i BORGHESE e l’ANTICO
Sommario
Nota alla lettura Le immagini indicate nei testi in catalogo come “fig.” fanno riferimento alle opere che illustrano le ricostruzioni planimetriche degli allestimenti seicenteschi e settecenteschi di Villa Borghese; si è scelto di indicare invece con l’abbreviazione “ill.” i rimandi alle figure a corredo iconografico dei saggi.
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Introduzione Anna Coliva
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La storia di una famiglia come avventura collezionistica Anna Coliva
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Da Scipione a Marcantonio IV: la collezione Borghese di antichità e il nuovo allestimento della Villa Pinciana Marina Minozzi
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La rinascita del museo Clementina Sforzini
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Marmi antichi a Villa Borghese. Tre secoli di storia del collezionismo a Roma Carlo Gasparri
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La collezione di sculture nel parco della villa Alberta Campitelli
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Regesto delle collezioni Borghese nel parco della villa a cura di Angela Napoletano, Sandro Santolini
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1811-2011: due secoli di esposizione della collezione Borghese al Louvre. Storia di una presentazione incompiuta Jean-Luc Martinez
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Visconti e l’acquisto della collezione Borghese: la perizia di un antiquario romano Marie-Lou Fabréga-Dubert
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Esporre l’antico: l’allestimento della villa da Scipione a Marcantonio Borghese Isabella Rossi, Elisabetta Sandrelli
153 155
Portico Salone d’ingresso (salone di Mariano Rossi) Appartamento di mezzogiorno, stanza del Seneca (sala I) Appartamento di mezzogiorno, stanza del Genio (sala II) Appartamento di mezzogiorno, stanza di Dafne (sala III) Galleria (sala IV) Appartamento a tramontana, stanza della Zingara (sala V) Appartamento a tramontana, stanza del Gladiatore (sala VI) Appartamento a tramontana, stanza del Moro (sala VII) Appartamento a tramontana, stanza di Saturno (sala VIII) Piano di sopra, stanza delle tre Grazie (sala IX) Piano di sopra, stanza del Sonno (sala X) Piano di sopra, loggia coperta (sala XIV) Piano di sopra, stanza di Diogene (sala XV) Piano di sopra, stanza dell’Ermafrodito (sala XVI) Piano di sopra, stanza della Zingara (sala XIX) Piano di sopra, stanza del Centauro (sala XX)
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La villa di Marcantonio: un’eredità rinnovata in maniera ambiziosa Marie-Lou Fabréga-Dubert
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Portico Stanza I (salone di Mariano Rossi) Stanza II o stanza del Vaso (sala I) Stanza III (sala II) Stanza IV (sala III) Stanza V – Galleria (sala IV) Stanza VI (sala V) Stanza VII (sala VI) Stanza VIII (sala VII) Stanza IX (sala VIII)
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Catalogo
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Apparati
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Appendice documentaria a cura di Laura Acetelli
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Bibliografia a cura di Giorgia Pellini
Anna Coliva
La storia di una famiglia come avventura collezionistica
L
1. Seneca morente Parigi, Musée du Louvre (fig. 103)
a incomparabile raccolta di antichità che Napoleone volle per sé, per il nuovo Musée Napoléon1, fu quasi per intero opera del cardinale Scipione Borghese (1576-1633) nipote del papa Paolo V (1552-1621), che la formò negli anni che videro la massima ascesa e potenza della famiglia. Riunita dal cardinale nella villa fuori Porta Pinciana, entrò a far parte indissolubile di questo luogo cui egli si dedicò con appassionata intensità sino alla morte. Pochi luoghi si identificano con la figura e la personalità del loro creatore come la Villa Borghese, al punto che la fama di raffinato committente di Scipione Borghese vi è rimasta per sempre legata, qui si poté realizzare la sua più coerente impresa, creare un’opera d’arte continua e individualistica nella quale l’edificio e le collezioni per cui fu concepito fossero indivisibili dalla sua finalità e dai suoi contenuti. Il primo e più antico nucleo che formò la raccolta di sculture, felicemente definita la foresta di statue forse dallo stesso Gian Lorenzo Bernini tramite la penna del figlio Domenico, fu il più cospicuo per quantità e qualità dei pezzi e apparteneva alla famiglia Ceoli. Si trattava in un primo momento di duecentotrentacinque tra statue, busti, bassorilievi, sarcofagi, acquistati in blocco nel 1607 dall’ultimo erede Tiberio Ceoli che vendette a Scipione, per settemila scudi, la collezione che la famiglia aveva a sua volta acquistato nel 1576 assieme all’intero palazzo costruito da Antonio da Sangallo in via Giulia e passato in seguito al cardinal Ricci e infine, nel 1648, ai Sacchetti. Poco dopo furono aggiunti altri pezzi e innalzato il prezzo a novemila scudi, come riporta l’inventario dell’1 dicembre 1607 che annota accanto alle misure di ogni pezzo la stima precisa e la somma finale2. Dell’acquisto della storica collezione, che comprendeva anche i piedistalli per le statue, si ha la prima vivida notizia negli Avvisi alla data del 15 dicembre 1607: “Il Cardinal Borghese ha comperato per settemila scudi tutte le statue in marmo et bronzo, che li Ceoli hanno nel loro palazzo di Strada Giulia che sono in numero di 273”3. Come acquirente compare il cardinal nepote Scipione Borghese ma è da ritenere che l’acquisto fosse stato fatto per conto del papa, desideroso di far mostra del nuovo rango raggiunto attraverso lo splendore del proprio palazzo. Il collezionismo Borghese rimarrà per sempre legato alla grande figura di collezionista e committente del cardinale Scipione. Ma l’inizio della fortunata ascesa del casato vide affacciarsi anche altre personalità le cui esigenze erano soprattutto di fasto e decorazione man mano che premeva l’urgenza dell’affermazione della famiglia, assurta al massimo grado di aristocrazia. Non va ad esempio trascurato il forte impulso dato dal papa stesso all’acquisizione dei primi e importanti nuclei che contribuirono a costituire l’eccezionale raccolta, nonostante che lo svilupparsi della storia successiva della famiglia permetta di affermare che sia il pontefice sia i suoi due fratelli non avessero uno specifico interesse per le collezioni, o per le committenze artistiche in generale, al di là di quelle che il proprio ruolo imponeva4. Solo negli anni venti del secolo, all’assestarsi degli equilibri famigliari, l’interesse specifico nei confronti delle antichità5 si rivelerà essere un tratto esclusivo e caratteristico di Scipione e le altre figure, col tempo, verranno totalmente eclissate alla storia del collezionismo dalla sua straordinaria originalità, nonostante che le collezioni dello zio e quelle del Nepote rimanessero rigorosamente distinte sino alla morte del pontefice. 19
2. Gladiatore Borghese Parigi, Musée du Louvre (fig. 194)
Allorché nel 1605 Paolo V ascese al soglio pontificio ebbe tra le proprie facoltà anche quella di far dono ai fratelli dei pezzi rinvenuti negli scavi per le sue imprese edilizie, per esempio quello così ingente aperto per gettare le fondamenta della nuova basilica di San Pietro. La riedificazione della basilica vaticana era stata decisa dal nuovo papa sin dagli ultimi mesi del 1605, l’anno iniziale del suo pontificato. Dagli scavi di edificazione nei possedimenti apostolici venne pertanto un notevole incremento alla collezione di antichità di Scipione poiché vi si trovavano i resti della demolizione della basilica costantiniana, i quali furono concessi in riutilizzo al nipote ma solo tramite la predisposizione di accurati atti amministrativi che ponessero il papa al riparo da accuse di illeciti. Dalle numerose proprietà apostoliche nella disponibilità del papa provennero argento di spoglio, tappezzerie, tessuti, mobili, destinati all’arredamento dei palazzi. Per quanto riguarda le antichità,
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Anna Coliva
3. Orante Parigi, Musée du Louvre (fig. 203)
la prima donazione papale si registra nell’aprile del 1610 con “due pili di marmo trovati nel cavar li fondamenti di S. Pietro”; nell’agosto dell’anno seguente e dallo stesso cantiere ricevette “6 colonne di breccia”, due “Statue in habito di Donne vestite” e “una sponda di pilo di marmo istoriata”, nonché “diverse colonne” nei due anni successivi. Nel 1614 ricevette altri doni dallo zio, questa volta provenienti dal terreno di Villa Giulia, anch’essa nella disponibilità del pontefice, e consistettero di “Teste di marmo bianco con li suoi busti”, un “coperchio di un Pilo istoriato”, una colonna in porfido. Nella stessa donazione erano comprese anche opere rimaste dalla conclusione dei lavori nella cappella Paolina di Santa Maria Maggiore, un sarcofago e vari marmi preziosi, mentre dai giardini vaticani gli giunsero, nel 1616, tre sarcofagi e sei rilievi. Ma dal 1612 fu lo stesso Scipione Borghese a ricoprire la carica di camerlengo, che implicava la facoltà di concedere le autorizzazioni agli scavi e di esigere una parte dei ritrovamenti per la Camera Apostolica con la conseguente possibilità di essere al corrente di ogni ritrovamento6. Fu in ogni caso l’acquisto della raccolta Ceoli ad aprire la vicenda collezionistica di casa Borghese e provocare grande eco nella Roma contemporanea sia per l’importanza dell’acquisto, che fu infatti largamente pubblicizzato dagli Avvisi, sia per l’evidenza della sua destinazione, il palazzo di famiglia a Campo