"Leonardo e le arti meccaniche"

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Romano Nanni

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Leonardo

eonardo rivendicò la piena appartenenza della pittura – ancor spesso all’epoca confinata tra le arti meccaniche – alla cultura dei “dotti”, all’alta cultura scientifica e umanistica, cioè alle arti liberali. Ma rivendicò per sé con orgoglio anche la superiore dignità di inventore, opponendola anzi alla figura dei retori e commentatori di testi antichi, contribuendo alla formazione di una nuova coscienza intellettuale, intrecciata con la ancora incerta formazione del sapere e dell’identità dell’ingegnere. Questo volume vuole cogliere il senso storico dell’operato di Leonardo “meccanico” ricostruendone il coinvolgimento entro alcune dinamiche – comprese tra Piero della Francesca e il primo Galilei – dei saperi e delle pratiche propri delle arti meccaniche considerate in se stesse; e in particolare entro l’area di attività, di rilevanza economica per la città, che il più raffinato Umanesimo fiorentino, come quello del Poliziano, aveva classificato tra le arti “sordide” e sedentarie: cantieri, mulini, manifatture. Entro questa prospettiva di lungo periodo si analizzano le torsioni impresse da Leonardo al principale sapere dei tecnici, la “pratica di geometria”; la sua consapevolezza della necessità di un lessico volgare dei saperi tecnici, condivisa con Francesco di Giorgio Martini; la novità dei suoi studi sulla meccanica tessile, non solo entro la dicotomia tra arti liberali e meccaniche, ma all’interno stesso della stratificazione di queste ultime; la raffinata maturazione di una pluralità di convenzioni di rappresentazione nel disegno tecnico e l’uso dei modelli in scala nei suoi nessi sia col disegno che con elementi di meccanica teorica nella progettazione di macchine. Si presentano inoltre nuove ipotesi sul funzionamento e l’utilizzazione delle macchine da cantiere progettate dal Brunelleschi per la costruzione della cupola del duomo di Firenze.

e le arti meccaniche

Romano Nanni è direttore della Biblioteca Leonardiana e del Museo Leonardiano di Vinci, ruolo nel quale ha maturato un’ampia esperienza nel campo dei Beni culturali, realizzando tra l’altro la piazza concepita da Mimmo Paladino per Vinci (catalogo Skira, 2006) e ideando e-Leo, il sistema digitale per la consultazione on line dei manoscritti leonardiani. Svolge attività di ricerca sulla cultura filosofica e tecnico-scientifica del Rinascimento e del Novecento. Ha pubblicato saggi sulla tradizione ovidiana medievale e rinascimentale, su Brunelleschi, Leonardo, Galilei, Bacon, Valéry. Tra i suoi lavori recenti più impegnativi: Leonardo ‘1952’ e la cultura dell’Europa nel dopoguerra, a cura di Romano Nanni e Maurizio Torrini, Firenze, Olschki, 2013; Leonardo da Vinci. Interpretazione e rifrazioni tra Giambattista Venturi e Paul Valéry, a cura di Romano Nanni e Antonietta Sanna, Firenze, Olschki, 2012; Leonardo in Russia. Temi e figure tra XIX e XX secolo / Leonardo v Rossii. Telmy i figury. XIX-XX vek, a cura di Romano Nanni e Nadia Podzemskaia, Milano, Bruno Mondadori, 2012; Lucrezio, un ennesimo candidato per la filosofia di Leonardo?, in “Giornale critico della filosofia italiana”, VII s., vol. VII, a. XL (XCII), fasc. III (2011), pp. 463-491; Philosophies of Technology: Francis Bacon and his Contemporaries, a cura di Gisela Engel, Nicole C. Karafyllis, Romano Nanni e Claus Zittel, Leiden/Boston, Brill, settembre 2008, 2 voll.; Leda: storia di un mito dalle origini a Leonardo, con Maria Chiara Monaco, Firenze, Zeta Scorpii Editore, 2007.

Romano Nanni

Leonardo e le arti meccaniche

Skira


Romano Nanni

Leonardo e le arti meccaniche contributi di Marco Biffi Fabio Giusberti Alexander Neuwahl Davide Russo


Sommario

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Premessa Romano Nanni

Leonardo e le arti meccaniche

Romano Nanni

Romano Nanni

Parte prima

La disputa sulle arti nello specchio del Panepistemon di Angelo Poliziano

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Machinae ad majestate imperii e macchine della manifattura tessile

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Movimenti nella struttura della “pratica di geometria” tra Piero e Leonardo

87

Meccanica e modelli di macchine tra i secoli XV e XVII

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Il pluralismo delle convenzioni: disegnare macchine tra Medioevo e Rinascimento Parte seconda Le arti meccaniche tra trasmissione dei saperi e invenzione tecnica: problemi critici

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Parte terza. Prima sezione Macchine da cantiere e macchine tessili. Dal cantiere della cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze

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163

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Alla ricerca di un lessico delle macchine Marco Biffi Anamorfosi di un tradimento: il segreto del filatoio da seta Fabio Giusberti

183

Nuove ipotesi sulle macchine da cantiere brunelleschiane Davide Russo

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Analisi di un meccanismo di ripresa del carico Alexander Neuwahl e Davide Russo

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I.1. Arti meccaniche e arti liberali I.2. I luoghi di Leonardo a Firenze (1464/1469-1482) I.3. Macchine da cantiere I.3.1. Eredità antiche e meccanismi medievali I.3.2. Gru e cantieri medievali: immagini dal Quattrocento I.3.3. Il lungo Medioevo delle gru I.4. Macchine e strumenti nel cantiere del duomo di Firenze I.4.1. Argano I.5. Argani e gru dal cantiere brunelleschiano I.5.1. Argano a tre velocità, o “colla grande” I.5.2. Argano leggero I.5.3. Gru girevole I.5.4. Gru girevole contrappesata I.5.5. Gru da lanterna a fulcro centrale I.6. Gru da lanterna a piattaforma anulare I.7. L’evoluzione di una gru e i suoi problemi e altre attrezzature da cantiere I.8. Altre testimonianze rinascimentali I.9. Nei secoli XVIII-XIX: ancora il problema della “volata mobile”

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Parte terza. Seconda sezione Macchine da cantiere e macchine tessili. Studi di Leonardo sulla tecnologia tessile: contesti, funzioni, meccanica

