"L'arte in guerra" di Sergio Romano

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“Queste brevi cronache di ciò che è accaduto in poco più di duecento anni in Europa e negli Stati Uniti aiuteranno forse a capire meglio avvenimenti più recenti come l’incendio della biblioteca di Sarajevo, il pericolo che incombe sui monasteri ortodossi del Kosovo, la distruzione talebana dei giganteschi Buddha nella valle di Bamiyan, il saccheggio del museo di Baghdad e di alcuni siti archeologici della Mesopotamia dopo la guerra del 2003, quello del Museo nazionale del Cairo e di altri musei provinciali egiziani dopo l’inizio delle rivolte arabe, gli irreparabili danni subiti dalla Grande Moschea di Aleppo e dal vecchio quartiere cristiano della città. In queste pagine vi sono i grandi musei, le grandi collezioni, i grandi saccheggi e, per l’arte dell’odiato nemico, i grandi roghi. Tutti sono un omaggio alla potenza dell’arte.”

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Romano ˜ L’arte in guerra

Sergio Romano, storico, scrittore, giornalista e diplomatico italiano, è editorialista del “Corriere della Sera”. Sua la rubrica “Lettere al Corriere”. Il suo ultimo libro è Morire di democrazia, Longanesi, 2012

— sms— Sergio Romano

L’arte in guerra

Questo breve libro descrive alcuni momenti e casi storici in cui l’arte ha dovuto “fare la guerra” ed è divenuta terreno di conquista: la Rivoluzione francese, l’era napoleonica, il Risorgimento italiano, i saccheggi coloniali, la politica artistica di Hitler, la Guerra civile spagnola, i vizi e le virtù del grande collezionismo, la Prima e la Seconda guerra mondiale, la politica delle restituzioni dopo la fine di un conflitto. Può forse servire a comprendere perché l’arte possa essere amata, concupita e spregiudicatamente conquistata, ma anche odiata, perseguitata e distrutta. Non è soltanto il più desiderabile ornamento della nostra vita, ma anche un attributo del potere; ed è quindi inevitabilmente destinata a diventare preda, bottino, simbolo di legittimità da trasmettere e da ereditare. Ma anche destinata, quando si identifica con il nemico, a fare la sua stessa fine.


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Sergio Romano

L’arte in guerra


“Oh Arte, quanti delitti si commettono in tuo nome!” parafrasando un detto di Madame Roland

Nel 1807 Dominique-Vivant Denon, direttore del Musée Napoléon e di altre istituzioni culturali francesi, lasciò Parigi per un viaggio in Germania. Si riprometteva di visitare le maggiori città, ma prima di raggiungere Berlino volle passare da Weimar per un saluto a Goethe che aveva conosciuto a Venezia negli anni novanta del Settecento. Il grande scrittore tedesco lo accolse cordialmente e gli disse: “Siccome voi siete il corifeo delle arti della Pace dopo la Guerra, la vostra apparizione inattesa mi ha riempito di calma”. Credo che nelle parole di Goethe vi fosse una buona dose d’ironia. Negli anni precedenti Denon aveva raccolto nel palazzo del Louvre alcune fra le maggiori opere dell’arte occidentale, dall’Apollo del Belvedere al gruppo del Laocoonte, dalla Trasfigurazione di Raffaello alle Nozze di Ca9


na del Veronese. Ma Goethe sapeva che soltanto la guerra aveva permesso a Denon di costruire il suo straordinario museo. Di lì a poco il direttore del Louvre sarebbe andato a Berlino per scegliere fra le opere delle collezioni prussiane quelle che sarebbero state trasportate a Parigi. Avrebbe avuto tanto potere se nei mesi precedenti Napoleone non avesse occupato la Prussia, sconfitto le forze della Quarta coalizione, costretto i russi a ritirarsi dopo la battaglia di Eylau? Era “corifeo della Pace” l’uomo che qualche mese dopo avrebbe mostrato ai suoi ospiti in una sala del Louvre le opere strappate ai tedeschi con la forza delle armi, fra cui uno splendido Rubens e una preziosa “joueuse d’osselets” d’epoca greco-romana? Un libro del 1946 Il rapporto fra la guerra e l’arte, a un primo sguardo, è quello del carnefice con la vittima. Nulla sembra dimostrarlo quanto un libro dedicato ai Tesori perduti dell’Europa, apparso a New York nel 1946, poco più di un anno dopo la fine della Seconda guerra mondiale, a cura di Henry La Farge. L’autore dell’introduzione era il tenente colonnello Ernest T. DeWald, molto noto allora per il suo ruolo nella protezione e nel recupero del patrimonio artistico in Italia e in Austria come direttore della sottocommissione “Monumenti, Belle Arti e Archivi”, costituita dal comando americano 10


