Matisse arabesque

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Henri Matisse Les Poissons rouges I pesci rossi 1911 Olio su tela, 140 x 98 cm (cat. 1)

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Matisse arabesque

Ester Coen

1. Salone della casa di Piotr Šcˇukin a Mosca con dipinti dell’Ottocento francese, tappeti, arazzi e paraventi orientali

1 Cfr. Rémi Labrusse, “What remains belongs to God”: Henri Matisse, Alois Riegl and the Arts of Islam, in Matisse, His Art and His Textiles.The Fabric of Dreams, catalogo della mostra, Royal Academy of Arts, London 2004, pp. 46-61.

Nella duplice natura di questo titolo è compresa la forza di un’idea che, contemporaneamente, allude a una visione concettuale, all’interpretazione di una superficie pittorica, al richiamo di tradizioni culturali che nell’ornamentazione racchiudono il senso di una simbologia fondata sugli archetipi di natura e cosmo. Aspetti tra loro indissolubili perché germinati da un unico pensiero: trovare la misura che restituisca l’emozione di una sensibilità primitiva nell’incontro di tecniche e mondi carichi dei cromatismi e delle atmosfere d’Oriente. Il motivo della decorazione e dell’orientalismo è per Matisse la ragione prima di una radicale indagine sulla pittura, di un’estetica fondata sulla sublimazione del colore, della linea. Sull’identificazione di una purezza attraverso la semplificazione della forma, rafforzata dal confronto con la sintesi cromatico-lineare dei crespi giapponesi, prima conferma dell’ap-

profondimento della forza espressiva degli elementi della pittura: leggerezza ed essenzialità nipponiche presto modulate sul potere emotivo della pittura dei Primitivi del Louvre e dell’arte orientale, dalla bizantina alle forme di un decorativismo aulico e popolare allo stesso tempo. Nei motivi riccamente intricati e labirintici di civiltà antiche e lontane, Matisse coglie il senso di uno spazio diverso: “uno spazio più vasto, un vero spazio plastico” per “uscire dalla pittura intimistica”. La visita in Germania alla grande esposizione di arte maomettana nel 1910 – più di ottanta sale di tappeti, di ricami, di tessuti, di oggetti provenienti anche dalle raccolte Šˇcukin, dalla famiglia di uno dei più appassionati collezionisti di Matisse (ill. 1) – rafforza il suo interesse per un’ornamentazione che gli ispira un impianto compositivo diverso da quello tradizionale. Per una superficie che possa aprirsi a “uno spazio di dimensioni che la stessa esistenza degli oggetti rappresentati non riesce a limitare”. L’Oriente e la Russia, nella loro essenza più spirituale e più lontana dalla visione puramente decorativa, schiudono a Matisse, ancor più dopo il viaggio a Mosca nell’ottobre 1911, la forza di schemi compositivi dai significati più elevati. Arabeschi, disegni geometrici e orditi di tessuti da cui riverberano sonorità di linee e di colori mistici, nello scorrere di forme in divenire sulla superficie – i due illuminati collezionisti di Matisse dal 1906, Šˇcukin e Morozov, erano i maggiori imprenditori-mercanti tessili della Russia imperiale – divengono per Matisse il motivo strutturale dell’immagine nella sua misura simbolica. E dall’ordine di strutture matematiche e di ritmi semplici, il cui fascino era stato oggetto di importanti studi e teorie tra fine Ottocento e inizi Novecento1, si conso19


2. Henri Matisse, La Musique, 1910 Olio su tela, 260 x 389 cm San Pietroburgo, The State Hermitage Museum

2 Notes sur la couleur, in Henri Matisse, Aquarelles, Dessins, Galerie Jacques Dubours, Paris 1962, ripubblicato in Del disegno e del colore, in Henri Matisse, Scritti e pensieri sull’arte, raccolti e annotati da Dominique Fourcade (Ecrits et propos sur l’art, Collection Savoir, Hermann, Paris 1972), trad. it. Maria Mimita Lamberti, Einaudi, Torino 1979, p. 161. 3 Joan Sacs [Feliu Elias], Enric Matisse, in “Vell i nou”, 1° novembre 1919, intervista ripubblicata in inglese come Interview with J. Sacs, in Matisse on Art, a cura di Jack Flam, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1995, pp. 56-60 (57) (mia traduzione). Secondo Flam l’intervista sarebbe stata resa nel 1910 per essere poi divulgata nove anni dopo. Che sia effettivamente avvenuta nel periodo trascorso dal critico catalano a Parigi, tra il 1910 e il 1912, per essere resa nota soltanto molti anni dopo? Non è tuttavia da escludere che, poiché la rivista nasce nel 1915, la data dell’incontro risalga allo stesso 1919 e che il riferimento alla Musique avvenga davanti alla semplice immagine pubblicata nel numero 100 (1° ottobre 1919), come accennato nella stessa intervista.

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lida allora l’intuizione di un vero da rappresentare nella sua totalità. Quei motivi già presenti nel periodo tardoantico, nell’arte bizantina e nell’età rinascimentale, sono interpretati da Matisse con straordinaria modernità in un linguaggio che, al di là dell’esattezza delle forme naturali, tocca le punte del sublime.Temi ancor oggi di straordinario interesse esegetico, come attestano gli studi avviati da Edward Said sulla storia della fascinazione dell’Oriente per occhi educati a una visione occidentale: nella rappresentazione di un Levante inseparabile dai suoi soggetti esotici, riflesso di un’idea fantastica e fiabesca di cui Matisse riesce a mostrare con straordinaria sensibilità le forme purificate in una dimensione esornativa più astratta. Attraverso la suggestione e il rimando a oggetti di quelle fastose culture iconiche, a motivi di ibridazione e commistioni di generi e stili, “Matisse arabesque” rievoca lo splendore e insieme la delicatezza di un mondo antico e semplice, esaltato e trasformato dallo sguardo profondo del grande artista. Superfici “Una superficie dipinta può dare l’impressione di essere illuminata dall’interno: è un male, perché deve offrire all’occhio la resistenza di una superficie, o diventa insopportabile”2. Matisse, già dalle prime dichiarazioni, difende il principio di superficie, quel principio che,