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II.1. La filatura II.1.1. Filare nel Medioevo II.1.2. Il fuso ad aletta e i suoi problemi II.1.3. Gualchiere e mulini da seta II.1.4. Il filatoio-torcitoio idraulico: funzionamento II.1.5. Il filatoio-torcitoio idraulico: composizione II.1.6. Idee per la meccanizzazione della filatura II.1.7. Filatoio-ritorcitoio a più fusi II.1.8. Filatoio continuo ad aletta a quattro fusi II.1.9. Alternative nella filatura tra i secoli XVI e XVII II.1.10. Dispositivo di arresto per binatura automatica della seta II.1.11. Tipi di ritorcitoi a manovella II.1.12. Oltre il Rinascimento II.2. La tessitura II.2.1. Tessitura a mano e con la navetta volante II.3. Il telaio meccanico di Leonardo ricostruito: un caso storiografico II.3.1. Idee di Leonardo per la meccanizzazione della tessitura: il telaio automatico II.3.2. Il telaio automatico per la tessitura: il modello di Luigi Boldetti II.3.3. Idee di Leonardo per la meccanizzazione della tessitura: il braccio a moto circolare o spoletta oscillante II.3.4. I telai meccanici per nastri II.4. Il battiloro II.4.1. L’arte del battiloro II.4.2. Il battiloro automatico di Leonardo II.5. La garzatura II.6. La cimatura



Romano Nanni

Premessa

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erché parlare di Leonardo e le artes mechanicae e non invece di Leonardo ingegnere, architetto, o tecnologo? Non per civetteria storico-filologica. Né si trattava solo di evitare di riproporre titoli che hanno rappresentato svolte negli studi leonardiani. Questo saggio prende avvio dall’esigenza di cogliere il senso storico dell’operato del Vinci nell’ambito che per formazione e per appartenenza gli fu più proprio, quello appunto delle arti meccaniche in quanto gerarchia di attività e saperi pratici distinta e subordinata alle arti liberali, alla cultura dei dotti. Senso storico a precisare il quale non è sufficiente la rivendicazione del primato della pittura affidata alle note del cosiddetto Paragone delle arti, prima sezione del Libro di Pittura, poiché tale primato è lì affermato in quanto la pittura vi è concepita come scienza e filosofia, e rifiutata invece la sua classificazione tra le arti meccaniche. Scienza dunque la pittura, scienza non meccanica, seppur neanche solo “mentale”, quanto piuttosto unità circolare e dinamica di empiria-teoria-prassi. Ma comunque scienza, come l’astrologia, la retorica, la teologia, la filosofia, la geometria, l’“arismetica” e simili1: le arti liberali, appunto. La proclamazione del primato della pittura in Leonardo consiste nella sua assunzione alla dignità di arte liberale. Ma un foglio del 1490 circa del Codice Atlantico, il 323r, inframmezzato tra due fogli ad esso connessi, il 322 e il 324, completamente dedicati a questioni meccaniche, ci presenta prove di scrittura per un proemio, tentativo di introduzione forse a un ben più polemico e difficile “paragone”: “Se bene come loro non sapessi allegare gli altori, molto maggiore e più degna cosa allegherò allegando la sperienzia, maestra ai loro maestri. Costori vanno sconfiati e pomposi, vestiti e ornati non delle loro, ma delle altrui fatiche e le mie a me medesimo non concedano. E se me inventore disprezzeranno, quanto maggiormente loro, non inventori ma trombetti e recitatori delle altrui opere, potranno essere biasimati. Proemio È da essere giudicati e non altrementi stimati li omini, inventori e ’nterpreti tra la natura e gli omini, a comparazione de’ recitatori e trombetti dell’altrui opere, quant’è dall’obietto fori dello specchio alla similitudione d’ess’obietto apparente nello specchio, che l’uno per sé è qualche cosa è l’altro è niente. Gente poco obrigate alla natura, perché sono sol d’accidental vestiti e sanza il quale potrei accompagnarli infra li armenti delle bestie.”2

1. Leonardo da Vinci Gru girevole contrappesata, particolare Codice Atlantico, f. 965r, 1478-1480 circa (scheda I.5.4, fig. 2)

Qui, è palese, Leonardo rivendica per sé con orgoglio la superiore dignità di inventore, dignità in sé, senza altre mediazioni, opponendola anzi alla figura dei retori e commentatori di testi antichi, presumibilmente di fisica e meccanica3. Alla fine dello stesso decennio, Luca Pacioli, all’epoca in sodalizio intellettuale con Leonardo a Milano, nel De Divina Proportione attribuiva alle “invenzioni” principalmente se non esclusivamente il significato di “inventioni de machine”. Si badi bene, non si tratta qui solo dello sfogo estemporaneo dell’“omo sanza lettere”, ma di un tentativo di proemio, qualcosa di più consapevole e intenzionalmente rivolto alla redazione di un trattato, non un fugace appunto privato dettato da un momento di amarezza. E ciò segnala un 9


campo di tensioni aperte nella, per così dire, autocoscienza ideologica del genio di Vinci. Né poteva essere altrimenti in chi lascerà, nei manoscritti, larga testimonianza di una passione meccanica dilagante, come pratica e scienza del mondo delle macchine. Questo campo di tensioni presupponeva presumibilmente un contesto in movimento delle artes mechanicae, considerato né genericamente, in maniera indistinta, né ridotto, come spesso si tende a fare, all’ascesa di architettura e ingegneria militare4, pittura e scultura, ma colto nella vasta platea di attività che effettivamente fin almeno da Ugo di San Vittore lo contraddistingueva. Il Panepistemon di Angelo Poliziano, che inaugura gli anni novanta del Quattrocento, e a cui è dedicato il primo capitolo, ben si presta a portare allo scoperto questa vasta platea, nonché alcune dinamiche in atto: la fuoriuscita dalla lunga disputa sulle arti che aveva opposto soprattutto diritto e medicina5, e il tentativo di parte dell’alta cultura umanistica di aggiornare e rilegittimare, controllandoli, tutta una serie di rapporti gerarchici tra saperi e tra saperi e mestieri, con ogni probabilità di fronte a istanze e differenziazioni emergenti sia all’interno dell’artigianato e delle manifatture sia tra le generazioni di artisti-tecnici nella seconda metà del Quattrocento. È stato notato che la forte carica semantica negativa che accompagna la parola “meccanico” durante il Rinascimento riunisce in sé il pregiudizio contro il lavoro manuale e quello contro l’attività diretta a uno scopo pratico interessato6. Invero, nell’epoca dell’esplosione della letteratura tecnica, questo livello di analisi resta forse un po’ troppo al di qua della situazione reale. Ma l’osservazione dell’Altieri Biagi resta valida per segnalare un luogo altamente indicativo per misurare l’effettivo rapporto tra gli artisti-tecnici, o pure gli umanisti stessi con interessi scientifici e tecnici, e le arti meccaniche. Piuttosto che guardare all’architetto e all’ingegnere militare, avviati a una netta legittimazione fin dal Medioevo, si è scelto di guardare qui in maniera più insistita all’ambiente delle attività legate ai mulini e alle manifatture, le strutture del quotidiano (come le chiamò Fernand Braudel), ai cui mestieri più frequentemente si riferiva la definizione sprezzante di “vile meccanico”, come del resto documenta appunto il Panepistemon del Poliziano. E si è scelto di guardare soprattutto al lungo periodo, più adatto a evidenziare che lo sviluppo di innovazioni effettive in questi segmenti delle arti meccaniche all’epoca si ebbe soprattutto tramite modificazioni incrementali nel corso di processi assai lenti, secondo un modello ben messo a fuoco da Denis Diderot7. Il mondo delle arti meccaniche, dei suoi specifici saperi e pratiche, come meglio di altri riuscì a far capire il Panepistemon del Poliziano, era assai vasto e differenziato. Né, come è noto, rimangono eccessive testimonianze di archeologia industriale, tanto meno testimonianze di realizzazioni conseguenti all’attività di Leonardo stesso, che pure – è mia convinzione – ci devono essere state in misura maggiore di quanto noto. Si è scelto, al fine di approfondire il rapporto tra il Vinci, i tecnici contemporanei e questo vasto universo dei “meccanici”, di indagare alcuni aspetti specifici dei saperi e delle pratiche in uso, così come emergono da documenti di archivio, manoscritti e trattati. Si è perciò tentata, nel secondo capitolo del saggio, una rassegna della materia affrontata da alcune generazioni quattro-cinquecentesche di artisti-architetti e ingegneri, identificando e discutendo elementi di originalità di Leonardo rispetto a esse; nel terzo capitolo si è cercato di evidenziare una serie di dinamiche evolutive del principale sapere delle arti meccaniche, la practica geometriae, prendendo in considerazione un decorso che va dalla trattatistica primo-quattrocentesca a Piero della Francesca e a Leonardo. Il quarto capitolo prova a ricostruire almeno in alcune sue linee portanti la complessa questione del ricorso a modelli tridimensionali nello studio di macchine dal XV secolo fino alle soglie del XVII, mentre parallelamente il quinto capitolo si è posto il problema di formulare una griglia di lettura delle convenzioni in uso nel disegno di macchine tra Medioevo e Rinascimento, esaminando il ruolo della prospettiva lineare tra esse. Si sono inoltre rivelati particolarmente interessanti, entro la prospettiva adottata, anche i nuovi studi sul lessico delle macchine nati intorno al progetto e-Leo 8 e qui documentati da un contributo di Marco Biffi, così come l’approccio di Davide Russo, condotto dal punto di vista delle metodologie di analisi dei brevetti in ingegneria, volto a una migliore comprensione e utilizzazione dei disegni di macchine 10

