Identità Dinamica: Otto

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Sofia Muscianisi Marco Nardozza Giada Passerini Valentina Pedrotti Anastasiya Timoshenko Relatore: Francesco E. Guida a.a. 2016/2017


Sofia Muscianisi

IdentitĂ Elastica OTTO

Elaborato di Laurea Corso in Design della Comunicazione Politecnico di Milano, Scuola del Design Laboratorio di Sintesi Finale C1



Indice p.

I

Introduzione

6

Capitolo 1

20

42

96

8

Società fluida e i nuovi media

16

Rivoluzione digitale

18

Arte programmata

Capitolo 2 22

Identità

24

Modelli di branding

32

Progetto di immagine coordinata

36

Hard

38

Soft

Capitolo 3 44

Flessibilità

46

Identità dinamica

50

Tempo, variabilità, flessibilità

56

Progetto di identità variabile

62

Diverse tipologie

68

Casi studio

Capitolo 4 98

Elastico

100 Valori 102 Immagine coordinata 110 Packaging 112 Campagna 116 Spazio 120 Macchina 129

Bibliografia


I

Introduzione

[0]

Ferrara C., La comunicazione dei beni culturali

[Il progetto di immagine coordinata] è costretto a trasformarsi per sfuggire all’obsolescenza, sostituendo alla rigida concezione dell’immagine coordinata la flessibilità di un’immagine sempre coordinata, ma caratterizzata dalla presenza di più varianti.

Il brand OTTO, sviluppato all’interno del Laboratorio di Sintesi Finale, sezione C1, si contraddistingue per la sua identità, che vogliamo definire elastica. Identità dinamica, elastica, variabile, relazionale, generativa, mutevole: tutti questi aggettivi descrivono un concetto estremamente ampio, una famiglia di progetti di immagine coordinata che si distanziano dal corporate style. Ma cos’è un’identità dinamica? Perché funziona? Cosa mantiene la sua riconoscibilità? In cosa si differenzia dalle identità tradizionali? Da dove è nata? A quali bisogni risponde? Il presente elaborato di laurea si pone tutte queste domande e cerca di dare loro una risposta attraverso una panoramica ampia su tutto ciò che ha fatto sì che esistesse il concetto stesso di identità variabile.


II

La prospettiva scelta per affrontare la tematica è la più ampia possibile. La ricerca non si ferma quindi solo alle tematiche progettuali, ma si muove dal contesto in cui il progetto di identità dinamica nasce e si sviluppa. Partendo dall’assunto che il design sia influenzato e influenzi fortemente il contesto in cui si sviluppa, la prima cosa da analizzare era proprio questo: la società contemporanea nei suoi fattori sociologici, tecnologici, artistici e culturali. A questi vanno aggiunti alcuni concetti alla base del progetto di identità stesso; viene quindi presentato brevemente nella sua evoluzione fino ad oggi, progredendo dalla fase hard, alla soft, alla smart. Il percorso seguito può essere visto come un imbuto: partendo dal contesto più ampio, ogni capitolo aggiunge un grado di definizione maggiore rispetto al precedente, entrando sempre di più nello specifico dell’argomento, per poi arrivare al progetto di OTTO che, visto alla fine di questo percorso, può essere compreso al meglio. Questo approccio all’elaborato vuole anche rendere il tema più comprensibile anche a chi non sia propriamente familiare a questo campo, per questo alcuni concetti, come quelli di identità e variabilità, sono espressi attraverso riferimenti comuni, che definiscono al meglio il tema trattato.



I fattori culturali sociologici e artistici


10

Società fluida e i nuovi media

[1]

Bauman Z., Modernità Liquida

Essere moderni significa modernizzare, compulsivamente e ossessivamente: non tanto essere -e tantomeno mantenere intatta la propria identitàma divenire, restare perennemente incompiuti e indefiniti.

Prima di addentrarci nelle caratteristiche e specificità delle identità fluide, nelle loro origini e sviluppi dal punto di vista del progetto, è opportuno ricercare le radici da cui esse provengono guardando ai fattori ambientali in cui si sono potute sviluppare. In questo capitolo verranno presentati gli elementi sociologici e culturali che hanno contribuito alla nascita e allo svilupparsi di questo approccio progettuale. Il design è strettamente legato alla società in cui vive e agisce e con questa si trasforma ed evolve. Uno dei maggiori studiosi della società contemporanea è sociologo polacco Zygmunt Bauman, autore di vari saggi tra cui Modernità Liquida. All’interno di quest’opera in particolare è descritta la società contemporanea, fragile, provvisoria e vulnerabile.


11

La modernità liquida si presenta in contrapposizione alla prima modernità, quella ovvero del capitalismo pesante, caratterizzata dalla ponderosità e dalla sistematicità. I concetti espressi all’interno di Modernità Liquida non sono solo utili a comprendere il contesto in cui il design opera; all’interno di Identità dinamica, tra metodo e pensiero laterale gli autori Andrea Barbato, Davide Barbato e Alessandro Stefanoni evidenziano le similitudini che esistono tra la modernità solida, che viene utilizzata come metafora per gli elementi statici dell’identità e quella liquida che rappresenta invece le parti dinamiche, fluide e variabili del sistema identitario[2].

Nel suo stadio pesante, il capitale era inchiodato al suolo quanto i lavoratori che assumeva. Oggi, il capitale viaggia liberamente portandosi dietro il solo bagaglio a mano.

[2]

Barbato A., Barbato D., Stefanoni A., Identità dinamica, tra metodo e pensiero laterale

[3]

Bauman Z., Modernità Liquida

[1]

Zygmut Bauman


12

[4]

Bauman Z., Modernità Liquida

[5]

Bauman Z., Modernità Liquida

La società del XX secolo non era meno moderna di quella attuale[4], ma lo era in modo diverso. Come la nostra, anche quella dell’epoca era ossessionata dal bisogno compulsivo e irrefrenabile di modernizzare ovunque fosse possibile; un esempio su tutti è l’inestinguibile sete di distruzione creativa, o creatività distruttiva che caratterizza tutto il periodo delle avanguardie artistiche, dal futurismo al dadaismo al surrealismo; il bisogno di fare piazza pulita, smantellare e tagliare tutto ciò che era prima in nome di un nuovo e migliore progetto. Tendenza questa che non si ritrova solo nell’arte, ma in ogni attività umana: la perdita della fede nell’atto della creazione [5] avrebbe in questa fase condotto l’uomo ad essere solo con sé stesso, senza alcun limite, e quindi in grado di migliorarsi costantemente e sempre più. Non a caso, la prima modernità viene definita come solida, sistemica, pesante, compatta; questi aggettivi rispecchiano un periodo dalle forti tendenze al totalitarismo, all’omogeneità onnicomprensiva e di conseguenza nemica della varietà, di tutte le anomalie. Troviamo come icona principale di questo periodo la fabbrica fordista, che ridusse le attività umane a dei movimenti standardizzati e programmati, senza lasciare spazio all’iniziativa individuale. Altre icone del tempo sono la burocrazia nel modello ideale di Max Weber, dove cioè l’individualità era lasciata all’ingresso con giacca e cappello, di modo che non intralciasse l’ordine e non influisse nelle azioni dei membri, il panopticon, un tipo di carcere i cui detenuti erano costantemente sorvegliate, il grande fratello, sempre pronto a punire chi uscisse dai suoi schemi. Il periodo della così detta modernità solida coincide in larga parte con la nascita negli Stati Uniti d’America della corporate image come la conosciamo oggi, definita da Giovanni Anceschi come il polo hard del progetto di immagine coordinata, che sarà approfondito nel capitolo successivo.


13

[3]

[4]

Henry Ford, 1919,

Stabilimento Ford a Dagenham


14

[6]

Falcinelli R., Critica portatile al visual design

[7]

Daniel Cohen

Con la modernità cambia anche il concetto di identità delle persone, che non sono più semplicemente definite e compiute nel loro ruolo sociale, come poteva essere nella società medievale, cessando quindi di avere un’identità innata ma dovendo piuttosto diventare sé stessi.[6] Riccardo Falcinelli descrive come sia stato rotto il rigido schema degli stati sociali: adesso le persone potevano conformarsi con delle classi, ambiti di appartenenza acquistabili, che offrivano una ampia gamma di identità e la cui appartenenza doveva sempre essere riconfermata. Queste classi hanno inoltre la particolarità di non essere mai totalmente appaganti inducendo gli individui ad un cambiamento continuo.

Chiunque inizia la propria carriera alla Microsoft non ha la benché minima idea di dove la concluderà. Chiunque iniziava la propria carriera alla Ford o alla Renault, poteva essere praticamente certo che la avrebbe

Se la modernità solida era quella che spostava continuamente la propria frontiera verso conquiste sempre nuove, fiduciosa della guida del proprio conducente, la modernità liquida è quella che ha scoperto con terrore che non vi è nessun conducente, né tantomeno alcuna frontiera. La nostra modernità differisce dalla precedente per due fattori principali: in primo luogo ha perso la convinzione che vi sia una strada con una fine da raggiungere, un futuro con una società perfetta, il momento in cui tutti i bisogni saranno soddisfatti o altre forme di premio finale. Un altro grande elemento di differenza rispetto alla vecchia modernità è la maggior importanza data al contributo e al ruolo del singolo e quindi la tendenza alla deregolamentazione e alla privatizzazione rispetto alla passata fiducia nell’opera collettiva e statale.


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Alla base della società fluida stanno gli individui, che si trovano ad essere, proprio in virtù dell’assenza di una strada già segnata, in un perenne stato di incertezza e vulnerabilità. Sono soprattutto consumatori messi costantemente di fronte ad una scelta e costantemente insoddisfatti. L’individuo che vive in questa società non ha un’identità definita e conclusa, che rischierebbe di essere un fardello e un ostacolo rispetto alle mille possibilità che gli si presentano, le identità diventano come abiti da cambiare e sfoggiare.[8]

[8]

Bauman Z., Modernità Liquida

[5]

Sede Microsoft a Redmond


16

[9]

Jenkins H., Cultura Convergente

Benvenuti nella cultura convergente, dove vecchi e nuovi media collidono, dove i grandi media e i media grassroots si incrociano, dove il potere dei produttori dei media e quello dei consumatori interagiscono in modi imprevedibili. Il panorama della società contemporanea descritto da Bauman sarebbe incompleto senza prendere in considerazione un altro aspetto, quello del panorama mediatico descritto da Henry Jenkins in Cultura Convergente. Nella analisi di Jenkins, l’epoca attuale è descritta come quella della convergenza culturale; il sistema dei media contemporaneo ha delle peculiarità che lo distinguono da tutti i precedenti, è più rapido, le tecnologie si evolvono velocemente, l’innovazione è continua, i media vecchi e nuovi collidono verso nuove forme culturali e i contenuti della comunicazione vengono tradotti si ogni formato consentendo l’accesso da diversi device. In questo panorama, l’individuo è abituato a svolgere più attività simultaneamente (il così detto second screen effect) abbassando il proprio livello di attenzione: siamo ormai abituati a controllare il nostro smartphone per guardare le mail, leggere messaggi, fare ricerche mentre guardiamo la tv, e ignoriamo gran parte degli stimoli che ci vengono trasmessi in attesa di uno che richieda maggiore partecipazione. Le nuove tecnologie ci consentono di superare l’ostacolo spaziale entrando in contatto con altri individui in tempo reale. Quando si parla di convergenza dei media, non ci stiamo riferendo solo ad un cambiamento tecnologico, ma anche a quell’insieme di pratiche sociali e culturali che si sviluppano intorno a queste nuove tecnologie.

