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8-01-2014
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StorieSkira
Il libro
Rodolfo Siviero (1911-1983), spia ed esperto d’arte, ha contribuito alla salvezza e al recupero di molte opere rubate dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale. In un montaggio incrociato, Siviero contro Hitler presenta da un lato le ambizioni monumentali di esproprio dei nazisti (tra le funeree grandezze del Carinhall di Göring e il progettato Museo Hitler di Linz), dall’altro le avventure, in parte coperte dal segreto ufficiale, di questo 007 dell’Arte e il suo contributo alla salvaguardia del nostro patrimonio artistico. Il libro esce a ridosso del film The Monuments Men, scritto, diretto e interpretato da George Clooney e basato sull’omonimo romanzo di Robert M. Edsel (2009), che racconta la storia di un gruppo di storici dell’arte e curatori di musei riuniti per recuperare importanti opere d’arte rubate dai nazisti, prima che vengano distrutte.
L’autore
Luca Scarlini (1966), saggista, drammaturgo, storyteller in scena, si occupa del racconto delle arti, collabora con teatri, festival, musei e mostre, in Italia e all’estero. Tra i suoi libri recenti: Sacre sfilate (Guanda), Lustrini per il regno dei cieli (Bollati Boringhieri), Un paese in ginocchio (Guanda), La sindrome di Michael Jackson (Bompiani), Andy Warhol superstar (Johan & Levi).
Luca Scarlini
Siviero contro Hitler La battaglia per l’arte
Siviero contro Hitler
L’ombra è rimasta sulla tela. Cupa Non dice ai pensatori umani dove Fuggì quel lampo. Rodolfo Siviero, L’autoritratto, in La selva oscura, 1936 Vi sono epoche di decadenza, quando le forme cui la vita è per intima legge predestinata, si vanno disfacendo. Ernst Jünger, Sulle scogliere di marmo, 1939 Che cosa possiamo dire di fronte al giudizio del passato e del futuro, noi uomini dell’epoca del Fascismo? Non c’è stato tempo più terribile del nostro – diremo – ma non abbiamo permesso che nel genere umano si estinguesse l’umanità. Vasilij Grossman, La Madonna a Treblinka, 1955 “Che importano i quadri?”, mi chiedeva l’altro giorno un amico diplomatico. Mi provai a spiegarglielo, un po’ in termini di valuta pregiata e un po’ di alta cultura, ma senza risultato avvertibile. Quasi che non molto fosse poi cambiato dai giorni (ed erano i primi della guerra) che Mussolini apriva un suo noto discorso con una frase sciagurata: “meno statue, meno quadri e più bandiere strappate al nemico”. Doppio errore. Si dimenticava che, in fin dei conti, anche le bandiere sono pittura, magari astratta e simbolica, ma pur sempre pittura. Roberto Longhi, “Le fatiche d’Ercole e di Siviero”, in “L’Europeo”, 24 novembre 1957
Forse non bisognerebbe mai possedere cose tanto belle, al di sopra di ogni legittimo desiderio umano. Elsa de’ Giorgi, La collezione Contini Bonacossi. L’ambiguo rigore del vero, 1988 Firenze è il campo di un’immensa corrida dove io sono lo spettatore ufficiale. Rodolfo Siviero, 1948
Adolf Hitler