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elevatorie impiegate nel cantiere per la costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze. Entrambi gli approcci, quello di storia del lessico della tecnica come pure quello di scomposizione dei disegni di macchine da cantiere tramite nuove metodologie di provenienza ingegneristica, rappresentano un cospicuo allargamento delle fonti disponibili per comprendere il funzionamento in actu dell’universo medievale-rinascimentale delle artes mechanicae. La meccanica delle macchine del cantiere di Santa Maria del Fiore a Firenze e gli interessi sviluppati per la meccanica tessile inizialmente nel primo periodo trascorso a Milano furono due passaggi chiave, di formazione l’uno e di maturazione l’altro, dell’“ingegnere” Leonardo. La terza parte del volume perciò presenta gli studi di alcune macchine da cantiere e di alcuni progetti di macchine tessili, condotti durante la revisione del Museo Leonardiano di Vinci nel 20032005 in collaborazione con un gruppo di lavoro del Dipartimento di Meccanica e Tecnologie industriali di Firenze guidato da Gaetano Cascini, studi documentati nel museo anche tramite le ricostruzioni virtuali dinamiche realizzate da Alexander Neuwahl.

Leonardo da Vinci, Libro di Pittura, cap. 14 (1500-1505 circa). Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, f. 323r (1490 circa). 3 Luca Pacioli, De divina Proportione, Ms. 170 sup. della Biblioteca Ambrosiana, riproduzione facsimilare, Milano 1956, p. 10. 4 Una recente rilettura d’insieme del rapporto di Leonardo con la tecnica militare è quella di Pascal Brioist, Léonard de Vinci. Homme de guerre, Paris, Alma, 2013. 5 Si veda l’Introduzione di Eugenio Garin a Coluccio Salutati, De nobilitate legum et medicinae. De Verecundia, a cura di E. Garin, Firenze, Vallecchi editore, 1974, pp. VII-LVIII; e, a cura dello stesso, La disputa delle arti nel Quattrocento [1947], Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1982. 6 Maria Luisa Altieri Biagi, “Vile meccanico”, in “Lingua nostra”, vol. 26, fasc. 1 (1965), pp. 1-12: 6. 7 Cfr. Romano Nanni, Technical Knowledge and the Advancement of Learning: some Questions about ‘Perfectibility’ and ‘Invention’, in Philosophies of Technology: Francis Bacon and his 1 2

Premessa

Contemporaries, a cura di G. Engel, N. Karafyllis, R. Nanni e C. Zittel, atti del convegno di Francoforte (giugno 2006), Leiden, Brill, 2008, pp. 51-66. Si vedano anche: Liliane HilairePérez, Diderot’s Views on Artists’ and Inventors’ Rights: Invention, Imitation and Reputation, in “BJHS”, vol. 35, n. 2, 2002, pp. 129-150; Liliane Hilaire-Pérez and Catherine Verna, Dissemination of Technical Knowledge in the Middle Ages and the Early Modern Era. New Approaches and Methodological Issues, in “Technology and Culture”, vol. 47, n. 3, 2006, pp. 536-565; Stephan R. Epstein, Transferring Technical Knowledge and Innovating in Europe, c. 1200-1800, in “Working Papers on the Nature of Evidence: How Well Do ‘Facts’ Travel?”, n. 01/05, 2005, pp. 1-40. 8 E-Leo è l’archivio digitale on line per lo studio della storia della tecnica e della scienza nel Rinascimento realizzato dalla Biblioteca Leonardiana di Vinci. Ad oggi sono consultabili le opere di Leonardo da Vinci e, parzialmente, di Francesco di Giorgio Martini.