[10] Jenkins H., Cultura Convergente

La convergenza […] è sia un processo discendente, guidato dalle corporation, che una dinamica ascendente, guidata dai consumatori.


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La convergenza è un processo continuo di cambiamento che coinvolge gli individui e la società, il rapporto tra produttori e consumatori, tra mercati ed imprese. Nello scenario dei nuovi media cambia il ruolo delle persone all’interno del processo di creazione dei contenuti; se un tempo il movimento dei contenuti mediatici era per la maggior parte controllato dagli interessi commerciali dei produttori e distributori, dai così detti media broadcast, l’attuale modello ibrido prevede un maggiore coinvolgimento degli utenti, che smettono di essere spettatori passivi per diventare diffusori e co-creatori attivi. If it doesn’t spread, it’s dead[11]. Le audience hanno i mezzi e la volontà di fare sentire la propria presenza dando attivamente forma ai flussi mediatici. Gran parte delle pratiche che caratterizzano la cultura partecipativa o cultura di rete, è bene notare, non nascono con le nuove tecnologie: si tratta di azioni che sono sempre esistite, ma che adesso riescono a correre più velocemente e su distanze più lunghe. Questo modello di diffondibilità dei contenuti non ha nulla del concetto di virale, è importante tenere a mente che gli individui scelgono di condividere ciò che trovano rilevante. La cultura partecipativa è un punto di incontro tra le capacità creative degli individui e le esigenze di fidelizzazione e promozione delle aziende dei nuovi media, ed è costantemente alla ricerca dell’equilibrio tra la libertà di espressione dei primi e la protezione degli interessi da parte dei secondi. La convergenza consente la nascita di nuove forme di narrazione crossmediale e transmediale, ovvero permette di declinare i medesimi contenuti su più supporti e piattaforme, differenziando la narrazione a seconda del medium utilizzato, riuscendo a stimolare la partecipazione delle audience. Le identità cercano oggi di affermarsi proprio attraverso i nuovi media, di emergere dalla massa indifferenziata e coinvolgere i propri utenti nel loro universo narrativo.

[11]

Jenkins H., Spreadable Media


18

Rivoluzione digitale [12] Manovich L., Avant-garde as software

[13] Secolo C., Identità dinamica

But, paradoxically, the ‘computer revolution’ does not seem to be accompanied by any significant innovations on the level of communication techniques. While we now rely on computers to create, store, distribute and access culture, we are still using the same techniques developed in the 1920s

Considerando per gradi l’avanzamento delle tecnologie ad uso di tutti, possiamo dire che gli anni sessanta hanno visto il trionfo incontestato della televisione, gli anni ottanta dei personal computer e gli anni novanta del web 2.0, segnando definitivamente la rivoluzione mediatica e digitale che viviamo oggi. Questa progressione ha influito notevolmente sul mestiere del grafico: se un tempo i media era principalmente stampati, fisici e facilmente intercambiabili, oggi i designer si trovano di fronte alla sfida di tradurre e trasferire gli elementi tra media molto diversi fra loro che spesso si scontrano[13]. Guardando nuovamente indietro, possiamo notare come già negli anni venti le rivoluzioni artistiche più rilevanti sono state possibile in relazione a quelli che erano al tempo i nuovi media: cinema e la fotografia in primis. Nel saggio Avant-garde as software, Lev Manovich presenta questo paradosso: contrariamente a ciò che è successo negli anni venti, la rivoluzione dei computer non sembra essere stata accompagnata da cambiamenti significativi nelle tecniche di comunicazione, e anzi ancora oggi usiamo quelle


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stesse tecniche nate e sviluppatesi nel secolo scorso. Parte della soluzione di questo paradosso si trova nell’assenza di un radicale cambiamento economico: riprendendo le idee di Marx, l’attuale regime socio-economico e quello culturale vanno di pari passo, e non essendo variato il primo non può variare nemmeno il secondo. Ma soprattutto la mancata rivoluzione delle forme comunicative sta nel fatto che i nuovi media hanno realizzato le visioni delle avanguardie, ponendosi quindi in posizione di continuità piuttosto che di rottura con esse. In nuovi media quindi rappresentano un’avanguardia, che utilizza però le stesse forme del modernismo create nel secolo scorso; le sperimentazioni degli anni venti di Hans Ritcher in Rhytmus si pongono ad esempio in continuità con quelle di Saul Bass nei suoi celebri titoli di testa[14] e questo processo di continuità non è stato interrotto fino ai giorni nostri.

In other words, we can interpret radical shifts in culture as indicators of the changes in economic-social structure

[14] Secolo C., Identità dinamica

[15] Manovich L., Avant-garde as software


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Arte programmata

[16] Vinca Masini L., Arte Programmata, Domus, Gennaio 1965

[17] Munari, B. Vinca Masini L., Arte Programmata, Domus, Gennaio. 1965

In questo senso la Venere di Milo è opera programmata – perché svolta secondo una virtualità formale che ne moltiplica i contenuti linguistici, nel senso che ad una visualizzazione globale si aggiunge (o si contrappone) una visione ravvicinata dei particolari, ed ogni visione successiva presuppone la permanenza della precedente; nel senso che ha alcuni punti di vista prestabiliti (cioè secondo una costante); è opera cinetica perché varia col variare della prospettiva visuale; è opera aperta perché si svolge in un rapporto dialettico con l’osservatore, tanto che, al limite, si potrebbe dire che, non esistendo l’osservatore, l’opera non esiste.

Gli attuali progressi nell’ambito delle identità dinamiche vengono riconosciuti come necessari da Giovanni Anceschi, che li pone in contatto con le sperimentazioni nell’ambito dell’arte cinetica e programmata. Il concetto di arte cinetica non è univocamente definibile, poiché si è manifestata con diverse declinazioni, metodologie e forme: convivono al suo interno l’uso della tecnologia, la pittura con finalità cinetiche, l’utilizzo e il movimento di pattern visivi. In senso più generale, l’arte cinetica si caratterizza per aver introdotto la variabile del tempo e del movimento all’interno dell’opera. Per Bruno Munari, anche una scultura come la venere di Milo può essere definita programmata, i cui contenuti linguistici variano con il movimento dello spettatore. Ma le opere di arte cinetica sono più aperte, e questa apertura è diretta e non virtuale, è lo spettatore che interviene sull’opera senza servirsi più del solo occhio[17].


21

Ciò che è stato veramente innovativo e influente di questo movimento è l’aver inglobato all’interno dell’arte in metodi scientifici e tecnici, utilizzando questi mezzi a fine estetico: di uccidere il demone della scienza facendone una sorta di mostro addomesticato, di meraviglia e di gioco raffinato per intellettuali, per lettori di Robbe-Grillet, ma anche per inserirsi nella vita di ogni giorno, uscendo, come arte, dall’isolamento e dalla morte dei musei, come scienza dai laboratori, come tecnica dalle applicazioni negli oggetti d’uso[18]. In tempi più recenti questa arte è stata riscoperta e riconosciuta, probabilmente anche perché nel frattempo la nostra società è stata investita dai new media e da una presenza sempre più ponderante di comunicazioni cinetiche e rapide, o per dirlo con le parole di Anceschi:Viviamo in un mondo sempre più cinetizzato, e questo rende più ovvia sia un’arte in movimento che un design metamorfico.[19]

[18] Munari, B. Vinca Masini L., Arte Programmata, Domus, Gennaio. 1965

[19] Anceschi G., Hard, Soft, Smart, Progetto Grafico n°9

[6]

Anceschi G. Percorsi fluidi 1961



2 Il progetto di immagine coordinata


24

Identità [1]

Falcinelli R., Critica portatile al visual design

[2]

[3]

Treccani online

Barbato A., Barbato D., Stefanoni A., Identità dinamica, tra metodo e pensiero laterale

L’identità è il fondamento di tutta la comunicazione

Identità, (dal latino identitas, derivato da idem, “stessa cosa”), è un termine e un principio filosofico che genericamente indica l’eguaglianza di un oggetto rispetto a sé stesso. In relazione ad altri oggetti l’identità è tutto ciò che rende un’entità definibile e riconoscibile, perché possiede un insieme di qualità o di caratteristiche che la fanno essere ciò che è e, per ciò stesso, la distinguono da tutte le altre entità[2]. All’interno del progetto di immagine coordinata, è fondamentale il concetto di identità, che analizziamo in questo capitolo a partire dai suoi elementi più astratti fino alla loro applicazione. La componente identitaria può essere intesa come l’essenza stessa dell’identità di marca, il suo nocciolo, l’aspetto immutabile e sempre uguale a sé stesso che ne garantisce la riconoscibilità[3]. Le caratteristiche di questo aspetto “statico” sono assimilabili a quelle dell’essere parmenideo, simbolo per eccellenza della finitudine.


25

L’Essere è uno perché non possono esserci due Esseri: se uno è l’essere, l’altro non sarebbe il primo, e sarebbe quindi non-essere. Allo stesso modo per cui, se A è l’essere, e B è diverso da A, allora B non è: qualcosa che non sia Essere non può essere, per definizione.[4] Dunque, l’essere è ingenerato e immortale, se così non fosse esisterebbe un tempo in cui questo non era, di conseguenza è eterno e al di fuori del tempo. Inoltre è immutabile e immobile, poiché se mutasse si troverebbe in stadi in cui non era; unico e indivisibile; finito e necessario, la finitudine è simbolo di perfezione, ed è necessario perché per sua stessa natura si tratta di una realtà che non può non essere.

[4]

Wikipedia.org Parmenide

[1]

Parmenide


26

Modelli di branding [5]

Falcinelli R., Critica portatile al visual design

[6]

Carmi E., Branding: design oriented

Società ed enti, ancor prima di produrre beni o servizi, producono discorsi; questi formano un immaginario sulle cose che, con termine inglese, viene chiamato brand

Organizzare e comunicare l’identità di un’azienda, un ente, un brand è uno dei problemi centrali quando si parla del progetto di immagine coordinata. Governare tutti gli aspetti di un brand è un’operazione complessa perché coinvolge molteplici competenze, anche molto distanti fra loro e al contempo è difficile quantificare o prevedere gli effetti delle diverse operazioni sul brand.[6] La tematica è sicuramente aperta, non esiste un unico metodo per creare e governare un brand, ma per quanto la discussione sia ancora in atto, sono stati realizzati nel corso degli anni diversi strumenti e modelli che cercano di comprendere e schematizzare il progetto di identità. In particolare, dagli anni settanta ad oggi si è cercato di definire il concetto di marca, intesa come l’insieme di caratteristiche tangibili e intangibili che vengono sintetizzate in un marchio e rappresentano l’impresa rendendola rilevante al proprio pubblico.