Marzio abitato da Camillo come affittuario sin dal 1602 e da lui acquistato nel gennaio del 1605, pochi mesi prima dell’elezione al pontificato (16 maggio). Il palazzo, costruito per monsignor Tommaso del Giglio e proseguito per il cardinal Deza da Martino Longhi negli ultimi due decenni del Cinquecento, fu sempre molto amato dal pontefice, che pare vi si recasse spesso in incognito sebbene di ciò non resti alcuna specifica documentazione7. Risulta invece che già nel dicembre del 1605, dunque lo stesso anno dell’acquisto, quella che era divenuta la dimora principale della famiglia venisse donata ai due fratelli Francesco e Giovan Battista. Fu Francesco a stabilirvisi per primo, con una strana clausola che prevedeva il suo spostamento in un previsto (ma mai eseguito) palazzotto limitrofo qualora il papa avesse desiderato di abitarvi per qualche tempo8. Dall’inusuale accordo, che sembra relegare molto a margine nella considerazione del pontefice la figura di questo fratello rispetto a quelle di Giovan Battista9 e del giovane Scipione, potrebbe trarsi la prova che Paolo V in effetti pensasse di utilizzare il “suo” palazzo. Dell’edificio come lo vediamo ora non esistevano a quel momento che il corpo centrale e l’ala a est. I fratelli iniziarono subito l’ampliamento affidando l’incarico a Flaminio Ponzio, al servizio del papa Borghese nelle numerose fabbriche intraprese sin dall’inizio del pontificato. A Ponzio si deve tra l’altro l’apertura del grande portale sulla piazza di Fontanella Borghese. Il primo a trasferirsi nel palazzo destinato a essere la dimora ufficiale della famiglia fu Francesco; nell’autunno del 1609 vi traslocò Giovan Battista assieme al figlio Marcantonio e a tutti gli arredi provenienti dall’altro palazzo sulla via Alessandrina a Borgo Pio10, acquistato pochi mesi prima, nel luglio, dalla famiglia Campeggi a un prezzo estremamente vantaggioso. Quest’ultima dimora rimase dunque nella completa disponibilità del nipote. Sembrerebbe invece che nei primi anni di pontificato, prima che fosse preso in affitto e poi acquistato il palazzo di Borgo, l’intera famiglia fosse più o meno sistemata nelle stanze del Palazzo Apostolico vaticano. Il trasferimento nel principale palazzo della famiglia in Campo Marzio era il segno che i lavori, almeno nella prima parte dell’edificio, dovevano essere più o meno conclusi mentre continuavano nell’ala ovest. Tra il 1612 e il 1614 infine fu completata l’ala di Ripetta. Per i tre fratelli e in parte, almeno all’inizio dell’avventura famigliare, anche per Scipione, era il palazzo a costituire l’interesse preminente della committenza e di conseguenza le statue dovevano assolvere in primo luogo a una funzione di arredo. Gli stessi documenti che registrano l’entrata dei pezzi antichi in collezione lo confermano, perché il maggior numero di acquisti e donazioni papali si rileva sempre nei periodi in cui, terminata la fase edificatoria dei palazzi e delle ville, si procede con i lavori decorativi. Infatti la ricca documentazione esistente sulla fabbrica11 riguarda prevalentemente la struttura e i lavori architettonici relativi ai vari ampliamenti, molto meno le sculture antiche che sono citate solo in funzione di essi, per cui non sappiamo con certezza quali pezLa storia di una famiglia come avventura collezionistica
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L’acquisto fatto dal cardinale nel 1613 di un’ulteriore collezione di antichità, quella di Giannozzo Caffarelli, formatasi anch’essa in precedenza e venduta dall’erede Antonio, era invece destinato all’arredamento del “Palazzo del Giardino” a Montecavallo34. Si trattava di “diverse statue di marmo, teste con busti, piedistalli e altri oggetti di antichità”35 di cui non si hanno ulteriori dettagli, se non la somma versata di millequattrocento scudi che fa supporre si trattasse di una ingente quantità. Ancora a questa data dunque Scipione non prevedeva gli acquisti che per le vecchie dimore o per il nuovo palazzo sul Quirinale. La costruzione del “Palazzo del Giardino dipinto” sulle pendici di Montecavallo, che fu la prima residenza del tutto autonoma dal resto della famiglia in cui si impegnò Scipione Borghese, si era resa necessaria perché egli potesse abitare accanto al papa, che nei mesi estivi aveva preso a soggiornare nel limitrofo palazzo sul Quirinale. Il vasto complesso di edifici e giardini infatti si avviava a divenire, sotto Paolo V, la residenza estiva alternativa al Vaticano e si insediava esattamente sull’area dove sorgeva la meravigliosa villa del cardinale Ippolito d’Este, che per la posizione sulla sommità del colle, per i giardini, per la preziosa collezione di antichità, fu considerata uno dei luoghi più splendidi di Roma e di conseguenza da sempre ambita dai pontefici. La conquista fu compiuta da Gregorio XIII, ma solo con Paolo V raggiunse il suo assetto definitivo annettendosi gli edifici adiacenti e giungendo alla grandiosità attuale. Come per il Palazzo del Giardino, anche la scelta del Palazzo Corneto di Borgo era stata motivata dalla prossimità al Palazzo Apostolico di quello che era considerato il palazzo più sontuoso nell’area vaticana. Nel settembre del 1605, infatti, Scipione Borghese aveva ricevuto dal papa la nomina a segretario ai Brevi ai Principi, vale a dire Segretario di Stato, sostituendo l’abilissimo cardinal Valenti creato di Clemente VIII. Questo implicava per il nipote il trovarsi proiettato nel pieno dell’attività di governo, ciò che rendeva indispensabile la vicinanza al pontefice. Il Palazzo del Giardino a Montecavallo fu creato tra il 1610 e il 1611 su di un insieme vastissimo di giardini pensili in cui furono costruiti una serie di casini dipinti, terminati nel 1613, e un palazzo, secondo una configurazione che lo collocava a metà strada tra il palazzo di città, la cui funzione era assolta dai palazzi di Borgo e di Campo Marzio, e la villa suburbana, cui assolverà la Villa Pinciana. Solo con l’impresa edificatoria di Montecavallo cominciano a essere documentabili opere acquistate per una collocazione ben precisa all’interno di un complesso architettonico ma, a differenza di quanto avvenuto nel palazzo di Borgo e di quanto avverrà con intento molto più ambizioso e programmatico a Villa Borghese, nel Palazzo del Giardino non furono collocate le importanti collezioni di statue già acquisite e la nuova dimora fu usata soprattutto nei suoi vasti spazi esterni, privilegiando per feste e banchetti le amenità di giardini e fontane rispetto agli spazi interni, secondo l’uso più consueto della villa con giardino. Questo confermerebbe in maniera indiretta come il Nepote dovesse servirsi per la più alta rappresentanza di appartamenti messi a sua disposizione nel limitrofo palazzo del Quirinale. La cura degli interni restava appannaggio del palazzo di Borgo, che veniva usato dal cardinale piuttosto nei mesi invernali, quando la corte del pontefice si spostava nei palazzi vaticani. Egli poteva così accogliere gli ospiti che cominciavano a essere attratti dalla sua collezione, della cui sistemazione siamo infatti meglio documentati: nel 1609 ad esempio il papa donò al nipote numerosi oggetti d’arredo come tappezzerie di cuoi dipinti, camini, mobilio36. Nella fase ultimativa della fabbrica di Montecavallo inizia inoltre quel particolare fenomeno, destinato ad aumentare sempre più durante i lavori per Villa Borghese, degli scultori-restauratori, che sono nello stesso tempo i maggiori fornitori di marmi antichi per il padrone e anche i loro peritissimi stimatori. Cosicché cessa l’acquisto di interi insiemi collezionistici mentre si moltiplicano le entrate sporadiche delle opere. Aumentano, di conseguenza, le difficoltà di identificazione dei singoli pezzi in quanto tali acquisti molto raramente sono indicati con maggiore precisione che non “testa” o “statua”. In stretta relazione con l’allestimento della residenza del cardinal Scipione a 30
Anna Coliva
10. Centauro cavalcato da Amore Parigi, Musée du Louvre (cat. 74, particolare)
Montecavallo va rilevato anche l’intensificarsi delle donazioni papali destinate a questa dimora, che si addensano infatti attorno al 1614, come ad esempio quella di tutte le antichità rinvenute sul terreno di costruzione, in realtà di proprietà vaticana, durante i lavori di scavo per le fondamenta37. Non è noto però se qui fossero state trovate delle sculture o se la donazione non riguardasse solo le antiche rovine che si trovarono sul terreno38. Si è detto come nel primo decennio del papato Borghese si configurasse chiaramente una politica di acquisizione di opere finalizzata prevalentemente alla funzione di completamento e arredamento degli edifici che privilegiava piuttosto l’aspetto di utilità esegetica e autorappresentativa rispetto a quello contenutistico: l’antico è una esaltante miniera di immagini, non risignificate nella profondità delle idee, ma assunte come un teatro icnografico che si presta a infiniti processi allegorici invece che simbolici. Poiché questo decennio fu caratterizzato da un personale interesse del pontefice oltre che dalla personalità di Scipione, si può ritenere che questo La storia di una famiglia come avventura collezionistica
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e venne confermata da un episodio subito occorso al momento della vacanza della sede pontificia, allorché il Nepote ritenne di dover far proteggere da guardie il Casino Pinciano48: chiaro segno che l’inevitabile perdita di potere del casato e l’ostilità che manifestavano verso di lui il nuovo papato Ludovisi e il potere del nuovo Padrone gli facevano temere sia per l’integrità della sua proprietà sia per se stesso, e paventare una conseguente quanto pericolosa resa dei conti.