Adolf Hitler voleva disperatamente essere un artista, ma il suo desiderio si scontrò con una serie di scacchi. Soprattutto bruciò per lui il rifiuto della severa Accademia delle Belle Arti di Vienna, che gli sbarrò decisamente la strada. Il verdetto nel 1907 fu drastico: “Prova di disegno insufficiente: non ammesso”. Caso mai se ne andasse ad Architettura, se proprio lo prendevano. Scioccato, credette che la sua vita fosse finita. Negli anni seguenti, nel corso di una vita raminga, disegnò cartoline, dipinse acquerelli per i corniciai, si specializzò nella creazione di schienali figurati per i divani. Nel 1913, in fuga dal servizio militare austriaco, senza fissa dimora, si trasferì a Monaco, dove divenne esperto nella realizzazione di immagini instant all’uscita dell’Ufficio di Stato Civile, sempre con la matita pronta per immortalare i neosposini. In seguito la guerra, con tutta la sua violenza di distruzione, fu il soggetto dei suoi dipinti. Comunque non si tratta di una carriera “amatoriale”. Il nostro voleva davvero diventare un artista professionale. Sembra che al mondo ci siano oltre tremila sue opere, sperse per archivi, biblioteche (che spesso le tengono celate come imbarazzanti reliquie del passato), con al primo posto la Library of Congress di Washington, il tutto senza ovviamente scordare le collezioni private di neonazisti devoti. Quando gli alleati arrivarono a Berlino nel 1945 scatenarono una vera e propria caccia a questi manufatti, come se fossero preziosi souvenirs, prendendo anche quelli che stavano nel Berghof, dove il Führer nell’agosto 1939 aveva informato uno stupefatto Galeazzo Ciano dell’imminente invasione della Polonia. Ovviamente i nostalgici hanno sempre reputato queste opere testimonianze estetiche fonda-
mentali, e il loro valore venale è assai alto, nei rari casi in cui ne venga annunciata la vendita in qualche asta. I tentativi di Hitler di entrare nel mondo dell’arte sono illustrati analiticamente nel Mein Kampf, in cui Vienna, città che lo respinge e che poi detesterà come simbolo dell’odiato ebraismo, viene raffigurata come luogo tremendo. Lì elabora l’ABC della sua visione superomista del mondo, basata sul rifiuto e sul disprezzo altrui. Nella realtà dei fatti egli ebbe sempre il gusto per il Biedermeier, immortalato fino all’inizio del secolo scorso nelle tele di Rudolf von Alt, di cui traboccano i musei austriaci. Egli amava, quindi, le scene di genere, i paesaggi prevedibili, specialmente di quello specifico e assai stucchevole genere da Finis Austriae con frammenti di campagna a margine della città che si intravede sullo sfondo. Völkisch era il grido: tutto doveva essere popolare e “facile”. Di questa produzione asburgica stucchevole l’unico aspetto che il futuro dittatore decisamente detestava era quello sacro. Il nostro aveva poi una vera e propria ossessione per Arnold Böcklin, di cui da Führer fece prodigiosamente aumentare le quotazioni sul mercato. Come è noto, in una foto storica, al momento degli accordi Molotov-Ribbentrop, compare dietro di lui una replica de L’Isola dei morti. Per quel quadro, dal soggetto ambiguo e misterioso, egli aveva un vero e proprio culto. Stranamente, tuttavia, all’inizio del suo potere, il cancelliere, pur disponendo di ampie risorse economiche e amando ricevere doni dai sottoposti, dedicava limitata energia alle sue collezioni. Il suo principale consulente era l’amico Heinrich Hoffmann, fotografo che si era arricchito clamorosamente con una esclusiva sugli scatti del Führer. Fu peraltro lui a presentare Eva Braun al tiranno. Nel 1936 toccò proprio a lui annunciare sul quotidiano del partito, il “Völkischer Beobachter”, la pubblicazione di una raccolta di acquerelli del suo illustre amico. Sette opere tra bianco e nero e colore, di ben scarsa qualità estetica e chiaramente riprese da cartoline d’epoca. In un articolato saggio, egli dichiarava la centralità dell’arte come motore primo del pensiero del tiranno.
