Sineresi Speciale n. 4

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SAPACEVA speciale obsistenza




SAPACEVA speciale obsistenza

SAPACEVA speciale obsistenza a cura di Anna R.G. Rivelli allegato al n° 4 di SINERESI Periodico edito dall’ Associazione PAN –centro di produzione culturale Grazie a Salvatore Angelo Iannuzzi - Anna Santamaria Palma Maria Giannini - Salvatore Perrotta Annibale Formica - Mario Gallo Mariangela Genovese - Leonarda Girardi - Stefania Cavoto - Alfredo Crisafulli Vincenzo Rubano Via Flavio Gioia 1 Brindisi di Montagna (PZ) e-mail : sineresi.sineresi@gmail.com Cell. 3423251054 www.sineresiildirittodiessereeretici.it


Non si poteva parlare di “obsistenza” (tema e filo conduttore di questo n.4 di Sineresi) senza parlare di chi “obsiste” e lo fa nella quotidianità, lontano dai clamori, dovendo affrontare sfide troppo ardue in un oggi - XXI secolo – che ancora, ahinoi, costruisce ritratti e narrazioni sulla base di visioni parziali se non addirittura di incancreniti pregiudizi. Non potevamo, insomma, non occuparci dei nostri piccoli paesi dove la vita – al contrario di quello che spesso può apparire - è vita di questo secolo, né sempre investita da luce teocritea, né sempre rivoltata da un vortice infernale. Tuttavia nei piccoli paesi dell’Italia c’è bisogno più che altrove di lottare ogni giorno, ora contro una globalizzazione che emarginandoli tenta di assorbirli, ora contro la logica dei numeri, meramente quantitativa, che spesso li riduce a ruolo di zavorra, residui antiquati troppo onerosi per un’economia che pensa all’ingrosso, che disconosce i figli più gracili e invece di dar loro tempo e modo di irrobustirsi, ne affretta la fine sottraendogli anche l’indispensabile. E se guardiamo al Sud è anche peggio, e peggio non perché il Sud sia davvero così diverso da tanti altrove, ma perché la sua iconografia, grazie a certi nauseabondi rigurgiti razzisti del nostro tempo ma anche ad un modello “vintage” in cui gli stessi meridionali (governanti compresi) assai spesso si adagiano, è stata troppo cristallizzata in stereotipi che vanno dallo stampo far west a quello bucolico, passando per esasperazioni folcloristiche e per pittoresche raffigurazioni antropologiche. Solo per questo, perché più obsistenti tra gli obsistenti, abbiamo deciso di dare voce a quattro tra i più piccoli paesi del nostro Meridione, quattro paesi “minimi” la cui popolazione non eguaglia per numero quella di certi grigi condomini di una qualsiasi periferia cittadina; in essi abbiamo trovato sindaci che pure si misurano continuamente con le grandi difficoltà della gestione del quotidiano, ma anche paesaggi mozzafiato e peculiarità culturali di tutto rispetto; abbiamo contattato una umanità ricca ed entusiasta di avere uno spazio per raccontarsi, giovani che hanno scelto di restare laddove sono nati e continuare ad essere anima di quei luoghi. Non abbiamo sentito rammarico, non scoramento, non vittimismo, ma entusiasmo e insieme forte consapevolezza che la pretesa di esistere è un inalienabile diritto anche per loro. Ci abbiamo trovato tutta la nostra contemporaneità e anche la storia non come peso che rallenta il passo, ma come luce che ancora la rischiara. San Paolo Albanese, Panettieri, Celle di San Vito e Valle dell’Angelo qui raccontano da sé la propria esistenza, la loro obsistenza.


San Paolo Albanese


In una intervista, di questi giorni, in cui parla del suo ultimo libro “Mia, tua, nostra”, David Grossman, rispondendo a una domanda, accende la luce su:“La nostra tradizione è legata alla narrazione. Padri, madri, nonni raccontano. Ha mai riflettuto sul fatto che l’umanità è l’unica specie in cui i nonni mantengono un rapporto con i nipoti? Questo è un valore universale”. La frase mi aiuta a introdurre il tema che mi sta a cuore: Shën Palji, le sue tradizioni, i suoi riti”. Shën Palji è San Paolo Albanese in“aljbërisht”, la mia lingua madre arbëreshe, ancora parlata. Per me Shën Palji, il paese dove io sono nato e cresciuto e dove dimoro per diversi mesi dell’anno, è “Jeta”. “Jeta”, in “aljbërisht”, è il mondo e, insieme, la vita: ciò che dà forza, energia, stimolo ai tanti sampaolesi che, come me, in paese e fuori, si impegnano in una instancabile lotta di opposizione al declino incombente. Ka Shën Palji, a San Paolo Albanese, vive una comunità etnico-linguistica arbëreshe di origine greco-albanese, proveniente da Corone, rifugiatasi in questi luoghi agli inizi del XVI secolo, dopo l’invasione ottomana. Insediata in questo angolo di terra, alle pendici del Monte Carnara,