N
ell’anno di vendita del Palazzo del Giardino a Montecavallo, il 1616, la situazione della famiglia Borghese, quanto alle proprie residenze di città alle quali erano destinate le collezioni, era più o meno la seguente: Marcantonio, figlio di Giovan Battista assieme all’altro fratello di Paolo V, Francesco, risiedevano con la famiglia al palazzo Borghese di Campo Marzio che in questo momento viene ampliato sino a comprendere l’ala verso Ripetta; il nipote Scipione nel palazzo di Borgo, alternando questa residenza di città con quella estiva nel Palazzo del Giardino e il palazzo del Quirinale; il pontefice invece, dopo la sua elezione, non è più documentabile come residente nel palazzo di Campo Marzio. Non è noto quando il progetto di una grande proprietà suburbana prese forma nella mente di Scipione ma certo molto presto, dal momento che i lavori di sbancamento del terreno su cui doveva sorgere la fastosa Villa Borghese cominciarono già nel 1607. Si trattava di un terreno situato nella zona in cui Camillo, ancora prima di divenire papa, possedeva una vigna, la “vigna vecchia dei Borghese”, posta tra Muro Torto e Porta Pinciana, e il termine vinea (vigna) venne a lungo usato dai contemporanei per indicare tra tutti i possedimenti e le ville dei Borghese la sola Villa Pinciana. Attorno a questo piccolo possedimento i fratelli Francesco e Giovan Battista acquistarono tra il 1606 e il 1607 altri terreni; nel 1608 Scipione ricevette in regalo la vigna Avalo e questo atto segna la prima apparizione diretta di Scipione nella storia della villa. Tra gli edifici preesistenti, tutti di modesta entità, l’unico di rilevanza era il Casino del Graziano, conservatosi quasi intatto sino a oggi49. Nell’estate del 1608 venne terminato il grande portale di travertino e peperino di “gusto vignolesco”, e presumibilmente l’intero muro di cinta. Il Casino vero e proprio, che aveva però le dimensioni di grande villa, comincia a essere costruito tra l’estate del 1612 e il maggio del 1613, ma già nel marzo di quell’anno le opere cominciarono a esservi trasferite dal palazzo di Borgo. Intorno al 1618, con gli affreschi nelle costruzioni annesse all’edificio principale (l’Uccelliera, la Grotta dei vini, il Casino del Graziano) la grande impresa giunge a termine. Anche questa fabbrica, come tutte le precedenti, fu affidata a Flaminio Ponzio; alla sua morte nel 1613 subentrò Giovanni Vasanzio, che fu il responsabile del progetto decorativo eseguito tra il 1616 e il 1624. I primi spunti per l’idea costruttiva di un edificio che avesse la collocazione e le caratteristiche perfette della villa suburbana furono probabilmente suggeriti dalle esigenze maturate nelle ville tuscolane che potevano offrire grandi spazi di verde adatti alle passeggiate, alle cacce, ai banchetti, ai concerti, alle rappresentazioni. Nella Villa Pinciana, a differenza di queste, un immenso spazio verde che garantiva quiete e idillio agreste venne posto a contornare un edificio perfettamente urbano, vicinissimo al palazzo di città e ai palazzi pontifici, sufficientemente vasto da assolvere ai compiti di alta rappresentanza politica e diplomatica necessari al ruolo ufficiale rivestito dal Cardinal Padrone. Nonostante tutte le funzioni altamente abitative proprie di un palazzo di città vi fossero contemplate, non vi sono dati che suggeriscano che il cardinale abbia mai stabilmente abitato nella Villa Pinciana né che vi abbia fissato la propria residenza estiva, ma che piuttosto l’abbia costantemente frequentata durante il giorno per poi far ritorno in città. Vi custodiva infatti anche una biblioteca molto ben fornita con più di quattrocento volumi di cui solo una piccola parte riguardanti poesia, filosofia, letteratura, le letture insomma adatte a quell’ozio con dignità ritenuto da Annibal Caro50 degno della villeggiatura del signore. Negli inventari51 appaiono soprattutto titoli concernenti il diritto canonico, la teologia, la patristica, la politica e, in gran numero, la giurisprudenza, che era stata l’originaria disciplina del cardinale a Perugia, e tutti fanno propendere 34
Anna Coliva
12. Ermafrodito dormiente Parigi, Musée du Louvre (cat. 35, particolare)
piuttosto per l’ipotesi che in villa fosse stata predisposta una “biblioteca di lavoro” e non di ozio dove il cardinale poteva assolvere a tutti gli affari ecclesiastici. Alla biblioteca erano dedicati tre ambienti posti nell’ala sud del piano nobile, alla fine della galleria, attualmente indicati come sale XI, XII, XIII, che avevano la comodità di essere separate dai saloni da un disimpegno e di cui già le guide di Manilli e Montelatici indicavano il carattere prettamente privato. La Villa Borghese fuori Porta Pinciana sembra raggiungere un inedito compromesso rispetto ai modelli di dimora suburbana tra la villa estiva e il palazzo di città; ma con la caratteristica assolutamente eccezionale di avere, per espresso volere del suo artefice, una destinazione semipubblica grazie alla quale il visitatore poteva passeggiare nei giardini, accedere agli ambienti compresi nel parco e persino visitare la galleria52. I modelli d’origine dell’edificio sono facilmente individuabili già nel prototipo per eccellenza della villa romana rinascimentale, la Villa Chigi alla Lungara poi divenuta la Farnesina, di cui Villa Borghese ripete in particolare i due avancorpi e l’apertura al giardino attraverso il portico, la luminosità dell’interno, l’architettura concepita come entità trasparente che non interrompe la natura e la luce ma anzi la ingloba quasi come materia edilizia. Altre fondamentali opere realizzate a Roma nel Cinquecento come il Casino di Pio IV e la Villa Medici costituirono precisi modelli intermedi. Il primo, del quale Scipione Borghese doveva avere frequentazione ed esperienza diretta sorgendo all’interno dei giardini vaticani, fu modello soprattutto per il Palazzo del Giardino che fu infatti concepito in modo analogo nelle ridotte dimensioni architettoniche e nella vocazione a gravitare piuttosto verso gli spazi esterni. La più simile alla Villa Pinciana rispetto alla struttura e ai volumi finali fu invece la limitrofa villa concepiLa storia di una famiglia come avventura collezionistica
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Cat. 1
Giove II secolo d.C. (?), replica antica da un originale del 460 a.C. circa di Mirone (?) Marmo, altezza 197 cm Provenienza: ignota; documentato nella collezione Borghese a partire dal 1650 Restauri: Luigi Salimei, tra il 1781 e il 1784; Anne Liégey, 2010 Parigi, Musée du Louvre, Département des Antiquités grecques, étrusques et romaines, inv. MR 252 (Ma 33) • Fonti archivistiche ASV, Arch. Borghese 5704 (conto n. 208: anno 1683), cfr. app. doc. 12; ASV, Arch. Borghese 5398 (conto n. 783: anno 1784), cfr. app. doc. 27. Besançon, bibl. mun., Fondo Pâris, ms. 13, novembre 1807 - agosto 1808. Ms. 20, ff. 1518, 66 [dicembre 1807]; 117, 119-120 [gennaio 1809]. Ms. 21, ff. 24-26 [13 ottobre 1807]; 192-193, 30 settembre 1808; 218-219, 22 gennaio 1809; 224, 30 gennaio 1809. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Parigi, AMN, A6 1811 [maggio 1806], 6 gennaio 1808, [6 settembre] 1810, [gennaio 1811]. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Parigi, AN, O2 151, 14 maggio 1806. AF IV 272, tav. 1907, 27 settembre 1807. F21 573, [agosto 1808], 8 novembre 1808, 8 gennaio 1809, [9 novembre 1811]. F1e 147, fasc. 3, 3 gennaio, 13 gennaio, 6 giugno, 30 giugno 1810. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Parigi, BnF, Mss, naf 5986, ff. 90-93, 95-98, 100-101, [maggio 1806]. Pubbl. in FabrégaDubert 2009, I. Roma, Arch. AFR, faldone n. 17, ff. 565-566 [maggio 1809]. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. • Bibliografia Manilli 1650, p. 53; Montelatici 1700, p. 185; [Lamberti, Visconti] 1796, portico, p. 4, n. 4; Clarac 1830, n. 882; Froehner, 1869, p. 65, n. 34; Héron de Villefosse 1890, n. 1334; Furtwängler 1895, p. 188, n. 1; Héron de Villefosse 1896, n. 33; Reinach 1930, I, pp. 179-180; Kalveram 1995, p. 184, n. 46; Martinez 2004a, pp. 106-107, n. 164; FabrégaDubert 2009, II, p. 124, n. 246.
