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Mauro Natale Serena Romano
“Arte lombarda dai Visconti agli Sforza” La costruzione di un percorso
“A
rte lombarda dai Visconti agli Sforza”: così Gian Alberto Dell’Acqua e Roberto Longhi chiamarono la grande esposizione che nell’aprile del 1958 si aprì a Milano, nello stesso Palazzo Reale che oggi accoglie la nostra. L’omaggio, da parte dei curatori ovviamente deliberato, vuole segnalare fin dal primo momento un fatto certo ben chiaro a tutti coloro che studiano e amano l’arte lombarda del tardo Medioevo e del Rinascimento: la mostra di Longhi e Dell’Acqua, sbalorditiva per numero e qualità degli oggetti, per novità e nettezza di visione storica, riuscì, allora, a trasformarsi in una tappa di studio e di giudizio critico ben superiore a quelli, talora effimeri, degli eventi espositivi; divenuta filtro per l’intero campo di studio, nessuno più, da allora, ha potuto prescindere – magari per discuterli e criticarli – dagli inquadramenti longhiani; da lì sempre, ancora, ci si muove. Concise all’estremo le schede sugli oggetti, asciugata ma a dir poco ispirata l’introduzione di Longhi, che sdegna note e apparati critici ed espone il succo essenziale della riflessione sua e dei suoi compagni di lavoro, il catalogo del 1958 ha ancora un posto d’onore sul tavolo di tutti gli studiosi di oggi.
Milano 1958 Alessandro Rovetta e le sue collaboratrici Laura Binda e Alessandra Squizzato hanno ritrovato molti materiali audiovisivi, grafici, editoriali, che integrano il percorso della mostra di oggi e la collegano idealmente al suo “prototipo” del 1958; e l’ottimo articolo di Tiziana Barbavara di Gravellona (2008) ha ricostruito con precisione gli eventi che la precedettero e la lunga gestazione, interamente radicata nei traumi e nei gravissimi rischi della guerra, dell’idea di mettere in scena e
valorizzare il grande patrimonio dell’arte lombarda. I “Tesori d’arte di Lombardia”, organizzata a Zurigo nel 1948 sotto la spinta e l’energia di Ettore Modigliani e di Fernanda Wittgens, era stato ancora un atto legato agli eventi bellici e finalizzato a raccogliere fondi per la ricostruzione dei musei lombardi danneggiati o distrutti dalla guerra (in primis il Museo Poldi Pezzoli); era un progetto inteso a presentare una straordinaria galleria di capolavori e oggetti preziosissimi, su un arco di tempo vertiginoso, dalla preistoria alla fine del Settecento, un fior fiore di tanti secoli di civiltà artistica nella molteplicità di tecniche, dall’avorio al legno, al dipinto e alla scultura in pietra. Costantino Baroni però, nella recensione pubblicata nel “Burlington Magazine” (Baroni 1949) insisteva già sulla “plenitude of their stylistic expression, achieved in the service of a specific culture, which possessed an earnestness and originality of its own, without necessarily gravitating toward the pole of Tuscan classicism”. Il brain storming che avrebbe portato alla mostra del 1958 era quindi già pienamente in atto: e le persone che vi contribuirono in modo cruciale erano tutte già lì, Baroni, la Wittgens, e via via un ruolo sempre più centrale sarebbe stato assunto da Gian Alberto Dell’Acqua, che ebbe ufficialmente la cura di “Arte lombarda dai Visconti agli Sforza”, e da Roberto Longhi, la figura con la quale la mostra si identificò forse più che con chiunque altro, in un processo di internazionalizzazione del tema di studio e di contesto nazionale, critico e storiografico, ad esso indispensabile. Era il punto d’arrivo del lungo lavoro di ricerca, di valorizzazione e di restauro del patrimonio artistico svolto dai già citati Dell’Acqua, Wittgens, Russoli; del ruolo che tutti loro, personalità di alto 17