nella valle del Sarmento, ha costruito la propria dimora e il paese e, con le proprie attività umane, le loro opere, ha segnato i luoghi, il paesaggio. Shën Palji è il più piccolo comune della Basilicata e del Parco Nazionale del Pollino. Da più punti del suo centro abitato e del territorio si osservano le cinque Serre del massiccio montuoso dell’area protetta più grande d’Europa, tra le quali Serra Dolcedorme, la vetta più alta, 2267 m.s.l.m., dell’intero Appennino Meridionale. Il centro storico è fatto di case contadine, di architettura spontanea, di murature in pietra. Ha una trama urbanistica fatta di vicoli, di slarghi e di vicinato, gjitonia. Gjitonia è un luogo fisico e un modo di mantenere le relazioni umane, di svolgere in gruppo alcune attività, di partecipare a momenti di festa, di emozioni collettive. La comunità arbëreshe Shën Paljit è ancora tra le più radicate alle sue origini, alla sua identità etnica e linguistica, alle sue connotazioni culturali. Vissuta quasi in totale isolamento fino agli inizi del XX secolo, ha difeso con tenacia ed orgoglio le proprie radici, la propria etnia. Gli abitanti mantengono pressochè integri gli usi, i costumi, le tradizioni, gli


antichi canti, i suoni di zampogna, i balli. È un’isola linguistica, la cui diversità e peculiarità e il cui valore storico, culturale e antropologico rappresentano oggi una grande risorsa per il paese. L’“aljbërisht”, parlata dagli attuali abitanti Shen Paljit e da tutti quelli, che, dagli inizi del ‘900 in poi, sono emigrati, è la ricchezza fondamentale dell’identità e va urgentemente salvata. Attraverso l’“aljbërisht” si conservano i significati, i rapporti con la vita quotidiana della comunità, con le attività domestiche, agropastorali, con il territorio, l’ambiente e la natura. La domenica, alla messa, celebrata secondo la liturgia di San Giovanni Crisostomo, la comunione si fa con il pane e il vino. La comunità shënpaljote professa, infatti, la religione cattolica di rito greco-bizantino. Nella chiesa madre l’iconostasi, la parete che sorregge le sacre icone, separa il presbiterio, dov’è situato l’altare, dalla navata. Sono vissute con particolare fervore e coinvolgimento emotivo le funzioni religiose del Natale, con il canto tradizionale “Burra e Gra”, e i riti della settimana santa sullo sfondo dell’addobbo pasquale dei “sepolcri” dell’altare della reposizione, con i germogli di lenticchie, fagioli,



ceci, grano. Ricca di riti religiosi e di eventi è anche la festa patronale di San Rocco, il 16 agosto, con la processione del Santo, accompagnata dalla “himune”, una costruzione votiva fatta con spighe di grano, e dal “gioco del falcetto”, mimato dal contadino a difesa del covone di grano attaccato dal mietitore con la falce per simboleggiare la lotta tra il bene e il male. Il matrimonio arbëresh è la cerimonia religiosa e civile, che conserva rituali di forte interesse. Nelle fasi salienti, si usa ancora accompagnare, per le vie e piazze del paese, gli sposi con il caratteristico corteo, vallja. Nell’occasione, col suo “fastoso abbigliamento” la donna arbëreshe, ora come allora, “scintillava di ornamenti e ricami d’oro, al collo, alle spalle e ai polsi; un largo colletto di pizzo cadeva sopra il corpetto di seta purpurea; pure di seta, e del più smagliante verde, era la sottana a pieghe”. Alcune decine di donne anziane del paese vestono ancora la tradizionale gonna rossa plissettata, la camicia bianca merlettata, il panno rosso sulle spalle e il fazzoletto bianco annodato sulla testa come copricapo. Su iniziativa del Comune e con l’impegno diretto, co-


stante e determinante della comunità, è stato istituito il Museo della Cultura Arbëreshe e negli anni ’80 è stato realizzato una Struttura Espositiva Permanente, aperta tutti i giorni alla fruizione degli abitanti e dei visitatori. È stato un riprendere la storia del paese, Shën Palji; un riprendere questa terra di ginestre, di peonie, “banxhurne”, di minoranza etnico-linguistica ed accompagnarla verso nuovi orizzonti, senza che siano omologate, spoliate, espropriate, colonizzate le sue diversità. La rappresentazione del ciclo della ginestra è la testimonianza più significativa della cultura arbëreshe, via via affermatasi come bene culturale a se stante. All’interno della struttura museale sono stati allestiti micro-ambienti della cultura materiale agro-pastorale. Con la esposizione degli attrezzi, dei materiali e dei tessuti è stata recuperata la memoria del lavoro di trasformazione della ginestra nella comunità, nelle famiglie, tra gli anziani; sono stati restituiti i vecchi “saperi” alla collettività, ai giovani, agli interessi, agli interrogativi, alle aspirazioni di una nuova civiltà. Si è ripreso il percorso dei valori delle radici e della identità; si sono mantenuti in vita, non solo conservati, gli oggetti,