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L
a colossale statua di Giove è documentata per la prima volta nella collezione dal Manilli nel 1650. Verosimilmente parte del nucleo originario, era collocata, sopra un piedistallo quadrato di travertino, sul lato a destra della porta, oggi murata, che dal portico conduceva alla stanza del David (attuale sala I). La testa barbuta, non pertinente alla scultura originaria, è volta verso destra. Un mantello avvolge la statua intorno alle anche e ricade sulla spalla e sul braccio sinistro. Nella parte inferiore a destra è posta un’aquila, con la testa rivolta verso il dio. Giove stante tiene nella mano destra il fulmine e l’hasta nella sinistra, seguendo un modello riscontrabile in alcune medaglie del II secolo (Montelatici 1700). Secondo
Lamberti e Visconti (1796) Giove teneva originariamente nella mano destra lo scettro, simbolo del suo potere, impropriamente sostituito con una lancia da un intervento di restauro. In realtà già un documento del 1683 cita l’integrazione della lancia posta in mano alla divinità. La posizione della statua non venne mutata in occasione del riammodernamento tardo settecentesco della villa, che ne conservò la simmetria con la statua di Pan (cat. 2) disposta sul lato opposto del portico. Sull’opera, che dovette risentire ab antiquo della lunga esposizione all’esterno, pur protetta dal loggiato, intervenne tra il 1781 e il 1784 Luigi Salimei, che riattaccò la testa riportata e frammenti della lancia, risarcendo altresì alcune parti in stucco (naso, fiocco della lancia, alcune pieghe del manto).
ome la statua di Pan, anche quella di Giove ritrova in occasione della mostra una collocazione simile a quella originaria. Visconti, incaricato da Napoleone di preparare l’acquisizione della collezione, classifica la statua nella terza fascia. Secondo i criteri di valutazione dell’antiquario, i restauri effettuati sulle membra della divinità e la mancata pertinenza della testa inficiavano l’autenticità dell’opera e, dunque, il suo valore scientifico. Nelle carte di Visconti il prezzo stimato della statua conosce un’evoluzione, passando da diecimila a seimila franchi, stima rimasta inalterata anche nelle diverse stesure del decreto di acquisizione, e che corrisponde al valore assegnato, in genere, alle opere di questa categoria. Come le altre tre statue presenti nel portico in epoca neoclassica – Pan, Tersicore (fig. 1) e Venere (fig. 23) – anche Giove era collocato su un piedistallo di marmo con pannelli di lumachella, che Visconti definisce “superbo”, diversamente da PierreAdrien Pâris, commissario francese incaricato di prelevare e spedire gli oggetti acquisiti, che invece giudica i piedistalli delle tre sculture “bassi e di proporzioni poco armoniche”. La statua venne imballata con parte del suo plinto moderno, contemporaneamente a quella di Pan, il 15 gennaio 1808. Tenuto conto della categoria di appartenenza, Giove era destinato al trasporto via mare, meno costoso di quello via terra, riservato agli oggetti più belli della collezione. Stoccata inizialmente a Ripa Grande, il 15 marzo 1809, la cassa venne trasferita a Civitavecchia, in quanto la presenza della flotta inglese alla foce del Tevere rendeva poco sicuro il deposito scelto in un primo momento. La statua, dunque, lasciò Roma il 28 giugno 1810 e, via terra, raggiunse finalmente Parigi il 22 novembre. I quattro piedistalli delle statue del portico figurano nel decreto di acquisizione, in cui il loro valore complessivo ammonta a ottomila franchi. Visconti, tut-
tavia, aveva formulato diverse ipotesi, facendo oscillare questa stima tra i quattromila e i diecimila franchi. Il dado del piedistallo della statua di Giove risulta imballato insieme a quello di Venere e a un frammento di bassorilievo della facciata principale. Trasportata da Ripa Grande a Civitavecchia, la cassa fu spedita l’11 gennaio 1810 e giunse a Parigi, via terra, il 6 agosto. Attualmente, non si è riusciti a individuare questi piedistalli all’interno delle collezioni. La statua antica ha subito numerosi interventi di risarcimento. Il recente restauro ha rivelato tre marmi diversi: il marmo antico a grana grossa utilizzato per il corpo; il marmo a grana più fitta, sicuramente moderno, visibile nell’avambraccio destro e nella saetta, nell’avambraccio sinistro, nella testa dell’aquila e nello scettro, la cui parte inferiore è oggi mancante; infine, il marmo venato di grigio impiegato per la testa che appare moderna. L’insieme risulta coperto da una patina di colore arancione, in parte eliminata, che serviva a rendere omogenea la superficie della statua. Il frammento antico raffigura un corpo parzialmente coperto da un drappeggio, secondo un modello assai diffuso nel mondo romano e noto attraverso una statua restaurata come Esculapio, appartenente alla collezione Campana (oggi a San Pietroburgo). Secondo A. Furtwängler e S. Reinach, si tratterebbe di una delle copie di un Giove attribuito a Mirone giovane (460 a.C. circa) sulla base di un accostamento con la figura semidrappeggiata del re degli dei visibile sul frontone est del tempio di Olimpia. Il motivo potrebbe echeggiare un’opera greca, a prescindere dal fatto che l’ipotesi di A. Furtwängler e S. Reinach venga confermata o meno. La statua Borghese attesta, comunque, che questo modello fu proprio utilizzato per la rappresentazione di Giove.
C
Giove
(Silvia Mazzella, Marie-Lou Fabréga-Dubert, Jean-Luc Martinez)
Cat. 2
Pan II secolo d.C. (?), replica antica di un originale del II secolo a.C. (?) attribuito a Eliodoro di Rodi Marmo, 158 cm Provenienza: ignota; documentato intorno al 1550 nella collezione del cardinale Rodolfo Pio da Carpi (Monte Cavallo, Roma, n. 18 inciso sulla roccia) poi a Villa Pinciana a partire dal 1650 Restauri: Luigi Salimei, tra il 1781 e il 1784; Véronique Picur, 2002 Parigi, Musée du Louvre Département des Antiquités grecques, étrusques et romaines, inv. MR 313 (Ma 266) • Fonti archivistiche ASV, Arch. Borghese 5716 (conto n. 73: anno 1687), cfr. app. doc. 13; ASV, Arch. Borghese 5398 (conto n. 783: anno 1784), cfr. app. doc. 27; ASV, Arch. Borghese 1007, n. 270, p. 1 (Inv.: anno 1762). Besançon, bibl. mun., Fondo Pâris, ms. 13, novembre 1807 - agosto 1808. Ms. 20, ff. 15-18, 66 [dicembre 1807]; 117, 119-120 [gennaio 1809]. Ms. 21, ff. 24-26 [13 ottobre 1807]; 72, 9 gennaio 1808; 192-193, 30 settembre 1808; 218-219, 22 gennaio 1809; 224, 30 gennaio 1809. Pubbl. in FabrégaDubert 2009, I. Parigi, AMN, A6 1811 [maggio 1806], 6 gennaio 1808, [6 settembre] 1810, [gennaio 1811]. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Parigi, AN, O2 151, 14 maggio 1806. AF IV 272, tav. 1907, 27 settembre 1807. F21 573, [agosto 1808], 8 novembre 1808, 8 gennaio 1809, [9 novembre 1811]. F1e 147, fasc. 3, 3 gennaio, 13 gennaio, 6 giugno, 19 giugno 1810. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Parigi, BnF, Mss, naf 5986, ff. 90-93, 95-98, 100101, [maggio 1806]. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Roma, Arch. AFR, faldone n. 17, ff. 565-566, [maggio 1809]. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. • Fonti iconografiche Giambologna (attr.), Codex Cantabrigensis 15501553, Cambridge, Trinity College Library, ms. R 17, 3; Polidoro da Caravaggio (attr.) in Bean 1960, n. 272; Percier, Parigi, Bibliothèque de l’Institut, ms. 1008, f. 24, n. 51. • Bibliografia Aldrovandi 1556, p. 309, Manilli 1650, p. 54; Montelatici 1700, p. 187; [Lamberti, Visconti] 1796, portico, n. 1; Visconti 1817, n. 288; Clarac 1820, n. 506; Bins de St-Victor [1821], [tav. n. n. tra pp. 147 e 148]; Clarac 1830, n. 506; Clarac 1826-1853, tav. 325, n. 1775; Froehner 1869, p. 285, n. 287; Héron de Villefosse 1890, n. 1596; Michaelis 1892, p. 96, nn. 29-30; Héron de Villefosse 1896, n. 266; Hülsen 1917, p. 63, n. 103; Brommer in Realencyclopädie 1956, suppl. VIII, col. 988, n. 17; Dhanens 1963, p. 182, nn. 29-30, tavv. 44-45; Fileri 1985, pp. 25-26, n. 23; Kalveram 1995, p. 186, n. 49; Marquart 1995, n. 13; Boardman in LIMC 1997, VIII, p. 929, n. 119, tav. 622; Leibundgut 1999, pp. 369-372, 403-405, n. XIV, tav. 111, 3; Martinez 2004a, p. 149, n. 0253; Fabréga-Dubert 2009, II, p. 120, n. 234.
236
U
n disegno del Codex Cantabrigensis, attribuito all’artista fiammingo Giambologna (pseudonimo di Jean de Boulogne), attesta la presenza di questa scultura nella vigna del cardinale Rodolfo Pio da Carpi, come indicato dalla legenda “im the fin iard of Cardinal de Carpe”. L’espressione fin iard, infatti, è derivata dal fiammingo wijngaard, vale a dire “vigna” (Michaelis 1892; Dhanens 1963; Fileri 1985). È nota l’importanza rivestita da questa collezione, formata dal cardinale, amante delle arti e di raffinata erudizione umanistica, intorno alla metà del XVI secolo nel suo giardino sul Quirinale. Della stessa è rimasta memoria nella minuziosa e dettagliata relazione fattane dall’Aldrovandi nel 1556, in verità molto preziosa, poiché la raccolta Carpi è stata smembrata e venduta dopo la morte del cardinale, avvenuta nel 1564. Qui, l’autore ha ammirato tra le altre, una statua di “un satiro assiso in un tronco” posto su una pelle ferina, giudicandolo “assai bello” (Aldrovandi 1556). La descrizione del pezzo coincide perfettamente con quanto inciso dal Giambologna (15501553): il Pan era acefalo, privo di entrambe le braccia,
della parte inferiore delle zampe ferine ed era seduto su una roccia coperta da una pelle di leopardo. Quasi un secolo dopo, la scultura è attestata con sicurezza all’interno della collezione Borghese. Citata da Manilli (1650) quale “statua di un Satiro”, era collocata “nel portico” di lato alla porta d’ingresso, che conduceva al salone della villa (attuale salone di Mariano Rossi). Sempre nello stesso sito è documentata da Montelatici (1700), che la indica come “Satiro sedente, ovvero Pan dio dei pastori con un flauto e un grappo d’uva nella mani”, da Lamberti e Visconti (1796) e da un disegno di Percier, della seconda metà del XVIII secolo, utile nel fornire una memoria visiva d’insieme della sua collocazione. Probabilmente integrato della testa, delle braccia e degli attributi moderni, subito dopo essere entrato nella raccolta Borghese, come si evince dalle descrizioni di Manilli e Montelatici, fu restaurato dallo scultore Luigi Salimei in un periodo compreso tra settembre del 1781 e settembre del 1784, come riportato nei documenti d’archivio.
