Anselm Kiefer. Il sale della Terra

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Germano Celant

Anselm Kiefer

Il sale della Terra

Skira

â‚Ź 58,00

Germano Celant

Anselm

Kiefer Il sale della Terra



Germano Celant

Anselm Kiefer Il sale della Terra


Nel Magazzino del Sale, lungo il Canale delle Navi, grande via liquida tra le pietre delle Zattere e quelle della Giudecca, per alcuni anni ha lavorato Emilio Vedova. Ora, dopo il restauro magistralmente progettato da Renzo Piano, il Magazzino, primo di nove Saloni cinquecenteschi, è lo spazio espositivo della Fondazione Vedova, tecnologicamente dotato come i più avanzati musei del mondo. Anselm Kiefer lo ha visto, ne è rimasto affascinato, ne ha riprodotto forme, misure e sagome nei suoi spazi parigini e ha ideato e creato appositamente per il Magazzino del Sale un inedito complesso di opere che, inaugurate in prima assoluta visione nel maggio di questo 2011, vi resteranno esposte sino al 30 novembre. “Salt of the Earth” è il titolo della mostra di Kiefer curata da Germano Celant e organizzata dalla Fondazione Vedova. Riflette non solo l’interesse dell’artista per il processo alchemico di cui il sale è una componente e testimonia l’ulteriore fase della inesausta ricerca di Kiefer intorno ai valori essenziali dello spirito, nell’umano cammino in questa terra. Ma anche un intrigante riflesso tra la sua arte e un magazzino in cui veniva depositato il sale, il prezioso oro della Repubblica veneziana. La mostra, commentata e rappresentata nel bel catalogo Skira, si apre contemporaneamente a quella di “... in continuum” di Emilio Vedova nell’altro suo Studio poco distante, nel quale l’artista veneziano ha lavorato per moltissimi anni, e che recentemente è stato recuperato come spazio museale di enorme potenzialità.


La contestualità delle due mostre testimonia il senso complessivo della missione della Fondazione Vedova, che non consiste solo nella valorizzazione e nello studio dell’opera dell’artista, ma anche nel far continuare idealmente il suo rapporto dialettico con il mondo e la sua “presenza” nel presente: un dialogo fra protagonisti della cultura contemporanea. Non si tratta di un confronto per cogliere uguaglianze-differenze tra artisti e tanto meno per determinare scale di valori o di meriti: si intende ascoltare i testimoni del pensiero artistico attuale attraverso l’eloquente messaggio delle loro opere pittoriche e delle loro installazioni. Ancora una volta Venezia: Venezia che ha stimolato un grande artista come Kiefer, confermandosi come eterno luogo di ispirazioni e creazioni originali e, dunque, di trasmissione di un pensiero artistico. Ma è la storia che si ripete: anche senza ritornare alla gloria e ai trionfi della pittura veneta del rinascimento, del barocco e del vedutismo settecentesco, o alle visioni shakespeariane nel Mercante di Venezia e nell’Otello, come dimenticare la forza ispiratrice di Venezia per gli scrittori e i poeti foresti dell’Ottocento e del primo Novecento, da Henry James a Thomas Mann, da John Ruskin a Ernest Hemingway, da George Gordon Byron a Ezra Pound, per citarne solo alcuni. Ma fotografi, architetti, urbanisti, registi hanno sempre trovato e trovano tuttora in Venezia una perenne fonte di stimoli e di ispirazioni per le loro rappresentazioni mediatiche. Ancora una volta la Fondazione Vedova (lo è

già stata con il dialogo fra gli inediti di Vedova e gli inediti di Louise Bourgeois) si pone come tramite e centro di produzioni originali e trasmissione di un messaggio culturale che travalica i confini della città: con uno sforzo e un impegno notevoli di cui vanno in particolare ringraziati il curatore artistico scientifico Germano Celant, il direttore delle collezioni Fabrizio Gazzarri, gli architetti Alessandro Traldi e Maurizio Milan, che con l’impresa ICCEM hanno progettato e realizzato gli allestimenti e tutti coloro che, a Venezia, Milano e Parigi, hanno concorso a rendere possibili le mostre. Così la Fondazione pensa di onorare i suoi fondatori Emilio e Annabianca Vedova e di partecipare alla con-figurazione della città di Venezia, vissuta e prediletta non solo da Vedova ma da ogni sensibile artista, storico punto di riferimento della cultura nel mondo. Questa città è in una perenne ricerca, mai compiuta mai soddisfatta, di una sua identità dopo l’ormai lontanissima caduta della Repubblica Serenissima. È stato suggestivamente detto che Venezia è un labirinto non solo urbanistico ma anche ideale, anzi un ossimoro, un fenomeno di duplicità perché è città della vita e della morte, ma anche della gioia e del mistero. Indubbiamente Venezia vive molti paradossi, ma soprattutto uno: più il tempo avanza e più è un tempo nuovo per tutto il mondo, più Venezia invecchia. È una divaricazione inevitabile per una città che per essere sé stessa, quantomeno nella sua forma urbis, in questa forma viene distanziata dalla forme moderne. È una città condannata a restare sempre sé

stessa, cioè nella forma urbis, nei suoi monumenti, nei suoi palazzi, nei suoi rii, nel suo Canal Grande: tutti la vogliono così, identica a sé medesima, nelle sue strutture fisiche come definite dall’architetture, dalle arti dal tempo. La forma urbis trasmette, per definizione, un messaggio dell’antichità e di antichità, quasi fosse una Pompei ma talmente plurivisitata da diventare Disneyland. Come sopravvivere nel contemporaneo? Forse proprio così: nella creazione e nella trasmissione di un pensiero contemporaneo, sia esso artistico sia esso scientifico. Città dello spirito. Città delle attività immateriali. Città della cultura che riesce a fronteggiare gli aspetti più dirompenti del turismo attraverso la valorizzazione della sua pluralità di facce nelle più diverse connotazioni, anche tradizionali, dei costumi, delle abitudini, della lingua, dei comportamenti, degli stili di vita. La forma della città e i suoi capolavori trasmettono un messaggio “culturale antico”, la cui attualità deve essere affermata attraverso la creazione e la trasmissione di un pensiero contemporaneo artistico e scientifico, che attraversi prepotentemente le sue antiche mura e le sue acque. D’altronde non sono proprio gli artisti che concorrono con la più grande incisività a creare un’immagine delle città anche con la loro presenza? Vedova e Kiefer sono oggi, tutti e due, presenti a Venezia. Alfredo Bianchini Presidente della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova



