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NarrativaSkira
Il libro
Parigi, 16 ottobre 1793 “Bisognerà cambiargli nome, al ragazzo…” “Ci ha già pensato lui, dice che si farà chiamare Antonin.” “Che idea… dare al nostro bambino il nome della regina di Francia.” “Povera, pauvre, pauvre reyne. La nostra regina… Così elegante, così graziosa. Con quei cappelli che parevano un giardino di fiori. Quelle guancette rotonde, color fragole e panna. Quei ditini trasparenti, sottili. Una fata. La bella fata che abitava un castello incantato.” “Ma il vento gira, et voilà! Fra gli insulti e gli sputi, la testa della fata è rotolata nella cesta del boia. Zac! Tagliata di netto, come un salame. E allora si è vista, com’era dal vero. Senza parrucca, senza cappello, i denti neri e i capelli bianchi sulle guance smagrite. Una vecchia.”
L’autore
Edgarda Ferri, giornalista, saggista e scrittrice. Le biografie di Maria Teresa d’Austria, Piero della Francesca e Giovanna la Pazza e La gran contessa (Matilde di Canossa) sono ripetutamente ristampate negli Oscar Mondadori.
Edgarda Ferri
Il cuoco e i suoi re
Parigi, 16 ottobre 1793 “Bisognerà cambiargli nome, al ragazzo…” “Ci ha già pensato lui, dice che si farà chiamare Antonin.” “Che idea… dare al nostro bambino il nome della regina di Francia.” “Povera, pauvre, pauvre reyne. La nostra regina… Così elegante, così graziosa. Con quei cappelli che parevano un giardino di fiori. Quelle guancette rotonde, color fragole e panna. Quei ditini trasparenti, sottili. Una fata. La bella fata che abitava un castello incantato.” “Ma il vento gira, et voilà! Fra gli insulti e gli sputi, la testa della fata è rotolata nella cesta del boia. Zac! Tagliata di netto, come un salame. E allora si è vista, com’era dal vero. Senza parrucca, senza cappello, i denti neri e i capelli bianchi sulle guance smagrite. Una vecchia.” “Così delicata, e fino all’ultimo tanto gentile. È arrivata sulla carretta che usiamo per portare al campo-
santo la povera gente. Tutta compunta, vestita di nero, le mani legate dietro la schiena; e mentre il boia le stava strappando il colletto per evitare che la lama si incantasse fra i ricami e le trine, gli ha pestato un piede: senza volerlo, bien sûr, l’ho vista da vicino, posso giurarlo davanti a Dio e alla Madonna. ‘Pardon monsieur’, ha mormorato. Le ultime parole di Marie-Antoinette pronunciate a mezzogiorno e quindici minuti di questa mattina. No, caro mio: io non sono affatto pentita di aver dato il suo nome a mio figlio… quanto al cognome, è roba tua. Perché la fortuna giri dalla parte del nostro bambino, bisognerebbe cambiargli anche questo. Carême! Bella fantasia, e tanti auguri: portarsi in giro un nome che vuol dire Quaresima!”. Baracca di legno con il tetto di bandoni fra i ricchi ed eleganti palazzi di rue du Bac, la via più diretta verso il Pont Royal e il Palazzo delle Tuileries, pagliericci distesi sul pavimento di terra battuta, sulle panche, sul tavolo, bambini dappertutto. Il più piccolo, battezzato nove anni prima nella chiesa di San Tommaso d’Aquino con il nome di Marie-Antoine in onore della regina, ha già deciso di farsi chiamare Antonin. Suona bene, soprattutto non ricorda la baraonda dove gli è capitato di nascere. Padre manovale al porto sulla Senna: dalle dieci alle quattordici ore di lavoro, quando gli va proprio bene. Madre con dieci e forse anche più figli, e fratellastri di tutte le età. Al tempo della Rivoluzio-
ne e della ferocia. Cannonate. Sfilate di cadaveri squartati appesi alle picche. Linciaggi. Prigionieri spinti a calci e schiamazzi fino alle carceri: la Conciergerie, gigantesca prigione di Stato, dove i condannati a morte trascorrono la loro ultima notte nell’antica cappella reale prima di essere denudati, rivestiti, rasati, preparati per la ghigliottina nella Salle de la toilette; le carceri del convento dei Carmelitani, dove sono stati trucidati, impiccati, decapitati, infilzati poco meno di duecento sacerdoti che rifiutavano di gettare la tonaca; quelle di Saint-Firmin, del Grand Châtelet, della Force, dell’Ospedale della Salpêtrière, tutte gremite in un incessante viavai di rivoluzionari, avvocati, vivandieri, parenti