NarrativaSkira
Il libro
Mia Martini racconta, in prima persona, la sua travagliata esistenza poche ore prima di morire. Da quel letto di uno squallido appartamento di un piccolo paese della provincia di Varese, dove cercava di fuggire dalle dicerie infamanti che la perseguitavano e da cui non si è mai più ripresa. Aldo Nove, con un linguaggio secco e poetico, ripercorre la vita di una grande e sempre più popolare artista, amata in tutto il mondo eppure odiata da uno star system che ne ha fatto un capro espiatorio. Mi chiamo… è, volta in narrativa, la voce di una cantante che ha voluto abbracciare il mondo intero con la sua arte e che il destino ha reso per sempre infelice, per sempre famosa, per sempre grande.
L’autore
Aldo Nove ha pubblicato nel 1996 con Castelvecchi il suo primo libro, Woobinda. Nella collana Einaudi “Stile libero” sono stati pubblicati Puerto Plata Market (1997), Superwoobinda (1998), Amore mio infinito (2000), La più grande balena morta della Lombardia (2004), Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese (2006) e La vita oscena (2011). Con Laterza ha pubblicato Milano non è Milano (2006). E con Skira Si parla troppo di silenzio. Un incontro immaginario tra Edward Hopper e Raymond Carver (2009).
Aldo Nove
Mi chiamo...
Adesso sono sola. Completamente sola. Non ho più un nome. L’ho avuto. Non ora. Non più. Sono stata... Non più. Dicono che mi sono uccisa. Non è vero. Mi hanno uccisa lentamente. Loro. Tutti voi. Avevate paura delle mie parole. Avevate paura del mio sguardo. Adesso sono sola. Sono anni che sono sola. 7
Mi chiamano “l’innominabile”. Hanno detto che il mio nome fa esplodere le lampadine. Che una mia telefonata è sempre un cattivo presagio. Questo, è stato detto. È stato ripetuto. Di bocca in bocca. Per anni. Come uno stillicidio nella mia mente. Avete detto che la mia presenza uccide. Avete detto che i luoghi frequentati da me sono maledetti. Avete riso del mio spegnermi lentamente. Avete detto troppo cose. Troppe, su di me. Avete detto che sono una strega. Mi avete messa sul rogo. Mi avete dato fuoco. Ho bruciato nei vostri pensieri. 9
Nelle mie paure. Ho avuto paura, paura di pensare. Per non farmi del male. Per non farvi del male. Come se ogni mio pensiero potesse farvi male. Non pensare, non pensare, non pensare… Mi avete fatto credere questo. Mi chiamo… No, non ho più un nome. Il mio nome è stato messo da parte. Accantonato. Il mio nome è la vostra favola, lo scherzo che mi avete regalato. Sono stata il vostro sfogo e la vostra risata. Avete avuto la mia vita nelle mani e ci avete giocato. Con mostruosa leggerezza. Con inaudito cinismo, mi avete rifiutata. Mi chiamo… Sono una bambina. Una bambina che piange nella notte. Nella notte che non finisce.
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Mi chiamo… Esangue, il mio nome. Esausta, io. Sono arrivata qui da infinite vite. Le ho attraversate tutte perdendo e ritrovando il mio nome, le emozioni che lo facevano vibrare fino a morire. Quando la luce si spegneva e dimenticavo chi ero. Allora c’era solo la voce. La mia voce. Sul palco. Era la più bella di tutte. La luce. La luce della mia voce. La mia voce luminosa. Bisogna pagare, però. Pagare il prezzo del proprio talento. Pagarlo tutto, fino in fondo. Perché per molti la bravura degli altri è quasi un’offesa personale. La bravura li stana, quelli, li trova nell’angolo in cui si nascondono per non vedere le loro debolezze, le loro mancanze, le velleità che ti illudono prima e poi ti abbandonano. Allora, se il talento non ce l’hai, diventi un animale feroce, pronto a uccidere chi ce l’ha fatta. 11
C’è chi farebbe carte false per annientare ogni traccia della propria meschinità. Immagino quanto è doloroso sapere che non ce la farai mai. L’invidia. L’invidia è questo. Sapere che c’è chi è molto meglio di te. Allora non cerchi di essere come lui, meglio di lui. Perché vorrebbe dire mettersi in gioco. Vorrebbe dire provarci davvero. Allora ti accontenti di annientare lui, quello più bravo di te, cerchi di cancellare il suo esempio dal tuo resoconto esistenziale, ti racconti che no, le cose non stanno come stanno, ti dici che il più bravo di tutti sei tu ed è possibile dimostrarlo. Lo puoi fare. Impegnandoti a eliminare chi è più bravo di te. Sono nata a Bagnara Calabra. Nel Sud più luminoso. Ti devi mettere gli occhiali da sole per guardarlo, quel Sud. È bello, troppo bello per non cantarlo e se lo guardi ti accorgi di come respiri e senti che quel respiro è davvero un canto, e cantano con te le rocce quando l’acqua le tocca, canta il sole quando illumina le case, cantono le lenzuola stese al sole che si muovono come madri nei cortili indaffarate. Quando il sole inonda le case come un mare. Quando le case proteggono la gente che si rinchiude per salvarsi dal sogno troppo grande che fuori brucia di aria e 12