La traversata di Anselm Kiefer nei conflitti della storia e del presente si palesa nelle sue pitture e nelle sue sculture attraverso diverse manifestazioni, il cui riverbero nell’arte è in continua mutazione interpretativa. La sua opera è massimo esempio di una complessità linguistica e di una ricchezza immaginaria difficili da confinare; per questo i livelli di fruizione del suo percorso hanno trovato esegesi sempre più articolate e ampie. In questa mostra e nella pubblicazione che la affianca si è tentato, con l’artista stesso, di focalizzarsi sull’aspetto relativo alla componente alchemica che è anche riflessa nel titolo dell’esposizione, “Salt of the Earth”. Tale impresa non sarebbe stata possibile senza l’entusiasmo e la generosità di Anselm Kiefer e del suo studio a Croissy. Come nel nostro precedente dialogo a Venezia, Bilbao e Milano, Anselm è riuscito a produrre un insieme di opere e di immagini che, nel suo riferimento alle tradizioni esoteriche e iniziatiche, continuano a essere attuali e iconoclaste. Devo quindi ringraziarlo per l’energia profusa nel territorio dell’arte e per la generosità con cui mi ha condotto alla ricerca di questo aspetto specifico della sua grande opera. Mettendo a disposizione il suo tempo e il suo archivio ha permesso di analizzare e documentare, approfondendolo, un altro aspetto della sua energia artistica. Un sentito grazie va al presidente Alfredo Bianchini, al direttore Fabrizio Gazzarri e a tutti i consiglieri della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, che hanno sostenuto immediatamente e con estremo entusiasmo questo progetto. All’interno dello studio di Anselm Kiefer non avrei potuto trovare migliore dialogo con Waltraud Forelli, che mi ha concesso il suo prezioso tempo e, affiancata dalla professionalità di Eva König e di Eve Séguret-Rivero, ha arricchito fin

dall’inizio la mia ricerca con materiali e indicazioni scientifiche. Un volumetrico ringraziamento va ad Alessandro Traldi che, affiancato da Maurizio Milan, ha dato forma alla progettazione delle strutture e dell’allestimento delle opere di Kiefer nel Magazzino del Sale. Nell’ambito della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova sono grato a Maddalena Pugliese e a Sonia Osetta e Bruno Zanon per la continua collaborazione, mentre a Milano ho potuto contare sulla precisa analisi del materiale di Astrid Welter e sulla sensibilità editoriale di Chiara Spangaro e, nel mio studio, sulle puntuali ricerche di Marcella Ferrari e di Mariví García Manzano, assistite da Valentina Lucio. Sul piano della comunicazione stampa e dell’immagine grafica sono stati indispensabili, a Venezia, gli apporti e le idee dello Studio Systema e dello Studio Camuffo, che ringrazio nelle persone di Adriana Vianello, Andrea De Marchi, Andreina Forieri, Paola Castiglioni, Giorgio Camuffo, Michela Miracapillo e Andrea Codolo, senza dimenticare Alessandra Santerini. Grazie anche a Massimo Vitta Zelman e a tutto lo staff Skira per il lavoro e l’attenzione posti nella realizzazione di un catalogo così ricco e complesso: a Stefano Piantini, Emma Cavazzini, Vincenza Russo, Marcello Francone, Luigi Fiore, Sara Salvi, Bruno Bani, Anna Albano e Doriana Comerlati. Infine un dolce ringraziamento a Renate, Elektra e Virgil, a Parigi, e ad Argento e Paris, a Milano, che continuano a esserci vicini nella nostra avventura. Grazie a tutti,

Germano Celant


Avvertenza Il volume, in collaborazione con lo Studio Kiefer, documenta circa duecentocinquanta opere ordinate cronologicamente dal 1969 al 2011, e offre una esaustiva riflessione visuale dell’artista sul tema dell’alchimia e della cabala. Oltre al saggio iniziale e alla riproduzione di quadri, sculture e installazioni, sono presenti testi critici, pubblicati dal 1987 al 2010, di Michael Auping, Heiner Bastian, Marie-Laure Bernadac, John Hallmark Neff, John Hutchinson, Christian Kämmerling, Donald Kuspit, Roland Recht, Mark Rosenthal, PeterKlaus Schuster, Jean-Marc Terrasse, relativi al soggetto trattato e corredati da minimali. Ogni scritto rispetta la scansione temporale che ordina l’intero libro e la sua citazione bibliografica completa si trova nell’Elenco delle fonti e delle illustrazioni, introdotta dal numero di pagina relativo. Ogni immagine è corredata da una didascalia che riporta: - il numero progressivo che rimanda all’Elenco delle fonti e delle illustrazioni (p. 316), dove reperire la didascalia completa anche di materiali, dimensioni e collocazione, quando conosciuti; - il titolo corredato dalla sua traduzione tra parentesi quadra; - la data di esecuzione dell’opera; quando è presente la doppia data, essa riferisce dell’inizio e del termine della sua elaborazione. Seguono l’elenco delle fonti e delle illustrazioni: la biografia e le esposizioni personali di Kiefer, la bibliografia selezionata delle sue monografie e quella generale, che riunisce articoli, saggi, recensioni e interviste.


Sommario

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Laboratorio Kiefer Germano Celant

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Visioni di un Nuovo Mondo: dal 1980 al 1987 Mark Rosenthal

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La scommessa di Kiefer John Hutchinson

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“Di notte mi sposto in bicicletta da un quadro all’altro” Un colloquio nell’atelier di Anselm Kiefer, sul suo lavoro e sulla sua visione del mondo Christian Kämmerling, Peter Pursche

179

Anselm Kiefer: Paradiso e Terra Michael Auping

213

Athanor Marie-Laure Bernadac

217

Frontiere, dentro di noi, fuori di noi, noi Jean-Marc Terrasse

231

Anselm Kiefer. Saturnzeit, 1988 Roland Recht

235

Anselm Kiefer. Himmelspaläste - Heavenly Palaces Heiner Bastian

316

Elenco delle immagini e dei testi

Leggere Kiefer John Hallmark Neff

125

147

189

Saturno, Malinconia e Mercurio Osservazioni sulla “pittura saturniana” di Kiefer Peter-Klaus Schuster Lo spirito del grigio Donald Kuspit