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livello morale e intellettuale, avevano svolto negli istituti di tutela cittadini per difendere il patrimonio milanese e lombardo durante la guerra; era, soprattutto, l’affermazione di un’identità, la dimostrazione della grandezza di una tradizione culturale e artistica, finalmente liberata “dagli ultimi residui del lungo complesso d’inferiorità che l’ha ostinatamente tenuta in soggezione al confronto d’altre regioni d’Italia” (Longhi 1958a, p. XVII). A Palazzo Reale, l’arte lombarda si presentava come la solida e originale manifestazione di una regione geograficamente compatta e politicamente strutturata di cui i curatori e Roberto Longhi rintracciavano e rivendicavano l’autonomia espressiva (“Ma resta pure lombarda la conclusione che è di immergere tutto il quadro in un bagno di ori…”, ivi, p. XXXVI). L’allestimento minimalista, le cui immagini si sono conservate nelle fotografie di Mario Perotti (felicemente pubblicate in Facchinetti, Vittucci 2002), rinunciava a qualsiasi ornamento o ammiccamento, in geniale contatto con le ricerche artistiche contemporanee della Milano vivacissima e fertile degli anni cinquanta e sessanta del Novecento. Al centro della riflessione della mostra del 1958 e dei suoi precedenti era, dunque, il concetto di “lombardo”: un concetto difficile, sfrangiato (utilissimi ora, per capirne i contorni, i saggi di Zancani 1998 e Zaggia 2010), e nondimeno essenziale per un’equilibrata visione della storia dell’arte, e della storia tout court, italiana ed europea. Longhi – che apre la sua Introduzione al catalogo con la celebre perorazione in cui accusa, di fatto, i lombardi di non aver saputo costruire una loro storia della cultura perché incapaci di produrre una “critica illuminante”, e di aver quindi provocato “la lunga dimenticanza dei valori d’arte di Lombardia” – ricercava una “schedatura di valori che, mentre s’inseriscono a buon diritto nel corpo dell’arte d’Italia, rilevano certe persistenze di aspetti e preferenze poetiche che sarà ormai ingiusto chiamare altrimenti che ‘lombarde’”. L’affermazione, così forte e decisa, segnò un discrimine negli studi e di certo funzionò anche come un appello alla responsabilità degli studiosi, che nel loro lavoro specialistico e professionale sapevano ora di dover fronteggiare un problema anche civile, e certamente una delle questioni di fondo che attengono alla costruzione delle gerarchie culturali italiane, da Dante fino a oggi, passando per il punto cruciale della critica di Giorgio Vasari. Milano 2015 A sua volta edificato su molti decenni ormai di ricerche, non solo italiane, che hanno lavorato sul detta-
glio e sui concetti di fondo, con moltissime nuove scoperte, restauri, ridatazioni, riattribuzioni, il progetto di terzo millennio non poteva non essere profondamente diverso da quello del 1958. Riassumerne qui molto sinteticamente le linee portanti non è cosa facile: una più dettagliata narrazione degli enjeux di ogni nucleo espositivo si troverà nelle introduzioni alle singole sezioni. Per dire però qualcosa degli intenti fondamentali, torniamo ancora una volta a Longhi e al suo j’accuse, per mantenerne il valore culturale e civile, ma anche per accostare al ritratto del “vuoto” da lui tracciato qualche nozione ulteriore. Longhi infatti, e con lui Dell’Acqua, Russoli, la Cipriani, Belloni, Mazzini, operarono sullo sfondo di una tradizione che, pur tardiva rispetto a quella per esempio toscana, e strutturalmente certo molto diversa, aveva garantito al progetto la sua solida base, diremmo anzi i suoi pilastri fondatori. Il volume di Toesca (1912) sulla Pittura e miniatura nella Lombardia, che Longhi esplicitamente cita con il più deferente degli omaggi attestando che senza di esso “questa mostra non si sarebbe potuta, non dico condurre, ma neppure immaginare”, era infatti la conclusione personale, originalissima e incredibilmente sapiente di una lunga stagione di studi che non aveva certo implicato solo il campo storico-artistico, ma aveva accomunato quello letterario, e