allegato al n° 5 di SINERESI Periodico edito dall’ Associazione PAN –centro di produzione culturale Direttore Anna R. G. Rivelli Via Flavio Gioia 1 Brindisi di Montagna (PZ) e-mail : sineresi.sineresi@gmail.com Cell. 3423251054 www.sineresiildirittodiessereeretici.it
“Il cammino fatale incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme da lontano. In questa immane forza che è la luce del progresso scompaiono le miserie, le sofferenze, gli interessi individuali; l’umanità in effetti progredisce per la forza stessa di questa molla meccanica e incessante della vita; ma per l’individuo è negato il progresso […] questo progresso della società umana si compie a spese delle sofferenze degli uomini…”. Non ci sono parole più chiare di queste che oltre un secolo fa Giovanni Verga scriveva nella sua prefazione ai “Malavoglia” per ritrarre la doppia faccia del progresso, la sua natura bifronte che, come quella di Giano, dovrebbe servire (e ammonirci) a guardare contemporaneamente al passato e al futuro. E forse persino in quella che è una delle più famose e convinte rappresentazioni pittoriche del progresso, “La città che sale” di Umberto Boccioni (di solo pochissimi decenni posteriore al romanzo verghiano), l’immane cavallo rosso, che si moltiplica sullo sfondo in un movimento vorticoso e si fa simbolo del dinamismo e della bellezza della macchina così esaltati dal futurismo, si sottrae potente alle briglie degli operai ma, inarrestabile, quasi li travolge. Così l’interrogativo di cosa si celi dietro l’apparenza, di quanto il racconto della realtà possa coincidere con la realtà stessa o piuttosto ne diventi rappresentazione mitologica e per certi versi fuorviante, ritorna nell’ “ascetismo” ossimorico del nostro secolo dove la conquista della perfezione si rivela quanto mai portatrice di imperfezione e squilibrio. Che se il cammino dell’umanità fosse una linea retta, se progredire significasse davvero andare avanti anche in senso qualitativo, se ci fosse sempre una consapevole meta luminosa al nostro passo e l’uomo, diversamente da come in toni più o meno apocalittici teorizzano filosofi come Arendt, Anders, Jonas, rimanesse protagonista del suo andare, la lettura del tutto sarebbe più semplice. Ma poiché siamo consapevoli del fatto che neanche il tempo è una linea retta ( “Il tempo non è affatto ciò che sembra. Non scorre in una sola direzione, e il futuro esiste contemporaneamente al passato” diceva Einstein ) e che tutto è piuttosto come il boccioniano cavallo rosso - irruento, affascinante, positivo, ma insofferente alle briglie e perciò ingovernabile - è questa la riflessione che proponiamo: è sempre l’uomo la sua propria meta? Sa essere il suo cammino curvilineo quanto basta per non fermarsi e per non smarrirsi? Per andare incontro a se stesso? O si costringerà all’abbaglio del nuovo in quanto nuovo? “Oggetto delle scienze è il vero, delle arti il bello. Non sarà dunque pregiato nelle scienze il nuovo, se non in quanto sia vero, e nelle arti, se non in quanto sia bello” scriveva Pietro Giordani nella sua famosa lettera del 1816 alla de Stael. O, in altri termini, “Non esistono grandi scoperte né reale progresso finché sulla terra esiste un bambino infelice” (Albert Einstain). Anna R.G. Rivelli
Luna Gubinelli
Le interferenze della conoscenza
Partendo da alcune considerazioni provocatorie di Jerry Saltz, famoso colonnista del New York Magazine, che certificano la scomparsa delle categorie predefinite nel mondo dell’arte, è possibile capire quanto sia difficile orientarsi nel tentativo di cercare novità all’interno di questa materia, e con essa una qualsivoglia evoluzione. “Ovunque ci troviamo, la novità non riguarda più il progresso lineare, un progetto una rivoluzione continua. L’arte è fuori dal business che conta. Il modernismo, sia esso sacro o diabolico, è così lontano che ogni tentativo di criticarlo finisce prima di cominciare. Il postmoderno è un ghetto; il formalismo accademico è depresso; il didatticismo ha le ore contate; l’appropriazione è così debole che non riesce neanche a puntarsi il fucile alle tempie e infine il decostruzionismo si è decostruito nell’angolo”. È un rigetto verso gli –ismi della modernità e anche contro ciò che per anni è stato inglobato nel concetto di post-modernità. Probabilmente però si parte da un presupposto sbagliato, da una idea stessa di progresso sbagliata. Il progresso non risponde più ad una linearità evolutiva (forse nell’arte, come sostiene Gombrich, parlare di progresso è una idea reazionaria), sono cambiati i fini ultimi del progresso e l’arte da molto tempo non è più alla ricerca né della verità né del bello. Saltz, nel suo articolo Babylon Calling, continua dicendo: “Eppure l’essere umano non ha smesso di essere creativo”. Questo filo di speranza suggerito dall’apocalit-
Doris Salcedo - Museum of Contermporary Art Chicago
tico critico, conferma la necessità di partire dall’essenza del progresso e di considerarlo come un tentativo di scoprire le potenzialità insite nell’essere umano. Se guardiamo alle produzioni artistiche dei nostri giorni notiamo come esse siano caratterizzate da ciò che i critici amano definire “contaminazione con altre discipline” e con la cultura di massa. Post-medialità è il termine in voga per indicare lavori e modalità di fruizione della così detta “arte in generale”. La sensazione che si ha, sempre pensando al citato Saltz, è che siamo di fronte all’ennesimo tentativo di cercare una definizione di progresso che non ha nulla a che vedere con l’arte. Nella grande vetrina condivisa della cultura (multi-
