Pasolini Roma

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Pasolini Roma


Collegio dei revisori dei conti Presidente Sergio Basile Revisori Annamaria Carpineta Clementina Chieffo

Consiglio d’amministrazione Maurizio Baravelli Michele Gerace Paola Santarelli Marino Sinibaldi

Direttore generale Mario De Simoni

Presidente ff Daniela Memmo d’Amelio

AZIENDA SPECIALE PALAEXPO PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI

Assessore alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica Flavia Barca

ROMA CAPITALE Sindaco Ignazio R. Marino

Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Questo volume è pubblicato in occasione della mostra “Pasolini Roma” presentata al Palazzo delle Esposizioni, Roma, dal 15 aprile al 20 luglio 2014.

Vettura ufficiale

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Sponsor PdE

Direttore area affari legali Andrea Landolina

Direttore area amministrazione e controllo gestione Fabio Merosi

Direttore operativo Daniela Picconi

Segretario della commissione scientifica e responsabile delle attività scientifiche e culturali Matteo Lafranconi

Commissione scientifica Flavia Barca Jean Clair Mario De Simoni Fabio Isman Daniela Memmo d’Amelio Michael Peppiatt Norman Rosenthal Giorgio van Straten

Ricerche e documentazione Anna Escoda, Teresa Anglés – CCCB Matthieu Orléan – La Cinémathèque française con la collaborazione di Maria Laura Proietti Anna Ferrando Judith Rovira

Consulenza scientifica Graziella Chiarcossi

Curatori Gianni Borgna Alain Bergala Jordi Balló

— Martin-Gropius-Bau, Berlino: 11 settembre 2014 - 5 gennaio 2015

— Palazzo delle Esposizioni, Roma: 15 aprile - 20 luglio 2014

— La Cinémathèque française, Parigi: 16 ottobre 2013 - 26 gennaio 2014

— CCCB, Barcellona: 22 maggio - 15 settembre 2013

“Pasolini Roma” è una coproduzione del Centre de Cultura Contemporània, Barcellona, della Cinémathèque françai]se, Parigi, dell’Azienda Speciale Palaexpo - Palazzo delle Esposizioni, Roma, e del Martin-Gropius-Bau, Berlino. Ha beneficiato del sostegno del programma Cultura dell’Unione europea.

MOSTRA

Realizzazione e edizione Fred Savioz – La Cinémathèque française Toni Curcó José Antonio Soria – CCCB

Documentazione Laura de Bonis

Audiovisivi Direzione Jordi Balló Alain Bergala

Grafica della mostra Marc Valls con la collaborazione di Oriol Soler

Design allestimento Guri Casajuana Arquitectos

Martin-Gropius-Bau: Christoph Schwarz Elena Montini

Azienda Speciale Palaexpo Palazzo delle Esposizioni: Matteo Lafranconi Daniela Picconi Flaminia Bonino

La Cinémathèque française: Christine Drouin Marie Naudin Matthieu Orléan Giulia Conte

CCCB: Mónica Ibáñez Carlota Broggi Anna Escoda Teresa Anglés

Direzione e coordinamento della produzione


Traduzione dei pannelli di mostra Sue Brownbridge Chiara Bombardi

Registrazione e gestione dei trasporti e delle assicurazioni Neus Moyano, Susana García – CCCB

Teatro greco e Teatro Nuovo: Salvador Gil – Szoma Studio

Realizzazioni scenografiche L’efebo e la tomba di Gramsci: Mar Vilasojana Ricard Celma

Gestione dei diritti audiovisivi e fotografici Catherine Hulin Alice Le Guen – La Cinémathèque française

Produzione Zadig Productions

Realizzazione grafica Jean-Jacques Bouhon

Piante di Roma Ideazione Alain Bergala

Produzione Sono Tecnología Audiovisual, SLU

Attore Rubèn de Eguia

Ologramma del Centauro Regia Xavier Alberti

Traduzione Alessandra Gallo (dal francese) e Irene Inserra (dallo spagnolo) per Scriptum, Roma

Impaginazione Paola Oldani

Redazione Domenico Pertocoli

Coordinamento redazionale Vincenza Russo

Art director Marcello Francone

Skira

Interviste con Alberto Arbasino Bernardo Bertolucci Vincenzo Cerami Ninetto Davoli Dacia Maraini Ennio Morricone Nico Naldini

Commenti ai documenti Gianni Borgna Alain Bergala Jordi Balló

Finito di stampare nel mese di aprile 2014 a cura di Skira, Ginevra-Milano Printed in Italy www.skira.net

© 2013 ESFP, Paris © 2013 Centre de Cultura Contemporània de Barcelona © 2013 La Cinémathèque française, Paris © 2014 Skira editore, Milano © Giorgio de Chirico, Filippo de Pisis, Renato Guttuso, Giorgio Morandi, Pier Paolo Pasolini by SIAE 2014

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore

Flaminia Nardone – Azienda Speciale Palaexpo Palazzo delle Esposizioni

Sylvie Vallon – La Cinémathèque française

Coordinamento nelle sedi espositive Marina Palà – CCCB

Testi Pier Paolo Pasolini Introduzioni dei capitoli Alain Bergala

Fotolito Arciel, Parigi

Coordinamento editoriale David Lestringant

Progetto grafico Impaginazione Thomas Petitjean, Hugo Anglade, Laure Afchain Carattere tipografico “Ostia Antica” Maquette & Mise en page e Yoann Minet

Consulenza scientifica Graziella Chiarcossi

Editor Jordi Balló

CATALOGO

Vogliamo ricordare, con affetto e con rimpianto profondi, Gianni Borgna. Critico musicale, saggista, politico e anima di questo progetto. Una vita per la cultura, un protagonista della rinascita civile della città di Roma.

La mostra è stata finanziata con il sostegno della Commissione europea. Di questa pubblicazione sono responsabili gli autori e curatori. La Commissione non è responsabile dell’uso che potrebbe essere fatto delle informazioni in essa contenute.

Una coproduzione


Nella primavera del 1964 Pasolini pubblica un’importante raccolta di versi dal titolo Poesia in forma di rosa. Il tono dominante è sempre più quello della profezia, spesso oscura, rabbiosa, dolorosa, ma anche quello dell’abiura (“Ho sbagliato tutto”, “Abiuro dal ridicolo decennio!”) causata soprattutto dalla “delusione della Storia”. Uno dei momenti più riusciti di questa abiura è Uccellacci e uccellini, una favola, o meglio un film “ideocomico”, come lo definisce lo stesso regista. Interpretato da un inedito duo (Totò e Ninetto Davoli), è una delle testimonianze più illuminanti del cambiamento epocale vissuto da Roma e dall’Italia alla metà degli anni sessanta. Uccellacci e uccellini affronta in forma metaforica il tema della crisi delle ideologie e racconta l’incontro ormai inevitabile tra cultura occidentale e terzo mondo. Più che di una scappatoia o di un banale terzomondismo si tratta, al contrario, di una previsione lucida, che oggi sappiamo quanto fosse giusta e proficua. Il poeta ci tiene a sottolineare che non ha smesso di credere nella validità del marxismo, ma solo nella misura in cui sarà in grado di accettare realtà nuove e diverse. Del resto già nei primi anni sessanta Pasolini aveva dimostrato di essere forse l’unico intellettuale italiano in grado di comprendere il senso e la portata delle trasformazioni in atto, e di cogliere i pericoli insiti nel neocapitalismo italiano: un “modello di sviluppo” basato sulla quantità più che sulla qualità, sull’accumulo di beni superflui più che su un progresso culturale e morale. Con il risultato di distruggere culture, stili di vita, linguaggi, a vantaggio di un nuovo modello umano di riferimento, quello piccolo-borghese. Pur amandoli, Pasolini si è allontanato dagli stilemi figurativi e rappresentativi del neorealismo, che denunciavano la miseria come condizione materiale. La sua denuncia è invece rivolta prima di tutto alla miseria spirituale, morale, frutto della modernizzazione accelerata e della distruzione antropologica. Anche le nuove forme di malessere sociale che hanno accompagnato la rivoluzione studentesca del ’68 sono, per Pasolini, frutto di questa modernizzazione imposta dall’alto. Pasolini intuisce che il ’68 italiano era in realtà una rivoluzione delle classi medie, durante la quale la