con assoluta devozione e mirabile costanza, rimarrà la ragione esclusiva della ricerca di una vita. Ridurre gli elementi visivi, giocare con la linea forzando la potenza del colore alla massima saturazione timbrica, esaltare la natura piana della tela o dell’area da dipingere, senza mai rinnegare l’epidermide del supporto, la sola materia vitale per cui la pittura può esistere, in funzione di una unità dell’insieme. “Dall’arte classica ho appreso la tecnica del trompe-l’œil, il sentimentalismo, la poesia, le convenzioni estetiche, tutti gli artifici intellettuali e gli espedienti tecnici solo e soprattutto per osservare ed esaltare la sensazione, la più pura delle cose, la più impermeabile alla ricercatezza, la più istintiva e primordiale, la più commovente in assoluto, per non dire la più emozionante tra tutte”3. È davanti all’immagine della Musique (ill. 2), realizzata per Sergej Ivanoviˇc Šˇcukin, che Matisse si apre allo scrittore, pittore e caricaturista catalano Joan Sacs (alias di Felius Elias i Bracon). Caustico, in nome di un’estrema oggettivizzazione della realtà, e da sempre fermo oppositore delle avanguardie, l’intervistatore non riesce a trattenere il tono indispettito e contrariato di chi malvolentieri è costretto a relazionarsi con deformazioni stilistiche a lui insopportabili. Tuttavia proprio da questo senso di irritazione nasce una tra le testimonianze più preziose sulla personalità artistica di Matisse negli anni del


3. Henri Matisse, La Joie de vivre, 1905-1906 Olio su tela, 174 x 238 cm Filadelfia, The Barnes Foundation

4 Dal Salon des Indépendants di quell’anno e dalla successiva mostra alla Galerie Druet.

fervore delle avanguardie. “Ma l’accrescimento di note più classiche non aggiungerebbe intensità” all’espressione pittorica? Alla domanda il pittore risponde opponendo la logica straordinaria e accesa di chi ha già esaurito la lezione classica e si muove in un mondo di rimandi e forme, nel quale la perizia ha di gran lunga superato l’abilità tecnica degli scultori greci o degli artisti del Rinascimento. Continuare per quella via e nello studio di quei valori, di quelle regole, significherebbe privilegiare una linea virtuosistica, vuota e priva di stimoli. Una linea imitativa, di maniera, che in quegli anni di rivoluzioni formali e sintattiche non avrebbe concesso audacie compositive, né aperto il campo a nuove scoperte. “È nell’eccesso di preziosismo e maestria che si è attenuato lo spirito dell’arte classica”, afferma ancora Matisse discostandosi da un’esperienza vissuta già attraverso il museo e lo studio dei grandi maestri. Quell’esperienza lo aveva educato alla visione, gli aveva insegnato a conoscere le tecniche, a studiare spazi e prospettive. Ma era già dal 19064 che Matisse si era ufficialmente costruito la fama di pittore audace, di capofila della nuova corrente in aperta opposizione alle tendenze tradizionali per i suoi colori acuti e squillanti, le linee sinuose, le superfici appiattite. La Joie de vivre, 1905-1906 (Filadelfia, The

Barnes Foundation; ill. 3), nell’assenza di peso delle figure accennate sulla tela e nelle vivide note cromatiche, appariva come il manifesto di un modo di sentire diverso, ancora carico della lezione postimpressionista ma del tutto proiettato verso un’altra sensibilità, libera da convenzioni o residui accademici. In quella dimensione aerea e incantata, irreale e magica, un grande senso di musicalità, orchestrato sulle note cromatiche più alte, orientava lo sguardo in una circolarità impalpabile come il suono emesso dai flauti o come il passo di danza ritmato in lontananza sugli andamenti curvilinei di uno sfondo ribaltato sul piano. In quella immagine quasi incorporea, la memoria di molti dipinti visti al Louvre, di concerti campestri, di muse e satiri, di bagnanti e paesaggi, devia affrancandosi dall’impronta di un insegnamento che riaffiora tuttavia dal profondo. Di quegli esempi, osservati con tanta intensità, indagati e copiati negli anni giovanili di pratica, persiste l’eco flebile di strutture e movimenti dall’impianto e dalla modulazione classica riletti alla luce di una storia ormai acquisita. Qui infatti non viene negata la misura di un’espressione classica che, al contrario, accorda i singoli elementi in un unico principio. Piuttosto, nessuna autorità formale sembra essere riconosciuta alla materia densa della pittura, al plastico chia21


Henri Matisse Coin de table (Violettes) Angolo di tavola (Violette) Circa 1903 Olio su carta montata su tavola, 48,9 x 45,1 cm (cat. 2)

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Henri Matisse Arumes, iris et mimosas Calle, iris e mimosa 1913 Olio su tela, 145,5 x 97 cm (cat. 3)