mediale e non) è necessario, per sopravvivere come esseri pensanti, togliere tutti gli strati che sono più strettamente legati al consumo, al mercato, all’apparire, per scovare le tracce, i segni di un possibile che vada al di là del consenso dell’opinione comune. Quel “pensabile” che non è “presentabile” (come sosteneva J.F. Lyotard riferendosi a Kant), ma che deve guidare il nostro giudizio. Confrontarsi con ciò che è differente da noi, indagare sulle regole, scoprire nuove grammatiche, orientarsi nella frammentazione, facendo attenzione ai molteplici simulacri della realtà è la sfida del vero progresso. Un percorso impervio e difficile in cui in questi ultimi decenni si sono imbattuti i lavori di molti
Sherrie Levine
artisti, soprattutto di genere femminile. Non si tratta solo di una rivendicazione di categoria sul palcoscenico dell’arte, ma di capacità di interrogazione e di sperimentazione che ha destabilizzato le convenzioni rappresentative sia del linguaggio che dell’immagine. Pensando al lavoro di Sherrie Levine colpisce il suo interesse verso ciò che l’artista chiama “il quasi lo stesso” (I’m interested in the almost-same). After Marcel Duchamp, del 1991, è una riproduzione di Fountain, l’orinatoio che Duchamp acquistò e che presentò sopra un piedistallo all’Armory Show di New York, dandogli in questo modo la digni-
Sherrie Levine - Africa masks after walker evans
tà di opera. L’orinatoio della Levine pare essere lo stesso di Duchamp, ma non è proprio così. E l’essenza della sua opera sta esattamente in quel “non proprio”. La versione After, oltre a essere di bronzo, mostra qualche piccola differenza nel design del modello. A colpo d’occhio sembra Duchamp ma non lo è. La Levine si è deliberatamente appropriata di una icona dell’arte moderna per offrirci uno sguardo differente, non solo sull’opera stessa ma sull’arte e la sua storia, sul senso, sul genere, incorporando, come lei stessa afferma, delle significazioni parassite. Se Duchamp gioca con “l’anti-esteticità”, con la non-artisticità, andando contro agli aspetti convenzionali del linguaggio e del mercato, sovvertendo per sempre il concetto di originalità, la Levine lo incalza e agisce sull’apparenza (sembra ma non è), sul ricordo di qualcosa che crediamo di capire e che ci costringe a guardare in modo differente. Si tratta di una specie di celebrazione del dubbio e dell’incertezza, che rinvia a continue interpretazioni e che rinuncia al senso assoluto. La conversione in bronzo trasforma l’oggetto in qualcosa di prezioso, di desiderabile, e soprattutto esalta le curve dell’orinatoio che, sebbene abbia una funzione strettamente identificata con gli uomini, non possiamo fare a meno di notare che ricordano una forma femminile. Levine sottolinea questo aspetto con la materia, per costringere lo spettatore a rivedere il suo sistema di giudizio, rispetto all’opera, all’autore, rispetto al
Doris Salcedo - Installazione Palazzo di Giustizia di Bogotà - 2002
giudizio stesso. Non proprio una copia, non proprio un omaggio, non proprio un ricordo. Appropriarsi di un’opera non è una novità nell’arte, ma in questo caso il guardare al passato, impossessarsene offrendo diversi livelli di lettura, significa anche minare le basi normative (maschili) riguardo i giudizi di valore dell’opera. Le gesta di Levine rappresentano una esperienza fondamentale per le artiste del decennio successivo che saranno liberate dal fare arte senza doversi necessariamente porre il problema dell’autodeterminazione (Gianni Romano). Se After Duchamp guarda al passato per proiettarci verso nuovi orizzonti del linguaggio e dell’interpretazione, l’opera di Julia Scher ci pone in una prospettiva di inquietante futuro già da tempi non sospetti. A partire dalla fine degli anni Ottanta, l’artista californiana ha iniziato a trattare il tema della sorveglianza e della sicurezza elettronica, soffermandosi sul potere che abita questi sistemi. PredictiveEngineering2 è una installazione multicanale audio e video presentata allo SFMOMA come evoluzione di un progetto nato nel 1993. Due ambienti uguali del museo, paralleli e comunicanti tra loro, sono tempestati di videocamere di sicurezza e di monitor. Gli spettatori sono stimolati da messaggi visti o ascoltati che li spingono a spostarsi, più o meno repentinamente, da un ambiente all’altro. L’uso imprevedibile di immagini in tempo reale o pre-registrate, comandi provocatori, parole nel monitor su grafica accat-
Doris Salcedo - A flor de piel
tivante, trasformano il museo in un luogo interattivo e giocoso, e allo stesso stesso tempo in una autorevole agenzia di indagine sociale. Si tratta di trucchi, di piccole bugie dette per monitorare il comportamento. Il visitatore entra nell’occhio delle telecamere pensando di avere qualcosa in cambio, una visione, uno spettacolo, qualcosa di speciale che poi si rivela una illusione. E mentre lo fa si diverte, si spaventa, corre e cerca allo stesso tempo di calibrare le proprie reazioni perché sa di essere controllato. L’installazione della Scher riflette i metodi dell’industria dell’informazione in cui le statistiche vengono raccolte per poi essere restituite come dati a quei mercati che l’industria stessa formula. A questo aspetto che evidenzia l’ambiguità che l’evoluzione tecnologica ci prospetta, si aggiunge una riflessione sul modo in cui la nostra vita è condizionata, più o meno consapevolmente, sia dalla sorveglianza globale che dalle interazioni remote: congegni della telecomunicazione, trasmissioni televisive, transazioni computerizzate, ect. PredictiveEngeneering2 mette