vestiti da camerieri che chiedono notizie di una principessa, un barone, un cardinale. Fughe rocambolesche di nobili travestiti da servi. Ci ha provato anche la famiglia reale: Luigi XVI fermato a Varennes pateticamente truccato da valletto, Marie-Antoinette con la cuffia della sua cameriera, gli innocenti bambini in lacrime con la faccia piena di moccio e i piedi torturati dagli zoccoli strappati agli stallieri. E infine la prigione del Tempio, dove, nella Piccola Torre, era stata rinchiusa la famiglia reale subito dopo l’arresto. La regina nell’appartamento dell’archivista al secondo piano. La figlia Marie-Thérèse, il delfino Louis-Charles e la loro governante Louise Élisabeth de Croÿ, nella stanza accanto. La principessa di Lamballe, così fragile, co-
sì delicata – sveniva alla vista di un’aragosta viva – costretta a dormire su una branda nel corridoio. Il re al terzo piano, con un letto a baldacchino, una piccola stanza di lettura, un’altra per sua sorella, Madame Élisabeth, e per Pauline de Tourzel, figlia della governante reale. Il mese dopo Luigi XVI era stato trasferito nella Torre Grande, da dove era uscito la mattina del 21 gennaio 1793 per essere portato al patibolo. Il 2 di agosto Marie-Antoinette era stata trasferita nella prigione della Conciergerie. Rimasto nella Piccola Torre con la sorella Marie-Thérèse e la zia Élisabeth, il delfino era morto nel giugno del 1795: tubercolosi, aveva dieci anni. Sei mesi dopo, Marie-Thérèse era stata liberata per intercessione del nipote di sua madre, l’imperatore Francesco d’Austria. Oltre alla ghigliottina, si agitano senza sosta anche i coltelli, i pugnali, i trincetti, persino gli schidioni e gli spiedi. Vendette personali, tradimenti, delazioni, accuse. Molte volte infondate. Sete di giustizia. Inestinguibile: più bevi sangue, più cresce la sete. Un bambino di nove anni, queste cose le sente anche senza vederle. Parigi è sempre stata una città frenetica, rumorosa, affollata. Anche nei mesi della fame nera, quando non c’era più pane. Strade gremite di carrozze, calessi, carri, carrette. Agli angoli delle piazze, donne sedute su una sedia impagliata a vendere il caffellatte, bevanda
molto alla moda. Lustrascarpe. Facchini. Garzoni che attraversavano le strade correndo; e sulla testa, in bilico, immensi vassoi di morbidi e profumati croissants. Lavandaie e panettieri che consegnavano pane e biancheria lavata e stirata nei palazzi dei ricchi. Ristoranti. Caffè. Situato su quella che si chiamava place Louis XV, e adesso è place de la Révolution, l’hôtel Grimod de La Reynière era frequentato dai più raffinati ghiottoni della capitale. Alexandre Balthazar Laurent Grimod de La Reynière, “il difensore del popolo”, che trasformava un pranzo borghese in un banchetto reale: prodotti di prima qualità, fornitori esclusivi, piatti eccellenti e decorati magnificamente. Nei giardini delle Tuileries, di fianco alla sala del Maneggio, si riuniva ogni mercoledì, “Chez Legacque”, una compagnia di letterati, che discutendo e declamando come profeti divoravano montagne di tartine al burro e all’acciuga. Seduti intorno ai tavolini di marmo della grande sala scintillante di specchi del Café de la Régence, i clienti giocavano a scacchi in un tale silenzio da avvertire soltanto il lieve stridore dei pezzi sulla scacchiera. Grande appassionato del gioco, vi partecipava regolarmente Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre, il brillante avvocato nativo di Arras, i cui occhi miopi e verdi, spesso protetti dagli occhiali, prendevano un inquietante risalto dal candore della cipria che si era passato sul volto. L’uomo che avrebbe ispirato la par-