Apparati 324

Biografia ed esposizioni personali

326

Bibliografia selezionata



Germano Celant

David Teniers the Younger L’alchimista olio su tavola 40,6 x 30,5 cm

Laboratorio Kiefer

Nel 1968 il vissuto salva l’artista sull’orlo dell’abisso del vuoto concettuale che, con il suo percorso filosofico e metafisico, si basava sulla negazione sistematica del conflitto esistenziale e identitario. All’epoca ciò che è reale e sentito viene infatti considerato apparenza e viceversa quanto è puramente pensato e scritto diventa reale: quanto più ideale, tanto più esistente. Tale ostilità contro il rappresentare e l’apparire avvicina la ricerca artistica a un platonismo estremo, che considera il visuale una semplice manifestazione dell’intelletto, ma inquina la concezione di un mondo basato sulla memoria e sull’intuizione. Salva il fenomeno per ridurlo ad apparenza di indicazioni filosofiche che riguardano solo il significato originario e primario, con la conseguenza di rimuovere ogni elemento nascosto, non rivelato e non rivelabile, perché appartenente al mondo vero dell’esistenza personale e collettiva. Le ricerche artistiche che vanno dal minimal al conceptual hanno infatti la pretesa di sbarazzarsi di ogni potenza storica, per cui la sfida è di impostare il proprio racconto per immagini sulle latenze e sugli occultamenti che hanno interamente nascosto le vicende dell’essere storico. Già dalle sue prime prove in arte Anselm Kiefer compie un movimento opposto, poiché per la sua visione l’apparenza è l’essere e le cose reali della sua vita passano attraverso l’eterno ritorno della storia e dei suoi termini visivi. L’esteriorizzazione dell’identità si pone allora quale principio conoscitivo e questa passa innanzitutto attraverso la rivelazione dell’oblio e del rimosso. È prima di tutto una rifondazione di un sé stesso che si appella all’origine di quanto è pervenuto e ha costituito il presente. Al pari di Martin Heidegger è la memoria il punto di arrivo di Kiefer, inteso come un essere che, quale artista e persona, per proporsi come un “dopo” è destinato a far emergere e a duplicare qualcosa che sta “prima”. Infatti l’illusione di un intellettuale o di un protagonista dell’arte, si pensi a Joseph Beuys, di sostenere una nuova vita e una nuova azione, è destinata a dissolversi e il progetto a fallire: qualsiasi modello che si appresta a vivere nell’aspirazione a una socialità comune e creativa è condannato, se vuole pervenire all’iniziazione, a nutrirsi di innocenza. Una pretesa liberatoria e utopica che consiste nel credere in una identità autonoma e senza colpa capace di cancellare il crimine originario della “nascita”: un auto-progettarsi in cui l’artista si offre come un essere totale, padrone dell’esistenza. Al contrario, per Kiefer, la possibilità di essere al mondo non sta nel rifiutare la nascita culturale, sociale ed etnica, ma nell’usarla come premessa, sia pure legata all’ansia e all’angoscia di un passato interdetto e pauroso. Più che entrare in una nuova vita, l’artista si preoccupa di immergersi in tutte le pulsioni occulte e sotterranee del suo vivere per cercare una tranquillità e una salvezza nel suo groviglio storico e psicologico. Di fatto prende in considerazione la presenza di una storia che è immanenza sovrastante il suo essere artista e ne fa la sua possibilità di esserci. La assume come “anticipazione” del suo possibile fare: una libertà condizionata e piena d’angoscia che trova quindi la sua autenticità nella decisione di essere “colpevole” e “nullo”, perciò un essere morto che nella morte trova la sua rinascita1. È in tale nigredo storica, quella della cultura nazista e della sua iconografia, che Kiefer trova, nel 1969, la resurrezione. Si dedica infatti a raffigurarsi nel saluto hitleriano, così da immergersi nella dimensione di un essere che deve imparare dalla memoria della morte per tornare a vivere. Non meraviglia quindi che la sua ars moriendi, di matrice alchemica, 13


Martin Heidegger, 1976 26 pagine fotografie in bianco e nero, collage, gouache e ossido di ferro su cartoncino rilegato 59 x 43 x 4 cm collezione privata

Für Genet [Per Genet], 1969 fotografie originali, capelli acquarello su carta montata su cartoncino 11 pagine doppie più copertina e quarta di copertina, rilegato in lino 70 x 50 x 8 cm

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Germano Celant

gli serva come apertura verso un’esistenza autentica e piena. Al tempo stesso la ricerca di salvezza personale e culturale riflette inevitabilmente un contesto luterano e romantico, tanto da richiamare la pittura di Caspar David Friedrich, quello di una rinascita umana che, essenzialmente viziata dal peccato originale, deve passare su una meditazione sull’esaltazione e l’affermazione del sé. Così da transitare dalla nascita alla morte, riflettendo sistematicamente su quest’ultima. Un umiliarsi, un abbassarsi e un annientarsi dinanzi a essa per arrivare a una consapevolezza e una cognizione di sé. È per tale scopo vitale che Kiefer nel 1969, da Für Genet [Per Genet] a Heroisches Sinnbild I [Simbolo eroico I] a Am Meer [Al mare], fa riferimento a una sua “colpevolezza” e si “riconosce” nell’immagine del rituale nazionalsocialista. Accoglie in sé tutte le parti della cultura tedesca, per non abbandonare il terreno della sua storia, consapevole che – essendone parte – non può sottrarsi alla sua desolazione e al suo fallimento. Non cerca un nuovo spazio, come nella tradizione delle avanguardie storiche e moderne, ma si fa attore passivo: si accusa di un peccato e di una colpa così da fondare una premessa di cosciente rinascita. Per questo decide di affrontare con impietosa necessità il limite autentico di una continuità che, seppur nel presente non gli appartiene, è stata il suo centro, se non il suo destino, di venuta al mondo. Non un richiamo alla databilità – Kiefer è nato nel 1945 –, ma alla temporalità storica di un essere gettato in un tempo tragico e spaventoso, di quel che per un artista è possibile dopo Auschwitz. L’essere costretto a imbattersi in una responsabilità infinitamente grande che l’arte del dopoguerra, dichiarandosi innocente della barbarie e dell’abiezione per esimersi dall’obbligo di un giudizio, non aveva esaurito. Sin dall’inizio del suo percorso il problema, per Kiefer, non è superato né esaurito in un finale silenzioso, ma va assunto come elemento etico del suo fare in una decantazione alchemica tra il male e il bene, così che la fusione ultima si impregni di responsabilità2. In tale prospettiva si chiama in causa come “testimone”, obbligandosi al gesto hitleriano, quanto evidenzia l’intreccio della colpa con il fare intellettuale, chiamando in causa – come era successo per Genet – l’opacità del comportamento e della battaglie di Heidegger con la sua linea oscillante, tra il 1930 e il 1933: prima sull’Essenza della verità3 e poi su Che cos’è la verità4, dove il pensatore tedesco passa da un coinvolgimento con la politica culturale hitleriana a uno strappo in cui l’evoluzionismo nazista è denunciato come una “visione cieca dell’umanità”5. Un’imputabilità che nel libro Martin Heidegger, 1976, vede simmetricamente da una parte un cervello sovrastare e intridere di materia cerebrale la fabbrica di mattoni, dove ha sede lo