“Oggi noi sappiamo che non fu per caso che Adolf Hitler in altri tempi non contasse tra i numerosi allievi dell’Accademia di pittura di Vienna. Egli era destinato a un compito più alto che diventare un buon pittore o forse un buon architetto. Il dono per la pittura non è un aspetto della sua personalità dovuto semplicemente al caso, esso è un tratto fondamentale appartenente al nocciolo della sua essenza. Sussiste un legame profondo e indefettibile fra le opere artistiche del Führer e la sua grande Opera Politica. L’artisticità è anche alla radice del suo sviluppo come politico e uomo di Stato. La sua attività artistica non è semplicemente una casuale occupazione giovanile, un percorso marginale in cui poté defluire il genio politico di quest’uomo, essa è il postulato della sua idea creatrice nella sua totalità.”1 Per questa relazione illustre, Hoffmann, non avendo ovviamente nessuna preparazione, venne nominato direttore della Haus der Deutschen Kunst di Monaco. Il tempio neoclassico, che oggi reca sulla facciata, per giusto contrappasso della storia, un intervento dell’artista americano Mel Bochner dal titolo The Pleasures of Yiddish, è tra le poche architetture hitleriane ancora esistenti. Il creatore di questo enorme sacrario neoclassico, dotato di un lunghissimo colonnato, era Paul Troost, senz’altro la persona più influente nel mondo delle arti di quegli anni. L’architetto, che aveva iniziato le proprie attività sotto il segno della modernità, a fianco di Walter Gropius, aveva fatto piazza pulita del gusto decorativo Biedermeier che tanto piaceva al giovane Hitler. Lo testimoniano i disegni di architettura del futuro tiranno, che hanno molto a che vedere con i modelli eclettici dell’Opéra Garnier o con la celebre struttura dell’opera di Dresda creata da Gottfried Semper. Il dittatore dichiarò che Troost, spesso raffigurato con indosso un camice come fosse uno scienziato, gli “aveva aperto gli occhi”, lo aveva aiutato a comprendere quale stile, classico e solenne, dovesse promuovere il Reich millenario. La Casa delle Arti (chiamata sottovoce Palazzo Kitschi o anche la Stazione, per la somiglianza con un edificio ferroviario)
bandiva ogni riferimento al moderno. L’architettura era severa, squadrata, come quella del vicino sacrario dei caduti del Putsch di Monaco, sempre vigilata da una sinistra guardia d’onore. In mostra andavano lavori accademici, aridi, spesso brutti, tra scene campestri e di battaglia. Quelle oleografie comparivano obbligatoriamente in replica in tutto il Reich. In primo piano erano ovviamente presenti le riproduzioni del ritratto del Führer, distribuite in tutte le case, nelle molte varianti fornite dagli artisti del regime. Conrad Hommel lo raffigura in divisa, di tre quarti. Erich Erler preferisce la posa frontale, con dietro un enorme monumento e le nuove architetture del Reich. Heinrich Knirr gioca con una posa napoleonica, mentre il celebre “sguardo magnetico” del nostro diventa un più domestico broncio. E via, di iperbole in iperbole, fino a creazioni misticheggianti come Hitler e Dio di Taust o Hitler portabandiera di Lanzinger, in cui è raffigurato come un cavaliere antico, indossando una bianca armatura. In molte chiese protestanti allineate ai nuovi diktat quelle opere erano offerte alla venerazione del pubblico che inviava anche preghiere all’effigie del dittatore, come testimoniano vari documenti dell’epoca. Hitler amava molto i libri d’arte, fin dalla giovinezza. Le sue predilezioni artistiche, oltre a quelle citate, andavano al Rinascimento fiorentino e alla statuaria classica, che vedeva come prova di un arianesimo che si era diffuso dalla Germania nel Sud del mondo. Nella sua visione i teutoni, coloro di cui Himmler celebrava i tenebrosi riti, erano la parte sconfitta del nucleo originario della razza. Il Führer non si faceva scrupoli ad attaccare in modo violento il suo fedelissimo per quelle che definiva ridicole smanie tribali. Nelle sontuose stanze al piano di sopra del buen retiro montano del Berghof, insieme a un vasto repertorio esoterico, scorrevano poi prevedibilmente molti libri sulla produzione estetica germanica, di fronte a un busto di Schopenhauer. Per il Reich il Führer voleva tutto il meglio della germanicità, ma per le proprie dimore acquisiva soprattutto testimonianze del Biedermeier, op-