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Capitolo 3

Movimenti nella struttura della “pratica di geometria” tra Piero e Leonardo

N

1. Spirale archimedea, particolare (fig. 18)

el primo capitolo di questo saggio abbiamo visto come nella seconda metà del Quattrocento la tassonomia e l’ordine delle artes, a partire dalla distinzione gerarchica tra arti liberali e arti meccaniche, offrissero il principale terreno di confronto, e pure di contesa, entro cui si andavano a disporre tutta una serie di sviluppi, tensioni e tentativi di ridefinizione, di segno non univoco, nelle relazioni tra cultura dei dotti e cultura delle professioni – in particolare artistico-tecniche – legate a segmenti importanti dell’ampio e variegato mondo delle arti meccaniche, e offrissero inoltre il quadro di riferimento ideologico entro cui gli stessi attori coinvolti in questo confronto elaboravano la coscienza di sé e del proprio tempo. Un ulteriore angolo di osservazione utile ad approfondire sia la collocazione dell’opera di Leonardo nel mondo delle arti meccaniche e il suo rapporto con le arti liberali, sia, contemporaneamente, alcune dinamiche interne all’insieme dell’ordine delle artes all’epoca appare la practica geometriae: la “pratica di geometria” intesa come parte importante ed essenziale della letteratura abachistica1, ossia della letteratura scientifica a destinazione pratico-operativa, vera e propria tradizione che è stata costante e diffuso punto di riferimento a partire almeno dalle opere di Leonardo Fibonacci2. Punto di riferimento in un senso retorico, in quanto l’espressione è stata a indicare per alcuni secoli uno specifico genere di letteratura, con le sue regole e il suo stile, ed era perciò una designazione immediatamente riconoscibile; e in un senso tecnico-scientifico, come genere di trattatistica contenente un concreto e specifico bagaglio di strumenti culturali per mercanti e per figure professionali di vario e mutevole tipo, tra i quali in primo luogo gli agrimensori. Il genere, soprattutto lungo il Quattrocento, andò subendo allargamenti e mutamenti nella struttura dei suoi contenuti e nei suoi destinatari. Quello che qui interessa non è una ricostruzione degli sviluppi scientifici della “pratica di geometria” all’interno della storia della matematica – cosa che tra l’altro presuppone tutta una serie di ricerche di dettaglio e ricostruzioni sinottiche di questa trattatistica, a oggi non disponibile – e neppur tanto il suo statuto entro i caratteri definitori comuni dell’attrezzatura mentale di quello che è stato efficacemente identificato come uno “strato culturale intermedio”3 tra i dotti e i non dotti, comprendente l’ampio mondo dei ceti mercantili e impiegatizi, dei maestri delle botteghe artistiche e artigiane4; quanto piuttosto alcuni movimenti nella struttura di questo genere di letteratura tecnico-scientifica, che tendono a mettere in questione l’ordine dato delle artes, così come pure i saperi e le pratiche solidificatesi all’interno di esso. Movimenti che soprattutto dalla seconda metà del Quattrocento in poi si alimenteranno anche di una crescente incorporazione del corpus archimedeo nella strumentazione intellettuale degli ambienti tecnicoartistici più colti; l’interesse per Archimede (e fu caso mai interesse per la figura dell’inventore) rimase infatti assai limitato tra la maggioranza degli umanisti fino alla fine del secolo, mentre durante questo periodo furono essenzialmente ambienti tangenti, quelli formatisi alla cultura d’abaco e da cui sortirono Piero della Francesca e Leonardo da Vinci, a ricercare e compulsare le traduzioni latine delle opere del Siracusano5. Cercherò dunque di focalizzare l’attenzione solo su alcuni aspetti della struttura interna della “pratica di geometria”, in particolare il suo progressivo aprirsi alla meccanica. E assumerò come 55


termini cronologici di riferimento da una parte le opere, risalenti al XIII secolo, di Leonardo Fibonacci, e dall’altra un testo di Leonardo da Vinci, intitolato Pratica di geometria, risalente al 15021503 o al più tardi al 1505, che qui assumo provvisoriamente come termine latamente periodizzante. Seguire questo percorso può forse permettere di cogliere una circolazione di saperi e dei loro sviluppi in atto entro un reticolo di ambienti culturali non del tutto ricomprensibile entro l’identità dello “strato culturale intermedio”, ma neanche solo circoscrivibile all’identità di personalità di eccezione, alle stimmate del genio insomma; e può permettere anche di introdurre distinzioni, in un processo che a noi oggi tende sovente ad apparire unitario, di sottili slittamenti, prestiti, ritorni all’indietro, continuità e cesure, tra la figura dell’artista, quella dell’artista-architetto, e gli “incunaboli” dell’ingegnere. 1. Alcuni caratteri della tradizione della pratica di geometria Assumiamo dunque come una sorta di ideale archetipo le opere di Leonardo Pisano (o Leonardo Fibonacci): non tanto in questo caso per l’indiscutibile importanza dell’introduzione dei numeri arabi (che egli chiamò indiani), ma per aver delineato e imposto la struttura di un tipo di “enciclopedia” per il mondo dei mercanti e delle professioni tecniche (che, sia detto per inciso, andrebbe studiata in parallelo alle grandi enciclopedie medievali, da Isidoro di Siviglia a Vincenzo di Beauvais) di straordinaria e lunga fortuna. Mi riferisco qui in particolare alle due opere giunte a maturazione definitiva tra il secondo e il terzo decennio del XIII secolo, il Liber abaci e la Practica geometriae, in quanto soprattutto queste, come vedremo, andranno poi a integrarsi nella tradizione abachistica dalla fine del XIII fino agli inizi del XVI secolo, determinando alcuni stabili caratteri di riferimento su cui sarà possibile misurare continuità e modificazioni della letteratura degli artisti-tecnici. Riproduco nella loro integralità, in nota, le ripartizioni della materia delle due opere, rispettivamente secondo la lezione del Codice Magliabechiano C.1, 2616, Badia Fiorentina, n. 73, per quanto riguarda la prima6, e del Codice Urbinate n. 202 della Biblioteca Vaticana, per quanto riguarda la seconda. La Practica geometriae del Pisano si apre con un’introduzione che muove dalle definizioni geometriche di base (“Punctus est id quod nullam habet dimensionem, idest quod non potest dividi. Linea est longitudo carens latitudine, cuius termini puncta sunt. Recta linea est que de puncto … Quadrilatere vero sunt … Portio vero circuli est figura … Et trigona … etc.”) per passare velocemente alla delineazione della destinazione pratica del contenuto geometrico dell’opera7: “cum quibus – scriveva infatti il Pisano – mensuris mensurentur agri, breviter proposui explicare”. La materia di queste due opere era dunque organizzata intorno a calcolo aritmetico, algebra e geometria, finalizzati alla risoluzione di tutta una casistica del mondo delle transazioni commerciali ed economiche in genere, tra le quali, per quanto riguarda la geometria, le operazioni di misurazione di estensioni di terreno, di calcolo del volume e delle altezze di corpi solidi (finalizzate a stime di corpi “ut sunt tassilla: scrinea: cisterne et similia”), legate principalmente alle necessità delle transazioni economiche. La destinazione pratica non escludeva elementi di calcolo astronomico e soprattutto punte di trattazione più o meno ampia di teoria matematica: come ci è testimoniato dal Codice Chigiano M.V.104 della Biblioteca Apostolica Vaticana, esemplato a Pisa nella prima metà del Trecento e che conserva quello che è ritenuto il più antico compendio in volgare della Practica geometriae di Leonardo Pisano. Il codice, intitolato Savasorra idest libro di geometria (con un esplicito richiamo all’ebreo spagnolo Abraham bar Hiyya detto il Savasorda, autore del Liber Embadorum), era sì rivolto prioritariamente all’insegnamento pratico, la sua materia essendo essenzialmente di interesse agrimensorio, il “mizurare le terre” a forma di triangolo, quadrato, poligono e così via, come pure pozzi e cisterne, case e altezza delle torri8; ma si allargava ampiamente in analisi e dimostrazioni delle proprietà geometriche utili nella pratica mensoria e metodi di calcolo meno immediati ma più rigorosi: cosicché si è di recente ritenuto di poterlo identificare come il più antico trattato di geometria in volgare9. 56