Heroisches Sinnbild I [Simbolo eroico I], 1969 olio e carboncino su tela 260,5 x 150 cm

studio dell’artista, dall’altra far affiorare sulle pagine una zona nera e combusta, memoria delle vittime delle camere a gas di Auschwitz. Kiefer è consapevole che per diventare persona e poi artista deve interrogarsi su questa vergogna e su questa tragedia, dando non spiegazioni ma immagini. E per ottenere un risultato si immedesima prima con il colpevole e poi abbraccia la vita del sopravvissuto e si dichiara pronto a pagare il suo contributo di solidarietà sia con il passato sia con il presente, sacrificandosi a entrambi per trovare una “propria dimensione”. L’attraversamento del nero è pertanto il destino dell’artista che fa dello sguardo e della pittura, non una duplicazione del reale e dell’apparente, ma un’apertura che si spalanca verso l’universo interiore, là dove si può riaccendere una vita nascosta rimossa. Così Kiefer, sin dal 1969, trasporta la tela e la pagina da un silenzio agghiacciante e misterioso all’urlo e alla denuncia di un’espressione dell’indicibile e sull’invisibile, sulla cui ombra e sul cui scuro è necessario riflettere, passandovi attraverso e assumendosene il peso. Trova il sospeso della storia ed entra nel suo abisso, schiudendo la coscienza di un sapere bruciato e orrifico. Erode ogni difesa e si getta nella voragine attraverso l’esperienza del suo corpo che riveste la sua epidermide di una divisa militare, per assumersi il tutto pieno della storia, ma al tempo stesso si ricopre di una tunica bianca per sottrarsi definitivamente alla riduzione d’identità del non-uomo hitleriano. Si inchioda nel gesto nazista, ma contemporaneamente si rappresenta quale superficie intonsa di una “scrittura” pittorica salvifica e germinale per un nuovo paesaggio dell’arte. Si fa ipotesi di seminazione, centrata sulla forza fecondante del suo “sangue”, Winterlandschaft [Paesaggio invernale], 1970, e del suo seme, 20 Jahre Einsamkeit # 15 [20 anni di solitudine n. 15], 1971-1991, elemento igneo e sostanza vitale del pensiero per immagini. Una forza tra il materico e lo spirituale che si traduce in una “pittura mentale” che, accanto al teatro mentale di Antonin Artaud, è metafora di uno spazio “altro”, del tutto “interiore”6. Da questo punto di vista l’avviamento di un’arte quale strumento per arrivare all’anima, mediante un rifacimento della propria vita, evidenzia sin dalle prime opere il tragitto esoterico e iniziatico di Kiefer. La sua ossessione alchemica e cabalistica e il progressivo avvicinarsi alla meditazione orientale, così da vincolare la nascita della sua pittura a una rigenerazione delle vita. Un rifarsi all’ombra delle lacerazioni interiori e della negazione dell’io libero e a-storico, così da rifarsi al positivo del negativo. Nella visione dell’artista il pensiero e l’immagine relativa, come in Paul Celan, devono connaturarsi come dramma, affondando le radici della loro operatività anche nei miasmi della tragedia del nazismo e dell’Olocausto, in quel basso e nero mondo della storia passata, ma ancora recente. Il marchio del suo tragitto futuro sarà allora il sacrificio che fa cadere la misura analitica delle ricerche minimali e concettuali, per tramutare l’oggetto e il soggetto in un’unica materia: entità spettrale alla ricerca di un’origine sottratta e oscura. In Mann im Wald [Uomo nella foresta], 1971, Kiefer si rappresenta, ricoperto di una tunica candida, al centro di un bosco, in mano un ramo infiammato: è la definizione visuale di un avventura spirituale in cui l’artista è al centro della creazione di un mondo incandescente. Un fuoco che tutto rigenererà, poiché scaturito dalla conciliazione alchemica tra spirito e materia. Un richiamo all’alchimia, quale metodo esoterico teso alla riunione della dualità dell’Uno, è importante per evitare, in Kiefer, la tentazione di una lettura mistica e magica. Seppur si avvicina all’intreccio tra materia e spirito, coniugato con un certo romanticismo, il nulla o il nero come fecondità è teologicamente in negativo, gioca sul concetto di rivoluzione fattuale, senza agganci alla spiritualità, piuttosto si gioca sull’interiorità e sull’inconscio, per quanto secondo la prospettiva junghiana dell’archetipo. Tutta la pittura di Kiefer nasce quindi da un disordine interiore che deve offrirsi prima all’abominevole conoscenza, rivelare lo strazio del buio e della notte, e poi offrirsi al soffio di un nuovo fuoco liberatorio e immaginario. Mann im Wald è il risultato di un tormento, quanto la felicità, ancora triste, di un orribile che si può tramutare in vulcanico: incandescenza di un conflitto e di una passione interni che, nella vitalità del fuoco che brucia e trasforma, fa germinare un mondo affettivo ed emozionale, dove l’artista non è più costretto alla negazione di sé, ma inizia a proporsi come “superficie” bianca, liberata dal dramma di una scrittura storica, tragica e negativa. Un essere già risultato di una stratificazione esoterica, quella di un corpo solido, ma purificato senza macchia, uno spirito come incandescenza salvifica, rappresentata dal fuoco e l’anima come entità mediana tra le due polarità. Da questa triade scaturisce il dipinto: la forza nervosa coagulata, dove si accumulano le immagini dell’essere Kiefer, piantato nel centro di una figuralità di matrice teutonica, quella del bosco. Secondo le antiche simbologie dell’alchimia un “matrimonio” iniziatico con la propria terra – l’artista è Laboratorio Kiefer

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Il piombo agisce su di me più di qualsiasi altro metallo. Se si indaga su questa sensazione, si apprende che il piombo è sempre stato un materiale per le idee. Nell’alchimia questo materiale era collocato al livello più basso del processo di trasmutazione dell’oro. Da un lato il piombo era opaco, pesante e collegato a Saturno – l’uomo torvo – dall’altro esso contiene argento e denotava quindi un livello diverso, più spirituale. […] Voglio aggiungere qualcosa su questo processo di maturazione. L’ideologia alchemica era questa: l’accelerazione del tempo, come nel ciclo-piombo-argento-oro, che necessita solo di tempo per trasformare il piombo in oro. L’alchimista accelerava questo processo con mezzi magici. Si parlava di magia. Come artista, io non faccio nulla di diverso. Mi limito ad accelerare la trasformazione che è già insita nelle cose. Questa è la magia per come la intendo io. Anselm Kiefer