ell’allestimento neoclassico della villa voluto da Marcantonio IV, la statua, esposta nel portico, si trovava a sinistra, in posizione d’angolo rispetto alla facciata. La sua collocazione ai fini della presente mostra risulta, dunque, leggermente diversa. Al pari delle altre tre statue d’angolo – Tersicore (fig. 1), Venere (fig. 23) e Giove (cat. 1) – anch’essa poggiava su un piedistallo di marmo rivestito di pannelli di lumachella orientale, con cornice e base di marmo bianco. Visconti, incaricato da Napoleone di preparare l’acquisizione dei marmi Borghese, la classifica nella seconda fascia. I restauri effettuati per inserire una testa e le braccia, nonché la parte inferiore delle gambe, ne avevano alterato l’integrità e ne compromettevano, anche tenuto conto dei criteri di valutazione dell’antiquario, la funzione di copia antica autentica di un originale antico ormai perduto. Visconti assegna all’opera il valore di dodicimila franchi, conforme a quello stabilito in genere per le statue della stessa categoria, sebbene nei suoi appunti di lavoro si trovi anche un’ipotesi di stima a diecimila franchi. L’antiquario vi include anche il piedistallo che definisce “superbo”, ma il suo giudizio sembra differire da quello di Pierre-Adrien Pâris, commissario francese incaricato di prelevare e spedire gli oggetti acquisiti, che, invece, ritiene il piedistallo in questione “basso e di proporzioni poco armoniche”. Il 15 gennaio 1808 la statua venne messa in cassa e, successivamente, in luglio, depositata presso l’arsenale di Ripa Grande, in attesa di una spedizione via mare, meno costosa rispetto al trasporto via terra, riservato agli oggetti più belli della collezione. Per sfuggire alla minaccia inglese che gravava su Roma e sul commercio nel Mediterraneo, le spedizioni furono sospese e quasi tutti gli articoli stoccati trasferiti a Civitavecchia, dove la cassa di Pan giunse il 20 marzo 1809. Occorrerà attendere il 19 giugno 1810 perché essa lasci finalmente Roma via terra e arrivi al Musée Napoléon il 14 settembre di quello stesso anno. Stimato da Visconti prima mille poi duemilacinquecento franchi, il piedistallo figura valutato, nel decreto di acquisizione, duemila franchi. Il suo dado fu collocato nella stessa cassa insieme a quello della statua
di Tersicore (fig. 1) e a un bassorilievo della facciata principale. Trasportata a Civitavecchia, la cassa partiva, via terra, per Parigi l’11 gennaio 1810. Il suo arrivo è registrato il 6 agosto, ma attualmente non si è riusciti a identificare questi piedistalli nell’ambito delle collezioni. Nel 1817 l’opera fu esposta al Louvre, nel corridoio di accesso agli appartamenti invernali della regina, che alla statua deve il suo nome. I disegni del XVI secolo mostrano la statua prima del restauro o con una testa diversa. Comunque stiano le cose, le parti integrate risultano chiaramente identificate (solo le zampe da capra!) e la superficie presenta la stessa velatura arancione, parzialmente rimossa, visibile sulla statua di Giove (cat. 1), il che autorizza l’ipotesi che le condizioni di esposizione sotto il portico di Villa Pinciana siano all’origine di questo colore artificiale. Le braccia, una parte del flauto e la testa rincollata sembrano, invece, piuttosto antiche come attesterebbe, riguardo a quest’ultima, la continuità delle ciocche sui due frammenti. La testa diversa, visibile nel disegno della collezione Bonnat, sarebbe stata, dunque, tolta e sostituita con la testa originale rinvenuta nel frattempo. La statua riproduce in parte (ma il plinto e la roccia sembrano danneggiati e ritagliati) un gruppo scultoreo perduto raffigurante Pan che insegna al pastore Dafni, seduto accanto a lui, a suonare il flauto. La composizione è nota attraverso una ventina di copie antiche, più o meno integre, di cui le più celebri sono conservate a Napoli, a Roma nella collezione Ludovisi, o al museo Torlonia, e a Torino (si veda lo studio di Annalis Leibundgut). Il contrasto tra la bruttezza di Pan e la dolcezza di Dafni, il gusto di un’ambientazione bucolica (la roccia, il lagobolo, la pelle di animale) al pari della composizione sintattica, richiamano alla mente le opere del tardo ellenismo per quel gusto definito a volte anacronisticamente “rococò”. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (XXXVI, 29) menziona un celebre gruppo creato su questo tema dallo scultore Eliodoro di Rodi. (Irene Petrucci, Marie-Lou Fabréga-Dubert, Jean-Luc Martinez)
N
Pan
Cat. 3
Vaso Borghese Scuola neoattica, 40-30 a.C. circa Marmo pentelico (coppa); piede moderno; altezza 172 cm, diametro 135 cm Provenienza: rinvenuto presso gli Horti Sallustiani a Roma, poco prima del 1569, nella proprietà di Carlo Muti; esposto a Villa Pinciana a partire dal 1645 Restauri: Vincenzo Pacetti, 1781; Luigi Salimei, 1796 Parigi, Musée du Louvre, Département des Antiquités grecques, étrusques et romaines, inv. MR 985 (Ma 86) • Fonti archivistiche ASV, Arch. Borghese 420, p. 96 (Inv.: anno 1725); ASV, Arch. Borghese 1007, n. 270, p. 57 (Inv.: anno 1762); ASV, Arch. Borghese 5391 (conto n. 647: anno 1781), cfr. app. doc. 22; ASV, Arch. Borghese 5438 (conto n. 1533: anno 1796), cfr. app. doc. 30. Besançon, bibl. mun., Fondo Pâris, ms. 13, novembre 1807 - agosto 1808. Ms. 20, ff. 15-20, 66 [dicembre 1807]; 105 [aprile 1808]; 107, 109, 29 luglio 1808. Ms. 21, ff. 24-26 [13 ottobre 1807]; 103-105, 26 marzo 1808; 111, 14 aprile 1808; 125, 6 maggio 1808; 195-196, 13 ottobre 1808; 197, 29 ottobre 1808; 200, 15 novembre 1808; 212, 16 dicembre 1808; 216-217, 20 gennaio 1809. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Parigi, AMN, A6 1811, [maggio 1806], 6 gennaio, 11 ottobre 1808, 28 agosto 1809. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Parigi, AN, O2 151, 14 maggio 1806. AF IV 272, tav. 1907, 27 settembre 1807. F21 573, [agosto 1808]. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Parigi, BnF, Mss, naf 5986, ff. 82-83, 88-89, 92-93, 95-98, 100-101, [maggio 1806]; naf 5987, ff. 258259, [aprile 1808]. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. • Fonti iconografiche Perrier 1645, tavv. 10-11; Piranesi, Roma, Istituto Nazionale della Grafica, CL 2412 e CL 2418; Percier, Parigi, Bibliothèque de l’Institut, ms. 1008, f. 27, n. 55. • Bibliografia Vacca [1594] in Fea 1790; Manilli 1650, p. 49; Montelatici 1700, p. 265; [Lamberti, Visconti] 1796, stanza II, p. 40, nn. 9-10; [Visconti] 1811, n. 276; [Visconti] 1815, n. 276; Visconti 1817, n. 353; Clarac 1820, n. 711; Visconti 1821, pp. 30-32; Clarac 1830, n. 711; Clarac 1826-1853, tav. 130131, nn. 142-143; Froehner 1869, n. 235; Héron de Villefosse 1890, n. 1386; Héron de Villefosse 1896, n. 86; Truszowski 1983, pp. 3-16; Haskell, Penny 1984, pp. 468-470, n. 83; Lanciani 1994, V, p. 38, fig. 39; Hamiaux 1998, pp. 199-201, n. 217; Grassinger 1991, pp. 281-283, n. 23; Cuzin in D’après l’Antique 2000, p. 384, n. 190; Raspi Serra 2002, pp. 410-411, fig. 49; Borbein, Kunze 2003, pp. 235-236; Martinez 2004a, pp. 578, n. 1163; Martinez 2004b, pp. 144, 154, 156, fig. 167; Pasquier in 100 chefs-d’oeuvre 2007, p. 221; Herrmann-Fiore 2008, p. 238; Fabréga-Dubert 2009, II, pp. 182-183, n. 351.