MEDITERRANEO. MEDIO ORIENTE

La storia degli scambi commerciali e delle influenze scientifiche e culturali tra Europa e Medio Oriente è lunga e articolata ed è strettamente connessa con i difficili rapporti politici ed economici da sempre intercorsi tra le due aree. Si pensi, ad esempio, alle eredità della dominazione islamica in Spagna che conserva ancora luoghi come l’Alhambra di Granada o la Grande Moschea di Cordova. Terminata la fase di dominazione politica, l’Europa continuò per secoli a importare dai paesi islamici affacciati sul Mediterraneo stoffe, tappeti, metalli lavorati, miniature, ceramiche e arredi; testimonianze di queste presenze si ritrovano anche nei dipinti dei pittori di età rinascimentale e barocca. La campagna napoleonica in Egitto, del 1798, segnò l’inizio di una nuova fase di interesse per queste culture, grazie anche al nutrito gruppo di studiosi francesi giunti insieme a Napoleone che ebbero la possibilità di compiere fondamentali esplorazioni archeologiche e rilevazioni dei monumenti e dei reperti antichi. Tra questi vi erano anche Dominique Vivant Denon, che nel 1802 pubblicò quattro volumi riccamente illustrati dal titolo Voyage dans la basse et la haute Egypte, e i pittori Antoine-Jean Gros e Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson, che realizzarono una serie di opere raffiguranti paesaggi, monumenti e scene di vita quotidiana capaci di catturare le suggestioni di un mondo così diverso rispetto a quello occidentale. Da quel momento, in diversi paesi europei, primi fra tutti la Francia e l’Inghilterra, iniziò a diffondersi il fenomeno dell’egittomania, presto trasformatosi nel cosiddetto orientalismo, strettamente connesso con il colonialismo e con le politiche di espansionismo territoriale. Sebbene l’orientalismo non diventasse mai uno stile autonomo, tracce di questa sensibilità si possono facilmente individuare nella letteratura ottocentesca e all’interno della cultura figurativa romantica e classicista, in opere di artisti come Eugène Delacroix, Jean-Auguste-Dominique Ingres e Jean-Léon Gérôme.

Nel corso della seconda metà dell’Ottocento l’approccio enciclopedico della cultura di matrice eclettica mantenne viva la passione per il mondo turco, islamico e arabo-moresco: accanto agli arredi di gusto neogotico, neorinascimentale, neobarocco e neorococò, le case borghesi iniziarono ad arricchirsi di manufatti in stile egizio, moresco e ottomano, e la moda per l’Oriente in tutte le sue forme coinvolse anche l’abbigliamento, la letteratura, la musica e il teatro. Le cineserie settecentesche vennero in parte sostituite con forme e decori stilizzati, soprattutto di tipo geometrico e floreale, desunti dalle architetture e dagli oggetti d’arredo tipici del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale. Lo studio scientifico di queste realtà culturali fu reso possibile dalle continue campagne archeologiche, dalla diffusione della fotografia e dalla pubblicazione di repertori illustrati, realizzati soprattutto da noti viaggiatori come Owen Jones, Emile Prisse d’Avennes e Auguste Racinet, nei quali non mancavano tavole raffiguranti i motivi geometrici, floreali e ad archi ogivali e polilobati della cultura araba e moresca, le palmette stilizzate e i fiori di loto tipici della cultura egiziana, i ramages floreali e i profili a giglio tratti dai manoscritti, dai tappeti e dalle ceramiche di origine persiana. Un altro veicolo fondamentale per la diffusione dell’arte islamica in Europa fu rappresentato dalle numerose mostre che, a partire dall’Esposizione universale di Londra nel 1851, iniziarono a essere organizzate con regolarità in tutta Europa. Accanto alle Esposizioni universali e internazionali, in cui non mancavano mai padiglioni dedicati alle colonie africane e ai paesi mediorientali, iniziarono a essere organizzate mostre specifiche di arte musulmana. Con l’inizio del XX secolo questi eventi divennero sempre più rigorosi e scientifici, allontanandosi dalla visione pittoresca e un po’ superficiale che fino a quel momento aveva caratterizzato la percezione del mondo mediorientale.

Parallelamente, iniziò a consolidarsi un interesse collezionistico per questo genere di manufatti che costituirono ben presto la base patrimoniale per la nascita di musei di arti orientali e di arti decorative. Le suggestioni derivate dalle colonie dell’Africa del Nord si manifestarono in ambito pittorico attraverso una nutrita serie di opere ambientate all’interno di stanze popolate da conturbanti odalische e rivestite di piastrelle islamiche e tessuti orientali. Ne sono prova i disegni e i dipinti realizzati per tutti gli anni dieci e venti del Novecento da Matisse, nati in seguito al viaggio monacense, compiuto nel 1910 per visitare la fondamentale mostra “Meisterwerke Muhammedanischer Kunst” (Capolavori dell’arte maomettana), e ai soggiorni in Andalusia, in Algeria e in Marocco che lo misero in contatto diretto con la cultura araba e islamica. In quegli stessi anni anche la moda risentì di tali influenze, come dimostrano gli abiti, gli accessori e i tessuti ideati negli atelier parigini di Paul Poiret, che propose l’immagine della donna odalisca, vestita con pantaloni harem e turbante, e che nel 1911 organizzò una memorabile festa in maschera ispirata alle Mille e una notte. In epoca déco esplose nuovamente la passione per l’Egitto, riaccesa dalla scoperta della tomba di Tutankhamon, avvenuta nel 1922. Le forme e i motivi decorativi egizi circolarono grazie alla produzione di arredi e gioielli ispirati al corredo funerario del giovane faraone, mentre la bidimensionalità della figura, i movimenti sincopati, la grafica essenzialità della pittura funeraria e dei bassorilievi egizi, che già avevano ispirato Gauguin e i secessionisti viennesi, ed erano stati rimarcati dal lessico futurista, si trasferirono facilmente negli apparati decorativi, pittorici e plastici, dei luoghi di ritrovo e del divertimento, come le sale cinematografiche, i teatri e i ristoranti alla moda. Stefania Cretella 81


