarne le coordinate, non è sicuramente un’impresa facile, soprattutto se oggetto del confronto è un Paese estremamente complesso come Cuba. Questa complessità è disarmante, perché deriva non solo da questioni interne che definiscono la storia, il vissuto e l’identità di un luogo, ma anche dal ruolo che Cuba assume nell’immaginario collettivo: luogo utopico e di contraddizioni, simbolo di resistenza per alcuni, di protesta per altri. Non è possibile parlare di Cuba e della sua produzione artistica omettendo la dimensione politica e storica del Paese, soprattutto in relazione a quanto avvenuto nell’ultimo cinquantennio. Questa complessità culturale risulta, inoltre, direttamente connesa a quel fenomeno, tipicamente cubano, della transculturación, così come è stato definito dall’antropologo Fernando Ortiz, che rimanda all’analisi del riconoscimento delle stratificazioni culturali proprie del luogo. La transculturazione si riferisce a quella fusione e armonizzazione di culture diverse che determina un’identità differente e non riducibile alla mera somma delle parti: «un processo cui hanno contribuito tutti gli elementi dispiegatesi nell’isola dalla colonizzazione in poi». Questo spiega bene anche la compresenza, significativa in talune produzioni culturali, di spazi simbolici legati al mondo degli antichi, delle culture indo-americane e afrocubane, così come della cultura popolare autoctona, che non si configurano come sterile citazione, ma contribuiscono alla definizione di linguaggi altri. È la stessa esperienza artistica cubana che si nutre ed elabora queste profonde contraddizioni così come le stratificazioni transculturali della propria storia, in chiave critica, soggettiva e individuale. La mostra Cuba.Tatuare la storia, parte da un omaggio ad Ana Mendieta e Félix González-Torres e, attraverso una vasta selezione di opere e installazioni di artisti attivi dalla metà degli anni Settanta in poi, traccia un percorso che lega presenze più storicizzate con le ricerche delle ultime generazioni (artisti nati negli anni 80 e 90). Una narrazione articolata che si snoda attraverso la relazione con la propria terra, messa a fuoco da esperienze soggettive e riflessioni di carattere sociologico o etnografico. Le opere di Ana Mendieta presenti in mostra marcano il rapporto viscerale e conflittuale allo stesso tempo,

legato al vissuto biografico dell’artista e al suo desiderio di ritorno alla terra-utero. Nelle fotografie della serie Silueta e nel video Alma Silueta en fuego, il corpo diventa mezzo di unione con la terra: un’azione rituale e catartica che promette la rinascita nella madre terra attraverso il superamento della condizione individuale, per affermare un legame universale con la natura. Il percorso espositivo disegna una costellazione di modi diversi di sentire l’appartenenza alla terra/paese; dal legame ancestrale di Ana Mendieta, si passa au un rapporto di conflitto, sperimentato attraverso la denuncia, che mira a rompere le barriere, come nell’opera di Tania Brugera. O, come testimonia la produzione di Kcho, la relazione si fonda sulla ri-costruzione dell’identità locale che avviene tramite la metabolizzazione dalla memoria e dalle vicende storiche che hanno segnato l’isola. In alcuni casi il rapporto con il Paese è trattato in chiave più autobiografica ed etnografica come nell’opera María Magdalena Campos-Pons che presenta una serie di fotografie dove il suo corpo dialoga con rituali e oggetti ancestrali di matrice asiatica e cubana. Anche Wilfredo Prieto concentra il suo lavoro sulla società cubana, spesso attraverso un punto di vista critico; nei suoi lavori, attraverso oggetti d’uso quotidiano e apparentemente banali, inscena rappresentazioni che invitano ad una riflessione più ampia sulla società globalizzata, sulla mercificazione e il consumismo. Carlos Garaicoa porta avanti un’indagine sistematica sulle zone abbandonate dell’Avana, elaborando una personale dimensione geografica come paradigma di una situazione esistenziale e culturale. Nell’opera presenta in mostra, Sloppy Joe’s Bar Dream..., l’artista ricostruisce un simbolo della vita cubana, lo Sloppy Joe’s Bar, un famoso locale de L’Avana tra gli anni trenta e quaranta, frequentato anche da Hemingway, che è stato chiuso dopo la vittoria della Rivoluzione. L’esposizione valorizza molto il rapporto tra la ricerca individuale dell’artista e la realtà sociale in cui essa si sviluppa, tra il luogo dell’arte e il mondo esterno. Un’attenzione al tessuto sociale del territorio che mira anche a creare un dialogo attivo con i paesi in cui le opere vengono esposte e che in quest’ampia collettiva palermitana è testimoniata dalla presenza da due performance e un’installazione. Luis Gómez Armenteros, che nei suoi lavori si concentra sui rapporti di potere nell’arte, presenta a Palermo un’opera che mira a documentare la produzione pittorica delle ultime generazioni. La Ropa del Rey è 13


un’installazione che, attraverso fotografie e strumenti di lavoro, documenta spazi, tecniche e processi creativi degli artisti attivi a Palermo: un dialogo filtrato che si basa su dati concreti per restituire visivamente e in modo sintetico l’approccio soggettivo alla creazione. L’installazione è stata realizzata grazie al contributo e alla partecipazione degli artisti: Sergio Amato, Marcello Buffa, Andrea Buglisi, Gabriella Ciancimino, Stefania Galegati Shines, Genuardi Ruta, Marco Mirabile, Igor Scalisi Palminteri, Linda Randazzo, William Marc Zanghi. Il performer Carlos Martiel ha presentato a Palermo, in occasione dell’inaugurazione, un’azione inedita dal titolo Plaga; ha scelto di sviluppare un tema attuale in Sicilia e condiviso dalla storia di Cuba, ovvero la difficoltà e l’estraneità dell’essere migrante. Le sue performances, spesso estreme e dal carattere eversivo proprio della denuncia, richiedono grande capacità di sopportazione del dolore fisico e sono incentrate su temi politici legati alla privazione della libertà. La performance Plaga riflette sulla diffusione delle politiche neonaziste e della xenofobia nei paesi europei, come risultato della crisi economica e delle politiche razziste contro le minoranze etniche. Anche Susana Pilar Delahante Matienzo nella sua performance Re-territorialización lavora sul disorientamento individuale o collettivo che implica lo scambio culturale tra chi è accolto e colui che accoglie. “Durante l’azione - spiega Pilar - scambio i peli pubici con i miei capelli: un’azione che mira al recupero del legame con la storia, usi e costumi a prescindere dal luogo in cui il soggetto si trovi”. L’azione si iscrive all’interno della serie di peformance che l’artista realizza a partire dal 2003 utilizzando il suo corpo come archivio di denuncia. Nelle precedenti azioni Susana Pilar Delahante Matienzo si è concentrata sui conflitti di genere, razza e identità; Re-territorialización vuole soprattutto riflettere sulla ricerca di identità, sullo spostamento fisico e spesso violento che implica un adattamento forzato e non sempre naturale a contesti altri.

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Maria Magdalena Campos-Pons - “Finding Balance” Carlos Garaicoa - “Sloppy Joe’s Bar Dream..” Luis Gomez Armentera - “La Ropa del Rei”


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La storia riscritta da William Kentridge

WILLIAM KENTRIDGE

Cristiana Elena Iannelli

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“Gran parte di quanto succede nel mondo ci chiede di dargli un senso, specie la sofferenza umana. L’arte è un tentativo. Le mie opere accolgono l’esperienza quotidiana, la vita e gli oggetti domestici, la sensualità e le notizie drammatiche. Per me l’opera è più una domanda che una consolazione.” (William Kentridge)

William Kentridge è un artista dal fascino complesso, celebre in tutto il mondo per la sua versatile attività artistica che conferisce alla sua opera assoluta originalità. Artista visivo, disegnatore, regista teatrale e di film d’animazione, il sudafricano Kentridge guarda con estrema consapevolezza e con la massima lucidità alla storia del suo Paese, percorrendo un impegno di grande forza espressiva. Kentridge forgia metafore poetiche potenti che riflettono profondamente la condizione dell’uomo contemporaneo, radicate in una faticosa e drammatica realtà politica che caratterizzò fortemente gli anni del secondo dopoguerra nell’Africa dell’Apartheid. Personaggio di ardente creatività, Kentridge non utilizza un unico mezzo espressivo in quelle opere rivelatrici di una cruda ed emblematica visione del mondo, ma una combinazione che diviene frutto di lavori grafici, serigrafie, disegni a carboncino, collage, e ancora installazioni e spettacoli a cui

infonde vita attraverso animazione, musica, teatro e danza. La drammaticità e l’impegno rivolto ai temi politico-sociali esplorati dall’artista sudafricano sono esaltati dall’uso di contrasti non sottolineati da colore alcuno, solo il bianco e il nero, caratteristica predominante dei suoi lavori, ma dall’abilità di cogliere personaggi e situazioni servendosi di minimi tratti di gessetto, che nell’opera di Kentridge diventano intenso mezzo di espressione della sofferenza umana e della speranza al tempo stesso. L’artista sudafricano raggiunge livelli straordinari con la tecnica del cartone animato recuperando, attraverso l’intimità del gesto del disegnare e un distintivo marchio nostalgico che lo caratterizza, un mezzo espressivo considerato ormai obsoleto in un mondo sovrastato da recenti e continue tecnologie. Il suo è un lavoro lento, graduale, a stretto contatto con la materia, quella materia fisica a lui cara e indispensabile; l’artista racconta che il “fare arte” è qualcosa che avviene attraver17


so il corpo, attraverso gestualità che rimarcano un forte senso di precarietà, di imprevedibilità e di incertezza, concetti chiave della poetica Kentridgiana. Tutto è in continua metamorfosi nei suoi disegni; ad ogni segno, ad ogni traccia nei disegni animati dell’artista corrisponde una cancellatura e un nuovo progetto, che metaforicamente induce un pentimento, il desiderio di annullarsi, l’occasione di redimersi da un passato doloroso e fatto di ricordi drammatici, di abusi e di ingiustizie che come fantasmi perseguitano l’uomo da secoli e che Kentridge racconta nei suoi avvincenti disegni animati. Il rimando alle visioni apocalittiche goyane scaturite dalla diretta osservazione dei drammi della storia è molto forte, così come l’influenza delle intuizioni grottesche del realista Otto Dix, senza dimenticare la lezione picassiana del collage che lo affascinerà moltissimo. Sapientemente esemplificativa della produzione dell’artista cantore dei drammi del Sudafrica è la mostra Thick Time ospitata dalla Whitechapel Gallery di Londra, visitabile fino al 15 Gennaio 2017. Il tempo è una componente essenziale nell’animazione, così come nell’opera di Kentridge, tanto da imporsi come protagonista nella magistrale installazione The Refusal of Time, un insieme di film animati con una proiezione sincronica di cinque canali, definita da una processione di ombre che danzano e da una cacofonia di orologi, fagotti e metronomi. La musica che fa da sfondo è organo vitale nell’opera dell’artista; essa esiste in quanto dimensione ciclica, dimensione nella quale l’uomo può opporsi all’incontrollabilità del tempo. Quella dell’artista sudafricano sul tempo è una riflessione che avvolge lo spettatore in un intrecciarsi pulsante e vorticoso di teatro, disegno, musica, danza e cinema in cui lo stesso

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tempo sembra mescolarsi e annullarsi magicamente; un’indagine scientifica scaturita da una serie di incontri e scambi con il fisico Peter Louis Galison che riflette sulla valenza del concetto metaforico di tempo; teorie scientifiche trasferite all’interno della propria coscienza e in quella di chi diviene spettatore delle sue creazioni. I buchi neri che l’artista cita, e che con la loro straordinaria forza gravitazionale risucchiano tutto quello che c’è intorno, non sono altro che un rimando al grande buco nero, metafora del vuoto profondamente radicato nell’animo umano. Kentridge focalizza la sperimentazione dal punto di vista scientifico, non senza approfondire quello antropologico ed esistenziale. Ed è proprio nel profondo dell’animo umano che prendono vita quegli interrogativi di natura esistenziale indotti dalla riflessione che lo scadere del tempo suscita; il suo passaggio lento e inesorabile di fronte agli eventi drammatici che accadono inevitabilmente, lasciandoci vittime, porta a riflettere sull’impotenza dell’uomo di fronte alla negazione dello stesso. La grandezza di Kentridge sta nel tentare di riconciliarsi con quel tempo passato che avverte come un macigno, con il quale è giunta l’ora di fare i conti; l’artista rielabora e rilegge il passato attraverso il suo disegno in divenire, attraverso un’operazione continua sulle immagini che comporta cancellazioni, spezzettamenti e frammentazioni. Una nuova plasticità è accennata dietro ad ogni tratto, una composizione fatta di soggetto e struttura perfetti, di forme sconosciute, simbolo di una nuova realtà, un nuovo personaggio e una nuova storia da raccontare.