238
I
l celebre Vaso Borghese, monumentale cratere posto al di sopra di una base moderna, presenta la parte inferiore convessa lavorata con un motivo baccellato, mentre la superiore parte concava ospita un fregio scolpito, terminante nell’orlo decorato da ovoli sormontati da una fila di perle. Due coppie di teste di sileni, rilavorate, ornano simmetricamente i fianchi del vaso, indicando quelli che dovevano essere i punti di giuntura delle perdute anse. Il fregio scolpito attorno al corpo del cratere rappresenta un corteo dionisiaco di dieci figure. Un giovane Bacco, seminudo e appoggiato a un tirso, è accostato a una figura femminile che suona la lira, identificata con Arianna. I due sono accompagnati da un seguito di satiri e menadi che suonano e danzano. Al di sopra della scena corre un nastro costituito due tralci vitinei. Il vaso venne scoperto entro il 1569 in una vigna di proprietà di Carlo Muti, situata all’interno del complesso degli Horti Sallustiani a Roma (Lanciani 1994). Il ritrovamento viene ricordato nel 1594 da Flaminio Vacca, che racconta come Muti rinvenne, assieme al vaso, un Sileno e Bacco bambino (Haskell, Penny 1984, si veda cat. 56). Entro il 1645 il vaso viene esposto in Villa Borghese (Perrier 1645; Haskell, Penny 1984) e nel 1650 Manilli lo ricorda presso la facciata meridionale della Palazzina Pinciana, tra le finestre esterne, affiancato da
due statue di gladiatori alla stregua del Marsia (cat. 54), posto in simmetrica corrispondenza sulla facciata nord (Herrmann-Fiore 2008). Agli esordi del Settecento il cratere viene ricordato all’interno del Casino, nella loggia di Lanfranco, al primo piano dell’edificio (Montelatici 1700). Alla fine del secolo l’opera, restaurata da Vincenzo Pacetti e Luigi Salimei (1781 e 1796, cfr. app. doc.), cambia nuovamente collocazione (Lamberti, Visconti 1796), risultando sistemata al centro della sala che da essa prenderà il nome: la stanza del Vaso (attuale sala I). Il pregio di questo capolavoro della scultura neoattica, collocabile tra i più bei vasi pervenuti dall’antichità assieme all’affine Vaso Medici (e con questo talvolta erroneamente accostato, fino all’Ottocento, al nome di Fidia), non sfuggì ai commentatori. Winckelmann ricordò “il bel vaso di marmo” come uno dei monumenti più straordinari di Villa Borghese (Raspi Serra 2002), mentre Visconti (1821) lo definì, tra i vasi marmorei antichi, “per l’eccellenza del suo lavoro di tutti assolutamente il più bello e pregevole”. Il Vaso Borghese divenne così uno dei simboli più ammirati dell’antica Roma e come tale venne replicato in molteplici copie e rappresentato in numerose vedute della città quale uno dei pezzi più appropriati a illustrarne il fascino (Haskell, Penny 1984; Cuzin in D’après l’Antique 2000, p. 384).
sposto nel salone in occasione della presente mostra, simboleggia, fin dall’entrata, la ricchezza della collezione. Visconti lo annovera tra gli oggetti di valore incommensurabile, e lo include tra i sette capolavori della collezione Borghese: l’eccezionalità delle dimensioni, la bellezza della forma, la rispondenza perfetta tra decorazione a motivi bacchici e funzione, l’eleganza della composizione e del disegno, l’interesse dei dettagli insoliti, nonché la maestria della fattura, rendevano il vaso, agli occhi dell’antiquario, un testimone prezioso dell’arte antica, uno dei monumenti classici dell’arte greca meglio conservati. Ricevuto da Napoleone l’incarico di preparare l’acquisizione, Visconti fissa il prezzo del pezzo a duecentomila franchi, compreso il piedistallo. Pierre-Adrien Pâris, commissario francese incaricato a Roma di prelevare e spedire gli oggetti acquisiti, precisa che il piede, moderno, era di marmo di Carrara, e rileva l’errore grossolano commesso nel decreto di acquisizione dove il pezzo risulta citato come “Vaso Medici”. Per sollevare il cratere dal piedistallo, Pâris racconta che gli operai dovettero servirsi di un paranco: l’1 marzo 1808, issato di qualche pollice, il cratere venne assicurato e, infine, smontato dal piedistallo il giorno seguente. Essendosi il piede leggermente staccato dalla coppa, si cercò di separare completamente i due pezzi, ma il tentativo fallì in quanto il perno che li teneva uniti era stato sigillato con del piombo. Si procedette, dunque, a saldare nuovamente le due parti tramite una stuccatura e il 16 marzo 1808 il vaso venne collocato in cassa insieme ad alcuni bassorilievi provenienti dalle facciate. Poiché la cassa era troppo grande per passare dalle normali porte della sala in cui si trovava, gli operai furono costretti a smontare la porta comunicante con il portico, dove venne sistemata la cassa. Era stato deciso di trasportare il vaso in posizione verticale, come il Gladiatore (fig. 194). Questo complicava la progettazione dei carri del trasferimento: prevedere delle so-
spensioni o fissare saldamente la cassa alle stanghe, dopo aver preso le dovute precauzioni per ammortizzare urti e vibrazioni? L’esperienza del convoglio organizzato per il trasporto del Gladiatore convinse i commissari della necessità di far viaggiare il vaso su un carro a sei sospensioni. Poiché l’imballaggio non doveva toccare le stanghe, la larghezza del carro fu aumentata e i commissari fecero misurare al corriere tutti i passaggi stretti del percorso così da esseri certi che il carro potesse superarli! Il 19 luglio 1808, la cassa venne montata con grande difficoltà sul suo carro. In questa seconda spedizione via terra viaggiavano altri tre capolavori della collezione. Lasciata Roma il 3 agosto 1808, il convoglio giunse a Parigi il 12 ottobre. Le due casse del piedistallo, contenenti il dado cilindrico di porfido, la base e la cornice di marmo bianco e lo zoccolo, vennero depositati presso il magazzino di Ripa Grande, in attesa di un eventuale trasporto marittimo. In realtà, poi, si procedette a spedirle via terra, insieme ai piedistalli del Gladiatore e del Sileno e Bacco bambino (cat. 56), per non ritardare la prima esposizione ufficiale di questi capolavori al Musée Napoléon. La lentezza dei lavori di allestimento delle sale fece tuttavia slittare l’evento al 1811: la presentazione ufficiale del vaso avvenne in occasione del battesimo del re di Roma e dell’inaugurazione della sala dei Fiumi. Nel 1817 l’opera si trovava ancora nella stessa sala, ribattezzata ormai sala delle Cariatidi. Questo cratere a calice rappresenta la versione in marmo ateniese del monte Pentelico di una tipologia di vaso da banchetto in bronzo apparsa nel IV secolo a.C. Il repertorio decorativo s’ispira all’arte greca classica. Due crateri della stessa scuola, scoperti in un relitto riportato alla luce al largo di Mahdia (Tunisia), attestano la diffusione di questa produzione ateniese destinata a una clientela di ricchi romani. (Giorgia Pellini, Marie-Lou Fabréga-Dubert, Jean-Luc Martinez)
E
Vaso Borghese
Cat. 5
Achille detto Ares Borghese I secolo a.C. o I secolo d.C., replica antica da un originale del 420 a.C. circa (?) di Alcamene Il braccio sinistro è di Agostino Penna; la spada, di epoca moderna, è andata perduta nel XVIII secolo e il cimiero, moderno, dell’elmo è stato tolto prima del 1881 Marmo, altezza 211 cm Provenienza: ignota; nel XVI secolo ne è documentata la presenza all’interno della collezione di Tiberio Ceoli presso il palazzo di via Giulia; nel 1607 il cardinale Scipione Borghese acquista la statua insieme alla collezione Ceoli Restauri: Agostino Penna, 1774; George-Louis Barthe, 2001 Parigi, Musée du Louvre, Département des Antiquités grecques, étrusques et romaines, inv. MR 65 (Ma 866) • Fonti archivistiche ASV, Arch. Borghese 348, n. 32 (anno 1607), ed.: de Lachenal 1982, p. 84 [21]; ASV, Arch. Borghese 37, n. 616 (anno 1610), ed.: de Lachenal 1982, p. 96 [2]; ASV, Arch. Borghese 5840 (conto n. 143: anno 1774), cfr. app. doc. 18; ASV, Arch. Borghese 8253, f. 40, ed.: Guerrieri Borsoi 2001, p. 161. Besançon, bibl. mun., Fondo Pâris, ms. 13, novembre 1807 - agosto 1808. Ms. 20, ff. 15-18, 66, [dicembre 1807]; 105 [aprile 1808]; 107, 109, 29 luglio 1808; 117 [gennaio 1809]. Ms. 21, ff. 24-26, [13 ottobre 1807]; 103-105, 26 marzo 1808; 111, 14 aprile 1808; 163, 3 agosto 1808; 192-193, 30 settembre 1808; 195-196, 13 ottobre 1808; 218-219, 22 gennaio 1809; 224, 30 gennaio 1809. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Parigi, AMN, A6 1811, [maggio 1806], 6 gennaio1808, [6 settembre] 1810, [gennaio 1811]. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Parigi, AN, O2 151, 14 maggio 1806. AF IV 272, tav. 1907, 27 settembre 1807. [2 febbraio 1808], F21 573, [agosto 1808], 8 novembre 1808, 8 gennaio 1809, [9 novembre 1811]. F1e 147, fasc. 3, 3 gennaio, 13 gennaio, 13 agosto 1810. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Parigi, BnF, Mss, naf 5986, ff. 92-93, 95-98, 100101, [maggio 1806]; naf 5987, ff. 258-259, [aprile1808]. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Roma, Arch. AFR, faldone n. 17, ff. 563-564, [maggio1809]. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. • Fonti iconografiche Boscoli, Roma, Gabinetto Disegni e Stampe, FC 130645, cat. 18, album 1, f. 6 (ed.: Forlani 1963, p. 163, n. 302); Perrier 1638, tav 39. • Bibliografia Winckelmann 1767, IV, pp. 429-430; “Giornale delle Belle Arti”, n. 23, 5 giugno 1784, p. 178; [Lamberti, Visconti] 1796, stanza I, pp. 22-23, n. 9; Visconti 1817, n. 115; Clarac 1820, n. 144; Bins de St-Victor [1821], II [tav. 14 p. n. n. tra le pp. 28 e 29]; Visconti 1821, I, pp. 18-27, tav. V; Clarac 1830, n. 144; Clarac 1826-1853, tav. 263, n. 2073; Froehner 1869, p. 515, n. 127; Héron de Villefosse 1890, n. 2111; Héron de Villefosse 1896, n. 866; Bruneau 1982, pp. 177-199; de Lachenal 1982, pp. 53, 60, 64, 74, 78, 115, nn.
