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Bollettino di SOS scuola n. 3 A.s. 2007/2008

ITC “V. Cosentino”

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Per saperne di pi첫 http://www.sos-scuola.it/

Finito di stampare: luglio 2008 Distribuzione gratuita

Impaginazione a cura di Chiara Marra

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Indice

SOS scuola di nuovo ai blocchi di partenza p. 1 Fortunato Seminara e Il vento nell’oliveto 9 Gita a Lungro, Frascineto, Civita 13 Napoli milionaria 18 Lettera a una professoressa 22 Gita a Rossano 28 Roma città aperta 31 Gita ai paesi grecanici 36 Misteri d’Italia 40 Buongiorno, notte! 43 Per tessere e ritessere relazioni vitali 46 Appendice 49 Segni sulla sabbia. Note di viaggio di Tommaso Cariati 81

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SOS scuola di nuovo ai blocchi di partenza (Appunti di Tommaso Cariati della riunione di inizio anno dell’11 ottobre 2007) Chi siamo, che cosa facciamo Poiché abbiamo molte persone nuove è opportuno illustrare brevemente chi siamo e che cosa facciamo. SOS scuola è un gruppo nato nel 2005. La carta costitutiva, che i nuovi aderenti sono invitati a firmare, recita così: «… Nei locali dell’I.T.C. “V. Cosentino” viene costituito il movimento “SOS scuola”. Il movimento persegue tre finalità: promuovere relazioni autentiche; sviluppare e trasmettere saperi validi; suscitare nelle persone responsabilità piena. Il movimento sceglie di formare un gruppo permanente di quindici o venti persone tra studenti, genitori, docenti e adulti sensibili ai temi dell’istruzione e dell’educazione. Il gruppo si riunisce ogni tre o quattro settimane per studiare un tema di interesse culturale e scolastico. La riunione normalmente inizia con una relazione, proposta da uno dei componenti o da un esperto, e termina con un dibattito pacato e sereno, in modo che ciascun partecipante sia protagonista. Periodicamente il gruppo organizza e vive esperienze conviviali, come gite in luoghi di interesse culturale, spirituale o naturalistico». Nei primi due anni il gruppo ha funzionato come spazio dove ciascun componente ha potuto sviluppare ed esercitare la cittadinanza attiva e responsabile, e perciò è stato un vero e proprio laboratorio di didattica attiva. La didattica attiva è un metodo che viene da lontano. Troviamo la didattica attiva, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, in Ferrière con il suo metodo in trenta punti; in Freinet, con la typographie à l’école; in Baden Powell, il fondatore dello scoutismo; in Montessori, in Lombardo Radice. Personalmente, intorno alla metà degli anni Novanta mi fu chiaro che possedere una buona padronanza della materia e un buon metodo legato alla

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disciplina insegnata non era più sufficiente per fare un lavoro educativo e formativo efficace. Da quel momento ho interrogato, si fa per dire, filosofi, psicologi dell’età evolutiva, sociologi e pedagogisti e ho compreso che il senso dell’incontrarsi, docente e alunni, ogni mattina, per mesi e mesi, e per anni, non può essere ricercato nell’insegnamento e apprendimento di nozioni, principi e concetti di informatica, matematica, grammatica, letteratura, storia; il senso dello stare insieme deve essere ricercato altrove, su un altro piano, sul piano del senso e del valore della vita. Per questo alla fine degli anni Novanta in collegio dei docenti ho lanciato l’idea di lavorare Per una pedagogia della costruttività gioiosa e responsabile; per questo nel 2005 ho proposto l’idea di costituire un gruppo misto, SOS scuola appunto, capace di sperimentare la coeducazione, la corresponsabilità, la cittadinanza attiva, la relazionalità autentica. Vi confesso che per giungere a formulare la mia proposta ho attinto a diverse esperienze e teorie. Ho attinto a Piaget, a Vygotskij, a Freinet, a Baden Powell, un generale che abbatte le pareti dell’aula e usa il bosco come ambiente formativo ed educativo, fondando la sua pedagogia e il suo metodo “vuoto” su quattro principi: formazione del carattere, vita all’aperto, attività manuale e servizio del prossimo; ma ho attinto anche a Rogers, a Pareyson, uno studioso di estetica, a don Milani, il quale in un’intervista afferma: «Se tra noi nascono discordie, il fatto di volerci bene ci aiuta a superarle»; e ho attinto a Emmanuel Mounier, il padre del “Personalismo comunitario”, a Simone Weil, una donna che, per condividere l’esperienza degli ultimi, ha lasciato l’insegnamento della filosofia ed è andata a lavorare nelle officine Renault; e ho attinto all’Evangelo. Alcune riflessioni sulla contemporaneità Vi offro alcune riflessioni sui caratteri della contemporaneità che possono aiutarci a collocare meglio l’azione di SOS scuola. Abbiamo detto che l’efficacia didattica presuppone un’intesa sul senso dello stare insieme, docente e studenti, tutti i giorni per mesi, per anni. Ora, quale intesa è possibile stabilire tra docenti cresciuti negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta e studenti nati agli inizi degli anni Novanta, cresciuti con cartoni, videogiochi e Internet? Quale intesa è possibile oggi anche con gli stessi genitori di questi alunni i quali hanno allevato i loro figli secondo il principio del laisser faire del dottore Spock? Quale senso si può condividere oggi nel mondo dell’individualismo di massa e del capitalismo globale? Se il 6


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lavoro dell’educatore presuppone una base di ottimismo, su quale ottimismo è possibile trovare un’intesa oggi, senza passare per ingenui? Quale intesa è possibile, che sia anche un patto onesto e leale tra Nord e Sud del mondo e tra generazioni? Consideriamo i problemi dell’ambiente: gli studiosi sono d’accordo che il pianeta nei prossimi decenni si riscalderà mediamente di due, due gradi e mezzo; i ghiacciai si scioglieranno e alcune città verranno sommerse; le specie viventi si sposteranno verso nord per cercare un nuovo equilibrio. Consideriamo i problemi energetici e quelli demografici: nonostante gli sforzi per risparmiare e recuperare energia, ricorrere a fonti energetiche rinnovabili i padroni dell’energia hanno un potere enorme e lo esercitano, a volte in modo brutale, nei confronti dei paesi che ne dipendono (vedi il caso Russia/Ucraina), e le potenze che non vogliono rinunciare per nessuna ragione al proprio stile di vita e alla propria idea di progresso, fanno la guerra per avere un’influenza sui paesi ricchi di fonti di energia, o rifiutano di ratificare il protocollo di Kyoto sull’inquinamento; le genti affamate dei paesi arretrati o in via di sviluppo non esitano a pagare ai trafficanti di esseri umani migliaia di dollari, racimolati chi sa con quali sacrifici, e, cosa ancora più grave, a rischiare la vita per un tozzo di pane (i dati sul numero di morti che giacciono nei pressi delle nostre coste sono veramente agghiaccianti, e i pescatori di Mazara del Vallo ne sanno qualcosa), e noi non sappiamo se accogliere o rimandare indietro quelli che riescono a sbarcare. Consideriamo quello che è successo l’estate scorsa: chi ha appiccato migliaia e miglia di incendi boschivi in Italia, nei Balcani, in Grecia, dove si è verificato un vero disastro nazionale; contemporaneamente, in India, in Cina, ma anche nella vicina Gran Bretagna, alluvioni spaventose, e nel Pacifico e in America trombe d’aria e uragani a ripetizione. Consideriamo la politica nazionale: un immane guazzabuglio; come abbiano fatto i partiti a degradarsi da nobile strumento di democrazia, voluto dai padri costituenti, a strumento di puro potere, rissa, inquinamento continuo dell’informazione e della vita dei cittadini onesti, di turbamento delle coscienze, Dio solo lo sa; come facciano gli italiani a sopportare tutti i delitti di mafia, di terrorismo, dei servizi segreti deviati, solo Dio lo sa. Consideriamo la politica estera: l’Iraq che cosa è diventato? Bin Laden dov’è? Putin che cosa ha in mente quando mette la bandiera russa in fondo al mare a centinaia di metri di profondità al Polo Nord, quando forse fa assassinare la Politkovskaja, quando chiude i rubinetti del gas siberiano all’Ucraina mentre in questo paese ancora contano le schede e il candidato filorusso forse perderà, quando fa i salti mortali per restare al potere nonostante la costitu-

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zione, anche a costo di passare da presidente a primo ministro, o quando apre un contenzioso con la Gran Bretagna per un faccenda di spie? E che cosa ha in mente Ahmadinejad quando dichiara che l’olocausto non c’è stato, quando dichiara di voler dotare l’Iran di mezzi nucleari, quando dice che Israele deve essere cancellato dalla carta geografica o deve essere trasferito in Alaska? Consideriamo la ricerca: che cosa significa la costruzione completamente artificiale di un cromosoma da parte di Craig Venter? Che conseguenze ha per l’uomo il via libera della Gran Bretagna a effettuare incroci tra cellule umane e cellule di maiale o di mucca? Consideriamo la produzione e il consumo: con quali giocattoli giocano i nostri bambini, quelli al piombo importati dalla Cina dall’impresa americana Mattel e distribuiti in tutti i paesi occidentali? Che pomodoro mangiamo quando andiamo in pizzeria, quello prodotto con sostanze pericolosissime per la salute, importato in modo anonimo dalla Cina in enormi fusti e distribuito in barattoli con marchio nostrano? Consideriamo gli imbrogli ai test per la facoltà di medicina: un giovane aspirante medico che ha pagato trenta, trentacinquemila euro ha affermato: «Ho fatto quello che si è sempre fatto durante un esame … Ho vinto perché ero più preparato. E forse perché sono stato più furbo. Questo è il paese dei furbi». Consideriamo le nuove malattie: l’AIDS, la SARS, l’aviaria, la BSE (mucca pazza). Consideriamo il caso padre Fedele e quello don Luberto. Consideriamo la biopirateria: ad esempio, la Unilever, attraverso un contratto capestro, ha carpito ai Boscimani del Sud Africa il diritto di sfruttare la hoodia, una pianta ricca di sostanze con la quale questa popolazione si è nutrita in modo efficacissimo da tempi immemorabili. Consideriamo gli stupri, gli ammazzamenti, Garlasco, Cogne, Rignano, Erba, Afragòla, il traffico di esseri umani organizzato allo scopo di prelevare organi di ricambio per la gente ricca e potente? No, fermiamoci qui. Ci sarebbe da sprofondare nella depressione più nera se accanto ai delitti, alle sofferenze gratuite, all’ingiustizia, alla violenza, alla violazione dei diritti umani più elementari non considerassimo anche tanti, tantissimi segni di speranza. Consideriamo gli sforzi compiuti da molti ricercatori onesti che lottano per alleviare le sofferenze fisiche, psichiche, o dovute alla malnutrizione o alla mancanza d’acqua potabile. Consideriamo la moratoria presentata dall’Italia all’assemblea generale delle Nazioni Unite contro la pena di morte. 8


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Consideriamo che alcuni gruppi e partiti hanno deciso di rinunciare alla rendita di posizione per dare vita a un importante soggetto politico di cui forse il nostro paese ha urgente bisogno. Consideriamo il discorso di Sarkozy alle Nazioni Unite su pace, equità, giustizia. Consideriamo “la tavola della pace” promotrice della marcia PerugiaAssisi, arrivata ormai alla diciassettesima edizione. Consideriamo la giornata mondiale della pace indetta dalla Chiesa cattolica il primo gennaio di ogni anno. Consideriamo le giornate mondiali della gioventù. Consideriamo le Ong, i missionari, la Croce rossa, Medici senza frontiere. Consideriamo i milioni di cittadini onesti, di famiglie sane, di eroi anonimi. Consideriamo le nostre famiglie. Consideriamo le migliaia di giornalisti coraggiosi che mettono a repentaglio la loro vita per informarci quotidianamente sulla violazione dei diritti umani, ad esempio, in Cina o in Birmania, e, a volte, per spingere i governi a cambiare posizione. Consideriamo SOS scuola, che sarà una goccia nell’oceano, ma, parafrasando madre Teresa di Calcutta, se non ci fosse, di quella goccia si sentirebbe la mancanza. Iniziative per stare in rete Noi siamo qui “per ritrovarci e per programmare le attività del nuovo anno”. Ora, consideriamo anche quanto si muove intorno a noi, per cogliere opportunità e promuovere un “effetto rete”. L’Unione Europea ha dichiarato quello corrente anno dell’“intercultura” e, anche per i cinquanta anni dal trattato di Roma, ha promosso un concorso tra i giovani al quale si partecipa preparando un poster contro le discriminazioni, e altre iniziative per favorire l’incontro tra genti di culture ed etnie diverse. Alla fine di ottobre, nell’ambito del progetto nazionale “Educazione alla cittadinanza attiva a ai diritti umani”, a Venezia si svolgerà un convegno rivolto al personale della scuola su “Costituzione italiana, integrazione europea e sviluppo sostenibile”. Per i sessanta anni dell’entrata in vigore della Carta costituzionale la cooperativa sociale Delfino Lavoro di Cosenza ha promosso alcune attività denominate Rexpò; tra le altre: esposizioni e dibattiti, in collaborazione con la 9


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facoltà di Sociologia e Scienze Politiche dell’Università della Calabria, sui temi della solidarietà e della cittadinanza attiva, presso la Città dei ragazzi di Cosenza; un concorso rivolto alle quinte classi delle scuole superiori, al quale si partecipa preparando uno spot di un minuto sui temi della nostra Costituzione; un incontro il 26 ottobre con il Presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. La Fondazione Rubbettino in collaborazione con il professore Jedlowski promuove il progetto di lettura rivolto alle scuole di Cosenza e dintorni, giunto ormai alla decima edizione, che quest’anno ha per tema “Il valore della libertà”. I libri scelti quest’anno sono: Destinatario sconosciuto, di Kressmann Taylor, La luna è tramontata, di John Steinbeck, Persepolis, di Marjane Satrapi. Il Ministero della Pubblica Istruzione, per il centenario della nascita del movimento scout, ha stipulato una convenzione con la Federazione Italiana dello Scoutismo denominata “La scuola incontra lo scoutismo” con lo slogan “Si impara da piccoli a diventare grandi”. In questa settimana a Cosenza si sta svolgendo il “Calabria film festival”: tutti i giorni, in luoghi diversi della città e dell’area urbana si proiettano film, documentari, cortometraggi rivolti a tutti gratis. Ad esempio, venerdì 12 e sabato 13 alle ore 14.30 al cinema Citrigno sono in programma rispettivamente Le mani sulla città, di Rosi, su intrallazzi politici e affari economici a Napoli, e I nuovi angeli, di Gregoretti, diario di viaggio sui giovani del boom economico italiano, dalla Sicilia al triangolo industriale. Proposte Considerato che l’anno scorso abbiamo lavorato sul tema dell’identità calabrese e mediterranea e abbiamo visto che la modalità di lavoro, basata sull’alternanza di un libro e un film, ha avuto successo, io propongo di mantenere inalterato il metodo, di continuare a lavorare sulla ricerca dell’identità, allargando l’orizzonte dalla Calabria a tutto il Mezzogiorno e all’identità italiana. Che cosa ne dite? Mirella: Condivido il contenuto della relazione introduttiva. Noi abbiamo l’obbligo di far nascere nei ragazzi la speranza per il futuro. Sono d’accordo di lavorare sul tema dell’identità. Vi segnalo che anche il CIDI, in collaborazione con l’associazione nazionale magistrati, ha indetto un concorso rivolto alle scuole sui temi della Costituzione. Si tratta di promuovere la conoscenza della Costituzione nei percorsi curriculari. 10


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Rosa: Va bene; alterniamo anche quest’anno un libro e un film. Se possibile scegliamo opere che permettano di esplorare la conoscenza dei diritti. Giuliano: Sì, il metodo collaudato l’anno scorso va bene. Si potrebbe vedere anche qualche documentario o speciale, tipo le trasmissioni di Lucarelli. Cosimo: Sono d’accordo, continuiamo così. Iole: Sì, va bene, per quanto io non ho partecipato a molti incontri. Però ho intenzione di continuare perché mi piace il clima che c’è nel gruppo. Propongo di valorizzare Alfio, con le sue capacità canore e con le sue radici albanesi. Emilia: Sono d’accordo sul metodo e, per quanto riguarda i contenuti, suggerisco di procedere con gradualità, tenendo presente che l’identità calabrese deve essere approfondita. Luca: Il metodo è valido. Propongo di realizzare una ricerca e un lavoro multimediale sulla storia d’Italia da pubblicare sul sito web. Chiara: Il metodo sperimentato l’anno scorso è ottimo. Propongo di effettuare tre gite, una in un paese arbëresh, con Alfio, una in un paese “bizantino”, per esempio Rossano, una per visitare i paesi grecanici di Reggio Calabria. Tra l’altro, la moglie di Domenico Minuto, avendo letto il nostro bollettino, ci ha chiesto se possiamo fare delle attività insieme, SOS scuola e un gruppo di Reggio denominato Accademia dei vagabondi, di cui lei e suo marito fanno parte. Anche Maria, Giuseppina, Iolanda, Noemi, Deborah, Rosella, Eustasio e Mattia dicono di essere d’accordo. Passiamo allora a scegliere le opere. Menzioniamo, alla rinfusa, alcune opere interessanti per esplorare nuclei cruciali della nostra storia: Misteri d’Italia, di Carlo Lucarelli, il conduttore di Blu notte; Buongiorno, notte!, di Bellocchio, sul caso Moro; Roma, città aperta, di Fellini, sull’occupazione tedesca della capitale; Lettere dal carcere, di Gramsci; Il caimano, di Moretti; il film su Matteotti; i film su Borsellino e su Falcone; I cento passi; La vita è bella, di Benigni; Dinastie, di Enzo Biagi; qualche volume di Storia d’Italia, di Montanelli; un libro di epistole di Luigi Sturzo; Alcide De Gasperi. Il cristiano e il politico, di Canavero; qualche libro specifico sulla Questione meridionale; una raccolta di epistole di Mazzini o di De Sanctis, per affrontare il periodo della formazione dello Stato unitario; il romanzo Petrolio, di Pisolini, qualche libro di Andreotti o di Vespa. Quali libri, quali film vogliamo scegliere? Volete aggiungerne altri?

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Chiara propone di aggiungere all’elenco Lettera a una professoressa, della scuola di Barbina, e Napoli milionaria, di De Filippo. Altri film proposti sono: La Ciociara, Tutti a casa, Ladri di biciclette. Programma Il programma, alla fine della riunione, risulta così strutturato: Film: Roma, città aperta, di Rossellini, La vita è bella, di Benigni, Napoli milionaria, di De Filippo, Buongiorno, notte!, di Bellocchio. Libri: Misteri d’Italia, di Lucarelli, Lettera a una professoressa, della Scuola di Barbina, Il vento nell’oliveto, di Seminara, Lettere dal carcere, di Gramsci. Uscite: almeno tre gite, una seguendo un percorso arbëresh, con Alfio, una secondo un percorso “bizantino”, per esempio Rossano, una nei paesi grecanici, da vivere anche con il gruppo dei coniugi Minuto di Reggio. Adesione, chi vuole, al progetto di lettura della Fondazione Rubbettino su “Il valore della libertà” con i libri: Destinatario sconosciuto, di Kressmann Taylor, La luna è tramontata, di John Steinbeck, Persepolis, di Marjane Satrapi. Infine, si vedrà se con Luca ed Eleonora sarà possibile realizzare una ricerca e un prodotto multimediale sulla storia d’Italia da pubblicare nel sito web.

