La città inattesa
Antonio Natali
Nelle città figurate da Andrea Alfieri c’è un tratto che accomuna immagini dissimili, perché attinenti a geografie e culture fra loro lontane. È l’aria. Aria ch’è sempre sospesa. Non però nel senso di un’astratta levità; semmai anzi foriera d’un accadimento che incombe, financo inquietante. Come se le differenti mete raggiunte, e comunque ambìte, celassero ogni volta segreti oscuri. Arcani preclusi all’ospite; cui a pena è concesso di guardare; tutt’al più fermando l’attimo, per serbarne memoria duratura, con la speranza di poterne sapere di più in seguito, al momento di rivedere l’epifania ch’è stata colta dalla macchina. Come nel parco di Blow-up. O come nel giardino di Compton House. Guardo la spessa coltre verde ai bordi d’una radura londinese (p. CXLIV),
dove un uomo solitario se ne sta sdraiato profittando dell’an-
damento a culla della radice emergente d’un albero che già nel tronco s’attorce e poi quasi s’aggroviglia, su, nei rami robusti. L’uomo, assorto, in una postura che potrebbe esser quella d’Oscar Wilde in una delle sue pause di languore, affonda in un silenzio che viene facile figurarsi interrotto da folate fruscianti, tra foglie spesse come l’avrebbe dipinte Burne-Jones. Ma è là, nella cortina di piante serrate, con le frasche pesanti a caduta sull’erba, che potrebbe esser successo ciò che l’occhio non ha subito percepito. Qualcosa che all’ospite è negato. Alla stregua di David Hemmings sotto la guida d’Antonioni, verrà d’indagare in quel folto – ora che i congegni lo consentono – battendolo col mouse da sinistra a destra, talora ingrandendo di più (a costo di sfumare troppo) ora meno (per trarne contorni più precisi). E qualcosa alla fine davvero si disvela. Sta là, librato sopra quel puntello che tiene una corda da ring, a mezza via fra il margine sinistro della foto e il tronco dell’albero. C’è qualcosa che si sfrangia; qualcosa che il movimento veloce ha impedito di bloccare in una figura di profilo perspicuo. Lo sguardo tenta un ulteriore accostamento zumando di nuovo. Ancora un po’; finché la vista non sgrana. E finalmente si fa chiara l’immagine del battito d’ali d’un uccello, che da poco s’è levato in volo e ancora non turba la quiete del giovane pensoso (p. CXLIV). Il declivio s’anima, con quel frullo, d’una voce nuova; essa pure smorzata, tuttavia. Il fotografo non sa quant’altre esistenze abbia catturato con la camera. Sa però che ci sono; a lui impercettibili. Invisibili come quelle che fluiscono dietro le facciate di metallo o dietro mura di pietre, che pur sempre si tingono di metalliche cromie.
VI
Londra (particolare p. CXLIV)
Senza avvedersene, l’artista fiuta la vita che scorre nascosta di là dai mille vetri ora d’un edificio gotico, ora di grattacieli algidi d’acciaio, ora d’un fabbricato rosso di mattoni, che sprofonda con le sue palafitte nella sponda larga del Tamigi (p. CXXXVIII). Di nuovo l’occhio, impudico, s’ingegna d’entrare nelle case per scoprire, oltre le tende bianche che ne velano gli accessi, quali siano le pratiche quotidiane di gente forestiera. Ma le sole parvenze d’umanità si scorgono sulla passerella antistante, poggiata su pali piantati in terra a distanze regolari, ingentiliti da festoni di catene, pendenti come collane, tutte eguali. E lo sguardo indugia su quelle rare presenze in transito; finché non resta turbato da una vicenda che la geometria perfetta di finestre, balconi e legni in scorcio sperticato, aveva fatto trascurare: la lente ingrandisce a comando le figure d’una donna trattenuta a forza da un anziano, mentre un po’ più avanti un uomo s’allontana portando via un bimbetto tenuto in braccio (p.
CXXXVIII).
Scena che sa di
dramma. Scena che il fotografo da una parte sopisce col risalto imperioso dell’inquadratura, di magistrale impaginazione; ma dall’altra, per converso, esalta; quasi invitando Londra (particolare p. CXXXVIII)
a scoprirne i recessi: al cospetto d’una quinta monumentale e incombente, è perfino inevitabile che la curiosità cresca nei riguardi dei ruoli di quegli attori minuti; ognuno con la sua storia, ognuno con la sua piccola pena. Indubbio è l’interesse dell’artista per i luoghi intimi dell’anima. Tanto più quando essi collidono e stridono coll’ambiente. Se ne fa emblema il gruppetto di donne intabarrate e, anzi, occultate in panni neri, che al pari di un’esigua colonia di pinguini si muove per le strade della città (p. XVIII). Solo una si volta, mostrando curiosa uno spicchio di viso. E questo basta a darle un’aria di malizia. Per fede si negano a un mondo che pure palesemente conoscono. Lo denunciano le scarpe da ginnastica alla moda (All Star?), apprezzate in qualche promozione satellitare (p. XVIII). Il mondo, d’altronde, è davanti a loro, in emblema, in quell’auto di forma compatta e attuale, ch’è ferma, con gli start accesi, poco oltre, Istanbul (particolare p. XVIII)
nella via. Conflitti culturali che colpiscono l’immaginazione dell’ospite venuto di lontano. Conflitti di cronologie; assai frequenti in paesi d’antica nobiltà, volontariamente degradatisi in una schiavitù nuova. Subdola, perché seducente come fosse una conquista di libertà. Sulla ribalta d’un palcoscenico con un tecnologico fondale d’acciaio e vetro – grattacieli tutti diversi eppure tutti così uguali, al segno di non saper più riconoscere Shangai da New York, Pechino da Tokyo o da Londra – imperturbabile procede, col suo passo primitivo, un dromedario spaesato (p. XCV). Ha confidenza soltanto col suolo sabbioso e con la balza brulla di rocce striate. Gli è diventato estraneo perfino il padrone; che ora di certo lo ignora, tutto preso da una conversazione sul telefono portatile: unica presenza nera su un bianco fulgente. La foto è stata scattata a Dubai, luogo feticcio sulla bocca d’ogni “manager”; specialmente di quelli che si piccano d’oc-
VII
ISTANBUL
X
XI
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
PARIGI
XXXIV
XXXV
XLVIII
XLIX
LVIII
LIX
LXXXIV
LXXXV
DUBAI
LXXXVI
LXXXVII
LXXXVIII
LXXXIX
XCIV
XCV
CVI
CVII
CXX
CXXI
LONDRA
CXXII
CXXIII
CXXXIV
CXXXV
CXL
CXLI
CXLVIII
CXLIX
CLXII