filologico, e documentario-archivistico, con esiti che sono per gli studi di oggi ancora referenze obbligate. Con salde radici nella grande erudizione settecentesca di Muratori e Argelati, il lavoro di studiosi come Medin sui Visconti (1885; Lamenti storici 1887-1894; Medin 1891), di Luzio e Reiner sui Gonzaga (1899-1903 [ed. 2006]), di Sabbadini sugli umanisti (impossibile citarli tutti: ricordiamo il volume del 1891 su Panormita e Valla e quello sulla scoperta dei codici latini e greci del 19051914), di D’Adda (1875-1879) e Mazzatinti (18861888) sui manoscritti, di Francesco Novati, filologo mirabile e di orizzonti larghissimi (ricordiamo la sua cura del Petrarca e la Lombardia del 1904, ma anche i Freschi e minii del Dugento del 1908), si affianca a quello di Luca Beltrami o di Carlo Magenta, e poi di Francesco Malaguzzi Valeri: con esiti assolutamente fluviali per dimensione e monumentali per serietà di assunti e per un vero e proprio accanimento di ricerche documentarie e archivistiche, base ineliminabile per chi si occupi di arte viscontea e sforzesca a Milano, a Pavia, nell’intera Lombardia (per una prima informazione, Beltrami 1894 e 1896; Magenta 1883 e 1897; Malaguzzi Valeri 1913-1923). Permangono, certo, la rarità e l’insufficienza critica anteriori: anche nelle ricerche recenti non molto si è aggiunto a quan-
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to Longhi aveva a disposizione sul Trecento e il primo Quattrocento, anzi si direbbe che oltre alla menzione di Giotto pubblicata da Agosti (1997) il lamentato silenzio rimane tale (qualche novità interessante a proposito del padre Resta in Bonardi 2013). Ma la stagione positivistica, che non era “critica” in senso longhiano – troppo recente, ovviamente; e non selettiva, quindi non alla ricerca di valori “poetici” – aveva dato frutti e materiali di studio non ancora esauriti. Né vanno dimenticati gli studi di Meyer (1893, 1894b, 1897-1900, per non citarne che alcuni) e Adolfo Venturi (i volumi IV-VIII della Storia dell’arte italiana, 1906-1923) e la funzione eccellente di riviste come l’“Archivio storico lombardo” o “Arte decorativa e industriale” e dei materiali anche visivi che esse offrivano. I monumenti lombardi erano quindi apparsi potentemente all’orizzonte degli studi: monumenti di architettura, di arte, ma anche di lettere e d’archivio, secondo un modo di intendere che poi, in un contesto e con intenzioni molto diversi, si affaccia nella Francia degli anni sessanta e settanta e nella discussione sul document/monument su cui intervennero, per citare qualche nome, Foucault (1969) e Le Goff (1978), insistendo sul valore memoriale di ambedue. Ognuno degli elementi qui così rapidamente evocati meriterebbe approfondimento, e molti sono stati peraltro eccellentemente studiati: basti ricordare i saggi di storiografia artistica lombarda raccolti da Alessandro Rovetta (2004), il recente catalogo della mostra su Luca Beltrami (Milano 2014b), gli atti del convegno su Malaguzzi Valeri (Francesco Malaguzzi 2014) e quelli che verranno su Camillo Boito, frutto del convegno organizzato nel 2014. A essi, e a tutta l’estesissima bibliografia studiata, raccolta e citata nel nostro catalogo, rimandiamo. Quanto al concetto di “lombardo”, oggi, dopo tanta acqua certo non solo storico-artistica passata sotto i ponti, la mostra è stata molto meno preoccupata di andare a cercare gli elementi di “vero” lombardismo – scettici, i curatori, sull’identificare senz’altro un dato primigenio nell’istinto realistico o in altri elementi pur importantissimi – e molto di più, invece, di ricomporre nel ritratto della produzione artistica di epoca viscontea e sforzesca i tratti di un’immensa e dinamica convergenza di elementi, di una cultura che per situazione storica, geografica e politica nasce al cuore dell’Europa medievale e moderna e a essa rimane costantemente aperta fino a che gli eventi politici ne cambiano i connotati inaugurando una fase storica strutturalmente diversa. Le parole di Enrico Castelnuovo – “Lo spazio artistico è un oggetto sfuggente, senza spartiacque fissi né confini