Pannello per la lunetta di una finestra Iznik, Turchia, 1550-1600 Pasta islamica con decorazione policroma sotto vetrina, 73,7 x 74,9 cm (cat. 27)

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Mattonella Iznik, Turchia, 1520-1550 Pasta islamica, pigmenti colorati e decorazione sotto vetrina, 22,2 x 22,2 cm (cat. 28)

Mattonella Iznik, Turchia, 1550 Pasta islamica, decorazione policroma sotto vetrina, smaltata, 24,3 x 24,3 cm (cat. 29)

Mattonella con decori policromi Iznik, Turchia, seconda metà del XVI secolo Maiolica, 27,5 x 25 cm (cat. 30)

Mattonella con decori policromi Iznik, Turchia, seconda metà del XVI secolo Maiolica, 23,8 x 23,6 cm (cat. 31)

Mattonella con decori policromi Iznik, Turchia, seconda metà del XVI secolo Maiolica, 25 x 24 cm (cat. 32) Mattonella Iznik, Turchia, seconda metà del XVI secolo Pasta islamica, decorazione policroma sotto vetrina, 24,1 x 24,1 x 1,4 cm (cat. 33)

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Grande piatto Iznik, Turchia, seconda metà del XVI secolo Terracotta, invetriatura, 6,7 x Ø 36,3 cm (cat. 66) Piatto Iznik, Turchia, seconda metà del XVI secolo Terracotta, invetriatura, 7,1 x Ø 30,2 cm (cat. 67)

Piatto Iznik, Turchia, seconda metà del XVI secolo Terracotta, invetriatura, 7,1 x Ø 30,2 cm (cat. 68)

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Piatto Iznik, Turchia, seconda metà del XVI secolo Terracotta, invetriatura, 7,1 x Ø 30,2 cm (cat. 69)

Piatto con decoro a girandola Iznik, Turchia, seconda metà del XVI secolo Terracotta, invetriatura, 7,1 x Ø 32,2 cm (cat. 70)


Ciotola Corea, XI-XII secolo Ceramica, vetrina chongja, 3,70 x Ø 14,50 cm (cat. 71) Ciotola Corea, XI-XII secolo Ceramica, vetrina chongja, 8,50 x Ø 19,50 cm (cat. 72)

Piatto con decorazione floreale Iznik, Turchia, seconda metà del XVI secolo Ceramica invetriata con decorazione policroma, Ø 29 cm (cat. 73)

Grande piatto Iran, XVII secolo Impasto siliceo (faenza silicea), invetriatura, Ø 27 cm (cat. 74)

Coppa Iran, XIII secolo Ceramica (impasto artificiale-fritta), pittura nera e blu sotto invetriatura turchese, 6,70 x Ø 16 cm (cat. 75)

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Piatto Iran (Est), XVII secolo Porcellana con decorazione a smalto, 6,5 x Ø 34,5 cm (cat. 76) Coppa Iran, XII-XIII secolo Pasta islamica smaltata con decorazioni a lustro, 6,4 x Ø 15,7 cm (cat. 77) Coppa Iran, XIV secolo Impasto siliceo, decorazione policroma, invetriatura trasparente, 8,7 x Ø 19 cm (cat. 78)

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Coppa Mina’i Kashan, Iran, inizio del XIII secolo Impasto siliceo, decorazione policroma, invetriatura trasparente, Ø 21,5 cm (cat. 79) Pettorale di armatura (char aina) Iran, XVIII-XIX secolo Acciaio con decorazione in oro, intarsio, 25 x 20,5 cm (cat. 80)


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PRIMITIVISMO. AFRICA

La storia del colonialismo europeo ebbe inizio in concomitanza con le grandi scoperte geografiche del XV secolo che portarono le principali potenze politiche ed economiche del tempo ad ampliare i propri domini in America, Africa e Asia. All’inizio dell’Ottocento la Francia, dopo aver perso il controllo dei territori che aveva acquisito in America settentrionale, nelle Antille e in India, diresse le proprie mire espansionistiche verso i paesi dell’Africa settentrionale, conquistando Algeria, Marocco e Tunisia, per poi estendersi anche nelle regioni occidentali sudsahariane e in gran parte dell’Africa centroccidentale, giungendo sino al fiume Congo. Il dominio su tali territori permise non solo di impiegare la forza lavoro indigena, di sfruttare le risorse minerarie e di esportare le materie prime indispensabili per le industrie europee, ma anche di avere per la prima volta accesso a prodotti e manufatti tradizionali delle popolazioni locali. Questi materiali, in una prima fase considerati come semplici curiosità etnografiche, andarono progressivamente a incrementare l’interesse degli artisti e dei collezionisti nei confronti delle popolazioni considerate selvagge e primitive, inserendosi a pieno titolo all’interno del fenomeno del primitivismo. Tale tendenza affondava le proprie radici nel pensiero del filosofo settecentesco Jean-Jacques Rousseau, il quale, proponendo un ritorno allo “stato di natura”, diede vita al mito del buon selvaggio, descritto come puro e incontaminato per essere vissuto in armonia con le regole della natura e lontano dalla corruzione ingeneratasi nella civiltà europea contemporanea. Negli ultimi decenni dell’Ottocento l’attenzione nei confronti delle culture cosiddette primitive era stata nuovamente stimolata dal diffondersi degli studi di etnologia e antropologia, che ebbero conseguenze significative non solo nell’ambito degli studi sociali, ma anche in campo letterario e pittorico. Ne sono un esempio le vicende artistiche e biografiche di personaggi come il Doganiere Rousseau,