Pasolini Roma Mostra a cura di Gianni Borgna, Alain Bergala, Jordi Balló

Accostarsi a Pasolini attraverso il suo rapporto con Roma significa entrare nel vivo di tutto ciò che definisce la sua personalità: la poesia, la politica, il sesso, l’amicizia, il cinema. Per lui, che ha trascorso la giovinezza in Friuli e a Bologna, Roma non sarà mai solo una scenografia, o il luogo in cui vivere. Per il Pasolini uomo come per il poeta Roma ha una dimensione fisica, carnale, passionale. Con la città vive una grande storia d’amore, in tutte le sue tappe: l’ardore e l’angoscia del primo incontro, le delusioni, i tradimenti, i sentimenti misti di odio e amore, le fasi di attrazione e di rifiuto, i momenti di allontanamento e di ritorno. Per il Pasolini polemico che analizza l’evoluzione della società italiana, Roma è anche il principale oggetto di osservazione, il suo permanente campo di studio e di riflessione. Ma, soprattutto, c’è una Roma prima e dopo Pasolini, perché i suoi scritti e i suoi film hanno creato un nuovo immaginario della capitale italiana. Pasolini non si è accontentato di usare la città come sfondo di romanzi e film: egli ha “rifondato” Roma attraverso la letteratura e il cinema. Ha dato voce e dignità letteraria al romanesco, che grazie a lui è entrato nella cultura italiana. Ha girato i suoi primi film a Roma, ma l’ambientazione di Accattone e di Mamma Roma è prima di tutto quella delle borgate popolari in cui ha abitato e lavorato quando è arrivato nella capitale, là dove vivevano i poveri, gli emarginati, gli ultimi “innocenti”, i solari sottoproletari: uno spazio urbano precario, raffazzonato, disprezzato da architetti e urbanisti, al quale ha cercato di dare nobiltà e poeticità attraverso l’uso sacralizzante del mezzo cinematografico ispirato ai modelli figurativi del primo Rinascimento. Le infinite polemiche, contestazioni, aggressioni e denunce legali provocate dalle sue opere letterarie e cinematografiche non sono riuscite ad arrestare la straordinaria novità stilistica e la potenza espressiva della sua arte. Quando l’accusa di omosessualità è diventata ordinaria e scontata, vi si sono aggiunte le denunce per vilipendio, pornografia, oltraggio alla religione, e persino adescamento, ricettazione e rapina a mano armata! Tante assurdità che ben presto si sono dissolte nel nulla, anche se in molte occasioni hanno costretto l’artista a sottoporsi a grotteschi processi più che umilianti.

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Capitolo I Pier Paolo Pasolini arriva alla stazione di Roma con sua madre il 28 gennaio 1950. Ha ventotto anni. È stato rimosso dall’insegnamento nelle scuole pubbliche ed espulso dal Partito comunista perché il militante poeta è stato denunciato per atti osceni con adolescenti in occasione di una sagra a Ramuscello, in Friuli, la regione nativa di sua madre. Lasciano la casa di Casarsa di prima mattina, con il padre ancora addormentato. In un primo tempo Susanna deve fare la governante per venire incontro alle loro necessità, e Pasolini alloggia provvisoriamente presso una famiglia amica dello zio, a piazza Costaguti, nel ghetto, nel cuore della città, a due passi dalla Fontana delle Tartarughe che mostra al sole la nudità dei suoi efebi luccicanti. Molto presto, madre e figlio, con il padre che li ha raggiunti, si allontanano dal centro di Roma per andare ad abitare nella periferia povera, a Ponte Mammolo, in una casa “senza tetto e senza intonaco” nei pressi della prigione di Rebibbia. Dice Pasolini a proposito dei suoi primi anni a Roma: “io vivevo come può vivere un condannato a morte / sempre con quel pensiero come una cosa addosso, / – disonore, disoccupazione, miseria.” Con i mezzi pubblici ci mette tre ore per raggiungere Ciampino, dove ha finalmente trovato da insegnare in un istituto privato per il magro stipendio di ventisettemila lire al mese. Tra i suoi allievi un certo Vincenzo Cerami attira la sua attenzione e la sua simpatia. Diventerà scrittore e sceneggiatore e sarà assistente di Pasolini in Uccellacci e uccellini. Questo periodo di miseria sarà tuttavia illuminato dalla sensazione esaltante che “Roma è divina”. Scopre il sottoproletariato delle borgate, il suo linguaggio e la sua violenta vitalità. Un giovane


pittore edile, Sergio Citti, diventerà il suo “vocabolario parlante” di romanesco. Questo mondo sconosciuto per alcuni anni costituirà la sua principale fonte di creazione letteraria e cinematografica. Dopo i cauti, furtivi amori friulani, scopre la sessualità libera e spontanea con i ragazzi di Roma. In compagnia di Sandro Penna, scrittore di amorosi turbamenti con giovani maschi, frequenta le rive del Tevere, fiume che diventa uno dei suoi punti di riferimento simbolici e poetici. Continua più che mai a scrivere e ottiene alcuni premi di poesia che lo rafforzano nel credo radicato in lui: la salvezza verrà dal suo lavoro letterario. Comincia a frequentare gli scrittori che ha conosciuto finora da lontano: Giuseppe Ungaretti, Carlo Emilio Gadda, Giorgio Caproni, Giorgio Bassani…


[…] Fuggii con mia madre e una valigia e un po’ di gioie che risultarono false, su un treno lento come un merci, per la pianura friulana coperta da un leggero e duro strato di neve. Andavamo verso Roma. Avevamo dunque, abbandonato mio padre accanto a una stufetta di poveri, col suo vecchio pastrano militare e le sue orrende furie di malato di cirrosi e sindromi paranoidee. Ho vissuto quella pagina di romanzo, l’unica della mia vita: per il resto – che volete – sono vissuto dentro una lirica, come ogni ossesso. Avevo tra i miei manoscritti anche il mio primo romanzo: erano quelli i tempi di Ladri di biciclette e i letterati stavano scoprendo l’Italia. [...] Arrivammo a Roma, aiutati da un mio dolce zio, che mi ha dato un po’ del suo sangue: io vivevo come può vivere un condannato a morte sempre con quel pensiero come una cosa addosso, – disonore, disoccupazione, miseria. Mia madre si ridusse per qualche tempo a fare la serva. E io non guarirò mai più di questo male. Perché io sono un piccolo borghese, e non so sorridere... come Mozart...

Da Poeta delle Ceneri (1966-1967).

[...]

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Da Alì dagli occhi azzurri, 1965.

Squarci di notti romane

Nelle notti di marzo l’acqua del Tevere ancora non assorbe la luce delle migliaia di fanali che da Ponte Milvio si sgranano fino a San Paolo: acqua e luci sono divisi da un leggero strato di freddo. In qualche sera, precocemente tiepida, si intravede quello che sarà il prossimo accordo tra la corrente e i lungoteveri, nella purezza della primavera. Il paesaggio buio – aria e acqua – punteggiato da luci in interminabili file ricurve, e arabescato dal buio più fitto degli alberi cittadini… e allora, svanito lo strato di freddo, circola tra fiume e fanali un’aria tenuissima, impalpabile, tutta trasformata in odore. […]

deposti dalla domenica come una schiuma per le strade nuove, non si avvicinano di un millimetro alla compattezza sacra, pura e seducente di quel nudo. Non si possono più amare che le statue…** Piazza di S. Pietro è orribile. Come vermi domestici e utili, le processioni la solcano come banchi di nebbia. Tenendo a bada le pinzochere, un prete canta con voce esemplare certe canzoni così stupide da offendere non solo il buon gusto, ma Cristo, Cristo stesso. È una religiosità senza colore, grigia, piatta, parrocchiana, uno fra i prodotti più diretti e sconfortanti di Eva. Non ci si salva: non c’è niente che si possa compatire o capire, neanche a rovescio, col gusto del sadico. Davanti a questi spettacoli l’esplosione atomica non scandalizza più: il suicidio è urgente.

* Si tratta dell’Azienda rilievo alienazione residuati, creata nel 1945 dal governo Parri. ** Quest’ultima frase e il paragrafo che segue sono inediti e si trovano solo in una prima stesura del racconto.