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Merisabell Calitri “Io sono diverso da voi. Questo mondo che è il mio, non è il vostro. Io ho visto per primo ciò che nessuno aveva saputo vedere prima di me”. Sono queste le parole di non so chi, scritte non so quando. Questo il senso di un verbo che non è più un predicato. E se nei kantiani giudizi sintetici a priori, il predicato diceva qualcosa in più sul soggetto, ora questo non accade. La musica annulla la melodia, nel romanzo si assiste muti al crepuscolo dei mondi immaginari, ed il personaggio resta il banale alter ego del soggetto. Insomma niente più che una indagine psicanalitica di sé, senza magia, senza pathos, senza mimesis. Dell’arte, della grande arte del passato, resta un orinatoio capovolto, posto in posa su un piedistallo e contemplato dai più come oggetto esteticamente bello. E di una tela? Nulla,

un quadrato nero su fondo bianco, che tempo qualche passaggio semi simbolico, diverrà bianco su bianco, luce su luce, nulla su nulla. Detta così, ovvero così come è, la visuale dell’arte contemporanea, del mondo attuale, pare essere una pellicola che si riavvolge su stessa. Non più in grado di mostrasi al mondo per quella che è. Probabilmente perché non è più. Già negli anni venti del XX secolo, in sintonia con lo sviluppo del sistema produttivo occidentale, la sperimentazione di nuovi linguaggi ha guidato la traiettoria della ricerca artistica internazionale. L’arte vive ormai sulla propria evidenza, sull’evidenza dei propri strumenti, dove 21


la verifica consiste nella possibilità di approfondirne l’uso e l’estensione in una vicenda sempre quotidiana. La creatività viene assunta nei termini di attività specifica. E la specificità diventa l’elemento connettivo e di raccordo con la società. In tutto ciò, per altro, influiscono non poco lo spirito e la nozione di spazio. E se spirito è l’indefinibile che sente per primo lo scorrere del tempo, e tenta, in accordo-disaccordo con la mente, di renderlo un mezzo, strumento di non passaggio, corpo che per primo resiste a se stesso, obsiste alle decadenze, e rende il ricordo non un collegamento con il passato ma un “ri-cor-dare”, un dare di nuovo, ancora, il cuore; e se lo spazio fosse davvero la forma del senso interno, non costruirebbe barriere tra passato e futuro, ma sarebbe solo “ieri” e “oggi insieme”; se così fosse, tutto sarebbe per sempre Arte. Giungiamo dunque allo scopo artistico di Jannis Kounellis, greco italianizzato nelle forme, che lascia al suo spirito ed al suo spazio di andare liberi, dove neppure egli stesso sa. Andare senza sentieri predefiniti, nulla di tracciato, nulla di sensato. Per collegarsi al passato gli si oppone. Niente, nulla può essere come ieri. Perché l’oggi è ora, non è “già stato”. Kounellis onora il passato resistendo con tutte le sue forze ad esso. Ed è per questo che sceglie di esporre, nella mostra “Arte Torna Arte” di Firenze, nella Galleria dell’Accademia, nel 2012, tre traversine di treno su stoffa bianca con una croce in tela nera sotto la “Deposizione” di Andrea del Sarto. L’artista crea l’altare su cui il Cristo che scende dalla croce del dipinto manierista andrà a deporsi, consustanziato come corpo e sangue. Un altare contemporaneo che ama il Cristo del passato, seppur gli offra una sorta di tavolo geometrizzato e freddo che riprende il passato obsistendo ad esso tramite componenti concettuali. Kounellis lascia la Grecia a vent’anni per trasferirsi a Roma negli anni ‘50. Sarà proprio nell’Accademia delle Belle Arti della capitale ad essere influenzato dall’irruenza, dalla voglia di vendetta verso la tradizione dell’espressionismo astratto. Questa corrente insieme all’arte informale costituisce il binomio fondamentale dal quale prende le mosse il suo processo creativo. Rispetto ai suoi maestri, però, l’artista sente subito un’esigenza comunicativa molto forte che lo porta al rifiuto di prospettive

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individualistiche, estetizzanti e decadenti. I suoi segni tipografici su sfondo chiaro alludono all’invenzione di un nuovo ordine per un linguaggio frantumato, polverizzato. L’accademismo, le mode, per Kounellis non avevano nulla a che fare con l’arte. Minimizzava per non apparire, si rivoltava per non farsi notare in un’epoca di rivoluzioni. Egli non provocava, e forse neppure si opponeva in maniera evidente. Ma il suo fucile era carico e la sua rivolta già scoppiata. Allora carne appena macellata si appendeva alle pareti in galleria a mo’ di quadretto impressionista ma la crudezza del sangue imbrattava le pareti, e la gente ne godeva lo stesso. Poi, nel 1969, espose da Fabio Sargentini, a Roma, dei cavalli, tanti, vivissimi, e li rese opere d’arte. Ecco mostrato il conflitto ideale tra arte e natura. L’artista, nella sua condizione contemporanea, è ridotto al ruolo marginale di artefice e questo è il suo ready made. Ma è arte? No! Non più! Kounellis lotta per mostrare che arte non è semplicemente oggetto estetico, ideale, che provochi un effetto esteticamente favorevole, o che abbia la forza della profondità. Wladimir Weidlè avrebbe detto che persino un’ edicola di giornali, di quelle all’aperto, sotto l’effetto di una certa luce, e grazie ai colori delle copertine delle riviste, o sotto taluno effetto stupefacente poteva trasmettere la “forza della profondità” di cui tanto parlava Witasek. Arte è ciò che unisce in sé forma e contenuto, ammesso che esso non sia solo il soggetto o la spiegazione razionale del quadro, bensì un contenuto spirituale, quell’inesprimibile che vada oltre ogni filone psico-fisiologico, e punti dritto all’anima. Infatti l’orologiaio comprende l’orologio che ha costruito, il padre non comprende il figlio che ha generato. È così che le grandi cupole del passato son divenute non solo immagine del cielo bensì il cielo stesso. L’artista, come Kounellis, aveva il bisogno vitale di ricomporsi, di ritornare ad una qualche forma di fede, per far parlare di nuovo la sua arte. Nel mentre però non poteva starsene da parte. Ed è lì che nasce il suo nuovo mondo. Se arte non è più allora di cosa stiamo parlando? Parliamo di qualcosa che ancora assomiglia superficialmente alla vecchia arte ma che in realtà è qualcosa di completamente diverso. Hans Sedlmayr, fondatore della seconda scuola di Vienna, gli diede un nuovo

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nome, la chiamò Anti-Arte. Il suo fine era resistere fino a distruggere l’arte del passato. Dopo la sua fioritura negli anni Dieci e Venti del ‘900 essa è ricomparsa negli anni Quaranta ma ha evitato di attribuirsi la denominazione omonima di “Antiarte”. Solo dopo le rivolte dei tardi anni ’60 riappare senza maschera nelle grandi esposizioni dell’arte astratta che le avevano spianato la strada, e prende senza pudore il suo nuovo nome. La sua ragione storica era “fare effetto, fare sensazione”, la sua collocazione sociale il “quinto stato”, la sua motivazione metafisica l’anarchia. Oggi fa pubblicità di se stessa, vive ed abita il mercato capitalistico. Il paradiso del surrealista era la bottega del rigattiere, quello dell’artista pop, il supermercato. Kounellis, da anti-artista, creò il suo di paradiso. Fece parte anche della corrente dell’arte povera di Celant. Ma egli fu poliedrico, eccentrico. La sua arte non voleva più essere arte, voleva dire qualcosa senza usare il contenuto, mostrare senza forma. Kounellis si oppone all’arte, resiste all’arte e lo fa per non imitarla ma per dialogare con essa. Esiste un’arte moderna, o un’anti arte, se così vogliamo definirla, di cui egli si fa esponente, che è il risultato di quelle lotte della vecchia creazione con il mondo contemporaneo, nelle quali l’arte non si sottomette alle esigenze totalitarie del mondo di oggi, ma le combatte con “spirito e spazio”, affermando il suo inalienabile diritto naturale ed assimilando il nuovo, nella misura in cui esso è suscettibile di trasformazione. In un’epoca dove ormai tutto è compiuto, in cui l’animo creatore per imporsi può solo opporsi. In questo mondo così pieno e così vuoto, si rivela il senso profondo della solitudine dell’artista. Dove tutti pensano ormai solo ad acquistare ed a possedere, egli si oppone, ancora una volta obsiste. Egli è il solo a compiere un sacrificio: nella massa di coloro che si chinano pesantemente verso terra, l’artista è il solo ad aver mantenuto almeno la nostalgia del cielo. Come si potrà rimproverargli di chiudersi in se stesso invece di aprirsi verso gli altri, rinfacciargli il suo egoismo o la sua vanità, quando gli costa così tanta fatica, così tanta incessante tensione anche il solo cercare di rimanere ciò che è, ciò che è sempre stato? Come si potrà pretendere da lui un equilibrio obiettivo, un’arte che offra regole e misure comuni ad un mondo comune a tutti gli uomini, quando questo mondo non esiste più, quando sarebbe peccare contro il significato stesso di arte affermare che esso esista ancora? Non è l’arte che ha tradito l’umanità, ma l’umanità che ha tradito l’arte, giacché non è l’arte che deve servire l’uomo ma è l’uomo che, tramite l’arte, deve onorare il principio divino dell’universo. Ed è questo che ancora, brancolando nel buio, resistendo con il suo stesso corpo al tempo, non curandosi di mode e costumi, cerca di fare Kounellis quando pone barattoli di vernice nella chiesa di Saint Peter a Colonia nel 2001, a formare una croce, simulando lumini. C’era una volta, e c’è ancora, l’arte rivoluzionaria che non voleva più essere Arte. C’era una volta l’artista che resisteva a se stesso perché quel “se stesso” non poteva esserci più. Restava un uomo e una missione da compiere: resistere ai tempi e alle sgradevolezze estetizzanti dell’oggi. Kounellis è uno spirito forte. E dato che il vero futuro può essere soltanto il risultato comune della forza di opposizione, della potenza distruttrice e di quella conservatrice, non gli spiriti deboli, trascinati da qualunque vangelo della propria epoca, ma gli spiriti forti, fedeli all’oggi insieme al passato, sono in grado di dare origine al vero futuro. C’era una volta l’arte rivoluzionaria che non voleva più essere arte. La bella favoletta che dà gli incubi al mondo non è ancora finita. “E attenti, artisti, opponetevi al sonno, perché l’arte di oggi non sogna più”.

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I’m no longer scared of death. La resilienza dei rivoluzionari d’Egitto. Luna Gubinelli

Dal punto di visto artistico, l’aspetto più significativo che ha caratterizzato la revolutionary uprising nel mondo arabo e in particolare della primavera egiziana è stata la riappropriazione dello spazio pubblico come luogo in cui dare vita a forme di comunicazione e di confronto politico. Rappresentazioni visive, musicali e poetiche hanno determinato la manifestazione di obsistenza al sistema repressivo e violento che ha sopraffatto per decenni intere generazioni. Le performance della vita in quei giorni erano imprevedibili e spontanee e gli artisti dei graffiti, nello specifico, invitavano i cittadini con dipinti, stencil e semplici scritte a partecipare attivamente al dibattito pubblico sulle possibilità del vivere insieme facendo rispettare i diritti sotto il potere schiacciante dell’autorità. La diffusione del messaggio umanitario e rivoluzionario poteva avere così vasto impatto sulle persone solo al di fuori dei luoghi istituzionali dell’arte, solo attraverso una participazione democratica all’arte che, si può dire, ha avuto pochi eguali al mondo. Le 26


The ruler and freedom, Abood with Andeel and Naguib – August 2013/ Sheikh Rihan Street-Cairo

immagini dei muri della libertà hanno fatto il giro del pianeta e oggi sono l’eredità visiva di quegli anni di resistenza propositiva che ancora oggi è presente in Egitto nonostante il nuovo regime di Al Sisi e le centinaia di morti e continue persecuzioni e torture. “Too much thinking… can kill you” recita uno dei graffiti di Sad Panda. Una testa piena di personaggi politici e sociali rappresenta la continua pressione a cui il popolo è sottoposto, allo stesso tempo è manifesto dello straordinario potere che le immagini hanno sulle persone, tanto da essere considerate come minaccia al sistema. Èproprio da questa minaccia che ha origine la reazione del popolo. Non dobbiamo dimenticare che stiamo parlando di un’area geografica che ha una tradizione culturale e artistica

lontana dalle rappresentazioni a cui siamo abituati in occidente. La tradizione calligrafica dell’arte islamica ha origine direttamente dal Corano; la parola, oltre ad essere estremamente decorativa nelle fattezze estetiche dello scritto, ha una sacralità che non può essere violata. Questa consapevolezza ci porta a pensare al gruppo di bambini siriani di Daara che nel 2011 furono puniti con la reclusione per aver scarabocchiato sul muro della scuola frasi anti-regime, episodio che fece rinascere “la scintilla che ha acceso la fiamma”. Allo stesso modo riusciamo a capire il perché molte delle ‘opere’ provocatorie e iconiche dipinte sul Muro dei Martiri in Mohamed Mahmoud Street, vicino a piazza Tahrir, sono state cancellate dai militari della SCAF nel 2013 per poi essere 27