i luoghi, i fatti; si è coltivato l’innesto di nuovi disegni, nuove prospettive. Il Museo della Cultura Arbëreshe è il museo della comunità, museo del territorio; è l’istituzione dove si stipula e si pratica “un patto con il quale la comunità si prende cura del suo territorio”; è il laboratorio, dove la comunità progetta il suo futuro fondato sulla tradizione. Attraverso il museo la vita del paese e la lingua parlata della Comunità Arbëreshe si compenetrano con la vita delle “cose”, degli ambienti e dei paesaggi naturali. E tutto ciò realizza “anelli di continuità tra le generazioni” e “raccordi tra civiltà umane e natura”. Partendo dall’idea del nostro rapporto con la cultura materiale, con gli oggetti e con l’“aljbërisht”, e sforzandoci di comprenderne “le proprietà uditive, visive, somatico-sensoriali e motorie”, il modo di pensare e di agire, che ci riguarda, negli ultimi cinquant’anni, ci ha allertati continuamente, rincorrendo il tempo, per non perdere, per non farci sfuggire nulla del patrimonio, dello stile di vita semplice e dei valori. La cultura arbëreshe ci ha formati a valori di sobrietà essenziali, in tempi di civiltà in difficoltà, di limite “ecologico” agli attuali modelli di sviluppo. Restiamo ancorati e custodiamo gelosamente il nostro posto all’interno del legame morale, sociale ed ambientale con la comunità e con il territorio. La comunità conserva e difende con forza la virtù dei saperi antichi, delle maestrie in disuso, delle pratiche di lavoro, che hanno modellato il paesaggio identitario, e la sapienza delle parole del quotidiano, che dicono di noi, raccontano e descrivono le nostre storie. La straordinaria operosità ha generato qualità, eccellenze: il patrimonio culturale materiale e immateriale, il paesaggio identitario, il museo della cultura arbëreshe, l’agro-pastorizia e i prodotti agroalimentari tradizionali, tipici, biologici. La geografia e la storia posseggono, qui, tracce di umanità nelle singole pietre. Il piccolo centro storico è avvolto dal silenzio della campagna immediatamente a ridosso, rotto appena, nelle notti d’estate, dal verso dei grilli. Si impara e ci si allena, qui, ad avere rapporti autentici con la natura e con noi stessi e a far parte della comunità. La qualità e la dimensione dell’insediamento e le relazioni umane che si creano fanno da antidoto “alla formattazione delle menti e alla colonizzazione dell’immaginario” 9. La natura, l’abitato, la casa, la comunità, le vite personali e l’“aljbërisht” sono tutt’uno. Sono il “genius loci”, che fa sintesi tra luogo e identità, tra paesaggio e abitudini umane della comunità arbëreshe di San Paolo Albanese. Annibale Formica



Panettieri

In rapporto al numero di abitanti, Panettieri si colloca al 5° posto nell’elenco dei comuni meno popolati della Calabria, preceduto da Staiti (ab. 256), Carpanzano (262), Castroregio (309) e Sant’Alessio in Aspromonte (347). Compreso nella Provincia di Cosenza dall’edificazione del suo centro abitato e dal conseguimento dell’autonomia amministrativa, per relazioni socio-economiche è invece ben integrato con i comuni della pre-sila catanzarese e con quelli dell’alto lametino ed in particolare col Comune di Carlopoli con quale è quasi conurbato. La sua popolazione, rilevata in 668 unità nell’anno di istituzione del Comune (1820), dopo aver raggiunto punte di massimo incremento nel 1854 (ab. 945), nel 1911 (ab. 950) e nel 1951 (ab. 914), ha subito un forte calo per gli effetti dell’emigrazione dalla seconda metà del Novecento fino a contare le 351 unità attuali; ma, a dispetto di ogni previsione statistica e in barba ad ogni considerazione dei costi dell’autonomia locale, si è sempre adoperata e si prodiga per custodire l’autonomia comunale con un entusiasmo e con un orgoglio davvero singolari. Panettieri, che deriva il suo toponimo dalla panificazione e cioè dal mestiere


tra i più diffusi in un territorio montano interno della Calabria vocato alla coltivazione del frumento incrementata con l’impiego della varietà “germana” introdotta dall’Imperatore Carlo V in occasione del suo viaggio in Calabria (1535), con i suoi 14,67 kmq di territorio, confina col comune cosentino di Bianchi e con i comuni catanzaresi di Carlopoli e Sorbo San Basile. La sede comunale e, quindi, il centro abitato (privo di frazioni), sono posti a m. 937 di altitudine. Il suo territorio è prevalentemente montuoso, ricoperto di castagneti