Da Ponte Sisto all’Isola Tiberina si stende un pezzo di Tevere paesano: a sinistra il Ghetto che si mette a cantare improvvisamente, a gola spiegata, in Piazza delle Tartarughe, al Teatro di Marcello, in Piazza Campitelli, a destra la foresta materna di Trastevere. Di qua gli orizzonti sono occupati dagli spazi asfaltati del mattatoio, dei Mercati Generali, e, in fondo, dal San Paolo, domenicale e tirrenico, incallito nella leggera sporcizia: di là si va a finire in Monteverde, enorme deposito di un Arar* eterno, tra muraglioni papali e ferrivecchi, fin che si arriva al Ponte Bianco, area di costruzione spalmata di croste e disgustoso ciarpame fuori uso; è di là che giungono nei lungoteveri civili gli odori più stupendamente paradisiaci: gli odori che tentano ad arrendersi al vizio fino magari al sacrificio della vita, il paese dei masochisti, delle zanoide, degli antenuli e degli impotenti. […] Poi, più tardi, come una città risparmiata dal terremoto e disinfettata con enormi getti d’acqua inodora, la Roma domenicale di Ponte Garibaldi ferve di gioventù sparpagliata come spazzatura, carta velina, cenci. In Piazza delle Tartarughe i quattro giovinetti che reggono le conchiglie, lucidi, follemente lucidi, sono l’unica cosa che sfugge alla presa del vento: penetrano la notte con la loro nudità. I ragazzi

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Fontana delle Tartarughe in piazza Mattei, marzo 1949 Pio XII in piazza San Pietro nel Giubileo del 1950

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Sandro Penna, Roma, 1942

In una lettera del 1970 Pasolini scrive a Sandro Penna: “Io ho un culto di te” e lo definisce “santo anarchico”. Il poeta morirà due anni dopo Pasolini, in solitudine e povertà, proprio come un santo, al termine di una vita precaria, senza un reddito fisso, ma vissuta in libertà con una sorta di grazia leggera tipica dei sognatori. La pubblicazione dei suoi rari libri viene promossa da alcuni amici fedeli: Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Alberto Moravia, il quale riteneva che, morto Pasolini, Penna fosse il più grande scrittore italiano vivente. Pasolini a Stoccolma, due giorni prima di essere ucciso, dichiara che il Premio Nobel doveva andare a Penna e non a Montale. La fonte di ispirazione principale per Penna è l’amore omosessuale. Pasolini lo conosce al suo arrivo a Roma, trascorrendo gran parte del tempo sulle rive del Tevere, circondato da ragazzi disposti ad amori fuggitivi e leggeri, ben diversi dagli schivi friulani. In sua compagnia Pasolini scopre un eros libero e “pagano” che illumina questi anni foschi della sua vita. Tuttavia questo eros pone a Pasolini la questione delle tensioni tra il passaggio all’atto e l’ispirazione poetica: “Anche tu sei stato, ripeto, un po’ predone di quella realtà che forse dovrebbe essere unicamente contemplata. Ma è proprio da questi tuoi momenti di peccato in cui sei venuto meno alla regola della rinuncia e della umile, silenziosa, monastica protesta contro il mondo, così sublime e così inaccogliente, che tu hai trovato le ispirazioni per la tua poesia.” Alain Bergala

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Questa notte scopro che è stata commessa nei miei riguardi la più incivile delle indiscrezioni: mio padre venendo a frugare e a spiare tra le mie carte ha evidentemente rinvenuto questo quaderno e lo ha letto. Tutto ciò è nel suo carattere, non mi meraviglia; e l’offesa è così assoluta che non trovo di meglio da fare che ignorarla. Certo nella vita di mio padre e della mia famiglia si apre in questi giorni un nuovo capitolo, dopo quello della morte di Guido. Mio padre non ha certo la preparazione morale necessaria per risolvere questa sua grossa delusione nei miei riguardi. Mia madre, invece, credo, mi ama e mi assomiglia troppo perché tutto ciò non le appaia che fatale. Io, d’altra parte, ho immerso e amalgamato tutto in una disperata saggezza, che sarà forse cinismo, amore di Narciso, ma che mi protegge da tutto ciò che è esterno, anche se positivo, amabile, e fa emanare dalla mia persona un senso di strana e fanciullesca dolcezza. Del resto non c’è stato bisogno che constatassi la manomissione del mio quaderno per accorgermi della scoperta di mio padre, terribile per lui. Già da qualche giorno lo sospettavo, anzi ne avevo la certezza: erano state alcune allusioni che non val la pena di ricordare. Ma questa sia una parentesi, la tragedia della mia famiglia m’impegna anche troppe ore al giorno, e mi impedisce di essere felice, gaio, come indubbiamente sarei per natura. Ma infine non mi sono liberato dal peso di una continua mistificazione? Cosa più mi trattiene dall’essere libero, dal peccare liberamente? Superati i primi tempi di questa feroce sventura – l’assistere cioè al dolore dei miei per la cosiddetta innaturalezza del mio amore – potrò giungere più facilmente alla cronaca autentica dei miei giorni così distratti. Ho un desiderio assoluto di sincerità… Mi son domandato se questo è un desiderio di confessione, ma ho dovuto rispondermi che è di più. Certo il pensiero di liberarmi, anche di fronte agli altri, permane; né potrei tacere dell’ambizione di raggiungere, con la sincerità, una ragione d’essere; ma soprattutto si tratta di un bisogno di astrazione, di sistemazione solitaria. Non ho (ancora) il senso vero del rimorso, della colpa, della redenzione: ho solo un unico senso del destino, ma nel suo farsi precario e confuso. Non per nulla questo quaderno mi invita nelle ore più disumane, quando solo la mia lampada è accesa in tutta la campagna. E anche questa è una tradizione della mia adolescenza, un aspetto del mio amore esclusivo. […]

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Dai “Quaderni rossi” nei quali Pasolini tenne un diario a Casarsa tra il maggio 1946 e la fine del 1947.

Domenica, 19 gennaio 1947


Da Roma 1950. Diario, 1960. I —

Adulto? Mai – mai, come l’esistenza che non matura – resta sempre acerba, di splendido giorno in splendido giorno – io non posso che restare fedele alla stupenda monotonia del mistero. Ecco, perché, nella felicità, non mi sono abbandonato – ecco perché nell’ansia delle mie colpe non ho mai toccato un rimorso vero. Pari, sempre pari con l’inespresso, all’origine di quello che io sono.

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Carcere di Rebibbia nella borgata di Ponte Mammolo, anni cinquanta

Sobborghi di Roma, inizio anni cinquanta

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Via Giovanni Tagliere 3 dove Pasolini visse con i suoi genitori dal 1951 al 1954

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[...] Abitammo in una casa senza tetto e senza intonaco, una casa di poveri, all’estrema periferia, vicino a un carcere. C’era un palmo di polvere d’estate, e la palude d’inverno. Ma era l’Italia, l’Italia nuda e formicolante, coi suoi ragazzi, le sue donne, i suoi “odori di gelsomini e povere minestre”, i tramonti sui campi dell’Aniene, i mucchi di spazzature: e, quanto a me, i miei sogni integri di poesia.

Da Poeta delle Ceneri (1966-1967).

[...]

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“L’Unità,” 29 ottobre 1949

... / In questo stadio non è stata sporta alcuna querela, esibita alcuna prova, emessa alcuna sentenza. Eppure i “compagni” del poeta non esitano a prendere quel provvedimento addirittura per “indegnità morale”. Pasolini sarà poi assolto per insufficienza di prove l’8 aprile 1952, ma solo al termine di tre dibattimenti processuali. Nel frattempo ha perso la cattedra, che non gli verrà più restituita. E ha abbandonato l’amato Friuli, la sua Arcadia, dove ha potuto esercitare la sua “vocazione pedagogica”, lasciando in tutti, professori e allievi, un ricordo indelebile. Gianni Borgna

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A Ferdinando Mautino* – Udine [Casarsa, 31 ottobre 1949]

circa tre mesi fa, come forse sai, sono stato ricattato da un prete: o io la smettevo col comunismo o la mia carriera scolastica sarebbe stata rovinata. Ho fatto rispondere a questo prete come si meritava dalla intelligente signora che aveva fatto da intermediaria. Un mese fa un onorevole democristiano amico di Nico mi avvertiva molto indirettamente che i democristiani stavano preparando la mia rovina: per puro odium theologicum – sono le sue parole – essi attendevano come iene lo scandalo che alcune dicerie facevano presagire. Infatti appena la manovra di Ramuscello, sempre per odium theologicum, è riuscita (altrimenti si sarebbe trattato di un fatterello senza importanza, una qualsiasi esperienza che chiunque può avere nel senso di una vicenda tutta interiore), probabilmente il Maresciallo dei Carab. di Casarsa ha eseguito gli ordini impartitigli dalla DC, mettendo subito al corrente i dirigenti, che a loro volta hanno fatto scoppiare lo scandalo in Provveditorato e nella stampa. Mia madre ieri mattina è stata per impazzire, mio padre è in condizioni indescrivibili: l’ho sentito piangere e gemere tutta la notte. Io sono senza posto, cioè ridotto all’accattonaggio. Tutto questo semplicemente perché sono comunista. Non mi meraviglio della diabolica perfidia democristiana; mi meraviglio invece della vostra disumanità; capisci bene che parlare di deviazione ideologica è una cretineria.** Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico di questa parola. Ma di che cosa parlo, io in questo momento non ho avvenire. Fino a stamattina mi sosteneva il pensiero di avere sacrificato la mia persona e la mia carriera alla fedeltà a un ideale; ora non ho più niente a cui appoggiarmi. Un altro al mio posto si ammazzerebbe; disgraziatamente devo vivere per mia madre. Vi auguro di lavorare con chiarezza e passione; io ho cercato di farlo. Per questo ho tradito la mia classe e quella che voi chiamate la mia educazione, borghese; ora i traditi si sono vendicati nel modo più spietato e spaventoso. E io sono rimasto solo col dolore mortale di mio padre e mia madre. Ti abbraccio Pier Paolo

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* Funzionario della Federazione comunista di Udine. ** Riferimento al corsivo di Mautino (Carlino) pubblicato su “L’Unità” del 29 ottobre 1949.