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costantemente ridipinte a costo dell’imprigionamento. Martyrs of the Egyptian revolution, Mohamed Mahmoud Street, beside Tahrir Square Tollerare il rifacimento o ridipingere a seguito della distruzione del lavoro è un aspetto comune nel graffitismo. Il messaggio viene divulgato e continuerà ad essere presente nella mente di chi lo ha osservato, riprodotto e rivisitato all’interno di questo conseguente gioco urbano. Nel contesto specifico egiziano, in cui i media sono stati corrotti e manipolati, e i social media controllati, dipingere e taggare su ciò che viene distrutto diventa un modo per continuare a comunicare per garantire un dialogo infinito tra i muri che sono persone. Anche in questo caso dobbiamo però fare attenzione. I media internazionali hanno da subito collocato i graffiti come strumento della emancipazione rivoluzionaria, ma quale è stata la reazione della popolazione meno avvezza al linguaggio artistico? L’artista Ganzeer venne verbalmente insultato e infine arrestato su segnalazione dei civili per aver distribuito volantini e stickers anti-esercito. “Il mio arresto”, sottolineò l’artista, “è il risultato di un lungo periodo di mancanza di libertà di espressione da parte della società civile”. Maschera della libertà. Saluto del Consiglio supremo delle forze armate per l’amato popolo. Ora disponibile sul mercato per un tempo illimitato, è la frase che accompagna il mezzo busto di un uomo nudo con strumenti di tortura in bocca e sugli occhi, dotato di piccole ali ai lati della testa. Il linguaggio metaforico e commerciale imita il modo paternalistico di esprimersi dei militari, utilizzato sarcasticamente

Ritratto di Bassem da una foto di Ahmed Hayman, Ammar Abo Bakr/ Mohamed Mahmoud Street - Cairo Murales in memoria delle vittime di Port Said - Mohamed Mahmuoud Street - Cairo

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opera di Ammar Abo Bakr - Cairo


per prendere distanza critica dai metodi utilizzati dall’esercito. Non siamo molto lontani dalle tecniche di advertising di Wahrol. Il sistema opera per mantenere le persone ad un livello culturale molto basso e sono queste stesse persone a considerare sovversivo un modesto gesto di protesta che ci porta, ancora una volta, alla complessità delle libertà di espressione e a quella dell’accesso agli spazi pubblici. Non siamo molto lontano dai paesi democratici. Parafrasando Ammar Abo Bakr, graffitaro di Luxor, ciò che caratterizza la rivoluzione non sono i partiti politici o le fazioni. La rivoluzione è la gente che conosce i propri diritti e opporsi con forza a coloro che fanno del tutto per farceli dimenticare. La rivoluzione è far avvicinare le persone, non nella forma di un partito ma creando qualcosa di nuovo e al di fuori della logica. La storia di Bassem Mohsen Wardany sintetizza la rivoluzione egiziana e al contempo quella capacità di opposizione ferma e attiva. Bassem è stato un prodotto e una vittima della primavera araba. Il suo ritratto in Mahamed Mahmoud Street, al contrario di quello di altri martiri rappresentati come angeli, lo coglie durante una metamorfosi. Il suo volto ha le ali di una mosca, insetto che riflette la resilienza da rivoluzionario. Nel nuovo regno di Egitto (1550-1069 a.c.) la mosca era usata come decorazione militare per lodare il coraggio nelle battaglie, vista la sua capacità di persistenza di fronte a ogni tipo di opposizione. Il giovane combattente rappresenta tutte le giovani “mosche” della rivoluzione perché, nonostante la loro fragilità, producono un fastidioso ronzio che si installa nella testa e sono difficili da uccidere…

Opera di El Zeft - Cairo

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Linda Cioni

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“I think my stance and my way of life is my most important art” (Ai Weiwei, 2013) Firenze e il contemporaneo, un palazzo rinascimentale e una mostra: “Ai Weiwei. Libero”. Artista concettuale, performer, pittore, architetto, fotografo, documentarista e blogger, Ai Weiwei è però prima di tutto, un attivista e dissidente politico. Nel 2011 è stato definito “l’artista più influente del nostro tempo” dalla rivista “Art Review”. Le sue opere attestano la sua battaglia contro la corruzione statale, la privazione dei diritti umani e la libertà di espressione in Cina. Spiato, pedinato, picchiato e privato dei diritti fondamentali, il 3 aprile 2011 venne sequestrato dal governo cinese e detenuto illegalmente in un luogo segreto per ottantun giorni, in una piccola cella areata solo per mezzo di un ventilatore, sotto la costante sorveglianza di due guardie. Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e numerose istituzioni internazionali, come la Tate di Londra o il Moma di New York si prodigarono per richiederne la liberazione. Dopo il rilascio, gli fu proibito di comunicare con la stampa e di scrivere articoli; le sue opere venivano allontanate dai musei e il suo nome eliminato da tutti i motori di ricerca. Al lungo periodo di detenzione è dedicata l’istallazione S.A.C.R.E.D (2011-2013), presentata alla 55° Biennale di Venezia, composta da diorami che riproducono la routine dei giorni vissuti in carcere. Il titolo è un acronimo: “S” sta per “Supper” ovvero il pasto; “A” per “accusatori”; “C” per “Cleansing”; “R” per “Rituale”: il defecare; “E” per “Entropy”, evocativo del suono; “D” per “dubbio”. “Sacred” rimanda all’espressione latina “homo sacer” che riassume la condizione di Ai Weiwei in quegli ottantuno giorni: un uomo privato dei suoi diritti, un nemico pubblico costretto a scontare, in solitudine, la pena di sacertà. Nato nel 1957 dal famoso poeta cinese Ai Quing e da Gao Ying, ad appena un anno di età fu costretto a lasciare Pechino, assieme alla famiglia: il padre era stato accusa-

Snake Bag

to di anticomunismo dal regime di Mao. Nelle province più estreme del nord-est della Cina, per anni Ai Quing fu costretto a svolgere umilianti ed estenuanti lavori forzati. Remains (2015) è una riproduzione in porcellana (tecnica artistica cinese per eccellenza) di alcuni resti umani recuperati presso i campi di lavoro maoisti, da cui per fortuna Ai Quing uscì vivo. In quest’opera si celebrano i dissidenti politici che invece vi morirono nel completo anonimato. Tornato a Pechino negli anni Settanta, Ai si diplomò all’Accademia del Cinema per poi dedicarsi successivamente alla pittura, aderendo al collettivo Stars, di cui fu anche uno dei fondatori, un gruppo di giovani artisti intolleranti al realismo di stampo socialista imposto dal governo cinese e aperto invece alle esperienze post-impressionistiche del tardo Ottocento europeo. Nel febbraio del 1981 Weiwei partì alla volta di New York con trenta dollari in tasca; frequentò musei e gallerie e qui incontrò il suo padre spirituale, punto di partenza per tutta la sua arte: Marcel Duchamp. Hanging man, in perfetto stile Dada, è un omaggio al maestro. Si tratta di un vero e proprio “objet trouvè”: una gruccia sagomata in modo da disegnare il profilo dell’artista, riempita per metà da semi di girasole, alimento di sussistenza delle classi più povere in Cina. Anche Straked (2012) è una chiara citazione dal primo ready-made duchampiano - la Ruota di Bicicletta (1913) - ma è possibile riconoscervi anche l’altra grande rivelazione newyorkese di Weiwei: Andy Wahrol. È un’istallazione composta da 950 biciclette di marca “Forever”, il tipico mezzo di trasporto della società cinese negli anni quaranta, in polemica con l’avvento della “modernità” e dell’inarrestabile e forzoso progresso imposto dalla Repubblica Popolare Cinese. Le biciclette impilate le une sulle altre, private dei pedali e delle catene, diventano il simbolo della non dinamicità e alludono alla privazione delle libertà individuali di Ai Weiwei al quale, sempre nel 2011, fu ritirato il passaporto, impedendogli di lasciare Pechino.

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In questo senso va letta anche Refractions (2014), una monumentale scultura posta al centro del cortile di Palazzo Strozzi, composta da cucine solari tibetane e da teiere formanti un’ala di uccello che diventa il simbolo della libertà negata. L’ala è ancorata al suolo, incapace di librarsi in aria; sconta il prezzo della sua mole e diviene presenza oppressiva per lo spettatore, limitato nella fruizione dello spazio circostante e costretto a un percorso obbligato. L’istallazione intende così evocare la ristrettezza della cella in cui l’artista visse durante la detenzione. A pochi mesi prima dell’arresto del 3 aprile risale invece un altro tentativo di smacco da parte delle autorità: la demolizione dello studio di Weiwei a Shanghai, nel distretto di Jiading, progettato dall’artista stesso; un evento evocato dall’opera Souvenir from Shanghai (2012) presente in mostra. Nel 1993 una grave malattia colpì il padre e Ai dovette far ritorno in Cina. In questi anni approfondì l’altro grande tema della sua produzione: il rapporto con la grande tradizione culturale e i suoi saperi artigianali cinesi, condannati all’oblio dalla violenta modernizzazione del paese. Iniziò così a collezionare suppellettili di ogni genere, porcellane, mobili e frammenti di templi delle dinastie Ming e Qing, che sovente riutilizza e riattualizza nelle sue opere. È il caso di Map of China (2013), in pregiato “legno ferro” (tieli), proveniente dai templi della dinastia Qing distrutti senza pietà dal governo cinese per essere sostituiti da nuove costruzioni all’avanguardia. Ai Weiwei è un artista in cui attivismo politico e arte si trasfondono. Un’intera sala di Strozzi è dedicata al terremoto che nel 2008 colpì la provincia dello Sichuan provocando la morte di circa settantamila persone, tra cui migliaia di giovani scolari, a seguito del collasso delle scuole fabbricate con materiali di bassa qualità. In Rebar and

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Refractions

Case (2014) l’artista ha ricreato su piedistalli in legno, simili a piccoli feretri, assemblati secondo le tecniche tradizionali cinesi, dei “tondini” in marmo dalle forme contorte. Le barre in acciaio utilizzate in edilizia per rafforzare il calcestruzzo, non erano state inserite in numero sufficiente all’interno degli edifici incriminati, compromettendone la stabilità. Il fatto che siano stati riprodotti in marmo, investe gli oggetti di un significato ulteriore. L’istallazione si rifà ad una precedente opera di Ai Weiwei, Straight (2008-2012), che si compone di centocinquanta tonnellate di tondini di ferro, recuperati sul luogo del dramma, raddrizzati manualmente dall’artista e accatastati l’uno sull’altro sì da configurare una gigantesca onda tellurica. Degno di nota è anche lo Snake Bag (2008), il lungo serpente strisciante costituito dalla ripetizione per trecentosessanta volte di un unico modulo: uno zaino bian-

co e grigio, allusione ai numerosi materiali scolastici ritrovati tra le macerie. Al tentativo di insabbiamento del caso da parte del governo cinese Weiwei rispose pubblicando sul suo blog e su Twitter con l’inchiesta Citizens’ Investigation, volta a redigere l’elenco dei nomi degli studenti rimasti uccisi. Palazzo Strozzi, simbolo della cultura umanistica, diventa in definitiva sede d’elezione per Ai Weiwei: “moderno uomo del Rinascimento” e libero pensatore. La sua battaglia per i diritti umani non si è mai esaurita e continua ancora oggi a sostegno dei migranti in fuga dalla guerra, tema peraltro ripreso da Reframe (2016), i discussi gommoni rossi pensati ad hoc per la facciata del palazzo. Il 22 luglio 2015 il governo cinese depose le armi, revocando gli arresti a carico dell’artista e riconsegnandogli il passaporto. Ai Weiwei aveva vinto, Ai Weiwei era di nuovo libero. 35


Rossella Batassa

PARASTOU FOROUHAR

Radici

Iranian Fal 36


Tentiamo un esperimento. Mettiamoci davanti alle opere di Parastou Forouhar senza voler sapere nulla dell’artista, né il dove, né il quando e lasciamo che ci parlino, facciamo affluire le sensazioni, estrapoliamo i messaggi e lasciamoli sedimentare. La sua produzione è numerosa e varia nelle proposte, utilizza materiali e tecniche diversi tra loro e non ci si può limitare a mettere etichette o a stabilire una tipologia. Colpisce la preziosa sensibilità femminile nella scelta delle forme, dei soggetti, nell’avvicinarsi mimetico e poi folgorante dei contenuti che trasmette, nati da un dolore sotterraneo e dolente che non si può non avvertire. La comunicazione tra l’artista e l’osservatore, facilitata da tecniche moderne, è immediata. Si è calati nel suo mondo interiore, si entra nel suo passato, continuamente rivisitato, nella sua storia e si fanno propri i suoi incubi ricorrenti. Paraveh, farfalla nella sua lingua e nome della mamma uccisa, entra con prepotenza nelle sue opere, con la serie Papillon del 2010 e The time of the butterflies del 2011, come un ricordo straziante e un omaggio.Queste opere multicolori, che accolgono l’influenza dell’arte decorativa persiana, rimandano alla leggerezza fiabesca di mondi immaginati forse nell’infanzia e scoprono poi, ad una visione ravvicinata, tutto il raccapriccio e la nudità della morte violenta, inscenata da figurine senza volto, assassini e vittime innocenti, avvicinate le une alle altre, fino a formare un motivo da caleidoscopio. Le ali sagomate da linee curve, perfettamente simmetriche, nascondono sulla superficie corpi abbandonati e senza vita, macchie di sangue e le morbide linee, che ricordano la scrittura araba o un arabesco, non sono altro che lacci per i prigionieri. I lavori si presentano sempre con un’estetica armoniosa, impalpabile solo superficialmente, gli occhi poi scoprono ambiguità e brutalità, supportate da motivi ossessivi e angoscianti, si crea così un voluto stridente contrasto tra forma e contenuto. È sempre evidente la sua tragedia, l’uccisione dei genitori, dissidenti politici, non unici martiri della repressione in Iran, dove la realtà è fatta di sottomissione, silenzi conniventi, torture, abusi, morte e insabbiamenti politici. Questo aperto contrasto tra leggerezza e orrore è una costante della sua arte. Nella serie The colours of my name la ripetizione meccanica e stereotipata, elemento tipico dell’arte iraniana, e l’essenzialità dei corpi, diventano caratteristiche della sua arte. Le armi, coltelli pistole bombe e i corpi impilati, mutilati violati sconfitti, si scheggiano e frantumano per