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Fortunato Seminara e Il vento nell’oliveto (Appunti dell’incontro di SOS scuola del 22 novembre 2007 a cura di Luca Imbrogno) Il 22 novembre 2007 presso l’ITC “V. Cosentino” si è tenuto il secondo incontro del nuovo anno di SOS scuola. In tale incontro si è discusso del libro Il vento nell’oliveto di Fortunato Seminara. Hanno partecipato circa venti componenti del gruppo che avevano precedentemente letto l’opera. La presenza di Pino Caminiti come relatore è stata preziosa per capire bene l’autore e il libro. Caminiti è stato presentato dal professore Cariati il quale lo conosce personalmente da tempo. Presentazione (di Tommaso Cariati) Pino Caminiti è originario di Reggio Calabria, ma vive a Fuscaldo. Finora ha dedicato le sue energie migliori alla scuola, alla cultura, alla poesia. Tra le altre cose ha tradotto alcuni testi dal latino: da Catullo, Lucrezio, Orazio “piegandoli al suo stile personale”. Leggiamo il carme 51 di Catullo: Sembra un dio, più di un dio chi di fronte, sicuro può guardarti e ascoltarti mentre dolce sorridi. Ma a Catullo, infelice è sorriso che i sensi disperde. Non ho voce, al vederti e la lingua s’inceppa e una fiamma, sottile m’attraversa le membra, e l’udito ha un interno fragore mentre un buio, d’indicibile notte nega agli occhi la luce. L’ozio è angoscia 13


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e ti uccide, o Catullo. Non hai freni, nell’ozio. Ma infelici divennero, oziosi troppi re e città fortunate. Io e Pino ci siamo conosciuti nel 1987 a Cosenza, e, in seguito, agli inizi degli anni ’90, a casa mia, abbiamo creato il laboratorio Orgonolico insieme ad una dozzina di persone interessate alla cultura e alla poesia. Di quell’esperienza rimangono due cose: l’amicizia con Pino, che nel frattempo è diventata veramente fraterna, e la sigla Laborgonolico con cui ancora diamo alle stampe in maniera artigianale i nostri opuscoli. Qui “prodotto artigianalmente” significa senza ricorrere alla logica industriale basata sulla specializzazione dei compiti, sulla divisione del lavoro e sulla ricomposizione manageriale del processo produttivo; quindi, “prodotto artigianalmente” significa “prodotto con le nostre proprie mani”, secondo un modello presmithiano. Caminiti ha scritto un saggio su Seminara: Seminara rivisitato. Ha anche conosciuto personalmente Seminara, e su quest’autore ha fatto la tesi di laurea, a Roma. Relazione (di Pino Caminiti, sintetizzata da Luca Imbrogno) Seminara era uno scrittore con origine contadine che si presentava come scrittore-contadino. Finì i suoi giorni a Reggio Calabria. I sei grandi romanzi di Seminara si possono suddividere in due gruppi: - Le baracche - Il vento nell’oliveto - La masseria - Disgrazia in casa Amato - Terra amara - Diario di Laura Nelle prime tre opere Seminara si convertì al socialismo-marxismo, affronta quindi il problema della questione sociale. Il suo romanzo assume valore corale simile allo stile verghiano. I romanzi finiscono con i contadini che si appropriano delle terre. Nelle altre tre opere si potrebbe pensare che lo stile di Seminara si rifà agli scrittori veristi, come Verga, ma in realtà si rifà agli scrittori russi, come Tolstoj. 14


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Il mondo paesano e contadino della Calabria ha a suo tempo rappresentato un banco di prova per gli scrittori neorealisti. In Fortunato Seminara il naturalismo regionalistico assume ben altre fattezze. La miseria e il dolore del mondo contadino trovano nella sua opera un’espressione singolarissima: la solitudine è l’incomunicabilità fra uomo e uomo o fra differenti classi sociali, che mai hanno una mediazione, divengono talora disperazione. Secondo lo stesso Seminara Il vento nell’oliveto risente delle letture dei romanzieri russi e francesi dell’Ottocento. Il protagonista registra gli avvenimenti e li raccoglie in un diario, c’è così il tempo in cui si sono compiuti i fatti e il tempo della registrazione che coincide con quello della narrazione. L’intervallo consente all’io narrante di modificare il punto di vista. Il narratore è insomma “interno”. Nel suo diario, il narratore parla della figura di contadini durante il lavoro nei campi, la descrizione paesaggistica è molto acuta, particolarmente quando parla dell’oliveto. I fatti esterni, pure importanti (Michelina, lotte contadine) restano sullo sfondo, poiché l’attenzione dello scrittore si concentra sul paesaggio. Egli si sforza di comprendere la realtà dei contadini ma non vi riesce. Scriverà, infatti, sul suo diario “… se mi guardo attorno, vedo sofferenza. Ma la più crudele mi pare quella del povero che non ha pane bastevole per sé e per i figli, e non può vivere una vita dignitosa. Ho riflettuto a lungo, di chi è la colpa? Può essere mia, di me che possiedo dei beni e che vivo agiatamente? Se così fosse, basterebbe che mi spogliassi del mio per vedere scomparire la sofferenza ma so che questo non è possibile, e il mio sacrificio non rimedierebbe nulla. Allora vuol dire che la sofferenza ha radici profonde, ragioni remote; e il rimedio ci è ancora ignoto. Non può darsi che ci sia necessaria? Sono io stesso esente da sofferenza?...” Il protagonista deve centrare le sue forze nell’ambiente esterno che gli crea sempre difficoltà. La natura è spesso ostile, e poi ci sono le lotte contadine e la passione per Michelina. La sua fortuna e la sua ricchezza è l’oliveto, che nel romanzo ha una chiara valenza simbolica, di potenza e di pace. E questo albero-simbolo deve scontrarsi, quasi epicamente, con un altro simbolo, racchiuso semplicemente nel titolo del romanzo: il vento. Il vento è una forza devastante, una minaccia cupa ed inesorabile dell’esistenza. Il romanzo si conclude così: gli scioperi hanno successo, la relazione con Michelina viene troncata. L’immobilismo feudale cessa d’esistere e il protagonista ritorna al soddisfatto grigiore della sua vita. Ma questo ritorno alla realtà, con il quale ha termine il diario, non rappresenta un passaggio dalle tenebre alla luce, è invece il punto estremo di una involuzione costante e quasi ineluttabile, l’ultima tappa interiore di un uomo chiuso nei limiti angusti dell’interesse, il placarsi di ogni anelito in un soddisfatto grigiore esistenziale. Michelina è una delle numerose figure di donna che hanno 15


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sempre rappresentato uno dei repertori più felici dell’arte di Seminara: il narratore, attraverso un procedimento che non gli è inconsueto, ne trasferisce nel sogno le fattezze e la trasfigura in un alone di poesia. Ma la delicatezza di Michelina non appare disgiunta da una carica di sensualità, ed anzi proprio la simbiosi tra la sua grazia esteriore e l’aggressività che si sprigiona dal suo corpo di adolescente è forse il carattere più suggestivo del suo personaggio. Dibattito (appunti di Luca Imbrogno) R. Filippelli: questo romanzo mi è piaciuto, e mi ci ritrovo, mi ricorda molto i vissuti del passato delle nostre famiglie. Questo romanzo è di tipo realistico-pscologico tipico dei primi del ’900. Il protagonista è un uomo che usa gli altri; tutti quelli che gli stanno intorno, per conoscere se stesso ma alla fine non cambierà nulla! Rimarrà così com’è! E. Florio: non conoscevo Seminara, la sua prosa è molto poetica, l’andatura è lenta… non abbiamo una storia che ci incalza ma una storia che ci fa riflettere, l’amore che il protagonista ha per la terra è amore calabrese, il personaggio non è molto gretto e la figura della moglie è quella migliore. Rappresenta la donna calabrese che sa e che spesso subisce, ma a volte si ribella. Il vero protagonista è l’oliveto che viene descritto sempre dettagliatamente. D. Bottino: mi sono molto interessata al personaggio e vedo con ammirazione la figura della moglie del protagonista che ha il coraggio di far sposare Michelina con il pastore e di far andare momentaneamente fuori suo marito. C. Zicari: il protagonista si è posto il problema dei braccianti ed è per me un bel personaggio anche se in realtà il vero protagonista del romanzo è la terra. A. Moccia: i giovani sono abituati a leggere altri romanzi, preferiscono vedere piuttosto che leggere… e sono quindi giustificabili perché il bello narrativo è sommerso nei libri e può uscire solo se si va a cercarlo leggendo. C. Mercuri: dietro la lettura non ci sono i naturalisti, non c’è il verismo ma piuttosto Gide. Seminara con il suo libro, con la sua terra cosa vuole dirci? Il fatto che egli non sia credente può in qualche modo accostarlo a Gide? M. Panza: noto delle figure femminili molto libere, molto forti, eccezionali a differenza degli uomini che sono un po’ “tontoloni”. Le figure femminili sono molto rilevanti e gli uomini senza di esse si perdono. L. Imbrogno: a mio parere Seminara va visto come scrittore calabrese che ha un suo stile; parla degli umili, dei problemi fra le diverse classi sociali, e delle soluzioni che non verranno mai attuate né cercate.

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Gita a Lungro, Frascineto, Civita (Appunti di Chiara Zicari e Gaëlle Cariati) Sabato 3 novembre 2007 il gruppo SOS scuola ha vissuto una splendida giornata all’insegna dello stare insieme e alla scoperta di una delle dimensioni più affascinanti della nostra terra: la cultura arbëreshe. Ci ritroviamo quasi tutti all’incontro fissato per le otto e mezzo davanti all’I.T.C. “V. Cosentino”: Noemi, Angela e i loro genitori, Fabio e Luca con una valigia (molti di noi se ne stanno ancora chiedendo il motivo), Chiara e Gaëlle, le sottoscritte, e il professore Tommaso con sua moglie, Chiara. Il resto del gruppo (il professore Alfio, la professoressa Rosa e Paola) seguono di qualche minuto il nostro arrivo. Attendiamo dunque l’ultima componente, la professoressa Iole che si scopre essere andata al bar a prendere un caffè. Verso le nove e mezzo partiamo alla volta di Lungro, guidati dal professore Alfio, di origini arbëreshë e appassionato alla storia e alla cultura di questo popolo di cui è parte. La piazza principale di Lungro

Giunti a Lungro ostacoliamo la circolazione urbana attraverso una serie di tentativi piuttosto malriusciti di trovare parcheggio. Ma anche in questa situazione manteniamo il buonumore cercando di cogliere tra gli epiteti lanciatici dagli abitanti della cittadina qualche espressione in arbëresh. Infine troviamo parcheggio in una zona un po’ discosta dal centro, dove ci accolgono due ragazze dello Sportello linguistico locale che subito interloquiscono col professore Alfio in una lingua dai suoni sconosciuti: è proprio arbëresh! 17


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Questa esperienza ci entusiasma e ci facciamo accompagnare alla nostra meta: la cattedrale di S. Nicola. Le due signorine assieme al professore Alfio e al signor Sassone del Museo diocesano di arte sacra ci forniscono alcuni elementi di storia e cultura arbëreshë. Gli “arbëreshët” sono i discendenti degli albanesi che alla metà del XV secolo si stabilirono in Calabria a seguito dell’invasione dell’Albania da parte dei Turchi. La loro è la storia di un continuo tentativo di integrazione, accompagnato alla volontà di mantenere la propria identità culturale. Scopriamo che molti arbëreshë non danno rilevanza a questo secondo aspetto, ad esempio attraverso le affermazioni di una passante che alle nostre domande a riguardo risponde stizzita di sentirsi inequivocabilmente italiana. Però veniamo anche a conoscenza di una realtà a noi sconosciuta: quella degli arbëreshë che lottano per rimanere tali e conservare le loro tradizioni. Il professore Alfio, così come le due ragazze e il sig. Sassone appartengono a questa seconda categoria. Quest’ultimo ci guida nella chiesa, e ce la mostra facendoci apprezzare molti dettagli invisibili ai nostri occhi occidentali ineducati al linguaggio delle icone. Rimaniamo affascinati da modi di pensare e di vedere la realtà che non ci appartengono e riescono a conquistarci attraverso codici che non ci sono familiari: i colori della chiesa, i simboli delle icone, la forma e la posizione degli oggetti che ci circondano. Dopo una visita che risulta dunque proficua, riprendiamo le macchine e partiamo alla volta di Frascineto. Ignari di quello che ci aspetta e già affamati speriamo di giungere presto alla nostra meta. Invano! Infatti era stato deciso che avremmo percorso non già l’autostrada e cioè il tragitto più rapido e comodo, bensì una serie di ardue strade di montagna provviste di innumerevoli curve, ma che ci mostrano un paesaggio mozzafiato: il massiccio del Pollino in tutta la sua maestosità. A Frascineto visitiamo il “Museo delle icone e della tradizione bizantina”, assistiti nella nostra visita dall’assessore alla cultura Ferrari. Il museo si presenta a noi ben amministrato e davvero interessante, un piccolo inaspettato gioiello nel luogo dove ci troviamo, testimone dell’intraprendenza e della volontà arbëreshë.

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Il museo di Frascineto

Molto in ritardo rispetto alla tabella di marcia e al richiamo del nostro stomaco finalmente andiamo a mangiare! Plachiamo la nostra fame con un lauto pasto in una trattoria di Civita, dove ci vengono servite specialità locali. Ci alziamo da tavola sazi e soddisfatti alle quattro, dopo aver chiacchierato col papàs (prete) di Civita Antonio Trupo, che intanto è venuto a farci compagnia. Ci aspetta a questo punto la prova più dura, e insieme quella che ha reso indimenticabile questa giornata: la discesa e relativa risalita (soprattutto la seconda) al ponte del Diavolo, sul fiume Raganello. Infatti, stupiti e catturati dalla bellezza del canyon scavato dal fiume intraprendiamo la lunga discesa fino al ponte, celebrando la nostra allegria cantando. Giunti a destinazione a sole tramontato, non ci pentiamo della nostra scelta: il canyon è ancora più spettacolare visto dal basso, dal ponte illuminato di notte. Dopo aver documentato l’impresa compiuta con varie foto ci accingiamo alla risalita, che si rivela piuttosto faticosa; ma alla fine ne usciamo vittoriosi!

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Dopo il pranzo foto di gruppo davanti al canyon del Raganello.

Il canyon visto dall’alto.

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Ci rechiamo allora alla chiesa di Santa Maria Assunta di Civita, dove ci aspetta il papàs incontrato a pranzo. A questo punto ci accorgiamo dell’assenza del professore Alfio, il più rapido a risalire (sarà il sangue arbëresh?) e che pensavamo di trovare già in chiesa. Dopo aver condotto alcune ricerche ritroviamo il professore e esploriamo la chiesa, che ci sembra più bella della cattedrale di Lungro, perché meno sfarzosa ma più raccolta e ospitale. Concludiamo il nostro viaggio con una visita al museo etnico arbëresh di Civita, in cui osserviamo oggetti di uso quotidiano (abiti, attrezzi, utensìli) accanto a foto e disegni che documentano feste e occasioni del vissuto. A Civita ci salutiamo, ottenendo dal professore Alfio la promessa di farci sentire le sue canzoni arbëreshë. Quando torniamo a casa è sera inoltrata, e ci sembra di aver vissuto una giornata lunghissima. Siamo consapevoli di aver toccato con mano una dimensione della nostra terra sconosciuta a molti che a nostro parere andrebbe rivalutata.

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Napoli milionaria (Appunti dal dibattito seguito alla visione del film nella riunione di Sos scuola del 19 dicembre 2007 a cura di Chiara Marra)

La storia si svolge fra il ‘43 e il ‘45 a Napoli, una città stremata dalla fame e devastata dai bombardamenti. Il personaggio centrale è Gennaro Jovine, un onesto tranviere, dotato di buon senso, che però non è tenuto in gran conto dai propri familiari. Costui è testimone, quasi impotente, dei piccoli traffici di borsa nera organizzati dalla moglie, Amalia, giovane e intraprendente, persuasa che l’illecito sia l’unico mezzo possibile per sostentare la famiglia. Proprio questa convinzione spinge Gennaro, anche se a malincuore, a fingersi morto, quando la polizia irrompe per perquisire la sua abitazione. Intanto, la famiglia Jovine simula abilmente il proprio lutto, sperando che la presenza del "cadavere", adagiato sul letto coniugale (sotto al quale è celata la merce abusiva) possa indurre il brigadiere a desistere dalle proprie ricerche. In quel momento però suona l’allarme aereo e iniziano i bombardamenti. Gennaro vorrebbe alzarsi e scappare, ma, temendo che Ciappa lo arresti, continua a fingersi morto, sinché il poliziotto, impietosito e ammirato dal suo coraggio, gli promette che, se metterà fine alla "commedia", gli risparmierà la galera.

In seguito, catturato dai tedeschi, Gennaro scompare e torna a Napoli dopo un lungo periodo di detenzione nei campi di concentramento, all’estero. Il poveretto trova la propria casa trasformata, al punto che fa fatica a riconoscerla. Reso ancora più saggio dall’amara esperienza della guerra, vorrebbe raccontarne gli orrori, ma nessuno è disposto ad ascoltarlo. Sembra che tutti 22


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siano presi dalla frenesia del cambiamento in atto. Infatti, si pensa solo alle novità venute d’oltreoceano: calze di nylon, liquori, ritmi sincopati e soldi "facili". La famiglia Jovine vive ora nel lusso ed ha perduto ogni residuo scrupolo. Amalia, indurita dai traffici illegali e insensibile alle richieste d’aiuto di alcuni conoscenti, è ormai pronta a concedersi a Settebellizze, il suo socio in affari. Intanto, Amedeo, il figlio, dedito ai furti d’auto, rischia continuamente di essere colto con le mani nel sacco. Maria Rosaria, la figlia, in seguito ad un flirt con un soldato americano, è rimasta incinta; mentre Rita, la figliola più piccola, è gravemente ammalata e per guarire ha bisogno di una medicina difficile da trovare.

Di fronte a tale stato di cose, Gennaro capisce che è venuto il momento di prendere la situazione in pugno. Parla dapprima ai figli e, pur senza infierire, fa comprendere loro gli errori commessi. In seguito a tale colloquio, Amedeo, su cui grava ormai certa l’ombra del carcere, si ravvede e promette di cominciare a lavorare onestamente. Maria Rosaria, scorgendo il padre così determinato, si sente finalmente meno sola e trova il coraggio per guardare avanti.

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Amalia, da parte sua, è frastornata dagli ultimi avvenimenti, ma più di tutto è disperata per Rita, che senza il farmaco adatto a curare la sua difterite, è condannata a morte sicura. È notte fonda, i coniugi sono in preda alla più cupa prostrazione: i tentativi di trovare la medicina per Rita sono tutti miseramente falliti. A un tratto, appare sulla soglia un signore. È un poveretto che Amalia ha spogliato di ogni avere, senza alcuna pietà. L’uomo ha la medicina con sé e, nonostante tutto, gliela offre gratis, senza chiedere nulla in cambio. Amalia è visibilmente scossa da quel gesto ed ammette a se stessa e al marito i propri sbagli. Gennaro adesso è più sollevato, fiducioso, ma, consapevole che vi sono ancora tante difficoltà da superare, esclama: - Ha da passà ‘a nuttata. È la battuta finale, più importante dell’opera, che testimonia non solo l’angoscia della famiglia Jovine, ma tutte le brutture dell’epoca e richiama le coscienze alla solidarietà umana, solidarietà da contrapporre a un’opulenza surrettizia, effimera, perché accumulata senza il sudore della fronte e in modo disonesto. La metafora è sin troppo chiara: con la sua saggezza, il capofamiglia salva i propri cari dalla rovina; allo stesso modo si spera che chi guiderà il paese sappia trarre il suo popolo fuori dalle paludi del caos e del degrado.