Caro Carlino,


* Testo introduttivo a una prima versione del romanzo Ragazzi di vita.

Questo romanzo* è una biografia di alcuni ragazzi della malavita romana, dall’infanzia alla prima giovinezza. Il Riccetto, che è il protagonista, aveva undici anni all’arrivo delle truppe angloamericane a Roma, e ne ha diciotto alla fine del libro, in piena guerra di Corea e durante il declino del periodo degasperiano. L’ambiente “vero” (le borgate romane, che fasciano la capitale con i loro lotti, i loro villaggi di tuguri), i personaggi “veri”, quasi da documentario sociologico, le situazioni “vere”, fino a sembrar tolte dalla cronaca cittadina dei quotidiani romani, potrebbero far pensare a questa biografia del Riccetto e dei suoi coetanei come a un prodotto del gusto neorealistico: mentre non è precisamente così. C’è troppa violenza in questo realismo. E l’autore, instaurando questo genere di racconto, ha avuto piuttosto davanti a sé dei modelli più autentici e assoluti: a parte il romanzo picaresco spagnolo, probabilmente gli sono stati presenti e stimolanti certi personaggi minori dell’Inferno dantesco, certi ambienti da suburra del Decameron, la Milano manzoniana dei tumulti e dei monatti, o infine i miserabili sotto-proletariati del Belli o del Verga… Ma non si pensi, però – malgrado l’abilità e la complessità, talvolta quasi barocca, dello stile – a un’aria letteraria in queste pagine: l’estrema attualità del documento – che non è più un documento del dopoguerra, ma dell’Italia ultimissima, quella della fine del dopoguerra – è troppo determinante, e implica una passione e una pietà ben altro che letterarie. Inoltre il romanzo è scritto tutto in chiave allegra, di divertimento, d’avventura: proprio com’è la vita nelle borgate romane, in cui il vizio o l’abbandono si esprimono nelle allegre frasi del gergo, le malattie, i digiuni e la morte hanno allegri commenti di bucati sventolanti, di canzonette e di sole.

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61 Pasolini con sua madre, via Giacinto Carini, Roma, 1960


Prima edizione di Ragazzi di vita, Garzanti, Milano 1955 Via Fonteiana, 1957

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A Livio Garzanti – Milano [Roma, novembre 1954]

ho ricevuto da molte parti dei complimenti per “Regazzi de vita”:* ma il piacere che mi ha dato Lei, col tono distaccato e paratattico dell’editore, non me l’ha dato nessuno… E cresce, di conserva, la mia preoccupazione per gli sviluppi futuri… Il romanzo nelle linee generali è pronto: è tutto chiarissimo nella mia testa (purtroppo: perché così nasce una sproporzione tra la pagina già in testa e la pagina nell’atto di esser scritta). Per essere esatti: il romanzo consta di 9 capitoli, di cui il I, il IV (“Regazzi de vita”), il VI sono completi; il III, il V, il VII e l’VIII sono scritti ma devono essere messi a posto e completati: il II e l’ultimo devono essere fatti quasi completamente. Conoscendo me stesso (che non sono pigro, badi) e la specie di questo lavoro, penso che mi ci vorranno ancora cinque sei mesi (melius abundare), dato che questo mese potrò lavorarci meno, dovendo finire altre cose. Non si spaventi (dal punto di vista commerciale): ma del “Ferrobedò” è impossibile riassumere decentemente la trama, poiché una trama nel senso convenzionale non c’è. Riassumendolo si rischierebbe di giustapporre una serie di fatti, e si avrebbe l’impressione di un arazzo. La mia “poetica” narrativa (come Lei ha visto in “Regazzi de vita”) consiste nell’incatenare l’attenzione su dati immediati. E questo mi è possibile perché questi dati immediati trovano la loro collocazione in una struttura o arco narrativo ideale che coincide poi col contenuto morale del romanzo. Tale struttura si potrebbe definire con la formula generale: l’arco del dopoguerra a Roma, dal caos pieno di speranze dei primi giorni della liberazione alla reazione del ’50–51. È un arco ben preciso che corrisponde col passaggio del protagonista e dei suoi compagni (il Riccetto, Alduccio ecc.) dall’età dell’infanzia alla prima giovinezza: ossia (e qui la coincidenza è perfetta) dall’età eroica e amorale all’età già prosaica e immorale. A rendere “prosaica e immorale” la vita di questi ragazzi (che la guerra fascista ha fatto crescere come selvaggi: analfabeti e delinquenti) è la società che al loro vitalismo reagisce ancora una volta autoritasticamente: imponendo la sua ideologia morale. [...] Pier Paolo Pasolini

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*Pubblicato in “Paragone” nell’ottobre 1953, questo testo diventerà il quarto capitolo del romanzo Ragazzi di vita.

Gentile Garzanti,


Da “Città Aperta”, II, n. 7-8, Roma, aprile-maggio 1958.

La mia periferia* […] non esiste, per me, un metodo esterno di lavoro: il metodo è unicamente stilistico, e quindi interno. Ci sono naturalmente dei dati di fatto, che presi a sé possono suggerire l’idea, superficiale, aneddotica, di un metodo “applicato”, “a formula”. […]

[...]

* Dopo la pubblicazione di Ragazzi di vita Pasolini redige un testo in cui risponde a tre domande che gli sono state poste: la prima sui nessi tra Ragazzi di vita e Una vita violenta; la seconda sui rapporti tra la lingua, il dialetto e i personaggi; la terza, che è l’oggetto di questo testo, sul suo metodo di lavoro.

Spesse volte, se pedinato, sarei colto in qualche pizzeria di Torpignattara, della Borgata Alessandrina, di Torre Maura o di Pietralata, mentre su un foglio di carta annoto modi idiomatici, punte espressive o vivaci, lessici gergali presi di prima mano dalle bocche dei “parlanti” fatti parlare apposta. Questo naturalmente accade in occasioni specifiche. Per esempio a un certo punto del racconto uno dei miei personaggi ruba una valigia e qualche borsa: c’è un termine gergale per indicare valigia e borsa? Come no! Valigia si dice “cricca”, borsa “campana”: la refurtiva in genere, oltre che “morto”, si dice “riboncia”, ecc. (invece che dire “ecc.”, o “cose di questo genere”, nel mio romanzo metterò sempre “e santi benedetti” o “e tanti benedetti”, quando non un meno vivace “e tante belle cose”). Non sempre questo materiale strumentale a livello bassissimo e particolarissimo lo trascrivo direttamente: lo faccio solo nei casi in cui mi si presenti una difficoltà o una necessità stilistica a tavolino, mentre scrivo tutto solo. Allora lascio in bianco la parte che necessita di espressività, e faccio la mia ricerca, di solito breve e fruttuosa (ho alla Maranella un amico, Sergio Citti, pittore, che finora non ha mai fallito alle mie richieste, anche più sottili). Esiste anche una mia passione

generica: in tal caso annoto per conto mio, magari di nascosto, “fulgurato” da qualche improvvisa e ignota forma del patrimonio. Si tratta in tal caso di materiale di riserva, che a ogni buon conto metto da parte: in modo da non dover scendere alla Maranella nel caso mi si presenti la sopraddetta necessità espressiva. In fondo allo scartafaccio del romanzo ho dunque un bel mucchio di pagine di modi idiomatici, un tesoretto lessicale. Così si esaurisce il “colore” del mio metodo di lavoro. Tutto il resto accade nella solitudine della mia stanza ormai in un quartiere borghese, dietro il Gianicolo.