2. Du bist Maler [Tu sei un pittore], 1969

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Opere


3. Marmorlandschaften [Paesaggi di marmo], 1969

Opere

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4. Unfruchtbare Landschaften [Paesaggi sterili], 1969

34

Opere

5. Winterlandschaft [Paesaggio invernale], 1970


Opere

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23. Seraphim [Serafino], 1983-1984

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Opere


Mark Rosenthal

Visioni di un Nuovo Mondo: dal 1980 al 1987

24. Copertina del catalogo della mostra Anselm Kiefer, The Art Institute of Chicago and Philadelphia Museum of Art, 1987

Tra il 1980 e il 1983 Kiefer prende a interessarsi sempre meno della terra, preferendole l’architettura come scenario delle sue opere. Proprio come in precedenza aveva trasmutato le vicende della storia tedesca, ora si impadronisce dei progetti dell’architettura nazista per creare monumenti commemorativi che dedica a vari personaggi, e in particolare agli artisti. La sua appropriazione di tali progetti non è che una delle tante utilizzazioni cui l’architettura di stile classico era stata destinata nel tempo. Con la creazione di una nuova fase di questa evoluzione, Kiefer dimostra che le convenzioni architettoniche non sono che contenitori vuoti, poco più di una stilizzazione superficiale mediante la quale una cultura celebra i propri eroi. L’acquarello Dem unbekannten Maler [Al pittore ignoto], 1980, è il primo di una lunga serie. Con una delicata applicazione delle tonalità di colore, Kiefer dà vita a una nuova ambientazione per la sua tavolozza “innalzata” già raffigurata in precedenza nel libro Die Donauquelle [La fonte del Danubio] e in altre immagini contemporanee. Invece di collocare la tavolozza in uno scantinato fatiscente, Kiefer crea un ambiente solenne, decorato con le colonne squadrate predilette dall’architettura nazionalsocialista. Lo scenario in cui Hitler e i suoi fedeli erano stati acclamati ospita ora il monumento commemorativo di una vittima del regime, forse uno di quegli artisti spregiativamente definiti “degenerati” e messi al bando dai nazisti, oppure uno degli artisti costretti a produrre opere conformi allo stile ufficiale. In due acquarelli del 1982 sul tema del pittore ignoto, la fragile tavolozza innalzata su un’asta occupa una posizione centrale all’interno dell’edificio nazista. La tavolozza, che costituisce sia il punto focale sia la raison d’être del contesto architettonico, potrebbe rappresentare anche il punto di avvio di una società concepita in modo

1 2

Intervista, gennaio 1987. Eliade, Forge, p. 31.

nuovo che celebra l’arte. In una conversazione riguardante la collocazione di un oggetto su un palo, Kiefer rilevava che durante la rivoluzione russa le teste decapitate venivano impalate ed esposte al pubblico1. Questo precedente carica l’interpretazione apparentemente pacata di Kiefer di una vena particolarmente morbosa; il modo in cui il soggetto è trattato, inoltre, suggerisce che l’anima della persona commemorata è stata trasferita all’edificio, che diventa il nuovo “corpo” dell’eroe2. Un edificio tipicamente nazionalsocialista costituisce l’ambientazione di Innenraum [Interno], 1981. Il motivo dei pannelli squadrati del soffitto, che viene ripreso sul pavimento marmoreo del grande salone, è copiato esattamente dalle fotografie della Cancelleria di Hitler, progettata da Albert Speer3. Quello spazio inondato di luce viene tuttavia grossolanamente manomesso. Kiefer applica frammenti di xilografie nere su tutta la superficie, compresa una in primo piano che rappresenta un incendio, famigerato strumento del potere nazionalsocialista. Così come aveva descritto il Valhalla nel 1973, anche in questo caso una sala rituale è stata annerita dal fumo e profanata; all’interno lo spazio fuligginoso è anch’esso direttamente ripreso dal paesaggio andato a fuoco. In una serie di xilografie intitolate Der Rhein [Il Reno], Kiefer mette in relazione il tema dell’artista ignoto con il destino della Germania stessa. In una precedente versione che risale al 1980 crea una composizione che ricorda Resurrexit, in cui una struttura architettonica di dimensioni ridotte si appoggia su un paesaggio; questa xilografia attesta per coincidenza l’evoluzione dei soggetti di Kiefer, che dal paesaggio ritornano all’architettura come ambientazione di eventi storici. Lo sfondo è Il Memoriale al Soldato di Wilhelm Kreis, circa 1939, una poderosa distorsione dell’architettura classica. Lungo tutta la parte superiore del quadro, Kiefer scrive “Dem unbekannten Maler” [“Al pittore ignoto”], eppure l’artista intitola l’opera Der Rhein, fondendo pertanto il simbolo più sentito del proprio paese, il 57






55. Die Quelle [La fonte], 1987

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Opere


John Hallmark Neff

Leggere Kiefer

56. Copertina del catalogo della mostra Bruch und Einung, Marian Goodman Gallery, New York, 1987

È difficile capire da dove cominciare a parlare dell’opera di Anselm Kiefer. E questo non perché la sua arte sia complessa e impegnativa (sebbene lo sia), non perché sia poco conosciuta (perché non lo è più), e neppure perché egli preferisca una biografia succinta, in modo da far convergere la nostra attenzione principalmente sulla sua produzione artistica (e questo è vero). Decidere da dove iniziare è difficile perché l’arte di Kiefer è straordinariamente completa. Come il suo nome, di cui si è detto che appartiene all’epoca di Dürer 1, l’opera di Kiefer ci ricorda un’altra epoca, ci ricorda l’arte del mondo unitario del Medioevo, in cui percepiamo l’equilibrio tra elementi visivi e non visivi, tra ciò che si poteva propriamente vedere e ciò che si doveva sapere. Questa unione tra percezione, conoscenza e intuito ha dato significato all’insieme, poiché ha rivelato il senso di ciascuna parte. I metodi di lavoro di Kiefer non sono diversi. Attraverso tema e variazioni sul tema, immagini e simboli ricorrenti, titoli e iscrizioni, ha esteso la portata della sua arte ben oltre i soggetti tedeschi per i quali si era fatto conoscere in un primo tempo, integrando culture molto lontane nel tempo e nello spazio dall’Europa del XX secolo. Quella che ora appare come una straordinaria unicità di scopo, si può spiegare come una semplice conseguenza naturale della decisione di Kiefer di affrontare, da artista visivo qual è, le eterne questioni dell’esistenza, della vita, della morte, della rinascita, di Dio e del nostro posto nell’universo. Questa non è certamente un’ambizione nuova – per alcuni è l’unica ambizione che valga la pena di avere – ma è una di quelle spesso accuratamente evitate o, in pratica, incresciosamente rimosse. Quello