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Effettivamente, poiché l’opera del Fibonacci era in latino e assai ampia, non di immediata utilità in tutte le sue parti, si affacciò presto la richiesta di opere di minor mole, stese in volgare e con una selezione di argomenti mirata alla loro immediata utilizzabilità. È per soddisfare questo tipo di richieste che si venne formando la tradizione degli abachisti già a partire dal XIII secolo10. Si può utilmente seguire lo sviluppo di questa tradizione nei vari codici pubblicati da Gino Arrighi11, per quanto si tratti di un campione parziale rispetto alla mole di manoscritti della tradizione abachistica inventariati da Warren Van Egmond12. Un manoscritto umbro in volgare della seconda metà del XIII secolo, forse del 1288-1289, il Codice 2404 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, già evidenzia l’orientamento alla compilazione di manuali ridotti e ricomprendenti insieme sia un libro d’abaco secondo la oppenione di Leonardo Pisano, sia un primo amaestramento de l’arte de la geometria. Chiarissima è la dipendenza dal Pisano. I titoli dei capitoli documentano senza dubbi sulle destinazioni pratiche dell’opera, ma non devono trarre in inganno. Apparentemente tutti volti a calcoli di uso commerciale (ad esempio: El vinte e setteesimo chapitolo ène de tine e de botte che n’esce el vino per gle foramene cho sonno el fondo, etc.), vi si possono spesso incontrare casi o “ragioni” che nulla hanno a che fare col titolo del capitolo, come sistemi di equazioni algebriche lineari o giochi matematici. Appartengono alla tradizione abachistica il Codice 2236 (1307, in volgare) della Biblioteca Riccardiana di Firenze, come pure le Regoluzze e il Trattato d’aritmetica di Paolo Dagomari detto Paolo dell’Abbaco. Un “ridotto” d’abaco è il Codice Magl. CL. XI, n. 87 (posteriore al 1325) della Biblioteca Nazionale di Firenze, forse di derivazione francese: anche qui, insieme ai temi tradizionali di abaco (regole di aritmetica e sue applicazioni commerciali) e a una loro estensione a temi di marineria, è unita la trattazione di geometria agrimensoria (Regolla di missure. Regolla giomatria è l’inizio di quasi tutti i capoversi tra i ff. 35v e 60v). Che non è presente nel Codice Magl. CL. XI, n. 88 (posteriore al 1325), il quale però offre una trattazione Del chorso della luna e del sole, di contenuto astronomico e astrologico. Il Codice 2511 (1329, in volgare) della Biblioteca Riccardiana di Firenze è la più antica lezione dell’opera del pratese Paolo dell’Abbaco. Presenta la normale struttura abachistica ridotta e comprende una vasta sezione di geometria pratica: “Seghuesi tutta praticha di geometria e di misurare tutt’i terreni per qualunque verso fussono e rocche e vallari e piani e torri e palagi e albori e tutte altre misure le quali a praticha di geometria appartenghono.”13 Contiene un’ampia insolita pagina dedicata all’aritmetica teorica e si conclude con un ampio squarcio di astronomia e astrologia. Il Codice L.IV.21 (in volgare) della Biblioteca degl’Intronati di Siena, datato 1463, permette di individuare assai bene le sue fonti: il Liber abaci e il Liber quadratorum di Leonardo Pisano, il Trattato di pratica di M° Biagio, opere pratiche di M° Giovanni e Fioretti di M° Antonio, citazioni indirette da Euclide, Boezio (relativamente alla priorità delle matematiche nell’albero del sapere), ben Musa, Giovanni di Siviglia, Giordano Nemorario, Gugliemo di Luni, il Campano. Comprende tipici temi abachistici di matematica commerciale, ma con largo spazio alla trattazione di aritmetica e algebra e di teoria euclidea delle proporzioni. Anche il Codice Palat. 573 della Biblioteca Nazionale di Firenze, Praticha d’arismetricha, datato 1460, destinato alla famiglia Rucellai, esibisce bene le proprie fonti: ancora Leonardo Pisano, Euclide, Boezio, Giordano Nemorario, Paolo dell’Abbaco, Antonio Mazzinghi, Giovanni di Bartolo (e cioè tutta la bottega d’abaco di Santa Trinita), Luca di Matteo, Domenico D’Agostino vasaio. Il codice si occupa di aritmetica commerciale e chasi del mondo del commercio e del lavoro e di algebra. Ma va notato che il codice rinvia esplicitamente a un’opera di geometria in quanto usuale complemento della pratica di aritmetica14. Si giunge infine alla volgarizzazione della Practica geometriae di Fibonacci compiuta da Cristofano di Gherardo di Dino, tardo e meno rigoroso testimone del Codice Chigiano (il Savasorra) sopra ricordato15, peraltro pur essa compresa nel Codice 2186 della Biblioteca Riccardiana16, all’interno di un Libbro d’anbaco, a ulteriore dimostrazione di come anche ciò che in origine aveva trovato una trattazione separata fosse stato progressivamente riassorbito entro un genere letteraMovimenti nella struttura della “pratica di geometria” tra Piero e Leonardo