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eroe nudo, noto come Ares Borghese, avanza con la gamba destra cinta da un anello sopra la caviglia, la testa lievemente reclinata coperta dall’elmo decorato da grifi a bassorilievo. In origine doveva impugnare lo scudo nella mano sinistra. Le braccia, dalla metà sino alle mani, sono state restaurate da Agostino Penna che aggiunse anche il cimiero all’elmo. Il restauro, saldato per cinquanta scudi nel dicembre del 1774 (Guerrieri Borsoi 2001), non è descritto dai documenti d’archivio. È Visconti (1821) a darne notizia nelle pagine memorabili dedicate al simulacro da lui riconosciuto come “Achille”, per l’adesione dei tratti alla descrizione omerica dell’eroe greco: il contrasto tra il moto minaccioso e possente e la grazia quasi muliebre del corpo; i capelli divisi in morbide ciocche lunghe, il collo forte e ampio. L’anello alla caviglia è un oggetto parlante, allusivo dell’unica vulnerabilità del corpo; le decorazioni dell’elmo, simili a quelle dell’Atena fidiaca, ricordano la divinità protettrice dell’eroe. Un disegno del tardo Cinquecento di Andrea Boscoli raffigura la scultura assieme a una statua di Mercurio e ricorda, nella didascalia, che esse appartenevano alla collezione di Tiberio Ceoli nel palazzo di via Giulia (Forlani 1963; de Lachenal 1982). Come è noto, il cardinale Scipione Borghese acquista da Lelio Ceoli, nel 1607, l’intera collezione di
sculture e di antichità, per la cifra complessiva di novemila scudi. Riconosciamo l’Ares nell’“Alessandro Magno nudo alto p. 9 ¼” elencato tra i beni della vendita e nell’inventario della primogenitura Borghese del 1610 (de Lachenal 1982). Sotto lo stesso nome lo descrive ancora Perrier (1638): è l’“Alexander in ludo in Hortis Burghesiani” nell’indice del suo repertorio a stampa delle più celebri statue romane. È questa l’unica traccia della sua collocazione seicentesca: in Hortis, forse nella stessa Villa Pinciana. Se così fosse stato, di certo non vi era più nel 1650, dal momento che non compare nella guida completa di Manilli. Lo ritroviamo nelle pagine di Winckelmann (1767) tra le opere del Palazzo Borghese di Campo Marzio, sul primo loggiato della corte, interpretato come un guerriero o “Marte”, con il cerchio intorno alla caviglia destra secondo la tradizione spartana, riferita da Pausania, di porre in vincoli il simulacro del dio per “godere della sua protezione perpetua” (Raspi-Serra 2002). Trasportata nella Villa Pinciana, assume un ruolo centrale nell’allestimento del salone d’ingresso rinnovato da Asprucci, dove domina l’edicola del lato corto di destra (Lamberti, Visconti 1796), opposta al grande Mercurio (cat. 10) restaurato dallo stesso Penna pochi mesi dopo.
on la sua imponente presenza, la statua, all’interno dell’edicola di porfido in cui era stata collocata, contribuiva al prestigio della sala. In occasione della presente mostra, l’Ares è esposto davanti la suddetta edicola come rappresentato nel disegno di Percier, incaricato da Napoleone di effettuare una stima dei marmi Borghese che egli desiderava acquisire, la definisce insigne, la classifica nella prima fascia e le assegna il valore di ventiquattromila franchi. Contestando le conclusioni di Winckelmann, l’antiquario del Musée Napoléon riusciva a dimostrare che questa figura dal fascino indiscutibile, non corrispondeva alle antiche descrizioni del dio della guerra, ma piuttosto a quella della statua di Achille, l’eroe che Teti aveva tenuto per la caviglia, che Cristodoro Tebano aveva visto nel ginnasio di Zeusippo a Costantinopoli e della quale esistevano numerose copie. Proprio come per il Mercurio della stessa sala (cat. 10), anche il plinto dell’Ares, molto assottigliato e irregolare, era incastrato e sigillato a piombo nella cornice di marmo del piedistallo. Le gambe danneggiate e molto sottili compromettevano l’integrità della statua. È quindi con l’ausilio di una sorta di ponteggio che essa viene sollevata, insieme al plinto e alla cornice con cui era ancora solidale, e fatta scendere dal piedistallo, il 26 febbraio 1808, in contemporanea con la statua di Mercurio che presentava difficoltà analoghe. Considerata alla stessa stregua dei capolavori della collezione, come la Venere vincitrice (cat. 32) viene spedita via terra su un carro a sospensioni fabbricato a questo scopo. Il 3 agosto 1808 lascia Roma con il secondo convoglio e arriva al Musée Napoléon il 12 ottobre. Il piedistallo, rivestito di splendido porfido, è identico a quello del Mercurio (cat. 10), con la cornice e la base di marmo bianco dalle modanature scolpite con motivi ornamentali. Visconti, nei suoi appunti di lavoro, assegna ai dieci piedistalli il valore di trentamila fran-
chi, ma il prezzo definitivo risulta fissato a quarantamila franchi. I dadi di quelli di Mercurio e di Achille furono svuotati e inseriti nella stessa cassa con della segatura e la cassa stoccata presso l’arsenale di Ripa Grande, in attesa di una possibile spedizione via mare. Tenuto conto del peso e del valore relativamente modesto del suo contenuto, non era previsto da Pierre-Adrien Pâris, commissario francese incaricato delle operazioni logistiche a Roma, il trasferimento della cassa a Civitavecchia, per sfuggire alla minaccia inglese che gravava su Roma. In realtà lo spostamento avvenne ugualmente il 4 aprile 1809. Nel 1810 la cassa fu finalmente spedita via terra e, sebbene gli addetti registrino l’arrivo dei piedistalli al Musée Napoléon, attualmente di questi si è persa ogni traccia nelle collezioni. Nel 1817, la statua fu esposta per la prima volta al Musée Royal, nella sala del Centauro, ex sala del Laocoonte, e qui si trovava ancora nel 1820 e nel 1830. Nel 1890 fu spostata presso la Rotonda di Marte e, nel 1963, nella sala di Policleto (precedentemente detta di Pallade). La statua – uno dei nudi maschili più ammirati – è all’origine di un nutrito corpus di studi archeologici. Noto attraverso altre copie (teste si trovano al Louvre, a Dresda, ad Antakya, a Monaco, in Laterano; mentre una statua è stata rinvenuta, ad esempio, presso le terme di Leptis Magna) e ripreso in composizioni raffiguranti la coppia imperiale, il modello sembra riprodurre un originale attico della fine del V secolo a.C. Potrebbe trattarsi semplicemente di un eroe e non di un dio. L’anello alla caviglia destra è stato interpretato come un’allusione alla trappola tesa da Efesto ad Ares, l’amante di sua moglie Afrodite, per questo qualcuno ha pensato di riconoscere nell’Ares Borghese l’Ares di Alcamene, descritto da Pausania sull’Agorà di Atene. Il tempio di Ares, tuttavia, sarebbe stato trasferito da Acarne ad Atene in età augustea e l’Ares di Acarne, noto so-
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110-111; Di Castro, Fox 1982, pp. 104-108, n. 48; Hartswick 1990, pp. 227-283; Bruneau 1993, pp. 401-405; Guerrieri Borsoi 2001, pp. 146-147; Raspi, Serra 2002, VI.1, pp. 224-225; Kalveram 1995, pp. 9, 138 n. 1, 144, fig. 139; Borbein, Kunze 2003, p. 220; Martinez 2004a, pp. 21-22, n. 001; Martinez in 100 chefs-d’œuvre 2007, pp. 122-123; Fabréga-Dubert 2009, II, p. 165, n. 306.