Brano tratto da un intervista ad Eduardo De Filippo su “Napoli Milionaria” «Allora, quando la scrissi, “Napoli milionaria!” rispecchiava un sentimento che io avvertivo profondamente, e che volevo comunicare. Gli orrori della guerra non dovevano essere dimenticati: era il momento di iniziare la 24


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ricostruzione, non soltanto del paese distrutto dai bombardamenti, ma soprattutto degli uomini, della loro coscienza. Il passato non doveva essere cancellato, ma scolpirsi nella mente e nel cuore di tutti, diventare un monito per l’avvenire. Due battute di Gennaro danno la chiave di tutto il discorso: «La guerra non è finita» e «Ha da passà 'a nuttata». Volevo dire che c’erano ancora da combattere nemici interni, come il disordine, la violenza, la corruzione, e arrivare così, dopo tanti giorni bui, a costruire tutti insieme un paese nuovo, autenticamente democratico, in cui tutti avessero il giusto, dove il potere operasse alla luce del sole, senza intrighi e senza arroganze... Era un messaggio profondamente ottimistico, un appello agli uomini di buona volontà a lavorare tutti insieme per un futuro diverso e migliore. E rispecchiava un sentimento comune, un qualcosa che era nell’aria, che si sentiva. In quei giorni, nei giorni della liberazione, la gente ti incontrava per strada e ti salutava e ti abbracciava, anche gli sconosciuti, e pareva davvero che fosse nata una nuova fratellanza, che gli uomini fossero cambiati, fossero diventati più buoni. E c’era in tutti una grande ansia di fare... “Napoli milionaria!”, che pure racconta una storia triste e amara, come triste e amaro era stato quello che avevamo vissuto, è la commedia della grande speranza, una speranza che è andata ben presto distrutta, di fronte alla caduta di tutte quelle che erano state le illusioni di allora».

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Lettera a una professoressa (Appunti dell’incontro di SOS scuola del 23 gennaio 2008 a cura di Chiara Marra) Il 23 gennaio 2008 presso l’ITC “V. Cosentino” si è tenuto l’incontro su Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana. Siamo stati aiutati nella lettura del libro e nell’approfondimento della vita e dell’opera di don Lorenzo Milani e della scuola di Barbiana da Franco De Santo, che ci ha proposto anche la visione di un documentario. Cenni biografici su don Milani Don Lorenzo Milani (Firenze, 27 maggio 1923-26 giugno 1967) è l’autore, insieme ai ragazzi della sua scuola, di Lettera a una professoressa, pamphlet che scosse il mondo politico ed educativo della fine degli anni ’60 e produsse infinite discussioni. Parroco a Calenzano, grosso centro della provincia di Firenze, negli anni ’50, don Lorenzo Milani manifestò in un ampio saggio, Esperienze pastorali, le proprie riflessioni sui compiti e i problemi della Chiesa nella realtà italiana in rapido cambiamento. Nonostante avesse la prefazione di un vescovo, mons. D’Avack, il libro scontentò vivamente la parte più conservatrice del mondo cattolico. Esponente autorevole di quest’area era l’arcivescovo di Firenze, Ermenegildo Florit, che tolse a don Milani l’incarico nella popolosa parrocchia di Calenzano, per inviarlo in una piccolissima e isolata frazione delle montagne del Mugello, Barbiana. Qui, il sacerdote si convinse che l’emarginazione nasce dal mancato possesso degli strumenti linguistici, ancor più che dalle disparità economiche. Egli si dedica, perciò, alla creazione di una singolarissima scuola media “privata” (senza retta da pagare), fatta su misura per i ragazzi espulsi dalla scuola di Stato. Le caratteristiche di questa scuola sono esposte in Lettera a una professoressa. L’impatto di questo scritto sull’opinione pubblica italiana fu enorme. Ancora oggi è uno straordinario documento delle condizioni sociali e delle tensioni ideali che animavano gli ultimi anni ’60. Lettera a una professoressa Il libro viene pubblicato nel maggio del 1967. Si tratta di un’opera collettiva, il risultato di un anno di attività della scuola. Un testo scritto dagli stessi 26


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studenti, in cooperazione, redatto attraverso un metodo di scrittura di gruppo, la “scrittura collettiva” appunto, che li vedeva tutti protagonisti nella stesura, ma che li chiamava anche alla collaborazione corresponsabile affinché l’opera mantenesse la coerenza e la forza espressiva che non avrebbe certo avuto se fosse stata opera di uno solo di loro. “Questo libro non è scritto per gli insegnanti, ma per i genitori. È un invito a organizzarsi”. Gli studenti di Barbiana denunciano la scuola italiana, una scuola, a detta loro, classista, che boccia i poveri, espressione di una classe intellettuale autoreferenziale, al servizio solo di se stessa. “Un ospedale che cura i sani e respinge i malati”, come scrivono gli stessi ragazzi nella lettera. “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde. La vostra “scuola dell’obbligo” ne perde per strada 462.000 l’anno. A questo punto gli unici incompetenti di scuola siete voi che li perdete e non tornate a cercarli. Non noi che li troviamo nei campi e nelle fabbriche e li conosciamo da vicino. I problemi della scuola li vede la mamma di Gianni, lei che non sa leggere. Li capisce chi ha in cuore un ragazzo bocciato e ha la pazienza di metter gli occhi sulle statistiche. Allora le cifre si mettono a gridare contro di voi. Dicono che di Gianni ce n’è milioni e che voi siete o stupidi o cattivi”. Una scuola, dunque, che aveva dimenticato l’art. 3 della Costituzione che recita “Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di razza, lingua, condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” “Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione”, aggiungono rassegnati i ragazzi, prendendosela con quei tanti insegnanti che bocciano troppo facilmente, soprattutto i figli dei poveri, che poi sono sempre i più ignoranti, dimenticando che questo svantaggio deriva da una disparità di condizioni di partenza: il livello economico-culturale delle famiglie di provenienze. Questi insegnanti bocciano certo a ragione, ma non giustamente. “Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali tra disuguali” Gli studenti di Barbiana indirizzano quindi la loro denuncia, come fosse una lettera, a “una professoressa”, referente di tutta la categoria. L’istruzione è un diritto di tutti, è “la chiave che apre tutti gli usci”. Ogni studente bocciato è un probabile abbandono, “una creatura che va a lavorare prima d’essere uguale”. Bocciare è come sparare in un cespuglio, una soluzione troppo facile. Ma, bocciature a parte, cosa dovrebbe fare l’istituzione scuola per assolvere pienamente al suo dovere, per essere davvero uno strumento di parifica27


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zione, di riscatto delle differenze, secondo quanto assegnatole dalla Costituzione? “Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi. (…) Anche i signori hanno i loro ragazzi difficili. Ma li mandano avanti. Solo i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I nostri no. Standogli accanto ci si accorge che non lo sono. E neppure svogliati. O per lo meno sentiamo che sarà un momento, che gli passerà, che ci dev’essere un rimedio. Allora è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono eguali e se in seguito non lo sono più, è colpa nostra e dobbiamo rimediare”. Il segreto della scuola di Barbiana è la centralità del ragazzo. Il “più lento” è messo al centro della classe e non si va avanti se lui non ha capito. È una scuola fondata sul rapporto educativo insegnante-alunno. Ma anche sul legame tra compagni. A Barbiana sono tutti maestri: i più grandi fanno scuola ai più piccoli. Non ci si rassegna per nessuno, nessuno non vale la pena. Ognuno va seguito, per ognuno si fa l’impossibile. Se ognuno di voi sapesse che ha da portare innanzi ad ogni costo tutti i ragazzi in tutte le materie, aguzzerebbe l’ingegno per farli funzionare. Io vi pagherei a cottimo. Un tanto per ragazzo che impara tutte le materie. O meglio, multa per ogni ragazzo che non ne impara una. Allora l’occhio vi correrebbe sempre su Gianni. Cerchereste nel suo sguardo distratto l’intelligenza che Dio ci ha messa certo eguale agli altri. Lottereste per il bambino che ha più bisogno, trascurando il più fortunato, come si fa in tutte le famiglie. Vi svegliereste la notte col pensiero su di lui a cercare un modo nuovo di far scuola, tagliato su misura sua. Andreste a cercarlo a casa se non torna. Non vi dareste pace, perché la scuola che perde Gianni non è degna d’essere chiamata scuola”. I ragazzi di Barbiana propongono un programma “perché è il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno”: “1. non bocciare. 2. a quelli che sembrano cretini dargli la scuola a pieno tempo. 3. agli svogliati dargli uno scopo”. Ma perché la scuola è così importante? E qual è lo “scopo” da dare agli svogliati? L’istruzione per Don Milani, già ai tempi di Calenzano, è sempre stato strumento per la parificazione, per l’uguaglianza delle classi sociali più svantaggiate. A Barbiana si studiavano tanto le lingue. Tutte, ma soprattutto l’italiano. Perché la chiave è sapersi esprimere. Solo la parola è liberante. Solo l’istruzione educa al senso critico, ad una testa propria, che fa a meno delle 28


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mode, delle schiavitù intellettuali, dalle idee che non sono fatte proprie. A Barbiana si leggeva il giornale. Tutte le mattine. Era materia di studio. “A un certo punto leggere la prima pagina d’un giornale (quella che prima saltavamo sempre) diventò troppo meglio che leggere quelle dello sport (che prima erano state la nostra unica lettura)”, ricorda uno degli allievi, “era la lingua insomma, quella di cui ci aveva parlato tante volte don Lorenzo, la famosa chiave per tutti gli usci, come diceva lui”. A Barbiana si studiava storia, geografia, astronomia, matematica (quella vera, quella pratica!), si faceva “educazione civica”, si leggeva la Costituzione, si studiava la politica, si imparava la tecnica, si seguivano le lezioni di meccanici, falegnami, artigiani che venivano a spiegare come funzionavano e come costruire le loro macchine. A Barbiana si faceva lezione 365 giorni all’anno, senza ricreazione, da mattina a sera. Si imparava a nuotare (i ragazzi costruirono da soli una piscina. Loro, ragazzi di montagna, che non avevano mai visto il mare!), si imparava a sciare. Non per sport, non per svago, ma perché nella vita poteva sempre servire, come le lingue, come la storia, come la matematica. A Barbiana si insegnava a vivere, i ragazzi imparavano ad essere uomini, cittadini; cittadini sovrani. “Questa scuola dunque, senza paure, più profonda e più ricca, dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi venirci. Non solo: dopo pochi mesi ognuno di noi si è affezionato anche al sapere in sé. Ma ci restava da fare ancora una scoperta: anche amare il sapere può essere egoismo. Il priore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo, per es. dedicarci da grandi all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato o simili. […]Ma il priore dice che non potremo far nulla per il prossimo, in nessun campo, finché non sapremo comunicare. Perciò qui le lingue sono, come numero di ore, la materia principale.[…] Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre”. “In questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo sovrani. Non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte”. Studiare quindi non per la cultura in sé, per un sapere che diventi prestigio, elevazione personale. È questo il fine a cui la scuola deve educare i suoi giovani. “A me hanno insegnato che questa è la più brutta tentazione. Il sapere serve solo per darlo”. Il sogno dei ragazzi di Barbiana era una scuola che serve. Che serva a qualcosa e che serva alle persone. Una scuola che serva. Che serva le persone e che serva il Paese. Un’istruzione che si fa servizio, un sapere che diventa 29


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vita. E quindi la scuola diventa bussola, capace di orientare, di accompagnare, di dare senso. “Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Che non presupponga nel ragazzo null’altro che d’essere uomo. Cioè che vada bene per credenti e atei. Io lo conosco. Il priore me l’ha imposto fin da quando avevo 11 anni e ne ringrazio Dio. Ho risparmiato tanto tempo. Ho saputo minuto per minuto perché studiavo. Il fine giusto è dedicarsi al prossimo”. Il sapere serve solo per darlo… Dibattito A. Moccia: il grande problema dell’educazione è sempre stato quello di far uscire qualcuno, che non ne avverte il bisogno, dall’ignoranza. Chi ha il conto in banca non avverte il bisogno di cultura. I giovani di oggi non leggono, né sentono il bisogno di leggere. M.C. Errico: desidero esprimere un sentimento di compiacimento per i miei colleghi e per gli alunni presenti. Quello che si semina si raccoglie. L’altro giorno un mio alunno di quarta mi ha chiesto chi avesse scritto Lettera a una professoressa, un libro che aveva conosciuto grazie al suo docente di matematica. R. Sturino: la scuola del filmato non è la scuola di oggi. Mi ha colpito la disciplina e il fatto che i ragazzi lavorassero. G. Albrizio: sono cambiate tante cose dall’epoca del libro. Forse l’analfabetismo è quasi del tutto eliminato. Anche grazie all’aiuto della televisione. M. Panza: la scuola è malata. Seleziona o regala diplomi. Non si va al cuore del problema: far crescere i ragazzi. M.C. Errico: quando la scuola seleziona, chi colpisce? Chi è meno agiato degli altri. R. Filippelli: non siamo capaci di dire la verità. Manca la capacità di comunicare. Rimane il gap tra la classe dirigente e gli ultimi. Bisogna superare l’individualismo e l’educazione all’individualismo. A. Moccia: ma i ragazzi hanno ancora bisogno della parola? Non sentono la scuola come una liberazione, ma come una fatica. L. Imbrogno: io sono stato a Barbiana. Conosco quell’esperienza mi piace. C. Mercuri: il libro presenta un forte messaggio politico. Denuncia i privilegi della società borghese. Fa la lotta alla scuola di classe. Oggi, quali cri30


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tiche alle scelte politiche che riguardano la scuola? I. Greco: Negli ultimi quaranta anni c’è stata un’accelerazione spaventosa. Importante l’idea di diventare sovrani. Manca il desiderio di diventare sovrani. È un’utopia. Un bel sogno. Come si sarebbe posto don Milani nella scuola di oggi? Danilo: il ragazzo vive i suoi tempi. All’uscita dalla scuola si vive. C’è uno scarto tra studenti e professori, specie nel triennio. È la famiglia che spinge a studiare. M. Teresa: ho fatto l’esperienza della visita a Barbiana. I ragazzi hanno reagito molto positivamente. Hanno visto i luoghi e gli strumenti usati nella scuola di Barbiana. Si possono recuperare i valori e la speranza offerti da Barbiana. Nella scuola c’è carenza di democrazia, incapacità di intervenire negli organi collegiali. T. Cariati: della scuola di Barbiana colpiscono molte cose, ma una in particolare voglio evidenziare perché in parte permette di rispondere agli interrogativi sollevati in questo dibattito. La scuola di Barbiana era fondata sul rapporto docente-ragazzo, ma anche sulle relazioni autentiche tra i ragazzi, e, poiché tutti erano docenti, anche sull’impegno e sul senso di responsabilità di ciascuno. In altre parole, la scuola di Barbiana era una vera comunità. Ecco, nella scuola italiana d’oggi, dove impera l’individualismo (lo stesso che impera in tutta la società occidentale), non segue nessuno di questi principi, salvo eccezioni e nonostante i proclami (la comunità è stata demonizzata e annientata; infatti si dice: ognuno per sé, i diritti del cittadino, i diritti del fanciullo, la realizzazione individuale, lo faccio se mi piace, l’amore dura finché non finisce). Quando si insiste sul rapporto docente-alunno, dando tutta la responsabilità all’insegnante e dimenticando gli altri due aspetti, cioè il principio di comunità e quello di corresponsabilità, si fanno disastri. C. Marra: a me il libro è piaciuto molto. La prima volta l’ho letto a casa dei miei genitori. Io mi ritrovo in “Pierino del dottore”. Anch’io ho avuto la casa piena di libri, la possibilità di dialogare con tante persone interessanti, la fortuna di essere invogliata e aiutata a studiare. Ho, però, nello stesso tempo, cercato di fare mio l’invito della scuola di Barbiana a restituire ai diversi Gianni che costituiscono, a mio avviso anche oggi, la scuola, quello che io avevo ricevuto in dono senza meriti speciali. È così che cerco di vivere il mio lavoro di insegnante, perché “Il fine giusto è dedicarsi al prossimo”. Il sapere serve solo per darlo.

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Gita a Rossano (a cura di Chiara Zicari)

Il 17 febbraio il gruppo SOS scuola ha organizzato una gita a Rossano, alla scoperta della cultura bizantina e delle tradizioni locali. Alle ore 7:30 ci siamo ritrovati tutti presso il nostro Istituto, l’ITC “V. Cosentino”. L’unico ritardatario è stato il professore Alfio Moccia, che con i suoi 55 minuti ha reso interminabile la nostra attesa! (ci siamo chiesti più volte che fine avesse fatto). Oltretutto il tempo non è stato molto clemente, il termometro in macchina segnava -3°! Il gruppo era composto da: il professore Rigon con sua moglie la professoressa Iole Greco, il professore Cariati con sua moglie Chiara, Gaëlle, Luca, Fabio, Gessica, Iolanda con la mamma, Antonio, Francesco, Dino con la mamma, la professoressa Rosa Filippelli con la figlia Paola, il professore Moccia con la moglie e la sottoscritta Chiara. Dopo un’ora di ritardo rispetto all’orario prestabilito, partiamo finalmente per Rossano. Durante il viaggio ci chiama il professore Massoni, la guida che ci aspetta con ansia a Rossano e ci avvisa che lì si è messo a nevicare! Increduli continuiamo e alle 11, nonostante i continui imprevisti che non sono mancati durante il percorso, arriviamo a destinazione: Rossano centro storico, piazza Steri, dove ci attende in macchina il professore Massoni! Lo spettacolo è fantastico… una bufera di fiocchi di neve rende il paesaggio surreale! Aspettiamo in macchina l’arrivo degli altri e insieme alla guida percorriamo più volte i vicoli stretti del centro storico del paese e a tappe ci fermiamo a visitare i monumenti più importanti: la chiesa di S. Marco realizzata nel sec. IX-X che però guardiamo solo esternamente, la zona di S. Anna dove si trovano le antichissime grotte eremitiche, la porta dell’acqua del ‘700, il palazzo 32


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arcivescovile dove è il museo diocesano che conserva il famoso Codex purpureus o rossanensis, un capolavoro dell’arte bizantina e il più antico degli evangeliarii (risale infatti al V-VI sec. e proviene dall’Oriente), la cattedrale, in cui è custodita l’immagine della madonna Achiropita del IX-X sec. non realizzata da mani d’uomo come vuole la sua etimologia.

Avventurandoci nei vicoli attorno alla cattedrale ci imbattiamo anche nella piccola chiesetta bizantina della Panaghia, la “Tutta Santa”, eretta fra l’XI-XII sec. che purtroppo non riusciamo a visitare. Il professore Massoni inoltre ci mostra i molti palazzi nobiliari del ‘700800 presenti a Rossano che sono in ottimo stato di conservazione. La giornata troppo rigida non ci permette di visitare con la dovuta attenzione il resto del paese, per questo decidiamo di andare a pranzo presso la trattoria “Al Cantuccio” dove troviamo ristoro e un caldo accogliente! Ci sistemiamo e prima di consumare i pasti, il professore Alfio decide di intrattenerci con canti calabresi accompagnati dal suono della sua chitarra bianca. Entusiasti del pranzo cominciamo a cantare tutti insieme canti popolari e a ballare tarantelle della nostra tradizione calabrese (e anche qui il professore Alfio si cimenta con disinvoltura nel suono melodioso della sua fisarmonica!). Dopo pranzo decidiamo di andare a visitare la chiesa di Santa Maria del Patire, meglio nota come il Patirion, arroccata in ambiente montano e distante 7 km da Rossano. La chiesa deve la sua fonda33


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zione, nel XII sec., a Bartolomeo di Simeri, un santo greco eremita di Catanzaro, che dopo l’apparizione in sogno della Madonna, fonda qui un monastero. All’interno si possono ammirare i famosi mosaici pavimentali che rappresentano dei medaglioni entro i quali sono raffigurati liocorni, centauri, felini, grifoni alati, ma che noi non possiamo ammirare, poiché la chiesa è chiusa. In compenso la vista spettacolare che si gode dall’alto del Patirion e che ci mostra il mare Ionio in lontananza, ci rallegra gli animi. Finisce qui la gita a Rossano anche se purtroppo non è stato possibile visitare molti dei luoghi più belli e interessanti della cultura bizantina, sia per motivi logistici e sia per le cattive condizioni del tempo. Ci salutiamo e nel tardo pomeriggio rientriamo a casa con la speranza di ritornarci.