nelle cui opere è ricorrente il tema della giungla e della natura esotica, popolata da figure mitologiche o primigenie e da animali selvaggi, e Paul Gauguin, la cui scelta primitivista, di matrice simbolista, lo indusse a trasferirsi nelle isole della Polinesia, alla ricerca di un contatto diretto con la natura e la cultura ancestrale. Gli artisti francesi iniziarono ad avvicinarsi all’arte africana nei primi anni del Novecento, ammaliati dalle novità iconografiche e stilistiche dell’immaginario africano, la cui essenza poteva essere colta attraverso le sculture in legno e in avorio, i totem, le maschere per le danze rituali, le statuette propiziatorie, i costumi, gli accessori e gli oggetti decorativi che cominciavano a circolare nel mercato d’arte. Come per le altre culture extraeuropee, un efficace veicolo di promozione e conoscenza divennero le Esposizioni universali, internazionali e nazionali, così come le mostre tematiche espressamente dedicate alle arti straniere. Dopo gli eventi espositivi organizzati a Lipsia nel 1892, ad Anversa nel 1894 e a Bruxelles nel 1897, anche Parigi si dimostrò pronta a introdurre nel panorama culturale francese mostre di arte africana, allestendo la fondamentale manifestazione del 1907, che tanta influenza ebbe su Pablo Picasso e sulla realizzazione del suo capolavoro Les Demoiselles d’Avignon. Sebbene questo genere di mostre fosse nato per esaltare la superiorità della civiltà europea rispetto alle popolazioni colonizzate e per dimostrare la capacità civilizzatrice del colonialismo, gli artisti e gli intellettuali del tempo seppero cogliere il valore e le potenzialità creative delle opere esposte, andando oltre il dato meramente etnografico. Altrettanto importanti si rivelarono le collezioni del primo museo etnografico di Parigi, il Musée d’Ethnographie du Trocadéro inaugurato nel 1878, e del successivo Musée de l’Homme, fondato da Paul Rivet in occasione dell’Esposizione universale del 1937, luogo frequentato assiduamente dagli artisti, come Picasso e Matisse. L’esaltazione dei valori

plastici, la semplificazione delle forme e le linee forti e incisive della scultura, gli effetti pittorici e i contrasti cromatici degli intarsi, le proporzioni non convenzionali, la forza immaginativa e la centralità della figura umana vennero interpretati come i caratteri più significativi dell’art nègre e vennero assimilati e fatti propri dagli artisti europei. Echi di questi codici stilistici si ritrovano nella scansione volumetrica potente e unitaria delle opere cubiste, nelle composizioni geometriche e nell’iconicità arcaica delle figure femminili dipinte da Amedeo Modigliani e nella libertà espressiva e cromatica della pittura fauve, in particolare di de Vlaminck, Derain e Matisse. Quelle scoperte, interpretate attraverso l’esempio delle arti figurative, ebbero ben presto conseguenze anche sulle arti decorative, sulla moda, sulla grafica e sulla pubblicità. Le suggestioni del continente nero continuarono ancora per tutti gli anni venti e si rivelarono al grande pubblico non solo attraverso la mediazione della pittura e della scultura contemporanee, ma anche nell’intrattenimento musicale e nei varietà, grazie agli spettacoli di Joséphine Baker, ballerina e cantante afroamericana naturalizzata francese, che giunse a Parigi nel 1925 per esibirsi con la Revue nègre al Théâtre des Champs-Elysées. Con i suoi spettacoli ammiccanti e divertenti, arricchiti da succinti costumi con banane e piume esotiche, Baker riuscì a fondere i ritmi africani con la musica jazz e i frenetici passi del charleston, divenendo una vera e propria icona dei “ruggenti anni venti”. Stefania Cretella

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Maschera Kifwebe Songye Repubblica Democratica del Congo, inizio del XX secolo Legno e pigmenti, 44,5 x 24,5 x 20 cm (cat. 118)

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Scudo Nuova Norcia, Australia Occidentale, Oceania, XIX secolo Legno inciso e pigmento, 78,5 x 17 cm (cat. 119)

Maschera Okuyi Punu Gabon, inizio del XX secolo Legno e pigmento, 33 x 20 x 19 cm (cat. 120)

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LINEARISMO. ESTREMO ORIENTE

Secondo le fonti letterarie antiche, i primi tessuti provenienti dalla Cina giunsero in Europa in epoca romana, ma fu solo in seguito al moltiplicarsi delle rotte carovaniere lungo la cosiddetta Via della Seta che i rapporti tra Occidente ed Estremo Oriente si intensificarono. A partire dalla fine del XVI secolo l’importazione di tessuti, porcellane, sete, lacche e stampe divenne frequente e regolare, alimentando l’interesse dell’Occidente per quel paese lontano, del quale si ammiravano la storia e le tradizioni millenarie, i costumi suggestivi e la qualità della produzione artistica. Con l’istituzione della Compagnia Britannica delle Indie Orientali e l’apertura di nuovi percorsi commerciali da parte di olandesi e portoghesi, risultò più semplice far arrivare sui mercati europei prodotti della Cina imperiale, e anche i dettagliati rapporti di viaggio redatti dagli ambasciatori in visita in Oriente, spesso dati alle stampe con l’aggiunta di incisioni, divennero un importante veicolo per la trasmissione di immagini e racconti del mondo orientale. Questa nuova disponibilità di oggetti e di informazioni stimolò la fantasia degli occidentali, facilitando la nascita di una duratura e convinta passione per le cineserie. La maggior diffusione dell’influenza cinese si ebbe senza dubbio in concomitanza con l’affermarsi del gusto rococò all’interno delle corti europee del Settecento, in quanto lo stile giocoso e raffinato del tempo si rivelò capace di assorbire e fare proprie le suggestioni esotiche, dando vita a un variegato repertorio di decorazioni e motivi iconografici in cui gli elementi della tradizione locale si fusero armoniosamente con l’immaginario orientale. In questo modo, agli oggetti originali iniziarono ad affiancarsi prodotti di imitazione in cui i soggetti à la façon de Chine trovarono applicazione in ogni campo delle arti figurative, dell’arredo, della decorazione, dell’architettura e dei giardini.