Evelyn Weiss, in Anselm Kiefer, catalogo della mostra, Bonner Kunstverein, Bonn 1977. Kiefer gioca spesso sul suono del suo nome; per esempio, nella serie sulla leggenda del Kyffhäuser (vedi Lisa Liebman, Anselm Kiefer at Marian Goodman, in “Art in America”, 69:6, estate 1981, p. 125), e nei titoli di Maikäfer flieg (il gioco di parole su mosca / maggiolino [“maggiolino” si riferisce all’automobile della Volkswagen, che in tedesco è chiamata “Käfer”, n.d.t.] di Kiefer può alludere alla sua rappresentazione del concetto di angelo / artista) e, uno degli esempi più interessanti, considerato l’uso che Kiefer fa della tavolozza simbolica dell’artista su una corda in fiamme, Palette am Seil [Tavolozza su una corda, 1977], che compare in Anselm Kiefer (catalogo della mostra, Städtisches Kunsthalle, Düsseldorf 1984), p. 73, nel quale Jürgen Harten fa rilevare la sua qualificata ispirazione dall’Introduzione a Zarathustra di Nietzsche. L’elencazione degli autoritratti di parole che Kiefer fa, consapevolmente o meno, non finisce qui. Ad esempio, Kiefer attribuisce due significati distinti in tedesco a: die Kiefer, un abete o un pino, e der Kiefer, una mandibola. Nella sua opera giovanile usava spesso un’immagine di sé stesso paludato di vesti bianche in piedi in una simbolica foresta tedesca. In una serie la sua immagine si sostituisce a un albero; vedi un quadro senza titolo del 1971 che compare in Anselm Kiefer (catalogo della mostra, Museum Folkwang e Whitechapel Art Gallery, Essen, London 1981), p. 5, da confrontare con un’opera analoga, Mann im Wald (L’uomo nella foresta) anch’esso del 1971, che compare in Anselm Kiefer (Düsseldorf 1984), p. 28, in cui l’autoritratto è di nuovo reale.

1

che rende Kiefer unico, tuttavia, e certamente uno dei motivi per cui i suoi quadri e i suoi libri hanno avuto un’influenza positiva in questi tempi di cauto entusiasmo, è la sua capacità non solo di rappresentare i propri soggetti, bensì di sceglierli. È un artista importante perché ha saputo comprendere degli eventi, dei personaggi e dei concetti storici (ad esempio, nella sua mostra, il rapporto tra Osiride e l’energia nucleare) che rendono chiara la sua consequenzialità e danno vita alle sue astrazioni. Per contro, Kiefer evita i clichés, che reputa prosciugati della loro capacità di risvegliare la nostra immaginazione e di coinvolgere la nostra intelligenza. Nell’affrontare i rischi dell’imponderabile, tuttavia, egli usa tutti i mezzi a sua disposizione in quanto artista per stabilire collegamenti geniali tra fenomeni che appaiono incontrollatamente diversi tra loro. Ed è proprio l’imprevedibilità delle sue immagini, la loro provocante estraneità, che assicura a tali collegamenti un’immediatezza e una chiarezza che identifichiamo con la verità. Chiaramente Kiefer prova simpatia per le civiltà del passato il cui compito era quello di sintetizzare in sincretismi la saggezza e le congetture di concezioni diverse tra loro come l’astrologia babilonese, i culti arcani dell’Egitto, il pensiero neoplatonico e gli scritti degli gnostici e dei primi mistici. Per secoli gli artisti hanno sottoposto ad attenta lettura tali enciclopediche corrispondenze. E comunque, in questa dovizia di rappresentazioni per immagini, alcune delle quali conosciute attraverso l’arte e la storia dell’arte, Kiefer trova esattamente il simbolo o il particolare che gli serve e al quale conferisce un nuovo significato per gli occhi contemporanei. Nei primi anni ottanta, quando la sua arte veniva scoperta da un pubblico al di fuori dalla Germania o dall’Europa di lingua tedesca, Kiefer fu criticato per essersi attenuto a un ambito di riferimenti così localizzati e personali che si riteneva precludessero ogni autentica comprensione da parte di altri tedeschi, per non parlare di quelli ancor più lontani per lingua e cultura2. 99


Così, come negli anni settanta e nei primi anni ottanta, Kiefer rappresentava per immagini dei concetti prevalentemente tedeschi, nelle opere giovanili egli sembra aver concentrato dei giochi di parole sul suo stesso nome e sulla sua stessa immagine. È come se avesse elaborato in un primo momento la propria identità in quanto Anselm Kiefer, e successivamente in quanto il tedesco Anselm Kiefer, per diventare poi ciò che è oggi, un artista di crescente rilevanza internazionale che sa chi è e da dove è venuto. Vi è infine un’analogia (della quale Kiefer sostiene di non essere al corrente), tra il suo nome e quello di uno dei suoi scrittori preferiti, Paul Celan (1920-1970), il poeta ebreo di origini rumene ma di lingua tedesca, il cui inquietante Todesfugue [Fuga di morte], dedicato all’Olocausto, ha portato Kiefer alle sue immagini della bionda Margarete (dal Faust di Goethe) e la splendidamente tenebrosa Sulammita (dal Cantico di Salomone). Sopravvissuto ai campi di lavoro tedeschi ma avendo perduto tutta la sua famiglia, Celan modificò il proprio nome in una sorta di rinascita rituale. In quella che fu descritta come la più breve delle sue poesie, cambiò il cognome della sua famiglia Ancel (o Antschel) nell’anagramma Celan: un nuovo cognome correlato al vecchio, ora perduto per sempre ma con una promessa di speranza. Kiefer fa qualcosa di non dissimile: ci ricorda il rapido fluire della storia, in cui i nomi cambiano, ma i problemi restano. 2 Come ironicamente ebbe a dire un critico: “È tipico dell’opera di Kiefer fornire agli iconografi e ai littérateurs proprio quel genere di opportunità di carriera nella pseudospiegazione ed esegesi che erano state pesantemente compromesse dall’arte astratta del Modernismo postbellico” (Charles Harrison, commento a Anselm Kiefer / Richard Serra, l’installazione di Kiefer e Serra alla Saatchi Collection, Londra, 1986-1987, in “Artscribe”, novembre-dicembre 1986, p. 51).