secolari impiantati nel corso dei secoli XVII-XIX dai coloni soprattutto per gli effetti di contratti agrari ad enphiteusim et ad meliorandum. Le macchie assoggettate a coltivazioni agricole annuali sembrano sottratte dall’uomo ad un bosco che ha variato la sua estensione in rapporto inversamente proporzionale all’andamento demografico. Le ragioni del culto quasi religioso che i Panetteresi nutrono per l’autonomia amministrativa sono da ricercarsi, per ovvie ragioni, nella storia della comunità. La sua Chiesa, che da secoli è il cuo-


re pulsante della comunità, è intitolata a San Carlo Borromeo: costruita nella seconda metà dei Seicento col concorso materiale e finanziario dei coloni stanziatisi nel corso dei secoli XVI-XVII nel territorio più periferico della Città di Scigliano, risulta elevata a parrocchia nel 1705 da mons. Richetti, vescovo della Diocesi di Martirano. La chiesa fino ai primi decenni dell’Ottocento ha rappresentato il punto di maggiore riferimento della comunità locale i cui rappresentanti, riuniti sul sagrato, hanno di volta in volta adottato le decisioni di comune interesse ed hanno maturato l’aspirazione all’autonomia sia parrocchiale (1705) che amministrativa (1820). Il territorio che oggi costituisce il comune di Panettieri ricadeva – in quanto Casale – nella giurisdizione amministrativa della Città di Scigliano; non è casuale, pertanto, che i Panetteresi risultino compresi, e quindi tassati, nel Catasto Onciario della Città di Scigliano compilato nel 1754. L’istituzione del Comune di Panettieri viene sancito dal Regio Decreto del Regno di Napoli n. 1876 del 25 gennaio 1820: i Panetteresi, per secoli cittadini di Scigliano, dopo aver fatto parte per solo 9 anni del Comune di Colosimi istituito con R.D. 922 del 1811, conquistano l’autonomia amministrativa che avrebbero difeso contro ogni successivo tentativo esterno di aggregazione a un comune limitrofo. Meno lineare la giurisdizione ecclesiastica della parrocchia di Panettieri: la chiesa di San Carlo, già filiana della chiesa matrice di Diano (Scigliano), in spiritualibus è stata amministrata dalla Diocesi di Martirano (fino al 1818), dalla Diocesi di Nicastro (dal 1819 al 1974),


dalla Diocesi di Cosenza (dal 1975 al 1989) per confluire finalmente nell’Arcidiocesi di Catanzaro-Squillace (dal 1990). Ai tentativi esterni (concentrati nel periodo 18351845) di “convincerli” all’aggregazione al comune cosentino di Bianchi o al comune catanzarese di Carlopoli, i Panetteresi hanno opposto resistenza con successo; queste vertenze, a dire il vero, forse anche perché condotte nell’ottica di soppressione/aggregazione e non di associazione/fusione tra soggetti di pari dignità, hanno temperato lo spirito autonomistico di una popolazione


che vive con profondo orgoglio l’attaccamento al proprio gonfalone. La fusione tra due o più comuni per riuscire dovrebbe fondarsi sullo stesso grado di entusiasmo e di determinazione che, in tantissimi contesti territoriali prevalentemente della fascia prealpina ma anche di altre regioni italiane, alimentano gruppi di cittadini, in alcuni casi di poche diecine, impegnati quotidianamente e coralmente a mantenere in piedi l’autonomia amministrativa. La fusione tra comuni, in ogni caso, non può essere imposta dall’alto e dall’esterno: per funzionare ed avere


successo necessità di essere decisa dai soggetti interessati. D’altra parte la fusione, in tanti cosi opportuna, non sempre è possibile e necessaria: non è escluso, infatti, che col supporto di politiche adeguate, piccoli e piccolissimi comuni possano e debbano mantenere la sopravvivenza per il benessere dei loro abitanti e, il che non è da sottovalutare, nell’interesse nazionale: difesa e manutenzione del territorio, salvaguardia di produzioni tipiche, mantenimento di tecniche artigianali a rischio di scomparsa, attività agrituristiche e di ristorazione capaci di richiamare flussi turistici diversamente costretti oltralpe costituiscono, infatti, valori che fuoriescono dai confini strettamente comunali. Il mantenimento dell’autonomia amministrativa dei piccoli comuni è una questione nazionale: il 72% degli 8.092 comuni italiani, infatti, è costituita da “piccoli comuni” con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti; una “questione” che non implica necessariamente l’idea del problema e che anzi, se ben governata, può continuare a garantire col 19% di popolazione nazionale il man-