27

[2]

Ballmer, Manifesto per Olivetti 1961

[3]

Loewy, Marchio Shell

[4]

Aicher, IdentitĂ Lufthansa


28

[7]

Carmi E., Branding: design oriented

Solitamente si distinguono due tipi di modelli[7]: quelli di stato, che si chiedono cosa sia il brand e sono a loro volta suddivisibili in generativi, dove la marca è vista come un processo che nasce da un nucleo centrale per stratificazioni successive, e sistemici, che vedono il brand come un sistema definito e statico. I modelli di gestione invece analizzano il funzionamento della marca e possono essere suddivisi in gestione orientata al marketing o alla comunicazione. La varietà di modelli è piuttosto ampia, passiamo dalla più semplice star strategy di Séguéla che identifica il brand come una persona, che possiede un proprio fisico, uno stile ed un carattere, all’analisi della percezione e della conoscenza che i clienti hanno della marca operata da Keller, al prisma di Kapferer secondo cui il brand si caratterizza nel rapporto tra con il suo destinatario attraverso luoghi e territori interiori ed esteriori, tanto nella relazione fisica quanto in quella relazionale.

Fisico

[5]

Seguela, Star strategy

Stile

Carattere


29

Brand Recall Brand Awareness

Brand Recognition Non Product-Related

Brand Knowledge

Favorability of Brand Association

Brand Image

Product-Related

Strength of Brand Association

Attributes

Functional

Uniqueness of Brand Association

Benefits

Experimental

Types of Brand Association

Attitudes

Symbolic

[6]

Keller, Cerniera di marca


30

Un fattore che accomuna molti modelli, tra cui quelli di Semprini, Leo Burnett Brand Consultancy e di Upshaw è il riconoscere l’esistenza di un nucleo centrale, un brand core o una brand essence che comprende l’identità e i valori della marca, come elementi fondativi su cui basare l’intera strategia nelle sue manifestazioni fisiche, garantendo una coerenza interna al sistema che favorisce la riconoscibilità e la gestione sul lungo termine. Diametralmente opposti si trovano invece i modelli come il rosone di Sicard, il triangolo di Brun e Rasquinet e il prisma di Kapferer, in cui non troviamo un nucleo centrale da cui vengono emanate le diverse manifestazioni, il brand è invece presentato come l’interazione di diverse componenti.

[7]

Leo Bunnett Brand Consultancy

Funzioni

Personalità/ Immagine Essenza

Differenze

Sorgente


31

Tempo Progetto

Fisico

Relazione

Spazio

Norme

Posizione

[8]

Sicard, Rosone di marca


32

Fisico PersonalitĂ

Relazione Cultura

Riflesso Mentalizzazione

[9]

Kepferer, Prisma

Destinatario

Interiorizzazione

Esteriorizzazione

Emittente


33

Il modello Carmi e Ubertis, si contraddistingue invece perché si basa sull’ampiezza del portfolio dell’impresa differenziandola in base ai propri pubblici. Il brand è quindi composto da un nucleo identitario che tiene uniti diversi piani di intervento: packaging, editorial, corporate e space. Governance Branding

Corporate

Packaging Design Strategy

Space

Editorial

Branding Governance

Valeria Bucchetti evidenzia come le aziende si trovano spesso a gestire un’immagine istituzionale distinta delle sotto immagini che appartengono ai singoli prodotti o alle linee di prodotto, le quali hanno anche delle proprie esigenze. In questi casi i modelli di gestione tradizionali possono non bastare ed emerge quindi la necessità di un modello più fluido, in grado di evolvere col tempo e con l’allargarsi delle imprese.

[10] Modello di branding Design Oriented, Carmi e Ubertis


34

Progetto di immagine coordinata [8]

Falcinelli R., Critica portatile al visual design

Behrens apre la strada al brand design delle grandi agenzie americane: i Mad men che realizzarono l’immagine di PanAm, Coca-Cola o Lucky Strike trovarono nell’Aeg un eccellente modello

Nel 1907, Peter Behrens ricevette un incarico che non aveva alcun precedente, il progetto dell’immagine coordinata della compagnia elettrica tedesca Aeg: era nato il progetto di corporate identity. Un’opera d’arte totale che andava dal logotipo ai prodotti, dall’immagine ai punti vendita, dal carattere tipografico alle fabbriche; nei suoi anni presso la Aeg, Behrens progettò e organizzò tutto il visibile dell’impresa facendo coincidere la standardizzazione e la semplificazione tecnica visibile nei prodotti e nelle architetture con una strategia pubblicitaria basata su messaggi chiari, rigorosi e geometrici in uno stile estremamente oggettivo. Le origini storiche dell’immagine coordinata risalgono all’alba dei tempi, dai sistemi araldici e stemmi nobiliari ai segni dei tagliapietre, ai monogrammi: segni che non solo marcavano un possesso ma rivelavano anche qualcosa del proprietario. Tuttavia è prima con lo sviluppo economico capitalista di fine Ottocento e poi nel secondo dopoguerra che questa è stata largamente impiegata da enti e soprattutto aziende.


35

[11]

Behrens, pagina interna di catalogo 1908

[12] Behrens, copertina catalogo 1908 [13] Behrens, manifesto 1910

[14]

Behrens, ventilatore

[15] Behrens, manifesto per il settore lampadine 1910


36

[9]

Baroni D., Vitta M, Storia del design grafico

[10] Baroni D., Vitta M, Storia del design grafico

Daniele Baroni[9] evidenzia come, sin dalle sue origini, il modello progettuale dell’immagine coordinata sia stato influenzato dalle sue due anime: la prima, quella americana, fortemente influenzata dallo styling e dalle teorie di marketing, nasce dal pragmatismo tipicamente statunitense, dal bisogno di rendere i prodotti meno spersonalizzati riuscendo a farsi distinguere dalla concorrenza, adottando man mano un logo e dei colori identificativi, progettando fino alle divise e a determinate tipologie architettoniche. Crescendo, questo modello viene inglobato nelle strategie di marketing e public relation. La seconda, quella europea, risulta più impegnata a privilegiare il rigore e l’eleganza formale, si muove dal progetto di Behrens e si sviluppa nell’Architettura, nel Design e nella Grafica perseguendo sempre la massima qualità. La collaborazione tra imprenditori illuminati e designer non si è fermata al solo caso Aeg[10]: negli anni quaranta e cinquanta ha infatti portato aziende come Olivetti, Ibm e Pirelli ad essere ricordate nella storia del graphic design proprio in virtù della qualità del loro coordinamento visivo, ottenuto affidando la progettazione di prodotti, imballi, pubblicità, architetture, ai migliori progettisti del tempo. Gli anni sessanta videro poi una sempre maggiore importanza al brand manual e quello che Giovanni Anceschi definisce il polo hard.


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[16] Pagina pubblicitaria Marlboro con Paul Hornung, 1961 [17] Pintori, Manifesto per Olivetti, 1949

[18] Pagina pubblicitaria per distributore di Coca-Cola di Loewy, 1949

[19] Rand, packaging per IBM, 1985-1987


38

Hard [11]

Anceschi G., Hard, Soft, Smart, Progetto Grafico n°9

C’era stata- alle origini, nei lontani ma fertili anni Sessantauna prima fase iper-rigida, che proveniva proprio dall’impostazione di Ulm e in particolare di Otl Aicher.

[12] Anceschi G., Hard, Soft, Smart, Progetto Grafico n°9

[13] Secolo C., Identità Dinamica

In contrapposizione a quello soft, il polo hard deriva dall’impostazione della scuola di Ulm e in particolare di Otl Aicher. Per Anceschi è lui ad aver dato inizio a questa fase del progetto di identità che attraverso l’istituzione di un manual vuole prevedere ogni soluzione applicativa dell’identità, in cui i segni di base, i colori e i loro accostamenti sono rigidamente definiti per ogni applicazione. L’approccio è tipico dei personaggi come Aicher che negli anni sessanta e settanta cercavano di pensare all’immagine coordinata come se fosse un oggetto, forse un iperoggetto. Lo strumento metodologico principale era il manuale di applicazione, ovvero una sorta di libro della legge comunicativa dell’azienda[12]. Un progetto che fa da paradigma per il polo hard è quello, proprio di Aicher, per Lufthansa. In seguito al forte sviluppo economico, la seconda metà del XX secolo è stata caratterizzata dall’aumento delle aziende sul mercato, con conseguente necessità di aumentare la propria visibilità, generando quello che Anceschi, Carmi e Pasca hanno definito effetto marmellata[13].


39

Questo periodo segnò il successo del corporate style e del polo hard, ma anche l’inizio delle critiche mosse a questo approccio al progetto, che fu percepito come dittatoriale e monolitico.

[20] Aicher, Manifesto per Lufthansa


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Soft [14] Garland K., in Q. Newark, introduzione alla grafica

Un’immagine aziendale onnipresente e riuscita è, in definitiva, una calamità proprio perché è onnipresente. [l’immagine] è infusa di nozioni di potere e imposizione dell’ordine elitarie e troppo pretenziose.

[15] Anceschi G. Hard, Soft e Smart Progetto Grafico n°9

Per polo soft intendiamo al contrario un approccio più elastico e spontaneo, quello tipico degli anni quaranta e cinquanta, il cui paradigma è l’Olivetti di Adriano Olivetti, dove non vi sono divieti rigorosi bensì delle linee guida in positivo, delle regole morbide[15]. Con questa metodologia, l’immagine è più spontanea e nasce dalla continua collaborazione tra il designer e l’imprenditore. Anche Fiorucci adottò questo approccio, utilizzando immagini di origine diversa (come i putti di Raffaello o Mickey Mouse) accostate in maniera sempre armonica e differente. Mentre molte delle grandi aziende puntavano a massimizzare la propria visibilità adottando un approccio ulmiano duro e assolutistico alla comunicazione, attraverso gli strumenti dell’uniformità e della reiterazione, molte aziende hanno deciso di non dare così larga importanza al logo e agli elementi di immagine coordinata per la loro identificazione. Diverse imprese hanno infatti preferito un approccio differente, che attraverso eventi, campagne e sponsorizzazioni le accostasse più strettamente a dei valori che contribuissero a creare intorno


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ad esse un immaginario. Si segna allora un distacco, anche solo parziale, dalla rigidità della scuola svizzero-tedesca e un conseguente avvicinamento a modelli più dinamici. Naturalmente i due approcci non si annullano a vicenda; nel caso di Benetton ad esempio, il brand manual e una base visiva definita sono riusciti a convivere negli anni novanta con una strategia che poneva al centro le fotografie di Oliviero Toscani piuttosto che il marchio, e che ha definito fortemente l’identità del brand. Troviamo in questo un’anticipazione della corporate che varia, si espande e si muove. Gli anni sessanta hanno segnato il crollo dell’international style, che Scully definisce nell’architettura il crollo dell’età degli eroi,[16] il rifiuto del razionalismo, del funzionalismo e della forte concentrazione del potere; le grandi corporate sono state percepite come dei nuovi dittatori mentre si sono fatte sempre più strada le critiche al modello capitalista e alla globalizzazione. I cambiamenti sociali non potevano non riguardare anche il design e molti progettisti si sono trovati di fronte alla questione del ruolo sociale dei progettisti. Si è venuto a manifestare allora un rifiuto netto del corporate style e della brand culture. La critica si è mossa soprattuto sul piano politico e ideologico, è stato particolarmente importante il saggio “No Logo” di Naomi Klein, testo fondamentale del movimento no global che criticava proprio questo approccio dittatoriale dei brand, colpevoli di mettere la marca e i valori immateriali al primo posto, costringendo l’impresa a risparmiare sul sistema produttivo scegliendo di spostarlo in paesi del terzo mondo. Più recentemente è stato riaperto il tema dell’identità, superando la sola contrapposizione alle corporation. Un esempio è la recente riflessione sviluppata da Metahaven in Uncorporate Identity, che evidenzia alcune problematiche importanti nel design attuale, tra cui la tragicommedia per la pratica contemporanea del design. […] Stati e Corporation si sono scambiati i reciproci ruoli[17].