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l’improvvisa frattura delle linee. Soffocante emerge l’angoscia, il terrore ammutolisce, l’utilizzo di colori piatti e atoni si stende come un velo pesante che schiaccia e rende ogni ribellione impossibile. In Iranian Fall, composta da 42 disegni digitali, l’artista sottolinea con lucidità il mondo da cui proviene; si percepiscono la chiusura di questo potere religioso che plasma e scandisce il sistema sociopolitico e anche la paura che non può essere manifestata. La pressione chiude e imprigiona il popolo, rende indifferenti alcuni, letargici altri, succubi e oppressi la maggior parte. Parastou è molto chiara quando affronta il tema della donna nel suo paese. Con un’incisività grafica e una capacità di comunicare che travalica il suo stile complesso e articolato ci abbaglia con i suoi flash metaforici. L’uomo e la donna devono essere separati, le donne sono considerate inferiori. Al primo vengono concessi spazi, possibilità, istruzione e maggiore libertà. Alle seconde è negata la visibilità, il futuro e gli ideali. Sono relegate al ruolo di fattrici, di mogli, devono essere sottomesse ai maschi. Simbolo di questa cultura maschilista è lo chador, obbligatoriamente indossato dalle donne, per nascondere il corpo, non indurre tentazioni e desideri, per esaltare la virtù islamica. Nell’opera Freitag l’artista fotografa un sontuoso e elegante chador nero da cui spunta solo il profilo di una mano, parte che può essere lasciata scoperta. Il titolo non è stato scelto a caso, è suggestivo ed eloquente, il venerdì è paragonabile al sabato ebraico, è il giorno dedicato a Dio, necessita quindi di ancor maggiore rigore e moralità. Questa donna coraggiosa non ha accettato quella società limitante e stritolante e dopo gli studi universitari si è trasferita in Germania dove vive. Da lì ascolta le voci dei suoi concittadini e continua a lavorare inseguita dalle sue ossessioni, continuando a credere che la società iraniana voglia uscire dal ruolo di vittima, consapevole che una piccola frattura già si è formata. Apporta il suo contributo come artista indipendente, facendo propria la tragedia degli altri, dà voce a chi non può parlare, lascia fluire l’incessante fiato della sua memoria segnata. La capacità artistica di Parastou Forouhar è quella di creare opere comunicative, ricche di significati diretti, senza mezze misure. Con il suo sguardo facciamo nostro quel mondo lontano e diverso, partecipiamo al dramma, condividiamo la lotta, sua e del popolo, certo non possiamo rimanere indifferenti.

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Freitag

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Ci salveremo disprezzando la realtà (questa, almeno)

Marco Lovisco

Un pugno chiuso, alzato verso il cielo mentre dietro l’opera le pareti si dipingono di sangue. L’installazione “Bialo-Czerwona” (bianco-rosso) del polacco Piotr Uklański è una evidente (fin troppo esplicita) critica al regime comunista, che l’artista ha vissuto in prima persona. Uklański nasce infatti nel 1968, dieci anni prima della costituzione del sindacato Solidarność e dell’instaurazione da parte del governo della legge marziale, volta a contrastare l’ascesa del sindacato. Uklański è lo stesso artista che con l’opera “The Nazis” (1998) ha reso evidente il fascino che il nazismo ha sempre esercitato sul cinema e sulla letteratura. Inutile dire che entrambe le opere hanno destato polemiche e discussioni, come accade sempre quando si parla di comunismo e fascismo, di destra e sinistra, temi che fanno infiammare gli animi. Ma siamo sicuri che abbia ancora senso quest’opposizione? Ha senso in questo periodo storico? Lo stesso in cui tutti i partiti, di destra e sinistra, democratici o repubblicani, liberali o conservatori paiono accomunati da un’unica esigenza: quella di dare una risposta ai mercati, aumentare la produzione e i consumi, come se questa fosse l’unica strada per poter crescere e progredire. Di fronte al monoteismo capitalista, discutere di destra e sinistra appare futile, inutile e falsamente coraggioso, almeno quanto opporsi ad un nemico che non ha più armi per ferire. Ben più difficile è sfuggire alle dinamiche del mercato e del suo sistema di potere che agisce secondo una precisa strategia. Se c’è qualcuno che contesta, non lo si attacca apertamente e violentemente ma si prova a comprarlo, trasformando l’artista riottoso e le sue opere in merce. Ci hanno provato con Blu, italiano, tra i dieci street artist più famosi al mondo. Per fortuna gli è andata male. È successo nel marzo di quest’anno, quando a Bologna hanno deciso, senza il consen-

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so dell’artista, di staccare (letteralmente) dalla strada i murales più belli per metterli in un museo, rendendoli, di fatto “prodotti” che sarebbero diventati proprietà di qualcuno. Blu ha reagito in modo piuttosto esplicito. Pur di non assistere a tale metamorfosi coatta ha preferito cancellare le sue opere dai muri di Bologna (venti anni di attività spariti in una notte!). Sul suo blog ha scritto: “A Bologna non c’è più Blu e non ci sarà più finché i magnati magneranno. Per ringraziamenti o lamentele sapete a chi rivolgervi”. Un gesto forte, un gesto di disprezzo nei confronti di un mercato e di un sistema di potere che per vivere ha bisogno di appiattire ogni forma di espressione, ingabbiando in una teca ciò che è nato per essere libero. Forse è proprio questa la chiave per “obsistere”: un sano disprezzo verso chi è convinto che tutto abbia un prezzo e possa essere rinchiuso in sicure griglie formali. Obsistere, cioè opporsi strenuamente a qualcosa o qualcuno, comporta un sacrificio, perché ogni battaglia acquista valore solo se si è disposti a rinunciare a qualcosa. Quanto si è disposti a rischiare è indice della potenza che si vuole attribuire all’atto di battersi. Blu ha sacrificato alla sua scelta ciò che di più caro possa esserci per un arista: le sue opere (oltre alla possibilità di entrare dalla porta principale nel “sistema che conta e fa guadagnare”). Per questo il suo gesto è pura obsistenza. Per questo cancellare l’arte diventa un gesto di amore per essa. Per questo ne parlo. Per combattere questo mercato e questo sistema di potere non basta vivere in un sottotetto umido come Modigliani, o trasportare i propri dipinti per strada come faceva Rousseau, perché anche questo rientrerebbe in una griglia formale che rimetterebbe ogni forma di obsistenza nel sicuro recinto della “protesta spuntata”. La strategia per obsistere non può essere 42

Piotr Uklanski - “Bialo Czerwona”

Graffito di Blu e Ericailcane a Bologna ex mercato ortofrutticolo di Via Fioravanti


Banksy - “Slave Labour”

quella di limitarsi a ignorare il mercato ma diventa quella di imporgli le proprie regole, sfruttando le sue dinamiche per andargli contro. Come nel kung-fu, quando sfrutti l’energia dell’avversario per deviarla contro di lui e metterlo al tappeto. Non è facile. Per niente. Si tratta di rispondere all’offerta standard soldi+fama con l’ironia e un’aggressiva creatività, per urlare al mondo che non esiste un unico dio, ma ci sono alternative che non possono essere acquistate. È un po’ quello che fa Banksy che al paradigma soldi+fama risponde con l’anonimato, restituendoci in cambio capolavori di satira pungente che tutti possono ammirare e comprendere. Opere come quella che è stata battezzata “Slave labour”, comparsa su di un muro di Wood Green, a Londra nel 2012, era una critica allo sfruttamento della mano d’opera (spesso minorile), impiegata per realizzare i gadget distribuiti in occasione delle Olimpiadi di Londra. Un modo semplice per evidenziare la realtà (sporca) che ha trasformato un evento sportivo in un carrozzone di marketing e spettacolo. Del resto l’anonimato è una delle caratteristiche degli street artist, soprattutto agli esordi, essenzialmente per motivi legali, visto che non sempre “dipingere” sui muri è consentito. Anche se sono in molti che, nati nell’ombra, non hanno saputo resistere al fascino dell’istituzionalizzazione, quello stesso meccanismo per cui ti vengono assegnati la patente di artista, un pacco di soldi e un mucchio di interviste in cambio della tua voglia di ribellione, chiudendola in un rassicurante recinto dal quale nessuno ti impedirà di ruggire contro fascisti o comunisti, come un cane in gabbia che abbaia alla luna.

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Il rapito

Anna R. G. Rivelli

La tenace drammaticità del suo silenzio era tutto ciò che restava del suo essere uomo; i suoi occhi, che non sfidavano e non imploravano, erano cristalli sfondati dall’urlo che la bocca serrava, consapevole e sazia d’affanno. Non c’era un motivo, uno solo per sperare che l’obliqua rinuncia del suo volto consegnasse pietà ai carcerieri, che una parvenza di più umano sentire suscitasse il passo fiero del kuros che diveniva Cristo davanti a loro. Il freddo e la fame non più che l’umiliazione rendevano nudo il suo corpo nell’inerme abbandono delle spalle contraddetto dal temerario offrirsi del suo petto e dalla scarna voluttà dei panni, estremo baluardo di decoro. In quell’incerto filare di Cloto ogni altro sole sarebbe stato vittoria, ma la notte perenne del suo rifugio aveva chiuso la sua ultima luce in un unico tempo immobile che solo segnava croci nel calendario dei suoi capelli. L’odore umido di bosco imbeveva il suo spazio e ovattava le voci di quotidiani processi e tarlava le membra smagrite. Quali tesori promettesse il suo martirio lui lo sapeva e non padrone della sua esistenza lasciava ormai che tutto si decidesse sopra il suo capo, mentre sperare e rassegnarsi coincidevano nella lucida perpendicolarità del suo innalzarsi e nel boato di libertà riesplosa nel volo incatenato delle sue mani.

Se l’arte si fa racconto 44


Giovanni Da Nola - “San Sebastiano”

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E la scrittura ci salverà

Mara Sabia

La poesia è obsistente. Salva, la poesia. Si autogenera dalle difficoltà. Obsistenza non è resistenza, è far fiorire il dolore, forgiare materia meravigliosa dal caos delle avversità. È generosa e -davvero- obsistente la poesia. Penso ai versi meriniani scampati all’oblio, anzi fioriti copiosamente dalla Terra Santa del manicomio, lì dove anche le biro sono vietate, poiché oggetti contundenti e potenzialmente lesivi. Penso alla poesia ungarettiana, che sopravvive su brandelli di carta e concede di sopravvivere alla trincea, alimentandosi dell’orrore della guerra e traendo forza, con la sua “parola nuda sulla pagina bianca” dallo sconforto che vive all’esterno del poeta e lo fagocita, ma senza annullarne lo spirito e la vena, anzi trasformando in bellezza la morte. Penso a Raymond Carver, un autore meraviglioso, raffinato, che ha saputo rendere, nei suoi racconti e nelle sue poesie, il senso del quotidiano con le parole più sottili e belle. La stessa storia di Carver è obsistente. È la storia di due vite generatesi l’una dall’altra. La prima, accompagnata dall’alcol, dalla precarietà anche economica, da un matrimonio doloroso fallito, e una seconda, segnata dalla malattia, dalla scrittura ardente e dall’amore 46

per una poetessa, Tess, seconda compagna di vita. Leggere Carver significa immergersi, specialmente nella scrittura degli ultimi anni, in una materia che prende vita dalla precarietà stessa, dalla bellezza espressa da ogni minuto di vita, benchè dolorosa. Esiste un racconto carveriano molto bello che si intitola “Una cosa piccola ma buona” in cui il dolore per la tragedia più profonda che possa colpire due genitori -la perdita del figlioletto a causa di un incidente nel giorno del suo compleanno- viene lenita da un pasticciere che offrirà ai due un dolce. Una cosa piccola ma buona, appunto. Anche nella tragedia bisogna nutrirsi e alleggerire l’anima. Carver, nel pieno della malattia che l’aveva colpito, un male nero già in metastasi, non chiede di avere salva la vita, non chiede molto tempo. Ne chiede “ancora un po’”per scrivere e godere della sua scoperta della vita. Per il suo cinquantesimo anno uscirà la raccolta di racconti “Da dove ti sto chiamando”, e in quello stesso anno appunterà: “ Vorrei avere ancora un po’ di tempo. Non cinque anni, e nemmeno tre, non potrei sperare così tanto, ma se avessi anche solo un anno. Se sapessi di avere un anno”.


