Caravaggio

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Il trionfo dell’arte pittorica di Caravaggio era certo e immediatamente percepito dai contemporanei, come si evince anche dalla lettura del Baglione che, nel 1646, descrive in casa del cardinal Del Monte “[…] un giovane che sonava il Lauto, che vivo e vero il tutto parea, con una caraffa de fiori pieno d’acqua che dentro il reflesso d’una finestra eccellentemente si scorgeva con altri ripercotimenti di quella camera dentro l’acqua, e sopra quei fiori eravi una viva ruggiadra con ogni esquisita diligenza finita. E questo (disse) fu il più bel pezzo che facesse mai”.

manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, come di figure” (cfr. Bologna 1992, pp. 20 e sgg.). Come manifesta proprio il Suonatore di liuto di San Pietroburgo, l’impegno di osservazione, la resa fedele della natura e la ricerca empirica degli effetti di luce e ombra (persino sulle goccioline di rugiada) e della prospettiva erano, per il pittore lombardo, parametri e confronti imprescindibili e applicati dunque a ogni tematica. Caravaggio dipinge il ragazzo che offre il suo canto d’amore, includendo però nella tela anche un sottile “paragone” con il potere universale della pittura. Quest’ultimo era già stato teorizzato dal più grande dei maestri lombardi, Leonardo da Vinci, del quale le fonti riferiscono anche la pittura di un magnifico vaso di fiori bagnati dalla rugiada. Analogo, benché “piccolo”, quadro raffigurante un vaso di fiori del giovane Caravaggio, in competizione con gli esempi di Jan Bruegel il Vecchio (si consideri ad esempio il dipinto dell’artista fiammingo della Galleria Borghese), risulta nell’inventario del cardinal Del Monte in un’opera non più rintracciata (Frommel 1971). Il quadro di San Pietroburgo era stato commissionato dal marchese Vincenzo Giustiniani, che ambiva a un dipinto analogo posseduto dal cardinal Del Monte, e oggi disperso, con il quale condivideva gli interessi culturali e la passione per la musica. Nel suo trattato Discorso sopra la musica (1628 circa) il Giustiniani indica come miglior impiego del proprio tempo libero, in contrapposizione alla diffusa usanza del gioco per vincite, gli “esercizi virtuosi” di alta cultura e in particolar modo il perfezionamento della difficile arte di suonare il liuto e del moderno canto monodico, entrambi intesi come imitazione della musica degli antichi (Baldriga, in Caravaggio e i Giustiniani... 2001, pp. 274-277). Al richiamo dell’antico difatti corrispondono, nella tela, anche la camicia scollata del cantore a mo’ di chitonisco e il drappeggio avvolto intorno al braccio come nel rilievo romano del Ratto di Deianira presente nel cortile di palazzo Giustiniani. Riallacciandosi alle opere di autori antichi quali il Timeo di Platone o il De musica di Plutarco, presenti nella sua biblioteca, Vincenzo Giustiniani concepisce l’attività musicale come veicolo di intense emozioni, di affetti e di catarsi. Il giovane Caravaggio sfida con questo dipinto i cinque sensi della vista, olfatto, tatto, udito e gusto (Ebert-Schifferer 2009, pp. 95-99). Infatti, la maestria illusionistica del Merisi offre alla vista gli oggetti e le figure vicine, e i frutti idealmente al tatto e al gusto. Il violino e il corpo del liuto appaiono esaltati nel loro valore tattile fino alla distinzione dello spessore delle corde: per lo scorcio prospettico del liuto, Caravaggio assimila suggestioni dalla tarsia del Suonatore di liuto di Antonio Barili (San Quirico d’Orcia, collegiata, cfr. Calvesi 1990, p. 27) come anche da una xilografia dello stesso tema di Dürer, da cui trae lo scorcio prospettico (Schütze 2009, pp. 56, 69, 246). Il violino in prospettiva obliqua brilla sulla lastra di marmo e sporge oltre il tavolo come se l’osservatore lo potesse afferrare. Il vaso sferico di cristallo, quasi uno specchio ricurvo con un bouquet di fiori profumati, evoca l’associazione con il senso dell’olfatto. Anche la melodia del canto è immaginabile, poiché il pittore la