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sto, nuovamente, di calcolare la lunghezza di un segmento o la misura di un’area e di un volume, sia pur sino al culmine geniale raggiunto nella trattazione dei solidi regolari e irregolari, giustamente segnalato da Clagett58, della determinazione del volume del segmento comune di due cilindri intersecantisi perpendicolarmente, e della connessa determinazione della superficie concava di una volta a crociera. Che poi aveva utilizzato anche nel DPP per la costruzione prospettica di una cappella. Nei rari casi in cui è enunciato un teorema non viene data propriamente una dimostrazione quanto piuttosto una verifica numerica su un caso particolare. Si trattava ancora della tendenza calcolistica propria dell’abachismo, connessa a un approccio più aritmetico che geometrico. Nel quarto trattato (dove è forte la presenza di Archimede)59 si manifestava in maniera più evidente l’influenza abachistica, e con essa anche i riferimenti a oggetti di interesse delle professioni tecniche (volte a crociera, colonne, botti) ed elaborazioni ritenute suscettibili di trovare applicazioni pratiche, per esempio tra scultori ed ebanisti60. Ritengo però opportuno evidenziare – accanto e in connessione all’ispirazione euclidea del Libellus e alle sue accresciute competenze matematiche – l’esibizione, accanto e forse anche oltre il DPP, di una nuova e alta qualità del disegno, e in particolare della ostentata capacità di padroneggiare una pluralità di convenzioni grafiche: dai grafi puramente geometrici all’assonometria cavaliera (o proiezione parallela), alle doppie proiezioni ortogonali61. Dunque, se possiamo considerare i trattati pierfrancescani come prodotti in momenti diversi – e magari a tratti paralleli – di un unico progetto culturale perseguito nel tempo, possiamo notare come essi da una parte si inserissero in maniera assai pronunciata entro un solco tracciato e conservato dalla tradizione abachistica; ma dall’altra parte, sulla scorta della geometria euclidea, capitalizzando e dando sistemazione ed espressione magistrale a pratiche di disegno in uso tra architetti e non solo (descritte del resto anche dall’Alberti), la trattatistica di Piero andava a produrre una sua ridefinizione della “pratica di geometria”. In parte, dal punto di vista della struttura della materia, questa ridefinizione si esercitava direttamente, mediante l’inserzione in essa della prospettiva lineare, nella forma di un bagaglio tecnico rivolto prioritariamente al pittore, ma contiguo e appoggiato a pratiche di disegno architettonico già circolanti: tra architetti forse impegnati più nel disegno che non nel cantiere. Ma per un altro verso quella ridefinizione si esercitava in maniera più indiretta e sottile, mediante l’apprestamento di un bagaglio di differenti convenzioni di rappresentazione degli oggetti che rendeva disponibili pienamente per usi diversi, oltre la pittura, ma anche oltre l’architettura – quasi un’originale summa geometrica, a fondamentale orientamento tecnico, culmine estremo e raffinato della tradizione d’abaco e insieme inizio della dissoluzione del genere come fatto unitario. Piero spostava la destinazione della “pratica di geometria” consapevolmente e prioritariamente verso il mondo del disegno e dei suoi utenti. E l’Archimede di Piero andava a collocarsi presumibilmente in questo suo progetto culturale, in cui alla padronanza di piante e alzati, grafici e proiezioni centrali, proiezioni parallele e proiezioni ortogonali, faceva riscontro una buona indifferenza alla meccanica. Peraltro, l’attribuzione alla paternità di Piero della Francesca – avutasi pochi anni fa – del codice Ricc. Lat. 106 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, uno dei testimoni della tradizione latina di Iacopo da San Cassiano del corpus delle opere di Archimede, invita a ulteriori approfondimenti intorno alla ricezione e alla diffusione dell’opera archimedea, nonché al ruolo giocatovi da Piero e dagli ambienti con cui era in contatto. Già Marshall Clagett aveva proposto di individuare la fonte di Piero, per il Libellus, in una copia urbinate – il ms. Vat. Urb. Lat. 261 – della nuova traduzione del corpus archimedeo (dopo quella del XIII secolo di Guglielmo di Moerbecke) compiuta da Iacopo da San Cassiano (o Iacopo da Cremona) per incarico di papa Niccolò V62. Proseguendo le ricerche sulla traccia delle indicazioni fornite da Clagett, James Banker63 nel 2005 ha attribuito alla mano di Piero della Francesca il manoscritto Ricc. Lat. 106 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, contenente pressoché tutta l’opera di Archimede, con l’eccezione del commento di Eutocio64. Dopo gli importanti riscontri del 64

Romano Nanni


4. Piero della Francesca Leggenda della Vera Croce. L’Annunciazione, particolare Arezzo, chiesa di san Francesco

5. Piero della Francesca La Flagellazione, particolare Urbino, Galleria Nazionale delle Marche

Banker (a cui vanno aggiunte alcune utili osservazioni di Riccardo Bellé)65, le ricerche ampie e innovative dedicate alla ricostruzione della trasmissione latina del corpus archimedeo compiute da Paolo D’Alessandro e Pier Daniele Napolitani66 – che rinnovano la conoscenza della tradizione latina di Archimede – hanno portato a identificare l’autografo della traduzione di Iacopo da San Cassiano nel codice parigino Nouv. Acq. Lat. 1538, redatto alla metà del XV secolo. Fu prelevato dalla biblioteca pontificia nel corso del 1458 da Francesco del Borgo, che se ne servì per allestire la copia apografa del Vat. Urb. Lat. 261. Da esso, ma non senza ignorare l’autografo di Iacopo da San Cassiano, sarebbe stato derivato il Ricc. Lat. 106 allestito da Piero della Francesca67. Decisiva, per Piero, sarebbe perciò risultata la mediazione della figura di Francesco del Borgo, suo cugino e concittadino, personaggio di primo piano nella curia papale e nell’ambiente culturale romano della metà del Quattrocento. Francesco del Borgo lo avrebbe introdotto nel clima di riscoperta della scienza greca creatosi a Roma negli anni 1458-1459, periodo in cui Piero si trovava a dipingere i Palazzi Vaticani e quando già era stata completata la trascrizione dell’Urb. Lat. 26168. All’attività di trattatista dell’artista di Sansepolcro, dunque, si viene ad aggiungere ora la conoscenza di una sua attività di copista e mediatore dell’opera archimedea: di cui forse Piero si avvalse per i suoi trattati almeno più maturi, ma che – come è stato utilmente suggerito69 – potrebbe anche essere il prodotto dell’attività di uno scriptorium allestito da Piero e a cui egli stesso partecipava direttamente. Quale valore assegnare a questa attività del pittore di Sansepolcro? Solo analisi sistematiche su tutta la tradizione archimedea latina e la sua ricezione possono darci una risposta esauriente. Si può ricordare che Marshall Clagett, al termine della sua disamina del rapporto tra Piero e Archimede, aveva concluso con un’icastica stimolante osservazione: per la sua pittura bastavano le geometrie euclidee70. Propongo di seguire questa indicazione, tramite due sondaggi sull’atteggiamento di Piero di fronte al tema delle spirali e a quello dei centri di gravità nel corpus archimedeo. Il tema delle spirali è di notevole interesse, in quanto si pone a cavallo di più ambiti disciplinari. Da parte di Egnazio Danti, nella sua edizione commentata di Le due regole della prospettiva pratica del Vignola71, è stata persino attribuita a Piero una decisiva innovazione nelle tecniche di progettazione architettonica, quale quella del modo di disegnare una scala a doppia spirale, come quella, famosa, del castello reale di Chambord, che parte della critica storica contemporanea attribuisce all’ispirazione di Leonardo da Vinci72. Ma la spirale, prima di ogni altra cosa, è un motivo iconografico intrinseco e ricorrente del gusto di Piero artista, che attraversa la sua opera pittorica quantomeno dai capitelli ionici del ciclo aretino della Leggenda della Vera Croce, della Flagellazione, del Polittico di Sant’Antonio, fino al pastorale in cristallo di rocca del Polittico di Sant’Agostino e all’acconciatura del ritratto di profilo di Battista Sforza. Spirali, quelle dei capitelli in particolare, disegnate in vedute tridimensionali o abilmente scorciate, che rivelano grande dimestichezza col motivo iconografico. Si veda almeno il capitello (fig. 4) dell’affresco dell’Annunciazione nella Leggenda della Vera Croce, ciclo di controversa datazione ma comunque realizzato tra il 1452 e il 1466, secondo alcuni terminato già prima dell’invito di Piero a Roma, da parte di papa Pio II, nel 145973; e il capitello centrale della Flagellazione (fig. 5), opera successiva ma forse ancor prossima al ciclo aretino. Lo stesso capitello poi tornerà anche nella trattazione e nei disegni del più tardo DPP 74. Sulla modalità di disegnare le spirali della voluta del capitello ionico esistevano già riferimenti importanti al tempo di Piero75, in particolare le indicazioni contenute nel L. III, 5.6, del De architectura di Vitruvio76, e nel L. VII, cap. VIII, del De re aedificatoria di Leon Battista Alberti. Tra le due tecniche di tracciamento esistono sensibili differenze. Mentre l’architetto romano componeva quarti di cerchio a centro variabile, l’Alberti compone semicirconferenze, con il risultato di giungere con due soli semicerchi a un giro completo di spirale, rendendo la voluta meno graduale nel suo restringimento. La differenza è ben visibile nella tavola di fig. 677 e ben leggibile nel testo albertiano78. Movimenti nella struttura della “pratica di geometria” tra Piero e Leonardo