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Roma città aperta (Appunti relativi all’incontro del gruppo SOS scuola del 17 marzo 2008 a cura di Eleonora Marino ) Sintesi del film Il film si ispira alla storia vera di don Pietro Pappagallo, torturato e ucciso dai nazisti perché colluso con la Resistenza. Nella Roma del ’43 e ’44, si intrecciano le vicende di alcune persone, coinvolte nella Resistenza antinazista. Durante l’occupazione, don Pietro protegge i partigiani e, tra gli altri, offre asilo ad un ingegnere comunista: Manfredi. Nel frattempo la popolana Pina, fidanzata con un tipografo impegnato nella Resistenza, viene uccisa a colpi di mitra sotto gli occhi del figlioletto mentre tenta di impedire l’arresto del suo uomo, trascinato via su un camion. Poco più tardi, anche don Pietro e l’ingegnere, tradito quest’ultimo dalla propria ex-amante tossicodipendente, vengono arrestati. Manfredi muore sotto le atroci torture inflittegli dai tedeschi per ottenere i nomi dei suoi compagni della Resistenza. La sorte di don Pietro è la stessa: il sacerdote viene fucilato davanti ai bambini della propria parrocchia, tra i quali l’orfano di Pina.

Dopo la visione del film, si è svolto un dibattito molto appassionato. Il dibattito ha avuto inizio con l’intervento del prof. Cosimo Mercuri: guardando questo film mi sorge spontaneo dire:“come sono tristi i nostri tempi e i nostri politici”; ogni cosa che io possa dire è superflua, è già stato detto 35


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tanto, forse troppo. Mi chiedo: ”Come può un film, realizzato con scarsi mezzi, scuotere così tanto i nostri animi?” Prosegue la prof.ssa Iole Greco: la storia serve ad insegnare a non ripetere gli stessi errori, i giovani devono avere dei punti di riferimento, degli ideali in cui credere per evitare che si possano ripetere sempre gli stessi sbagli; mi chiedo: ”Dio dov’era? Dio ci ha dato il libero arbitrio e siamo noi a sbagliare nelle nostre scelte”. Prende la parola la prof.ssa Emilia Florio: la Resistenza è stata rappresentata come prerogativa dei comunisti, ma in realtà fu frutto di comunisti, di liberali, di cattolici e anche di preti. Non si può affermare che tutti i sacerdoti erano fascisti. Basta osservare la differenza tra il prete che accompagna i condannati e don Pappagallo. Purtroppo il mondo della politica non insegna ai giovani a lottare per i propri ideali. Il popolo tedesco è esempio di come un popolo apparentemente normale e tranquillo possa diventare da un giorno all’altro un popolo di aguzzini se non si sta attenti e vigili sin dall’educazione dei primi anni di vita. La Chiesa ha salvato tante vite ebree e i conventi di clausura in cui furono rifugiati tanti ebrei ebbero l’autorizzazione del papa Pio XII e del Vaticano. A tal proposito il prof. Cosimo Mercuri interviene, dicendo: non sono molto d’accordo nel voler giustificare la Chiesa, perché la Chiesa non è solo il Vaticano ma anche le piccole chiese di periferia.

Continuiamo con l’opinione della prof.ssa Maria Panza: il film suscita tristezza perché ci fa pensare che la crudeltà umana non doveva manifestarsi allora e non dovrebbe manifestarsi ora. Con la differenza che in passato non vi era una buona informazione, ma oggi sì; allora perché si ripete tutto ciò in Palestina, in Iraq, in Tibet? Prende la parola Deborah Bottino: a me ha colpito molto il rapporto del bambino con il “patrigno”. Oggi non si vuole bene perché si è quel che si è, 36


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ma perché si spera in un guadagno, un qualcosa in cambio, e allora che bene è? Interviene la prof.ssa Rosa Filippelli: ci stiamo perdendo dietro al benessere. Noi siamo i figli di quei bambini che hanno salutato il prete, perché loro ci hanno permesso di crescere in questo modo e di far crescere allo stesso modo i nostri figli. Il vero problema è che noi siamo in crisi e non ci accorgiamo di ciò! Dopo continua la prof.ssa Giuseppina Barrese: i contenuti sono validissimi, ma la bravura del regista è così eccezionale che questo film è sempre “fresco”; è presente anche il timore di Dio quando il prete, che poi si pentirà, maledice i nazisti i quali, timorosi, arretrano fisicamente. La parola al prof. Tommaso Cariati: riguardo al fenomeno della rimozione delle tragedie che colpiscono i popoli, vi racconto quello che ha dichiarato una tedesca, Helga Schneider, nella trasmissione “Che tempo che fa” di Fabio Fazio ieri sera, che ormai vive a Bologna da 40 anni, felicemente sposata con un italiano. Quando aveva 5 anni, in pieno periodo nazista, sua madre ha abbandonato l’intera famiglia, dunque anche lei, per arruolarsi nelle SS nei campi di concentramento. La signora ha raccontato che lei crescendo voleva sapere ma nessuno le spiegava quello che era successo: la parola d’ordine era “dimenticare”.

Nel raccontare la sua storia, che lei dopo tanto tempo ha consegnato alla pagina scritta in un romanzo, colpiva la serenità e il distacco con cui esponeva fatti dolorosissimi. La seconda osservazione riguarda il film come opera d’arte. Mi pare che ci troviamo dinanzi a un capolavoro del cinema. All’inizio ci vengono presentati tantissimi personaggi, per la verità talvolta anche con ironia, e lo spettatore si chiede se ci sia un centro verso il quale la storia convergerà. Ebbene, la storia converge in un punto che è l’eroico martirio dell’ingegnere comunista, e, più tardi, l’esecuzione di don Pietro.

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La terza osservazione riguarda il contenuto. Nel punto culminante il regista ci mostra il sacrificio di un prete cattolico e di un ingegnere ateo, insieme: straordinario. Il martire ateo diventa “Ecce homo” e il prete cattolico, che durante il martirio lo ha sostenuto con la preghiera, dopo aver pronunciato parole rituali, esplode in un’invettiva contro gli aguzzini, e in quel momento si produce un’energia spirituale straordinaria che fa arretrare i carnefici; subito dopo si inginocchia davanti a quell’ateo, “Ecce homo”, come se fosse Gesù Cristo in persona. Altra considerazione riguarda il carattere dei totalitarismi. Qui non si tratta tanto di vedere se gli uomini al potere fanno errori più o meno gravi, qui si tratta della perversione del potere, che, da strumento per governare gli uomini, diventa un sistema mostruoso che vuole possedere tutto e tutti. Nel film questo carattere si vede sia quando all’inizio si parla del progetto per rastrellare scientificamente una grande città, già collaudato in un’altra parte d’Europa, sia quando don Pietro ringrazia Dio perché non ha permesso che l’ingegnere rivelasse i nomi richiesti dagli aguzzini, mantenendo l’integrità morale e spirituale. Nel totalitarismo il male diventa sistema di dominio, distruzione e morte. L’analogia con Gesù di Nazareth è ancora più evidente se si considera chi ha tradito l’ingegnere e come lo ha tradito: la donna che egli aveva amato, in cambio di una “dose”. Ci si chiede “perché uno è forte davanti al dolore e uno è debole?” Perché uno ha fatto esercizi spirituali e l’altro ha condotto una vita dissipata e frivola; uno ha ricondotto a un’unità la sua vita, impiegandola per una causa giusta, e l’altro ha condotto una vita all’insegna del qualunquismo. I tedeschi, invece, sono votati al male. Per esempio, il comandante che dirigeva le operazioni “lavorava” –per così dire– ininterrottamente, però oltrepassata una porta trovava il salotto, la musica, gli amici che giocavano a carte, le donne; oltrepassata un’altra porta c’era l’inferno. Prende la parola Luca Imbrogno: credo nell’eccezionalità di questa “opera” e nella bravura degli attori che sono riusciti a rendere l’immagine delle storture del conflitto mondiale. Ciò che più mi ha colpito è stata la scena della Magnani uccisa a colpi di mitra, già famosa ma che in questo contesto ho potuto apprezzare e capire meglio.

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Infine interviene Eleonora Marino: stamattina, sul «Corriere della sera», Francesco Alberoni ha scritto un articolo: “Se vuoi ottenere l’eccellenza non fare sconti a te stesso”. Nel corsivo di Alberoni diverse sono le frasi che possiamo collegare all’eccezionalità di questo film e, sottolineerei il ruolo dei protagonisti: i protagonisti hanno la capacità di tradurre in fatti le parole di Alberoni. La banalità e la nullità della donna italiana che ha venduto l’ingegnere ai nazisti, dall’altra parte l’ingegnere, ma anche altri, che grazie alla loro grandezza interiore hanno dimostrato cosa significa essere all’altezza delle situazioni imprevedibili che si presentano nella vita! Ecco le frasi significative di Alberoni: Oggi la spinta all’eccellenza viene ostacolata da una pedagogia che punta sulla facilità, la mediocrità, l’improvvisazione. Con la banalità e la mediocrità la società non si sviluppa e l’individuo si deteriora. L’eccellenza si ottiene solo se, ogni volta, facciamo meglio della volta precedente. Solo chi è esigente con se stesso sviluppa la capacità di giudicare ciò che vale e ciò che non vale. Abbiamo bisogno di una classe dirigente all’altezza dei difficili tempi che viviamo. Ma tutto comincia dall’individuo, dalla sua motivazione, dal suo impegno a realizzare l’eccellenza.

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Gita ai paesi grecanici (a cura di Chiara Zicari) Il gruppo SOS scuola, giorno 1 maggio, ha organizzato una giornata dedicata alla visita dei paesi grecanici della Calabria. Alle sei di mattina ci siamo ritrovati all’imbocco dell’autostrada e puntuali siamo partiti per Reggio Calabria. Il gruppo era composto da: il prof. Cariati e la moglie Chiara, la prof.ssa Filippelli e la figlia Paola, Noemi e la sua famiglia, Gessica e William, la prof.ssa Panza e il marito, la prof.ssa Ato e il figlio e la sottoscritta Chiara. Arrivati a destinazione alle 9.30 ci fermiamo per incontrare le nostre guide, il prof. Mimmo Minuto e il poeta Salvino Nucera. La prima tappa è Pentedattilo che ammiriamo soltanto da una piazzola di fronte il paese dove, nonostante la foschia, gustiamo stupiti il magnifico paesaggio. Pentedattilo, “paese fantasma”, è considerato uno dei centri calabresi più caratteristici, arrocca il suo abitato deserto sotto un’alta rupe frastagliata, la cui forma ricorda una gigantesca mano che leva al cielo le cinque dita.

Continuiamo il viaggio e attraversiamo una tra le fiumare più rappresentative della provincia di Reggio, l’Amendolea, che scorre nell’area 40


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grecanica dell’Aspromonte. Il poeta Salvino ci porta a visitare un agriturismo situato proprio nei pressi della fiumara. L’agriturismo, azienda agricola familiare fino agli anni ’60, è gestita dall’avvocato Sergi, il quale si occupa della coltivazione del bergamotto. Incuriositi ci facciamo illustrare gli alberi e descrivere la storia di questo frutto.

Ci fermiamo più avanti per visitare uno dei borghi più antichi, che prende il nome dalla fiumara Amendolea che scorre poco sotto. All’interno del borgo disabitato si trova il castello dei Ruffo, da cui si gode un panorama mozzafiato sulla fiumara. Prima di proseguire il professor Minuto ci mostra i ruderi delle chiesette di Santa Caterina, San Sebastiano e San Nicola.

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Arriviamo a Gallicianò verso l’ora di pranzo. Il paese è abitato da pochissime persone, la maggior parte anziani! Visitiamo in poco tempo il paese grecanico e prima di andare via incontriamo il signor Mimmo l’artista il quale ci apre la porta di una piccola chiesetta bizantina, da lui costruita adoperando le tecniche tradizionali. Lasciamo Gallicianò e saliamo in montagna per dedicarci finalmente alla consumazione del pranzo.

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Dopo una siesta sotto la fresca pineta continuiamo il viaggio per Roghudi. Percorriamo delle stradine tortuose davvero emozionanti. Nel paese c’è divieto di abitazione perché il rischio delle frane è molto alto. Gli abitanti, infatti, sono stati indotti a lasciare il paese e a spostarsi lungo la costa, dove sorge Roghudi nuova. Sulla strada che porta a Bova ci fermiamo e il professor Minuto con il poeta Salvino ci raccontano la leggenda del drago, popolare in quelle zone, e ci mostrano delle rocce che sono le superstiti testimonianze di questa leggenda. Arriviamo nel tardo pomeriggio a Bova, paese dove ancora oggi si parla l’idioma antico, infatti è uno dei paesi che formano la cosiddetta area grecanica della punta estrema della provincia di Reggio. Qui visitiamo il paese e in tarda serata rientriamo a casa. Questo viaggio, ricco di fascino e di storia, ci è servito per conoscere da vicino questo patrimonio culturale che va, secondo noi, rivalutato, allo scopo di recuperare la lingua e la cultura grecanica che, invece, rischiano di scomparire completamente.

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Misteri d’Italia (Appunti dell’incontro di SOS scuola del 14 maggio 2008 a cura di Rosina Filippelli) Misteri d’Italia, il libro di Carlo Lucarelli, raccoglie dieci vicende descritte nella trasmissione televisiva Blu Notte condotta dalla stesso autore. Contribuisce a far luce su alcuni misteri italiani, su casi rimasti ufficialmente irrisolti. Parla di inquietanti omicidi, attentati e presunti suicidi accaduti in Italia negli ultimi cinquant’anni. Molti di noi li ricordavano, ricordavano i telegiornali che ne davano notizia, ne avevano sentito parlare in trasmissioni televisive o ne avevano letto sui giornali, senza però approfondirne bene il discorso. Di questi eventi, Lucarelli fornisce tutto l’intreccio di connivenze e di interscambio di favori e informazioni da parte di mafia, massoneria, politica e terrorismo.

Emilia Marra apre il dibattito presentando il libro di Lucarelli come appartenente ad una tipologia nuova: dal video alla scrittura, un libro che benché non sia un saggio, né un libro di narrativa, né un giallo, contiene le caratteristiche di tutte e tre le tipologie. Nel libro viene ripreso lo stesso linguaggio usato in TV, la ripetizione di alcune frasi usate nella trasmissione: “questa è la storia di…”, “se fosse un romanzo”, “invece no” e “a questo punto succede qualcosa di strano”, che serve ad attirare l’attenzione del lettore. Nella postfazione G. Boatti esamina la portata della parola “mistero” usata da Lucarelli. Oltre a ciò che intende la teologia cristiana (verità che non possiamo comprendere con i nostri mezzi), e la tradizione pre-cristiana (verità che si comprende dopo opportuna iniziazione), per mistero esiste una definizione più comune svincolata da connotazioni mistico-religiose, cioè è mistero ogni fenomeno finché si sottrae a una comprensione scientificorazionale, che solo un’attenta ricostruzione di tutti gli aspetti che lo compon44


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gono può svelare. C’è un segreto, quindi da svelare, e quando verrà svelato risolverà il mistero. Uno dei casi più emblematici di mistero trattato in questo libro è il caso di Graziella Campagna, una ragazza diciassettenne che viene soppressa senza esitazione allorché viene a conoscenza, suo malgrado, della vera identità di alcuni personaggi pericolosi. Un altro caso esaminato da Lucarelli è l’omicidio di Enrico Mattei. Un uomo che avrebbe fatto del nostro un paese indipendente, perché già quarant’anni fa aveva compreso come la base della ricchezza fossero le risorse energetiche. E voleva gestire l’approvvigionamento di queste, svincolato dalle leggi che nel mercato del petrolio erano dettate delle sette più importanti compagnie petrolifere. Mattei sapeva di rischiare la vita, ma ciò nonostante ha continuato a perseguire i suoi obiettivi. Tanti sono i personaggi di cui il libro parla, come ad esempio Giorgio Ambrosoli “un uomo tranquillo, un uomo perbene” lo definisce Lucarelli, al quale viene affidato l’incarico di commissario liquidatore della banca di Michele Sindona; e anche Mauro De Mauro, il giornalista scomparso nel 1970 a Palermo che indagava sulle ultime ore, in Sicilia, di Errico Mattei; e poi Antonio Ammaturo, vicequestore, ucciso a Napoli da un commando delle BR perché indagava su strane concussioni tra terrorismo, camorra e politica; e non ultimi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tutte queste persone continuarono a fare il loro dovere anche se ne comprendevano la pericolosità, in un panorama che ci offre la visione di un paese disastrato, ci fa intravedere uno spiraglio di luce: non tutti hanno abbandonato il valore dell’ onestà. Riguardo al problema dell’informazione Alfio interviene dicendo che alla base di questi misteri c’è qualcosa che non si dice per opportunismo politico in quanto l’informazione stessa viene filtrata, inoltre se una notizia non è funzionale alla carriera del giornalista stesso, a volte potrebbe essere oggetto addirittura di autocensura. Giuseppina rincara la dose aggiungendo: “i giornalisti sono cortigiani…”.

Viene messo in luce che la gestione delle notizie fatta in modo così poco trasparente, possa giocare un ruolo sfavorevole nell’educazione delle nuove generazioni. Il caso della Uno Bianca è allarmante, per la mancanza di valori 45


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che trasmette; non è esagerato dire che oggi i ragazzi hanno perso la misura del bene e del male, e non ritengono più necessario fondare i rapporti sul rispetto. Di ciò è responsabile il mondo degli adulti che invia messaggi ambigui dove si applaude all’utilità immediata e al successo senza sforzi. A questo proposito Giuseppina aggiunge che ha letto Romanzo Criminale di De Cataldo dove la realtà supera la fantasia: il criminale e il politico frequentano la stessa donna e lo stesso ambiente, per cui ci si chiede: “allora politici, delinquenti, servizi segreti condividono gli stessi valori, stili di vita, lusso…” Giuliano interviene dicendo che apprezza molto lo stile di Lucarelli, che espone i fatti ma senza dare giudizi e aggiunge che spesso le prove di molti casi delittuosi sono state inquinate dall’inettitudine e dall’impreparazione di chi doveva raccoglierle. Chiara interviene dicendo che: 1) Oggi, nonostante la censura, i cittadini hanno a disposizione diversi sistemi di informazione, per cui hanno la possibilità di documentarsi, sapere e ragionare. 2) Ritiene di non essere pessimista riguardo all’educazione dei ragazzi; secondo una ricerca dello IARD emerge che i valori dei giovani non sono diversi da quelle di 20-30 anni fa. Maria solleva un altro dibattito, prendendo spunto dal caso di questi giorni della ragazza siciliana trovata morta, uccisa dai tre suoi amici che prima hanno approfittato di lei e poi, pur di non assumersi alcuna responsabilità, l’hanno soppressa con una leggerezza che fa raccapricciare. Chiarina interviene ricordando l’11 settembre 2001. L’attentato alle torri gemelle ha provocato la caduta delle borse, molti ci hanno perso, ma qualcuno ci ha guadagnato? Qualcuno ha insinuato una complicità di Bin Laden con gruppi finanziari. Infine Tommaso ci racconta di quanto sia stato colpito la prima volta che ha visto Lucarelli in quanto ha uno stile particolarissimo: regge da solo tutto il suo programma, in modo, si direbbe, “antitelevisivo”. Inoltre parlando del libro dice che è avvincente e che “prende moltissimo”. Ma dice anche che i misteri di cui Lucarelli tratta mostrano che viviamo in una democrazia dimezzata. L’unica soluzione possibile sembra quella di continuare a voler capire, senza arrenderci, per difendere e caso mai far crescere questo poco di democrazia che abbiamo.