sale. Ho sempre amato nuotare il pomeriggio, nascondermi nell’acqua per non bruciarmi di sole. Ci sono istanti che nel pomeriggio esplodono caldissimi e durano un’eternità. Ti dimentichi che il tempo scorre, qualcosa di più grande e inaspettato ti cattura e per magia può incantarti una vita intera. È una magia che se succede vorresti si ripetesse per sempre. È la fuggevolezza dell’infinito. Una canzone se ci metti tutta l’anima può farti ricordare quell’infinito così piccolo e fragile: una canzone lo mette in scena davanti a tutti, l’infinito. La musica è questa magia che si ripete continuamente. È la stessa luce che riesplode dentro. Nella voce, nella gola, nel sangue. Allora se la canti ti senti una maga. Trasformi i suoni in luce, le parole diventano sogni che tu gridi e se gridi molto forte, se sai farlo nel modo giusto, la gente crede a quel sogno, per lo spazio di una canzone ti entra dentro e ti spinge tra i flutti delle emozioni attraverso i minuti, è un viaggio che accade ovunque e non ha senso chiedersi se è vero o no: è musica che si sente ovunque. Ho sempre amato i juke-box. Le scatole magiche che dipingono il silenzio e lo trasformano in danza. La danza popolare di ogni giorno. Un giorno spariranno, i juke-box. 13
Come tutto. Come me. Avevo otto anni quando scappavo al bar dietro casa mia e mettevo cinquanta lire nel juke-box. Quelle cinquanta lire ti permettevano di guardare i titoli delle canzoni sapendo che una di loro sarebbe stata tua, e che tutto il bar l’avrebbe sentita, e vissuta, e danzata con te. Allora se la canzone parlava di un posto lontano il bar si trasformava in quel posto lontano e ci trasportava tutti lì, per tre minuti eravamo lì. Io chiudevo gli occhi e ripetevo le parole che sentivo, sapevo che ognuna di loro era piccola, era cucciola, andava coccolata, io la prendevo e la tenevo forte dentro di me, la imparavo e la facevo mia e così cercavo di darle vita, quando ero da sola in casa la ripetevo, prima piano e poi sempre più forte… Una parola è come un figlio. Te ne devi prendere cura, dirla per bene. Così allevavo le parole dentro di me. Mi piaceva l’arte. Scrivevo poesie. Mio padre era professore, mi leggeva i poeti famosi. Ascoltavo le parole, come si muovevano le lettere e le 14
consonanti, una dietro l’altra, facendo le capriole nel silenzio che riempivano di movimenti, coloravano il silenzio che c’era dentro di me, andando a capo come il respiro. La poesia mi faceva capire che ogni volta che vai a capo ricominci in modo diverso, e quel ricominciare è una danza infinita. E imprevedibile. In prima elementare, ho scritto una poesia sulle stelle. La ricordo ancora a memoria. Diceva che il cielo era fatto di velluto e che su questo velluto c’erano dei diamanti e che i diamanti erano scintillanti e si chiamavano stelle. Lo scrivevo come mi avevano insegnato, undici sillabe di seguito e poi la rima. E il fatto che le stelle fossero scintillanti, che danzassero attraverso gli istanti, che fossero tanti, tantissimi diamanti, che le parole si muovessero nella mia poesia come nelle canzoni, trasformava quello che avevo scritto in una cosa speciale, e quella cosa si chiamava musica ed era un piccolo miracolo che riempiva le cose d’amore. Poi continuavo raccontando che il tempo delle stelle finisce, e con lui la notte, e che dopo arriva l’alba e l’alba avvolge le cose e avvolge i fiori, specialmente i fiori, che sono piccoli e delicati e bellissimi, in un tremulo velo d’argento… e mi piaceva, la parola “tremulo”, aveva odore di libri e di parole antiche, parole che possono usarsi nelle grandi occasioni come le poesie, e mentre l’alba avvolgeva i fiori, proteggendoli, il sole come una leg15
genda sicura, grandiosa, usciva dall’ombra e iniziava un altro giorno, da capo immenso. Era una poesia piccola che si chiamava proprio “Le stelle”. Con la poesia imparavo che le parole sono piene di cose, e se le parole sono giuste le cose solo pensate vibrano dentro le parole fino a esistere, se chiudi gli occhi e ascolti forte una canzone le parole diventano vere, le cose che contengono prendono vita e ci sono, anche se sono lontane vengono lì e allora inizi a viaggiare, non c’è più nulla di noioso nel mondo perché tutto il mondo canta se sei capace di ascoltarlo: le canzoni te lo fanno ascoltare, e se canti con loro ogni cosa è un coro che canta di ogni cosa. Il mio sogno era quello di diventare una cantante. Sapevo che i cantanti sanno fare le magie con le parole e la voce e che quelle magie possono essere regalate a tutti se sei generosa, se sei buona, se impari a usare bene la tua voce.
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Devo telefonare. Sto male. Sto troppo male. Adesso. No. Non adesso. Ora passa. Ora finisce. Di nuovo. Ancora una volta. Il palco è la mia vita. La mia salvezza. Ancora una volta. Devo rimettere la maschera. Quella di una donna sicura di sÊ. Che ha tenuto duro. Dimenticare. Dimentica, mi hanno detto. Mentre gli altri mi dimenticavano. Troppo dolore. 17
Troppa fatica. Quante volte ho dovuta far finta che sì, che andava bene così. Quante volte i giornalisti mi hanno chiesto perché. Come se avessi potuto rispondere. A quella domanda. Perché. Perché esiste la cattiveria? Perché si può buttare via una persona? Perché si può odiarla anche se non ti ha fatto niente? Tante volte ho avuto bisogno di un abbraccio. Tante volte quell’abbraccio mi è mancato. Amavo troppo per accettare di non essere amata. Non riesco a respirare. Il dolore. Il dolore che mi invade. Devo telefonare. Chiamare qualcuno. Non riesco più a respirare. Devo prendere il telefono. Calmarmi. Adesso. Stai calma. Stai calma. Adesso passa. È solo lo stesso dolore che scorre, come i grani di un rosario. 18