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Tre pagine del glossario romanesco-italiano della prima stesura di Ragazzi di vita


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Pasolini fotografato da Henri Cartier-Bresson al Mandrione, Roma, 1959

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La prima sceneggiatura alla quale Pasolini collabora è per il film La donna del fiume di Mario Soldati, nel 1954, girato nella valle del Po. La risonanza suscitata dalla pubblicazione del suo primo romanzo, Ragazzi di vita, fa sì che presto i cineasti lo coinvolgano come conoscitore dell’ambiente sottoproletario delle borgate, dei papponi, delle prostitute e del loro linguaggio. Le sceneggiature che gli vengono commissionate gli permettono – lo dice lui stesso – di uscire dalla miseria e di lasciare il posto di insegnante nella scuola di Ciampino. Ha coscienza del fatto che questo lavoro lo allontana dalla letteratura, ma vede anche la possibilità di sperimentare nuove tecniche narrative. Alcune di queste sceneggiature, come quella de La notte brava, che ha scritto per Mauro Bolognini, sono “tra le migliori cose letterarie” che abbia mai fatto. Per alcune sceneggiature scrive una sinossi, per altre scene concrete o anche dialoghi. La notte brava è la prima sceneggiatura interamente concepita e scritta da Pasolini. Per Le notti di Cabiria Federico Fellini gli chiede di scrivere alcuni dialoghi per dare “colore locale” ai suoi personaggi dei bassifondi romani, e anche la scena del falso miracolo. Questa nuova attività permette a Pasolini di legarsi a personalità del cinema, come Bolognini e Fellini, che conteranno molto per lui. Tra il 1957 e il 1960 lavora a un numero impressionante di sceneggiature per i film di Bolognini e di Fellini (una per La dolce vita). / ...

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Borgata Quarticciolo, Roma, 1960

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Mauro Bolognini e Pasolini sul set del film La notte brava, 1959

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Marcello Mastroianni, Anouk Aimée e Pasolini sul set di La dolce vita, 1959

…/ Scrivendo per altri registi, gli viene voglia di scrivere un film suo, che potrebbe essere La commare secca, progetto che finirà per abbandonare, dopo Accattone, per girare invece Mamma Roma. Lo erediterà da lui il giovane Bernardo Bertolucci. Più tardi, all’inizio degli anni settanta, Pasolini scriverà due sceneggiature (Ostia e Storie scellerate) per Sergio Citti, il quale era stato molto importante per lui al suo arrivo a Roma per la conoscenza dell’ambiente e del linguaggio delle borgate. A. B.

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Alain Bergala - Può raccontarmi dell’arrivo di Pasolini nella casa di via Carini in cui lei abitava con suo fratello, sua madre e suo padre Attilio, poeta molto noto e apprezzato? Pasolini e suo padre si erano mai incontrati, o si erano soltanto scritti? Bernardo Bertolucci - Credo che si fossero già incontrati, ma in casa non avevo mai sentito parlare di lui. Una domenica pomeriggio, i miei genitori riposavano in camera come sempre dopo il pranzo domenicale, e io – non dovevo avere più di quattordici o quindici anni – ero con mio fratello. Poiché non avevamo la televisione leggevamo e digerivamo il pasto. Nel bel mezzo di questa specie di letargo qualcuno suona alla porta. Vado ad aprire e vedo un giovanotto, col vestito della domenica, la camicia bianca e l’abito scuro, che mi dice: “È in casa il signor Bertolucci? Ho un appuntamento.” Gli rispondo: “Non lo so, vado a vedere.” E, invece di farlo entrare e attendere in casa, l’ho lasciato fuori e sono corso da mio padre dicendo: “Papà, papà, svegliati! C’è qualcuno che vuole vederti, ma secondo me è un ladro.” E lui: “Ma ti ha detto come si chiama?” “Sì, mi ha detto che si chiama Pasolini.” “Ma che fai!? Fallo entrare subito, Pasolini è un bravissimo poeta!” Evidentemente, fin da quel primo incontro con Pier Paolo, avevo avvertito qualcosa di talmente forte nel suo viso, di così sconvolgente... Credo che abitasse ancora in via Fonteiana, non lontano da casa nostra a Monteverde Vecchio. Era una zona molto popolare, non più abitata dalla media borghesia come un tempo. Ricordo di essere andato a trovare Pier Paolo, a casa sua, sempre in via Fonteiana, quando morì suo padre. C’era la madre Susanna con due signore anziane vestite di nero che recitavano una specie di rosario accanto al defunto. Ci siamo seduti nel piccolo salone e stavamo entrambi in silenzio. A un certo punto ho trovato il coraggio di dirgli: “Pier Paolo, sono davvero triste per la morte di tuo padre.” E lui mi ha risposto: “Io no. Mio padre era un sottufficiale fascista.” Mi ha davvero sconvolto. Come si poteva parlare in quel modo del proprio padre, che era lì a cinque metri?...

anche a suo padre. Forse la sua vitalità era nata dall’aver lottato contro di lui. B.B. - Non lo sapevo. Per me è stata come una bestemmia, qualcosa che non avrei mai pensato possibile. Sulla via del ritorno, per la prima volta, ho pensato: ma allora si può odiare il proprio padre... A.B. - A quel tempo lei aveva già scritto delle poesie. All’età di sedici o diciassette anni pensava di seguire il percorso paterno e diventare poeta, o si interessava già al cinema?

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Trascrizione di un’intervista fatta a Bernardo Bertolucci da Alain Bergala il 15 gennaio 2013.

A.B. - Però poi, alla fine della sua vita, Pasolini ha affermato che quel che era diventato lo doveva

B.B. - Ho iniziato a comporre poesie quando ho imparato a scrivere, più o meno a sette anni. Le facevo leggere a mio padre, che era molto contento. A diciassette o diciotto anni non avevo smesso di scrivere e scendevo giù per le scale del palazzo di via Carini, dal quinto al primo piano, dove abitava Pier Paolo, per mostrare a lui le mie nuove poesie. Prima, appena ne finivo una, la mostravo sempre a mio padre. Ora non più, le facevo leggere a Pier Paolo che mi diceva cosa ne pensava. A vent’anni avevo messo insieme una raccolta di versi. Pier Paolo mi disse che dovevo pubblicarli con un editore milanese che aveva una piccola collana di poesie di Elsa Morante, di Pier Paolo... Lui per me era una nuova autorità vicina a quella di mio padre. Una poesia di Pier Paolo si intitola A un ragazzo. Racconta la tragica storia di Guido, suo fratello, che parte per unirsi alla Resistenza, e dice più o meno: “Ho visto che nascondeva una rivoltella in un libro di Montale.” Era un’immagine molto bella: Montale e una rivoltella. In una nota a questa poesia Pier Paolo scrive: “Il ragazzo è Bernardo Bertolucci, figlio del poeta Attilio Bertolucci e già bravissimo poeta lui stesso.” A diciannove anni, quando ancora non sapevo che avrei fatto del cinema, dopo gli esami io e mio cugino Giovanni abbiamo fatto un viaggio a Parigi: siamo partiti da Parma in 500 e abbiamo trascorso un mese laggiù. Era l’anno in cui è uscito Fino all ’ultimo respiro, e lì mi sono reso conto che in famiglia c’era già un poeta e io non avrei potuto mai fare bene quanto lui. Quando ero bambino mio padre mi portava molto al cinema, vedevamo i film appena usciti perché lui era il critico della “Gazzetta di Parma”.