Gli oggetti più ricercati e amati dai collezionisti del tempo erano le porcellane a pasta dura, apprezzate soprattutto per il loro candore, la leggerezza e la lucentezza traslucida. La passione per la porcellana si era già affermata nei secoli precedenti ed era anche dovuta all’impossibilità da parte dei ceramisti europei di riprodurre tali manufatti, dei quali si ignoravano completamente le tecniche di cottura e la composizione degli impasti. La fama di questo materiale è confermata dai numerosi tentativi di riproduzione sperimentati con materiali alternativi come la maiolica e il vetro lattimo. L’arcano della porcellana dura, soprannominata non a caso “oro bianco del Settecento”, venne svelato proprio all’inizio del secolo grazie agli esperimenti promossi da Augusto II di Sassonia, re di Polonia. Il primo esemplare europeo di porcellana contenente caolino venne realizzato nel 1708 e due anni dopo Augusto il Forte diede vita alla manifattura di Meissen. Ben presto iniziarono a diffondersi in tutta Europa nuove manifatture ceramiche, specializzate nella produzione di modelli sull’esempio orientale e di porcellane con forme e decorazioni all’europea, andando ad alimentare un mercato collezionistico molto esigente. Nel corso del XIX secolo l’interesse degli europei per la cultura cinese diminuì a favore degli influssi provenienti dal Giappone, paese fino a quel momento rimasto isolato dal resto del mondo e la cui cultura risultava pressoché sconosciuta. Grazie ai mutamenti politici interni al paese e alla continua espansione dei commerci internazionali, resa possibile dalla revoca del blocco dei porti giapponesi, verso la metà dell’Ottocento giunsero in Europa i primi manufatti e le prime stampe del Sol Levante che divennero una fonte di ispirazione fondamentale per i più aggiornati artisti europei del tempo. Altrettanto importante fu la presenza delle arti nipponiche alle Esposizioni internazionali e universali, giuntevi per la prima volta in occasione

dell’Esposizione londinese del 1862, durante la quale gli europei poterono vedere numerosi oggetti d’uso in lacca, ceramica e bambù. Tra i responsabili del dilagare in Francia del giapponismo si ricordano Madame de Soye, che proprio nel 1862 aprì a Parigi il negozio La Porte Chinoise, e Siegfried Bing, collezionista, mercante e critico d’arte, fondatore del negozio-galleria La Maison Bing e della rivista mensile “Le Japon Artistique”, che contribuì a diffondere l’interesse per questi oggetti organizzando anche mostre di incisioni e arti decorative giapponesi. Le linee sinuose e marcate, gli originali accostamenti di colori sgargianti, il rapporto tra pieni e vuoti, l’appiattimento bidimensionale, i tagli compositivi inediti e la resa spaziale libera dalle regole della prospettiva finirono per incidere profondamente sul gusto del tempo, segnando in modo indelebile non solo lo stile degli artisti art nouveau, ma anche di pittori simbolisti, impressionisti, postimpressionisti ed espressionisti, come Henri de Toulouse-Lautrec, Claude Monet, Edgar Degas, Georges Seurat, James Abbott McNeill Whistler, Vincent van Gogh, Paul Gauguin e lo stesso Henri Matisse. L’amore per l’arte e la cultura orientali, incarnate sia dalle opere del “mondo fluttuante” giapponese, sia dai manufatti del Celeste Impero, non si esaurì con la stagione del modernismo internazionale e delle prime avanguardie artistiche, ma permase anche negli anni successivi e divenne parte integrante del nascente gusto déco e del contemporaneo linguaggio eclettico e decadente. Stefania Cretella

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Utagawa Hiroshige Giappone, 1797-1858 Paesaggio Xilografia, 37,2 x 25,6 cm (cat. 166)

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Paesaggio Cina, XVIII-XIX secolo Inchiostri su carta, 152 x 72 cm (cat. 167)


Kano Tsunenobu Giappone, 1636-1713 Riva del lago e montagne sotto la pioggia Inchiostro su carta, 28 x 64,8 cm (cat. 168)

Scuola di Unkoku Giappone, XVI-XVII secolo Alberi secolari e montagne Inchiostro, pigmenti naturali e oro su carta, due pannelli separati, 167 x 189 cm (cat. 169)

Paesaggio con viandanti Giappone, seconda metĂ del XIX secolo Xilografia, 10,2 x 15,5 cm (cat. 170) Paesaggio con esercito Giappone, fine del XIX secolo Pagina da libro, 10,3 x 11,1 cm (cat. 171)

Alle pagine seguenti Kesa con motivi di aceri, crisantemi, pini e ventagli, con onde e cascata Giappone, metĂ del XIX secolo Tessuto di seta blu ceruleo, dipinto e ricamato a punto steso con filati metallici e seta floscia policroma, 101,5 x 163 cm (cat. 172)

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Abito Cina, XIX secolo Seta blu e velluto di seta bordeaux, 156,5 x 120 cm (cat. 180)

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Yashima Gakutei Giappone, 1786-1868 Giovane donna che cavalca un drago e il sole dietro a un pino Xilografia su carta, nishiki-e con karazuri, oro, argento e rame, 20,5 x 18,6 cm (cat. 181) Keisai Eisen Giappone, 1790-1848 Vaso con bonsai, frullino e cucchiaio per la cerimonia del tè Xilografia su carta, nishiki-e con karazuri, 20,1 x 18 cm (cat. 182) Kikugawa Eizan Giappone, 1787-1867 Kamuro seduta su un tappeto a disporre dei rami di pruno Xilografia su carta, nishiki-e con oro, argento e urushi, 19,9 x 18,4 cm (cat. 183) Ryu¯ryu¯kyo Shinsai Giappone, 1799-1823 Bruciaprofumi e rametti di pruno Xilografia su carta, nishiki-e con oro e argento, 20,7 x 17,9 cm (cat. 184)