[16] Scully V. Architettura Moderna

[17] Metahaven, Uncorporate Identity


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[21] Oliviero Toscani, Manifesto per Benetton

[22] Pagine pubblicitarie Fiorucci


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Oggi ci si è resi conto che non è più possibile adottare il sistema ulmiano nel processo di creazione e gestione dell’identità; possiamo sintetizzare tutti i fattori analizzati all’interno di questo e del primo capitolo affermando che l’approccio hard non è adatto alla mediatizzazione, il marchio non resiste più alle mode e ai cambiamenti rimanendo stabile col passare del tempo, è quindi necessario sviluppare sistemi flessibili che si adattano bene a diversi contesti d’uso e media, che si possano modificare con il tempo e adeguarsi ai cambiamenti.

C’era una situazione diversa: si definiva il codice e poi lo si applicava. Oggi non è proprio possibile per la mediatizzazione: le cose cambiano dall’oggi al domani.

[17]

Carmi E.



3 Il progetto di identitĂ dinamica


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Flessibilità [1]

Eraclito

[2]

Non potrai bagnarti due volte nelle stesse acque dello stesso fiume.

Barbato A., Barbato D., Stefanoni A., Identità dinamica, tra metodo e pensiero laterale

Se nel capitolo precedente abbiamo visto come alcune definizioni prese dalla filosofia possano aiutare nella definizione dell’identità, ora utilizzeremo questo stesso aiuto per aggiungere alla staticità del concetto di essere, la dinamicità. Diametralmente opposto all’essere immutabile di Parmenide si trova la filosofia di Eraclito. Per questo pensatore il mondo si basa su l’unità dei contrari e sul conflitto continuo tra gli opposti. La sua concezione riprende il principio fisico del fuoco, perennemente mutevole e che vive nel proprio consumarsi[2]. Il panta réi rappresenta il concetto alla base della dinamicità della marca; il fiume è se stesso, benché le sue acque siano sempre diverse e proprio perché sempre diverse. All’interno del progetto di identità dinamica staticità e mutevolezza si uniscono in un unica entità, per comprendere meglio questa idea ci faremo aiutare dai filosofi atomisti. Questi in particolare unirono alcuni princìpi eterni appartenenti al concetto di essere con le forze del cambiamento del panta réi.


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In particolare, Empedocle vede la varietà e la molteplicità come la diversa unione di quattro radici, acqua, aria, terra e fuoco; ognuna di esse ha però le caratteristiche tipiche dell’essere parmenideo. Anassagora similmente definisce dei semi di vario genere, ogni elemento reale è formato dai semi di ogni sostanza in diversa quantità, generando le molteplici differenze percepite dai sensi. Democrito e gli atomisti infine, definirono una serie di elementi non divisibili (gli atomi) concettualmente simili all’essere parmenideo, che si uniscono e separano. La diversità e il mutamento derivano dal differente odine e posizione di questi.

[1]

Eraclito


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Identità dinamica [3]

Finessi B., Manuale di immagine non coordinata

[4]

Secolo C., Identità dinamica

Tutto può cambiare, allora; tutto deve cambiare, quindi; ogni cosa dovrebbe avere una sana capacità di adeguarsi all’oggi. Mostrandosi cangiante, assecondando le necessità mutevoli di un tempo dalle temperature molto variabili: il nostro. Osare il vietato.

Nonostante si possa collegare il progetto di identità dinamica ai cambiamenti più recenti nel progetti di immagine coordinata, la tematica non è totalmente nuova; possiamo considerare Bibendum, la mascotte della Michelin uno dei primi casi di logo variabile[4].I primi progetti consapevoli di identità variabile però compaiono negli anni sessanta, in questo contesto troviamo il progetto di F.H.K. Henrion, uno dei padri della corporate image, per Metra International. Il marchio doveva individuare dodici società del gruppo Metra International, per riuscirci è stata creata una trama esagonale composta da una serie di punti, ogni società traeva da questa griglia la propria iniziale, ottenendo quindi il proprio marchio unico e in coerenza con tutti gli altri. Il progetto di identità cinetica muove i suoi passi anche dal movimento di arte programmata, citato nel primo capitolo; tra i suoi esponenti più importanti troviamo Karl Gerstner. Il suo marchio per il mobilificio Holzäpfel è definito da Giovanni Anceschi elastico; era stato progettato per adeguarsi in forma e dimensione agli imballaggi.


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[2]

Henrion F.H.K Matrice del marchio per Metra International

[3]

Gerstner K. Marchio Holzäpfel

[4]

Gerstner K. Applicazioni del marchio Holzäpfel


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[5]

Secolo C., Identità dinamica

[5]

Van Nes I., Dynamic Identities

[6]

Anceschi G., Hard, Soft, Smart, Progetto Grafico n°9

Anche Paul Rand sperimentò un marchio dinamico prima dell’esistenza degli hypermedia e dei computer, nel progetto per la Westinghouse. Il marchio era presentato attraverso una sequenza cinematica che formava la W con tre punti ai vertici che rappresentavano lo switching dei contatti elettrici. Paragonato alle sperimentazioni di Saul Bass, può essere considerato il primo esempio di marchio cinetico, che sfrutta il movimento[5]. Sempre Gerstner, nel gruppo GGK con Paul Grendiger e Marcus Kutter, creerà negli anni settanta uno dei progetti più innovativi in questo percorso, il logo per Literature in Köln. I tre designer progettarono il marchio seguendo una semplice formula: le tre lettere che costituiscono l’acronimo LIK possono essere stampate ognuna con un qualsiasi carattere tipografico diverso, permettendo così di creare innumerevoli composizioni differenti mantenendo però la riconoscibilità del marchio. Non si tratta più di un unico logo che si adatta o di una rigida griglia di costruzione: la variabilità è qui l’elemento caratterizzante. Questo procedimento sarà ripreso in progetti a noi più vicini, favorito dallo sviluppo dei nuovi media come nel caso del progetto dello studio Mind Design per il sito web Gumbo TV. Uno dei primi brand ad adottare un logo variabile di successo è stato MTV[5]. Intorno agli anni ottanta, l’emittente televisiva, che si rivolge ad un pubblico giovane e anticonformista, ha adottato un’identità che potesse risultare più interessante per la propria audience e ne rispecchiasse il mondo, collaborando di volta in volta con videomaker, animatori e illustratori e creando una miriade di loghi differenti negli stili più disparati, dal cartoonistico al tridimensionale, dal techno all’illustrazione. Così facendo ha creato la propria identità proprio dal rispecchiare le mode giovanili, cambiando di volta in volta ma ritornando sempre all’originale. Anche il marchio Fiorucci ha anticipato il concetto di marchio dinamico[6], nei suoi primi anni. Anceschi lo colloca nel polo soft


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in quanto accostando immagini di origine differente (da Mickey Mouse ai putti di Raffaello), otteneva l’armonia degli elementi in situazioni sempre imprevedibili.[7] Vanni Pasca e Dario Russo osservano come Fiorucci abbia rinunciato ad un marchio stabile, apparendo di volta in volta in maniera diversa e quasi confusa, pur riuscendo a mantenere la propria identità e riconoscibilità.

[7]

Anceschi G., Hard, Soft, Smart, Progetto Grafico n°9

[5]

Rand P. Marchio per Westinghouse

[6]

GGK, Marchio per Literature in Koln

[7]

[8]

Marchio Mtv

Mind Design, Gumbo tv


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Tempo, variabilità e flessibilità [6]

C.Chiappini A.Cioffi Identità cinetiche Progetto grafico n°9

Se il designer stabilisce le regole, chi sono i giocatori? Il coinvolgimento attivo della massa auspica un modello di design interattivo e democratico.

Ne la comunicazione dei beni culturali, Cinzia Ferrara individua cinque paradigmi visivi, aree di ricezione utilizzati da diversi progetti di comunicazione che definiscono una mappatura delle linee di ricerca in atto nel campo dei beni culturali. Tra questi troviamo: la parzialità, ovvero l’utilizzo della sineddoche, l’adozione di una singola parte per definire l’elemento nella sua completezza, come nel progetto di Philippe Apeloig per il Museo di arte e storia ebraica di Parigi, in cui l’immagine della menorah è utilizzato per rappresentare l’intera cultura giudaica; la temporalità, l’introduzione della variabile temporale nel processo progettuale e produttivo, di cui è esempio esplicativo il progetto CODEsign per il Conservatorio Tartini di Trieste, dove il logotipo non si ripete mai uguale a sé stesso ma deriva dalla composizione randomica di un piccolo alfabeto; la fluidità, simile alla temporalità, prevede la trasformazione della forma nello spazio, ad esempio con la presenza di diverse lettere più o meno sfocate come avviene al logo della Tate Modern di Londra nel progetto di Wolff Olins; la variabilità e quindi la tendenza


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[8]

Apeloig P., bozze di logo per il Museo di Arte e Storia Ebraica

[9,10,11]

Wolff Olins, logo e applicazioni per il Tate Modern Museum


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[7]

Ferrara C., La comunicazione dei beni culturali

alla molteplicità, con loghi e logotipi che non sono più unici ma progettati in molteplici varianti, ad esempio nel progetto di Bruce Mau per NAI (Netherlands Architecture Institute) di Amsterdam; la spettacolarità e seduttività come adozione di un linguaggio volutamente spregiudicato come quello adoperato da Sabrina Era nel progetto per il Mar di Nuoro per comunicare l’arte contemporanea. La comunicazione visiva sta quindi evolvendo secondo differenti strade, grazie anche all’utilizzo di strumenti che in passato non le appartenevano. Tutto ciò ha messo in discussione il progetto tradizionale di immagine coordinata che è costretto a trasformarsi per sfuggire all’obsolescenza, sostituendo alla rigida concezione dell’immagine coordinata la flessibilità di un immagine pur sempre coordinata, ma caratterizzata dalla presenza di più varianti. [7]

Il progetto più tradizionale di immagine coordinata può anche convivere con i fattori di tempo, variabilità e flessibilità, riconoscendo in valore aggiunto che questi comportano, come è possibile vedere nel caso di Google, che possiede un proprio logotipo e dei colori fissi ma viene reinventato nelle occasioni speciali attraverso i “doodle”. In molti altri casi però la variabilità viene inserita già in fase progettuale. Il valore che una componente dinamica piò aggiungere al progetto di identità varia di caso in caso; per definizione rappresenta l’evoluzione, lo sviluppo, la forza e per questo può sottintendere alcuni di questi concetti nell’identità della marca. Rappresenta in certi casi una vera dichiarazione di intenti e comporta, come si nota soprattutto nei progetti per enti culturali, l’avere molti contenuti da comunicare, per questo è particolarmente efficace quando si vuole comunicare la molteplicità. Per quanto alcuni possano considerarlo un trend passeggero, alle volte anche qualcosa di rischioso per un brand, vi sono degli ambiti in cui il progetto di identità dinamica è particolarmente efficace: un


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[12]

Google doodle

[12] Bruce Mau Design, Marchio per il NAI


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esempio sono le piattaforme interattive e le emittenti televisive, dove consente la creazione di esperienze differenziate sui contenuti o sugli utenti, permettendo anche di dare luogo a processi di co-creazione e condivisione; può inoltre essere una soluzione nel caso della narrazione di storie particolarmente complesse, in cui emergono più sfaccettature di una stessa identità infine può essere un modo per rendere un marchio preesistente più attuale, divenendo una modalità di restyling.