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Buongiorno, notte! (Appunti dal dibattito seguito alla visione del film nella riunione di SOS scuola del 28 maggio 2008 a cura di Noemi Bruno) Notizie su Aldo Moro e sul film Buongiorno, notte. Deputato nelle file della Democrazia Cristiana, Aldo Moro cominciò la sua carriera politica subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Più volte ministro, nel 1963 costituì il primo governo di coalizione con i socialisti, ricoprendo per tre volte la carica di presidente del Consiglio. Favorevole al dialogo con il Partito comunista, operò per far sì che la politica del compromesso storico si concretizzasse in una partecipazione diretta del PCI al governo del paese. Nel 1978, proprio quando il suo progetto politico era in via di realizzazione, fu sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse, durante un agguato in cui rimasero uccisi gli uomini della sua scorta; il corpo dello statista fu ritrovato il 9 maggio successivo nel bagagliaio di un’auto parcheggiata in una via del centro. Il sequestro segnò il culmine dei cosiddetti "anni di piombo", durante i quali una serie di attentati, omicidi, ferimenti e sequestri ad opera di terroristi di destra e di sinistra contrassegnarono una fase politica di aspri conflitti sociali e di lotta politica, di irrigidimento dello Stato e di intervento di forze rivoluzionarie ignote, responsabili di quella che all’epoca venne denominata “strategia della tensione”. A distanza di molti anni l’assassinio di Aldo Moro resta tuttavia una ferita aperta nel corpo vivo dell’Italia, e ancora oggi accende polemiche, sospetti, attribuzioni di colpa. Marco Bellocchio dice: “Il mio film affronta il caso Moro, vera tragedia per l’Italia e avvenimento storico che pone definitivamente fine ai movimenti di contestazione iniziati nel ‘68, con la consapevolezza e la volontà di non esser un documento da archivio, ma un’opera d’arte a tutti gli effetti. Per quello che ricordo personalmente di quegli anni, i terroristi erano considerati come alieni, gente diversa e misteriosa... Il mio film, che è molto personale, parla di una tragedia collettiva: l’incapacità dello Stato italiano di salvare una vita contro la follia della BR che la vita invece non la rispettano”.

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Il film Buongiorno, notte, uscito nel 2003, è tratto dal libro Il prigioniero di Anna Laura Braghetti pubblicato nel 1988. Ella fu componente della colonna romana delle Brigate Rosse e venne arrestata nel 1980. Fu condannata all’ergastolo, non usufruì di sconti di pena e venne ammessa alla liberazione condizionale nel 2002. Chiara, giovane terrorista appartenente alla lotta armata, è coinvolta nel sequestro Moro. Di contro è chiamata a vivere la normalità del quotidiano con i suoi ritmi di sempre: un ufficio, un lavoro, dei colleghi e un amico che sembra leggerle nel profondo più di quanto lei riesca a fare. La vicenda inizia con la visita all’appartamento che sarà poi luogo di prigionia del leader della DC: la giovane terrorista (Maya Sansa) lo percorre con il compagno e l’agente immobiliare, le tapparelle si alzano per illuminare un luogo che sarà invece buio per due lunghissimi mesi. Ma l’urlo strozzato della giovane alla notizia del rapimento è il vero avvio del racconto, Moro arriva nella casa in una cassa di legno e subito incomincia il conto alla rovescia: le autorità si rifiutano di trattare, le convinzioni della ragazza cedono e chiedono aiuto ai sogni, il processo storico e quello sommario delle BR condannano a morte lo statista democristiano.

Dibattito seguito alla visione del film Deborah: questo film mi ha segnato. Sicuramente le BR non hanno fatto una bella azione uccidendo Moro. Chiara: non condivido la lotta di classe delle BR. L’idea di paragonare Moro ad un partigiano mi è piaciuta perché in questo modo si è visto come ha saputo resistere. Iole: io ricordo il rapimento di Moro che è stato uno shock per tutti. Nel film la figura femminile (Chiara) secondo me è migliore delle maschili. Essi avevano sempre la tv accesa e si nutrivano delle immagini di Stalin. Nel film si vedono proprio le immagini reali. 48


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Gessica: è stato un bel film. Non capisco perché una persona con differenti ideali debba essere uccisa. Per questo non condivido le idee delle BR. Noemi: il film per me è stato molto interessante perché, non essendo ancora nata quando è successo tutto ciò, ho potuto vedere realmente come è andata la vicenda. Comunque sia non condivido le loro idee e la figura femminile è quella che mi ha colpito di più perché rappresenta una persona sensibile. Rosa: io ricordo bene sia il giorno del rapimento che quello della morte. Nel film la figura della ragazza è importante perché poi fa vedere il sentimento. In quel periodo storico tutti abbiamo rischiato tanto. La vera via d’uscita secondo me è quella di riconoscere i valori dell’uomo. Tommaso: un film ben fatto. Come dice Bellocchio questo è un film “opera d’arte”. Mi ha colpito molto la parte in cui la fantasia e la realtà si fondono, e quella scena in cui Moro parla apertamente con i brigatisti della strategia che i politici stanno attuando ai suoi danni. Mi ha colpito anche quando, ascoltando una delle lettere che Moro aveva scritto al Papa, la ragazza si mette a piangere, ma quando Moro le chiede se la lettera l’avesse toccata, lei risponde, contraddittoriamente, di no.

Anche io ricordo il giorno della sua morte. L’Italia è stata veramente dominata da forze oscure mentre la gente era convinta di vivere in una democrazia. La libertà piena non l’abbiamo mai avuta e, a ben vedere, la resistenza continua.

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Per tessere e ritessere relazioni vitali (Appunti dalla riunione di bilancio del gruppo SOS scuola del 12 giugno 2008 a cura di Chiara Marra) Per la riunione di bilancio del terzo anno di vita del gruppo SOS scuola le persone sono state invitate a riflettere utilizzando il seguente testo: Come sai, il gruppo SOS scuola persegue tre finalità: acquisire e trasmettere saperi validi, promuovere una responsabilità piena e favorire relazioni autentiche. Le attività di quest’anno, e le modalità adottate per viverle, sono state coerenti con gli obiettivi del gruppo? Hai gradito le attività? Ti sei lasciato coinvolgere e hai partecipato attivamente? A tuo avviso, gli altri membri del gruppo hanno vissuto coerentemente con gli obiettivi le attività proposte? Come ti proponi di cambiare il tuo modo di vivere le attività proposte dal gruppo? La riunione di verifica si svolge in una bellissima giornata di sole nell’area pic nic di Varco San Mauro, in Sila. Poiché siamo in pochi, si decide di non seguire l’ordine delle domande. Rosa: Anche quest’anno SOS scuola ha realizzato attività varie che sono state le proposte di letture di tre libri: Il vento nell’uliveto di Seminara, Lettera ad una professoressa di don Milani e Misteri d’Italia di Lucarelli; la visione di tre film: Napoli milionaria di De Filippo, Roma città aperta di Rossellini e Buongiorno, notte! di Bellocchio; le visite guidate alla ricerca delle nostre radici, una nelle località arbëreshe della Calabria (Civita, Frascineto, Lungro), la seconda nella Rossano bizantina, la terza nei paesi grecanici aspromontani (Amendolea, Gallicianò, Roghudi, Bova). Nelle visite si sono ricercate le nostre radici, per meglio definire la nostra identità. Anche la lettura del libro Il vento nell’uliveto e il successivo incontro con Pino Caminiti, insieme al quale il libro è stato commentato, ci ha permesso di avvicinarci alle nostre tradizioni e di ripensare quella cultura contadina dalla quale, alla fine, tutti discendiamo. La visione di Napoli milionaria e di Roma città aperta, e la lettura degli scritti di don Milani, invece, hanno allargato il nostro orizzonte della ricerca 50


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d’identità, su un panorama più ampio, a livello nazionale, offrendoci uno spaccato delle condizioni di vita, ma anche dei valori e delle speranze dell’Italia nella seconda guerra mondiale e nel dopoguerra. Il libro di Lucarelli e la visione del film Buongiorno, notte!, infine, ci hanno mostrato l’Italia degli anni ’70 e ’80 e le verità sconcertanti di quel periodo. Credo che tutte le attività portate avanti da SOS scuola siano state un importante momento di riflessione e siamo state coerenti con gli obiettivi del gruppo che si propone di ricercare nel nostro passato la chiave di lettura dei nostri disagi presenti affinché questi possano essere affrontati. Ho gradito molto partecipare alle attività e ho fatto del mio meglio per essere presente quando si sono svolte. Credo che ognuno, a suo modo, abbia avuto opportunità di riflessione dalle attività svolte e abbia cercato di viverle nel modo più coerente agli obiettivi a cui queste miravano. Credo che cercherò sempre di più di non accontentarmi di “ciò che sembra” ma di ricercare invece la verità che si cela dietro ogni avvenimento, cosa che sembrerebbe relativamente facile da fare ma che invece richiede un certo allenamento. Ecco, credo che il fine più importante a cui un educatore debba tendere sia questo: insegnare ad essere indipendente nei giudizi, insegnare a capire e soprattutto allenare all’onestà intellettuale. Maria: le uscite creano relazioni più autentiche e rilassate. Permettono di conoscere la realtà dal vivo e le cose restano più impresse. Si creano esperienze comuni su cui confrontarsi. Positivi anche gli incontri sui libri e sui film. Bisogna cercare di vivere tutti i momenti del gruppo. L’ambiente scolastico condiziona nelle relazioni. Rosa: ritagliarsi anche momenti al di fuori dell’ambiente scolastico ci permette maggiore serenità. Dovremmo coinvolgere un maggior numero di persone, non solo alunni e genitori, ma magari anche le persone dello staff dirigenziale per favorire relazioni più libere. Luca: vorrei centrare l’attenzione sulle tre attività che mi sono piaciute di più. Come libro, Lettera a una professoressa, che già conoscevo, ma che ho apprezzato scoprendo cose nuove; come film, Roma, città aperta. Bellissimo il personaggio della Magnani. L’ho incluso anche nel percorso preparato per gli esami. Come gita, quella a Rossano, per la visita al Patirion, per il giro nella città al freddo, e per la chiesa dell’Achiropita. Propongo di fare un maggior numero di gite, perché è un tipo di attività che i ragazzi vivono in modo più rilassato e perciò imparano anche più volentieri. Mi è dispiaciuto di non essere potuto andare a tutti gli incontri di lettura 51


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della Fondazione Rubbettino. Fabio: mi sembra difficile coinvolgere di più gli studenti, perché sono poco interessati alla cultura. Sono troppo attratti da quello che la TV fa credere loro che sia bello e importante. Ho trovato interessante essere coinvolto nei progetti sui siti web sulla Calabria preparati in vista degli esami. Bisogna proporre ai ragazzi qualcosa di coinvolgente. Tommaso: l’uscita a Rossano non mi è piaciuta moltissimo per tre ragioni: il ritardo, il clima, la guida. La programmazione è stata coerente sia con gli obiettivi, sia nelle attività tra di loro. Per l’anno prossimo non bisogna programmare più di tre libri e tre film, ma magari qualche attività in più all’esterno. Forse dovremmo cominciare a interrogarci sull’identità europea. Non sempre quest’anno tutti hanno fatto il possibile per esserci e per esserci pienamente. Per esempio, la puntualità è importante. E deve esserci anche la disponibilità ad assumersi qualche incarico per far crescere l’appartenenza al gruppo. Rosa: è diffuso l’atteggiamento di non impegnarsi nelle relazioni e nelle attività. Propongo per l’anno prossimo di offrire all’ITC “V. Cosentino” un punto di ascolto per gli studenti gestito dal gruppo all’interno della scuola. Chiara: senz’altro le attività di quest’anno e le modalità adottate per viverle sono state coerenti con gli obiettivi del gruppo. Mi pare di cogliere una crescita generale del gruppo, specie nelle relazioni e grazie all’assiduità di alcuni. Alle attività, peraltro molto gradite, ho partecipato sempre e attivamente. Ci sono persone che hanno difficoltà a farsi coinvolgere, però occorre sforzarsi per essere presenti e puntuali. Per l’anno prossimo potrei tentare di dare vita, nella scuola dove mi troverò a lavorare, ad un gruppetto “affiliato” a SOS scuola. Emilia, che si trova a Washington, ha inviato per e-mail una breve riflessione per la verifica: carissimi amici di SOS scuola, desidero dirvi sinteticamente le mie impressioni sul lavoro svolto, senza rispondere punto per punto alle domande: primo dato positivo è che il gruppo esista ed abbia continuato regolarmente le attività. Secondo dato: la presenza di altre persone che hanno compreso e fatto proprio lo spirito di SOS. Penso che bisogna continuare e fare in modo che siano coinvolti di più gli alunni, il modo per starci è quello della fedeltà agli incontri, della gratuità nelle relazioni, della curiosità nella proposta culturale.

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Appendice

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Incontro di lettura organizzato dalla Fondazione Rubbettino presso l’Unical per gli studenti delle scuole superiori (Appunti di Luca Imbrogno e Alessandra Speranza per conto di SOS scuola) Il 29 febbraio 2008 alle ore sedici, presso le strutture del polifunzionale dell’Unical, si è tenuto un incontro al quale hanno partecipato circa cento studenti, accompagnati dai loro professori, delle scuole del comprensorio di Cosenza e dintorni, che avevano precedentemente letto il libro Destinatario sconosciuto. Fra gli studenti erano presenti anche alcuni componenti di SOS scuola. L’incontro è stato mediato dal docente universitario di sociologia Jedlowski. Una scheda del libro Titolo: Destinatario sconosciuto. Autore: Kressmann Taylor. Casa editrice: Rizzoli. Personaggi principali: Martin, tedesco; Max, ebreo americano. Tempo: 1932-1934. Genere letterario: romanzo epistolare Tema: Il racconto si articola attraverso la corrispondenza tra due amici quarantenni di origine tedesca che, già proprietari in società di una galleria d’arte a San Francisco, ora sono lontani perché uno di essi, Martin Schulse, ha deciso di far ritorno nella madre patria con la famiglia. La gestione della galleria d'arte rimane quindi nelle mani dell'altro, Max Eisenstein, che da buon ebreo, ha grande fiuto per gli affari. La corrispondenza tra i due amici è molto calorosa. Dopo le prime missive in cui gli affetti e la nostalgia sono gli unici argomenti, le successive lettere, oltre alle vicende personali, cominciano a contenere riferimenti alla situazione politica in Germania. Schulse fornisce a Eisenstein una visione della Germania che si trova nel pieno della crisi economica degli anni ’30, visione che con il passare dei mesi si sposta dalla commiserazione della miseria in cui versa la popolazione verso l'osservazione, prima dubbiosa e poi ammirata, del fervore e del vento di cambiamento generati dalla salita al governo di A54


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dolf Hitler. La Germania infatti, dopo essere stata a lungo china sotto il peso della sconfitta subita nel primo conflitto mondiale, rialza il capo e guarda di nuovo a testa alta il resto dell’Europa e del mondo. Il cambiamento ed il fascino del Führer colpiscono a fondo la società tedesca e Martin Schulse, prima liberale convinto, non rimane immune dagli effetti di questo sentimento di una nuova Germania che sia Über Alle. A seguito di questi eventi la corrispondenza tra i due amici cambia di tono e qualcosa nel loro rapporto comincia a incrinarsi. Katherine Kressmann Taylor sostenne sempre che questo racconto era stato tratto da una storia vera e che era basato su alcune lettere autentiche. Che questo sia verità o meno non cambia molto nella carica emotiva di Destinatario sconosciuto. Anche se questa storia fosse tutta frutto della fantasia dell'autrice, essa riuscirebbe ugualmente a trasmettere al lettore la crudeltà e la malvagità del Nazismo con una dinamica che provoca gli stessi effetti di un pugno allo stomaco. In poche pagine, nel trasformarsi dei toni del breve scambio epistolare, il lettore si trova di fronte alla follia nazista da una parte ed al terrore e all’impotenza dei perseguitati dall’altra. Destinatario sconosciuto è un libro che, per la brevità e la rapidità con cui lo si può leggere, invoglia alla lettura. Nonostante questo i suoi contenuti costringono “brutalmente” a riflettere su una delle più crudeli follie della nostra storia. Il libro di Kressmann Taylor risveglia un tristissimo ricordo che dovrebbe servire a tenere desta la coscienza affinché errori simili non si commettano più. Dal dibattito tra gli studenti, moderato con molta competenza dal professore Jedlowski, sono emerse in sintesi le seguenti osservazioni: Il valore dell’amicizia, che esaminando il libro appare qualcosa di puro e essenziale nella prima parte del racconto, ma che a volte può diventare un sentimento falso e spietato come accade ai due protagonisti, quando Max decide di far parte attiva del nazismo. La paura, paura di essere “diverso”, paura di essere amico della persona considerata diversa. Trovarsi a un bivio e dover scegliere se far parte del filone delle persone ritenute superiori, oppure essere coerenti con se stessi, correndo il rischio anche di essere denigrato o ancora peggio mettere in gioco la propria vita rispettando e tenendo fede a uno dei più importanti valori come l’amicizia. L’antisemitismo. I vari interventi sono riusciti a definirlo come un terribile pregiudizio razziale nei confronti delle generalità degli ebrei. Si è parlato soprattutto di grande ostilità istintiva, di un odio cieco, del loro sterminio sistematico, scientifico che non tiene conto nemmeno dei valori più elementari e importanti della persona. 55


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Abbiamo discusso tanto se giustificare o meno il comportamento dei protagonisti: come ci saremmo comportati noi trovandoci nelle medesime situazioni? Domanda questa a cui noi ragazzi abbiamo risposto in tanti modi diversi, alcuni anche, a primo impatto, insostenibili, ma, che, poi discutendone insieme ci sono apparsi come tra le piĂš normali e istintive reazioni che l’uomo può avere.

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Incontro di lettura organizzato dalla Fondazione Rubbettino presso l’Unical per gli studenti delle scuole superiori (Appunti di Luca Imbrogno per conto di SOS scuola) Il 17 aprile 2008 alle ore 16.00, presso le strutture del polifunzionale dell’Unical, si è tenuto l’ultimo incontro di lettura dell’anno scolastico 2007/2008. La presenza degli studenti non è stata massiccia come negli incontri precedenti; i presenti, accompagnati dai loro professori delle scuole del comprensorio di Cosenza, avevano prima letto il libro-fumetto Persepolis. Fra loro erano presenti anche alcuni componenti di SOS scuola. L’incontro è stato animato dal docente universitario di sociologia prof. Jedlowski. Una scheda sul libro Titolo: Persepolis. Autore: Marjane Satrapi, fumettista e illustratrice iraniana contemporanea. Passa l’infanzia a Teheran durante il periodo in cui l’Iran passa da monarchia a repubblica teocratica, negli anni dell’adolescenza ha studiato a Vienna, ha frequentato l’università in Iran e oggi vive a Parigi. Casa editrice: Lizard. Personaggio principale: Marjane. Genere letterario: fumetto storico/autobiografico. Tema: l’opera narra la vita della scrittrice iraniana Marjane Satrapi che ne è autrice. Persepolis racconta soprattutto dell’Iran, e dell’evoluzione e dei mutamenti che tale paese ha subito in seguito alla Rivoluzione Islamica, visti attraverso gli occhi di una bambina che diventerà adolescente e poi donna. Il fumetto racconta anche dell’Europa e del mondo occidentale, sempre visti da Marjane, la quale è costretta ad allontanarsi dal proprio paese in quanto i genitori, per tutelarla da una dittatura molto opprimente, soprattutto verso le donne, decidono che si trasferisca in Europa. Nella prima parte del libro è narrata l’infanzia dell’autrice: essa cresce in una famiglia dagli ideali progressisti; sin da piccola divora molti libri, cresce ispirata dai racconti dei prigionieri politici, come suo nonno e suo zio, e dalla madre, che cerca di educarla secondo gli ideali di un moderato femminismo,