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precisa nello spartito musicale, rendendo con fedeltà non soltanto le note, ma anche le xilografie delle lettere iniziali dei testi e delle note del libro a stampa. Come analizzato da Franca Trinchieri Camiz (Trinchieri Camiz, Ziino 1983, pp. 67-90), il Suonatore di liuto di Caravaggio recita uno dei quattro madrigali a quattro voci del compositore fiammingo Jakob Archadelt (1539-1654), ma si adegua all’innovazione musicale dell’epoca nell’eseguirlo soltanto a una voce, suonando le tre parti basse con lo strumento a corde. Caravaggio sceglie il terzo dei madrigali, che recita: “Voi sapete ch’io vi amo, anzi v’adoro, / Ma non sapete già che per voi moro, / Ché, se certo il sapeste, / Forse di me qualche pietate avreste. / Ma se per mia ventura / Talhor ponete cura / Caravaggio sceglie il terzo dei madrigali, che recita: Qual stratio fa di me l’ardente foco, / Consumar mi vedret’a poco “ Voi sapete ch’io vi amo, anzi v’adoro, / a poco.” All’elemento del “fuoco” interno si accompagna Ma non sapete già che per voi moro, / Ché, quello dell’“aria” emessa con il canto del giovane, mentre l’“acqua” brilla nel vaso e sono offerti alla vista i doni della se certo il sapeste, / Forse di me qualche terra, i frutti e i fiori. pietate avreste. / Ma se per mia ventura / Talhor Gli altri madrigali esordiscono rispettivamente con ponete cura / Qual stratio fa di me l’ardente “Chi potrà mai dir quanta dolcezza provo”, “Se la dura durezza in la mia donna”, “Vostra fui e sarò mentre ch’io viva” ed foco, / Consumar mi vedret’a poco a poco.” erano dunque indirizzati a una donna amata. All’elemento del “fuoco” interno si accompagna La scelta della composizione fiamminga rimanda quello dell’“aria” emessa con il canto del giovane, all’educazione dello stesso Vincenzo Giustiniani che, nel suo trattato, ricorda come suo padre da giovane gli mentre l’“acqua” brilla nel vaso e sono offerti alla vista i doni della terra, i frutti e i fiori. facesse studiare i migliori maestri di composizione, tra cui, in primis, Archadelt e Orlando di Lasso (Baldriga, in Caravaggio e i Giustiniani... 2001, pp. 274-277). Sulla carta, sotto il libro musicale, appare anche la scritta “Bassus” che, oltre alla tipologia dai tratti tondeggianti del giovane musico, quasi nelle fattezze di un salvifico giovanissimo Cristo, può rimandare alle ispirazioni desunte dal famoso sarcofago di Junius Bassus, scoperto a Roma proprio nel 1595 (Calvesi 1990, p. 27). I tratti femminei del ragazzo cantore hanno indotto a interpretazioni omoerotiche non documentate nella vita del pittore (Posner 1971; Frommel 1971; Röttgen 1974), ma resta sintomatico che nell’inventario Giustiniani del 1793 (n. 250) la figura venga descritta come “la Fornarina che suona la chitarra”; d’altra parte Calvesi (1985 [1990], pp. 264-267) ha interpretato il dipinto in casa del cardinale come un’allegoria cristologica. Lo spettro di lettura rimane dunque, come in tutti i dipinti di Caravaggio, intenzionalmente aperto. Questione complessa è la critica delle repliche o copie di ambito caravaggesco. Ormai condivisa è la priorità del dipinto, di accertata provenienza Giustiniani, a San Pietroburgo rispetto alla simile versione di provenienza Del Monte (New York, The Metropolitan Museum of Art). Infatti, la radiografia di quest’ultimo ha rivelato che in una prima versione vi era prevista una natura morta di frutti derivata dal dipinto dell’Ermitage, che fu però sostituita nella redazione finale da uno spinettino posto su un tappeto orientale (Christiansen 1990, pp. 58-59). Il marchese Vincenzo, peraltro, aveva riunito in una stanza di palazzo Giustiniani a Roma altri dodici dipinti di Caravaggio. Oltre al Suonatore di liuto di San 57