A Susanna e Carlo Pasolini – Roma [Bari, 28 gennaio 1955] Carissimi, ieri partendo mi sono dimenticato, naturalmente!, di dirvi che avrei intenzione di invitare domenica sera a cena Elsa Morante e Moravia con Zigaina e (probabilmente) i Bassani. Saremmo nello stesso numero di quando sono venuti i Longhi. Dunque: prima di tutto la mamma faccia l’esame di coscienza e veda se si sente di affrontare con calma il nuovo tour de force. Poi, il babbo dovrebbe telefonare subito a Elsa Morante e chiederle se per Domenica sera lei e Moravia sono liberi e disponibili (Zigaina deve partire lunedì e lui – diglielo – ci terrebbe molto a passare un’altra sera insieme). Vi scrivo per espresso sperando che sappiate la cosa domani mattina anziché domani dopopranzo al mio arrivo (per la spesa). Il viaggio è stato ottimo, i tipi baresi simpaticissimi e la Borboni uno spettacolo. Vi bacio Pier Paolo

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Elsa Morante, Alberto Moravia e Pasolini (1960) Quando Pasolini arrivò a Roma nel 1950 la vita culturale della capitale era molto diversa da oggi. A parte qualche caso particolare (come quello del poeta Sandro Penna, che viveva molto isolato a causa della sua omosessualità dichiarata), essa si svolgeva in gran parte nelle redazioni delle riviste e nei luoghi di ritrovo. I ristoranti di via dell’Oca e di via della Penna, come pure il Bolognese a piazza del Popolo, erano molto frequentati dagli scrittori, e così pure Cesaretto in via della Croce, la Carbonara a Campo de’ Fiori o caffè come il Rosati e Canova, sempre a piazza del Popolo, o il Doney e il Café de Paris in via Veneto. All’ora di colazione la Trattoria Romana tra via Frattina e via Mario de’ Fiori era tra le preferite e lì si ritrovavano registi di cinema e di teatro come Mauro Bolognini, Franco Zeffirelli, Mario Missiroli, costumisti come Piero Tosi (fondamentale per tutte le regie teatrali e cinematografiche di Luchino Visconti), attrici come Adriana Asti e Laura Betti. /…

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Carlo Levi e Pasolini (1960)

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…/ La sera, invece, i gruppi erano meno misti. Gli “amici del Mondo” (cioè dell’omonima rivista diretta da Mario Pannunzio) si incontravano in via Veneto (tra essi lo scrittore siciliano Ercole Patti, lo sceneggiatore Sandro De Feo e il giovane Eugenio Scalfari). Pasolini, Moravia e Elsa Morante cenavano d’abitudine con Laura Betti, con lo scrittore Giorgio Bassani, il critico Cesare Garboli, qualche volta con il pittore Renato Guttuso, allora “sugli scudi”, e con Carlo Emilio Gadda, il grande romanziere autore di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana e della Cognizione del dolore. Ci si incontrava in genere dopo teatro o dopo la prima di un film, si facevano le ore piccole per commentare i fatti del giorno, o un libro appena uscito. La dolce vita di Fellini, pur trasfigurandolo poeticamente, avrebbe descritto proprio questo mondo, tanto che lo scrittore Alberto Arbasino, quando vide il film, lo commentò con queste parole: “Quelli siamo noi!” E per certi versi il capolavoro di Fellini fu l’apice di tutto questo, come anche l’inizio della fine. Perché quella “dolcezza di vivere”, quell’allegria un po’ incosciente, che caratterizzarono gli anni del “miracolo italiano”, non si sarebbero più riproposte.

Alberto Moravia, Pasolini e Laura Betti, in trattoria da Cesaretto, 1961

G. B.

Alberto Moravia, Pasolini e Roberto Rossellini, 1961

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Pasolini, Laura Betti e Goffredo Parise al Ninfeo di Villa Giulia, in occasione del Premio Strega, 1960

Laura Betti a casa sua, 1961

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Laura Betti a casa sua con il manifesto dello spettacolo Giro a vuoto, 1960

Libretto dello spettacolo di Laura Betti, Giro a vuoto, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1960, copertina originale


Da Giro a vuoto, 1960.

Valzer della toppa Me so’ fatta un quartino m’ha dato a la testa, ammazza che toppa! A Nina, a Roscetta, a Modesta, lassateme qua!

An vedi le foje! An vedi la luna! An vedi le case! E chi l’ha mai viste co’ st’occhi? Me vie’ da canta’. Lasseme perde, va da n’altra, stasera, a cocco, niente da fa! E poi so’ vecchia, ciò trent’anni e er mondo ancora l’ho da guardà! Mamma mia che luci che vedo qua attorno! Le vie de Testaccio me pareno come de giorno, de n’altra città! An vedi le porte! An vedi li bari! An vedi la gente! An vedi le fronne che st’aria te fa sfarfallà! Va via a moretto, fa la bella, stasera godo la libertà, spara er Guzzetto e torna a casa che mamma tua te stà a aspettà! Me so’ presa la toppa e mò so’ felice! Me possi cecamme me sento tornata a esse un fiore de verginità! Verginità! Verginità! Me sento tutta verginità! Che sarà! Che sarà! Che sarà! Musica di Piero Umiliani

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Da La religione del mio tempo, 1961.

Il mio desiderio di ricchezza

Vado anch’io verso le Terme di Caracalla, pensando – col mio vecchio, col mio stupendo privilegio di pensare… (E a pensare in me sia ancora un dio sperduto, debole, puerile: ma la sua voce è così umana ch’è quasi un canto.) Ah, uscire da questa prigione di miseria! Liberarsi dall’ansia che rende così stupende queste notti antiche! C’è qualcosa che accomuna chi sa l’ansia e chi non la sa: l’uomo ha mille desideri. Prima d’ogni altra cosa, una camicia candida! Prima d’ogni altra cosa, delle scarpe buone, dei panni seri! E una casa, in quartieri abitati da gente che non dia pena, un appartamento, al piano più assolato, con tre, quattro stanze, e una terrazza, abbandonata, ma con rose e limoni… Solo fino all’osso, anch’io ho dei sogni che mi tengono ancorato al mondo, su cui passo quasi fossi solo occhio… Io sogno, la mia casa, sul Gianicolo, verso Villa Pamphili, verde fino al mare: un attico, pieno del sole antico e sempre crudelmente nuovo di Roma; costruirei, sulla terrazza una vetrata, con tende scure, di impalpabile tela: ci metterei in un angolo, un tavolo fatto fare apposta, leggero, con mille cassetti, uno per ogni manoscritto, per non trasgredire alle fameliche gerarchie della mia ispirazione… Ah, un po’ d’ordine, un po’ di dolcezza, nel mio lavoro, nella mia vita… Intorno metterei sedie e poltrone, con un tavolinetto antico, e alcuni antichi quadri, di crudeli manieristi, con le cornici d’oro, contro gli astratti sostegni delle vetrate… Nella camera da letto (un semplice lettuccio, con coperte infiorate tessute da donne calabresi o sarde) appenderei la mia collezione di quadri che amo ancora: accanto al mio Zigaina, vorrei un bel Morandi, un Mafai, del quaranta, un de Pisis, un piccolo Rosai, un gran Guttuso…

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Filippo de Pisis, Il nudino rosa, 1931 — Museo d’Arte Moderna e Contemporanea “Filippo de Pisis”, Ferrara Donazione Franca Fenga Malabotta, 1996


Giorgio Morandi, Natura morta, 1954 — Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, Firenze


Giorgio Morandi, Natura morta, 1954 — Collezione G. Farinon


Immagini dei sopralluoghi per il film Accattone (Foto di Tazio Secchiaroli)

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L’occhio della spia che guarda: la faccia loffia e attenta, come quella di un messo di Dio che sorveglia gli atti terreni di Accattone. E cosa vede? Accattone che va al lavoro. Figurarsi un po’ i compari al baretto, le risate! Seguito dall’occhio che lo spia, Accattone si presenta a un’officina dove l’ha presentato suo fratello più piccolo Sabino, un adolescente fresco come una rosa: si presenta, gli chiedono cosa sa fare, niente, gli danno una tuta, si veste in tuta, tutto lavoratore, e per prima cosa lo mandano a comprare un bullone. Un bullone! Lo va a comprare da suo fratello che lavora al banco della ferramenta. Torna col bullone, e, con un altro più anziano, lo mandano con un furgoncino a caricare ferro. Tutto docile, Accattone: mo me ne vado su e giù pe’ Roma co ’sto furgone, che, è un lavoro pure questo! Arrivano a un magazzino, e cominciano a caricare stanghe di ferro. Devono portarlo allo scalo merci di San Lorenzo dove stanno costruendo una tettoia-invetriata. 180 quintali! In un pomeriggio! Alla fine, Accattone è uno straccio, non si riconosce più. Sotto l’occhio che lo spia, torna alla Marranella, passa davanti al baretto. Nuove sfottiture, lui risponde, una parola, un’altra parola, fanno a botte: e i vecchi compari lo massacrano. Irriconoscibile, sorvegliato dall’occhio loffio, torna a casa: nella catapecchia del Pigneto dove lo aspetta Stella, e Nannina, con tutte le sue creature affamate, come uccelletti. Caccia dalla saccoccia la grana guadagnata in tutta quella giornata di lavoro: mille lire. Litiga furioso con le donne. Riesce – sempre pedinato – e va nella vecchia bettola. Lì c’è il gratta compare suo, il Balilla, e s’imbriaca con lui.