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Progetto di identità variabile [8]

Van Nes I., Dynamic Identities

An identity should be as organic as the company it is designed for; it should speak it’s language, grow with it, and adapt to its environment.

All’interno del libro Identità dinamica, Tra metodo e pensiero laterale, Andrea e Davide Barbato con Alessandro Stefanoni propongono un sistema progettuale per l’identità dinamica. L’approccio da loro presentato fonde in un sistema unico il metodo di Bruno Munari e il pensiero laterale di Edward de Bono. Il metodo di Munari è basato su una serie di passaggi che consentono la scomposizione di un problema in un ordine sequenziale: a partire dalla definizione di un problema, la prima cosa da fare è definirlo, definendo anche i limiti entro i quali operare. Successivamente il problema va diviso nelle sue componenti, i sottoproblemi da risolvere e poi ricomporli nel progetto globale; per riuscire ad affrontarli è necessaria la documentazione e la successiva analisi dei dati; a questo punto entra in gioco la creatività. La documentazione non è del tutto finita, adesso si sposta sulla ricerca dei materiali per realizzare la propria soluzione; con questi è possibile sperimentare per capirne le potenzialità e realizzare prototipi che successivamente saranno verificati.


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[13]

Bruno Munari

[14]

Edward De Bono


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Per comunicare il proprio progetto sono poi necessari dei disegni costruttivi. [9]

Munari B. Da Cosa Nasce Cosa

È bene perciò fare subito una distinzione tra il progettista professionista, che ha un metodo progettuale, grazie al quale il lavoro viene svolto con precisione e sicurezza, senza perdite di tempo; e il progettista romantico che ha un’idea “geniale” e che cerca di costringere la tecnica a realizzare qualcosa di estremamente difficoltoso, costoso e poco pratico ma bello. Lasciamo quindi da parte questo tipo di progettista che, oltre tutto, non accetta consigli e aiuto da nessuno! e occupiamoci del metodo Il pensiero laterale descritto da Edward De Bono rappresenta un ottimo strumento per venire a capo di una situazione di impasse. Mentre il metodo di pensiero comune tende a procedere in linea retta, quello laterale consente di prendere consapevolmente altre vie ed è particolarmente orientato al problem solving. I due tipi di pensiero sono naturalmente complementari, uno consente di vedere le cose da prospettive differenti, l’altro di sviluppare e approfondire. De Bono propone delle tecniche che ne consentono il corretto utilizzo: la generazione di alternative, ampliando la propria visione del problema, il mettere in discussione i presupposti e la sospensione del giudizio, quest’ultimo utile a rinviare il momento in cui sarà selezionata l’idea, senza aver paura di proporne di sbagliate, il frazionamento, ovvero la suddivisione di una problematica in più parti, l’inversione degli elementi nel contesto, il brainstorming di gruppo, l’utilizzo di analogie e lo stimolo casuale, che consente di utilizzare informazioni considerate non rilevanti.

[10] De Bono E. Pensiero Laterale

Il principio essenziale del pensiero laterale recita: ogni modo particolare di considerale le cose è solo uno fra i molti altri modi


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[15] Metodo progettuale proposto da Munari in Da Cosa Nasce Cosa


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I due approcci hanno molti punti di contatto, il sistema che risulta dall’unione dei due utilizza il pensiero laterale a sostegno del momento creativo descritto da Munari. Da un lato troviamo gli input passivi, costituiti dalla richiesta del committente e da tutte le informazioni che la accompagnano e descrivono, non solo il problema proposto ma anche tutti gli elementi del contesto in cui si pone (nel caso di un’azienda, ad esempio, sono da tenere in considerazione mission, vision, strategia e linguaggio più che i riferimenti stilistici). Poiché in questa prima fase potrebbero emergere delle idee progettuali premature, che potrebbero farci perdere tempo ed essere poco fruttuose, è utile avere un proprio “cassetto” dove riporle per poi poterle riprendere in considerazione in una fase più matura del progetto. Dopo aver quindi ricevuto gli input passivi, è opportuno svolgere un lavoro di ricerca, reperendo tutto il materiale che può essere utile per comprendere il contesto in cui verrà calata la nuova identità. Tra questi input attivi troviamo tutte le informazioni che riguardano i competitor. La loro raccolta sarebbe però inutile senza una fase successiva di analisi, per scomporre tutti gli input in elementi singoli di un insieme ancora non esistente. Durante questa fase è normale che si tenda a voler aggregare alcuni elementi per generare dei nuovi modelli, stiamo quindi entrando in una prima fase del processo creativo, in cui vengono valutati gli elementi delle componenti identitaria e dinamica. È consigliabile mappare questi input, e per farlo viene suggerito l’utilizzo della metafora dell’albero, organizzando gli elementi in maniera gerarchica. Questa prima fase del progetto coinvolge esclusivamente i contenuti dell’identità. I modelli che qui emergono diventano la base per il progetto creativo, in cui vengono realizzate le prime bozze grafiche e viene valutato il potenziale comunicativo dei modelli per potere alla fine selezionarne uno solo. Individuato il modello e realizzata una sua veste grafica definitiva, è importante che il marchio sia applicato sui diversi supporti e attraverso


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i diversi media senza generare ambiguità comunicative non desiderate. All’interno di questo progetto saranno presenti delle fondamenta di primo e secondo livello, identitarie e più statiche le prime, dinamiche le seconde.

input passivi

input attivi

DESCRIZIONE

RICERCA

[16] Input passivi e attivi, come espressi in Identità dinamica: tra metodo e pensiero laterale

IDEA GENIALE cassetto

Foglie

INPUT

Rami Tronco Radici

[17] Struttura ad albero per ordinare gli input come espressa in Identità dinamica: tra metodo e pensiero laterale


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Diverse tipologie [11]

Caprioli S., Corraini P., Manuale di immagine non coordinata

[12] Van Nes I., Dynamic Identities

Lo stesso tipo di formaggio può assumere gusti e sfumature molteplici a seconda del luogo e del periodo in cui è prodotto e stagionato. Ma è sempre lo stesso tipo di formaggio. Dove sta la riconoscibilità? Nella forma del formaggio o nel processo di produzione? Il medesimo processo produce risultati simili ma sempre diversi tra loro.

Per Irene van Nes, un’identità dovrebbe essere tanto organica quanto la compagnia che essa rappresenta, parlare la sua lingua, crescere e adattarsi al suo ambiente. Il suo modello di sistema identitario è costituito da sei elementi e dalle loro interazioni: logo, tipografia, colore, immagini, elementi grafici e linguaggio. Ognuno di essi aiuta ad affinare l’identità del brand e più queste sono fissate, più l’identità è definita. Fissarne almeno uno consente invece molta mobilità con gli altri, consentendo la creazione di un’identità dinamica. Van Nes analizza i diversi progetti di identità dinamica in base agli elementi che vengono mantenuti fissi e variabili, riuscendo a dividere i progetti presi in esame in sei diverse categorie. La scelta più ovvia è quella di utilizzare il logo come una scatola[12], un contenitore il cui contenuto cambia costantemente. In questo caso tutte le variabili sono fisse tranne una, che cambia costantemente, come avviene nell’identità progettata dallo studio Landor Associates per la città di Melbourne: mentre la forma della ‘M’ è costante, il trattamento al suo interno è mantenuto variabile


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con texture differenti. Questo tipo di trattamento garantisce un’alta riconoscibilità, ottenendo allo stesso tempo la variabilità. Un trattamento simile avviene mantenendo un logo costante e posizionando degli elementi variabili dietro di esso. Così facendo l’elemento dinamico è lo sfondo. Wolff Olins ha creato questo tipo di identità per Aol, un provider di servizi online. Similmente a come avveniva con il marchio di Mtv, lo spazio dello sfondo può essere riempito di volta in volta attraverso un database di opere realizzate da artisti di tutto il mondo, consentendo anche ai visitatori di sceglierne una da utilizzare.

typo

colour

[18] Elementi dell’identità dinamica, rappresentati in Dynamic Identities

language

logo

imagery

graphic elements


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Se consideriamo il processo che porta alla realizzazione di un sistema identitario come una ricetta, composta da degli ingredienti e dei passaggi da seguire, scegliere di mantenere uno dei due fissi e far variare l’altro elemento dà vita a quello che Corraini e Capiroli definiscono “immagine non coordinata”; con questo metodo il designer dà vita ad un processo che spesso, se non sempre, elude il suo controllo lasciando un ampio margine di libertà e di possibile variazione, aprendosi all’interazione con più interlocutori e creando un brand “vivo”. Associando gli ingredienti dell’identità seguendo diverse ricette si ottiene quella che van Nes definisce “DNA”. In questo processi il designer fornisce uno strumento, costituito da singoli elementi identitari, che possono essere assemblate come dei mattoncini, di volta in volta con conformazioni e output differenti. È questo il caso di IDTV, progetto del 2007 di Lava, il cui DNA è formato da pixel in bianco e nero che possono essere combinati in diverse configurazioni e dimensioni. All’opposto si pone l’approccio che vede la “ricetta”, la formula come costante dell’identità. Questa può essere una griglia o un insieme di regole con cui vengono assemblati elementi sempre diversi, dando vita a una grande variabilità. Nel caso di Google e dei suoi doodle, in ogni ricorrenza o evento a rimanere costanti sono i colori e delle forme che rimandino al logotipo mente è possibile sbizzarrirsi con ogni altro elemento dell’identità.