te più radicale della Rivoluzione francese frequentava assiduamente anche il Café Zoppi, il più antico ristorante della città, con una ricca biblioteca a disposizione dei clienti e un grande assortimento di giornali tenuti al caldo, durante l’inverno, sul tubo della stufa. Una mattina Voltaire, che per tutta la vita aveva frequentato il locale, arrivò travestito da prete con un’immensa parrucca e un ingombrante tricorno per ascoltare le critiche alla prima rappresentazione teatrale della sua tragica Sémiramis centellinando la sua bavaroise: una dolce infusione di tè mescolato a latte e liquore. Nel caffè in rue de l’Ancienne Comédie, che fino alla Rivoluzione prendeva il nome dal suo fondatore, l’emigrante siciliano Procopio dei Coltelli, celebre per le sue “acque gelate” composte da ghiaccio tritato e sciroppi di menta o lampone, gelati al succo di limone e d’arancio, sorbetti di fragola, bevande fredde ai fiori di anice, frangipane e cannella, faceva tutti i giorni la sua consueta partita a carte anche Georges Danton: un monumento di carne, vestito con uno stropicciato, bisunto e sontuoso abito rosso, il labbro deformato e il naso schiacciato dalle ferite provocate dal calcio di un toro quando era ancora bambino, i piccolissimi occhi porcini: due buchi che quasi non si vedevano sul volto sgangherato, butterato, lardoso. In un angolo, sempre da solo, il berretto frigio calato fino alla fronte, gli zoccoli ai piedi nudi, il volto livido, lo sguardo indignato,
Jean-Paul Marat scriveva sferzanti proclami per il suo giornale “L’ami du peuple”, mentre, alle offerte di aiuto, rispondeva altezzoso: “L’aquila vola sempre sola, è il tacchino che va in gruppo”. Al Café Parnasse, in place de l’École, quartiere Saint-Germain, dove regolarmente passava in compagnia di Fabre d’Églantine, attore e commediografo fallito, seduttore incallito e calunniatore instancabile, Danton aveva incontrato e immediatamente sposato Antoinette Gabrielle, la giovanissima figlia di Jérôme Charpentier, proprietario del locale e controllore delle imposte, dalla quale aveva avuto quattro figli, due dei quali morti prematuramente. Oltre ai caffè, erano prese d’assalto anche le pasticcerie, le rosticcerie, i negozi ben forniti di spezie: vari tipi di pepe, cannella, cardamomo, cumino. In rue des Grands-Augustins i parigini facevano la fila per aspettare che fossero cotti a puntino, e divorarli lì, sulla strada, i celebri capponi al sale grosso di “La Marmitte Perpétuelle”. In rue Dauphine si trovavano i panini più morbidi e bianchi della città. Parigi era pazza per le paste ripiene di panna, i babà immersi nella melassa di zucchero con aggiunta di rhum, i cioccolatini farciti di marzapane. Altro che le brioches di MarieAntoinette, che il signore Iddio l’abbia in gloria. Per i bambini di Parigi, incollare il naso contro le vetrine dei pasticcieri era meglio che andare a vedere i burattini in place Louis XV. Castelli di croccante e pasta di
mandorle. Carrozze di marzapane con le ruote di confettini che sembrano perle. Salotti foderati con tappezzerie di ortensie, ciclamini e glicini glassati e colorati di verde, di giallo, di rosa. Ragazzine che corrono e giocano in giardini dai fiori di frutta candita, sollevando sottanine con le gale di cioccolata bianca e sventolando aquiloni di zucchero filato in tutte le iridescenti sfumature dell’arcobaleno. Ecco: Antonin è uno di quelli che si appiccicano contro la vetrina dei pasticcieri. E sognano. Antonin ha fame, ma non gli passa mai per la mente di leccare il pupazzetto intinto nella salsa al lampone, di sgranocchiare la marionetta con il cappello e le mani di croccante, di succhiare una mela caramellata. Come la stragrande maggioranza dei bambini di Parigi, Antonin, quando ha fame, pensa a un cosciotto di montone allo spiedo, una fetta di pane spalmata di lardo, una zuppa di verdura macchiata da larghi “occhi” di grasso, un bel pezzo di sanguinaccio di maiale rosso costellato di pistacchio verde. Questi pezzetti di favola che il figlio del manovale Carême vede oltre i vetri delle tante, tantissime botteghe della città, non hanno niente a che fare con la sua pancia vuota. Quelle meraviglie. Quelle costruzioni, quei colori, quei giochi d’acqua e di luce ottenuti con le filature di zucchero, la glassa, i pasticcini, i confetti, appartengono esclusivamente al mondo della sua fantasia. Dove non può mai succederti nulla di male. Dove