Charles Bukowski

La scrittura lo salverà così come salverà Charles Bukowski, che del suo squallore farà la sua fortuna. Chi non ricorda i suoi racconti, le sue principesche poesie da bar, gli splendori delle sue donne di malaffare, la materia letteraria che nasce dalla miseria e viene elevata a bellezza, a letteratura; addirittura l’autore si interroga sul miracolo di essere stato salvato dalla scrittura. La scrittura è quasi una maledizione in Bukowski, una predestinazione, qualcosa che, però se sai farne compagna, se sai addomesticare, ti sorreggerà per la vita. “E si farà da sè”. Celebre è il provocatorio interrogativo: Così vorresti fare lo scrittore? [...] non farlo a meno che non ti esca dall’anima come un razzo, a meno che lo star fermo non ti porti alla follia o al suicidio o all’omicidio, non farlo

a meno che il sole dentro di te stia bruciandoti le viscere, non farlo. Quando sarà veramente il momento, e se sei predestinato, si farà da sè e continuerà finchè tu morirai o morirà in te. [...] Penso, infine, tra gli altri al giovanissimo Cioran che nella sua opera dal titolo emblematico “Al culmine della disperazione”, scrive: «se tuttavia si continua a vivere, è solo grazie alla scrittura, che ci sgrava, oggettivandola, di questa tensione infinita. La creazione è una temporanea salvezza dagli artigli della morte”. La scrittura è obsistente, strappa all’oblio, consente addirittura di poter vivere perché oggettiva in un fluire eterno, infinito e indeterminato. La creazione è salvezza temporanea dalla morte, non dissimilmente dalla vita dell’uomo che è parentesi tra l’oblio. Così la poesia è obsistente, come la vita, salva dalla morte, come la vita. Cifra costituente della vita stessa. 47


Le parole sono troppe oppure troppo poche quando ci si ferma a considerare l’eterno; perciò sono troppe oppure troppo poche per dire qualcosa ancora di Dario Fo, perché Dario Fo è stato egli stesso il Teatro, e del teatro è stato l’eternità, il suo inizio e la sua fine, il suo valore assoluto traslato nello spazio e nel tempo; ed è stato insieme la dodecafonia del riso e il dopoguerra di una civiltà che resiste. Per questo resterà; non per il Nobel del ‘97, né per l’arresto a Sassari nel ’73; non per aver dato fiato al Medioevo dei giullari, né per aver frustato il grande boom degli anni ’60 con il sarcasmo sferzante di un motivetto; e neppure per il “Mistero Buffo”, capolavoro dei capolavori, né per il suo grammelot così esplicito, così misterioso ed universale. Fo resterà perché la sua vita ha avuto senso e ha dato senso, e perché, nonostante l’infinita moltiplicazione di se stesso nei suoi personaggi mirabolanti, negli stupefacenti timbri delle loro voci e nella gestualità caparbia con cui pareva volesse agguantare il mondo, è rimasto uno, sempre lo

Omaggio ad un eretico senza tempo Anna R. G. Rivelli

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stesso, con la forza del suo credo laico e l’eroismo della sua lotta. Fo ha vissuto il suo ruolo di intellettuale fino in fondo, consapevole del fatto che la cultura non è lezioso orpello di un’epoca, bensì sua stessa anima profonda, motore di un corpo sociale che senza quell’anima si affloscerebbe come un paltò vuoto e si lascerebbe calpestare dagli infingimenti, dai diktat, dagli agguati della propria contemporaneità e della storia. Acuto, dissacrante, fantasmagorico, giullare sì, buffone di corte mai, Fo ha brandito la propria arte cavalcando in marcia il palcoscenico; ha smascherato con la sua burla una televisione che ai suoi primi vagiti già pronunciava il verbo del potere e istupidiva la nazione con la penna di una censura lustrinata e strisciante; e ha messo a nudo l’inganno di un credo che propagandava come libertà la schiavitù dei propri dogmi. Forse nessuno come lui ha avuto la capacità, o più ancora il coraggio, di leggere il presente nelle sue pieghe, di scavalcare le righe della narrazione per inabissarsi nel torbido

della storia in cerca di quel vero che solo a distanza di anni, che solo ad alcuni, che solo in parte sarebbe stato disvelato. Così è riuscito a far alzare sulla cronaca quel sipario che altri tentavano di far calare, portando sulla scena quelle difficoltà a cui la società italiana stava andando incontro, la crisi del lavoro e quella “Morte accidentale di un anarchico”, sempre in fieri sul palco e sempre attuale in questa Italia in cui, mutatis mutandis, non si è mai smesso di morire per non chiariti accidenti. Per questo non si può dire più niente di lui che, scanzonato oratore di varietà, ci arringherebbe a suon di marcetta con la canzone sigla della Canzonissima dello scandalo, quella del ’62, con cui ricordava al “popolo del miracolo” che liberarsi del pensiero non è trovare la libertà. Continuerebbe ad arringarci, certo, perché quel popolo siamo stati noi e siamo ancora noi, incapaci di comprendere che Dario Fo era in fondo un profeta.

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Mingus the Fingus Epitafio per un angry man

Giuseppe Romaniello


Può uno spiaggiamento di cetacei avvenuto in Messico assurgere a singolare simbolo di obsistenza? Forse, anche se più facile è pensare ad esso come ad una resa della natura alla fatica del mare e della vita. Eppure più che una resa, possiamo considerare quello spiaggiamento una genuflessione della natura ad una grande musicista americano, che ha fatto dell’opposizione ferma ed attiva al potere della “società dei bianchi” un suo tratto distintivo, Charles Mingus, contrabbassista, compositore e arrangiatore, un angry man dell’America degli negli anni ‘60. Il giorno della sua morte, avvenuta il 5 gennaio ‘79, un numero di capodogli uguale ai suoi anni, cinquantasei, andarono a morire sulla costa del Messico, paese dove Charles, oramai imprigionato su una sedia a rotelle a causa della sua malattia degenerativa, era andato a vivere, per lasciarsi morire sulle colline di Cuernavaca, la città dell’eterna primavera. Celebro qui la collera di un uomo la cui storia è emblematica delle contraddizioni dell’America di quegli anni; celebro la sua trinità, come lui stesso diceva nella sua autobiografia: “In altre parole, io sono tre. Il primo sta sempre nel mezzo, senza preoccupazioni, senza emozioni; osserva e aspetta l’occasione di esprimere quello che vede agli altri due. Il secondo è come un animale spaventato che attacca per paura di essere attaccato. E poi c’è una persona piena di amore e di gentilezza che permette agli altri di penetrare nella cella più sacra del tempio del suo essere”. È questa una profonda lacerazione in un uomo fatalmente contemporaneo; lo è già nella sua genealogia, fatta di radici antiche e di moderne commistio-

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ni fra razze. In Mingus confliggevano la purezza razziale di quel cognome di diretta origine africana, con il suo albero genealogico, troppo bianco per essere nero e viceversa; suo padre era figlio di un nero e di una svedese, mentre la madre era di sangue cinese e pellerossa: “meno ancora di un bastardo”, così come intitolò la sua autobiografia. Max Roach, drummer di suoi tanti concerti, diceva che Mingus aveva l’attitudine al drammatico, la sua musica raccontava storie, le sue note dipingevano quadri. Ne fa un ritratto musicale meraviglioso Joni Mitchell nel ‘79, nel suo LP intitolato semplicemente “Mingus”. In “A chair in the sky”, canzone sospesa come le figure di un quadro di Chagall, Joni canta la rabbia di un uomo imprigionato da una malattia degenerativa, che cattura progressivamente la sua incontenibile energia: “Vedo la mia anima in fiamme, bruciare, bruciare il palco dell’orchestra. La prossima volta sarò più grande. Sarò migliore di quanto sia mai stato”. Mingus, il mai domo; visionario e ribelle: nel ‘56, quando ancora il free jazz era poco meno di una possibilità, intuisce che la tempesta sta per arrivare e pubblica il primo concept album della storia del jazz, suo primo lavoro da band leader, “Pithecanthropus erectus”. È una solenne suite sulla storia del genere umano, sull’arroganza dell’animale uomo che, erettosi su due zampe, pensa di collocarsi al di sopra della natura, prefigurandone l’ineludibile declino. È un racconto a volte feroce, articolato in quattro movimenti (Evoluzione, Complesso di superiorità, Declino e Distruzione), pieno di asperità sonore, dissonanze e cambi di tempo repentini, sovrapposizioni di sax. Mingus rilegge in quella incisione anche un classico del jazz, “A foggy day” di Gerswin, ambientandolo in un nebbioso autunno di San Francisco, con tanto di fischi e di clacson suonati dai fiati (è nota la sua passione per gli strumenti acustici). L’incisione finisce con “Love Chant” brano dall’animo gospel,

veemente ed aggressivo, pieno di contrasti e chiaroscuri, che richiama con le sue sonorità il lavoro degli schiavi nei campi, evocando le contraddizioni dell’America del razzismo, della discriminazione, dello sfruttamento dei neri. Nelle note di copertina Mingus scrive qualcosa che sa di obsistenza; se fosse nato in un altro paese avrebbe potuto esprimere le sue idee molto prima, ma, può darsi che sarebbero state meno buone, perché quando si nasce liberi la combattività e l’iniziativa non sono così forti: “la mia musica è viva, parla della vita e della morte, del bene e del male. Essa è collera”. C’è collera ed irrisione nella musica di Mingus; è fatta da sax che punteggiano e ribattono note dal sapore farsesco, mentre l’orchestra letteralmente urla con voce rauca il suo disappunto per lo stato delle cose del mondo. In una delle sue composizioni più celebri, “Fables of Faubus”, l’orchestra di Mingus deride e denuncia le favole che racconta l’allora governatore dell’Arkansas, per giustificare le sue tesi segregazioniste. Faubus si era rifiutato di rispettare la sentenza della Corte suprema americana, che autorizzava nove ragazzi neri a frequentare la scuola media della città, fino ad allora possibilità esclusiva di ragazzi bianchi; il governatore schiera la polizia davanti la scuola, ma i nove ragazzi neri entreranno lo stesso, scortati dalle truppe federali, in un clima surreale di guerra fra razze. E c’è dolore in Charles; piange l’angry man quando, sporgendosi dalla sua sedia a rotelle, sul palco del New York Jazz Festival del ‘78, stringe, in un abbraccio forse pacificatore, il democratico Jimmy Carter, allora Presidente degli Stati Uniti, figlio dell’America bianca contro cui per tanto tempo Mingus si era battuto. Un uomo che ha suonato in giro per il mondo la sua collera e la sua dolcezza, Mingus the Fingus, come nel celebre epitaffio in “Natura morta in custodia di sax”.

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Bernardo Panella L’obsistenza dell’essere nel tempo dell’apparire

Anna R. G. Rivelli

Con una efficacissima metafora, in un scritto pubblicato nel 2007, Luciano Luisi paragona la poesia ad un messaggio in bottiglia affidato al mare dal quale, prima o poi, esso verrà restituito alla spiaggia perché qualcuno lo raccolga, cosicché “il monologo del poeta diventi dialogo”. E non è un caso che tale metafora introduca proprio il racconto che Luisi fa del suo incontro con i versi di Bernardo Panella, voci di pagine ingiallite dal mare del tempo, inaffidabile custode eppur custode del nostro esistere. Ma Bernardo Panella del suo naufragio di poesia ha vestito i suoi giorni, silenziosi inconsapevoli guerrieri nella lotta più dura che la nostra epoca combatte: quella tra l’essere e il sembrar d’essere. Premiato a trent’anni, nel 1964, con la medaglia d’oro del “I Premio di poesia di Atella” da una commissione presieduta da Leonardo Sinisgalli (il quale lo riconobbe meritevole di inserirsi “degnamente nel panorama della poesia italiana”), indicato dal napoletano Francesco Bruno quale autore di uno dei migliori testi di poesia pubblicati nel ’65, Bernardo Panella ha smesso ben presto di pubblicare poesia senza tuttavia smettere di essere poeta. Egli ha scelto la sordina dell’intimo dialogo con la vita piuttosto che l’enfasi delle trombe del presenzialismo, dei titoli, della notorietà, consapevole certo che l’essere poeta è piuttosto una condizione dell’anima che non un “mestiere” e che la poesia, per dirla con Callimaco, non si misura con la pertica persiana ma con l’arte, non è quantità, non voce stentorea, non sfavillio di salotti. E nella società dei like Panella è stato indubbiamente un “antipersonaggio”, dimesso, mai atteggiato, quasi alla ricerca di una invisibilità così inconsueta e poco desiderata ai nostri giorni, eppure così capace di renderlo attento uditore e stupito spettatore dell’universo. Non pubblicava ormai da molti anni, ma ancora più che ottantenne, poco prima di morire, se lo si incontrava per caso in una via di Potenza, mescolato nella folla rada di un mercatino rionale, sapeva incantare con la profondità delle sue parole, mentre schivo e tenace rifiutava l’offerta di lasciarsi “riscoprire”. Era un vero poeta Panella; è un vero poeta. I suoi versi hanno il nitore della fanciullezza senza essere ingenui; i suoi versi fingono di raccontare ma evocano, semplificano l’essenza nella forma della parola, ma oltrepassano la superficie così che il lessico quotidiano diventa prezioso come le api “smemorate” che mentre “danzano intorno alle

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opere di Arcangelo Moles

pergole,/ hanno un leggero scorrere di catene d’oro/al collo di giovane dama”. Dialoga con i poeti Panella, con Vito Riviello (“Vito, forse hai già colto/ quella stella/ che cola da tempo/un rivolo di quarzo”), con Mario Trufelli (“Tutto il cielo sente/ questo spesso velo di ghiaccio/ che ci circonda”), con Alfonso Gatto (“Eri tu che venivi/ con le casette di bimbo/ e i paesi rosati/ a cantare di morti/ a descrivere fiabe…”), con Anna Achmatova (“La tua anima è con noi/una foglia dell’albero d’Europa”); non soltanto però. Suo interlocutore è il tempo, un tempo che scorre senza mai perdersi davvero (“noi riavremo i nostri attimi”); suo interlocutore è il paesaggio di una Lucania che si trascende per diventare mondo (“Questa è Potenza, una città/ che il sole lo beve a specchi”); sua interlocutrice è una natura che si anima di moti umani nel cielo che “strofina il suo dorso/sul mare increspato”, nel mare che … “dorme/ con la bava nella barba/ degli scogli neri nella notte”, nella sera che “…attenta guarda intorno/ che non sfugga un gemito o un canto”, nelle “sciabolate della tramontana”, in …”quell’albero/ là solo, sottile, tenero giulivo” che “disegna nel cielo un canto” e sa dov’è il Natale. C’è un sentimento panico in tutto questo, un immedesimarsi e sentire l’afflato di una realtà sognata, idillica e insieme sferzante come un urlo di silenzio, come un vento insistente che batte. Così, mentre le cose vibrano un palpito umano, mentre ciò che è umile si eleva come il contadino sulla scala che “a quell’altezza/ pare un dio…”, ciò che dovrebbe essere distante si fa immanente e il sole diventa “una foglia docile”, un “angelo miope” guarda il deserto, “…una crosta/ di luce rivela la terra”. E così Bernardo Panella, che ci ha lasciati solo il 24 gennaio appena trascorso a quasi 83 anni, non sembra nemmeno essere morto, piuttosto assorbito da quel silenzio che amava, da quell’ombra che preferiva alla luce di qualsiasi ribalta, da quel cosmo macro e micro che con la stessa dignità contemplava l’estasi dei sogni innocenti, il ronzio degli insetti e l’abbraccio di Dio. Tuttavia come il naufrago viene riportato dall’onda dei suoi versi sull’ignota isola degli insipienti rumori di un’epoca in cui sembrare è legge, ricordare un’opinabile scelta. Ma la memoria, anche la memoria è obsistenza.