in evidenza tutte queste condizioni nel 1998 e li trasforma in temi “artistici”, presentati in un museo con ironia, anticipando in maniera preoccupante la nostra vita attuale in cui queste condizioni confondono il tempo libero con il lavoro, il consumatore con il produttore, l’identità con l’identificazione. Julia Scher studia, progetta e realizza in maniera precisa le sue installazioni. Utilizza i nuovi strumenti che nel corso degli anni ha a disposizione e ne analizza le potenzialità, offrendoci una lettura sociale che si riflette nella quotidianità di tutti noi. “Mai come oggi, chiunque svolga una attività inventiva - sostiene Angela Vettese - slitta tra competenze diverse: si dà forma al pensiero con il continuo sovrapporsi di fattori. Chi voglia comprendere le implicazioni dell’opera deve entrare nel suo processo costitutivo e chiedersi come funziona”. Insieme alle significazioni parassite mostrateci dalla Levine nella sua lettura della storia e all’ambiguità degli strumenti che dovrebbero garantire la nostra sicurezza nel futuro svelato dalla Scher, un terzo aspetto è interessante da analizzare nell’excursus al femminile proposto: l’approccio al presente. 1550 sedie ammassate l’una sull’altra riempiono uno spazio vuoto tra due palazzi. Siamo in Turchia nel 2003 e in occasione della VIII edizione della Biennale di Istanbul, Doris Salcedo sceglie di realizzare Untitled in una zona centrale della città piena
Ottonella Nocellin e Nicola Pellegrini - “Smettila di dire il giocatore” ora sei tu o sono io - 2004
di edifici abbandonati e in rovina. L’artista colombiana sostiene: “Non credo al presente così come mi viene presentato. Voglio ripensarlo e per farlo devo riguardare attentamente gli eventi”. L’oggetto scelto è di uso quotidiano; una semplice sedia di legno. Ne sceglie centinaia e le accatasta in modo apparentemente confuso, dando vita ad una specie di intersecazione complessa di storie. Ogni sedia è un racconto, ciascuna sedia ci narra la vita di chi l’ha occupata, di chi ci si è riposato, ci si è accomodato per mangiare, parlare e intrattenersi con i familiari. La sedia ci ricorda casa, una casa che non c’è più perché nella distruzione generata dai conflitti e dalle divisioni di ogni tipo, troppi individui sono stati costretti ad abbandonarla. Tra gli edifici rovinati e in disuso di Istanbul, “testimonianza di un passato violento in cui Ebrei e Greci vennero forzati a lasciare le loro case”, la Salcedo ha affrontato “il processo di spostamento, di migrazione, avvenuto in più di cinquant’anni. L’installazione è immagine simbolica dei numeri di coloro che sono stati spostati, del caos di essere sradicati. Le sedie sembrano cadute tutte insieme, ma sono anche disposte in modo tale da presentare una superficie uniforme, piatta, per far si che la facciata corrisponda con quella degli edifici accanto. L’installazione è nel tessuto della
città: “seduta, in silenzio”. Doris Salcedo parla di qualcosa di estremamente attuale, rimanda alle politiche di migrazione che sembrano essere pilotate per far sì che i paesi ricchi continuino a rimanere tali. La forza di Untitled risiede nella capacità di parlarci di violenza in un modo a cui non siamo abituati. Bombardati quotidianamente da immagini di morte, di sofferenza, di guerra, abbiamo imparato a dominare la rappresentazione urlata della violenza. L’artista colombiana sussurra la violenza in modo sottile, latente, svelando a poco a poco le carte, e quando finalmente la percepiamo non possiamo più prenderne le distanze. I lavori fino a questo punto presentati ci mostrano con metodologie e strumenti diversi come l’opera d’arte si sia dissolta per entrare in altri ambiti. In tutti e tre i casi analizzati viene richiesto a colui che osserva di utilizzare immaginazione e impegno per percepire, sintetizzare, e ottenere più significati. Il messaggio non viene “comunicato” perché non risponde ad una strategia, non c’è niente da comprare e da possedere. Il messaggio non esiste, esistono solo interferenze della conoscenza che non si esauriscono nell’oggetto o nell’installazione. In altre parole, ciò che viene innescato è un meccanismo di relazione tra l’artista e lo spettatore, tra l’opera e il contesto,
Sherrie Levine - Bobcat skull - 2010
tra noi e ciò che è differente da noi. In una società in cui ci è imposta una cultura basata sulle immagini che offrono svago per stimolare acquisti e anestetizzare le ferite di classe, di razza e di sesso, le artiste rivendicano la necessità di un approccio etico al progresso, mettendone in luce le ambiguità e facendo dell’ambiguità stessa uno strumento utile a stimolare il processo di apprendimento continuo che un certo tipo di arte esige. Nel fare questo le donne, senza voler fare a tutti i costi una distinzione di genere e nella piena consapevolezza dell’arbitrarietà di queste affermazioni, riescono meglio, semplicemente perché negli anni hanno dovuto orientarsi in un mondo al maschile, frammentato e fallimentare, in cui hanno imparato a ricostruire i pezzi per metterli insieme in un altro modo nel tentativo di proporre sempre nuove prospettive, nell’individuare quelle potenzialità di cui si parlava all’inizio. Per concludere questo approccio al mondo dell’arte al femminile, in una prospettiva basata sul contrasto tra essere e apparire, mi sembra appropriato citare il lavoro di un’artista italiana che ha fatto della relazione con l’altro diverso da sé la base della sua produzione. Ottonella Mocellin lavora con suo marito, Nicola Pellegrini, scandagliando le sfaccettature perverse, simbiotiche e a