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John Hallmark Neff

C’era e c’è qualcosa di vero in tutto questo. È innegabilmente utile sapere qualcosa dei diversi soggetti che egli ci presenta sotto forma di quadri, libri, acquarelli e ora sculture. Se diamo eccessiva enfasi agli aspetti extrapittorici della sua opera, però, rischiamo veramente di lasciarci sfuggire l’aspetto fondamentale dell’opera stessa (e dei suoi indizi non meno rivelatori). Buona parte di quello che un’opera di Kiefer rappresenta sta proprio lì, nell’oggetto che abbiamo di fronte. Kiefer ci informa sulle innumerevoli decisioni che concorrono alla sua creazione artistica. Ci costringe a considerare ogni dettaglio, a non dare nulla per scontato – formato, dimensioni, materiali, colori, texture, l’uso che fa delle parole, per non parlare delle immagini stesse e dei mezzi con cui sono state eseguite, assemblate, ordinate e composte. È tuttavia evidente che né il processo artistico né l’opera compiuta, sono fine a sé stessi, ma che vanno ben oltre. E da qui scaturisce il notevole interesse per Kiefer in un’epoca in cui ci viene detto che il destino dell’arte contemporanea è semplicemente quello di rispecchiare la nostra cultura, non di cambiarla. Perché Kiefer sembra porre sul piatto la possibilità che un’opera d’arte, persino la pittura, possa avere un significato anche al di là della particolare estetica dell’esecuzione. Lo stesso Kiefer non sostiene di essere riuscito in questo intento con la sua arte; dice solo che per lui la pittura per lui è più di un semplice elemento decorativo, che essa deve prendere in considerazione il mondo in senso più ampio e quindi correre dei rischi e assumersi delle responsabilità. Al tempo stesso, si affretta a specificare che, in quanto a potere o influenza in questo mondo, l’artista ne è tristemente carente. È convinto che la sua funzione di artista sia quella di presentare nelle sue opere d’arte delle situazioni che ci facciano capire quanto poco siamo cambiati negli ultimi cinquemila anni: corriamo ancora il rischio di considerarci onnipotenti, di credere di essere veramente capaci di controllare il nostro futuro.

Nel porci questi eterni interrogativi, mostrandoci le circostanze dell’allora e dell’ora, invita alla moderazione: “Porsi degli interrogativi importanti: Ecco cos’è l’arte. Non è fare quadri” 3. E tuttavia sono proprio i quadri e le sue altre opere che in definitiva ci devono convincere di essere capaci di corroborare le ambizioni di Kiefer. Infine, è perché le opere di Kiefer riescono a costringerci ad accettarle innanzi tutto come oggetti visivi – e spesso si tratta di oggetti veramente potenti – che ci prendiamo la briga di sforzarci quanto serve per capirne il significato. Molto altro ovviamente si potrebbe dire dell’arte di Kiefer e del suo rapporto con quella di altri artisti, del modo in cui è stata accolta e di cosa sembra rappresentare nel contesto più ampio di quello che si intende generalmente per cultura postpittorica. L’opera di Kiefer è diventata una sorta di cartina di tornasole dei testi di critica e ha provocato reazioni, talvolta appassionate e talaltra razionali, che vale comunque la pena di leggere. Le opere d’arte di per sé, tuttavia, lette come oggetti specifici, rivelano molto del contenuto che è loro sotteso in un modo tanto lineare da non necessitare di una particolare catalogazione, per quanto eventuali ulteriori informazioni possano aiutarci a capire meglio ciò che Kiefer ha fatto. Mettendosi in relazione con i sistemi di significato del passato, dove destra e sinistra, diritto o curvo avevano un senso, Kiefer ci incoraggia a scoprire che l’arte può davvero ammettere molti livelli di significato. Mediante ironia, humour e paradossi ci invita a dare un’altra occhiata e a riflettere su ciò che abbiamo visto. Libri Kiefer sostiene di vedere sotto forma di immagini tutto ciò che legge. La migliore dimostrazione di ciò sono i libri fatti a mano che continua a creare dal 1969 circa, almeno uno all’anno, se non di più. Nella sua prima apparizione pubblica in ambito internazionale, a


57. Scherben [Frammenti], 1969 58. Für Jean Genet [Per Jean Genet], 1969 59. Erinnerungen (IV) [Ricordi (IV)], 1969

3 Anselm Kiefer, in una conversazione con l’autore a Buchen e al telefono, giugno-settembre 1987. 4 A un libro di testo di argomento politico molto utilizzato, pubblicato nel 1963, Räume und Völker in unserer Zeit [Luoghi e genti del nostro tempo], Kiefer ha aggiunto delle fiorettature a matita e acquarello, interpretando il vero significato sotteso dai diagrammi e dal testo. Ha inoltre strappato e poi riassemblato una nota rivista di design, “Das Haus”, di modo che le sue illustrazioni si confacessero alla sua comica parodia delle Valchirie wagneriane. Pare che si sia particolarmente divertito a modificare le pubblicazioni museali. Nelle sue tre versioni di Donald Judd Hides Brünhilde, basate sul catalogo dell’installazione di sculture di Judd al Kunsthalle di Berna nel 1976, svariate “Brunildi” ritagliate da riviste per uomini sono “ingabbiate” da diagrammi geometrici nello stile di Judd, e le fotografie dell’installazione sono state selettivamente oscurate con vernice nera. Nella versione di più grande formato sono state aggiunte delle pagine di riviste d’arte riguardanti Pollock, Newman, Malevicˇ e Reinhardt e su ciascuna pagina è stato ristampato il motivo tipico delle xilografie di Kiefer. Kiefer ha tenuto per sé tutti questi libri, che ho avuto la possibilità di vedere, con molti altri, nel giugno del 1987. 5 Alcuni aspetti teatrali delle opere di Kiefer sono trattati in Klaus Gallwitz, The Heroes of History, in Anselm Kiefer (catalogo della mostra per il Padiglione della Germania, Biennale di Venezia, Venezia 1980), pp. 3-4.

Documenta 6 nel 1977, Kiefer espose proprio i suoi libri. I libri di Kiefer interpretano un’ampia gamma di emozioni, dall’arguzia mordace a quella che potremmo definire estasi visionaria. Gli permettono di esprimersi liberamente in un fluire apparentemente ininterrotto di immagini che fungono da idee e assicurano un livello di intimità che si trasmette poi alle opere di maggiore formato, facendole sembrare più accessibili, se non addirittura meno impegnative. Ma i libri sono anche opere d’arte compiute, in quanto rivelano intuizioni che altri artisti di solito condividono con noi solo nei loro disegni. I primi libri di Kiefer, realizzati intorno al 19691970 quand’era ancora studente, sono per lo più piccoli e intimi, composti praticamente solo da collage di pezzetti di carta o da fotografie dello stesso artista, da solo o con piccoli oggetti, applicati a fogli di sottile carta bianca ai quali aggiunge un titolo o una scritta a biro o penna stilografica. Alcune pagine sono per metà lasciate in bianco, per tenerle “pronte”, spiega, a eventuali integrazioni. Altri tra i suoi primi libri sono sarcastiche e divertenti rielaborazioni di pubblicazioni esistenti: libri di testo, riviste, cataloghi di musei o, come nel caso di Scherben [Frammenti di vaso], resoconti di spedizioni archeologiche 4. Scherben e Du bist Maler [Tu sei un pittore], entrambi del 1969, rivestono per Kiefer particolare importanza. Entrambi i libri, realizzati quando si stava formando la sua identità di uomo e di artista, mettono in luce uno scetticismo nei confronti di ogni genere