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La precisazione della provenienza Mattei, religiosissima famiglia che ospitava san Filippo Neri e i suoi fedeli, ogni anno, per una refezione in villa, durante la visita delle Sette Chiese, è importante per comprendere l’alto significato teologico del dipinto e il suo contesto. I tre fratelli Mattei, il primogenito Ciriaco (1545-1614), il secondogenito Girolamo (1546-1603), che, fatto cardinale da Sisto V nel 1586, nel 1601 dà ospitalità a Caravaggio (Parks 1985, p. 441 pubblica il contratto per il Transito della Madonna, 14 giugno 1601, dove Caravaggio è detto “commorans in Palatio Ill. et R.mi D. Cardinalis Matthei”; cfr. anche Macioce 2003, p. 105 e Marini 2005, p. 493), e il terzo Asdrubale (1556-1638) – tralasciamo un quarto fratello, morto in giovane età – mostrano omogeneità di intenti patrimoniali e artistici. Il cantiere di palazzo Mattei di Giove, progettato dal Maderno, è testimoniato dai cinque volumi di spesa tenuti da Asdrubale fra il 1595 e il 1625, studiati dalla Panofsky-Sörgel (1967-1968) che, grazie alla cortesia di Giulia Antici Mattei, fece ricerche negli archivi di famiglia a Recanati, senza però approfondire la contabilità di Ciriaco e quindi senza intuire che il Gherardo della Notte, menzionato nella lista datata 1 febbraio 1802 (Archivio Mattei, CVII) comprendente sei dipinti venduti dal marchese Lorenzo Mattei, era in realtà un Caravaggio (ivi, p. 150). Nel 1801 il titolo di marchesi dei Mattei di Giove era passato ai principi Antici Mattei (la madre di Giacomo Leopardi era Adelaide Antici). Questo spiega le vicende dell’archivio, in epoca moderna (anni trenta del Novecento) trasportato a Recanati, in palazzo Antici Mattei. Devo alla squisita gentilezza di Anna Maria Antici Mattei Spinola, primogenita delle tre figlie di Giulia, e alla fitta corrispondenza intercorsa fra lei e me alla fine degli anni ottanta, se furono accolte a Recanati, ed ebbero accesso alle carte di famiglia, le nostre giovani allieve dottorande Francesca Cappelletti e Laura Testa. I loro studi fra il 1990 e il 1994 portarono alla definitiva identificazione della committenza Mattei per il quadro qui analizzato e resero incontrovertibile, con la forza dei documenti, l’attribuzione a Caravaggio della Cattura di Cristo nell’orto ora a Dublino, ventilata (senza aver mai visto il dipinto) da Longhi (1969) e da Frommel (1971), formulata con eccellente intuizione da Benedetti (1993) quando ebbe davanti il dipinto per restaurarlo. Una mostra al Museo di Brera a Milano, voluta dalla direttrice Sandrina Bandera, propose nel 2009 un puntuale confronto fra la Cena in Emmaus Mattei e quella Patrizi, oggi appunto a Brera, databile al 1606, ossia al momento della sosta presso Costanza Sforza Colonna, marchesa di Caravaggio, nei feudi Colonna, dopo la fuga da Roma per l’uccisione di Ranuccio Tomassoni. Mina Gregori, nel catalogo (Gregori 2009, pp. 35-36), sottolinea le profonde differenze nell’uso della luce e del colore e la giovanile baldanza della versione Mattei, della quale decifra le simbologie riposte negli oggetti che affollano la tavola.