volte innominabili in una relazione a due. Una sfida continua che mischia indissolubilmente vita privata e attività artistica in un lavoro che potremmo definire come basato sulla conflittualità delle relazioni umani al loro grado zero: la coppia. Identità, affettività, scontro, disagio ci vengono presentati sovente attraverso il gioco, inteso sia nel suo essere ludico sia nel suo essere rivelazione. Smettila di dire “il giocatore”. Ora sei tu o sono io, è il titolo di una videoinstallazione del 2004, preso in prestito da un passo del libro di Nabokov Ada o Ardore ambientato in un mondo parallelo chiamato Anti-Terra. Lo scrittore russo immagina una deformazione del nostro pianeta in cui la Russia si estende nella parte settentrionale del continente americano, sovrapponendosi al Canada. Il video proiettato in terra è un lento passo uno di fotografie, prese dall’alto, in cui Pellegrini è sdraiato sul pavi-
Sherrie Levine
mento mentre la Mocellin traccia con il gesso il contorno del suo corpo. Mentre le immagini scattano una dietro l’altra dilatando la percezione temporale, le voci di entrambi gli artisti sussurrano il brano finale de “Il giardino di cemento” di Ian McEwan, che narra l’esperienza incestuosa tra i fratelli Julie e Jack, avvenuta senza premeditazione, con giocosità e naturalità adolescenziale, al di là del bene e del male. Finito di tracciare il “limite” del corpo del compagno di gioco, Pellegrini si alza e la Mocellin si ferma accanto alla figura vuota, guarda in camera, e infine si sdraia all’interno della silhouette. Le citazioni letterarie fanno riferimento a due autori che hanno riflettuto a lungo su quanto possa essere sottile la linea di confine che divide la così detta normalità e la perversione. L’alternarsi nella silhouette dell’altro è un gioco degli opposti complementari, alla ricerca di equilibrio, senza sapere quali saranno le variabili e i percorsi imprevedibili di questo scambio. Le sovrapposizioni della letteratura, delle immagini, delle relazioni, dell’uomo e della donna, sono come veline con un sottile tracciato impresso che, se poste una sopra l’altra, vanno a definire un disegno non immaginabile a priori, nuovo e astratto. Mocellin e Pellegrini non hanno paura di mettere in comune nuove conoscenze, siano esse perverse e ambigue o ingenue e banali. Ci dicono che non possiamo fidarci della storia, delle narrazioni o dei diversi generi, ma non possiamo nemmeno prescinderne. La sfida delle relazioni, così come del progresso, è allontanarci dal nostro copione personale, scriverne un altro dalla fonte aperta che cerchi di risolvere man mano le incongruenze della vita, per guardare con risoluzione i molteplici problemi del mondo, per ricondurli sotto l’unica vera ragione dell’esistenza che è l’uomo stesso e la sua conservazione.
Sherrie Levine
Banksy
Vicinissimo e remoto
Il finito dell’uomo e l’improbabile infinito del progresso
Giuseppe Passavanti
Probabilmente il rapporto uomo - natura non è staticamente predeterminato da uno o entrambi i poli della relazione. È forse più vicino al vero affermare che lo stile di relazione fra complesso umano e totalità extraumana (vivente o inorganica) è determinato dinamicamente dalle aspettative degli uomini nei confronti della natura e viceversa. Cosa chiediamo alla natura e perché? La prima, immediata risposta alla prima domanda è: risorse. La Terra è per noi un grande serbatoio di materie prime ed energia, sfruttabili in maniera più o meno indiscriminata. L’idea che la Terra sia di nostra proprietà è sotterranea, irriflessa, ovvia e diffusa più di quanto si tenda a credere. Lo sfruttamento delle risorse del nostro pianeta si nasconde nei nostri piccoli e in apparenza innocui gesti quotidiani. Meno ovvio risulta essere il tentativo di comprendere i presupposti necessari alla genesi e diffusione di tale disposizione fondamentale nei confronti della natura. Cerchiamo di metterne a fuoco almeno qualcuno. Percorriamo una via lunga, che va dalla descrizione della relazione che intratteniamo con un determinato oggetto di uso quotidiano in direzione della cornice ontologica in cui lo inseriamo e comprendiamo. Lo smartphone è un dispositivo (sì, per suo tramite qualcosa è a nostra disposizione) elettronico assemblato solitamente in Cina o sud-est asiatico, spesso progettato negli USA o in Europa, distribuito nei principali mercati mondiali. Questo prodotto ha al suo interno una motherboard che connette fra loro diversi microchip prodotti con materie prime comuni e rare. Un apparecchio complesso composto da vari sotto-apparecchi. Fra le materie prime rare che servono alla sua produzione annoveriamo oro, mercurio, metalli del gruppo platino, gallio, selenio, il tantalio derivato del coltan congolese e le terre rare cinesi. Prendiamo a paradigma il caso del Congo. Lo sfruttamento dei giacimenti congolesi avviene con l’uso di manodopera infantile e adulta, che scava spesso a mani nude senza alcuna protezione o normativa che tuteli lavoro e vite. Le morti e le atrocità che avvengono
Kate Macdowell