pure tableaux rinascimentali o statue classiche, come l’Apollo di Pompei, che amava tenere nei suoi salotti. Nella caccia all’oggetto d’affezione borghese ottocentesco, ebbe un ruolo fondamentale la micidiale Maria Almas Dietrich, compagna di Hoffmann. Da riparatrice di tappeti ed esperta di chincaglierie sentimentali, divenne la mercantessa personale del Führer, con un notevolissimo record di vendite. Duecentosessantasette lavori: quadri brutti, orrendi, spesso falsi. La sua capacità manageriale era comunque impeccabile: presentava un lotto a Berlino alla Cancelleria, poi volava a Monaco per accogliere Hitler alla stazione con un’altra selezione di discutibili arcadie e bibelots. Già nel 1933 sui giornali tedeschi era comparso un manifesto che diceva come la contemporaneità dovesse essere immediatamente mutata di segno e di senso. “È un sacro dovere mettere in prima linea i soldati che hanno già dimostrato il proprio valore nella battaglia della cultura. Nell’ambito delle arti visuali ciò significa che bisogna eliminare dai musei e dalle collezioni tedesche tutta la produzione artistica di natura cosmopolita o bolscevica. Bisognerà prima raccoglierla e mostrarla al pubblico per informarlo del costo di queste opere e del fatto che la responsabilità del loro acquisto ricadrà sui direttori dei centri artistici e culturali. Poi a queste opere di antiarte non potrà che essere riservata un’unica funzione, quella di servire da combustibile per il riscaldamento degli edifici pubblici.”2 Molti all’inizio credettero a uno scherzo, invece la macchina di distruzione era già avviata e di lì a poco colpì in modo tremendo. Gli artisti maggiori rimasti in Germania erano destinati all’emarginazione: le loro opere venivano bandite dalle collezioni pubbliche che fino a quel momento avevano sempre sostenuto l’avanguardia. D’altro canto il tiranno voleva portare in Germania tutte le opere germaniche, allargandosi anche ai fiamminghi e agli olandesi: un effetto rilevante delle sue scelte fu il progressivo diniego al prestito delle opere ai musei degli altri Paesi. Il pensiero hitleriano voleva che i capolavori teutonici fos-
sero al sicuro sul sacro suolo della Heimat: temeva danneggiamenti, ricatti e rappresaglie. Il Führer ci mise poco però a comprendere le possibilità offerte dall’occupazione dei vari Paesi: già in precedenza nei suoi viaggi in giro per l’Europa aveva stilato maniacali elenchi di desiderata. Le persecuzioni degli oppositori politici e soprattutto degli ebrei fornivano una possibilità di approvvigionamento praticamente illimitata. Sulle predilezioni hitleriane rispetto all’arte in Italia resta la testimonianza eccezionale di Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo e scrittore. Nel 1938, dopo essere stato l’unico in Italia a segnalare in modo negativo la tragica mostra dell’arte degenerata (sulle pagine della rivista “Critica d’Arte”) si trovò, pur avendo cercato in ogni modo di evitare la spinosa corvée, a fare da cicerone al Führer e al Duce, anche in virtù della sua perfetta padronanza del tedesco. Fu quindi il testimone di una surreale visita guidata a monumenti e musei a Roma e Firenze. Nella visione complessiva, ha quasi il sapore di una prova per quanto sarebbe accaduto di lì a poco, con l’artista mancato intento a redigere liste di desiderata su cui mettere le mani appena possibile, tanto l’alleato italiano dava poca fiducia. Una foto ritrae l’archeologo, in orbace, con alle spalle un Goebbels particolarmente sinistro. L’episodio venne poi spesso usato per attaccare Bianchi Bandinelli, quando nella sua Siena vennero affissi manifesti che rievocavano l’episodio attaccando di petto il “conte rosso”, che si era iscritto al Pci. Nel corso della visita fiorentina Hitler aveva avuto anche una guida tedesca: Friedrich Kriegbaum, storico dell’arte e direttore del Kunsthistorisches Institut, destinato a perire in un bombardamento alleato, che perorò senza fortuna la causa di Ponte Santa Trinita su cui da tempo stava conducendo uno studio. Come emerse alla fine dell’occupazione nazista, le sue furono parole al vento: il Führer, come qualsiasi germanofono di media istruzione, aveva come proprio ponte di riferimento quello Vecchio, che per lui era il solo “bello”. E l’unico che risparmiò dalle mine, mentre quelli accanto vennero ridotti in polvere.