tenimento di validi presidi di difesa e di valorizzazione del 50% di territorio italiano. Una più diffusa cooperazione intercomunale – doverosamente e convenientemente sostenuta da politiche nazionali e regionali – sembra la precondizione indispensabile a che piccoli e piccolissimi comuni, anche col ricorso ad una consortile gestione di servizi quanto mai opportuna e funzionale al contenimento dei loro costi, possano continuare a reggersi: non soltanto i minuscoli comuni italiani – i primi cento dei quali disseminati prevalentemente nelle regioni Piemonte e Lombardia e nella Valle d’Aosta, da Morterone (1°) in provincia di Lecco con i suoi 33 abitanti ad Alto (100°) in provincia di Cuneo con i suoi 127 abitanti – ma anche piccoli comuni come Panettieri reggono con entusiasmo il peso del mantenimento di una fetta di territorio nazionale facendo cose egregie nell’interesse generale. A Panettieri il recupero del centro storico e la sua valorizzazione mediante l’allestimento di un Presepe vivente che da sedici anni richiama migliaia di visitatori anche da fuori regione, l’istituzione del Museo del Brigante Giosafatte Tallarico col suo fondo documentale e bibliografico utile allo studio del brigantaggio calabrese, l’allestimento del Museo del pane che richiama uscite didattiche di tanti studenti, una cura quasi elvetica dell’arredo urbano perseguita dall’amministrazione e partecipata da tutti i cittadini ed il mantenimento delle peculiarità gastronomiche locali hanno fatto di Panettieri non soltanto un’isola felice per i suoi abitanti, ma anche un contesto socio-culturale attrattivo per l’esterno. Mario Gallo


Celle de

Sant’Uite


Celle di San Vito

Il piccolo paese di Celle di San Vito è situato all’interno di uno luoghi più suggestivi dei Monti Dauni Meridionali: aria pura, antichi sentieri di pellegrinaggio, come la Via Francigena (che parte da Canterbury per arrivare in Terra Santa), scenari incontaminati di tipica vegetazione mediterranea per chi vuole vivere in comunione con la natura e la storia. Inoltre si possono apprezzare le bellezze del centro storico, abbarbicato sulla formazione rocciosa, sulla quale poggia il nucleo originario del paese. Si possono notare stretti vicoli, percorribili solo a piedi, le tracce di un passato lasciato impresso su archi e abitazioni interamente in pietra, dando l’impressione che il tempo si sia fermato. L’ipotesi più accreditata, perché suffragata da documenti storici e atti d’archivio, è quella che riconduce ai conflitti tra i Saraceni, che assediavano Lucera, e il re Carlo I d’Angiò. Con l’editto del 1274, quest’ultimo, dopo aver sconfitto i Saraceni, invitò alcune famiglie di provenzali a stabilirsi a Lucera con l’intento di cristianizzarla. Queste però, mal sopportando il clima caldo e malarico di Capitanata, andarono ad occupare il Castrum Crepacordis, un’antica fortificazione sita sulla



vetta di Monte Castiglione (tra Faeto e Celle). In seguito, a causa del clima ostile e pericolosità del luogo, decisero di abbandonare la fortezza e di trovare rifugio in altri posti del territorio loro concesso. Non essendoci accordo sul luogo in cui trasferirsi, la maggior parte di loro decise di sistemarsi nei pressi del cenobio dei benedettini detto Monasterium Sancti Salvatorii de Fageto nei pressi del bosco comunale dell’odierna Faeto. La restante parte andò ad occupare prima Casale San Felice e successivamente le cellette costruite dai frati del cenobio di San Nicola in seguito all’abbandono di un conventino sito alla confluenza del Torrente Freddo nel Celone a causa dei miasmi nocivi provenienti dal fiume. Nacque così il nostro paese che prende il nome dalle celle monacali e dalla Ecclesia Sancti Viti menzionata in una bolla del 1100 da Papa Pasquale II.Con l’estinzione della casa franca, Celle di San Vito, Faeto e Castelluccio Valmaggiore formarono, il 5 febbraio 1440, la Baronia di Valmaggiore, cadendo sotto la dura reggenza della Signoria Feudale. All’epoca della Controriforma, anche Celle fu toccato dai provvedimenti della Santa Inquisizione. Esistono documenti che


provano il coinvolgimento di alcuni cellesi nelle pratiche non cristiane. Nel 1564, infatti, fu inviato in queste zone Padre Cristoforo Rodriguez, uomo di fiducia di Cardinale Ghislieri, futuro Papa Pio V, che era stato informato della presenza di undici individui di Celle che dovevano essere tradotti a Roma per essere giudicati dall’Inquisizione. Rodriguez, però, credendo nel pentimento di questi, testimoniò a loro favore, impartendo una serie di disposizioni da osservare. Nonostante queste imposizioni, continuava a persistere ancora tale eresia. Dopo tre secoli di Baronia, nel 1810, la Feudalità venne abolita e si concluse l’ignobile dominazione baronale che pesava sui tre comuni. Il 26 ottobre 1862 il Re d’Italia Vittorio Emanuele II, con Regio Decreto, denominava il comune in Celle di San Vito.Queste vicende storiche sono state accompagnate nei secoli dalla nostra lingua: il francoprovenzale. Nel 1873 il glottologo Graziadio Isaia Ascoli conia l’etichetta “francoprovenzale” per riferirsi ad un idioma indipendente con elementi in parte francesi e in parte provenzali del sud della Francia. Celle, insieme alla vicina Faeto, costituisce l’unica minoranza linguistica francoprovenzale in Puglia,