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almeno finché la politica repressiva della Rivoluzione non renderà rischiose anche le pacifiche proteste di piazza. Marjane inizialmente frequenta una scuola bilingue, impara anche il francese; con l’avvento del regime teocratico le scuole straniere vengono chiuse e le classi miste abolite, in favore della separazione dei sessi. Poco dopo, verrà anche reintrodotto l’obbligo per le donne di indossare in pubblico il chador, o in alternativa un ampio fazzoletto scuro che copra i capelli. Marjane e le compagne di classe mostrano una certa insofferenza verso questo nuovo obbligo. Nel frattempo, le pressioni ed il controllo sulla vita privata da parte del nuovo regime aumentano. La madre di Marjane inizia a portarla con sé in piazza, per protestare assieme ad altre donne contro le restrizioni che il governo islamico cerca di imporre loro. Scopriamo però che i Pasdaran non sono meno feroci del vecchio esercito dello scià, quando si tratta di reprimere le manifestazioni avverse al regime. I genitori di Marjane decidono così di partire assieme alla figlia, lasciando per qualche tempo l’Iran e concedendosi una lunga vacanza in Italia ed in Spagna. Quando si trova in Italia scoppia la guerra tra Iran e Iraq. In seguito tornerà in patria. Il regime degli ayatollah esce rafforzato dalla guerra. Marjane si scontra più volte con le sue insegnanti, zelanti figlie della Rivoluzione, attente a proibire alle loro allieve di truccarsi o indossare gioielli. Marjane ha sempre la risposta pronta e questo, benché li renda orgogliosi, preoccupa anche i suoi genitori, i quali spingono la figlia a trasferirsi in Europa, in Austria, lontana dal regime. Dal dibattito fra gli studenti moderato con competenza e fermezza dal professore Jedlowski, fra i vari temi affrontati, uno in modo particolare ha catturato l’attenzione suscitando molto stupore: il tema della libertà. In genere l’immagine della libertà enunciata in questo fumetto è un’immagine che si accosta all’idea di libertà del mondo occidentale, e ci ha stupito che la scrittrice sia di un’altra parte del mondo. Con la sua forza e la sua determinazione accompagnate dal suo stile semplice Marjane ha fatto sì che Persepolis piacesse a tutti noi studenti

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Relazione di accompagnamento del lavoro svolto dalla classe IVB Mercurio dell’ITC “V. Cosentino” per il concorso LIBERAMENTE Rende, 17 aprile 2008

Nel mese di dicembre 2007 la classe è stata invitata dal prof. T. Cariati, referente della commissione Cittadinanza dell’Istituto, a partecipare al concorso. L’invito si inseriva oltre che nell’ambito del progetto “Educare alla legalità e alla cittadinanza attiva”, anche nel percorso proposto dal gruppo SOS scuola. Dopo aver riflettuto, la classe ha aderito con entusiasmo. Qualche mese dopo abbiamo ricevuto la risposta di LIBERA, che proponeva di lavorare sulle parole PATTO e PERIFERIE. Accanto a queste parole la classe ha deciso di approfondire il significato della parola REALTÀ. Intanto, effettuata l’iscrizione, la notizia è stata pubblicata sul sito del gruppo SOS scuola, all’indirizzo http://digilander.libero.it/sosscuola; anche le tre parole, una volta scelte, sono state pubblicate, insieme al lemmario della Nuova cittadinanza attiva. Fatto ciò, abbiamo deciso di lavorare su una parola alla volta, nell’ordine in cui le abbiamo elencate sopra. Il lavoro è stato svolto come segue: fissata l’attenzione su una parola, gli studenti hanno effettuato ricerche in biblioteca, su Internet e parlandone con amici e parenti. Successivamente, disposti in cerchio, abbiamo fatto un brain storming in cui ognuno ha potuto proporre e condividere quanto trovato. In questa fase, guidata e stimolata dal professore, qualcuno ha provveduto ad annotare diligentemente quanto veniva detto. In seguito, un piccolo gruppo di ragazzi ha trascritto al computer gli appunti e li ha inviati via e-mail al prof. Cariati. Il professore, dopo aver proposto alcuni suggerimenti e modifiche, ha inviato il testo, di nuovo via e-mail, al gruppetto dei redattori, i quali lo hanno girato a tutti gli studenti. Concordata la versione definitiva, il testo è stato stampato e pubblicato sul sito del gruppo SOS scuola. Il cartellone è stato prodotto dai tre “artisti” della classe, che hanno ricevuto l’incarico di illustrare il percorso democratico e cooperativo seguito e la posizione espressa dagli studenti in termini di contenuti dei tre testi, alla fine apparsi a tutti evidentemente intrecciati. Gli studenti sono rimasti molto sod-

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disfatti del lavoro svolto e del metodo seguito, ma anche di ciò che hanno appreso; “comunque vada, è già un successo”, hanno detto. Da parte mia, sono grato a LIBERA per il progetto e mi rammarico che all’iniziativa abbia partecipato soltanto una delle nostre trentacinque classi. Andiamo avanti con coraggio. Tommaso Cariati

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Patto Accordo fra due o più soggetti, persone, enti, stati o potenze. Sono sinonimi alleanza, trattato, concordato, contratto, compromesso, accordo, convenzione. Nella vita quotidiana vi sono molti modi di dire in cui usiamo la parola “patto” o suoi sinonimi: patto nuziale; trattato o alleanza fra stati o potenze; contratto di locazione o di compravendita; atto notarile, per esempio, di costituzione di una società; patti interpersonali; stare ai patti; rompere il patto; alleanza tra Dio e Israele, nell’Antico Testamento; nuova alleanza, quella annunciata dall’evangelo di Gesù Cristo; trattato di non belligeranza; convenzione sui diritti umani; Alleanza Atlantica; Patto di Varsavia. Altri modi di dire nei quali ricorre la parola “patto”, con connotazione spiccatamente negativa, sono: patto di mafia, patto di sangue, patto col diavolo. Un patto in genere si conclude mediante un processo più o meno lungo e faticoso, nel quale si possono riconoscere diverse fasi che richiedono ciascuna un certo tempo, e viene formalizzato in un documento scritto. Il processo inizia con contatti informali che mirano a sondare il terreno per verificare se le parti hanno interesse a condurre una trattativa in vista di concludere un patto. Se sussistono le condizioni per portare avanti la trattativa il processo prosegue confrontando le diverse posizioni, le richieste e le aspettative delle parti, i vincoli e i veti, e si conclude in genere con un compromesso tra le diverse posizioni. I termini del compromesso, comunque, rispecchiano sia i rapporti di forza tra i partecipanti alla trattativa, sia quanto la conclusione del patto è vitale per ciascun contraente, sia, infine, l’abilità di ciascun negoziatore. Durante il processo di mediazione le parti, in genere, non assumono sempre un comportamento cooperativo, lineare, trasparente o, magari, ingenuo. Benché ciò dipenda dall’ambito del negoziato, nelle trattative di solito si gioca a “carte coperte” e i contraenti assumono un comportamento ora cooperativo, ora conflittuale; a volte sono gentili e condiscendenti, altre volte alzano la voce, aumentando la posta in gioco o minacciando di interrompere le trattative. A volte addirittura il comportamento dei contraenti può essere opportunistico, nel senso che promettono qualcosa che sanno già di non concedere al momento dell’attuazione del patto. In fase di attuazioni dei patti, cioè quando le parti dovranno regolare i propri comportamenti in base al patto sottoscritto, può accadere che i contraenti non rispettino quanto stabilito, sia programmaticamente e opportunistica61


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mente, sia perché, cambiate le condizioni, i termini del patto non rispecchiano più gli interessi e i rapporti di forza delle parti che hanno stipulato il patto. Perciò, in genere, il patto reca anche clausole relative ai casi di inadempienza di uno dei sottoscrittori del patto. Altre volte le clausole rimandano a codici e a norme cui fare riferimento nel caso una delle parti non rispetti il patto. Queste clausole possono essere espresse in termini di sanzioni che una parte neutra, come un tribunale o un ente super partes, può infliggere alla parte inadempiente. A volte, in fase di attuazione di un patto, nascono discordie, anche di interpretazione del patto, e può rendersi necessario una nuova trattativa che, se non si interrompe, conduce all’emendamento del patto o alla conclusione di un nuovo patto. Il patto si può rompere smettendo di rispettare gli impegni sottoscritti. In genere, però, prima di giungere alla rottura di un patto si litiga sul significato delle parole, sulla portata dei vincoli, sulle intenzioni reali che si avevano al momento della stipula del patto. I tribunali, i giudici, le leggi e gli avvocati esistono proprio perché spesso i patti non vengono rispettati. Per esempio, un divorzio è la rottura di un patto, che avviene dopo un lungo processo di deterioramento dei rapporti tra i coniugi, e determina la nascita di un nuovo patto, atto a regolare i rapporti tra le diverse persone della famiglia in cui si è verificato il divorzio. I contratti collettivi di lavoro sono veri e propri patti sociali ed essi possono essere stipulati tra il governo, le organizzazioni sindacali, cioè i rappresentanti dei lavoratori, e i rappresentanti degli imprenditori, come la Confindustria. Anche la Costituzione è un patto fra i cittadini, il patto fondamentale che reca i valori, i principi e le regole a cui ispirare la vita civile, sociale e politica del paese. Vi sono patti che oltre ai vantaggi per i contraenti possono comportare un danno a carico di terzi, magari ignari delle circostanze del patto. Senza patti non c’è vita sociale, specialmente nelle situazioni complesse o di crisi, non per nulla la parola reca una radice etimologica uguale a quella della parola pax, cioè pace.

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Periferie In un insieme di qualsiasi natura, la periferia è il sottoinsieme delle parti distanti in senso spaziale, o in termini di potere o di ruolo, rispetto ad una parte detta centro. La figura geometrica “cerchio” illustra bene il concetto; tra i punti del piano che formano il cerchio vi sono quelli della circonferenza, equidistanti dal centro, che formano la “periferia” del cerchio. Nei sistemi informativi si chiamano “periferiche” tutti quei dispositivi, come stampanti, scanner, terminali, che non partecipano direttamente all’elaborazione delle informazioni, effettuata dalla cosiddetta unità centrale. Qualcosa di simile troviamo nelle organizzazioni e nell’articolazione dei poteri istituzionali, spesso strutturati in base a un principio ordinatore di tipo gerarchico: in alto troviamo il potere centrale o la direzione generale, il centro, in basso, in rapporto di subordinazione, le unità operative o esecutive, prive quasi del tutto di capacità decisionale, cioè le periferie; in mezzo troviamo direzioni e quadri intermedi, dotati d’un grado di potere e di responsabilità variabile in funzione della distanza che li separa dal centro. In ambito geografico, fissando l’attenzione, ad esempio, su una città capoluogo, i paesi posti a una certa distanza da essa possono essere considerati periferia; ma anche nella stessa città, in genere, distinguiamo tra centro, formato dal nucleo storico o dai luoghi dove si trovano piazze e corsi principali, o dove sono ubicati la sede del governo, il tribunale, il catasto e altri servizi importanti, e periferie, cioè quartieri distanti dal centro, privi di servizi, polverosi, fatiscenti. Il caso della città è emblematico perché nel sentire comune le periferie sono in ogni senso subalterne al centro sia per mentalità e stile di vita, sia, soprattutto, in campo sociale, culturale e spirituale. In una provincia, la superiorità della città capoluogo in campo culturale è determinata dalla maggiore concentrazione di istituzioni culturali come scuole, università, accademie, teatri, sale cinematografiche, musei. La differenza si nota maggiormente tra i giovani, nei modi di vestire, di ragionare, di relazionarsi con gli altri: i ragazzi vengono educati a una mentalità più aperta perché, vivendo in uno spazio molto più grande, sono portati a fare esperienze diverse. Di contro, nei paesi si conduce una vita più umana, visto che mancano la frenesia, lo stress, l’inquinamento e il traffico, spesso congestionato, che troviamo invece nei grandi centri urbani, e considerato che, nei paesi, sono più saldi alcuni valori come la famiglia, la religione, l’amore e l’amicizia. 63


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Negli imperi del passato era evidente la differenza tra centro (Roma, Bisanzio, Vienna, Londra, Mosca) e periferie. Con la nascita degli stati nazionali i “centri” si sono moltiplicati, anche se, ad esempio, la Francia è profondamente diversa dall’Italia, dove, nonostante ci sia una città capitale, vi sono molti centri. Con la globalizzazione e la costituzione di entità sovranazionali, come la l’Unione europea e l’ONU, che comportano una parziale rinuncia da parte dei partecipanti alla sovranità nazionale, muta di nuovo la relazione tra centro e periferie. Il tradizionale rapporto centro-periferie oggi sembra essere messo in discussione, da una parte, dalla crisi del valore dell’autorità e della gerarchia, integrato o sostituito dai principi di organizzazione relazionale e reticolare, di devolution, di governance, dall’altra, dalla diffusione capillare e dall’integrazione, favorita dalla tecnologia informatica e da Internet, dei mezzi di comunicazione di massa. Infatti, grazie anche alla disponibilità di sistemi di comunicazione e informazione veloci, integrati e affidabili, e alla formazione continua e ormai capillare delle persone, oggi è possibile pensare ad articolazioni non rigidamente gerarchiche dei poteri, delle istituzioni, del territorio in cui i rapporti siano ispirati, anziché alla subordinazione, a principi di parità e di reciprocità, che permettano di promuovere e valorizzare il protagonismo e il senso di responsabilità dei singoli, persone, enti, regioni di un paese, paesi d’un’unione, come l’Unione europea. I cambiamenti potenziali in gioco sono enormi, tali da apparire veramente rivoluzionari e necessari per poter fronteggiare la complessità dei processi sociali, politici ed economici in atto nel mondo. Ma come tutte le rivoluzioni, anche questa presenta grandi rischi, che possono essere fronteggiati con successo soltanto se i processi di cambiamento verranno guidati e non saranno lasciati alla mercé degli interessi di parte dei poteri costituiti, sfrenatamente egoistici. Il mondo, per non andare incontro all’implosione, oggi ha bisogno di una classe dirigente illuminata, competente, responsabile, libera dalla cura del proprio interesse particolare, capace innanzitutto di investire sulle nuove generazioni, attraverso l’educazione e la formazione seria, continua, profonda, estesa. I giovani dovranno essere consapevoli dei grandissimi processi di cambiamento in atto. Tutti dovremo combattere il qualunquismo e promuovere la speranza, una speranza che tenga conto delle potenzialità ma anche dei limiti della realtà, e basata sul buon senso, affinché, ad esempio, i paesi in ritardo di sviluppo non siano l’eterna periferia di un centro costituito dal club delle nazioni più fortunate.

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Realtà La realtà è tutto ciò che esiste, a livello fisico, immateriale e astratto, psicologico e di coscienza, o metafisico. Espressioni in cui facciamo uso della parola realtà sono: affrontare la realtà, vivere la realtà, la durezza della realtà, essere fuori dalla realtà. Invece usualmente sogno, immaginazione, suggestione, illusione, finzione, simulazione sono parole che esprimono significati che si contrappongono a quello di “realtà”. Alcuni considerano “realtà” solo ciò che ha consistenza fisica e materiale o valore economico. Certamente una pietra è una pietra, un’auto è un’auto e i soldi sono i soldi: se una pietra ti cade sulla testa ti fa male, come ti fa male un’auto che ti piomba addosso a velocità significativa, come pure si diventa barboni se si sperpera il patrimonio. Ma la realtà va oltre la consistenza materiale: il vento fa parte della realtà non meno delle pietre e degli alberi: la Bora a Trieste e il Mistral a Marsiglia possono fare più male delle pietre. Così la realtà può avere natura materiale, come le pietre, o astratta, come il vento. Un computer, ad esempio, è costituito da una componente che ha consistenza materiale, l’hardware, che comprende le componenti meccaniche, l’involucro, i cavi, le schede, e una parte logico-astratta, il software, cioè i programmi. La rivoluzione informatica, la cui vera portata ancora non si è dispiegata del tutto, è stata possibile perché, per la prima volta nella storia delle invenzioni, la macchina computer, grazie alla parte astratta, al software, può essere impiegata in ogni ambito del lavoro e della vita. Così anche il software, che non si vede, e le onde elettromagnetiche, o i microrganismi, che non si vedono, ma possono essere rilevati grazie a speciali apparecchi come una radiolina, nel caso delle onde, o un microscopio, nel caso dei microrganismi, fanno parte della realtà. Perciò è reale non solo ciò che è percepibile dai sensi umani, ma tutto ciò che nella vita produce un effetto. Per esempio, il tempo esiste e fa parte della realtà, a prescindere dal fatto se esso sia lineare o circolare o a spirale, non solo perché con l’orologio possiamo misurarlo, ma perché, giorno dopo giorno, vediamo che, ad esempio, le piante crescono e le persone invecchiano. Nella realtà c’è però molto di più. I fisici, ad esempio, nel corso del Ventesimo secolo, hanno dovuto estendere le loro teorie per poter includere nella realtà anche enti e fenomeni che si presentano con natura ambigua, sfuggente o ambivalente; nei loro paradigmi hanno fatto posto anche all’osservatore, proprio come fanno antropologi, sociologi e romanzieri. Inoltre, mentre un tempo gli studiosi si sono limitati a indagare la natura della realtà, conside65


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randola come data, oggi hanno la possibilità di costruirla a loro piacimento, manipolando quella data. Con la chimica, l’informatica, la genetica, oggi l’uomo, in un certo senso, “collabora all’opera creatrice di Dio” perché egli può produrre trasformazioni vaste e profonde, mai conosciute prima, tali da dare l’impressione di poter creare un mondo parallelo, o un’integrazione del creato. Ma la creatività costruttiva dell’uomo non si esercita soltanto in quell’ambito che un tempo veniva detto tecnico-scientifico; oggi sembra che non vi siano limiti all’artificiale: nella genetica e nell’informatica come nell’economia, nella politica, nel diritto, nella linguistica, nella letteratura, nella teologia si possono proporre costruzioni inusitate. Allora, a ben vedere, anche il sogno partecipa della realtà, poiché niente può essere realizzato se prima non viene sognato, immaginato, prefigurato e progettato. Per esempio, nei processi penali si parte dalla formulazione di un’ipotesi di accusa verso un determinato soggetto, si indaga attraverso testimonianze e prove recuperate sulla scena del crimine, si sviluppano diverse possibili realtà e si conclude con la condanna o l’assoluzione del soggetto accusato, a prescindere, a volte, dalla “reale” colpevolezza o innocenza. A livello sociale, quando le persone entrano in relazione fra loro nasce una nuova realtà, che non esiste a livello dei singoli, ma che porta l’impronta della creatività dei partecipanti. Certo, gli ostacoli che nella vita si incontrano, specialmente in quella dei giovani, possono rendere alcuni dati della realtà troppo duri e spingere qualcuno a crearsi una realtà alternativa, prodotta grazie al sogno, alle droghe, alla libertà mal compresa, che può condurre alla schiavitù dell’illusione e alla morte: volendo uscire dagli schemi, si realizza una fuga da se stessi fino a perdersi nel nulla. Anche la fuga nella realtà virtuale, offerta dalle tecnologie informatiche, presenta, accanto a grandi potenzialità, per esempio nell’ambito educativo e formativo, il rischio di far perdere il contatto con la terra e le persone. L’adulto, come guida, spesso non comprende la realtà del giovane, perché, appartenendo a una generazione diversa, ha vissuto esperienze che non rispecchiano la nuova realtà. L’opera educativa degli adulti però è insostituibile perché senza un termine di paragone, senza una misura, per quanto discutibile, si deraglia facilmente. D’altra parte, è attraverso il sogno e l’immaginazione creativa che l’uomo ha potuto superare mondi angusti e giungere alla realtà di oggi. Fattori di accelerazione nella costruzione della realtà, non solo a livello personale, ma anche sul piano storico-sociale, civile ed economico di una comunità, sono alcuni valori come l’amore, la speranza, la fede, i quali, quando sono autentici, accanto all’impegno e allo spirito di iniziativa, fanno esercitare il senso di responsabilità verso gli altri. 66


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Una gita stupenda (di Paola Troiano) Alle 16 del 24 aprile, io, mia madre e un gruppo di amici, ci siamo recati all’ingresso dell’autostrada a Cosenza nord per una gita alle chiese rupestri della Puglia e della Basilicata. Aspettavamo con impazienza il pullman partito da Reggio Calabria che doveva portarci a intraprendere questo meraviglioso viaggio. Finalmente arriva e, con un po’ di fatica, carichiamo le valigie e saliamo. Purtroppo è quasi pieno e perciò ci tocca sistemarci agli ultimi posti. Il capogruppo Paolo Virdia ci fa vedere un filmato alla TV sulle nuove esperienze degli eremiti nella Locride e in provincia di Firenze. Arriviamo a Ostuni e ci fermiamo al Centro di spiritualità “Madonna della Nova” dove pernotteremo per due giorni. Appena scesi dal pullman, siamo entrati, abbiamo preso le chiavi delle nostre stanze, abbiamo sistemato le valigie e ci siamo riposati un po’; alle 21,30 abbiamo consumato la cena. Il cibo è stato molto buono e dopo cena ci siamo ritirati a dormire quasi subito, in quanto l’indomani ci saremmo dovuti svegliare presto. La mattina dopo, alzandoci con un po’ di fatica, alle 7,00 abbiamo prima partecipato alla S. Messa e dopo abbiamo fatto una ricca colazione, quindi siamo partiti in autobus per la prima giornata di visite. Siamo arrivati a San Vito dei Normanni a vedere una chiesa rupestre con le pareti affrescate, ma molto rovinate perché nel tempo è stata usata anche come stalla. C’erano molte rappresentazioni della vita di Gesù e dei Santi. A fianco a questa c’era la grotta usata dalla comunità dei monaci “basiliani” come refettorio, dormitorio e laboratorio. Questi monaci erano guidati da un abate che

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dormiva in una piccola grotta a parte. Ogni volta che l’abate cambiava, nella grotta dormitorio si incideva una croce sulla parete.