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come una firma del pittore (Wagner 1958) e perfino come un marchio del fabbricante dell’arma (Macrae 1964, ripreso da Gregori 1985b, p. 338), veniva sciolta da Marini (1987) come un motto agostiniano: “H.AS O S” come “humilitas occidit superbiam”. Prima di questa importante ipotesi, Hibbard (1983) aveva già citato l’interpretazione di sant’Agostino che vuole Davide come prefigurazione di Cristo, ma in un contesto interpretativo completamente divergente, piuttosto psicanalitico e sovrastorico, che sviluppava una precedente ipotesi di Röttgen (1974) in seguito ripetuta da Rossi (1989): diviso dalla doppia attrazione per la punizione e la salvazione, Caravaggio identifica e ritrae sé stesso sia nel peccatore Golia che nel giustiziere Davide. Recentemente Preimesberger (1998) ha analizzato la profonda costruzione retorica del quadro, evidenziando anche la sua molteplicità semantica e la conseguente ambiguità, tra cui ha È la più drammatica ed emozionante luogo l’ulteriore aspetto dell’ironia e autoironia. Da ultimo (Stone 2002) è stata riproposta un’analisi ancora di tipo rappresentazione della storia di Davide mai dipinta psicologistico, che tornerebbe a limitare i contenuti fino a quel momento: l’interpretazione del tema caravaggeschi a problematiche di tipo piuttosto contemporaneo biblico, ciò che nel Seicento si chiamava l’invenzione, e contingente per sostenere le quali sarebbe necessario rivoluziona la precedente tradizione iconografica … retrodatare di nuovo il quadro al 1605-1606. Ma nella complessa problematica di quel preciso Non è forse inutile rilevare … come lo sguardo intenso frangente storico e dell’individuale condizione esistenziale e pesante, pieno di desolata pietà, di infinita del Caravaggio, la straordinaria sintesi di contenuti morali malinconia, che Davide lascia cadere sulla testa e autobiografici di questo quadro si basa proprio mozza di Golia, il cattivo, il colpevole, è lo stesso sull’interpretazione agostiniana, poiché il Golia, sguardo disperato e commosso che posa il cosiddetto personificazione del peccato e del demonio, qui rappresentato con le fattezze di Caravaggio, che nella realtà era condannato “protettore” sul tiranno, colpevole dell’assassinio della a morte e che qui si autorappresenta come già decapitato, sotto santa, nel Martirio di sant’Orsola, ma è anche quella lo sguardo pietoso del suo giustiziere, attraverso la profonda malinconia che velava precocemente lo prefigurazione cristologica (Calvesi), rinvia per estensione al sguardo del Ragazzo con canestra di frutta. papa, suo vicario in terra e destinatario della supplica di grazia. È un’espressività di forza irripetibile che racchiude Il momento scelto da Caravaggio nel racconto biblico, come ci fa osservare Marini (2001, p. 567), è quello dell’ingresso di in sé l’intera poetica di Caravaggio secondo la quale Davide nella tenda di Saul con la testa del filisteo in mano. Ciò la coscienza contemplativa, dolorosa e piena di permette al pittore di dare motivazione narrativa allo infinita commiserazione compiange un’umanità straordinario effetto di interno, di scatola chiusa e illuminata da colpevole, impossibile da salvare. una luce che investe frontalmente la figura, con fenomenale sintesi spaziale, temporale, narrativa. Non è forse inutile rilevare, ai fini di una proposta vicinanza sia cronologica che di concezione, tra il Davide e il Martirio di sant’Orsola, come lo sguardo intenso e pesante, pieno di desolata pietà, di infinita malinconia, che Davide lascia cadere sulla testa mozza di Golia, il cattivo, il colpevole, è lo stesso sguardo disperato e commosso che posa il cosiddetto “protettore” sul tiranno, colpevole dell’assassinio della santa, nel Martirio di sant’Orsola, ma è anche quella profonda malinconia che velava precocemente lo sguardo del Ragazzo con canestra di frutta. È un’espressività di forza irripetibile che racchiude in sé l’intera poetica di Caravaggio secondo la quale la coscienza contemplativa, dolorosa e piena di infinita commiserazione compiange un’umanità colpevole, impossibile da salvare. 231