linguistici, uno spazio non sovrapponibile a quello fisico, politico, linguistico e che può variare secondo il punto di vista da cui viene considerato” (Castelnuovo 1987, p. 251) – suonano ancora perfettamente attuali. È uno spazio percorso da tragitti di mode e di commerci del tutto trasversali e – se ci si passa il termine anacronistico – sovranazionali: l’ouvraige de Lombardie, la definizione in certa misura anche misteriosa che affiora negli inventari del duca di Berry a indicare, verosimilmente, la miniatura lombarda culminante nell’opera di Giovannino de Grassi e Michelino da Besozzo (Bouchot 1905), era la sigla di un conseguimento di stile e di gusto vincente, ignaro di frontiere politiche e diplomatiche o se mai agevolato da esse, oggetto di esportazione e imitazione, radice, alla fine, di sviluppi giganteschi come quelli dei Limbourg o dei pittori fiamminghi. Non solo. Difficile, oggi, parlare di Lombardia senza interporre una serie di filtri di lettura che, se non impediscono la continuità con la ricerca linguistica e, se si vuole, “poetica” che guidava Longhi, pure obbligano a considerare l’oggetto dello studio nel quadro di una serie di ulteriori possibili assi di ricerca, che aprono le frontiere della storia dell’arte verso i campi limitrofi e ne mostrano fra l’altro anche la crucialità, in quanto sistema complesso di comunicazione, strumento retorico, apparato di potere. La scelta degli oggetti che abbiamo schierato in Palazzo Reale narra lo svolgersi di una straordinaria storia di committenza, quella viscontea e poi sforzesca, il cui ruolo cruciale abbiamo voluto segnalare fin dall’apertura nel percorso espositivo, il quale – contraddicendo la disposizione cronologica che guida invece tutto il resto della mostra – è aperto dalla serie di medaglioni tardoquattrocenteschi con i ritratti dei Visconti e degli Sforza. Per di più la mostra, e naturalmente il catalogo, sono strutturati in sezioni (assenti nel 1958, dove tutto il percorso fluiva ininterrotto dall’inizio alla fine scandito dalla suddivisione per artisti) in larga parte ancorate alla successione dei personaggi al potere, da Azzone a Ludovico il Moro. Le scelte delle singole sezioni sono motivate nelle relative introduzioni, e ad esse rinviamo: insieme a questi saggi introduttivi, le schede su ogni singolo oggetto esposto in mostra compongono un insieme straordinariamente dotto e aggiornato di saperi sull’arte lombarda, ad oggi assolutamente inesistente e che, speriamo, servirà in futuro quale termine di riferimento per ogni studio ulteriore. Qui vogliamo solo sottolineare come il ritmo delle sezioni abbia voluto segnalare altrettante soglie degli sviluppi artistici lombardi: l’avvio in rottura con Azzone, che apre le frontiere a Giovanni di 19
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Balduccio e Giotto e cambia così la geografia artistica del Trecento italiano, e subito il costituirsi graduale e anche bizzarro dell’arte di corte con Galeazzo e Bernabò; alla chiusura del Trecento, l’ambiziosissimo progetto di Gian Galeazzo, francofilo per gusto e per scelte diplomatiche, affiancato in Milano dal turbolento, internazionale, ma anche protezionista, talvolta arroccato, cantiere del duomo. Poi, per quasi tutta la prima metà del Quattrocento, il lungo regno di Filippo Maria che si confonde in parte con molti tratti di quello di Francesco Sforza e anche di Galeazzo Maria nell’insistenza degli ori e del lusso tardo (tardissimo) gotico: una cifra stilistica così forte da spiegare perché le due rispettive sezioni della mostra, la terza e la quarta, si sovrappongano in parte nella cronologia, indicando però le strade