tutelata dalla legge 482 del 1999 che ha rafforzato l’identità psicologica e culturale dei parlanti, in quanto nei tempi passati parlare francoprovenzale era segno di inferiorità mentre oggi è un motivo di vanto. La particolarità di questa lingua è sicuramente che il suo evolversi e trasmettersi è stato sempre orale e solo recentemente si è iniziato a metterla per iscritto. Questione fondamentale è che il francoprovenzale di Celle è rimasto ibernato e invariato in quanto non ha avuto contatti con le regioni di origine. Ancora oggi è possibile ascoltare intere conversazioni in francoprovenzale e il 12 agosto, per la Festa dell’Emigrante, viene celebrata un’intera messa in lingua, quando il paese festeggia il ritorno a casa dei suoi emigranti. Ma non è questo l’unico appuntamento estivo degno di nota. Nella mattinata dell’8 Agosto, la popolazione cellese si dirige in processione alla chiesetta sita a ben 1000 metri, sul Monte San Vito, fuori dal paese, al seguito di un carro su cui vengono trasportate le statue di San Vito, San Modesto e Santa Crescenza, in un



cammino scandito dal suono di una campana secolare. Le donne del gruppo si cingono il capo con delle corone di foglie, per ricordare la processione di San Vito delle Corone, che anticamente si svolgeva nel mese di Maggio. Giunti al Santuario, da quest’anno ristrutturato dopo tanti anni, si assiste alla messa e successivamente si consuma un rapido pic-nic, prima di intraprendere la discesa verso il paese, ancora una volta in processione, recitando il rosario ed intonando canti sacri franco-provenzali. Il 10 Agosto si tiene nel borgo la Festa del Vicino, durante la quale ogni Cellese prepara qualcosa da consumare con i propri vicini e si mangia tutti insieme in strada, allietati dai canti di musicisti itineranti. La festa patronale di Celle è quella di San Vincenzo Ferrer, il 13 Agosto, che prevede una funzione religiosa, costituita dalla santa messa e conseguente processione per le vie del paese, ed una civile, con concerti bandistici e fuochi pirotecnici. Il 18, invece, è immancabile l’appuntamento con la Sagra dei Cicatelli, in cui a farla da protagoniste sono le tradizioni gastronomiche, in primis la pasta fatta a mano. Il folklore non manca di farsi sentire anche in inverno, quando la popolazione


è coinvolta nei festeggiamenti del Natale e dell’Epifania, occasione in cui l’amministrazione comunale dona ai bambini del paese graditi pensieri, distribuiti da Babbo Natale e dalla Befana. Simboleggia la fine del Carnevale, invece, un gruppo di gente mascherata che porta in processione per le vie del paese un fantoccio di paglia, chiamato Paccalòtte, bruciato al termine del corteo. Seguono i riti della Settimana Santa, che si aprono con la processione delle Palme intrecciate, per poi concludersi con la Domenica di Pasqua, in cui non può mancare la degustazione della “pizza favola”, accompagnata allo spezzatino di erbe selvatiche, uova ed agnello nel Lunedì di Pasquetta. L’agnello viene celebrato in una vera e propria Sagra il 25 Aprile, tra invitanti degustazioni e tanto divertimento. Preannuncia l’arrivo dell’estate, invece, la festa in onore di San Vito il 15 Giugno: alla messa ed alla processione per le vie del paese segue la benedizione dei cani, di cui San Vito è protettore. Un evento storico molto importante legato a questa processione avvenne sotto la Baronia nel 1807. I Castelluccesi si sentivano forti e pieni di vanagloria perché il Barone dimorava nel loro paese e



per di più lo statuto prescriveva che ogni anno, il 15 giugno, la processione in onore di San Vito muovesse da Castelluccio. Questa proseguiva fino ad arrivare a Celle, dove i suoi abitanti dovevano mettersi in coda. La festività di quell’anno fu particolare. La processione, infatti, mosse come prescritto da Castelluccio e continuò verso Celle. Arrivati all’incontro con i Faetani, però, questi ultimi, con l’appoggio dei Cellesi, cominciarono a scagliare sassi contro i Castelluccesi, costringendoli alla fuga. Dopo questo episodio, la processione baronale non ci fu più. La nostra lingua e le nostre tradizioni ci rendono unici: è insita in tutti noi la consapevolezza di appartenere ad una minoranza linguistica, di avere un passato, una storia da non sottovalutare, proprio perché diversa dai paesi limitrofi. Nostro diritto e dovere è resistere. Mariagela Genovese Leonarda Girardi Stefania Cavoto