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Non è, questa, la sede appropriata a una narrazione per esteso della storia dell’attribuzione di quest’opera (cfr. Cinotti 1983; Spike 2001). Abbiamo qui un tipico esempio di come la provenienza di un quadro possa influenzarne, in questo caso negativamente, l’attribuzione. O forse il quadro fatica a combaciare con un’immagine precostituita dello stile e degli sviluppi artistici del Caravaggio? È chiaro che l’opera deve presentare tratti stilistici peculiari, se eminenti conoscitori dell’artista, quali Roberto Longhi e Denis Mahon (e con loro numerosi altri suoi studiosi), hanno nutrito dubbi circa un’attribuzione al maestro. Risulta significativo ancora oggi (e come sempre caratteristico del Caravaggio) il fatto che un importante, classico criterio per stabilire un’attribuzione, quello cioè di fissare in modo persuasivo la posizione cronologica di un dipinto all’interno di un catalogo che pure risulta densamente documentato, si affermi non senza contraddizioni. Persino fra coloro che si sono dichiarati a favore dell’autenticità del quadro la datazione oscilla, a volte nello stesso autore, fra il periodo immediatamente precedente la Il fatto che sia stata ora accertata la provenienza realizzazione dei dipinti laterali della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, intorno al 1599, quello successivo dell’ Incoronazione di spine dalla collezione Giustiniani alla realizzazione dei dipinti della cappella Cerasi in Santa fornisce un fondamentale appiglio per la sua Maria del Popolo dell’anno 1601 e seguenti, dunque attribuzione al maestro, nonché per una sua datazione intorno al 1603 (Gregori, in Michelangelo Merisi da relativa al periodo romano, cioè al 1603 circa. Caravaggio... 1991, p. 239), e il primo periodo napoletano, 1606-1607 (cfr. Caravaggio e il suo tempo 1985; Bologna 1992, pp. 333 e sgg.). Queste datazioni corrispondono ampiamente anche alle altre attribuzioni proposte per questo quadro, quella cioè a un seguace romano del Caravaggio (Manfredi o copia romana da Caravaggio), o a Giovanni Battista Caracciolo, ossia il principale seguace del maestro a Napoli (da sempre era stato nutrito – in primo luogo da Longhi – il sospetto che il Caracciolo andasse preso in considerazione quale autore del quadro, ovvero che il quadro, quand’anche il Caravaggio ne fosse l’autore, fosse stato dipinto durante il primo soggiorno napoletano dell’artista, dunque nel 1606-1607). L’opera di riferimento per quest’ultima ipotesi era naturalmente la Flagellazione di Cristo del 1607, dipinto proveniente da San Domenico che ha mostrato però, soprattutto dopo la recente pulitura e il restauro, una tessitura superficiale completamente diversa, molto più sciolta e che, per l’uso che vi viene fatto della luce, con la severa partizione chiaroscurale, è senz’altro da attribuire all’opera tarda dell’artista. Il fatto che sia stata ora accertata la provenienza dell’Incoronazione di spine dalla collezione Giustiniani fornisce un fondamentale appiglio per la sua attribuzione al maestro, nonché per una sua datazione relativa al periodo romano, cioè al 1603 circa. Più di ogni altro, Mina Gregori ha ravvisato nel tocco “rapido”, nella struttura allungata del panneggio – confrontabile con quella del Sacrificio di Isacco degli Uffizi – nella complessa configurazione spaziale e negli scorci prospettici – paragonabili a quelli della Deposizione della Chiesa Nuova (Musei Vaticani) – degli elementi di riferimento. Per quanto sia possibile, in teoria, che il Giustiniani abbia acquistato il quadro a Napoli al suo ritorno dal viaggio nel nord Europa del 1606, è però più probabile, in considerazione delle imitazioni romane dirette dell’opera (sia che in esse l’immagine 181


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