Un vero e proprio quadro grottesco: la gita nel Belpaese prevede l’arrivo di quasi tutti i capi, ad eccezione di Göring. Mussolini è in ambascia, si sente sempre inferiore all’altro tiranno, che sfodera tutti i clichés del suo repertorio mitografico. Si sdilinquisce infatti di fronte alle oreficerie di Castel Trosino (Ascoli Piceno), trovate nel 1893 in una grande necropoli longobarda scavata da Raniero Mengarelli, tra le prime testimonianze di un insediamento barbarico in Italia. L’archeologo aveva individuato un’enorme struttura con quasi duecento tombe, tra vari oggetti preziosi (la maggior parte dei quali si trovano oggi nel Museo dell’Alto Medioevo di Ascoli Piceno). Così il Führer dichiara, con gli occhi dilatati dalla cupidigia: “Per gli oggetti nordici ci deve essere stato un primitivo e unico centro di creazione e irradiazione; ma non sappiamo trovarlo. Si impone perciò l’ipotesi di un continente scomparso, culla di questa civiltà: l’Atlantide”, ma il Duce non è persuaso e ripete a pappagallo il nome del continente perduto con l’accento alla francese, in omaggio al celebre romanzo esotico di Pierre Benoît, che aveva spopolato al momento della sua pubblicazione nel 1919. Un riflesso condizionato: senz’altro quello scrittore era stato un punto di riferimento per il giovane Mussolini, quando voleva trionfare come romanziere d’appendice. Per quello che non era riuscito ad annotarsi, Hitler ebbe occasione di un rapido ripasso quando tornò sull’Arno nel 1940, per un furioso incontro con Mussolini. Il Duce aveva attaccato inopinatamente la Grecia, scombinando le carte dei piani del Führer, e urgeva un incontro per chiarire le prossime mosse. Dopo avere litigato a lungo con l’alleato, senza ottenere esiti, ebbe però un premio di consolazione da Mussolini. Questi gli fece trovare alla stazione uno dei suoi quadri preferiti, che da tempo aveva cercato di ottenere. La lugubre Peste a Firenze, del suo amato Hans Makart, in cui delle procaci dame boccaccesche si davano all’orgia e gavazzavano tra i cadaveri, mentre il morbo impazzava. Le passioni del dittatore germanico sono quelle del turista: gli piacciono tutte le cose che devono piacere. Mai una volta che
azzardi un gusto proprio, una sfumatura di differenza. Guardando la celeberrima Venere medicea agli Uffizi, esalta la bellezza carnale della signora, paragonandola a quella delle dame che vede per strada. Si esalta durante le sue passeggiate trionfali per le città che il segretario del PNF Starace ha trasformato in veri e propri set cinematografici, con inserti di cartapesta per nascondere le case povere o le zone rovinate che il Führer avrebbe potuto vedere nel suo viaggio in treno. Il tiranno, riportano i testimoni, si irrita per un eccesso di visite, ma ogni tanto si incanta sugli oggetti che più ammira, allora viene preso da improvvise estasi. Nel corso del tempo Hitler ha parlato della sua personale visione “ariana” dell’estetica museale, ribadendo il diniego a inviare una mostra di arte classica tedesca in America, per paura che le opere venissero “sfregiate dai bolscevichi”. Questo è un vero e proprio basso continuo, di fronte al Tondo Doni michelangiolesco sospira sollevato: “se fossero arrivati i comunisti…”, come a descrivere scenari di roghi di capolavori antichi effettuati non si sa bene per quale intrinseca malvagità delle guardie rosse. Poi di fronte al paesaggio toscano una folgorazione che sembra inverare la famosa allegoria di Friedrich Overbeck in Italia e Germania, dove le