L’età dell’eternità

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Imma(colla)ges

Un canto afono batte sul cuore Un canto afono batte sul cuore, dà sottili fremiti nella veglia; la sera attenta guarda intorno che non sfugga un gemito o un canto. Veglia la vanessa che squaderna la sua ombra d’ali eterna nel periplo del globo e si smarrisce dentro l’ipnosi luminosa. Noi seguiamo gli esseri perenni oltre il limite permesso e rechiamo questo nostro vano immaginare alle soglie dove tutto è essere e s’annulla il molteplice nulla di quaggiù. Così s’infrange per un sogno il vero e il cielo torna chiuso sulla fonte. 56

Il mattino sorge Il mattino sorge dalle larve di nebbia col lento sospiro che hanno tutte le creature in quest’incerto velo di luce. Gli uccelli rissano chiassosi per i tetti contro qualcuno o qualcosa che essi non sanno. È la primavera sonnacchiosa che si leva ora dalle valli tutta sbadigli come pigra sposa: e reca un velo lieve di trasparenze.

Sillaba il tempo Sillaba il tempo, invariato: il suo metro; … un castello di sabbia è franato sotto l’occhio dell’angelo miope che guarda al deserto. Vano è il tempo, che striscia l’ala spezzata nella polvere.


Nei tuoi occhi dorme la sera Nei tuoi occhi dorme la sera implicata di nidi; ancora sognano di nascere le viole alle disperse allegrezze dei sentieri. Ora prolunga il tramonto un canto che si perde sulla via.

Sonno equinoziale

Versi per A. Achmàtova

La gente con le ringhiere dei panni colorati entra nei vetri dei balconi col sole dell’ultima estate. Questa è Potenza, una città che il sole lo beve a specchi per non rompere il suo sonno equinoziale. Le strade prolungano il giorno all’ombra delle murate nell’odore del basilico. Da un fermento di voci indovini le contrade che dormono supine al sole dell’ultima estate.

Coi primi fermenti di caldo in un alone pazzo di vento, il tuo sottile dono: la tua voce persuasiva, da chi sa quali terre o mari in lontananze dove il vento solo ode lo sparo del cacciatore delle steppe e l’urlo delle savane. La tua anima è con noi, una foglia dell’albero d’Europa. I suoi fiumi lenti e silenziosi porti nelle tue sillabe brevi come petali di mandorli e profumate. 57


Progetti di resistenza

Giuseppe Passavanti

Pianificare la propria vita, progettare il proprio futuro: che significheranno mai tali espressioni? Diamo per scontato che si debba progettare. Non riflettiamo quasi mai sul senso del progetto in sé, quando nessuna finalità si è ancora espressa. A che condizioni progettiamo? Quando pianifichiamo futuri proiettiamo nello spazio della coscienza, dualità o divaricazione originaria, degli assenti, dei ‘non essere ancora’, e li modelliamo e collaudiamo sulla base di aspettative, paure, desideri. La coscienza, in quanto dilatazione del presente nel passato e nel futuro, ha già in sé le caratteristiche di ciò che si oppone al flusso incessante del tempo, di ciò che gli resiste: è essa il luogo del progetto. Quale sarà il tempo in cui lo costruiamo? Forse il futuro? Ma sappiamo che esso “non è”, per definizione. Allora forse progettiamo nel tempo presente, ma sulla scorta di quali dati? Come calcoliamo le traiettorie delle nostre vite? Probabilmente immaginiamo futuri partendo dai nostri vissuti individuali, ossia da tempi passati, scambiando così banconote senza corso legale - sottobanco, ovviamente - con moneta nuova sonante. Ci troviamo nelle strette di una contraddizione quasi palese. Per disegnare le traiettorie nostre di viventi, in un tempo che non esiste, ossia il futuro, rimescoliamo memorie passate credendo che il nuovo e l’imprevedibile, contenuti di ogni autentico avvenire, si lascino ingabbiare dalla nostra volontà di potenza, dominio e controllo. 58

Il caos, il disordine generato dall’esposizione delle nostre vite alla rischiosa, gelida spesso, brezza dell’avvenire, dovrebbe, per soddisfare le nostre nascoste aspettative, avere la forma dei nostri passati: allora, sì, tutto quadrerebbe e i nostri progetti si realizzerebbero sempre secondo i piani. La pianificazione è un’operazione architettonica paradossale, retta dalla credenza nella possibilità di vedere in anticipo l’imprevedibile, rimescolando e riorganizzando il già visto. La ragione, che tenta l’impossibile sistemazione dell’imprevedibile nel noto, può però guardare soltanto in direzione del già accaduto, ossia attingere esclusivamente all’esperienza passata. Il pensiero calcolante, nonostante si sforzi di anticipare ciò che ci viene incontro, l’avvenire, è - suo malgrado - perennemente in ritardo non solo sul futuro, ma addirittura sul presente. Quanti di voi accetterebbero un passaggio in auto da un autista che guida di spalle? Eppure, pretendendo di disporre e pianificare integralmente il nostro futuro, tentando di dare al presente un orientamento puramente razionale e rigidamente predeterminato, lasciamo alla guida della nostra vita un autista che è incapace di guardare in avanti. È probabile che questa stessa breve riflessione sia fuggita troppo avanti, come un precipitato tardivo di una scelta già compiuta. Quest’ultima, il mistero di libertà che sotto la crosta banale di ogni calcolo si nasconde, intrattiene un rapporto speciale col principio di cau-


salità. Tuttavia, produrre effetti non è sinonimo di scegliere o di agire. Nella scelta si esprime qualcosa di immediato, incalcolabile, antepredicativo, alogico. L’uomo, nella sua interezza, non può essere ridotto a mero calcolatore di traiettorie future. Dalla rete delle nostre anticipazioni spesso catturata eppure mai doma è una ragione diversa, che sta dietro tutte le piccole ragioni delle scelte e delle previsioni. In ogni scelta significativa della vita le ragioni, ritardatarie croniche, arrivano a cose fatte a spiegarci perché si sia agito - si noti, il tempo di questa riflessione è il passato - in tale maniera e non diversamente. In un certo senso l’azione precede il pensiero, come ogni espressione di sé trova sempre tardi la propria verbale giustificazione. Nel calcolo dei futuri ci siamo immaginati come agenti, e mai come pazienti della pianificazione futura. Sappiamo altresì che, dalla culla al camposanto, gran parte della nostra vita di uomini fra gli uomini risulta condizionata e predeterminata da altro. Oggi più che mai, ogni elemento della nostra esistenza mortale è inserito in un sistema di relazioni impersonale e globale che esercita sulle nostre vite una attrazione irresistibile e pericolosa, tanto più pervasiva quanto più invisibile. L’economico, in tutte le sue forme, ha nella propria essenza il calcolo anticipatorio finalizzato alla massimizzazione dell’efficienza di qualsiasi processo, e crediamo che esso sia l’espressione suprema della volontà di dominio del futuro at-

traverso il controllo del presente. L’umanità, inserita nel mercato globale, è in anticipo appiattita e depotenziata nel consumo: in gesti vuoti, reiterati, in una specie di catena di montaggio in cui il denaro deve, costi quel che costi in termini non strettamente economici, fluire incessantemente. Qualcuno preferisce pensare agli uomini in termini di circuitazione economica, preferisce ridurci a nodi di una rete attraverso cui il flusso del denaro deve incessantemente procedere. Quel qualcuno lo fa in vista di un profitto, producendo ovunque disumanizzazione. Opporre coraggiosamente il proprio petto a un nemico senza volto è possibile riappropriandosi di sé, restando umani. Il primo atto di umana resistenza consiste nella sottrazione al calcolo economico altrui. Siamo incalcolabili, indomiti, uomini, quando abbiamo il coraggio di agire, di metterci in gioco come individui, di aprire le porte al nuovo che per definizione è sempre imprevedibile. Ogni gesto realmente umano è irripetibile, luminoso, e ha in sé l’impronta di chi agisce, il suo carattere unico. L’azione autentica è già sempre politica. L’economico è invece l’impolitico per eccellenza. A esso opponiamo le arti e la cultura come strumenti di umanizzazione dell’uomo, palestre d’obsistenza, arsenali per una futura - auspicabile - guerra non economica all’economico.

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Sakin Cansiz

Sakine Cansiz, donna Kurda, femminista, cofondatrice, insieme al leader Kurdo Ocalan, del Partito dei Lavoratori Kurdi (PKK), è stata assassinata a Parigi il 9 gennaio 2013 insieme a due giovani donne, Fidan Dogan e Leyla Soilemez, per mezzo di un attentato presso la sede dell’Ufficio di Informazione del Kurdistan nella capitale francese. Il 23 gennaio prossimo inizierà il processo contro gli assassini, e il Movimento della diaspora kurda in Francia ha lanciato un appello per la partecipazione massiccia di donne da tutta Europa per testimoniare solidarietà a tutte le donne kurde che hanno dato prova del loro coraggio e voglia di libertà testimoniata dalla lotta che molte di loro stanno combattendo in oriente, contro le orde dell’Isis. “Tutta la mia vita è stata una lotta” è il titolo dato a due libri scritti dall’autrice che testimoniano della sua vita di resistenza fin dall’adolescenza, combattuta contro il patriarcato, la struttura della famiglia, del matrimonio e dei poteri dello Stato, ma che rappresenta il percorso di liberazione di tutte le donne , del popolo kurdo, e di tutti i bambini, i ragazzi, gli anziani e tutti coloro che oggi subiscono in Turchia le distruzioni operate dalla lucida follia che ha invaso il governo turco che agisce assediando le città “ribelli” del popolo kurdo ( come Van, Cizre, Nusaybin, Sur, Silvan e altre), arrestando giornalisti, avvocati, accademici, insegnanti, per annientare chiunque aspiri a un cambiamento del60