nessuno ti ammazzerà di botte se non ubbidisci; lo fa anche maman, lo fanno tutti i papà, i maestri, i padroni. Antonin non ha ancora un padrone, ma lo avrà presto, e lo sa. Non appena riescono a reggersi in piedi, i bambini francesi devono occuparsi dei fratelli più piccoli, lavare i pavimenti, far commissioni a pagamento per conto dei vicini. A sei anni, aiutano il padre: dai sei ai dieci, anche Antonin Carême segue il suo, giù nel porto lungo la Senna, dove incessantemente si scaricano i legni, i mattoni e le pietre per allargare le strade, innalzare di un piano le case, costruire nuovi palazzi. Passati i dieci anni, vanno a fare i garzoni nella bottega di un artigiano, i facchini, i manovali di un carpentiere, gli stallieri, gli sguatteri, i giardinieri. I bambini francesi frequentano la scuola solo se possono pagare un maestro privato. La Rivoluzione ha promesso che l’istruzione sarà libera a tutti: per il momento, soltanto parole. Mancano i soldi. Mancano anche i maestri. Quando si trova, l’istitutore deve fare anche un altro mestiere: il ciabattino, il taverniere; oppure, sotto il Vecchio Regime e ora vietatissimo, il prete. La tariffa è un franco per imparare a leggere, un franco e cinquanta centesimi per leggere e scrivere. A scuola, Antonin Carême non ci è mai andato, la sua famiglia non se lo poteva permettere. Antonin Carême non ha ancora compiuto dieci anni quando suo padre lo porta in una taverna oltre la
Barrière du Maine, una delle quarantasette porte che cingono la città nel cerchio disegnato dall’architetto Ledoux e da dove, ai tempi dei re, non entrava e non usciva una salsiccia o una pezza di stoffa senza pagare un balzello. La rivoluzione ha tagliato la testa del re e abolito il dazio, ma non ha avuto il tempo, o la voglia, di abbattere le porte in forma di elegante tempietto greco o di colonnato romano che i parigini attraversano a piedi per trascorrere la domenica fra le colline coltivate a vigna e mangiare uova sode e insalata sotto l’ombra gentile delle acacie e dei tigli. Antonin divora un piatto di fricassea di coniglio, specialità della zona, preceduta da un pot-au-feu molto più saporito e ricco di quello che gli prepara la mamma: contro quindici qualità di legumi e verdure, solo due parti di carne; ma anche una sola, talvolta. Da quando la campagna francese è stata abbandonata dai contadini, ripetutamente obbligati al servizio militare, il manzo, il vitello, il montone devono essere importati dalla Germania, dal Belgio e dall’Olanda, pagando un dazio spropositato. Antonin è troppo intelligente, e poi ne ha già viste troppe per non sapere che, alla gente povera, niente accade per caso; e ogni decisione, fino alla più piccola scelta, non è spontanea, ma dettata, governata, incalzata dalla necessità, da un’ineluttabile urgenza. Non è così anche nella favola dei due orfanelli che la strega nutre di bonbons e croissants per venderli all’orco, che non vede
l’ora di sgranocchiare le loro carni rosolate nel forno e arrostite allo spiedo? Del resto, anche il manovale Carême guarda suo figlio come si guarda un porcellino da latte che si lardella e si ingrassa perché sia soffice e tondo al momento in cui si affonderà il coltello nella sua gola rosa e palpitante di un atavico, ancestrale terrore: un occhio intenerito, persino dolente; quell’altro impaziente, già galleggiante in un liquido denso, con un fondo leggermente salato, simile all’acquolina. Il manovale Carême aspetta che Antonin si ingozzi fino a non poterne veramente più, fra il patetico e il burbero gli molla uno scappellotto da fargli girare la testa, e senza tirare il fiato recita una litania sperimentata già tante altre volte: “Ragazzo mio, mon garçon, è arrivata l’ora. Non pensare più a tua madre, a me, alle tue sorelle. La nostra sorte è stata la miseria, e così moriremo. Vai per la tua strada”. Non è un padre snaturato, la gente povera faceva sempre così. Dai dieci anni in avanti, i figli maschi: tutti fuori di casa. Arrangiarsi. Inventarsi un futuro. E si può persino chiamare fortuna quando sono sopravvissuti alla mortalità infantile, la denutrizione, le epidemie, le febbri benigne, maligne, putride, infiammatorie, quotidiana, terzana, quartana, primaverile. La meningite, la dissenteria, il tifo, il vaiolo. Le infezioni da acque di pozzi e fontane pubbliche avvelenate dalle fogne, i detriti, gli scoli. Il pane che contiene segatura e sali tossici. Il sale da cucina