in Congo non sono censite e sono fonte di profitto per i lords of war che mercanteggiano il coltan con le grandi multinazionali dell’elettronica. È probabile che, mutatis mutandis, lo sfruttamento a vario titolo si ripeta in tutta la catena produttiva insanguinata che unisce noi ricchi consumatori occidentali (ignari o ignavi?), reti logistiche di distribuzione in grande e piccola scala, produttori di numerosissime varietà di chip, creativi e progettisti, mercanti di materie prime e lavoratori sfruttati che non hanno voce né volto, broker finanziari e multinazionali, gruppi criminali e tanti altri attori che forse non siamo in grado di immaginare seduti in poltrona. Il punto per noi moralmente rilevante è il seguente: quando acquistiamo un nuovo telefono siamo coscienti delle atrocità di cui ci rendiamo corresponsabili e correi? E l’incoscienza vale come scusante, come giustificazione? Col prezzo di listino del telefono non si pagano i costi nascosti che nessuno, se non gli ultimi anelli della catena, pagano: morti, violenze, inquinamento, distruzione dell’ecosistema. Il semplice acquisto di un oggetto prodotto nel contesto del mercato globale porta con sé tutta una serie di conseguenze che raramente siamo in grado di immaginare. In media ogni tre anni ripetiamo l’acquisto di uno smartphone. Ci spinge all’acquisto la cosiddetta ‘obsolescenza programmata’. L’invecchiamento di un qualsiasi prodotto industriale è pianificato a tavolino, con criterio scientifico. Affinché il mercato non si saturi di prodotti, questi devono esser dismessi, devono consumarsi, rompersi; devono diventare in qualche maniera vecchi, obsoleti a un ritmo prestabilito. Sostituiamo al vecchio il nuovo con un’apparente gioiosa spontaneità. Il prodotto nuovo è più potente, più bello, ricco di nuove funzioni o semplicemente funziona, in un contesto economico in cui si è deciso che riparare un oggetto malfunzionante debba essere molto più costoso che acquistarne uno nuovo; in cui si è deciso di iniettare nelle menti l’idea che il riconoscimento sociale derivante dal possesso di un oggetto coincida con la sua funzionalità. In qualche modo bisogna andare avanti, verso prodotti nuovi, che ci piaccia o meno. Le merci devono circolare, e così il denaro, con o contro la nostra volontà. Acquistiamo un oggetto perché spinti da bisogni artificiali, creati in uno spazio d’immaginazione e desiderio continuamente alimentato da contenuti imposti dal mainstream. A ogni pillola di video o audio consumata dobbiamo accompagnare della pubblicità, a ogni pagina Internet che visioniamo assimilare cataloghi parziali di prodotti in maniera silenziosa e coatta. Si progetta un prodotto destinato alla vendita con l’intento di legare il cliente al proprio marchio per tutti i pianificati momenti di acquisto coatto futuri. I momenti d’acquisto futuri rientrano in un piano di sviluppo industriale. Il consumatore è spinto all’acquisto perché l’economia deve crescere e non può smettere di farlo. Un’economia che non cresce, così pare di capire, muore. È come un adolescente, il mondo, che non può diventare adulto. Ciò che non cresce muore. Strano, no? A noi tocca acquistare.
Guadagnare per acquistare. Indebitarci pur di comprare. Pagare sempre i debiti. La crescita è un imperativo categorico. Si deve e basta. La banca non redime chi non paga, non perdona gli insolventi: è la più sorda e crudele delle divinità. Se l’economia cresce e gli stipendi non aumentano, se le garanzie sul lavoro diminuiscono e l’inflazione resta vicina allo zero, se non si raggiunge l’età pensionabile e la disoccupazione non cala, non c’è un guadagno che possa dirsi collettivo. La crescita è poco eufemisticamente identificabile come il guadagno di pochi a scapito di molti, senza considerazione, calcolo e compensazione dei danni sociali e politici provocati dall’economico. Siamo manipolati, più che invitati, a procedere in direzione della crescita ad ogni costo. Siamo spinti a diventare più veloci, competitivi, efficienti, performanti. Efficienza che possiamo ridurre alla formula del maximin: minimo sforzo, massimo risultato. Quanto però della nostra crescita come uomini e individui è frutto di attività che richiedono un grande sforzo, e che d’altronde producono poco o nessun risultato! Pensate a quanti problemi e varchi del conoscere sono stati aperti da grandi scienziati e pensatori senza che vi fosse guadagno (immediato) per alcuno. Gli innovatori creano domande, non risposte. In fondo inventori e pensatori, creativi piccoli e grandi sono stati in prima battuta dei moltiplicatori di inefficienza, delle resistenze al progresso meramente economico, dei dissipatori di energie e profitti. Ricapitolando: se l’economia deve necessariamente crescere, allora il mercato non deve saturarsi di prodotti, ovvero il circolo acquisizione–uso–dismissione non deve mai interrompersi. Per evitare la stagnazione economica, il ritmo di acquisto delle merci è imposto in maniera coatta con l’invecchiamento programmato delle stesse e con un lavoro di colonizzazione dell’immaginario. L’utopia del progresso illimitato rischia di trasformarsi in distopia. L’avanzare della civiltà potrebbe condurci all’autodistruzione. La crescita economica illimitata è possibile, se la Terra è finita e dunque le risorse a nostra disposizione sono limitate? Non è forse la nostra una corsa in avanti fino allo sfinimento, senza traguardi, soste o premi? Perché corriamo in avanti senza ritmo, senza misura, senza armonia? Non è scontato credere che il mondo proceda in una direzione, che sia in cammino. Questa idea di tempo è figlia