Sakin Cansiz Tutta la mia vita è stata una lotta

Simonetta Crisci

la società ed evitare quanto avvenuto in Rojava (Siria del nord), dove gli uomini e le donne di cui Sakine parla nel suo libro hanno liberato e ricostruiscono Kobane assediata per mesi dall’Isis (Daesh) nel 2014. Nel primo libro Sakine -Sara, nome di battaglia- ha narrato gli eventi che l’hanno portata dalla prima gioventù (vissuta in una famiglia di origine kurdaalevita nel territorio di Dersim, in Turchia, dove gli appartenenti al popolo kurdo avevano subito un genocidio nel 1938 da parte dell’impero di Ataturk) a scegliere il suo destino aderendo ai movimenti di liberazione che negli anni 70 andavano formandosi per avviarsi verso una lotta di liberazione di quel popolo, insieme a molti giovani e soprattutto donne che, acquisita coscienza della propria identità sociale e politica, cominciavano a lottare contro una tradizione che le vedeva relegate a ruoli di madre e moglie, senza possibilità di alternativa ad una vita costretta tra il sacrificio per la famiglia e l’educazione di una miriade di figli. Nell’ultimo libro, che racconta la vita di Sara dall’arresto, avvenuto nel maggio 1979, fino alla liberazione del 1990, è presente anche la testimonianza di donne che hanno resistito alle torture e alle violenze che in quelle prigioni - disseminate in territorio turco da Elazig a Malatya, a Diyarbakir, Amasya e Canakkale - hanno subito dai loro aguzzini che tentavano di piegarle a far loro rinnegare la lotta per la liberazione del 61


popolo kurdo allorquando la popolazione kurda non poteva neanche parlare la propria lingua e subiva addirittura il cambiamento del nome, trasformato dalle autorità turche per negare le loro origini e ribadire l’esistenza dell’unica cultura turca per tutti i popoli presenti in Turchia, così come aveva stabilito il potere del padre della patria turca, Ataturk. Sara e tutte le giovani che con lei hanno vissuto quell’esperienza nelle carceri turche hanno subito torture come la “falaka”(tortura consistente in colpi inferti con i manganelli sotto le piante dei piedi fino a farli sanguinare), gli stupri operati dai guardiani verso le donne più deboli, le uccisioni e le violenze più assurde e inutili (Sara ha subito anche l’asportazione dei seni), le umiliazioni più atroci, ma senza mai rinnegare la propria volontà di lotta e senza abbandonare la loro tenacia nel combattere contro qualsiasi sopruso. Gli scioperi della fame, organizzati con molta difficoltà insieme agli uomini detenuti (scioperi che sono stati anche causa della morte di alcuni di loro), hanno mostrato la dignità e la determinazione dei detenuti politici che rifiutavano le imposizioni crudeli con cui nelle carceri, dopo il colpo di stato militare in Turchia del 1980, si mirava a far loro rinnegare la propria identità o li si umiliava 62

pretendendo che vestissero con divise apposite, che cantassero canzoni fasciste dinanzi ai compagni e alle guardie, che facessero l’alzabandiera ogni mattina inneggiando ai capi militari. Sara/Sakine, nonostante tutto ciò, continua a credere nelle proprie idee e a lavorare con le donne per affermare, anche nei confronti dei compagni maschi che spesso non le consideravano nelle decisioni di lotta nel carcere, se stessa, il proprio genere e le scelte fondamentali in un cammino di liberazione non solo dal carcere ma anche nella vita: imparare a scrivere e leggere, combattere contro le umiliazioni, organizzare una evasione, imporre la propria identità di genere in tutte le situazioni di vita. Naturalmente Sakine prova anche a fuggire e il racconto delle fughe da lei tentate avvince i lettori quanto la narrazione delle scelte dolorose di rompere con gli uomini della sua vita: la separazione dal marito con cui decide di lasciarsi perché non è in linea con le sue idee di vita e di lotta, le sue esperienze di approccio con i compagni che può incontrare , a volte, ai processi o nel passaggio in un cortile del carcere o ai colloqui con i familiari. Il mondo di Sakine in carcere aiuta a capire la lotta del popolo kurdo, la lotta di gente testarda, vissuta in villaggi di montagna


nel sud est della Turchia, nel territorio compreso tra fiumi Tigri ed Eufrate, l’antica Mesopotamia. Un popolo testardo, dignitoso e forte, che non accetta più di essere relegato al ruolo di “indipendentista”. I Kurdi sono consapevoli di essere un popolo con le proprie tradizioni, la propria lingua, la propria cultura e vogliono vivere in pace con tutti i popoli che vivono nel territorio del sud est della Turchia, nel nord della Siria, nel sud ovest dell’Iran e nel nord dell’Iraq. Non rivendicano uno “Stato”, bensì una libertà di vivere senza subordinazione a governi dittatoriali come quello turco. In Rojava, nel nord della Siria , da circa quattro anni vive l’esperienza pratica di un governo regionale autonomo, dove Kurdi, Turcomanni, Aleviti, Arabi ed altre etnie convivono sotto la garanzia di un contratto sociale, Costituzione che prevede libertà di culto, di lingua e di tradizioni di ciascuno dei popoli lì presenti, con un diritto di genere che prevede doppio incarico in ogni carica istituzionale. La proposta di gestione di regioni autonome, con la convivenza pacifica tra i popoli, è una proposta che il popolo kurdo offre a tutto l’Oriente oggi dilaniato da guerre sanguinose. L’opera di Sakine è lo specchio del dolore dei popoli oppressi, ma anche della forza che essi possono esprimere

seminando quell’amore e quella solidarietà che hanno permesso il rientro nel loro Paese, in Iraq,di migliaia di cittadini costretti alla fuga. Quando i criminali dell’Isis , infatti, hanno invaso il territorio dello Shingal attaccando gente pacifica che viveva nel proprio isolamento religioso e costringendola a subire il rapimento di oltre 4000 donne ( madri e giovani fanciulle, poi stuprate per aver rifiutato di sottostare alla religione islamica), le formazioni femminili kurde, in quell’agosto del 2014, mentre i soldati di Barzani fuggivano davanti alle orde islamiche, hanno creato, conquistandolo, un corridoio umanitario per far fuggire quella popolazione e, successivamente, hanno addestrato anche le donne alla difesa cosicché oggi tutti sono tornati nella propria terra ed hanno creato un esercito per la difesa dei cittadini, garantendone, per quanto possibile in quelle zone, sicurezza e tranquillità. Con “Tutta la mia vita è stata una lotta” entriamo nella storia di un popolo e delle sue donne che cercano la pace, la convivenza e la solidarietà tra i popoli.

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L’arte prestata al rito: il bisbiglio tra l’uomo e Dio

Talvolta, semplicemente, si sente il bisogno di ringraziare. In certi resilienti ambienti, in certi “obsistenti” spazi, quelli che sono tornato a frequentare con costanza e laico giovamento, il desiderio/bisogno in questione lo si sintetizza con il termine eukharistía. Sono gli ambienti e gli spazi del rito che, per nulla incidentalmente, custodiscono la gran parte del patrimonio artistico. Le opere commissionate nei secoli e custodite nei millenni, spesso ridotte al ruolo di manifesti di propaganda dottrinaria, hanno in realtà ed alla prova dei fatti partecipato ad un dialogo funzionale che resiste e si rinnova. Così come il cristiano, dopo tutto, che non aspira ad altro se non ad essere “nuovo” restando Sé. Per diventare “nuovo”, l’uomo deve immergersi con tutto se stesso nel mistero, aderendo al piano salvifico di Dio che ha scelto l’economia più elevante e coinvolgente dei valori umani: l’economia sacramentale. Ed è questa una economia che solo ai superficiali o ai prevenuti può apparire privativa rispetto alle prerogative dell’essere umano nella sua interezza. La pretesa contemporanea di rendere conto di tutta la vita umana, per quanto pretenziosa e talvolta foriera di derive e deliri, è stata tanto accolta quanto accettata, al punto di non poter ormai essere dissociata dalla vita stessa. Sappiamo bene allora che il dedicarsi in modo esclusivo alle scienze evitando di convocare nella propria esegesi esistenziale la filosofia e l’arte sarebbe inappropriato tanto da privarci degli strumenti necessari per modellare e rappresentare un plausibile concetto di contemporaneità del genere umano. Nel nostro essere “nuovi”, insomma, abbiamo già da tempo capito che ci serve celebrare il non dimostrabile. Abbiamo contezza di come gli algoritmi siano bastevoli per interpretare ciò che ci circonda mentre abbiamo bisogno di traduzioni poetiche per ri/ conoscere noi stessi. Non è ben chiaro allora, se sia più resiliente una tela al servizio della liturgia o la liturgia stessa. Certamente è resiliente l’interfunzionalità dell’arte con il rito al cui servizio è posta. L’opera convoca in contemplazione e suggerisce un desiderio di partecipazione che, seppur espresso attraverso le forme sensibili, è desiderio libero dalla cupidigia di un possesso egoistico ed anzi, è tanto più intenso quanto più la contem64

Elabrazione grafica di Salvatore Comminiello

Aniello Ertico


plazione è condivisa nella ritualità. Insomma, la poetica dell’arte al servizio del rito è quella che induce il fruitore a sentirsi partecipe di un sentimento universale eppure assolutamente anche personale. E non si tratta né di artifici tecnici né di suggestioni suggerite dalla sacralità dei soggetti. Si tratta di riconoscere l’appartenenza dell’opera al rito e viceversa. Il desiderare quell’opera per se è sacrilego poiché equivale a zittire il millenario bisbiglio tra Dio e l’uomo. L’opera d’arte allora non è uno strumento al servizio della dottrina ma l’emblema dell’uomo/artista in completezza, vale a dire con il prodotto della sua capacità creativa, in rappresentanza dell’umanità dialogante sul medesimo altare deputato allo scambio di doni. È per questa ragione che cambiando nei secoli lo stile i materiali e le cifre dell’arte, non è venuto meno il servizio al ministero delle opere che proprio perché emancipate dal passato hanno ben preservato il proprio scopo: di nessun dialogo autentico con Dio saremmo capaci se non usassimo le parole che ci appartengono tempo per tempo. Nessuna opera oggi sarebbe davvero sacra, meritevole cioè di essere funzionale al rito, qualora non fosse realizzata con i registri del tempo corrente. Poiché l’arte è segno, è simbolo, la validità della sua espressione è esente da indagini di stile. Quella è l’arte del dialogo tra l’uomo e Dio e quanto più cambia e si esprime diversamente tanto più è umana ed efficace nella sintesi tra funzione culturale e funzione rituale. Non è stata l’architettura contemporanea a cambiare l’aspetto delle nostre chiese. Non è stata l’arte sacra dell’ottocento a soppiantare le maestose opere seicentesche. In realtà, ciò che accade in una chiesa e nei suoi allestimenti dipende da un solo fattore essenziale straordinariamente resiliente: il fatto che esista una umanità che ancora avverte il bisogno di ringraziare e quindi di dialogare con il suo Dio. Per farlo usa le parole e l’arte che conosce. Per farlo serve una chiesa, non un museo. La chiesa diventa il luogo in cui condividere la riduzione del divino in materia per la permanenza di un dialogo possibile; l’arte diventa preghiera e Dio appare uomo a cui poter bisbigliare un semplicissimo e modernissimo ...”Gesù, pensaci tu”. Da duemila anni. 65


Oltre la resilienza

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Vito Santarsiero


Nella complessa società digitale, sempre più tecnologica, sempre più interconnessa, sempre più veloce e rapida, ma anche sempre più superficiale e poco riflessiva, con un’appeal di tipo elefantiaco espresso ai massimi livelli ed un’appeal valoriale, culturale ed identitario espresso a livelli minimi, che ha difficoltà a ridefinire modelli equi e solidali di sviluppo, il concetto di resilienza, inteso come la capacità di un sistema di adattarsi e conservare la facoltà di garantire servizi e crescita civile e democratica, ci chiama ad una riflessione e alla esigenza di una forma di sua implementazione. Oggi, come evidenzia il filosofo Luciano Floridi, abbiamo perso il contatto con il mondo contemporaneo, sui social domina l’intrattenimento, vi è poco senso critico e si dà sempre più risalto alle cose rispetto ai processi. In tale contesto una reazione resiliente, tesa ad assorbire una spinta anomala della quotidianità con una deformazione elastica per raggiungere una nuova condizione di equilibrio figlia di quella sollecitazione, rappresenta fondamentalmente un modo per non farsi travolgere e trovare una “nicchia” entro cui collocarsi per sfuggire al far west di una polarizzazione ove vince chi urla di più e ove lo studio, la meditazione e la costruzione di un progetto, vengono marginalizzati. Al nostro futuro, come del resto in ogni processo storico, serve altro, serve un’azione tesa ad una resistenza attiva per ribaltare un processo di deriva verso una umanità imperfetta e trasformare in una opportunità ed in una risorsa l’enorme potenza creativa e comunicativa del digitale. Quanto accaduto in America è emblematico; Donald Trump, consapevole del ruolo dei social e della deregulation in cui operano, ha scientificamente fatto degenerare in rissa la campagna elettorale portando il confronto su temi strumentali e personali piuttosto che su programmi e strategie. La stessa Chiesa, in un bel documento dedicato ad “un’agenda di speranza per il futuro del Paese”, evidenzia che la globalizzazione non assicura automaticamente o per necessità la garanzia del rispetto della dignità umana e il perseguimento del bene comune. Serve quindi un nuovo modo di reagire se si vuole evitare che lentamente nel nuovo spazio delle relazioni prevalga la logica del branco; occorre andare oltre la resilienza, serve qualcosa di nuovo e di diverso, serve la “obsistenza”, vale a dire la capacità di resistere non con una deformazione che asseconda la spinta, ma con una controspinta per portare i media ed i social a rappresentare non un problema, ma un potente strumento per ridefinire il sistema delle comunicazioni e delle relazioni ed offrire una grande occasione per costruire un nuovo modello di democrazia. Non è certamente un processo semplice, lo strumento principe per tale azione di obsistenza sarà una evoluzione del concetto di conoscenza filosofica. Non serve una semplice narrazione del nuovo modo di fare comunicazione; per governare tali processi e raggiungere una nuova relazionalità occorre un certo quantitativo di conoscenze da acquisire, cosa non sempre semplice né poco faticosa, per evitare superficialità ed approssimazione nella valutazione su cosa siano i social media e quale sia il loro impatto. In una stagione di cambiamento epocale per cogliere le nuove opportunità serve un pensiero nuovo, serve “dilatare la ragione e renderla capace di conoscere ed orientare queste imponenti e nuove dinamiche”, come con chiarezza ha detto Benedetto XVI.