nazioni sono raffigurate nelle vesti di pensose giovinette che appoggiano il capo una sull’altra: “ora finalmente capisco Feuerbach e Böcklin”. Infine il congedo per Bianchi Bandinelli dal ruolo di “duce del Führer”, sul portone di Palazzo Vecchio. In seguito lo storico rifiutò altre proposte dandosi malato; evitò tra l’altro di accompagnare Göring nella sua visita privata in Italia, l’anno seguente. Avrebbe potuto illuminare con acume i moventi di una strepitosa smania di acquisizione. Hitler in Italia metteva alla prova quella che sarebbe diventata la regola nei Paesi occupati, come in quelli alleati quando c’era qualcosa che lo interessava. Le richieste alle autorità, prima con le buone, poi con le cattive, vertevano su autori tedeschi che andavano resi immediatamente alla madrepatria. Poi si passava ai quadri del Rinascimento e alla statuaria classica, e
più ce n’era meglio era. Era quella la prima consegna per l’organizzazione semidelinquenziale allestita nei Paesi occupati: una spietata macchina di incameramento di manufatti preziosi. Tutti gli oggetti avrebbero dovuto infine occupare gli spazi dell’erigendo Louvre hitleriano a Linz che sarebbe stato, secondo i progetti del duo Hitler-Speer, il più grande museo del mondo. A dirigerlo era stato nominato Hans Posse, già direttore delle Gallerie di Dresda, che ricevette un incarico ufficiale del Führer il 26 giugno 1939. Il decreto prevedeva che tutte le strutture dello Stato fossero al suo servizio, per le superiori ragioni del Reich. Si può capire, quindi, che lo studioso fosse smanioso di radunare una sempre maggiore quantità di opere. Nella sua raccolta richiese la collaborazione del dottor Otto Kümmel, direttore generale dei Musei statali di Berlino. Nel 1940 egli stese un dettagliato rapporto in cui si dava indicazione su tutte le opere eventualmente da prendere nei vari Paesi, inclusi gli Stati Uniti, di cui Hitler sognava l’invasione. Sul Metropolitan e sulla collezione Frick esisteva un ampio catalogo di desiderata, nel caso di un possibile attacco al Paese a cui Hitler dichiarò guerra nel dicembre 1941, poco dopo Pearl Harbor. Mentre il Reich faceva comprendere rapidamente la propria rapacità, i direttori dei musei di tutta Europa corsero il più velocemente possibile ai ripari. L’Ermitage venne trasferito in Siberia, la National Gallery di Londra aveva trovato asilo nelle miniere di Manod nel Galles, attrezzate in un faticoso anno di lavori. Dal 1940 nelle sale vuote la grande pianista Myra Hess suonava con tutti i maggiori musicisti britannici all’ora di pranzo per tenere alto il morale dei londinesi nonostante le bombe. Al Louvre restavano le cornici vuote e anche il Rijksmuseum ad Amsterdam aveva preso provvedimenti di fuga. Anche in America c’era poco da ridere, a Boston le sale nipponiche del Museum of Fine Arts erano state chiuse per timore di atti di vandalismo, il Metropolitan chiudeva al tramonto, nel timore di furti con il blackout, e alla Frick Collection avevano oscurato finestre e lucernari. Insomma i musei e le collezioni private del