di una cultura, la nostra, che ha una storia molto antica, più che bimillenaria. Solitamente la parola ‘progresso’ è da noi intesa in senso positivo, come sinonimo di miglioramento. Il termine ha un’origine latina: progressus, e significa letteralmente passo avanti. Si può avanzare verso una mèta, si può procedere senza mèta. Possiamo avanzare verso il meglio o in direzione dell’autodistruzione reciproca. Ciò nonostante l’avanzamento pare un dato di fatto quasi naturale, indiscutibile. Proviamo a pensare altrimenti. Diamo uno sguardo al cielo, osserviamo la struttura delle stagioni, i cicli del vivente, il ritmo circadiano, le notti e i giorni: tutte cose che si muovono in cerchio. Proviamo a riconsiderare la nozione di tempo partendo da un punto zero astratto e osservando esclusivamente la natura. Le cose in natura si ripetono con un certo grado di regolarità, armonia, ordine; a livello macroscopico risulta evidente che noi viventi attraversiamo le fasi della nascita, sviluppo, riproduzione e morte ripetendo gesti di chi è venuto prima di noi. Come in un circolo le specie viventi ruotano attorno alla mortalità nel tentativo di non ricadervi. L’idea che il tempo avanzi rettilineo e non proceda in circolo è relativamente nuova nella storia della cultura. Ha una precisa origine teologica di matrice giudaico-cristiana. In età cristiana il tempo non è più numero del movimento secondo il prima e il poi, non risulta essere il conteggio di ciò che con regolarità si ripete eternamente. Il tempo diventa un segmento che va dalla creazione divina del mondo fino all’Apocalisse, qualcosa che ha per centro il sacrificio cristico. Tutti andiamo, da cristiani, in direzione del compimento di tutti i tempi. L’eterna circolarità del cosmo pagano non creato diventa in età cristiana lo scorrere di ciò che dovrà finire in direzione della propria fine. Il tempo stesso è una creatura di Dio: nasce con la creazione, muore nell’eterno che l’ha generato. Il momento in cui il tempo nasce è il principio della storia del creato. La struttura lineare del tempo cristiano è stata modificata nella storia della cultura da eventi epocali diversi: abbiamo messo mano al principio dei tempi, ne abbiamo rivisto il fine, si è tentato di eliminare la centralità di Cristo (lo abbiamo collocato nel passato), si è tentata la comprensione della causa dello sviluppo storico, si è rivisto il senso e la posizione dell’uomo nei tempi e nello spazio. Non è cambiata l’idea, introdotta dal cristianesimo, che il tempo scorra in avanti e non in cerchio o a spirale. Il tempo cristiano, tuttavia, era di stampo creaturale: nato, doveva morire. La nostra nozione irriflessa di tempo non annovera una fine, un punto d’ar-
Marar Bilak Rain
rivo. Il progresso storico cristiano conosceva compimento, un lieto fine, la ‘pienezza dei tempi’. Venuta meno la credenza in una divina provvidenza e nell’eterogenesi dei fini abbiamo pensato di poter controllare da noi la Storia; nello stesso tempo abbiamo perduto ogni certezza in tema soteriologico. Su noi, figli di un tempo diverso, è ricaduta la doppia responsabilità del progresso e della salvezza. Quest’ultima non è certamente identica alla salvezza eterna dell’anima individuale dalle fiamme della dannazione eterna. Non è concepibile neppure come prosperità di un atomo sociale egoista e isolato, e nemmeno come felicità del maggior numero. Siamo alla ricerca di una salvezza collettiva, di massa. O forse lo eravamo fino a qualche decennio fa. L’Eden terrestre anelato da illuministi, socialisti, comunisti, hippie non è oggi neppure un miraggio. A noi operatori economici coatti, ex cittadini di Stati nazionali ridotti a componentistica di passaggio del flusso di denaro non spetta il compito di pensare al futuro. Tale compito non spetta neppure ai politici. E i padroni del mondo, che controllano i flussi di materie prime, cibo e acqua a cosa pensano? Sono padroni del nostro futuro? E se questi uomini non pensassero che al profitto, disinteressandosi a ciò che sta al di là del più o meno immediato tornaconto? È scomparso il desiderio di progettare un mondo diverso dal presente, discutendo e confrontandosi. La parola ‘partecipazione’ è incredibilmente inflazionata. C’è un grande vuoto d’immaginazione politica e culturale a lungo termine. Chi con sete inestinguibile mira al massimo del profitto nel minor tempo possibile e con il minimo investimento non re-
gistra i propri guadagni su libri contabili globali, non comprende che il suo più temibile nemico, la morte del mercato, sarà conseguenza naturale del tentativo di evitarla stuprando il pianeta, esattamente come nella tragedia greca è il tentativo di fuga dall’ineluttabile a condurre l’eroe nelle sue stesse braccia. Sappiamo bene che le risorse energetiche e vitali della Terra non sono soltanto nostre, ma di tutti i viventi. Evitiamo di pensarlo, evitiamo la responsabilità delle nostre azioni: non ci facciamo carico degli effetti e delle conseguenze del nostro operato, non sosteniamo il peso del futuro. Stiamo letteralmente consumando la casa comune. Il verbo al plurale non rende giustizia ai milioni di poveri che, a differenza nostra e loro malgrado, vivono in maniera ecologica e sostenibile. Chi consuma il mondo è la numericamente marginale ricca porzione occidentale. Per quanto tempo il nostro pianeta sarà in grado di sostenere tale vergognoso saccheggio? Chi ci salverà? Possiamo salvarci con le nostre mani, evitando la distruzione nostra e della Terra, con la potenza creatrice della tecnica, figlia dello stesso progresso che ci espone a rischi apocalittici? Un giorno forse saremo in grado di ricostruire l’ecosistema, di ripulire aria e acqua, di eliminare con opportune modifiche genetiche malattie e dolore, di creare viventi meno facilmente soggetti a malfunzionamenti, di estrarre quantità ingenti di energia da piccolissime quantità di materia, di fare upload e download di persone in corpi artificiali immortali e molto altro ancora. Il progresso ci salverà. Nel frattempo, con fare modesto, proviamo ad analizzare la questione della strumentalità della tecnica.