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[18] Landor Associates, IdentitĂ per la cittĂ di Melbourne

[19] Lava, costruzione e marchio per IDTV


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[13]

Bourriaud N., Estetica Relazionale

L’artista incita l’osservatore a prendere posto in un dispositivo, a farlo vivere, a completare il lavoro e a partecipare all’elaborazione del suo Se uno dei componenti viene lasciato aperto all’interazione, agli utenti, è possibile personalizzare in maniere differenti l’identità. Giovanni Anceschi individua con il termine “smart” questo tipo particolare di identità dinamica, che potremmo definire relazionale e interattiva. Il polo “smart” si pone in questo caso come terzo punto nel triangolo semantico con quelli “hard” e “soft”. Attraverso questa modalità operativa si ha il passaggio dal controllo del progetto al controllo del processo, il designer stabilisce le regole per dei giocatori e l’azienda diviene un medium. Questo approccio ha guidato il progetto di Bruce Mau Design per il logo dell’università OCAD: mentre la forma e la tipografia mantengono una composizione costante, il logo crea uno spazio vuoto aperto alla personalizzazione da parte degli studenti. Allontanandosi sempre di più da una governance forte, troviamo le identità generative. In questo caso non abbiamo un unico elemento che può essere personalizzato, ma l’intera identità è influenzata da dati esterni, variando in tempo reale. L’efficacia di un progetto generativo è legato ai margini di libertà concessi al progetto stesso. Questo tipo di identità in particolare è in grado di riflettre il mondo in cui vive, come fa il logo di Neue per la penisola scandinava Nordkyn, che usa i dati di temperatura e direzione dei venti forniti dalla sua stazione meteorologica. È bene notare come, seppur la maggioranza di questi progetti sfrutti in maniera più o meno forte il digitale e le tecnologie attuali, non tutti i progetti di identità dinamica nascono da elementi virtuali: è il caso del progetto del 2007 di Alexis Rom Estudio per Get Up!, un piccolo parrucchiere di Barcelona, che nasce dall’utilizzo e dalla combinazione di timbri differenti che rappresentano volti e capelli, questi vengono forniti al salone dando al proprio cliente uno strumento con cui giocare e personalizzare i propri biglietti da visita e poster.


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[20] Bruce Mau Design, OCAD University

[21] Neue, identitĂ per la penisola di Nordkyn

[21]

Alexis Rom Estudio, marchio per Get Up!


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Graphic Design Festival Scotland 2017 Graphical House e Warriors Studio 2017

We ask. You decide. Il festival annuale che si tiene a Glasgow cambia identità ogni anno riflettendo la crescita dell’organizzazione del GDFS. Quella dell’edizione 2017 è stata realizzata da Graphical House e Warriors Studio. Per questa edizione gli studi hanno voluto creare un’identità che esplorasse il tema della democrazia e i sistemi che consentono e controllano i processi decisionali. L’identità si basa su un generatore di poster, in cui gli utenti sono messi di fronte a delle decisioni, in cui le domande sono chiare, mentre rimane oscuro il significato di ogni scelta. Questo si basa sull’idea che nel panorama sociale attuale ognuno di noi si trova di fronte a delle scelte binarie, si/no, destra/sinistra, dentro/fuori. I media riportano notizie che sono bianche o nere. Questi limiti non sono rilevanti solo socialmente, ma influenzano anche l’operato di chi si occupa di design. I designer danno forma alla comunicazione, svolgendo un ruolo critico nel modo in cui percepiamo e comprendiamo il mondo. As designers, the decisions we make together affect what is produced, this affects how our work connects with the audience, the outcome for the client and the effectiveness of what is created. Dopo aver risposto a tutte le domande, l’utente si trova di fronte al risultato delle proprie scelte. I parametri sono legati a delle semplici scelte di design, tutti gli elementi utilizzati sono neutri, il font (helvetica), i colori (cmyk), i pattern (linee o punti), il layout. La giustapposizione di questi elementi crea una miriade di poster differenti, visualizzabili sul sito, in cui gli elementi costruttivi rimango gli stessi, mantenendo una riconoscibilità elevata attraverso le variazioni.


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Grow Waitaha Open Lab 2016

Dopo il terremoto di Canterbury, in Australia, è stata necessaria la ricostruzione di diverse scuole della regione. Attraverso diverse collaborazioni, Grow Waitaha ha colto l’occasione per affiancare alla ricostruzione la nascita di nuovi e innovativi ambienti per l’educazione. Per l’associazione è stata realizzata un’identità dinamica che portasse con sé le storie e le relazioni della zona, lanciando la connettività di bambini, whanau (termine maori che indica la famiglia), comunità e scuole. Alla base del progetto si trovano sei elementi che rappresentano i valori del programma (comunità, collaborazione, dare potere, bambini, locale, imparare). Queste formano il Poutama, il pattern che simboleggia tradizionalmente il livello raggiunto dall’individuo nell’apprendimento. Il progetto si collega strettamente con il territorio in cui si contestualizza e con la cultura del luogo, utilizza forme geometriche semplici e facilmente giustapponibili, dei colori vivaci e nitidi che caratterizzano tutta la corporate image del programma. Il progetto ha vinto il premio Best Design Award del Designer Institute of New Zeland nel 2016.


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20th Biennale of Sidney For the People 2016

La biennale di Sidney è il più grande evento di arte contemporanea in Australia. L’esposizione dura tre mesi, estendendosi in sette aree della città e ospitando al suo interno trentacinque paesi. Il tema per l’edizione 2016, curata da Stephanie Rosenthal è ‘The future is already here — it’s just not evenly distributed’. Questo suggerisce che abbiamo già oltrepassato le aspettative per il futuro e che il mondo attuale si trova ad essere strettamente connesso alla realtà virtuale e ad internet. A questo tema, l’identità aggiunge quello della ambasciate, del creare delle variazioni individuali su un’identità più grande. Ognuna di esse ha il proprio linguaggio tipografico, un lettering, una palette e un delegato dalla forma stilizzata. Ognuna di esse è una sezione di un flusso continuo di informazioni, che porta con sé una parte delle esperienze e della distribuzione dell’arte attraverso le città. Muovendosi da una zona all’altra le caratteristiche di ognuna si uniscono e assimilano a quelle delle altre, mescolandosi e dando vita ad uno scambio, ad un dialogo culturale.


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Telia Wolff Olins 2011

Telia è una compagnia di telecomunicazioni che opera in Scandinavia e nei paesi Baltici. Si tratta di una compagnia attenta ai propri clienti, che privilegia i contenuti, i prodotti e i servizi. Il brand deve riflettere la mission: bring the world closer on customer’s terms, funzionare bene nel digitale ed essere divertente, dirompente e colorata. Nel suo sviluppo, il progetto si è concentrato soprattutto sull’esperienza per l’utente piuttosto che su touchpoint specifici. Il logo ha la forma di un ciottolo, e appare in tutta la comunicazione dell’azienda. È portatore dell’espressione creativa del brand, ne rappresenta la parte variabile, si comporta in maniera dinamica e su di esso si muovono linee colorate; ognuno di essi è diverso e ogni utente ha il proprio. I colori sono estremamente vivaci per risaltare sugli schermi. Tutta l’identità è stata progettata per vivere nelle mani dell’utente: il ciottolo esiste sia nel mondo reale che online, ed è progettato per muoversi in quest’ultimo ambiente. Il sistema di funzionamento è flessibile e può essere declinato in modi diversi ed essere adattato a molteplici contesti.


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Graphcore Pentagram 2017

Graphcore è una startup con base a Londra e Palo Alto che opera nell’ambito tecnologico con l’ambizioso obiettivo di creare un futuro in cui l’apprendimento automatico delle macchine renderà la vita più semplice. Gli associati di Pentagram Jody HudsonPowell e Luke Powell hanno lavorato a stretto contatto con l’impresa per creare un’identità che la mostrasse come un’azienda estremamente innovativa. L’approccio si differenzia da quello classico al mondo dell’informatica e dell’elettronica, utilizzando una palette di colori soffici e illustrazioni delicate. Il logotipo è realizzato con il font progettato da Pentagram Graphcore Quantized. Quando viene digitato cambia progressivamente l’aspetto delle lettere, da squadrato a rotondo, garantendo risultati differenti ad ogni utilizzo. Lo studio ha inoltre sviluppato un generatore di forme che consente di realizzare pattern per il sito della start-up, basandosi su una griglia a base quadrata. Il generatore è poi parzialmente randomico e consente un utilizzo completo da parte dell’azienda. Le illustrazioni di Carla McRae caratterizzano la comunicazione del brand, mostrando come l’apprendimento automatico possa influenzare la vita di tutti i giorni e le industrie del futuro.


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Flow Group Cafè Design 2013

Il gruppo Flow si occupa di consultazione sviluppo alle aziende e vuole presentarsi come un’azienda composta da molti segmenti e da molte personalità. Per comunicarne l’identità, Cafè Design ha creato una griglia da cui ogni dipendente potesse disegnare il proprio logo, connettendo cerchi e linee in maniera sempre differenti e utilizzando una palette estremamente vasta. Attraverso questa griglia è stato possibile creare il marchio per sessanta dipendenti, ognuno diverso, e quelli dei diversi dipartimenti dell’azienda. Il sistema dinamico ha dato vita a biglietti da visita originali e sempre diversi per ogni dipendente, inoltre è riuscita ad organizzare e comunicare la struttura dell’organizzazione, mantenendo la continuità in ogni applicazione e risultando animata ed interattiva all’interno del sito web.


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Nomads Mestudio (Martin Pyper) 2013

Nomads è un’agenzia di advertising internazionale con base ad Amsterdam. Martin Pyper ha realizzato l’identità visiva dell’agenzia basandosi sui segni e colori tribali. Questi simboli possono essere combinati in maniere diverse e variare in maniera dinamica e cinetica. Per ogni impiegato è stato creato un marchio unendo singoli simboli, ognuno associato ad una caratteristica della persona. I marchi sono poi stati utilizzati per creare i biglietti da visita e dei poster, che uniti tra di loro vanno a formare la tribù dell’agenzia. Questo approccio ha fatto sì che venisse dato risalto alle caratteristiche e unicità di ogni membro dell’agenzia utilizzando però dei simboli comuni identificativi del gruppo intero.


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4 L’identità di Otto


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Elastico Elastico è l’oggetto, Elastico è il suo uso, Elastico è il modo di pensarlo.

L’elastico: un oggetto semplice, comune e particolarmente economico. Elastico è l’oggetto stesso, ma anche l’aggettivo, il valore intrinseco. L’elasticità è la caratteristica principale del prodotto, ma è anche l’oggetto stesso a potere essere usato con elasticità. Non solo per tenere arrotolato un pacco di fogli, ma anche per esempio per chiudere un pacchetto di zucchero, per creare una fionda, oppure per tenere unite matite e perfino al posto del compasso. Anche nel 1837, prima dell’invenzione dell’elastico, il mastice prodotto da Thomas Hancook veniva usato in moltissimi modi, dalle gomme d’auto piene, ai cuscini, materassi, tubazioni e scarpe, solo per citarne alcuni. È solo nel 1845, quando Stephen Perry deposita il brevetto per la sua gomma vulcanizzata che nascerà l’elastico come lo conosciamo oggi. Perry, nel suo brevetto, specifica chiaramente che l’elastico fosse utilizzabile per diversi scopi. L’elastico, dunque, ha storicamente un uso vario, un uso “elastico”. Ed è proprio questo il valore principale che l’identità di marca deve poter comunicare.