Kosmur “Assembler”

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Il polittico del Bellini a Genzano di Lucania

Un patrimonio che resiste Maria Antonietta Falanga

La Basilicata è una terra ricca di tesori d’arte dall’inestimabile valore e anche i luoghi più piccoli e remoti spesso custodiscono opere di importanti artisti. È il caso di Genzano di Lucania, un paese di circa seimila abitanti nella provincia di Potenza. Nel cuore del suo centro storico si erge la chiesa Madre dedicata a Maria Santissima della Platea, costruita intorno al 1400-1450. La chiesa, completamente restaurata in seguito ai danni riportati dalla seconda guerra mondiale, ha assunto un aspetto assai moderno perdendo le caratteristiche originali. Al suo interno è custodito un pregevole polittico di indubbio valore, attribuito all’artista veneto Giovanni Bellini, conosciuto anche con il nome di Giambellino. L’opera risale al 1473-1474, appartiene al periodo della pittura giovanile del Bellini, è considerata da molti critici una delle opere d’arte più importanti in terra di Basilicata. Precedentemente era stata attribuita al veneto Lazzaro Bastiani, pittore e mosaicista formatosi pres-

LUCANIA INVENIENDA

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Giovanni Bellini - Polittico - Genzano di Lucania 69


so il maestro Antonio Vivarini. Solo dopo i lavori di restauro da parte della Soprintendenza di Bari e poi di Matera si arriva all’attribuzione dell’immagine centrale, “La Madonna in trono con Bambino”, al caposcuola Giovanni Bellini grazie alla qualità discontinua e ai persistenti “ grecismi”, come il manto crisografato dell’Annunziata e a un continuo accostamento tra meccanicismi vecchi e nuovi. Il polittico è costituito da sei tavole divise e misura cm155 di altezza e cm190 di larghezza. Al centro del polittico vi è la Vergine in trono in posizione orante ( Platytera) che sostiene sulle ginocchia il Bambino completamente nudo. Nel registro superiore, in alto a sinistra, sono raffigurati l’Angelo annunciante ed il Cristo crocifisso; in alto a destra, l’Annunciata con San Francesco; nel registro inferiore, a destra, San Giovanni Battista e San Sebastiano, mentre a sinistra Sant’ Antonio Abate e San Pietro. La base dei riquadri è delimitata da una predella raffigurante la Natività, i dodici apostoli attorno a Cristo e l’Adorazione dei Magi. Certamente l’opera è stata riposizionata nella Chiesa di Santa Maria della Platea e lo si evince dalle cornici lignee molto semplici che dividono i diversi quadri del polittico. Alcune tavole risultano tagliate perché, probabilmente, non si adattavano allo spazio disponibile. Lo stato di conservazione del polittico è abbastanza precario a causa dei ripetuti lavaggi con la soda che nel registro principale hanno sostanzialmente eliminato il colore giallo-oro dei fondali, elemento caratteristico di una produzione seriale e consolidata, e il colore azzurro del cielo, di cui rimangono poche tracce. Ma come si spiega e quali sono i motivi che giustificano la presenza di opere d’arte veneta in Puglia e in Basilicata, soprattutto a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento? Certamente le relazioni commerciali con la confinante regione Puglia è uno dei motivi predominanti che spiegano la presenza di pregevoli opere in Basilicata. A Venezia mai sfuggi

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l’importanza strategica dei porti pugliesi, ma la cultura veneta ebbe modo di penetrare in questo ambito territoriale non solo grazie alla classe politica, mercantile e militare, ma anche perché gli echi dell’arte colta continuarono a rimanere durante il Rinascimento fra le comunità monastiche. Non meno importante della committenza monastica fu quella dei cittadini o, meglio, dei commercianti veneti residenti in Puglia. Di conseguenza la Lucania, visti gli stretti rapporti avuti in passato con la Terra d’Otranto, non poteva non essere toccata da questo fenomeno. Per quanto concerne la committenza ecclesiastica, va ricordata quella di Roberto de Mabilia, presbitero originario di Montepeloso (l’attuale Irsina), rettore della chiesa di San Daniele a Padova e notaio facoltoso, che in occasione della nomina di Irsina a sede vescovile, ordinata con bolla papale nel 1452, fece commissionare opere d’arte per la città che assumeva la dignità arcivescovile, condivisa con l’importante città di Andria. Così anche la Basilicata si inseriva in un fenomeno più vasto: l’arrivo nella Puglia (regione che all’epoca comprendeva anche il versante orientale della Basilicata) di opere d’arte veneta. Il de Mabilia aveva instaurato stretti rapporti di amicizia con Andrea Mantegna al quale furono commissionate molte opere d’arte. Inoltre lo stesso Mantegna, che si era formato nella bottega di Jacopo Bellini, padre di Giovanni, era anche coetaneo e cognato del Giambellino poiché aveva sposato l’unica sorella del Bellini, Nicolosia, nel 1453. Ruolo importante ebbe anche un altro personaggio, tale Giacomo Alfonso Ferrillo, feudatario colto e facoltoso di Muro Lucano, Genzano e Acerenza, il quale si pensa abbia avuto contatti con il clero irsinese ed abbia provveduto alla commissione di molte opere d’arte. Si potrebbe dunque ipotizzare che il polittico del Bellini sia giunto a Genzano di Lucania attraverso una donazione che forse il de Mabilia fece al feudo del Ferrillo.

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BASILICATA INVENIENDA

Sperimentare è resistere Teatro e musica dell’associazione Lost Orpheus Multimedia Antonio De Lisa - Noemi Franco

C’è una parola magica che caratterizza tutta l’attività dell’Associazione Lost Orpheus: “orfismo”. Orfismo rimanda a Orfeo, che è un personaggio noto della mitologia greca. Orfeo ha riferimenti diretti alla musica, che per l’associazione ha un significato ben preciso, visto che è impegnata anche su questo fronte. Ma “orfismo” ha anche una precisa attinenza col territorio da cui proviene. Questo territorio si estende da Paestum, sulla costa tirrenica, a Metaponto, sulla costa ionica. In questo lembo di terra si è sviluppata la dottrina orfico-pitagorica. La dottrina ha origini antichissime: praticava riti orfici, ma aveva anche un significato filosofico, ricollegandosi alle dottrine di Pitagora, che a Metaponto è vissuto ed è morto. Gli iniziati si facevano seppellire con una lamina dorata in bocca, come viatico dell’immortalità. L’associazione ha attinto a piene mani a questa tradizione, ma senza fermarsi lì. È partita da queste tradizioni profonde per collegarsi alla contemporaneità più avanzata; avanzata nel senso che non ha paura della sperimentazione sia a livello drammaturgico sia a livello musicale e artistico. La parola “artistico” vale soprattutto per la concezione scenico-scenografica del gruppo che, come si vedrà, è particolarmente “creativa”. Questo connubio, antico e moderno, è la cifra dell’associazione, ponendosi a riparo da mode effimere e passeggere. In questo senso, “resistere” vuol dire saper essere coerenti con se stessi. Nata per impulso del prof. Antonio De Lisa, l’associazione si è trasformata in un vero 72

centro di aggregazione, un vero cantiere di esperienze in cui ognuno può imparare o insegnare qualcosa, tentare nuove strade e magari svelare qualche talento nascosto. Unica regola: essere sempre originali. È per questo che tutto ciò che esce da Lost Orpheus è sempre frutto di lavoro “fatto in casa”, come in un vero laboratorio. La attività sono molto variegate e hanno come fulcro la passione per il teatro e per la musica. “Lost Orpheus Ensemble” , il gruppo musicale, e “Lost Orpheus Teatro” sono le due correnti direttive dell’associazione, che ormai da qualche anno operano sul territorio, a partire dalla Basilicata con ampie aperture alle regioni circostanti, sia in modo autonomo l’una dall’altra, ma spesso e volentieri unendo le forze. Recentemente queste esperienze si sono allargate fino a confluire in una riflessione generale sul teatro, nel sito web www.teatroericerca.org. Il gruppo musicale è stato il primo a formarsi e vede all’attivo numerosi concerti svolti in città e nei dintorni. Il repertorio, composto esclusivamente da pezzi originali, spazia in vari generi di musica moderna. Accanto ad una serie di brani melodici e cantati, si affiancano pezzi strumentali che si avvicinano alla musica contemporanea. È questo, si può dire, il settore in cui il Lost Orpheus si sente più libero di esprimersi in forme musicali inusuali e di forte sperimentazione, attraverso un metodo compositivo basato su rapporti numerici, connessioni interne e schemi algoritmici. “Orphic Music” è il termine che il gruppo usa


Robert Delaunay

per definire questo genere praticamente unico, termine che vuole richiamare l’attenzione sull’orfismo e sul pitagorismo. In questo modo il gruppo lega certe suggestioni “orfiche” a più sperimentali forme d’arte moderna. Ad oggi il “Lost Orpheus Ensemble” ha in repertorio l’album “Orphic Night”, sta inoltre lavorando ad un nuovo album di canzoni,“Whatshappening”,e ad uno più sperimentale dal titolo “Derivazioni”. L’attività teatrale del gruppo ha una duplice prospettiva: una legata al contesto urbano di Potenza e della Basilicata, l’altra alla realtà della scuola, in particolare del Liceo Scientifico Galilei di Potenza. Nel caso di quest’ultimo collabora con l’Officina Galilei per il Teatro e la Musica. Dopo essersi consolidata come compagnia indipendente nel “Lost Orpheus Teatro”, l’impegno del gruppo ha dato i suoi frutti portando in scena nel maggio 2016 al Teatro Don Bosco di Potenza lo spettacolo “Dot.City” nella rassegna teatrale “Cantieri d’arte” dei Teatri Uniti di Basilicata. Il teatro è la forma d’arte in cui confluiscono tutte le esperienze di Lost Orpheus, dato che ogni elemento dello spettacolo, scenografia, musica, coreografie dei balli, è costruito, scritto e pensato senza delegare nulla ad esperti esterni. Sotto la guida del prof. De Lisa, che si occupa della regia e della sceneggiatura, nonché della musica come membro del gruppo musicale, tutti si danno da fare per la realizzazione dello spettacolo. Nella scenografia si riversa tutta la follia del gruppo, che fa uso di elementi leggeri,

come carta e cartone, e di oggetti di uso quotidiano reinventati e modificati. Non una scenografia tradizionale quindi, ma minimalista e a tratti fumettistica. Gli spettacoli sono sempre arricchiti da interventi musicali e danze eseguite da ballerini professionisti, anche se giovanissimi. La compagnia è ora impegnata nella realizzazione di un nuovo spettacolo, “FeastFood and Fashion Show”, una commedia brillante sul rapporto tra cibo e moda. Inoltre, ha in programma una collaborazione con il Liceo Scientifico per la realizzazione di un nuovo spettacolo basato sulla valorizzazione delle maschere regionali, “Prove tecniche di Utopia”. Un’attività così piena di iniziative, pur garantendo enormi soddisfazioni per tutti, non è certo facile da gestire. Anche davanti a difficoltà spesso evidenti, Lost Orpheus ha deciso di non rinunciare all’originalità, che possa favorire l’avvicinamento di ragazzi e adulti “creativi” a forme d’arte non convenzionali. Piace pensare che chiunque si avvicini a questo ambiente, anche se per poco, ne esca con un’esperienza in più, magari con un’abilità che avrà modo di sviluppare da sé o anche solo con qualche idea diversa nella testa. Ognuno fornisce all’altro un banco di prova. In fondo il Lost Orpheus ha una componente di formazione e autoformazione continua, ed è fatta per gente che non intende rinunciare a mettersi in gioco. Chi è curioso e vuole saperne di più può consultare il sito www.teatroericerca. org. 73


Piero D’Alaimo 74

Nel continuo ricostruire il proprio vestito urbanistico, la città di Potenza ha da sempre visto l’antico e il nuovo convivere. Ancor di più in un centro storico in continua trasformazione, i grandi palazzi e gli edifici di pietra hanno convissuto costretti nella stretta di un crinale appenninico, riciclando su se stessi ogni nuova costruzione così, pur rimanendo sempre gli stessi, anche i punti di aggregazione sono mutati. Nel corso del ‘900 uno dei punti più attrattivi per l’intera comunità intellettuale della città è stato da sempre un “café”, il Gran Caffè Italia, situato proprio al centro dello struscio cittadino, poi punto focale quando il nuovo palazzo delle Generali lo piazzò sotto i grandi porticati di fronte al palazzo della Prefettura. Anche la storia del celebre caffè è stata condizionata dalla follia urbanistica della città, tante sono state le chiusure e tante le ripartenze, fino all’ultima a firma della pasticceria La Delizia di Piero D’Alaimo, accetturese di nascita come il commendatore Antonio De Luca, primo proprietario del dopoguerra e padre dello storico nome ‘Gran Caffè Italia’. La nuova proprietà ha preso questa sfida come un impegno civico, la chiusura dello storico locale è stata l’ultima coltellata ad un centro città sempre più vuoto. Ripristinarlo non può che essere un segnale diretto alle istituzioni, alle stesse che ci facevano colazione e che, con la stessa facilità, hanno trovato nuove abitudini. Ma il nuovo Gran Caffé La Delizia non ha perso lo spirito di una volta, in vesti nuove e scintillanti non lascia nulla al caso, tornando a riprendere quelle iniziative culturali fulcro di una agenda dall’antico sapore: libri, pittura, musica e poesia rivivranno tra i tavolini e le tazze profumate di caffè. Se la rinascita del nuovo ‘salotto’ potentino segna un’inversione di tendenza, lo stesso non si può dire per l’interesse della politica nella riscoperta della cultura come forza trainante di una ripresa. Ed è forse proprio nella memoria che risiede la soluzione, in quei posti che hanno lasciato un segno indelebile in tante generazioni si possono ritrovare gli ideali ormai segnati da abitudini di consumismo sfrenato. E se “a riempire una stanza basterebbe una caffettiera sul fuoco” così a riempire una piazza basterà un Gran Caffè con il suo nuovo aspetto moderno e il suo animo da vecchio saggio. Michele Lilla


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