diverse che a un certo punto Francesco Sforza favorisce, dando spazio – ancora una volta – agli artisti forestieri e al linguaggio rinnovato dei toscani e dei ferraresi. La conclusione, nella quinta sezione dedicata a Ludovico il Moro, conduce il visitatore oltre la soglia che era stata della mostra del 1958, attraverso le presenze di Bramante e di Leonardo e fino a osservare il rivolgimento del linguaggio artistico milanese e lombardo anche al di là del Maestro della Pala Sforzesca che chiudeva la mostra di Longhi e di Dell’Acqua. L’affiancamento, in Palazzo Reale, di “Arte lombarda” alla mostra monografica su Leonardo risulta a questo punto felicissima e opportuna integrazione in un panorama storico comune. La corte, insomma, è la protagonista forte, anche se non l’unica, della storia che la mostra racconta: la corte lombarda quale nucleo politico al cuore dell’Europa. Nelle dinamiche che si mettono in campo internamente e attorno a essa, attraverso le forme di autorappresentazione e comunicazione del potere politico – con l’immagine, con l’evergetismo architettonico, con gli oggetti suntuari religiosi e profani, con la parola scritta e decorata del libro: ma non dimentichiamo che c’erano la musica, la poesia, la scrittura di storia – si forgia l’immagine del principe (si vedano Boucheron 1998 e 2003; gli studi di Evelyn S. Welch culminati in Welch 1995 e il successivo Welch 2010; nonché gli studi di Ianziti 1988 e 2005); lo stile assume valore di elemento identitario diventando fattore di gareggiamenti sociali e mondani e l’arte lombarda compie un percorso unico e riconoscibile, aperto e chiuso, per così dire, dagli “stranieri”, Giotto al principio, Bramante e Leonardo alla fine. È nell’apertura, anzi nella pionieristica ricerca di orizzonti ben oltre quelli locali che l’esperimento visconteo e sforzesco appare straordinariamente moderno e avanzato, contrastando
il dato protezionistico e introverso, pur esistente, con l’apertura alle proposte, alle ricerche, agli status symbol forestieri. Il sistema dell’“importazione” implica immediatamente scalini e mutamenti anche bruschi di gusto e di linguaggio, e dunque dislivelli, sacche di resistenza. Abbiamo quindi cercato di rappresentare anche livelli diversi della produzione, da quella limitrofa dei fiancheggiatori di regime a quella religiosa non sempre coincidente con l’arte di corte, via via sempre più allargata fino a rappresentare la produzione in luoghi e per fasce sociali meno elitari. La trasmissione dei modelli di stile e di iconografia si accompagna a una più dettagliata e modulata indagine sulle tecniche: da cui, ad esempio, l’attenzione portata alla scultura lignea e all’arredo, per quanto possibile rappresentati in mostra con pezzi assolutamente eccezionali. Il ritratto non è certo esaustivo, ma il numero di oggetti esposti, che arriva quasi alle trecento unità, dice della volontà di offrire un numero almeno sufficiente di sfumature e casistiche, e parla della ricchezza certamente ancora inesausta del patrimonio artistico lombardo. Qualche volta, per così dire, anche dislocato: il saggio di Marie-Pierre Laffitte della Bibliothèque nationale de France appare infatti in catalogo a testimoniare il caso eccezionale dei libri della biblioteca visconteo-sforzesca di Pavia, i quali, dopo lo spostamento a Blois a opera di Luigi XII di Francia, sono ora conservati alla Bibliothèque parigina, se non nella loro totalità, certo in un numero straordinario per concentrazione e capacità di rappresentazione del lungo fenomeno storico che unisce la fase lombarda e quella francese della storia della Lombardia; ed è l’occasione per ringraziare, da parte nostra, la Bibliothèque nationale de France, prestatore generoso (ben undici codici), insieme a tutti coloro che hanno permesso la realizzazione del nostro progetto. Le ultime convulse settimane di preparazione della mostra