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L’elastico inoltre si adatta, cambia dimensione e forma e assume la forma dell’oggetto o degli oggetti che tiene uniti. Se pensiamo all’ufficio, un uso dell’elastico è quello di tenere assieme plichi di fogli o matite. L’adattabilità dell’elastico è un punto cruciale nella funzione dell’elastico ed è un ulteriore valore che deve essere considerato per lo sviluppo dell’identità di marca. Dopo aver considerato la variabilità e l’adattabilità, lo sguardo critico non può che soffermarsi sul colore. Il colore dell’elastico è ben definito, ma non unico. Gli elastici vengono venduti di ogni colore, da quelli tradizionali a quelli bicolore, passando per colori fluorescenti. Il colore dell’elastico non è fondamentale per l’uso, ma può generare un valore aggiunto ed è apprezzato per gli usi più creativi. Infatti la vivacità dei colori permette un uso secondario degli elastici, dai braccialetti per bambini fino ai vestiti per modelle, oltre che arredamento come le sedie. L’utilizzo del prodotto è limitato solo dalla fantasia delle persone. Inoltre perfino la varietà dei colori, richiama il valore dell’elasticità degli elastici e per un buon progetto comunicativo se ne deve tenere conto. Un aspetto importante che l’elastico porta in maniera indiretta è l’aspetto della tattilità: qualunque uso dell’elastico passa prima dal contatto con le mani. Dunque anche la gestualità fa parte dell’anima dell’elastico e dev’essere considerata come un aspetto importante per la comunicazione.


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Valori Elasticità Inventiva Unione

Dalle caratteristiche dell’elastico derivano i valori della marca, individuati innanzitutto nell’elasticità, sia fisica che metaforica, declinata nella scelta di creare una identità dinamica per potere comunicare al meglio questa caratteristica dell’oggetto. Il secondo valore della marca consiste nell’inventiva, derivata dagli svariati usi che possono essere fatti della semplice striscia di gomma, e il cui obiettivo è quello di ispirarne molti altri, soffermandosi a pensare come con le cose più semplici è possibile creare e divertirsi.L’ultimo valore consiste nell’unione, in quanto uno degli usi dell’elastico è quello di tenere uniti diversi oggetti. L’unione si collega all’inventiva, suggerendo gli utilizzi per tenere legate cose e all’idea delle relazioni personali, lo stare insieme, l’essere uniti da una passione. Il nome dato alla marca è otto in quanto richiama la forma che un elastico crea quando si avvolge su se stesso, ma anche il simbolo dell’infinito, per gli infiniti usi che possono essere fatti dell’oggetto ed è un nome palindromo, quindi aggiunge curiosità, giocosità alla marca.


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La marca si inserisce quindi in un contesto vivace e colorato, nel mondo delle scrivanie, dove è maggiormante possibile trovare elastici. Si discosta però, dall’idea dell’ufficio triste e monotono, prediligendo le scrivanie delle persone creative e che volgiono esprimere il proprio estro attraverso i colori. Il mondo di otto è ordinato, colorato, giocoso. La marca comunica con un tono informale e giocoso e usufruisce sia della stampa che dei canali online come web e social. L’obiettivo della comunicazione è quello di ispirare nuovi usi agli oggetti semplici del quotidiano e stimolare la fantasia, proponendo idee e coinvolgendo gli utenti. Il target, però, non è precisamente definito, in quanto l’oggetto è utilizzato pressoché da tutti e si trova in tutte le case.


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Immagine coordinata Portare la creatività in ogni ambiente Ispirare nuovi usi per l’elastico

L’identità di OTTO si compone di alcuni elementi fissi e invariabili e di altri dinamici. Ciò che rende l’identità dinamica sono il marchio generativo e la palette cromatica. Il marchio rappresenta un elastico in torsione e rimanda al segno dell’infinito: in un segno si è voluto rappresentare sia l’oggetto che un suo valore, la molteplicità di usi che questo può avere. In ognuna delle sue applicazioni, si presenta con questa torsione, può essere ripreso in diverse angolazioni e inquadrature, pur mantenendo il suo incrocio caratteristico. La texture è data dalla sfumatura di due colori della palette cromatica che si compone di cinque colori, nell’ordine: rosso, giallo, verde, azzurro e viola. Questi vengono utilizzati nella sfumatura due alla volta tra colori adiacenti, ma compongono anche altri elementi dell’identità. La parte fissa dell’identità è costituita dal logotipo e dal payoff. L’elemento stabile del logotipo, che funziona sia associato al marchio che singolarmente, garantisce la riconoscibilità quando questi sono associati e serve a dare un riferimento fisso a chi vede il


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marchio; alle volte, specialmente nelle comunicazioni istituzionali, è associato anche al payoff “elastici di idee”. Se il naming serve a rappresentare da un lato la giocosità del brand, dall’altro il concetto di infinito già presente nel marchio, il payoff rimanda alla vision aziendale di otto, comunicando l’elasticità dell’utilizzo e soprattutto dell’approccio che il brand propone per il proprio oggetto; avere delle idee elastiche è essenziale per poterlo sfruttare al meglio. L’identità ha delle proprie regole di funzionamento, che mirano a mantenere la coerenza nella comunicazione del brand attraverso i vari media e nelle diverse declinazioni. Il marchio funziona sia singolarmente che associato al logotipo ed eventualmente al payoff. Il marchio va usato sempre su di un fondo colorato e quando a questo viene associato il logotipo, anche questo prende il colore che si trova davanti nel logo; nel caso dell’esempio precedente quindi su fondo rosso, il logotipo sarà giallo. Quando si trova da solo, come nel packaging, il logotipo può anch’esso avere un fondo colorato e portare il colore adiacente, tuttavia funziona anche in bianco e colorato su fondo bianco, anche se questi usi sono più rari. La palette cromatica è il secondo elemento che garantisce la dinamicità dell’immagine, grazie alla sua ampia gamma di colori e trasmette la filosofia del mondo di OTTO, colorato e vivace come gli oggetti di cancelleria in cui si contestualizza. Nelle sue applicazioni più essenziali si può comprendere il funzionamento dell’identità di otto; nella carta intestata troviamo la sua espressione più formale, con lo sfondo bianco, i testi neri e diversi colori del marchio, nei biglietti da visita e nei poster esplode invece nei suoi colori, scomponendo il rapporto tra il logo e il logotipo per dare il giusto risalto alla variabilità e alla giocosità.


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Il marchio di OTTO deriva dalla forma dell’elastico, dall’idea della sua variabilità e dalla vivacità dell’oggetto. Le forme del marchio sono potenzialmente infinite ed è stato creato un apposito programma per potere generare con un clic i diversi marchi. I parametri su cui si basa la variazione sono il punto di vista dell’oggetto tridimensionale (esclusi i punti di vista in cui la forma non si incrocia) e il colore: possono essere selezionate diverse sfumature tra colori adiacenti appartenenti alla palette di marca. Il font del logotipo è stato appositamente creato per la marca, ispirato ai font geometrici e quindi prendendo come partenza forme regolari come cerchi e rettangoli. Sono state quindi applicate correzioni ottiche. Come il nome stesso, il logotipo è simmetrico e la sua semplità serve a dare maggiore spazio al marchio sovrastante. Il payoff racchiude l’idea della variabilità legata all’oggetto elastico e al modo di vederlo. Contiene la vision dell’azienda e il senso metaforico dell’elastico. Il font usato è il Source Sans Light, appartenente alla famiglia di font istituzionali del brand, ed è sempre accompagnato dal logotipo.


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elastici di idee


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Per comunicare la varietà della marca è stata adoperata una ampia palette cromatica composta da 5 colori che possono essere utilizzati come sfondo, colore del testo o immagine, in bicromia oppure come sfumatura per il colore del marchio. La regola per l’utilizzo delle sfumature vuole che solamente due colori adiacenti possano essere utilizzati insieme e, nel caso del marchio, csi individua un colore predominante, ovvero quello della parte che sta davanti ed uno secondario che consiste nel colore che si trova nel segmento dietro. Può essere applicato su fondo bianco, quando utilizzato per le comunicazioni istituzionali, e in questo caso va utilizzato nella sua formula completa. La forma in cui però sviluppa tutto il suo potenziale è quando associato ad uno dei cinque colori della palette come sfondo; in questo caso si poggia sul colore secondario (inteso quindi nella sua forma tridimensionale) fondendosi parzialmente con il colore che gli sta dietro, l’altro colore che lo compone risalta maggiormente ed emerge. Considerando che i colori sono associati in base alla loro vicinanza all’interno della palette prestabilita (il rosso con il giallo, il giallo con il verde, il verde con l’azzurro e così via) vi sono per ogni sfumatura due diverse possibilità di associazione: il rosso avanti e il giallo dietro e viceversa, ad esempio. In questo caso, se il rosso si trova avanti, lo sfondo sarà giallo, al contrario se il giallo si trova avanti, si poggerà su un fondale rosso. La presenza di uno sfondo dona al marchio una tridimensionalità e rivela le sue origini di oggetto tridimensionale, sia per quanto riguarda l’oggetto elastico che per il processo di generazione. Una correzione ottica è stata effettuata sul colore verde che, nel momento in cui è testo apposto su sfondo (giallo o azzurro, secondo le regole descritte), assume una tonalità più scura per facilitarne la leggibilità.


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Essendo il brand OTTO estremamente dinamico e variabile è stato sviluppato un software che facilitasse ed automatizzasse il processo generativo del marchio. Il core del programma prevede l’acquisizione preimpostata del modello 3D del soggetto che viene automaticamente ruotato secondo valori generati casualmente dal calcolatore lungo gli assi x, y e z. I valori vengono confrontati tra loro secondo dei range numerici prestabiliti che fissano l’immagine prodotta ad una figura incidente, maggiormente caratteristica e meno denaturata. Ciò consente di riprodurre nonostante la funzionalità random un’icona riconoscibile del marchio. Le texture sono inserite in fase di programmazione, in modo da vincolare il risultato alla palette stabilita dall’immagine coordinata. Viene poi implementata un’interfaccia grafica minimale per consentire un uso più semplice ed intuitivo del generatore, ovviando il problema di dover ogni volta renderizzare tramite software relativamente complessi il marchio o di creare una banca dati di loghi pre-generati da selezionare manualmente. All’utente viene data la possibilità di scegliere la dimensione finale (in pixel) dell’immagine e la quantità di informazione di cui necessita: tramite due spunte potrà attivare o disattivare la presenza dello sfondo e del logotipo, abbinati nel colore in modo automatico dal programma. Egli potrà ricreare il logo innumerevoli volte grazie al pulsante “genera” in combinazioni sempre differenti ed infine esportare l’elaborato scelto. Sono inoltre visibili a schermo le informazioni tecniche relative al marchio generato riguardanti colore ed angolazione della combinazione visualizzata.