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Anche Piero nel DPP illustrerà la procedura di tracciamento della spirale di una voluta ionica, sia nel testo, sia in disegno (fig. 7), chiaramente conferendo veste di precetto metodico a un motivo già coltivato nella sua pittura. Dopo aver fornito le unità di misura di riferimento e le loro proporzioni reciproche per disegnare in prospettiva un capitello, Piero si soffermava in dettaglio sulla descrizione della costruzione del “viticchio”:

6. Schema di spirale vitruviana (V) e albertiana (A), da G. Morolli e M. Guzzon, Leon Battista Alberti: i nomi e le figure. Ordini, templi e fabbriche civili: immagini e architetture dai Libri VII e VIII del De Re Aedificatoria, Firenze, Alinea, 1994, p. 42

7. Piero della Francesca Spirale della voluta del capitello ionico, da Id., De Prospectiva Pingendi, edizione critica a cura di G. Nicco-Fasola, Firenze, Le Lettere, 1984, fig. LIX Milano, Biblioteca Ambrosiana

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“Hora torna su a fare i viticchi: togli la quarta parte de la linea .D. e polla sulla linea .E. dal canto destro, et così la poni dal canto sinistro facendo puncto; da poi circula i viticchi cominciando uno quarto adentro de la linea .C. et continuando in fore, al paro del fine della linea .D., e pure circulando contingente la linea .F. et circulando passante per lo puncto de la quarta parte de la linea .E., e pure circulando contingente la linea .D., dandoli buono contorno nel modo che se vede nella figura, et così fa dall’altra parte. Poi fa le grosezze et le parti degli altri viticchi che se veggono, commo comprenderai per la seconda figura; da poi fa nel mezzo della cimasa uno fiore, che sia de grandezza quanto che è alta la cimasa et questa è la figura de l’altezza” (c. 49v, fig. LIX).79 Le istruzioni non sono chiarissime, ma mi sembra di poter ipotizzare che si tratti di una tecnica di costruzione della spirale simile a quella vitruviana, per quarti di cerchio a centro variabile. Che si tratti di un’esecuzione di spirale per quarti di cerchio lo si desume – oltre che da una prova pratica condotta secondo le istruzioni stesse della pagina citata del DPP – dai limiti dimensionali prescritti per ogni arco di cerchio (da C a D, da D a F, da F a E), dove però la determinazione del punto su cui fare centro col compasso appare integralmente sostituita dalla determinazione dei segmenti di retta cui appoggiarsi “circulando passante” o “circulando contingente”, ossia tracciando i bracci della spirale per secanti o tangenti al segmento di retta di volta in volta dato. Traspare comunque manifestamente, dall’avvertimento di dare “buono contorno nel modo che se vede nella figura”, che decisivi risulteranno la mano e l’occhio dell’artista. Si tratta comunque certamente di spirali che Piero sapeva ben trattare. Ci troviamo invece di fronte a una singolare situazione non appena si esamini nel Ricc. Lat. 106 la copia eseguita da Piero degli Inventa circa elicas, la traduzione di Iacopo da San Cassiano del trattato di Archimede sulle spirali. Relativamente al problema dei disegni, D’Alessandro e Napolitani, nel loro studio già ricordato, hanno tra l’altro condotto un accurato esame di confronto, con riferimento in particolare alle figure geometriche della Quadratura parabolae e della Circulio dimensio, tra il codice pierfrancescano del corpus archimedeo (il codice F, ossia il Ricc. Lat. 106 conservato a Firenze), il codice U (cioè l’Urb. Lat. 261 fatto allestire da Francesco del Borgo) e il codice Na, l’autografo di Iacopo da San Cassiano (cioè il Nouv. Acq. Lat. 1538 della Bibliothèque Nationale di Parigi). I testi dei due trattati sarebbero stati copiati da Piero con ogni probabilità dal codice U, che risulta però estremamente lacunoso riguardo alla riproduzione delle figure (ne risulta anzi del tutto sprovvisto nella Quadratura parabolae). Invece F correda sistematicamente le dimostrazioni archimedee con le relative figure. Dal confronto risulta che Piero debba poter essersi servito, relativamente ai disegni, direttamente dell’autografo di Iacopo (revisionato peraltro da una seconda mano, e indicato dagli autori dello studio con la sigla Na2), seppur in un complesso e variabile rapporto di scambio e collaborazione col cugino Francesco80. L’esame condotto da D’Alessandro e Napolitani ha messo in evidenza come Piero si sia mosso in maniera non uniformemente caratterizzabile rispetto al codice Na2. Da una parte si apprezzano migliorie delle figure geometriche (nel simbolismo ad esempio) e opportune ricollocazioni o integrazioni di figure in esatta corrispondenza delle proposizioni pertinenti. Dall’altra sono stati Romano Nanni