prattutto attraverso i bassorilievi, raffigura il dio vestito e con indosso una corazza. Hartswick ha proposto di risolvere la contraddizione ipotizzando che il tipo dell’Ares Borghese possa essere una creazione romana del I secolo a.C., concepita proprio in occasione del suddetto trasferimento. In questa selva di congetture indimostrabili, le uniche certezze sembrano la celebrità del modello e la sua appartenenza allo stile attico della fine del V secolo a.C. (Elisabetta Sandrelli, Marie-Lou Fabréga-Dubert, Jean-Luc Martinez)
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Sacrificanti Rilievo noto anche come Sacerdotesse che presentano offerte, Ghirlandofore o Sacrificanti Borghese 130 d.C. circa (?) Marmo, altezza 68 cm, lunghezza 150 cm, spessore 14 cm Provenienza: ignota (piazza o atrio dell’antica basilica di San Pietro?); documentato da un disegno del Codex Escurialensis a Roma già alla fine del XV secolo; documentato nella collezione Borghese nel 1645 grazie all’incisione di Charles Perrier Parigi, Musée du Louvre, Département des Antiquités grecques, étrusques et romaines, inv. MR 822 (Ma 1641) • Fonti archivistiche ASV, Arch. Borghese 4147 f. 7r (anno 1617), cfr. app. doc. 3; ASV, Arch. Borghese 1010 f. 7r e 20 v (anno 1617), cfr. app. doc. 4. Besançon, bibl. mun., Fondo Pâris, ms. 13, novembre 1807 - agosto 1808. Ms. 20, ff. 15-18, 66, [dicembre 1807]; 105 [aprile 1808]. Ms. 21, ff. 24-26 [13 ottobre 1807]; 103-105, 26 marzo 1808; 111, 14 aprile 1808; 142-143 [25 giugno 1808]; 223, 22 gennaio 1809. Pubbl. in FabrégaDubert 2009, I. Parigi, AMN, A6 1811, [maggio 1806], 6 gennaio 1808. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Parigi, AN, O2 151, 14 maggio 1806. AF IV 272, tav. 1907, 27 settembre 1807. F21 573, [agosto 1808]. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. Parigi, BnF, Mss, naf 5986, ff. 92-93, 95-98, 100101, [maggio 1806]; naf 5987, ff. 258-259 [aprile 1808]. Pubbl. in Fabréga-Dubert 2009, I. • Fonti iconografiche Perrier 1645, tav. 19; Artista del Museo cartaceo, collezione privata (ed.: I segreti di un collezionista 2000, I, p. 230, n. 140); Bartoli 1693, tav. 64; Eton, Topham, B.m., II, n. 36, I, n. 40 (per il rilievo con Menade). • Bibliografia Manilli 1650, pp. 29, 56; Montelatici 1700, pp. 136, 189; [Lamberti, Visconti] 1796, stanza I, p. 23; Visconti 1817, n. 17; Clarac 1820, n. 21; Visconti 1821, II, pp. 1-5; Bins de St-Victor [1821], II [tav. 97 tra pp. 200-201]; Clarac 1830, n. 21; Clarac 1826-1853, tav. 163, n. 258; Héron de Villefosse 1890, n. 2812; Héron de Villefosse 1896, n. 1641; Bober, Rubistein 1986, n. 59B; Micheli 1987, pp. 11-14; Sattel Bernardini 1988, n. 32; Kalveram 1995, pp. 65-66, nn. 212-213; Carpita in I segreti di un collezionista 2000, I, p. 230, n. 140; Micheli in L’Idea del Bello 2000, II, pp. 419-420, n. 15; Raspi Serra 2002, VI.1, pp. 290-291 (per il rilievo con Menade); Borbein, Kunze 2003, p. 178, pp. 14-16, n. 5 (per il rilievo con Menade); Künzl 2003, p. 270; Martinez 2004a, p. 431, n. 0871 e p. 413, n. 0833 (per il rilievo con Menade); Fabréga-Dubert 2009, II, p. 167, n. 311 e p. 185, n. 357 (per il rilievo con Menade).
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l rilievo raffigura tre fanciulle nell’atto di compiere un rito: a sinistra, sullo sfondo di un tempio tetrastilo, la prima di esse reca fiori e frutti e procede verso l’ara sormontata da un candelabro acceso che le due sacerdotesse stanno adornando di ghirlande. La lastra delle Sacrificanti è documentata con certezza nella collezione Borghese dall’incisione pubblicata da Perrier nel 1645, ma la sua presenza nel Casino Pinciano deve risalire già al 1617, anno in cui sono registrati il restauro e la messa in opera sulla porta di accesso al salone principale, in asse con il suo pendant, il rilievo delle Danzatrici Borghese (cat. 7), al quale è tradizionalmente associato per epoca, iconografia e contesto di provenienza. Ricordato in tutte le descrizioni sei e settecentesche, il rilievo rimase in sede fino al 1808. La provenienza delle Sacrificanti è documentata da un disegno del Codex Escurialensis che le ricorda “in sulla piaza di sancto pietro”, dunque nella piazza o nell’atrio dell’antica basilica petriana. Il rilievo farebbe parte del nucleo di opere prelevate dalla basilica e giunte nella villa tra il 1616 e il 1617. L’iconografia delle fanciulle offerenti godette di ampia fortuna in epoca rinascimentale. Le ghirlandofore furono adattate come figure angeliche da Andrea Bregno nei rilievi apicali dell’altare Piccolomini nel duomo di Siena. L’offerente di sinistra con il cesto di fiori e frutti, la sola a comparire nel disegno escurialense, è stata usata come modello in un bassorilievo ornamentale nel cortile del Castello della Calahorra (Bober, Rubistein 1986). L’incisione pubblicata da Perrier e quella più tarda di Bartoli (1693), analoga alla precedente ma esatta nel verso, mostrano delle sostanziali differenze rispetto allo stato del rilievo: accanto alle ghirlandofore e opposta alla fanciulla offerente compare una menade con il tirso e un capriolo, scossa dal furore divino della danza bacchica; manca il tempio tetrastilo mentre il candelabro occupa il centro della composizione. Questa circostanza ha lasciato ipotizzare un rimaneggiamento seicentesco del rilievo.
Tuttavia le descrizioni sei e settecentesche, che interpretano il soggetto come la raffigurazione del rito nuziale di spargere fiori innanzi alle porte degli sposi (Manilli 1650; Montelatici 1700), ricordano solo le tre offerenti con il candelabro mentre il tempio compare almeno dal disegno dell’Eton College, del primo quarto del Settecento. La Menade raffigurata come parte del rilievo da Perrier e da Bartoli compare di nuovo in Manilli, nella letteratura e nelle testimonianze grafiche del Settecento (Montelatici 1700; Eton College, coll. Topham; Winckelmann in Raspi Serra 2002) ma come brano isolato, murato sulla facciata del giardino segreto di meridione. Le stesse incisioni, nel raffigurare il rilievo continuo, suggerivano una suddivisione tra le due parti: le iscrizioni della didascalia specificano i rispettivi soggetti: “Nvptiale Festvm” e “Baccha”, “in Hortis Burghesijs” (Bartoli 1693). Le stampe sembrerebbero offrire un’ipotesi di ricostruzione iconografica del rilievo, le cui parti sono entrambe conservate (Rilievo con Menade, Musée du Louvre, inv. Ma 553). Alla fine del Settecento il frammento con la Menade fu trasferito all’interno della stanza del Vaso (attuale sala I; Lamberti, Visconti 1796), per l’affinità tematica con le scene dionisiache del grande Vaso Borghese (cat. 3). Clarac (1826-1853), che ritiene il tempio un elemento di restauro, è il primo, in epoca moderna, a suggerire la relazione tra i due rilievi della Menade e delle Sacrificanti sulla base dell’incisione di Bartoli e della concordanza tra le misure. Visconti (1821) – pur se a conoscenza della stampa di Bartoli e del rilievo con Menade, ammirato e ritenuto antico (Lamberti, Visconti 1796) – nel commento alle Sacrificanti non fa accenno alla possibile appartenenza tra i due. Riguardo all’iconografia delle Sacrificanti, sottolinea che la natura agreste dell’oblazione e le raffigurazioni di satiri e crateri nell’ara sotto il candelabro non lasciano dubbi, è Bacco il dio cui spetta il rito.
a collocazione scelta per la presente mostra non restituisce la presentazione originaria, ma permette di apprezzare meglio la bellezza dei due rilievi delle Sacrificanti e delle Danzatrici. Visconti raffronta i due rilievi in cui le fanciulle sono trattate in maniera simile: gli atteggiamenti, ma soprattutto lo stile dei panneggi delle loro ricche vesti, sono identici. Egli associa i due rilievi a una stessa scultura architettonica d’origine, più precisamente il fregio esterno di un tempio, sopra ai muri della cella. Il soggetto rappresentato era quindi in perfetta armonia con il luogo in cui si trovava la decorazione. Incaricato da Napoleone di preparare l’acquisizione dei marmi Borghese, Visconti classifica i due pezzi nella prima fascia, conformemente ai criteri da lui adottati che attribuiscono un’importanza fondamentale all’autenticità, in funzione del contributo scientifico. Giudicando il loro stato di conservazione perfetto, verosimilmente perché l’iconografia originale del rilievo non era stata toccata dai restauri nonostante una delle quattro fanciulle sacrificanti sia interamente di stucco, Visconti definisce i reperti – anche quello delle Danzatrici – eccellenti e preziosi. Li stima insieme trentamila franchi, nella forchetta dei
prezzi generalmente fissati per i rilievi di questa categoria. I due pezzi vengono staccati dalle pareti all’inizio del febbraio 1808 – le Sacrificanti facilmente, precisa Pierre-Adrien Pâris, commissario francese incaricato della rimozione e della spedizione degli oggetti acquistati – e posti nella stessa cassa, insieme al rilievo raffigurante Venere anadiomene, anch’esso parte dell’arredo della sala (fig. 59). Come molti oggetti della prima fascia, questi esemplari vengono spediti via terra col primo convoglio che preparava la strada al secondo, contenente quattro capolavori della collezione. Il carico, partito da Roma il 24 giugno 1808, doveva arrivare a Parigi il 29 novembre. I due rilievi sono esposti per la prima volta nel 1817, in occasione del riallestimento delle collezioni nelle sale del Musée Royal dopo le restituzioni conseguenti alla caduta dell’impero. Vengono presentati nel vestibolo (arcata che porta alla sala degli Imperatori), con ogni probabilità in pendant. Il rilievo con le tre fanciulle attorno a un candelabro è una produzione neoattica caratteristica dell’inizio del II secolo che imita lo stile fluido dell’arte ate-
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niese classica della fine del V secolo a.C. Maria Luisa Micheli ha accostato questo pezzo ad altri frammenti oggi al palazzo ducale di Urbino, al Merseyside Museum o ai Musei Vaticani, avanzando l’ipotesi di una loro appartenenza comune a uno stesso edificio di epoca adrianea. Il retro del rilievo del Louvre indica tuttavia un riutilizzo come lastra di pluteo in età medievale, il che si spiegherebbe se la scultura provenisse effettivamente dall’antica basilica di San Pietro in Vaticano. L’autenticità di questo pezzo come pure del frammento che ne sarebbe stato staccato (inv. Ma 553) è stata tuttavia messa in dubbio. (Elisabetta Sandrelli, Marie-Lou Fabréga-Dubert, Jean-Luc Martinez)
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