Poi siamo partiti per Fasano per vedere la città rupestre della Lama d’Antico che ospitava perfino circa 600 abitanti. Questa città è costruita in una “lama”, vallata scavata da un fiume che si riempie solo quando piove. La prima grotta che abbiamo visto è stata la “grotta laboratorio” dove avveniva la conciatura delle pelli in fosse scavate nel pavimento che servivano anche a raccogliere l’acqua. Le persone che vivevano in questa grotta convivevano con gli animali.

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Poi abbiamo visto la casa grotta un po’ più evoluta della precedente, perché l’uomo non conviveva più con l’animale. In altre grotte c’erano delle fosse profonde dove si pensa che per un periodo ci si metteva il grano e in seguito furono adibite a sepolcri. Successivamente abbiamo visitato la chiesa rupestre di S. Giovanni con, purtroppo, pochi affreschi. L’ultima chiesa della giornata è stata quella che aveva affreschi più visibili nella parte più interna. Finalmente ci incamminiamo verso la Casa d’Accoglienza per pranzare e dopo aver finito ci siamo riposati un po’. Poi siamo andati ad un incontro con la Comunità di Bose, nei pressi di Ostuni, dove un monaco ci ha parlato della vita di questa comunità e dell’importanza del monachesimo. Subito dopo abbiamo recitato i vespri con loro nella piccola e accogliente cappella. Dopo aver acquistato alcuni prodotti realizzati dalla comunità (marmellate, miele, bustine di tè) siamo ritornati a cenare; infine abbiamo fatto una passeggiata notturna per il centro storico di Ostuni. Il giorno dopo siamo partiti per Massafra e abbiamo incontrato il prof. mons. Fonseca in una stupenda chiesa.

Dopo l’incontro abbiamo continuato verso Matera, ci siamo sistemati presso la Casa Sant’Anna e abbiamo consumato un pranzo delizioso. Nel pomerig69


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gio abbiamo visitato le chiese di S. Nicola dei Greci e della Madonna delle Virtù e, infine, il Musma, un museo di arte contemporanea. Dopo cena siamo usciti a visitare il centro storico di Matera e ci siamo presi anche un bel gelato. La mattina dopo abbiamo assistito alla Messa celebrata dai due sacerdoti che ci hanno accompagnato per tutto il viaggio. L’ultima chiesa rupestre visitata è stata la cripta del Peccato Originale o dei Cento Santi con affreschi stupendi che ci hanno proprio “illuminato gli occhi”. Purtroppo siamo dovuti ritornare alla Casa per preparare le valigie. Finalmente si tornava a casa.

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’U calavrisu vo pparratu (il calabrese ‘vuole essere parlato’) (Relazione di Tommaso Cariati su C. Alvaro, letta con Chiara Marra il 10 maggio 2008, alla “Libreria Alvaro” di Mirto) Il libro “La Calabria” La Calabria è un libro speciale. Si tratta di un libro di testo per la scuola. Infatti il sottotitolo recita “Libro sussidiario di cultura regionale”, cioè un sussidiario come quelli che abbiamo usato noi alle elementari. Il libro, in questa veste, è stato edito in forma anastatica nel 2003 da Iiriti, una piccola casa editrice di Reggio Calabria. Per l’occasione, accanto al Sussidiario, in fondo al volume è stato pubblicato, pure in forma anastatica, il testo di una conferenza intitolato Calabria. L’opera, nell’edizione di Iiriti, reca una premessa di Aldo Maria Morace, studioso di letteratura e presidente della Fondazione Corrado Alvaro, e un’introduzione di Antonio Delfino, anch’egli studioso di letteratura. Leggiamo nella premessa: «Stupisce la cura artigianale con cui Alvaro ha confezionato questo sussidiario, che porta inconfondibilmente impressa la caratura della sua cifra espressiva e che pure è colmo di dati informativi e statistici, frutto di una documentazione accurata e puntuale». Ancora: «Traluce, dal libro, una tensione interna che va al di là del mero intento compilativo da pot boiler, per divenire ritrovamento delle radici, riconquista di un’identità minacciata dal male epocale della storia […]. In dialettica trepida con un paesaggio corroso e scarnito, infido e stregato, Alvaro ritrovava il senso rassicurante della tradizione, degli usi e dei costumi che si tramandavano da secoli, quasi ad esorcizzare in sé il malessere della civiltà contemporanea». In questo libro, Alvaro adotta uno stile consono allo scopo che si è prefisso, cioè comunicare concetti di storia e geografia della sua terra in modo piano e accessibile ai bambini; perciò il periodare è semplice e la sua vena lirica risulta depotenziata. Tuttavia, come notato da Morace, si sente che ci troviamo di fronte a un libro uscito dalla fucina di uno scrittore di levatura europea. Leggiamo nell’introduzione: «Nel sussidiario esistono argomenti, concetti, temi, che saranno, poi, sviluppati, congegnati, disposti ed ordinati nei romanzi, nei saggi, nelle poesie, nelle opere teatrali, nei commenti, nelle lettere». 71


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Delfino, sempre nell’introduzione, offre degli esempi di testi tratti dal sussidiario che si ritrovano identici o lievemente modificati in altri lavori di Alvaro, per esempio in Gente in Aspromonte. Leggiamo nel sussidiario: «I pastori sono raccolti attorno alla caldaia piena di latte. I blocchi di ricotta galleggiano sul siero verde che emana un odore dolce e puro». E anche: «La terra calabrese, sotto la forza dell’inverno, sembra dover essere trascinata via dalla furia dei torrenti che passano minacciosi sotto i paesi e presso gli orti. Le montagne sembrano navigare sull’abisso». Abbiamo detto che il libro presenta al pubblico due testi scritti da Alvaro in momenti e per scopi diversi. Il sussidiario vide la luce nel 1926 e fu edito da Carabba, ma fu scritto da Alvaro nel 1925. In quell’anno, per alleviare le conseguenze della crisi economica che lo ha colpito, anche a causa delle sue prese di posizione contro il Fascismo, egli accetta di curare una collana di sussidiari e antologie per la scuola (ma era disposto anche ad andare all’estero e cambiare mestiere, come risulta da una lettera inviata all’amico Nino Frank). Il sussidiario, come si legge nel frontespizio, era un libro di testo ideato in conformità ai programmi dell’11 novembre 1923 e approvato dal Ministero della Pubblica Istruzione, con tanto di riferimento al dispositivo pubblicato nel bollettino ufficiale. Esso si presenta con una struttura per stagioni e per mesi, da ottobre a settembre, secondo il calendario scolastico. Ogni parte-mese reca diverse sezioni. Per esempio, il mese di ottobre offre: il “Calendario storico nazionale”, una specie di filastrocca in dialetto in cui il mese parla in prima persona, le “Opere del mese”, il “Paesaggio del mese”, alcuni “Proverbi”, l’“Aspetto della Calabria”, frammenti di leggi di Zaleuco di Locri, due brani di “Canti calabresi”, “La Calabria vista dagli stranieri”, la “Superficie della Calabria”, alcuni “Precetti per i bambini” sulla cura della salute, alcuni “Indovinelli”, i “Mercati periodici”, le “Fiere in ottobre”, alcune immagini, ad esempio, di paesaggi calabresi, per lo più tratte dalle illustrazioni del viaggiatore Edward Lear. A novembre troviamo, tra l’altro, “Le porte d’Italia”, “La vittoria” sul 4 novembre, “Alcune medaglie d’oro calabresi”, “I briganti”, “L’Aspromonte”, “Le tre provincie”. Nell’edizione di Iiriti, la seconda parte del libro presenta il testo della conferenza dal titolo Calabria che Corrado Alvaro tenne al Lyceum di Firenze nel 1931, pubblicato subito dopo per i tipi di Nemi nella collana “Visioni spirituali d’Italia”, in un centinaio di copie numerate. Alvaro in questo testo esprime il suo pensiero maturo sulla Calabria e sui calabresi, pensiero che non verrà in seguito modificato in modo significativo dall’autore. In esso tro72


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viamo tutta l’eccezionale capacità di ascolto, di osservazione, di analisi, di empatia, di pietà, di introspezione, di memoria e di sintesi dello scrittore di San Luca, che caratterizzano, come cifra distintiva, tutti i suoi elzeviri riguardanti i luoghi e i popoli che egli ha visitato, che è poi la sua sapienza. Pietro Pancrazi, un critico che fino a quel punto era stato severo con il nostro autore, avendo assistito alla conferenza del Lyceum, scrisse un ritratto di Alvaro rimasto memorabile: «Qualche settimana fa ho inteso Corrado Alvaro parlare in pubblico in una illustre sala fiorentina, che è sempre per uno scrittore non toscano una bella prova… Parlava della Calabria, e calabrese restò. Con quella sua faccia che sembra un pugno chiuso visto di profilo, si pose di fronte alla sala e per un’ora disse il fatto suo… cosa su cosa e quasi con un senso di necessità. Ci aveva messo le mani dentro e sembrava intridere una farinata, impastare un pane. Sparpagliava lontano le sue impressioni, i ricordi, i proverbi, le figure della sua terra, li lasciava andare; e poi a un tratto, con un accenno… della mano tozza li raccoglieva, li ribadiva a sé. Riapriva, poi, la mano di taglio, a mezz’aria, e gli ridava la via… Diceva e tornava a dire… Il pubblico intese. Nell’oratore che voleva ma non riusciva a staccarsi dal tema, avvertì qualcosa di insolito, una verità, una poesia… Scoppiarono, alla fine, a due tre riprese, quegli applausi fitti, secchi, che si fanno a gola stretta. L’oratore in piedi si illuminò un momento appena, e quasi di stupore; poi si richiuse, e venne via con le braccia lente e il passo lungo del calabrese che ha ancora molto da camminare». Corrado Alvaro, l’uomo e l’opera Nasce il 15 aprile 1895 a San Luca, piccolo paese sul versante ionico ai piedi dell’Aspromonte in provincia di Reggio Calabria, primogenito di sei figli. Il padre Antonio è maestro elementare e la madre, figlia del segretario comunale, proviene da una famiglia della media borghesia. A San Luca trascorre i primi dieci anni della sua vita e riceve l’istruzione elementare dal padre e da un vecchio maestro del paese. Nel 1906 viene mandato a Frascati a studiare in un prestigioso collegio retto dai gesuiti e frequentato dai ricchi e dalla borghesia. Nel 1907 altri due fratelli lo raggiungono. Egli studia e comincia a comporre poesie e racconti, ma dopo i primi anni di ginnasio viene espulso per essere stato sorpreso a leggere testi non autorizzati. Nel 1910 viene mandato in un collegio in provincia di Perugia, dove termina il ginnasio. Approda poi al liceo “Galluppi” di Catanzaro. Sono gli anni di intenso studio alla biblioteca comunale e delle prime uscite pubbliche. Nel 1912, a soli diciassette anni, pubblica l’opuscolo dedicato al santuario di Polsi; il saggio porta in calce la firma “Corrado Alva73


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ro. Studente liceale”. Nel 1914 tiene a Catanzaro una conferenza su La Pisanella di Gabriele D’Annunzio, pubblica alcune poesie e traduzioni da Tagore e partecipa a manifestazioni interventiste. Nel gennaio del 1915 Corrado Alvaro parte militare per combattere nella Prima guerra mondiale; viene assegnato ad un reggimento di fanteria a Firenze e frequenta il corso allievi ufficiali dell’Accademia militare di Modena. All’inizio di settembre si trova in zona di guerra. Ferito nei pressi di San Michele del Carso, passa una lunga degenza a Ferrara e a Firenze. Nel settembre del 1916 è a Roma dove comincia a collaborare al «Resto del Carlino» e, quando ne diventa redattore, si trasferisce a Bologna. Nel 1917 escono le Poesie grigioverdi sull’esperienza della guerra. L’8 aprile del 1918 sposa la bolognese Laura Babini. Nel 1919 si trasferisce a Milano come collaboratore del «Corriere della Sera». Sempre nel 1919 consegue la laurea in Lettere all’Università di Milano. Nel 1921 diventa corrispondente da Parigi de «Il Mondo» di Giovanni Amendola. Nel 1922 pubblica alcune puntate di quello che sarà il romanzo L’uomo nel labirinto, dato alle stampe in volume nel ’26. Nel 1925 è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Nello stesso anno inizia la collaborazione editoriale con l’editore Carabba di Chieti e compone il Sussidiario, che vedrà la luce l’anno seguente. Nel 1927 pubblica come elzeviro la prima pagina di Gente in Aspromonte. Si reca nel 1928 a Berlino, dove continua la sua attività di giornalista. Nel 1929 esce la raccolta di racconti L’amata alla finestra ed è anticipato su «Pegaso» il racconto lungo Gente in Aspromonte, che in volume vedrà la luce nel 1930. Nel ’31 tiene la conferenza sulla Calabria al Lyceum di Firenze, ma lo troviamo anche in Turchia. Nel 1933 pubblica Itinerario italiano, e nel 1935 è in Russia. Quindi, nello stesso anno scrive, sulla rivista «Omnibus» di Longanesi, diversi articoli sulla rivoluzione d’ottobre del 1917. Collabora, pur non essendosi mai iscritto al Partito Nazionale Fascista, al «Popolo di Roma». Nel 1938 pubblica L’uomo è forte per il quale riceve il Premio dell’Accademia d’Italia della letteratura nel 1940. Nel gennaio del 1941 torna per l’ultima volta a San Luca per i funerali del padre. Tornerà invece più volte a Caraffa del Bianco a far visita alla madre e al fratello don Massimo, parroco del paese. Dal 25 luglio all’8 settembre del 1943 assume la direzione del «Popolo di Roma». Con l’occupazione tedesca della città, si rifugia a Chieti, sotto il falso nome di Guido Giorgi. Nel 1945 fonda, insieme a Libero Bigiaretti e Francesco Jovine, il Sindacato Nazionale Scrittori, per il quale ricopre la carica di segretario fino alla morte, e la Cassa Nazionale Scrittori. Nel 1946 pubblica L’età breve, primo romanzo del ciclo “Memorie del mondo sommerso”. 74


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Nel 1947 assume la direzione del «Risorgimento» di Napoli ma si dimette subito dopo per divergenze politiche; dichiarandosi politicamente schierato a sinistra non riteneva di poter dirigere un giornale liberale. Nel 1949 esce la Lunga notte di Medea. Nel 1951 vinse il premio Strega con Quasi una vita. Da sottolineare che il 1951 fu l’anno della cosiddetta “grande cinquina” nella quale figuravano oltre a Quasi una vita di Alvaro, L’orologio di Carlo Levi, Il conformista di Alberto Moravia, A cena col commendatore di Mario Soldati e Gesù, fate luce di Domenico Rea. Nel 1954, colpito da un tumore addominale, si sottopone ad un delicato intervento chirurgico. La malattia colpisce anche i polmoni e muore nella sua casa di Roma l’11 giugno del 1956, lasciando incompiuti alcuni romanzi. Corrado Alvaro è sepolto nel piccolo cimitero di Vallerano (Viterbo) dove aveva acquistato nel 1939 una casa in mezzo alla campagna. Presso la Biblioteca Pietro De Nava di Reggio Calabria, è stata istituita in sua memoria la Sala Corrado Alvaro, che contiene gli arredi, i tappeti, i quadri e i libri dello studio dello scrittore, donati, dalla moglie Laura e dal figlio Massimo, alla Biblioteca. A San Luca, invece, nella casa natale dello scrittore, dal 1997, ha sede la “Fondazione Corrado Alvaro”, presieduta da Aldo Maria Morace. Corrado Alvaro e la critica Corrado Alvaro ha trovato subito buona accoglienza presso la critica. Le sue Poesie grigioverdi vennero recensite ancora non raccolte in volume nel 1915 su «Il Resto del Carlino» da Aldo Valori, quando l’autore aveva solo venti anni. Il recensore ci ritrova il motivo della guerra come proseguimento della vita che si svolge sui monti e all’aria aperta, come quella dei pastori, in lotta con gli elementi e gli animali; il sapore “meridionale” delle sue espressioni: “carne di madri”, “carni cristiane”; e considera la “feconda oscurità” del giovane autore “uno dei sintomi oscuri della germinazione di un mondo nuovo nel grembo del popolo”: niente male come inizio. Geno Pampaloni, che di Alvaro fu anche allievo, ci ha parlato del maestro come del “poeta dei segreti”. «Alvaro narratore – egli scrive – nasce come poeta del segreto, e tale rimarrà nella parte più autentica e duratura della sua opera. Che cos’è “segreto”? È mistero della natura delle cose, degli altri, di se stessi; libertà gelosa, memoria occulta e profonda, permanenza dell’infanzia perennemente insidiata dalla vita adulta che rivela e corrompe. Il libro ove meglio si può cogliere la poesia del segreto – prosegue Pampaloni – è la raccolta di racconti L’amata alla finestra, che non è azzardato porre ai 75


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vertici della sua arte. Ma il motivo, o tema, corre di libro in libro, da Gente in Aspromonte a L’uomo è forte, […] alla trilogia intitolata significativamente “Memorie del mondo sommerso” (non “scomparso”, si badi; […] “sommerso” rinvia a una durata infinita). Ad esso si riannoda tutto; anche il meridionalismo, seppure il meridione ne è radice e sostanza; e anche lo scrittore europeo, in quanto nelle metropoli, nei costumi e nelle civiltà così remote dalla sua Calabria, non ha fatto che mettere spasmodicamente a confronto quei segreti sfuggenti con quelli che egli portava con sé». Nel lessico di Alvaro ricorrono spesso anche le parole “mistero” e “stupore” che sono apparentate con la parola “segreto”. Pampaloni al fine di evidenziare la “poetica del segreto” rimanda emblematicamente al racconto “Ritratto di Melusina” che apre la raccolta L’amata alla finestra. Ma poi riporta una lunga lista di brani del nostro autore nei quali il tema del “segreto” è presente. Ma ecco che cosa ci dice Pampaloni dell’uomo Alvaro. «L’uomo era identico allo scrittore: mai oracolare, o troppo sicuro di sé; nelle sue parole incalzavano le immagini, calamitate da un’idea a raggiungere la fantasia. Alvaro era uno di quegli uomini dei quali tutto, anche il silenzio, trasmette il senso di una passione. […] La sua vera passione civile era l’arte, ma pensava che senza una nuova società non sarebbe nata un’arte grande, neppure alla sua scrivania». Walter Pedullà che, tra le altre cose, è calabrese, in un’intervista riprende il tema del “segreto” di Pampaloni. «C’è una frase bellissima di Pizzuto – dichiara Pedullà – che dice: ‘Cosa nascondi, pensiero?’ Quindi oltre alla razionalità c’è anche un’altra cosa. Questa del segreto è sicuramente una spinta forte nelle sue opere, una cosa vera che è ricorrente. Alvaro ha sempre sollecitato la rivelazione di qualcosa. Nel caso di Alvaro, poi, il segreto crea tensione. Ora, il mistero è ovunque, però bisogna andare a vedere se questo segreto tira il racconto da sotto, che è quello che fa Alvaro, che è sicuramente uno scrittore attuale. Alvaro è uno scrittore che nomina e suggerisce – l’effetto di suggerimento è molto forte. Come scrittore si vede che ha lavorato a tessere storie complesse, ambigue, inconsce». Pasquino Crupi riconosce che «Corrado Alvaro è scrittore grande, senza confini nella provincia, indubbiamente europeo», ma poi afferma che «non è un narratore». «Il suo mondo è la memoria – scrive Crupi –, la sua misura è il racconto. […] Nessuno ha saputo scrivere pagine insuperabili come le prime cento pagine di L’età breve – aggiunge Crupi –, che sono da mettere in cima a quasi tutta la letteratura europea del Novecento. […] E tra le sue pagine alte [ci sono] quelle di Quasi una vita e Ultimo diario nelle quali, tra l’altro, ci ha parlato della sua non tranquilla giornata terrena con una profondità e un lirismo, che non invidia neppure l’André Gide diarista». 76