Congo miniera di Coltan
Qualsiasi strumento è mezzo per il raggiungimento di un fine, ed è quindi sprovvisto di orientamento morale intrinseco. Gli strumenti sono neutri. Possiamo usarli bene o male. Sottointesa a questa idea di strumentalità è la convinzione della padronanza dell’agente sugli effetti dell’azione. Il dominio degli effetti coinciderebbe con la padronanza dello strumento, e viceversa. Tuttavia, più siamo potenti e meno controlliamo gli effetti delle nostre azioni. L’enunciazione astratta di tale paradosso richiede almeno qualche esempio per essere verificata. Un tempo non potevamo controllare la nostra posizione contributiva su di un server a Roma, restando seduti a casa nostra, interrogando un motore di ricerca che si trova in California attraversando con un messaggio migliaia di apparati e tutto l’oceano Atlantico in pochi millisecondi, andata e ritorno. Ovviamente ignorando il funzionamento degli apparati di telecomunicazione in gioco. O non potevamo spegnere il riscaldamento di casa, controllare le immagini del salotto e accendere l’innaffiatoio automatico per l’aiuola da remoto, a distanza. Adoperando uno strumento, mentre guadagniamo padronanza sulla situazione contributiva senza recarci presso un ente previdenziale e controlliamo casa con mani invisibili, perdiamo il controllo sugli effetti remoti del nostro stesso agire. Usiamo lo smartphone, controlliamo i contributi e la domotica per suo mezzo. Un tempo non accadeva, acquistando un oggetto con del denaro guadagnato lavorando, di colpire nello stesso tempo a morte degli innocenti in Africa, Cina o Taiwan. Lo facciamo nell’ignoranza degli effetti distanti del nostro agire. Un tempo potevamo sperimentare nuove armi in laboratorio evitando che effetti non calcolabili si ripercuotessero sull’intero ecosistema. L’atomica ha vanificato la distinzione laboratorio-mondo. Gli esperimenti atomici hanno per laboratorio la Terra: gli effetti di un’esplosione si ripercuotono sull’intero pianeta. Possiamo distruggerci a vicenda ignorando come e se ciò accadrà. Siamo padroni dell’estrazione dell’energia dalla fissione atomica, ma andiamo in crisi e turbiamo per secoli, nostro malgrado, l’ecosistema marino giapponese e mondiale quando l’incalcolabile accade. Produciamo effetti grandiosi, non li controlliamo del tutto. Una volta non potevamo, intervenendo in misura percentuale minima sul prezzo del denaro in una zona del mondo decidere indirettamente della vita e della morte di migliaia di persone che le guerre economiche travolgono senza armi, esplosioni e san-
gue. Non potevamo modificare la catena alimentare di migliaia di capi di bestiame intervenendo direttamente sulla genetica del cibo con cui li alimentiamo, massimizzando i profitti e ignorando gli eventuali effetti nocivi che, a lungo termine, si ripercuotono sulla salute. Gli esempi che potremmo produrre sono molti altri, visibili ovunque a un passo da noi. Vicinissimo e remoto si toccano, come una coincidenza d’opposti, quando entrano in gioco nella relazione uomo-natura i potentissimi strumenti tecnici contemporanei. L’aumento di potenza tecnica nel metabolismo uomo-natura ci ha esposti alla complessità di eventi non dominabili e prevedibili, ci ha posto di fronte a catene di effetti che retroagiscono tra di loro caoticamente. Certo, agendo abbiamo il controllo di alcune variabili, ma la pletora infinita di effetti incontrollabili si erge a obiezione permanente alla nostra idea di strumentalità come padronanza degli effetti. Più possiamo e meno controlliamo. L’economia non può fermarsi. Il progresso tecnico scientifico l’alimenta. Il consumo l’alimenta. Oggi il progresso è inteso come incremento economico infinito. Questa idea vive nelle menti di esseri finiti, legati a un pianeta finito. La contraddittorietà silenziosa insita nell’ideologia economica imperante, posta in questi termini, è terribilmente palese. Se non consumiamo muore l’economia; se consumiamo nell’ottica di una crescita illimitata siamo destinati all’estinzione. C’è modo di sottrarsi a questa mostruosa antinomia? Si esce vivi dall’opposizione dialettica morte economica – morte fisica? È probabile che per uscire da questa antinomia sarà necessario cambiare punto di vista, rivedere i presupposti del nostro vivere. Se le risorse del mondo sono finite, la nostra sete illimitata di risorse è destinata a restare insoddisfatta. Dobbiamo imparare a moderare il consumo. Se però l’idea di sviluppo nel frattempo non cambia, la moderazione non basterà a salvarci. Passeremmo, riducendo il ritmo di consumo, da una estinzione rapida a una lenta. Infatti, se l’economia deve crescere sempre e a ogni costo, le risorse terrestri sono necessariamente destinate a finire