neri. Il Balilla è un gratta all’antica, è rimasto ancora ai tempi della borsa nera: è felice se alla sera torna a casa con due ruzziche di seicento. Comunque meglio due ruzziche di seicento che le mille lire alla fine di una giornata di lavoro, con centottanta quintali incollati. E cammina e cammina. Perché tutta quella fiumana di gente, a fette e sui tranvi, con in mano mazzi di fiori più grandi di loro? È il giorno dei morti, Accattone manco ce lo sapeva. Le campane suonano a morto. Sotto l’occhio che li segue, arrivano finalmente a un pizzo bravo. Si sono fatti a fette mezza Roma, e sono dalle bande di Ponte Milvio. Col carrettino vanno accanto a un furgone che sta scaricando dei salami a una pizzicheria. Un attimo, zac zac, riempiono mezzo carrettino di salami, e li coprono, zac zac, in un attimo di fiori, e vanno avanti. Nel frattempo l’occhio si è fatto dito e voce, e sta telefonando in questura. Col cuore pieno di allegria e di rinnovata fiducia nella vita, i tre spingono animosi il carrettino pieno di fiori (davanti a una Madonnina, Ac. si fa il segno della croce), e stanno per imboccare Ponte Milvio. Arriva la polizia. Il neno lo acchiappano subito, che si svocia e si svincola. Pure Cartagine si fa acchiappare, lungo l’argine del Tevere, tra gli spini. Accattone scappa per il Ponte, è già quasi notte, tutti i lumi accesi. Ma pure dall’altro pizzo del ponte arrivano le giuste. Allora Accattone sale sulla spalletta, accanto a due ragazzini che passano. “Che fijo de ’na mignotta” fa uno di questi. Accattone si tuffa dal ponte, arrotando i denti, piangendo. Vola nell’acqua. I ragazzini, le giuste, si sporgono. Non si vede niente, solo l’acqua nera che fila, e buonanotte.

Dal trattamento di Accattone (1960).

[…]

L’occhio osserva. Accattone, il Balilla e Cartagine spingono un carrettino. Se ne vanno per bella, già stanchi morti, benché sia mattina presto. E cammina e cammina. Il Balilla, vecchiotto, coi piedi dolci, è su di giri, pieno di fiducia nell’avvenire. I due giovincelli sono

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Da Mamma Roma, 1962.

Diario al registratore 3 maggio 1962 […]

Per esempio, per quel che riguarda Accattone, ci sono in questo film degli elementi tecnici estremamente appariscenti, sia per la loro mancanza che per la loro presenza. Vorrei fare alcuni esempi. In Accattone mancano moltissimi degli accorgimenti tecnici che vengono generalmente usati: in Accattone non c’è mai un’inquadratura, in primo piano o no, in cui si veda una persona di spalle o di quinta; non c’è mai un personaggio che entri in campo e poi esca di campo; non c’è mai l’uso del dolly, con i suoi movimenti sinuosi, “impressionistici”, rarissimamente vi sono dei primi piani di profilo o, se ci sono, sono in movimento. E così un’infinità di altri particolari tecnici di questo tipo. Ora per tutto questo ci sarà pure una spiegazione. Ma, una spiegazione, presuppone un’impostazione analitica, un rilievo filologico. Per me tutte queste caratteristiche che ho qui elencato frettolosamente, sono dovute al fatto che il mio gusto cinematografico non è di origine cinematografica, ma figurativa. Quello che io ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto – che sono i pittori che amo di più, assieme a certi manieristi (per esempio il Pontormo). E non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica, trecentesca, che ha l’uomo come centro di ogni prospettiva. Quindi, quando le mie immagini sono in movimento, sono in movimento un po’ come se l’obiettivo si muovesse su loro sopra un quadro; concepisco sempre il fondo come il fondo di un quadro, come uno scenario, e per questo lo aggredisco sempre frontalmente. E le figure si muovono su questo sfondo sempre in maniera simmetrica, per quanto è possibile: primo piano contro primo piano, panoramica di andata contro panoramica di ritorno, ritmi regolari (possibilmente ternari) di campi, ecc. ecc. Non c’è quasi mai un accavallarsi di primi piani e di campi lunghi. Le figure in campo lungo sono sfondo e le figure in primo piano si muovono in questo sfondo,

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seguite da panoramiche, ripeto, quasi sempre simmetriche, come se io in un quadro – dove, appunto, le figure non possono essere che ferme – girassi lo sguardo per vedere meglio i particolari. Sicché la mia macchina da presa si muove su fondi e figure sentiti sostanzialmente come immobili e profondamente chiaroscuri.

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Quando Pasolini gli illustra il suo progetto per Accattone, Fellini gli propone di produrlo con la sua società Federiz. Pasolini non accetta quella prima offerta perché è in trattative per un altro progetto cinematografico – La commare secca – con due giovani produttori, Tonino Cervi e Alessandro Iacovoni. I due mostrano però una certa riluttanza di fronte alla sua decisione di utilizzare attori sconosciuti e privi di esperienza. Quindi Pasolini torna da Fellini, che gli propone di fare tre giorni di riprese. Pasolini si dedica con entusiasmo febbrile a questo primo esperimento, e Fellini manda suo fratello come produttore esecutivo (è presente in molte fotografie). Una volta montate le scene girate, Fellini fa sapere a Pasolini di averle viste, ma lo fa attendere parecchi giorni prima di dargli una risposta, sfuggendo alle sue telefonate. Il regista esordiente si sente un po’ solo e abbandonato. Alla fine Fellini ammette che lo stile e il ritmo delle riprese non lo hanno convinto. Pasolini, intimamente sicuro delle sue scelte, gli risponde che se dovesse rifare tutto da capo non cambierebbe neanche una virgola. Alla fine sarà Alfredo Bini a produrre Accattone nonché i cinque lungometraggi seguenti, fino a Edipo re. Per quell’episodio Pasolini non serberà rancore a Fellini, anzi stringerà con lui una solida amicizia, e Fellini sosterrà Accattone all’uscita nelle sale.

Federico Fellini e Pasolini durante le prime riprese di Accattone, 1961

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Pasolini durante le prime riprese di Accattone, 1961

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Pasolini e Alfredo Bini sul set di Accattone

Pasolini e Riccardo Fellini durante le prime riprese di Accattone

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A dire il vero, era molto che pensavo di fare un film. Idea con radici molto lontane. Da ragazzo a Bologna amavo il cinema almeno come Pietro Bianchi.** E devo dire, a distanza di anni, che i film di Charlot, di Dreyer, di Eisenstein hanno avuto, in sostanza, più influenza sul mio gusto e sul mio stile che il contemporaneo apprendistato letterario: subito dopo, s’intende, di letture epiche di un adolescente, Shakespeare e Dostoevskij. Poi, in questo ultimo periodo, ci sono stati dei motivi immediati: una specie di rabbioso capriccio, nei confronti di registi e produttori (La notte brava, Morte di un amico), il desiderio di veder realizzati fatti, persone, scene, proprio come io, scrivendo, li vedo. Questa mia ripicca si è trasformata poi in una specie di vera e propria ispirazione, che in questi ultimi mesi non mi ha dato più pace. Il film Accattone, dovevo farlo coi produttori Cervi e Iacovoni. Dovevo partire ai primi di settembre. Ma, in quei giorni, improvvisamente, e del resto non inaspettatamente, i due produttori mi sono sembrati incerti, distratti, assenti. O ero io che avevo la coda di paglia? Non senza giustificazione, tuttavia: dato, diciamo, il mio stato di disgrazia presso il mondo ufficiale e clericale. Così sono andato da Fellini. Che proprio durante l’estate aveva fondato la “Federiz”, con Rizzoli: e mi aveva chiesto più volte, con Fracassi, di produrre lui il mio film. Anzi, aveva fatto delle trattative coi due giovanotti dell’Ajace: senza però arrivare a un accordo (che avrebbe dovuto essere la coproduzione). Il mio contratto con Cervi e Iacovoni era però per un altro soggetto, La commare secca, che avevo abbandonato: non avevo per questo ricevuto alcun anticipo, e ero perciò libero. L’estate stava passando, la mia ispirazione era, come dire, intrattenibile. Sono andato da Fellini, che mi ha accolto con un grande abbraccio. Proprio in quei giorni dei primi di settembre, stava arredando la nuova sede della società in via della Croce: cosa che faceva con felicità e fierezza di ragazzo: naturalmente anche un po’ civettando. Abbracciandoci, abbiamo cominciato il lavoro.