dopo lo sbarco in Sicilia. Sapeva di quanti danni i bombardieri americani fossero responsabili e cercò di riparare organizzando una sorta di Croce Rossa culturale. Costituì squadre per le riparazioni più urgenti, evitò i saccheggi, restituì gli oggetti trafugati di cui entrava in possesso e pubblicò una piccola guida di Roma con cui tentò d’instillare nei soldati americani un sentimento di reverenza per la città di cui erano diventati padroni. In Austria, dove si trasferì dopo la fine della guerra, scoprì i depositi in cui erano nascoste le opere destinate al Museo Hitler di Linz (la città in cui il Führer aveva fatto i suoi primi studi), i quadri che la Divisione Göring aveva confiscato a Montecassino per la collezione del suo maresciallo, due storiche biblioteche “sfollate” da Roma. Era particolarmente orgoglioso di avere riportato a Vienna dalla Germania lo scettro, la corona e la spada che venivano tradizionalmente utilizzati per l’incoronazione del Sacro Romano Imperatore. Quando lo annunciò nella sala Brahms della capitale austriaca durante la cerimonia inaugurale della Società d’amicizia Austro-americana, scoppiò un applauso scrosciante. Anche il curatore del libro, Henry La Farge, aveva lavorato con DeWald in Europa. Quando un editore si disse disposto a pubblicare una raccolta fotografica di tutti i maggiori monumenti distrutti durante la guerra (chiese, cappelle, antiche case, palazzi, centri storici, 11


complessi architettonici), La Farge dovette constatare che le bombe non avevano colpito soltanto le opere. Erano spariti anche gli archivi fotografici. Il direttore del Museo di Amburgo, a cui si era rivolto per la documentazione tedesca, gli scrisse che la sua personale collezione di riproduzioni era scomparsa a Berlino, che i negativi di un eccellente fotografo di Lubecca erano andati in fumo durante un bombardamento, che l’intero archivio fotografico di Albert Renger-Patzsch (il grande fotografo di Amburgo) era finito nelle macerie di Essen, la città della Renania-Vestfalia in cui era stato trasferito. “Vedo”, scrisse sconsolato, “che lei non si rende conto delle nostre attuali condizioni.” Non meno difficile fu la raccolta del materiale russo e polacco. Il risultato fu un libro necessariamente ineguale in cui non tutti i Paesi sono equamente rappresentati. Ma le immagini sono 427 e straordinariamente eloquenti. Nessun conflitto aveva provocato danni così ingenti ed estesi. In alcuni casi il curatore del libro volle meglio documentare gli orrori della guerra pubblicando accanto alla fotografia del monumento distrutto quella del suo aspetto originario. Con encomiabile imparzialità lo fece, tra l’altro per la basilica romana di San Lorenzo fuori le mura, sventrata il 19 luglio 1943 da una bomba americana che aveva fatto crollare quattro delle sei colonne del suo portico. Molto di ciò che era stato distrutto venne restaurato o ricostruito. Milano ricostruì il Teatro alla Scala, 12


l’Ospedale Maggiore, la chiesa di Santa Maria delle Grazie. I fiorentini, dopo lunghe discussioni, ricostruirono i ponti sull’Arno e in particolare quello di Santa Trinita. Grazie alle vedute di Bernardo Bellotto i polacchi rifecero la piazza del Vecchio Mercato a Varsavia. Grazie ai disegni di Bartolomeo Rastrelli e agli artigiani polacchi, più bravi dei loro colleghi sovietici, i russi rifecero il palazzo d’Estate che Caterina, figlia di Pietro il Grande, aveva fatto costruire nel villaggio imperiale di Carskoe Selo (ora Puškino). Ma le rovine della cattedrale di Coventry sono tuttora visibili accanto a una nuova chiesa progettata da Basil Spence. Ero alla riapertura nel 1962 e ricordo il grande arazzo del Cristo disegnato da Graham Sutherland per l’altar maggiore, le note del War Requiem composto da Benjamin Britten, le parole “Dio, perdona” che il prevosto Howard aveva fatto iscrivere sul muro rimasto della cattedrale distrutta. L’arte come premio della vittoria Mentre le truppe combattenti distruggono per vincere, i vincitori, dopo la fine della guerra, approfittano generalmente della vittoria per impadronirsi di ciò che non è andato irrimediabilmente perduto. L’arte è sempre stata il simbolo del trionfo, la preda più ambita. Dopo la conquista di Gerusalemme e la distruzione del tempio, Tito portò a Roma il più venerato oggetto liturgico del 13


culto ebraico – un candelabro a sette braccia, la Menorah –, lo mostrò ai Romani durante il corteo del trionfo, lo volle riprodotto nel bassorilievo dell’arco intitolato al suo nome nei pressi del Colosseo. Il doge Enrico Dandolo approfittò della quarta crociata per portare a Venezia, nel 1204, la grande quadriga che decorava, probabilmente, l’ippodromo di Costantinopoli. Lord Elgin approfittò della potenza britannica nel Mediterraneo per acquistare, a poco prezzo, i marmi del Partenone. Mussolini cercò di imitare i grandi condottieri portando a Roma, dopo la guerra d’Etiopia, uno degli obelischi della città santa di Axum. Quanti generali hanno resistito alla tentazione di arricchire, dopo una battaglia vinta, le loro collezioni private? In molti casi non fu neppure necessario chiedere, pretendere o agire di soppiatto. Nella Apsley House, la casa londinese di Wellington, il vincitore di Waterloo, vi erano, dopo le guerre napoleoniche, ottanta quadri spagnoli. Appartenevano alle collezioni che re Giuseppe, fratello di Napoleone, aveva cercato di portare con sé nel giugno 1813, dopo la battaglia di Vitoria, quando dovette abbandonare la Spagna. Il convoglio dei bagagli di Giuseppe fu intercettato, i dipinti vennero recuperati e Ferdinando VII ne fece dono all’uomo che gli aveva restituito il trono e che divenne così proprietario, tra l’altro, di quattro Velázquez, un Goya, tre Murillo, tre Ribera. La casa museo di Wellington è per molti aspetti una storia artistica del14