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Packaging

Il packaging si basa su un modulo quadrato, il quale crea un cubo per gli elastici di dimensione più piccola e un parallelepipedo grande il doppio del cubo in larghezza per gli elastici più grandi. Il logo OTTO è posto su due lati del cubo e su altrettanti è presente anche il logotipo. Tutti i lati sono di uno dei colori della palette, mentre gli elementi grafici sono del colore ad esso abbinato. La parte superiore del pack è trasparente in modo da fare vedere il prodotto. La forma modulare permette l’esposizione del pack sugli scaffali creando una composizione che dà valore alla varietà di colore della marca , con logo e logotipo inscritti nelle forme.


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Campagna

La campagna comunicativa non solo conta sulla vivacità, ma anche sulla percezione e l’uso dell’elastico, ponendo come coprotagonista insieme a delle mani, ispirandosi agli studi di Munari sulla gestualità. Le mani sono trattate in bicromia secondo il principio di colore primario e colore secondario. L’elastico, attraverso i gesti delle mani, assume una personalità propria e definita, calcata dall’aspetto tipografico e dall’associazione cromatica scelta per ogni manifesto; l’effetto genera un gioco visivo surrealista. Ogni artefatto comunicativo sottolinea una caratteristica diversa dell’elastico, sottolineata dal copy: sono duttile, sono flessibile, sono versatile, a indicare la natura metaforicamente e fisicamente elastica dell’oggetto che si adatta a tutto; tutte queste frasi sono comunque sempre accompagnate dallo slogan della campagna, ovvero sono elastico. Si è voluto valorizzare il senso del tatto dal momento che gli elastici hanno una ruvidità e una materialità unica.


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www.ottoelastici.it


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Spazio

Il concept dello spazio espositivo di OTTO verte sui valori di elasticità, creatività e scoperta: una sorta di mondo in miniatura in cui percepire la marca a 360 gradi, nella quale avventurarsi per scoprirne la filosofia e le potenzialità. All’esterno le pareti laterali della struttura sono bianche, generate tramite un modulo cubico sfalsato di 44cm, che trae spunto dalla forma del packaging, forato per ottenere une effetto di dinamicità e movimento. All’interno i muri sono lisci e dotati di un monitor che illustrano i vari usi dell’elastico, provenienti dalla community e dal sito di OTTO. I profili, spessi 30 cm, sono invece colorati secondo la palette di marca a tinta piatta. Integrati nelle pareti vi sono due monitor dalla dimensione doppia rispetto al modulo base su cui riprodurre il marchio ed il logotipo in tutte le sfumature di colore previste dalla brand.


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Il significato alla base del concept dello spazio risiede nella concezione di OTTO. Bianco ad un primo impatto, richiede all’utente di addentrarsi per comprenderne e sfruttarne al meglio le potenzialità: l’utente può decidere di impiegarlo come un comunissimo elastico, oppure di creare ed inventare qualcosa di diverso. Più la ricerca del proprio lato creativo si approfondisce, e più la possibilità di aprirsi a nuovi usi dell’elastico si fa lampante; per questo motivo più ci si addentra nello stand più i colori risultano essere vivaci. Il mondo di OTTO non è però un mondo chiuso e scostante: le aperture nelle pareti laterali sono come delle finestre per comunicare ed annunciarsi, degli spiragli grazie ai quali l’utente può sbirciare all’interno. Il soffitto, piatto e disposto su due livelli, viene sovrapposto alla struttura integrandosi e chiudendo gli spazi vuoti al fine limitare l’accesso alla luce ed ottenere uno spazio relativamente buio per fruire al meglio della macchina comunicativa. Seguendo lo stesso criterio della struttura, il totem posto all’entrata è composto da un moduli cubici di differenti dimensioni, sospesi a mezz’aria e utili ad esporre il materiale dell’esposizione. I cubi sono agganciati al pavimento e al soffitto mediante lunghi elastici. Ed è proprio così che questo oggetto diventa parte integrante dello spazio come dell’esperienza: una foresta di elastici ancorati dal soffitto al pavimento percorrono la stanza da lato a lato. Il passaggio diviene così difficoltoso, portando l’utente ad entrare in contatto con l’aspetto materico e tattile del prodotto. Infine, nella parte più interna della stanza è installata la macchina comunicativa: lungo la parete di fondo sono disposte due postazioni che consentono l’interazione degli utenti. Dagli elastici è possibile intravvedere, nella piccola fessura già aperta, scorrere e ripetersi delle immagini, che preannunciano all’utente l’esperienza, che diviene completa una volta che questo interagisce con la macchina.


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L’esperienza proposta da OTTO per il suo spazio espositivo verte sullo stimolare la curiosità e sul portare l’utente a diretto contatto col mondo della brand. Il visitatore è accolto dal totem su cui si trova il materiale del brand e due monitor incassati all’interno delle pareti laterali che ripropongono i progetti della community. Passata la fase iniziale conoscitiva inizia un percorso attraverso la foresta di elastici che, rendendo difficoltoso il passaggio, lo porterà a toccarli e scostarli per addentrarsi sempre più affondo nel padiglione. Una volta oltrepassata la foresta si troverà di fronte ad un muro alla quale un elastico è appeso da capo a capo, leggermente divaricato, in modo da lasciar trasparire al suo interno una piccola porzione del video che viene proiettato. La finestra sulla proiezione non è totalmente chiusa: lo scopo è quello di stimolare la curiosità e portare ad un’interazione diretta con l’elastico. Una volta terminata l’interazione con la macchina comunicativa è possibile uscire dallo spazio riattraversando la foresta di elastici. Sarà possibile ritirare presso il totem brochure e biglietti da visita per conservare tutte le informazioni relative al marchio. Ciò che l’esperienza vuole suggerire è il concetto di immersione in un mondo che ad un primo sguardo risulta comune, anonimo ed ordinario come l’elastico ma che, una volta approfondito, può diventare uno strumento per creare, inventare e condividere.


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Macchina

L’adattabilità dell’elastico a più contesti d’uso e l’identità giocosa di OTTO hanno posto i presupposti per la vision di marca: portare la creatività in ogni ambiente. È da questo concetto che si è concretizzata l’idea di gestire un’installazione interattiva, per potersi relazionare con un pubblico sempre più vasto, in modo semplice, intuitivo, elastico. È importante evidenziare gli obiettivi della macchina comunicativa: coinvolgere, divertire, ma soprattutto stimolare; il messaggio è concettuale, non vuole essere un catalogo di disparati usi dell’elastico, ma un’ispirazione ed allo stesso tempo una sintesi del mondo di OTTO. L’installazione deve attirare l’utente, incuriosirlo, inglobarlo nel contesto del brand e suggerirgli un diverso approccio alla realtà: uscire dal proprio punto di vista per percorrere strade che non sono ancora state battute significa infatti avere una visione creativa nei confronti del dato fisico e reale. Il protagonista dell’istallazione è l’elastico, ed il primo ostacolo da superare è stato come poter creare un’interazione non riproducibile con un altro materiale (esempio uno spago), che si fondasse


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proprio sui principi fisici dell’elastico stesso. Questo ostacolo è una questione identitaria, che può essere risolta soltanto tornando alle qualità originali ed uniche dell’oggetto, come l’estensibilità e a livello percettivo una tattilità particolare. Dunque toccare e tirare l’elastico diventano due imperativi categorici della macchina comunicativa. L’elastico si presta all’estensione, alla deformazione, all’apertura della sua forma, e la citazione ai tagli nelle tele di Fontana come impostazione della macchina comunicativa è risultata congeniale per OTTO e per gli obiettivi precedentemente citati. Un elastico teso per due punti fissi ad una parete, così da creare uno spiraglio luminoso di quel mondo sconosciuto, e la possibilità (che per Fontana restava immaginaria) di aprire quel mondo, immergervisi ed uscire da quest’esperienza con una nuova consapevolezza. Quando si tende l’elastico infatti viene proiettato uno di cinque video che raffigurano delle mani nella loro interazione con l’oggetto, che qui acquisisce una personalità e parla direttamente agli utenti raccontando attraverso un breve testo la propria identità. Si sfrutta la tecnologia per far sì che le immagini proiettate seguano la cornice generata dall’elastico. Si sfrutta il suono con composizioni create ad hoc per ogni video, in modo tale che la musica accompagni i movimenti. Si sfruttano i colori della palette di OTTO, per enfatizzare la personalità delle mani. Si sfrutta lo spazio della parete a cui è appeso l’elastico, suggerendo la possibilità di andare oltre di essa dando una forte sensazione di immersione.


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La macchina comunicativa è composta da tre parti differenti, ovvero la parte interattiva, la parte elaborativa e la risposta all’interazione. La parte interattiva si compone di un elastico teso in diagonale tra due perni. Quando l’utente apre la fessura creata dall’elastico per far partire l’interazione, il movimento fa scattare due interruttori nascosti e controllati dal microcontrollore arduino. Gli interruttori sono due, uno per mano e sono di tipo lamellare o a leva, in maniera tale da essere attivati anche con una minima pressione. Quando si attiva l’interruttore, arduino fornisce il segnale al computer e al programma vvvv. La kinect è posizionata appena sopra all’utente in modo da non interferire con la sua azione e poter catturare tutti i movimenti delle mani. La parte di elaborazione è realizzata in vvvv, il software di visione e di programmazione per la prototipazione. Questo riceve i dati tramite la kinect e dall’interruttore. Il programma rileva l’interazione del visitatore con la macchina comunicativa. Il programma vvvv si occupa di ricevere i dati e trasformarli in coordinate che verranno inviati al proiettore. Inoltre seleziona in maniera randomica uno dei cinque video realizzati per l’installazione. L’interazione tra interruttori, kinect e software serve a modellare la forma del video su quella dell’elastico, creando una maschera che segue il movimento delle mani. Questi sono proiettati sulla parete grazie ad un proiettore a raggio ultra corto, nascosto all’utente.


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L’esperienza d’uso consiste nella scoperta, nel senso di curiosità che la macchina comunicativa è in grado di suscitare nelle persone: andare oltre la semplice apparenza. L’azione dunque non è immediata né scontata, il proiettore illumina di fatto un solo spiraglio all’interno degli elastici tesi, come fosse una toppa della serratura da cui sbirciare, ma non fornisce altre indicazioni. L’utente è libero di utilizzare la macchina come meglio crede, ma è soltanto quando apre gli elastici che scopre di poter controllare la proiezione e di trovare il messaggio trasmesso all’interno del video. Ovviamente non tutti avranno la volontà e la curiosità di agire sull’elastico, alcuni semplicemente la guarderanno senza far nulla, altri ci giocheranno, altri ci passeranno accanto senza dargli importanza. Tutto questo fa parte dell’esperienza. Il valore dell’elasticità è trasposta nella macchina e nell’esperienza, ma anche quando viene utilizzata propriamente l’elasticità permette di scoprire l’identità di marca, ogni volta con un video diverso, che racconta le proprietà e i valori di marca. I video riprendono il linguaggio di marca, utilizzando le mani come simbolo della gestualità, della manualità e dell’azione, e le parole come esortazione a guardare oltre il semplice elastico, stimolare la creatività e la curiosità.


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