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Le Chant du rossignol

Zelda De Lillo

Balletto in un atto Musica di Igor Stravinskij Coreografia di Léonide Massine Scene e costumi di Henri Matisse Prima assoluta: 2 febbraio1920 Parigi, Opéra Garnier Nell’estate 1919 Henri Matisse viene invitato da Sergej Diaghilev e Igor Stravinskij a ideare scene e costumi per Le Chant du rossignol1, una delle nuove produzioni della dodicesima stagione dei Balletti russi. Basato sulla favola di Hans Christian Andersen, L’usignolo dell’imperatore, il balletto racconta la storia di un imperatore della Cina che preferisce al canto soave di un usignolo vero il freddo gorgheggio di un

uccello meccanico. Ma, ad allontanare la Morte, accanto al letto dell’imperatore gravemente ammalato sarà l’usignolo vivo che con la sua melodia rianimerà il sovrano, nella gioiosa sorpresa di tutta la corte. La prospettiva di collaborare alla creazione di uno spettacolo così articolato fu accolta da Matisse con un misto di entusiasmo e riluttanza. Conosceva da tempo le sperimentazioni teatrali della compagnia fondata da Diaghilev, sin dalle prime rappresentazioni a Parigi nel 1909, e gli erano ben note le scelte artistiche originali che avevano coinvolto negli anni personalità al di fuori del mondo del teatro, molte delle quali scelte tra i giovani nomi dell’avanguardia (Bakst, Benois, Picasso, Derain, Gonˇcarova).

A fronte 1. Henri Matisse, Léonide Massine e l’Usignolo meccanico, 1920 Foto di Joseph Enrietti Parigi, Bibliothèque nationale de France - Bibliothèque-Musée de l’Opéra 2. Le Chant du rossignol, 1925, scena finale Foto di Henri Manuel Parigi, Bibliothèque nationale de France - Bibliothèque-Musée de l’Opéra

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Obi (particolare) Giappone, 1840-1880 Seta a motivi policromi, 450 x 33,5 cm (cat. 185)

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Tessuto di seta (particolare) Cina, 1880-1940 Seta con decorazione a saia, 278 x 79,5 cm (cat. 186)


Abito Mang Pao Cina, XIX secolo Seta blu e fili d’argento, 141 x 219 cm (cat. 187)


3. Tamara Karsavina prova davanti al gruppo di Ballerine, portatrici di lanterne, 1920 Foto di Joseph Enrietti Parigi, Bibliothèque nationale de France - Bibliothèque-Musée de l’Opéra

1 Le Chant du rossignol ha una genesi complessa. All’origine c’è Le Rossignol, la prima opera composta da Stravinskij, cominciata nel 1908 e andata in scena nel 1914 all’Opéra de Paris con la direzione di Pierre Monteux e le scenografie di Alexandre Benois. Stravinskij la riadatta poi nel 1917 in un poema sinfonico, Le Chant du rossignol, che sarà quindi la partitura orchestrale del balletto, messo in scena per la prima volta nel 1920 con la coreografia di Léonide Massine. Verrà poi ripreso nel 1925 con la coreografia di George Balanchine (Parigi, Théâtre La Gaïté lyrique, 17 giugno 1925). Il ruolo dell’Usignolo, che era stato di Tamara Karsavina, verrà ora interpretato da Alicia Markova. 2 Cresciuto tra Cateau-Cambrésis e Bohainen-Vermandois, piccoli centri del nord della Francia legati da una grande tradizione tessile, Matisse aveva da sempre manifestato un grande interesse per la ricchezza creativa delle decorazioni tessili, la preziosità dei disegni e le trame raffinate che lo portarono per tutta la vita a collezionare innumerevoli stoffe, in particolar modo durante i suoi viaggi. 3 La compagnia aveva stabilito il suo quartier generale a Londra per le due stagioni del 1918 e del 1919 all’Alhambra Theatre, dalle straordinarie decorazioni moresche, e all’Empire Theatre. 4 “Une merveille, d’art chinois, persan, et indien”, dalla lettera del 17 ottobre 1919 indirizzata alla moglie, in Rémi Labrusse, Matisse’s second visit to London and his collaboration with the “Ballets Russes”, in “The Burlington Magazine”, CXXXIX, 1134, settembre 1997, p. 588. 5 In Chatting with Henri Matisse.The Lost 1941 Interview, Henri Matisse with Pierre Courthion, a cura di Serge Guilbaut, Tate Publishing in associazione con The Getty Research Institute, London 2013, p. 302 (mia traduzione). (Il volume in traduzione italiana è di prossima pubblicazione – inizio 2015 – presso Skira, Milano.)