del 1958, di cui l’articolo di Tiziana Barbavara dà conto, furono segnate dagli incessanti suggerimenti di Longhi, che proponeva sempre nuove opere per aggiornare il progetto e aggiungere nuovi e intriganti oggetti: sul filo del rasoio arrivò in mostra anche la Circoncisione di Bernardo Zenale, fortemente voluta da Longhi, che presentiamo nella sala dedicata alla mostra del 1958. Convulse sono state anche le settimane di chiusura alla nostra, nel momento in cui scriviamo. Speriamo di aver trovato un punto felice, in una proposta dai contorni così grandi da essere quasi incontrollabile. “Arte lombarda dai
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Visconti agli Sforza” si apre alla vigilia di Expo e ne riceverà i visitatori sino alla fine di giugno, offrendo a loro, oltre che al pubblico milanese, lombardo e italiano, uno spaccato della cultura visiva di quella che gli storiografi definivano come l’età dell’oro lombarda, dopo la frammentarietà comunale e prima dell’invasione straniera. L’integrazione con quanto è conservato nei musei e nelle chiese di Milano e di tutta la Lombardia sarà indispensabile, da parte di un pubblico di destinazione estremamente variegato e necessariamente attivo nel rendere complementare il patrimonio culturale permanente e quello pur sem-
pre transitorio, radunato per qualche mese nelle sale di Palazzo Reale. Confidiamo che lo sforzo di tutte le persone che con noi hanno lavorato, dai direttori di sezione ai numerosissimi schedatori, da Rosa Fasan, la quale ha coordinato tutto il lavoro che senza di lei non sarebbe arrivato a buon fine, a tutti i collaboratori di Skira, a tutti i colleghi dei musei, delle soprintendenze e delle università che ci hanno aiutato e accompagnato, confidiamo che tutto questo lavoro sarà utile per riprendere poi le forze e ricominciare, in vista, chissà, di una nuova “Arte lombarda” verso la metà del XXI secolo.
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I.3 Pittore lombardo Caduta di Napoleone Orsini, 1320 circa Affresco staccato, 177 x 126 cm Bergamo, Museo del Monastero Matris Domini
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I.4 Pittore lombardo Il cavaliere e la Morte, 1320 circa Affresco staccato, 182 x 158 cm Como, Museo Civico
Alle pagine seguenti I.5 Pittore lombardo Compianto su Cristo morto, 1320 circa Affresco staccato, 130 x 230 cm Brescia, chiesa di San Francesco d’Assisi
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I.6 Pittore padano seguace di Giotto Sposalizio mistico di santa Caterina, 1328 circa Affresco staccato, 145 x 155,5 cm San Silvestro di Curtatone (Mantova), collezione Romano Freddi I.7 Miniatore lombardo Messale (Messale di Roberto Visconti), 1327-1328 Pergamenaceo, 390 x 260 mm Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. C 170 inf. I.8 Miniatore bolognese e Maestro del Pantheon Goffredo da Viterbo, Pantheon, 1331 Pergamenaceo, 370 x 255 mm Parigi, Bibliothèque nationale de France, lat. 4895
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I.18 Pittore lombardo La Maddalena al sepolcro di Cristo e Noli me tangere, 1350-1355 circa Affresco staccato a massello, 157 x 187 cm Novara, Palazzo dei Vescovi, salone
I.19 Benedetto da Como Messale (Messale Nardini), 1350 circa Pergamenaceo, 374 x 255 mm Milano, Biblioteca e Archivio del Capitolo Metropolitano, ms. II.D.2.32
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II.3 Giovannino de Grassi e bottega Offiziolo Viscont , 1388-1402 circa Pergamenaceo, 247 x 175 mm Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Banco Rari 397, f. 115r II.4 Giovannino de Grassi e bottega Giovanni Belbello da Pavia e bottega Offiziolo Viscont , 1388-1425/1430 circa Pergamenaceo, 250 x 175 mm Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Landau Finaly 22, f. 19r II.5 Cerchia di Giovannino e Salomone de Grassi Theatrum sanitatis , 1390 circa Pergamenaceo, 330 x 230 mm Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 4182, f. 38r