mondo erano decisamente sotto attacco. La quantità di capolavori che hanno cambiato di mano nei sei anni del conflitto è pressoché incalcolabile, e non poche opere sottratte mancano ancora all’appello. Soffocato per sempre dal Reich lo sviluppo rigoglioso della contemporaneità tedesca, cancellata o venduta sotto banco, spadroneggiavano gli artisti graditi al regime, presentati come eredi degli antichi maestri germanici. In scena c’è l’amato popolo in ogni possibile declinazione, il Völk, la Heimat sono i soggetti principali di una tessitura iconografica che è in sostanza mitologica. Si celebra la razza perfetta, le nobili tradizioni di battaglia germaniche a partire dal mito dei templari. Dürer guida la danza, perché tutto quello che è Altdeutsch è bello e buono. Tutti nel mondo dell’arte conoscono l’ossessione del Führer e ad esempio Joseph Duveen, celeberrimo antiquario, la sfrutta senza pietà, chiedendo molti denari in cambio di croste teutoniche comprate al mercato delle pulci. In altre occasioni Hitler aveva decisamente maggiore gusto, come quando smaniava per le opere di Vermeer. Dalla Francia volle, infatti, a ogni costo il meraviglioso Astrologo, già nella collezione Rothschild, su cui dette istruzioni tassative. Göring venne avvertito di scordarsi anche dell’esistenza del dipinto. Nel fervore di costruzioni hitleriane, che tocca punte di vero e proprio isterismo, stazioni, palazzi delle poste, scuole, caserme sono adorni di immagini ideate dagli artisti fedeli al regime, intenti alla creazione di un nuovo classicismo nazista. E allora via con i vecchi che leggono il “Völkischer Beobachter”, i pittori in mostra con figli e moglie in salsa Biedermeier. Sono però anche gettonatissime varie rivisitazioni classiche, che permettono il nudo ariano, tra il Giudizio di Paride e varie versioni di Leda col cigno (soggetto morboso anziché no, amatissimo dal Führer), il tutto senza scordare la fortunata Venere contadina di Sepp Hilz o il lugubre ciclo dei Cavalieri dell’Apocalisse di Werner Peiner. Anche il líder máximo, al di fuori delle parate e degli uffici monumentali, nel Nido dell’aquila a Berchtesgaden,
che oggi è un ristorante, teneva solo un Arno Breker (un busto di Wagner). Colpivano l’attenzione un assortimento di gioielli italiani rinascimentali (Paris Bordon, attribuzioni tizianesche), insieme a puri esempi teutonici, come La nana di Anselm Feuerbach, un melassoso paesaggio di Carl Spitzweg, maestro del Biedermeier più caramellato e smaltato, oltre alle amate tele ornamentali di Grützner e Achenbach. Alla sua “fidanzata” ufficiale, la misteriosa Eva Braun, sposata frettolosamente il giorno prima del doppio suicidio, spettava il decoro della gabbia dorata del Berghof, dove doveva sempre aspettare il Führer in un surreale costume bavarese-disneyano. La contornavano solo ritratti ufficiali dell’amato bene, tra cui uno, tra inquietante e circense, firmato da Bohnenberger, con il volto alonato di luci. Eppure, in tutta questa germanicità esibita fino alla follia, ci sono anche voci in contrario. Albert Speer, architetto realizzatore dei sogni più furibondi di Hitler, degli infiniti plastici che il dittatore si porterà dietro fino ai giorni della disfatta, nei suoi colloqui con Joachim Fest fornisce una versione decisamente diversa. “Hitler amava soprattutto l’arte del Rinascimento italiano e il Manierismo, Tiziano, Palma, Guido Reni e via dicendo. Anche nella Nuova Cancelleria e nel Berghof restaurato sarebbero stati esposti prevalentemente dipinti di quell’epoca. (…) Avrebbe particolarmente ammirato un seminudo di un allievo di Tiziano, Paris Bordon, e uno schizzo a colori del Tiepolo che erano appesi nel grande soggiorno del Berghof.”3 Speer, senz’altro intimo conoscitore delle passioni del tiranno, rovescia il cliché che torna nelle frasi dell’interessato e nella vulgata storica: “Non avrebbe mostrato di comprendere gli artisti tedeschi coevi, giudicando Dürer nonché quelli della scuola danubiana, pur con tutta la loro ‘amabilità’ – come avrebbe rilevato spesso – troppo ‘provinciali’ e ‘tedeschi’ in senso pedante”4. Anzi, addirittura: “delle numerose raffigurazioni di Venere e di Eva fatte da Cranach avrebbe detto un giorno che erano ‘poco estetiche’, mere ‘figure artificiali’, perché ‘nessuna donna al mondo ha quel-