8. Piero della Francesca (attr.) Ricc. Lat. 106, ff. 56v-57r Firenze, Biblioteca Riccardiana

9. Archimedes De spiralibus, prop. XII, spirale, elaborazione da Archimedis Opera Omnia cum commentariis Eutocii, iterum edidit Iohan Ludvig Heiberg, editio stereotypa editionis anni MCMX, Stuttgart, Teubner, 1972, vol. II, p. 48

fatti osservare casi in cui è stata copiata sia la figura, errata, di Na e contemporaneamente la figura, esatta, aggiunta dalla seconda mano, denunciando un chiaro impaccio a intendere il testo; correzioni inopportune o errate, tentativi di correzione legittimi ma incompleti, e anche larghe sequenze di passiva riproduzione degli errori dell’archetipo. Un esame delle figure degli Inventa circa elicas, nella versione del codice F, può confermare ulteriormente la tesi che l’autografo di Iacopo da San Cassiano sia stato l’antigrafo di F per quanto riguarda i disegni. Mi limito qui ad attirare l’attenzione sul primo grafico della costruzione della spirale nel Ricc. Lat. 106, che illustra, a c. 57r del codice, lo sviluppo del tema di quella poi divenuta la proposizione XII81 secondo l’edizione Heiberg del trattato archimedeo. Archimede aveva dapprima esposto, nella prima delle definizioni, la sua costruzione cinematica della spirale: se una semiretta, restando fissa la sua origine, gira un numero qualunque di volte muovendosi di moto circolare uniforme, compiendo rivoluzioni complete, e contemporaneamente su di essa si muove un punto di moto rettilineo uniforme a partire dall’estremità fissa, il punto descriverà una spirale sul piano. Nelle proposizioni iniziali del trattato aveva inoltre stabilito e dimostrato che se un punto si muove di moto uniforme, gli spazi percorsi stanno tra loro come i tempi impiegati a percorrerli. Partendo da questi presupposti, nella proposizione XII Archimede aveva dimostrato che se un numero qualunque di segmenti di retta tracciati dall’origine della spirale fino alla curva in una qualunque rivoluzione formano degli angoli uguali tra loro, questi segmenti si oltrepassano l’un l’altro di una stessa grandezza (fig. 9): si tratta di una semplice conseguenza della definizione di spirale e delle proprietà del moto uniforme sopra ricordate. Il disegno che illustra questa proposizione a c. 57r nel Ricc. Lat. 106 è del tutto errato. Infatti non si tratta di una vera spirale archimedea, ossia a distanza costante tra i suoi bracci, ma di una figura costruita assemblando un settore di cerchio e un semicerchio, e appoggiando sul raggio libero un altro minor semicerchio a fornire la percezione di una spirale: in sostanza un Movimenti nella struttura della “pratica di geometria” tra Piero e Leonardo

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10. Francesco Dal Borgo Vat. Urb. Lat. 261, f. 89r Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana

11. Archimedes Opera, Basileae, 1544, p. 108

12. Laur. Gr. XXVIII 4 [Plut. 28 4], f. 79r Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana

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gioco ottico. A prima vista si ha la sensazione di osservare una spirale, ma non è così, in quanto se si prolunga il settore di cerchio superiore si va a chiudere la circonferenza. In realtà in questa figura le rette tracciate dall’origine fino alla sedicente “spirale” – i raggi vettori – sono necessariamente tutti raggi portati dal centro alla circonferenza, quindi tutti della stessa lunghezza. Ma così si perde completamente la possibilità di visualizzare il fatto che i raggi vettori crescono proporzionalmente agli archi percorsi. La differenza è molto chiara non appena si compari il disegno del Ricc. Lat. 106 (fig. 8) con la rielaborazione tratta dalla prima edizione moderna del 1544 delle opere di Archimede (fig. 11). Troviamo lo stesso fraintendimento nel manoscritto allestito da Francesco del Borgo (fig. 10): peraltro, sia Francesco sia Piero si limitano a copiare pedissequamente la figura di Iacopo da San Cassiano nel Nouv. Acq. Lat. 1538 (f. 112r, vedi fig. 13). L’interpretazione, come accennato, sarà invece resa correttamente nell’edizione cinquecentesca di Basilea del 1544 (fig. 11), nonché in quelle successive del Commandino e del Maurolico: edizione, quella di Basilea, che era stata compiuta sulla base dei materiali preparati dal Regiomontano. Infatti Iohannes Müller, venuto in Italia al seguito del cardinale Bessarione nel 1461-1467, rifacendosi a vari testimoni, aveva corretto a fondo la traduzione di Iacopo da San Cassiano, migliorandola in diversi luoghi. Il lavoro non arrivò subito alle stampe a causa della morte prematura di Regiomontano nel 147682. Per quanto riguarda la tradizione greca superstite (derivante, come tutti i testimoni di età umanistica, dal perduto codice A83), nel Marc. Gr. 305 (che si ritiene copiato tra il 1455 e il 1468) si riproponeva lo stesso errore riscontrato fino ad ora nella tradizione latina, mentre il manoscritto Laur. Gr. XXVIII 4 (realizzato però intorno al 1492 e che si vuole fatto allestire da Angelo Poliziano in maniera rigorosamente fedele al codice A) offriva una soluzione più corretta (fig. 12). L’errore è altrettanto evidente anche nella precedente traduzione latina di Guglielmo di Moerbecke (fig. 14), sopravvissuta nel codice Ottob. Lat. 1850. Nel codice della Vaticana infatti, a c. 13v, si riscontra già il medesimo misconoscimento fin qui evidenziato nel trasporre in un grafico il testo della proposizione XII del Circa elicas. Purtuttavia, nei grafici immediatamente seguenti a questo nella stessa carta, il codice Ottob. Lat. 1850 accenna visibilmente a indirizzarsi verso un’interpretazione corretta della spirale archimedea, per quanto in un contesto di disegni eseguiti da una mano assai rozza e incerta. Non così invece il codice autografo di Iacopo (Na2), che nelle due figure immediatamente seguenti conserva come base l’iniziale impianto “illusionistico” della costruzione della spirale, seguito in questo sia da F (Piero) che da U (Francesco). A partire dalla figura che segue queste ultime, invece, il codice pierfrancescano inizia a seguire un andamento (che andrà studiato nel dettaglio) in parte autonomo rispetto al Nouv. Acq. Lat. 1538, mentre in quello urbinate di Francesco i grafici, comunque più vicini a quelli di Piero, vanno a diradarsi fino a interrompersi del tutto a partire da c. 94r fino alla fine (l’Archimedis inventa circa elicas occupa in tutto le cc. 80r-101v dell’Urb. Lat. 261). Situazione che per un verso è una conferma che Piero abbia tenuto ben presente per le figure il codice di Iacopo, ma che rispetto a questo abbia anche assunto via via una posizione autonoma, non sempre necessariamente migliorativa. Per ora basti notare come Piero possa non avere riconosciuto a colpo d’occhio nei grafici iniziali che ciò che trovava nella fonte in suo possesso non era una spirale, attenendosi passivamente alla versione tramandata. Si deve perciò constatare nel codice pierfrancescano quantomeno un’indifferenza al contenuto, che certo non dovette essere stata un eccezionale contributo alla comprensione dell’opera archimedea per questo rispetto. E ci si può domandare se all’artistageometra, più interessato alla risoluzione di problemi di misura di superfici e volumi e all’apprestamento di una serie di modelli rappresentativi di figure piane e solide riconducibili a corpi effettivi, da impiegare in pittura (e, forse, nel disegno architettonico), più aduso, anche, a una risoluzione a occhio e convenzionale, di problemi figurativi, e invece meno sensibile alla dimenRomano Nanni


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