le sue campagne militari: due candelabri di porfido siberiano e malachite regalati dallo zar Nicola I di Russia, due urne di porfido svedese regalate da Carlo XIV di Svezia, un servizio da tavola in porcellana di Berlino regalato de Federico Guglielmo III di Prussia, un altro servizio “retour d’Égypte” in porcellana di Sèvres regalato da Luigi XVIII di Francia, un servizio d’argento composto da più di mille pezzi e regalato dal Consiglio portoghese di Reggenza, un servizio in porcellana di Meissen regalato da Federico Augusto I di Sassonia e, infine, il grande Napoleone di Canova come “Marte pacificatore”, un trofeo di guerra che Wellington aveva regalato a se stesso dopo la conquista di Parigi. Anche qualche generale americano, probabilmente, ha ceduto alla tentazione del souvenir. Nello Stato americano dell’Ohio, poco più di trent’anni fa, fu ritrovata l’argenteria del Führer: circa 300 pezzi ornati della croce uncinata. L’arte al servizio dell’ideologia La storia dell’arte, quindi, è anche storia di trionfi militari, saccheggi, doni solo apparentemente generosi e acquisti di favore. Vi è un momento, tuttavia, in cui il saccheggio assume una connotazione ideologica e la motivazione politico-culturale sembra prevalere sulla motivazione estetica. In un libro pieno di notizie e analisi interessanti (Il museo e l’opera d’arte. La riflessione di Quatremère de Quincy), Matilde Marzotto Cao15


torta ricorda che la componente giacobina della Rivoluzione francese identificava le grandi opere del passato con l’Ancien Régime e si apprestava a trattarle come il frutto decadente di una società reazionaria: “La violenza iconoclasta si scatenò nell’estate del 1790 quando un deputato dell’Assemblea nazionale, Alexandre de Lameth, non esitò a dichiarare l’incompatibilità della rigenerazione delle arti con la conservazione dei simboli dell’Antico regime. Il dibattito era sorto a proposito degli schiavi incatenati ai piedi del monumento a Luigi XIV, opera di Martin Desjardins, che, secondo Lameth, sarebbero risultati offensivi agli occhi dei delegati delle province del regno, riuniti a Parigi in occasione dell’anniversario del 14 luglio. Il giorno dopo, l’Assemblea nazionale decretò la rimozione delle quattro figure incatenate ai piedi della statua, segno che il potere rivoluzionario si arrogava ormai il diritto di disporre delle opere d’arte del passato, in nome di un’ideologia imperiosa e autoritaria della libertà e, allo stesso tempo, conferiva a quest’arte uno statuto politico e morale che la esponeva a dei rischi considerevoli”. Vi fu una fase rivoluzionaria, quindi, in cui il patrimonio artistico francese corse il pericolo di essere trattato alla stregua di un “nemico del popolo” e decapitato. Accadde, non solo metaforicamente, alle 28 statue dei re di Giudea e d’Israele collocate nella Galleria dei re, lungo la facciata occidentale di Notre-Dame. 16


Erano personaggi leggendari a cui la Chiesa medioevale attribuiva il merito di essere stati, per il tramite della Vergine, antenati di Cristo. Nel 1793 le statue vennero brutalmente rimosse dalla Galleria, decapitate e vendute a un piccolo imprenditore edile che le avrebbe usate come materiale da costruzione. Ma l’imprenditore, a quanto pare, esitò per timore di Dio e preferì seppellire le teste. Ventuno sono state ritrovate nel 1977 durante lavori stradali nella rue de la Chaussée-d’Antin e sono ora esposte nella grande sala del Museo di Cluny dedicato alla statuaria medioevale. A rimpiazzare quelle di Notre-Dame con copie ottocentesche aveva già provveduto Eugène Viollet-le-Duc, l’architetto responsabile di alcuni fra i più discussi restauri francesi della metà dell’Ottocento. La liberazione dell’arte L’iconoclastia rivoluzionaria, sanzionata da una decisione dell’Assemblea nazionale del 20 giugno 1790, durò più o meno due anni. Il ritorno alla ragione coincise con la caduta della monarchia quando la guerra all’arte scatenata dai sanculotti cominciò a preoccupare molti parlamentari. Matilde Marzotto Caotorta cita un discorso di Pierre Joseph Cambon, deputato di Montpellier, in cui l’oratore cercò pazientemente di dimostrare che le opere d’arte potevano essere rimosse dai luoghi in cui erano state collocate per la celebrazione del 17


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