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II.6 a-f Andriolo de Bianchi Sei formelle quadrilobate (giĂ appartenenti a una croce processionale), 1389-1392 Argento sbalzato e parzialmente dorato, 17,2 x 17,2 cm circa ciascuna Bergamo, congregazione della Misericordia Maggiore
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II.7 Orafo parigino (?) Fermaglio con dromedario, 1380-1400 circa Oro, smalto, diciannove perle, uno zaffiro (?) diametro 5 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. 1013 C II.8 Salomone de Grassi e bottega Bibbia, 1398-1402 circa Pergamenaceo, 445 x 290 mm Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, AE. XIV. 24, f. 26r
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II.9 Bottega degli Embriachi Trittico, fine del XIV o inizi del XV secolo Legno, osso, corno, 69 x 23, 5 cm (chiuso) o 69 x 46 cm circa (aperto) Bologna, Museo Civico Medievale, inv. 720 II.10 Bottega degli Embriachi Cofanetto con la storia di Piramo e Tisbe, fine del XIV o inizi del XV secol Legno, osso, corno, avorio, 42 cm, diametro 33 cm Bologna, Museo Civico Medievale, inv. 721
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II.11 Gentile da Fabriano Madonna col Bambino tra i santi Francesco e Chiara, 1395 circa Tempera e oro su tavola, 56,5 x 42 cm Pavia, Pinacoteca Malaspina, inv. P 176
II.12 a-b (a) Maestro dell’ancona Barbavara e pittore lombardo Madonna con il Bambino coronata da angeli tra san Giovanni evangelista e sant’Antonio abate e donatore Olio, tempera e oro su tavola, carta, 34 x 24 cm Raleigh (North Carolina), North Carolina Museum of Art, inv. GL.60.17.21 (K22) (b) Maestro dell’ancona Barbavara San Gaudenzio, 1390-1400 circa Tempera e oro su tavola, 19,9 x 12,3 cm (superficie originale 17,2 x 12,3 cm Milano, Museo Poldi Pezzoli, inv. 3390
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II.19 Michelino da Besozzo Libro d’Ore, 1395-1400 Pergamenaceo, 141 x 102 mm Avignone, Bibliothèque municipale, inv. ms. 111, f. 21r II.20 Michelino da Besozzo Ghepardo, inizi del XV secolo Pergamenaceo, 160 x 230 mm Parigi, Musée du Louvre, département des Arts Graphiques, inv. 2426
II.21 a-b Michelino da Besozzo Petrus de Castelletto, Sermo in exequiis Johannis Galeatii ducis Mediolani. Genealogia a qua discendit domus Vicecomitum, 1403 Pergamenaceo, 375 x 243 mm Parigi, Bibliothèque nationale de France, ms. lat. 5888, ff. 1r e 12v
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III.1 a-b Maestro lombardo (Maestro del libro di modelli Mitchell o di Weimar) (a) Un leopardo e un ghepardo, 1400 circa (b) Un cervo e un capriolo, 1400 circa Pennello con colore scuro e biacca, tocchi di azzurro su pergamena, 163 x 120 mm Weimar, Klassik Stiftung, inv. KK 8805 verso e KK 8810 verso
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III.4 Michelino da Besozzo Lo sposalizio mistico di santa Caterina con i santi Giovanni Battista e Antonio abate, 1403-1405 Tempera e oro su tavola, 75 x 58 cm Siena, Pinacoteca Nazionale, inv. 171 III.5 Michelino da Besozzo o Stefano di Giovanni Madonna del roseto (Madonna con il Bambino e santa Caterina) Tempera e oro su tavola trasportata su tela, 130 x 95 cm Verona, Civici Musei d’Arte, Museo di Castelvecchio, inv. 173-1B359
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III.27 Bottega dei Bembo (?) Carte da tarocco viscontee, entro il 1447 Semi: Asso, Due, Tre di lance; Asso, Due di denari; Asso, Tre, Dieci di coppe; Asso, Sette, Otto, Nove, Dieci di spade; Carte con figure Regina, Cavallo, Fante di lance; Cavallo di coppe; Fante di denari; Trionfi: Imperatore e Ruota della Fortuna Fogli di cartoncino pressati a stampo, 17,8 x 8,9 cm ciascuno Milano, Pinacoteca di Brera, Reg. cron. 4982/5029
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