Ho così passato, credo, i più bei giorni della mia vita. Avevo presenti quasi tutti i personaggi, e ho cominciato a farli fotografare, decine e decine di fotografie. Con un fotografo fedele, tutto preso dalla verginità del mio entusiasmo; col figlio di Bertolucci, Bernardo, altrettanto preso. Le facce, i corpi, le strade, le piazze, i mucchi di baracche, i frammenti di palazzoni, le pareti nere dei grattaceli spaccati, il fango, le siepi, i prati delle periferie sparsi di mattoni e di immondizia: ogni cosa si presentava in una luce fresca, nuova, inebriante, aveva un aspetto assoluto e paradisiaco. Accattone, Giorgio il Secco, lo Scucchia, Alfredino, Peppe il Folle, lo Sceriffo, il Bassetto, il Gnaccia; e poi il Pigneto, via Formia, la Borgata Gordiani, le strade di Testaccio; e le donne, Maddalena, Ascensa, Stella; e il Balilla, e Cartagine… Tutti sono stati fissati in sfarzose fotografie, scelte e ordinate: un materiale frontale, ma ben altro che stereotipo, allineato a aspettare di muoversi, di vivere. Poi, su suggerimento di Fellini, ho fatto delle prove: ho girato cioè, quasi per intero, due scene del film. Erano giorni stupendi, in cui l’estate ardeva ancora purissima, appena svuotata un po’ dentro, dalla sua furia. Via Fanfulla da Lodi, in mezzo al Pigneto, con le casupole basse, i muretti screpolati, era di una granulosa grandiosità, nella sua estrema piccolezza; una povera, umile, sconosciuta stradetta, perduta sotto il sole, in una Roma che non era Roma. L’abbiamo riempita: una dozzina di attori, l’operatore, i macchinisti, i fonici. Ma poiché non c’erano i “gruppi” – di cui io non ho mai voluto sentir parlare – l’operazione aveva un’aria tranquilla: sembravamo operai in mezzo agli altri operai che lavoravano nelle piccole officine del Pigneto. Non avrei mai immaginato che il lavoro della regia fosse così straordinario. Sceglievo il modo più rapido e semplice per rappresentare quello che avevo scritto nella sceneggiatura. Piccoli blocchi visivi giustapposti con ordine, quasi con rozzezza. C’era dentro di me la suggestione di Dreyer: in realtà seguivo una norma di assoluta semplicità espressiva. Sarebbe troppo lungo entrare nei particolari: la lotta con la luce, in continuo, ossessionante mutare, la lotta con la vecchia macchina da presa, la lotta con i miei attori di Tor Pignattara, tutti,

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La vigilia. Il 4 ottobre* […]


come me, al loro primo set. Ma erano lotte che si risolvevano sempre in piccole, consolanti vittorie. Per le tre notti che ho girato, non ho dormito. Pensavo sempre come in una specie di incubo radioso al film: a destarmi di soprassalto, ogni pochi minuti, erano come delle brevi, piacevoli emorragie interne, in testa alle quali comparivano le inquadrature o il seguito di inquadrature della scena che avrei girato il giorno dopo; o delle scene che man mano nel sonno mi venivano in mente. Ho passato una intera notte abbacinato dal sole del Ciriola sul Tevere, sotto Castel Sant’Angelo, con le facce di Alfredino e di Luciano, che ridevano, strizzando gli occhi e le rughette intorno agli occhi, in quel loro riso malandrino che abolisce ogni regola della vita, in un’allegria storica e antica. Facce di peoni, di mozzi del Potemkin, di frati. I travagli con la stampa, con la moviola, col montaggio, con le colonne sonore, richiederebbero un volume di memorie: specie per i non iniziati, come del resto ero io. Finalmente le due scene furono pronte, ed è cominciata questa attesa che non avrebbe ragione di avere dubbi, e, invece, è così cosciente di basarsi sul nulla, su una sorte che non si muove, senza futuro. * Testo pubblicato inizialmente con il titolo Il 4 ottobre in “Il Giorno”, 16 ottobre 1960, poi in Accattone, 1961. ** Critico cinematografico italiano (1909-1976). Il premio della critica al Festival di Venezia porta il suo nome.

[…] La Federiz è vuota e disponibile, con le sue belle tende bianche listate di verde, di buona tela, i suoi mobili da ricco e arioso refettorio: entro, e subito lì, senza mistero, ecco Riccardo Fellini, ecco Fracassi nel suo ufficio. Come entro io, entra per caso anche Fellini dalla porta interna. Il grande Mistificatore non sa nascondere, nell’occhio bistrato, che giunge inaspettato, e un po’ prematuro: ma mi accoglie abbracciandomi. È pulito, liscio, sano come una fiera nella gabbia. Mi porta di là, nel suo studio. E, come si siede, mi dice subito che vuol essere sincero con me (ahi), e che il materiale che ha visto, no, non l’ha convinto… […]

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123 Pasolini e Bernardo Bertolucci durante le riprese di Accattone, 1961


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Manifesto del film Accattone, 1961

Pasolini, Federico Fellini e Alfredo Bini a un dibattito contro la censura italiana al film Accattone, 1961


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Accattone, 1961


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126 Accattone, 1961


Pasolini, Anna Magnani e Roberto Rossellini in visita sul set di Mamma Roma, 1962 Pasolini e Anna Magnani sul set di Mamma Roma, 1962 Come protagonista di Mamma Roma Pasolini sceglie Anna Magnani, diventata attrice simbolo della popolana romana con Roma città aperta di Roberto Rossellini. Eppure il corvo di Uccellacci e uccellini annuncerà: “Il tempo di Rossellini è finito!” Che cosa possiamo dire, quindi, del rapporto tra Pasolini e il maestro del cinema neorealista? In effetti il poeta ammirava il Rossellini di Roma città aperta: racconta che in Friuli, per vederlo, aveva percorso chilometri in bicicletta, e dopo averlo rivisto al Cinema Nuovo di Roma gli dedica versi commossi. La modesta cupola che si vede nel finale di Mamma Roma ripropone in una versione “di borgata” quella di San Pietro alla fine di Roma città aperta. Ma l’opera di Rossellini che Pasolini amerà sopra ogni

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altra, e che prefigura il suo stile cinematografico, rimane Francesco, giullare di Dio (1950), in cui tutto ciò che è filmato si fa sacro. Fin dal suo primo lungometraggio Pasolini vuole distinguersi nettamente dall’eredità di Rossellini e De Sica; ritiene infatti che lo stile neorealista rifletta una visione del mondo che all’inizio degli anni sessanta è da considerare completamente superata. Alla fluidità naturalistica del mondo ritratto da quei registi egli contrappone il suo gusto più mirato a isolare e trasformare in icone le cose del mondo, per consacrarle o dissacrarle una a una. Al piano-sequenza, che secondo Rossellini garantiva (almeno a parole) la continuità di una realtà “senza cesure”, Pasolini oppone la forza dissociativa e sintetizzante del montaggio. /…


…/ In difesa di Pasolini testimoniano molti importanti intellettuali, da Moravia a Ungaretti, da Attilio Bertolucci a Carlo Bo, prestigioso critico letterario di fede cattolica. Alla fine del dibattimento è lo stesso pubblico ministero a chiedere l’assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”. Tra il 1960 e il ’61 la persecuzione giudiziaria contro il poeta raggiunge il suo apice. Pasolini viene denunciato per i “fatti di via Panico”, per essere intervenuto a sedare una rissa tra ragazzi che conosceva. Viene poi denunciato per corruzione di minorenni per i “fatti di Anzio”, per aver rivolto la parola a due ragazzini nei pressi di un ristorante sul mare. E infine – e siamo veramente al grottesco – per aver tentato di rapinare un benzinaio nei pressi del Circeo con un revolver dalle pallottole d’oro! Dal 1961 Pasolini comincia a girare dei film. Inutile dire che pressoché tutti (tranne Il Vangelo) saranno denunciati e processati. La ricotta vedrà il pubblico ministero utilizzare persino la moviola in aula per analizzare ogni singola sequenza del film. Teorema sarà accusato di oscenità malgrado fosse stato premiato alla Mostra di Venezia dall’Office catholique international du cinéma. E Salò sarà condannato al rogo nonostante il regista fosse già stato assassinato. Naturalmente, tutti questi processi si concluderanno immancabilmente con l’assoluzione del poeta.

“Lo Specchio”, 30 settembre 1962

G. B.

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Processo per l’affare della stazione di servizio del Circeo al Tribunale di Latina, luglio 1962 Processo per la protesta al Festival del cinema di Venezia nel 1968, Venezia, 6 agosto 1969 (da sinistra: Cesare Zavattini, Pasolini, Lionello Massobrio, Francesco Maselli, Alfredo Angeli e Filippo De Luigi)

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Pasolini e Ninetto Davoli a Venezia, inizio anni settanta

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