di autorità e dogma e attestano la posizione decisamente anticonformista del giovane artista. I libri, che in un primo tempo riguardavano direttamente le “azioni” di Kiefer, con un’impronta segnatamente concettuale, teatrale e autobiografica, si sono gradualmente integrati maggiormente con i suoi quadri e le altre opere 5. Pur riconoscendo che sia i libri sia i quadri costituiscono delle opportunità e hanno dei limiti a loro peculiari, egli non opera tra essi una distinzione qualitativa, tanto che è spesso difficile tenerli distinti gli uni dagli altri. I libri più recenti, che sono stati paragonati alle Bibbie di Gutenberg, sono realizzati con frammenti di quadri bruciacchiati, sabbia, fotografie, colore, gommalacca e altri materiali applicati su grandi pagine di carta di stracci. Alcuni sono tanto grandi e pittorici da dare l’impressione che debbano servire come storyboard nella produzione di un film. Attraverso un uso sempre diverso di prospettive, montaggi, primi piani e altre tecniche studiate per coinvolgere lo spettatore nel fluire degli eventi, Kiefer ha impresso ai suoi libri una forte identità cinematografica, una caratteristica che non fanno che evidenziare l’illuminazione teatrale, gli oggetti e i panorami che usa nella scenografia dello studio dove scatta molte delle sue fotografie. Kiefer espone spesso i libri, di per sé opere d’arte compiute, insieme con altre opere – soprattutto quando si riferiscono a un identico soggetto – così che la visione dell’uno si arricchisca della visione dell’altro. A volte Leggere Kiefer

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89. Astralschlange [Serpente astrale], 1985-1991

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Opere


Christian Kämmerling, Peter Pursche

“Di notte mi sposto in bicicletta da un quadro all’altro” Un colloquio nell’atelier di Anselm Kiefer, sul suo lavoro e sulla sua visione del mondo

90. Copertina del numero 46 di “Süddeutsche Zeitung”, 16 novembre 1990

SZ-Magazin: La spedizione degli Argonauti che lei descrive nelle venti pagine precedenti è un mito fortemente militaresco. E lei lo fa iniziare in modo del tutto innocuo, con un incontro per prendere il caffè… Anselm Kiefer: Sì, voglio inserire questa storia in un contesto del tutto banale, quotidiano. In realtà, è iniziato esattamente così: ero seduto con i miei collaboratori al tavolo a prendere caffè e dolcetti e, dopo aver mangiato, improvvisamente il piano del tavolo stava davanti a me come un campo di battaglia: tazze vuote, resti di cibo nei piatti, briciole, impronte. È evidente: una tavolata tedesca riunita per prendere il caffè – qualora il caffè sia preso nel modo corretto – fa resuscitare Giasone. SZ: Giasone, l’eroe del Vello d’oro. Ci faccia dapprima rispolverare un po’ di cultura classica, così da comprendere la sua opera. A.K.: Non è assolutamente necessario. Nemmeno io sono andato prima a studiarmi la storia di Giasone per poi pensare a come rappresentarla. È successo come sempre mi accade: all’inizio vi è un concetto, un’idea molto grande e ancora non completamente satura. Un nome, ad esempio. Ci sono nomi che hanno un’aura ben definita: Märkischer Sand, Königgrätz, Dreilinden. Oppure nomi ebraici quali Lilith. Non c’è bisogno di sapere molto su questi nomi per poterci lavorare. Il nome suscita un’impressione, la sensazione che dietro ci sia nascosto qualcosa. Il nome Giasone possiede quest’aura. E questo mito ti si infila dentro, senza che tu abbia letto nulla al riguardo. SZ: Da dove proviene questa conoscenza? A.K.: La memoria non si forma nel momento in cui nasciamo, ma viene da più lontano, ha in sé esperienze fondamentali, condizioni psicologiche

primordiali che si sono accumulate nel corso dei millenni. SZ: È stato così con Giasone e gli Argonauti? A.K.: Sì. Ci si deve concedere del tempo prima che questi ricordi emergano – come un pescatore che siede tranquillo aspettando che qualcosa abbocchi. Lentamente, i dettagli tornano a poco a poco alla coscienza. Ad esempio, senza sapere esattamente perché, ho cominciato a lavorare con cocci, denti, abiti. Solo in un secondo momento è venuto fuori che lo sminuzzamento ha un ruolo importante nel mito di Giasone. Giasone parte alla conquista del Vello d’oro per restituirlo alla sua famiglia. Si allea con Medea, figlia del re di Aia. Medea fa a pezzi suo fratello e getta le sue membra ai piedi dei suoi inseguitori, salvando così Giasone. Successivamente, si vendica su di lui persuadendo i genitori a farlo a pezzi e farli bollire in un paiolo, da cui egli sarebbe dovuto fuoriuscire ringiovanito, cosa che, ovviamente, non accade. Nel mito si narra anche di una prova a cui Giasone si sottopone: deve seminare i denti di un drago morto e uccidere gli enormi guerrieri che spuntano da questi. Ecco che entrano in gioco i denti. Oppure, si racconta di come Medea si sia vendicata su Glauce, la seconda moglie di Giasone. Le invia in dono un abito avvelenato. Appena lo indossa, Glauce si dissolve nel nulla. Resta solo l’abito. Ecco quindi che entra in gioco l’abito. SZ: Cenere, abiti – e piombo – sono i classici simboli di Kiefer. A.K.: Qui devo contraddirla. Non sono un simbolista né un allegorista. Sarebbe un lavoro da scienziati, come lavorava Rubens, che padroneggiava tutto il canone delle allegorie e lo copiava in modo scientifico. Io mi affido alle cose in sé. Il semplice prendere un caffè reca in sé tutta la drammaticità della battaglia degli Argonauti. Bisogna solo riconoscerla. E tuttavia, questa è l’unica cosa che ci tiene in vita: lo strato “dietro”. Nessuno può vivere solamente mangiando o prendendo il caffè. Piuttosto, si può vivere anche 141




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Opere


Opere

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Opere


Opere

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Germano Celant

Anselm Kiefer

Il sale della Terra

Skira

â‚Ź 58,00

Germano Celant

Anselm

Kiefer Il sale della Terra


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