comunque, con o senza moderazione. Consumate smodatamente, le risorse terminerebbero semplicemente prima. La moderazione rallenterebbe il ritmo d’ineluttabile estinzione dell’umanità, ma non ci salverebbe. La coppia consumo–sviluppo andrebbe rivisitata a fondo. Alcune risorse terrestri, le fondamentali affinché la vita prosperi, si rigenerano. Ignoriamo i ritmi di rigenerazione di aria e acqua, a esempio. Nel frattempo inquiniamo. Forse perché il consumo smodato è l’altra faccia dello sviluppo, del progresso infinito, della crescita economica a ogni costo. Non domandiamo risorse alla Terra. La consideriamo di nostra proprietà e ne disponiamo a piacimento. Domandare presuppone l’idea che si attenda una risposta prima di agire. Domandare è disporsi all’attività di ascolto di chi, interpellato, risponde. Prendere senza domandare, senza ringraziare, equivale a uno stupro. Tener conto dei ritmi di rigenerazione delle risorse del pianeta presuppone il rifiuto categorico dell’idea di padronanza del globo, il rifiuto della crescita economica a ogni costo, il rifiuto dell’antropocentrismo in biologia, la riconsiderazione della nostra posizione di viventi fra i viventi della Terra, l’introduzione di una sorta di prudenza nel territorio tecno-scientifico, dove ci sentiamo padroni degli effetti e del conoscere. Ascoltiamo la voce della Terra, la sua risposta alle nostre domande? Prendere senza domandare: per quanto tempo la biosfera sopporterà tale abuso? L’Apocalisse potrebbe verificarsi per scelta o imprevedibilmente. Ancora, l’estinzione potrebbe essere lenta o veloce, e potrebbe accadere anche senza controllo diretto da parte dell’uomo: potremmo soccombere come impotenti spettatori. Alcune azioni che già compiamo, o abbiamo compiuto, potrebbero aver già sbilanciato l’equilibrio dell’ecosistema in maniera irreversibile. Il declino del vivente potrebbe addirittura essere iniziato da anni a nostra insaputa. Navigando nell’ignoranza del futuro, disponiamoci all’ascolto, all’attesa di una risposta, all’apertura che solo la riconsiderazione del noto in vista dell’ignoto ci dona.
Giuseppe Satriani
Un percorso tra didattica e creatività tra immagini, segni e forme.
L’impegno di Danilo De Mitri nel recupero della tradizione con i mezzi e gli strumenti della contemporaneità. É in distribuzione il volume IMMAGINI, SEGNI & FORME, editata dall’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, per la collana di didattica interdisciplinare “Cultura & Territorio / I Quaderni dell’Accademia”, interfaccia del progetto artistico-culturale curato e condotto da Danilo De Mitri, docente di Tecniche dell’Incisione-Grafica d’arte nella locale Accademia. Un entusiasmante percorso tra didattica e creatività, un laboratorio delle idee e del fare, che ha visto protagonisti ventuno studenti (Giuseppe Salvatore Barilaro, Ilenia Cordua, Andrea Corsello, Davide Criscuolo, Francesca De Fazio, Vittoria Devona, Alessandro Donato, Mattia Dragone, Dalila Imperiale, Denise Melfi, Damiana Merante, Alex Raso, Jaqueline Gisele Rodriguez, Fabrizio Romito, Marco Ronda, Donatella Sestito, Valeria Simeone, Lucrezia Siniscalchi, Antonio Tolomeo, Elisa Trapuzzano, Francesco Trunfio), afferenti a diversi indirizzi didattici dell’Accademia e frequentanti sia il triennio che il biennio specialistico. “Un progetto complesso e nello stesso tempo intrigante” – afferma il docente-curatore Danilo De Mitri – che si è avvalso di strumenti, materiali e tecniche dell’incisione e della calcografia, con l’intento di rivalutare così le antiche tecniche e di farle confluire nelle nuove linee di ricerca che attraversano la contemporaneità.” “Significato dell’intero progetto è aver condotto gli studenti – scrive nella presentazione al volume, il critico Maria Letizia Paiato – alla rielaborazione del tradizionale lessico della grafica d’arte in una dimensione estetica contemporanea, spingendoli a muoversi con libertà sperimentale in questo campo. Si osservano, infatti, incisioni in cavo utilizzate in modo libero e spontaneo, in alcuni casi innestate a complessi procedimenti fotografici o a divertenti collage, ma anche tradizionali lastre di zinco, sostituite da matrici in metacrilato, da originali cartoni autoprodotti o da oggetti di uso comune. Qualunque sia la strada che questi giovani studenti hanno scelto di percorrere, resta il fatto che ognuno di loro ha cercato nel segno inciso, nella sua visualizzazione come traccia, nella linea e nel colore, un punto di partenza per dare corpo alle proprie idee.” La suddetta collana è diretta dal prof. Antonio Passa che si avvale di un comitato scientifico composto dai proff. Davide Bianco, Francesco Brancato, Andrea La Porta.