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L’occasione rappresentava quindi, per Matisse, l’opportunità di condividere con altri temperamenti visionari la sua ricerca estetica e l’esperienza di una fusione totale delle arti: danza, musica, teatro e pittura come elementi di un’irripetibile visione orchestrata intorno a un unico principio. Una composizione armonica di colori, forme e linee in cui trasporre, amplificandoli, i fondamenti della sua ricerca artistica: il decorativismo, l’intenso fascino dell’Oriente e la passione per le stoffe2, così presenti nella sua opera pittorica. La realizzazione fu laboriosa e complessa, accompagnata da soggiorni di Matisse a Londra3, per lavorare a stretto contatto con Diaghilev, con il coreografo Massine e il resto della compagnia teatrale. Le giornate londinesi offrirono a Matisse anche la possibilità di riandare nei grandi musei per arricchire di nuove suggestioni il suo progetto. In particolar modo visitò più volte le collezioni d’arte orientale del Victoria and Albert Museum4 e si recò al British Museum. L’evoluzione del progetto è testimoniata dagli appunti e dai bozzetti per fondali, costumi e attrezzeria; lo spettacolo sarà poi documentato dalle riprese fotografiche della messa in scena del balletto. L’idea generale era immaginata come un insieme di armonica corrispondenza. I colori per

le scene si limitavano a poche e decise cromie, dal turchese al nero e al bianco, mentre per i costumi Matisse azzardò sfavillanti accordi di bianco e nero, rosa e oro, arancio e rosso in uno scintillio di segni, come ampie pennellate. “Ho accettato dicendomi: toglierò un po’ di tempo al mio lavoro, ai miei dipinti”, racconterà Matisse nel 1941 a Pierre Courthion, “ma sarà solo un balletto. Allora ho capito cosa significava una scenografia, cioè che poteva essere pensata come un dipinto con dei colori in movimento. Questi colori sono i costumi stessi. I colori si muovono e devono allo stesso tempo segnare la scenografia con la traccia di un’unica sensazione. Bisogna che una grande sensazione domini tutti i colori, che possono così danzare insieme senza demolire l’armonia del tutto. In questo sono stato molto aiutato dal coreografo Massine che ha ben compreso la mia idea”5. La decorazione fu orchestrata nel perfetto equilibrio tra due soluzioni formali distinte: astratta semplicità delle linee (struttura architettonica della scena, vesti dei dolenti, sipari, motivi floreali diffusi) e ricchezza esornativa orientaleggiante (costumi dell’imperatore, guerrieri, accessori e i molti elementi iconografici). Tuttavia, la prima del balletto, presentata all’Opéra de Paris il 2 febbraio 1920, si risolse


4. Gruppo di cortigiani, scena di prova, 1920 Foto di Joseph Enrietti Parigi, Bibliothèque nationale de France - Bibliothèque-Musée de l’Opéra

6 Fu proprio durante l’esecuzione del mantello, fulcro della scenografia nel gran finale in cui l’imperatore veniva riportato in vita dal canto dell’usignolo, che Matisse improvvisò una sorta di collage di forme e tessuti per il disegno del drago dorato del manto. Nell’impossibilità di realizzare un vero ricamo a Londra per via dei tempi stretti, Matisse, davanti agli astanti sbalorditi nell’atelier parigino del grande sarto Paul Poiret, srotolò il prezioso velluto, si tolse le scarpe, salì sul tavolo e iniziò a ritagliare l’enorme drago ultimando l’impresa in due soli giorni di intenso lavoro. 7 Henri Matisse, Notes d’un peintre sur son dessin, in “Le Point”, 21, luglio 1939, ripubblicato in Henri Matisse, Scritti e pensieri sull’arte, raccolti e annotati da Dominique Fourcade, trad. it. Maria Mimita Lamberti, Einaudi, Torino 1979, p. 125.

in un fiasco, davanti a un pubblico ancora non abbastanza pronto ad accogliere innovative sperimentazioni, come, peraltro, spesso accadeva per le originali e futuristiche rappresentazioni del teatro d’avanguardia. Malgrado ciò, l’esperienza di Le Chant du rossignol ha rappresentato per Matisse un momento di ricca creatività, in cui, ad esempio, si assiste al battesimo di un metodo di lavoro che caratterizzerà le grandi opere decorative della tarda maturità: il collage con le carte ritagliate. Il mantello dell’imperatore, così come i costumi dei dolenti, rappresentano, infatti, quelli che potrebbero essere visti come primi esperimenti per le gouaches découpées6. Eppure la grande raffinatezza della messa in scena, orchestrata su delicati accordi cromatici e linearità estrema della partitura decorativa, furono tra gli elementi più discussi dalla critica del tempo. La personale interpretazione dell’arte orientale da parte di Matisse risultava troppo raffinata e astratta, rispetto all’eccesso fastoso delle tradizionali interpretazioni di un

Oriente meraviglioso. Un’analisi più approfondita dell’opera di Matisse per Le Chant du rossignol rivela invece un’intensa e lucida comprensione della cultura orientale, non solo nel risultato d’insieme, ma anche in ogni elemento costitutivo, come ad esempio nei grafismi astratti di arabeschi dipinti sulle stoffe dai colori brillanti. Il processo creativo con cui Matisse raggiunge la semplificazione formale dei motivi tracciati a pennello rimanda al paziente lavoro degli artisti della tradizione calligrafica asiatica, nel lungo cammino verso la perfezione espressiva del simbolo: “[…] è per liberare la grazia, la naturalezza, che studio tanto prima di fare un disegno a penna. Non mi faccio mai violenza; al contrario: io sono il ballerino o l’equilibrista che comincia la sua giornata con molte ore di vari esercizi di flessione, in modo che tutte le parti del corpo gli obbediscano quando, davanti al suo pubblico, vuole tradurre le sue emozioni in una successione di movimenti di danza, lenti o vivaci, o in una piroetta elegante”7.

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Henri Matisse Bozzetto di costumi per Le Chant du rossignol: Guerriero e Ministro 1920 China su carta, 14 x 20,3 cm (cat. 190) Henri Matisse Bozzetto per Le Chant du rossignol: scrigno per l’Usignolo meccanico 1920 China su carta, 26 x 21,3 cm (cat. 191)

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Henri Matisse Bozzetto per Le Chant du rossignol: lanterne, prima idea per il costume dell’Usignolo, trono, costume della Morte, costume dei Dolenti 1920 China su carta, 25,4 x 25,3 cm (cat. 192)

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