La citta'

dei bambini


Valle Dell’Angelo

VALLE DELL’ANGELO. C’è un posto nel cuore del Cilento dove le favole diventano realtà. Si chiama Valle dell’Angelo, ed è il comune più piccolo della provincia. Poco più di duecento anime, un pugno di case, una bella chiesa barocca e tanta voglia di resistere alla spopolamento. Ma anche sentieri mozzafiato tra ripide montagne e vallate incontaminate dove, con un pizzico di fortuna, è possibile incontrare cervi e caprioli, ma anche aquile e lupi. Una sorta di Disneyland naturale aperta a tutti: dai bambini agli anziani, dai giovani agli adulti. Insomma il posto ideale per trascorrere un weekend senza pensieri dove l’ospite viene sempre prima di tutto. Per i visitatori c’è anche una bella novità: il sindaco, Salvatore Iannuzzi, ha messo a disposizione dei turisti, gratuitamente, per tutti i fine settimana di febbraio e marzo, due suite realizzate dal Comune nel pieno centro del paese. L’unico onere a carico di quanti vogliano pernottare a Valle dell’Angelo sarà pranzare in una delle locande del paese. Il menu, dal costo fisso di 25 euro, includerà solo pietanze locali e ottimo vino cilentano. Incluso nel prezzo anche una visita guidata ad una delle bellezze del paese, da scegliere tra la grotta dell’Angelo, le gole del Festolaro, la Grava di Vesalo, il villaggio rurale di Pruno e la chiesa di San Barbato. Prenotare è semplice: basta chiamare in Comune allo 0974 942016 o al 340 1931105. “L’obiettivo è di aprire ai turisti il forziere di bellezze paesaggistiche per troppo tempo nascoste”, ha spiegato il primo cittadino. A Valle dell’Angelo sembrerà di ritrovarsi in un posto fantastico dove il tempo scorre lento e si nutre di momenti e di rituali antichi. È consigliabile arrivare in paese il venerdì mattina, di buon’ora. Da non perdere una passeggiata nel centro storico con i suoi archi, vicoli e gradini. È consigliabile iniziare la visita dalla piazzetta Iannuzzi dove è



possibile ammirare l’incantevole chiesa di San Barbato, un gioiello in stile barocco, con all’interno tele e quadri di inestimabile valore. Poi, proseguendo sulla caratteristica via Indipendenza, è possibile visitare la chiesa di San Leonardo e, poco più avanti, la cappella di San Sebastiano. Da non trascurare anche la parte bassa del paese dove è possibile ammirare meravigliosi portali di inizio ‘900, gli antichi lavatoi e il ponte romanico a dorso d’asino sul fiume Calore. Il giorno successivo tappa obbligatoria alla minuscola frazione di Pruno. Questo piccolo borgo non esisterebbe nemmeno se quattro famiglie, per un totale di 10 persone, non si sacrificassero in una sorta di esilio volontario. Poi da non perdere una passeggiata lungo il sentiero di Bamby: circa due chilometri a piedi, dalla pineta dell’Agostello fino al Medicale, attraverso boschi e radure dove cervi e caprioli sono ormai di casa. Il sentiero è a soli quindici minuti di auto dal centro del paese: è anche possibile sostare all’interno di un vecchio rifugio forestale e rinfrescarsi con l’acqua di un’antica fontana. D’ inverno la neve imbianca tutto ma durante l’estate la montagna e i boschi invitano a lunghe passeggiate nel


silenzio e nella natura. Siamo lontano dalle città caotiche. Il tempo scorre lento e si nutre di momenti e di rituali antichi come la mietitura a giugno, la raccolta delle olive in autunno. Qui si va per borghi e sentieri, per montagne e pianori a caccia di sapori dimenticati e panorami da incanto. Le attività che vi si svolgono confermano la sana e antica tradizione mediterranea dell’olivo-viticoltura e della pastorizia. Le origini di Valle dell’Angelo richiamano una storia ricorrente nel Meridione, avvenuta negli anni dell’iconoclastìa (distruzione delle immagini sacre), voluta dagli imperatori bizantini (VIII-IX secolo). Molti monaci orientali, fra quelli che non rinunciarono al proprio culto, giunsero nel Cilento e qui avviarono un’importante opera di risanamento; l’agricoltura e le attività nei boschi impegnarono attivamente la gente del luogo, producendo en-


tusiasmo e risveglio economico dopo i tragici anni seguiti alla devastante guerra greco-gotica (VI secolo). Oggi il vero rischio che incombe su questa realtà è lo spopolamento, ma l’ amministrazione comunale di Valle dell’ Angelo è impegnata nel preservare questa comunità e il suo stile di vita. Il sindaco, peraltro neuropsichiatra infantile, è convinto che trascorrere un po’ di tempo a Valle dell’Angelo possa essere un’ esperienza formativa per i più piccoli. Così nell’ ambito delle manifestazioni estive, si organizzano anche delle colonie con bambini provenienti da diverse città italiane. Un felice incontro tra due mondi diversi: da un lato la curiosità dei bambini metropolitani a contatto con la natura e gli animali alla riscoperta di un tempo perduto, dall’ altro la generosa ospitalità degli abitanti di Valle dell’Angelo. Vincenzo Rubano