l’aspetto’. A lui a ogni modo, quei ‘corpi come bastoni’ non avrebbero detto niente”5. Sia come sia, il grande museo germanico fu il progetto della sua vita: e avrebbe dovuto culminare nelle sue opere, inclusa una ammiccante Eva Braun nuda, su tela, di cui si sono perse le tracce (ma Speer, alla liberazione da Spandau, spergiurava alla stampa di averne una fotografia). Martin Bormann, che avrebbe dovuto metterle al sicuro in attesa della vittoria finale o di altri, meno lusinghieri e più realistici, scenari, nascose molte sue opere in una miniera di sale vicino a Salisburgo. Gli ultimi giorni del Bunker vennero trascorsi dal Führer in esercizi di ammirazione dei modellini delle città che non avrebbe costruito. Come egli stesso diceva, d’altra parte, i tunnel e i cunicoli sotto la cancelleria erano la sua opera maggiore. Lì andò incontro al suo destino finale, anche se molti dei suoi fedeli lo volevano arroccato nella dimora aerea del Berghof. Anche lì, in quelle tenebrose stanze sotto terra, comparivano segni d’arte, insieme a una gran messe di libri. Nella sua camera da letto spiccavano una natura morta olandese e un ritratto di Federico il Grande ad opera di Anton Graff; le uniche altre tele erano nel corridoio di fronte ai suoi appartamenti. In lontananza si sentivano le vocette delle figlie canterine di Goebbels, destinate a morte atroce per mano della madre avvelenatrice, che non voleva sopravvivere alla fine del nazismo. Sconvolto, gli occhi infossati, le mani tremanti, il tiranno si dilettava nelle ultime ore dell’idea di portarsi nella tomba tutte le opere che aveva predato. E pensare che di fronte a tutti i testimoni aveva sempre dichiarato che il suo unico interesse erano le arti. Si sentiva come Federico II, appassionato di flauto e poesia, che, diceva, era stato costretto al conflitto, perché nella sua visione distorta esso serviva a realizzare il suo sogno di una perfezione estetica assoluta. Malgrado la sua determinazione a farsi carico dell’arte tedesca, questa alla fine gli risultò di impaccio quando volle fare
tabula rasa per trasformare il Paese in un unico campo di battaglia. Al momento del tremendo bombardamento incendiario su Dresda, risuonarono le sue grida forsennate nel bunker; i testimoni raccontano il suo sollievo per essersi infine liberato dal compito di difendere la cultura germanica. L’atto finale del Fßhrer, prima della scomparsa, fu infatti l’operazione Nerone: un ordine ringhiato a tutti i militari, perchÊ operassero immediatamente la distruzione di ogni via sul territorio tedesco, progetto che fortunatamente non si realizzò. La ferocia scomposta degli ultimi giorni, mentre i russi marciavano su Berlino e la morte si disseminava per cerchi concentrici, distrusse o fece scomparire interi patrimoni artistici, che ancora oggi risultano non restituiti ai legittimi proprietari o mancanti. La recente polemica che ha opposto gli eredi della famiglia Bloch-Bauer al viennese Museo del Belvedere per dei celebri Klimt, peraltro, spiega anche troppo bene come negli anni dopo la guerra molte istituzioni abbiano conservato tranquillamente il maltolto, o almeno ci abbiano provato.