Maurizio Galimberti

Mangio frottage... mangio InstanLab Impossibile... Tropea... Parigi... riscrivo vecchie sognate immagini... Ho fame, mangio pollo, un pollo di McDonald’s vola nel mio studio, lo rincorro, arriva sul terrazzo di casa, si nasconde tra i camini... diventa una sinopia impalpabile... Arriva Sara, è ossessionata dal mio testo sul muro..., si spoglia, prende la rende pop... Arrivo a Venezia, la Leica M interagisce con l’Impossibile Instant Lab... interagisce con il Fuji Instax Share. Mangio Magritte...mangio Sara... Daniele... loro camminano, arriviamo al Boccadoro di Campiello Widmann... l’amore scrive la magia di Venezia, la mano nella mano... Piazza San Marco, rincorro turisti teatrali li incapsulo... li blocco... Sono a Milano arriva Sara si mette un vaso di fiori in testa davanti alla finestra... vuole scappare... abbandona i fiori... vola... ci sentiamo gli amanti di Chagall.. Realizzo il mio omaggio a Chagall.. a Italo Calvino... alla leggerezza... all’amore... Suona il telefono... è Giorgio... vuole chiacchierare di Fotografia... “Quaderni MG21”

“Uno plurale”

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PIGNATELLI

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Porta Coeli International Art Gallery vanta un’esperienza pluriennale nel campo dell’arte e della ricerca artistica, e dopo diverse iniziative formative come comitato non profit, si costituisce in Ente di Formazione ottenendo l’accreditamento presso la Regione Basilicata: nasce così Porta Coeli Academy. Tale accreditamento ci consente di rilasciare titoli spendibili nel mondo del lavoro; tutte le certificazioni e le qualifiche, ottenute alla fine del percorso di formazione, hanno valore curriculare riconosciuto in tutti i paesi dell’Unione Europea. A seguito di un’attenta analisi, infatti, e consapevoli della necessità di internazionalizzare le conoscenze per essere davvero competitivi nel mercato globale del lavoro, Porta Coeli Academy si propone di formare figure altamente specializzate nei settori trainanti dell’economia della cultura prima e di tutti quei settori strategici in grado di rispondere alle nuove esigenze che emergono nel mondo del lavoro di oggi. Gli ultimi anni sono stati segnati da profondi cambiamenti che hanno portato operatori e organizzazioni culturali, e non solo, a ripensare il proprio ruolo e le proprie attività. Diventa quindi fondamentale utilizzare strumenti e approcci nuovi, innovare i linguaggi e costruire relazioni tra discipline diverse, per formare figure capaci di gestire processi complessi ed adottare un approccio strategico, che combina obiettivi di medio periodo con gli impatti culturali, sociali ed economici che possono essere sviluppati nel tempo. La nostra formazione si rivolge sia ai giovani che vogliono approfondire in maniera pragmatica e specialistica la propria preparazione o trovare nuove strade per affermarsi nel mondo del lavoro, sia ai professionisti interessati ad arricchire il proprio bagaglio di competenze, ad aggiornarsi e ad essere sempre competitivi nel pro-


prio settore. Restando fedeli alla passione per l’arte e la cultura che ha ispirato da sempre le nostre iniziative, una parte della formazione è dedicata a tutti quegli aspetti legati alla conoscenza e al perfezionamento delle tecniche artistiche, della storia dell’arte, delle attività di curatela artistica, di allestimento, solo per fare alcuni esempi. Infatti, con l’obiettivo di rispondere anche alle esigenze provenienti dal mercato estero della formazione nel campo artistico in tutte le sue forme, Porta Coeli Academy progetta e realizza percorsi specifici. Tra le attività presenti all’interno del nostro ente di formazione c’è anche quella del restauro che si avvale dell’accordo di partenariato sottoscritto con l’Associazione I Bastioni di Firenze nata con lo scopo di avvicinare conservatori e restauratori con specializzazioni specifiche nella tutela e il recupero dei beni culturali. Un vero e proprio laboratorio di restauro per le opere d’arte che vede uno spazio dedicato all’interno della nostra struttura La nostra sede, ubicata in uno dei più antichi palazzi storici di Venosa, offre la possibilità di seguire le attività formative all’interno degli ambienti espositivi, circondati da opere d’arte. Le aule didattiche, infatti, si articolano sui due piani dedicati alle esposizioni di arte contemporanea e di arte sacra. Ad un corpo docente referenziato, selezionato ad hoc per i percorsi formativi che di volta in volta si realizzeranno, si affiancano attrezzature e metodologie didattiche e laboratoriali efficaci ed innovative. Uno staff interno dinamico e qualificato, si occuperà di progettare, organizzare e gestire la formazione che Porta Coeli Academy realizzerà, curandone con la massima attenzione e professionalità ogni aspetto.



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