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Quanto alla definizione che vuole Alvaro “scrittore europeo”, Pedullà afferma: «Corrado Alvaro è stato un viaggiatore, è andato a prendere le risposte in Europa e nel mondo. Per esempio Alvaro, che era calabrese, ha detto cose fondamentali sulla Germania. Dei tedeschi disse, prima che entrassero in guerra, che camminavano per strada come facessero la marcia. Oppure capì immediatamente il terrore in Russia, la paura. Quello che però è interessante è che Alvaro riesce a usare la letteratura europea maggiore di quel periodo. Alvaro ha un quoziente di saggezza che lo porta ad essere non solo un uomo con idee moderne, ma anche uno che sa utilizzare i linguaggi più avanzati (espressionismo, realismo magico) del suo tempo. Se Joyce parla di Dublino nessuno dice che Joyce è dublinese. Alvaro ha raccontato la contemporaneità. Sicuramente non era uno scrittore provinciale, né ha raccontato con i linguaggi egemoni. I suoi amici erano Pirandello e Bontempelli, che sono gli scrittori più europei che l’Italia avesse in quel periodo. Non è che di Bontempelli si sottolinea il fatto di essere di Como». Nino Borsellino, un giovane critico siciliano, a proposito di Alvaro viaggiatore scrive: «Non si divertiva, però, Alvaro viaggiando e scrivendo. Ovvero, il suo divertimento si concentrava nell’osservazione, spesso attratta da dettagli di una parola o di un gesto rivelatori di una condizione più che individuale politica e sociale. L’uomo è forte è la sua opera più cupa, ed è ovvio. Traduce in narrazione romanzesca i dati che aveva colto nel suo viaggio nella Russia sovietica e raccolto in I maestri del diluvio, la Russia dei processi staliniani che diventa nel romanzo un paese senza nome. Ma l’identificazione è ovvia, anche se la si è voluta cancellare spacciandola per allegoria di un paese immaginario. Era stato il primo a rappresentare la tetraggine di quella società del sospetto e della paura, eppure preferì non vantarsene». Aldo Maria Morace, nella premessa al libro che stiamo presentando, da parte sua scrive: «Corrado Alvaro è l’unico degli scrittori calabresi del Ventesimo secolo ad essere entrato nella dimensione della classicità. Grande elzevirista, ha disseminato i suoi articoli nelle terze pagine dei maggiori quotidiani italiani; è stato poeta innovativo; romanziere di respiro europeo; diarista: Quasi una vita è tra i più bei “giornali di bordo” che uno scrittore abbia vergato; autore e critico di teatro; memorialista del mondo sommerso; e, inoltre, finissimo traduttore; ma anche intellettuale e saggista di rilevanza assoluta». Concludiamo questa rassegna critica con Pedullà. Egli dice: «Il frammento che Alvaro usa in Quasi una vita ha una capacità straordinaria di portare fatti. Ci sono all’interno di questo libro tracce di racconti folgoranti. È un tipo di scrittura che potremmo definire narrativa sintetica. È un libro che indica le qualità e i vizi della scrittura di Alvaro. Il vizio peggiore è quello di farla troppo lunga, perché Alvaro è uno di quegli scrittori a cui farebbe bene essere 77


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magri. I suoi racconti sono indubbiamente più belli quando suggeriscono, invece spesso vi appare l’illuminista che dice: ‘ora vi spiego io cosa succede’». La Calabria di Alvaro Corrado Alvaro è ritornato spesso esplicitamente nei suoi scritti sui temi della Calabria. Nel 1912 pubblica il saggio giovanile su Polsi. Nel 1926 esce il Sussidiario. Nel 1930 esce Gente in Aspromonte. Nel 1931 tiene la conferenza sulla Calabria a Firenze. Nel 1933 esce Itinerario italiano, la prima raccolta di racconti dei viaggi fatti nelle diverse regioni italiane, in cui compare un testo sulla Calabria. Nel 1958 esce Un treno nel sud, detto anche Itinerario italiano III, che contiene diversi testi brevi su città e altre realtà della Calabria, tra cui quello dal quale abbiamo tratto il titolo di questo nostro scritto: «Il calabrese ‘vuole essere parlato’». Ma quale visione ha Alvaro della Calabria e dei calabresi? Proprio all’inizio del Sussidiario leggiamo: «Per molti secoli i calabresi vissero in lotta con gli elementi, senza abbandonare la terra dei padri, resistendo al crollo delle montagne e alla furia dei torrenti. Di quando in quando, fra tanta disperata lotta e rovina, si levava la voce di un grande calabrese che annunziava al mondo verità nuove, o tentava di leggere nel destino di tutta l’umanità. Di tutta la gloria passata erano sparite quasi tutte le traccie, ma la terra stessa acquistava un aspetto di grandiosa rovina, di bellezza amara e solenne». In “Aspetto della Calabria” Alvaro scrive: «Nell’armonia di tutte le regioni d’Italia, la Calabria porta il suo carattere e il suo aspetto ben distinto. Chi vi giunge dalla felice terra napoletana o dalla prosperosa Sicilia, e traversa in treno la nostra regione, è colpito dall’aspetto solenne dei luoghi. Anticamente la Calabria doveva apparire lieta e di facile approdo. Oggi, dopo che da secoli la storia del mondo non passa attraverso le sue vie, dopo assalti di nemici, passaggi di eserciti, lotte e flagelli, la nostra terra ha acquistato un aspetto di solitudine solenne e di oblìo. […] Qua e là, tra monte e monte, irrompono torrenti rovinosi che sono nell’inverno una barriera che divide i paesi dalle strade del mondo, e nella buona stagione formano l’unica via d’accesso per i paesi. Sono torrenti immensi che tutti gli anni portano la rovina nei campi e logorano lentamente la terra. […]

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Un viaggio intorno alla Calabria, con la sola ferrovia di cui disponiamo, è tuttavia indimenticabile. Qua montagne di aspetto alpino, composte di massi immensi, alternate di boschi folti e selvaggi. Più oltre i grandi letti dei torrenti nei quali tutta una umanità si affanna a raggiungere le case dei paesi lontani. […] E su tutto questo la figura del pastore e del contadino calabrese che appare un elemento della sua terra, solenne e taciturno come la terra stessa, prodotto d’una antica civiltà e di una nuova lotta con gli elementi». La nostra regione è una terra in cui, come leggiamo in Itinerario italiano: «[…] la stessa natura prende atteggiamenti d’architettura». In Calabria burroni, balze, dirupi, monti, serre, gole, fiumare disegnano un paesaggio naturale, poco manipolabile da parte dell’uomo, in cui a parlare per primi sono i dati orografici e geologici. E occorre saperli cogliere, decifrare e amare come fa Alvaro se non vogliamo rimanere disorientati e minacciati da una natura che può apparire ancora oggi, per molti aspetti, inospitale. Ma in Itinerario italiano, Corrado Alvaro ha scritto pure: «L’aria è un profumo fluido che si respira come un’atmosfera sensibile. Per questi due mesi l’anno [la primavera, ndr], la terra più severa e più scabra che sia in Italia sorride. È il tempo che bisogna visitarla, varia, orientale e boreale, mediterranea e interna». In “Paesaggio di novembre” leggiamo: «Le montagne, i campi, i piani sembrano lontani e velati. Solo i torrenti si riempiono di suoni e il loro grido giunge alle case del paese. Il sole ha uno splendore freddo e il cielo sembra allontanarsi e diventare altissimo. Tutte le mattine la terra si desta come da un sonno faticoso. I movimenti degli uomini sembrano incerti, come quelli di chi pensa al suo avvenire. Da questo mese comincia il lavoro per il futuro pane. C’è nell’aria una speranza solenne». Si avvertono in queste righe la straordinaria capacità empatica di cui Alvaro è dotato e lo stile che lo accompagnerà tutta la vita. Alvaro diciassettenne, a proposito di Polsi, scriveva: «Dai versanti di oriente, di mezzogiorno e di settentrione, vanno i fedeli in lunga teoria, uno dietro all’altro, affratellati tutti dallo stesso pensiero. Sembrano carovane di genti che abbandonino il loro paese e si trasportino tutto, le loro tradizioni e le cose più care. […] Il suono delle zampogne inebria anche il pastore: bisogna osservarlo. Egli è vestito di orbace coi calzoni corti fino al ginocchio; prende l’otre floscia che ha quasi sulla sua spalla una pesantezza di abbandono, e giocando colle dita su per i buchi delle fistule segue il ritmo cadenzato del suono dondolando la testa bruna, piegando il capo in avanti come per seguire l’armonia nelle più profonde vibrazioni».

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In “Paesaggio di dicembre” Alvaro scrive qualcosa che poi ritroviamo in Gente in Aspromonte: «La terra calabrese sotto la forza dell’inverno sembra dover essere trascinata via dalla furia dei torrenti che passano minacciosi sotto i paesi e presso gli orti. Le montagne sembrano navigare sull’abisso. Domani, al primo sole, si guarderà dall’alto dei paesi la rovina dell’inverno e i massi trascinati al piano dalla furia delle acque». A proposito di Campanella, sempre nel Sussidiario, leggiamo: «Campanella fu perseguitato, processato e imprigionato, martire del suo generoso ideale. La sua Calabria era oppressa, dissanguata e angariata degli Spagnuoli. […] Parteciparono alla congiura per la libertà nobili e banditi, pensatori e guerrieri. Ma la congiura fu scoperta, i suoi compagni impiccati, Campanella chiuso in una prigione e qui fu martirizzato per ventinove anni. […] Egli è un esempio delle sofferenze dei grandi intelletti mandati a illuminare il mondo». Alla conferenza di Firenze del ’31 di Campanella dice: «Cercando nella vita imbrogliata di Campanella, mi colpì, dei suoi rapporti con Galileo, come Galileo gli desse tanto poco ascolto; credo che quest’uomo nostro, il quale pur perseguitato gli offriva la sua difesa, doveva apparire a Galileo farraginoso, impregnato di pregiudizii, di rozzezze, che erano il fumo del suo gran fuoco. Ma pure Campanella rappresenta il Calabrese più italiano, uno degli Italiani più vivi, quello che si accostava alla vita e alla civiltà e all’avvenire partendo dal popolo, dal senso religioso della Calabria monastica, da quell’accento e disposizione d’animo primitiva in cui tutti i popoli [si] somigliano come [si] somigliano gl’infanti. Che strano linguaggio dovette apparire a Galileo quello del frate calabrese! Gli fu avaro di risposte, dall’alto della sua immobile certezza, eppure non so quanti abbiano detto a lui vivo quella parola che Campanella gli disse: Vidisti, hai veduto». Da queste pagine emerge un Alvaro profondamente innamorato della sua terra e della sua gente. In un punto del sussidiario dice proprio «io voglio bene ai nostri pastori». Ma si sente che vuole bene a tutti gli uomini, dai più umili ai grandi spiriti. Nel testo della conferenza di Firenze leggiamo: «Fu una delle prime preoccupazioni della mia vita di scrittore ricercare i Calabresi che ebbero diritto di cittadinanza nella civiltà centro italiana che fu in definitiva la civiltà nazionale, e di rendermi conto dell’influenza che detta civiltà ebbe nella nostra regione calabrese; un Telesio, un Campanella, un Mattia Preti, che risposero subito alla [tras]formazione della civiltà di toscana in italiana, un abate Gioacchino da Fiore che fu un ideale capostipite di San Francesco d’Assisi; ecco i due stati d’animo nei quali noi Calabresi moderni e italiani possiamo riscontrare d’aver risposto alle sollecitazioni della civiltà nazionale. Che Dan80


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te si sia ricordato del calabrese abate Gioacchino come d’una altissima espressione del pensiero medievale e monastico, che Petrarca abbia mentovato il nostro frate Barlamo che gli insegnò il greco, che Boccaccio parli dell’autorità del Barlamo nel libro della Genealogia degli Dei, che il comune di Firenze abbia avuto come primo maestro pubblico di greco il nostro Leonzio Pilato, che infine Barlamo e Petrarca, Boccaccio e Pilato si trovino insieme a iniziare l’Umanesimo, ecco alcuni fatti che legano noi alla grande tradizione». E ancora, nello stesso testo: «In fondo all’animo del Calabrese c’è una aspirazione ai concetti assoluti e alla metafisica; filosofare è ancora la sua occupazione preferita, essere paladino dell’autorità il suo orgoglio. Accade ancora, a Napoli, di vedere lo studente calabrese, inviato a scegliersi una professione, generalmente di medico o di avvocato, dimenticare lo scopo e passare gli anni a perfezionarsi nello studio del greco e del latino o della filosofia, fino a mettere i capelli grigi». Alvaro ha notato che ancora nella metà del secolo scorso i calabresi vivevano in mezzo alla natura con una sorta di sottomissione, come se essa fosse una bestia di cui non si conosce la forza, e non si sa se sia amica o nemica. Del resto, il calabrese può essere un grandissimo raccoglitore, oltre che allevatore, agricoltore, cacciatore, intellettuale, visionario, mistico; raccoglie, conserva e consuma tutto ciò che la natura, all’apparenza inospitale, offre: cicorie, asparagi, funghi, capperi, cipolline selvatiche, ortiche, finocchi, lapriste, vitalbe, more, carciofi selvatici, gagummari (corbezzoli) e forse anche cocumili (cocumeli), piraini (pere selvatiche) e pumariesti (mele selvatiche). Il sentimento della piccolezza ha fatto sviluppare nel calabrese il senso del limite e una buona dose di umiltà. Accanto a queste virtù, poi, troviamo il rispetto dell’autorità e il senso della famiglia. Sull’autorità Alvaro nel 1941 scrive: «[…] chi comanda ha il diritto di comandare e il comando è una funzione indiscutibile»; però in Un treno nel Sud scrive della «[…] diffidenza dei poteri costituiti, che è un altro lato del carattere dei calabresi». Però il carattere e i sentimenti in Calabria sono tanto vari quanto sono vari i paesaggi e le genti che l’hanno abitata. Il calabrese può essere allegro, estroverso e generoso ma può essere anche introverso, taciturno, difficile, diffidente, volubile. Alvaro, ne Un treno nel sud, racconta un aneddoto che ha per protagonista un industriale del Nord che cerca di impiantare qualcosa in Calabria e ha bisogno di attraversare delle proprietà. Dopo molti tentativi falliti ne parlò con una persona anziana del luogo. «Il vecchio gli disse – scrive Alvaro –: “Voi non avete capito un fatto: che il calabrese ‘vuole essere parlato’. Bisogna parlargli come a un uomo che ha sentimenti, doveri, biso81


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gni, affetti: insomma come a un uomo”». Il calabrese sa essere semplice e raffinato, primitivo e pensatore squisito, terrestre e contemplatore sublime, carnale e spirituale, lavoratore e intellettuale di grande statura. Che cosa non era capace di fare il calabrese con un’ascia, una zappa e un coltello (coltelluzzo, diceva Alvaro)! Ancora, in Itinerario italiano, Alvaro scrive che sentirsi ricchi avendo olio, frutta secca, lana e salsicce «permette di star fermi, guardare, contemplare, pensare, che è poi la libertà suprema dell’uomo». Ecco perché la Calabria ha conosciuto la miseria, la violenza e l’emigrazione ma può annoverare tra i suoi figli uomini come Campanella, Gioacchino da Fiore, Nilo da Rossano, Francesco da Paola, frate Barlamo, Leonzio Pilato, Telesio, Corrado Alvaro stesso, capace di osservare uomini e cose con grande partecipazione umana e con quella sapienza della pietà che p. Pino Stancari riconosce ai calabresi. «Si pensi che umanità preziosa si può cavare da gente siffatta», scrive lo scrittore di San Luca. Ed è ancora Corrado Alvaro che ci soccorre con una formula che fa la sintesi di orografia, geologia e natura e, insieme, psicologia, antropologia e storia della Calabria quando scrive: «Questo spiega pure il carattere dei calabresi, primitivo e raffinato, patriarcale e avventuroso, suscettibile di ogni perfezionamento, di ogni slancio verso l’inconoscibile e il cielo, come spiega le feroci passioni e insieme il discettare più filosofico e cavilloso, e la loro antica tradizione monacale». Osservazioni In conclusione facciamo osservare alcune smagliature presenti nel sussidiario, che pure resta un libro che tutti i calabresi dovrebbero leggere. Consideriamo, ad esempio, il tema “I fiumi”. Ebbene, se guardiamo il quadro d’unione dello stradario del Touring, relativamente alla Calabria notiamo che i fiumi più importanti della regione sono: Crati, Lao, Neto, Amato, Mesima. Due di essi, il Crati e il Lao, scorrono nella provincia di Cosenza; il Neto nasce nella provincia di Cosenza, ma è un fiume della provincia di Catanzaro, ora di Crotone; l’Amato scorre nella provincia di Catanzaro e il Mesima segna il confine tra la provincia di Reggio e quella di Catanzaro, ora di Vibo Valentia. Alvaro inizia la trattazione elencando i fiumi della provincia di Reggio Calabria, prosegue con quelli della provincia di Catanzaro e termina con quelli della provincia di Cosenza. Per la provincia di Reggio Calabria, descrive con ampie chiose il Mesima, il Metramo, il Marro, l’Allaro, ed elenca altri

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otto fiumi a carattere torrentizio, tra cui l’Amendolea e il Buonamico: si capisce, quest’ultimo è il fiume del suo paese. Per la provincia di Catanzaro descrive il Còrace, il Tacina, il Neto, l’Ancinale, il Savuto, il Lamato, l’Angitola e il Mesima, e riporta in elenco anche sette torrenti. Osserviamo che il Mesima sta sia nell’elenco della provincia di Reggio, sia in quello della provincia di Catanzaro. Infine, tratta i fiumi della provincia di Cosenza, e scrive: «In provincia di Cosenza molti fiumi, ma poco importanti. Il Crati nasce sull’altopiano della Sila e versa in mare nel golfo di Taranto. Il Colognati e il Trionto, torrenti che nascono nella Sila e sboccano nel golfo di Taranto. Il Lao nasce presso il piano di Campotenese e sbocca in mare a sud di Scalea nel circondario di Paola». Tenendo presente lo stradario del Touring, ci rendiamo conto che qui Alvaro assume una prospettiva reggio-centrica e dimostra di conoscere poco la Calabria settentrionale. Ci chiediamo, ad esempio, perché insieme al Trionto abbia menzionato il Colognati e non il Coserie? E perché con questi non abbia menzionato il Busento, il Mucone, il Lese, il Coscile, l’Esaro, il Raganello? Anche da quello che l’autore scrive riguardo ai monti si evince che Alvaro aveva della provincia di Cosenza una conoscenza indiretta e approssimativa. Facciamo notare che quando nel 1912 Alvaro pubblica il suo saggetto su Polsi, a Catanzaro, dove egli vive e studia, giunge da Torino, ad insegnare proprio al liceo “Galluppi”, Giuseppe Isnardi, letterato e studioso di geografia. Questo professore ligure-piemontese in quegli anni percorre a piedi in lungo e in largo ogni contrada della nostra regione e pubblica i resoconti delle sue osservazioni e ricerche su giornali e riviste. Ci chiediamo se l’opera di Isnardi fosse nota ad Alvaro; probabilmente no, e chi sa perché. Per quanto riguarda la storia della Regione, osserviamo che certamente al tempo di Alvaro gli Enotri e i Brettii si conoscevano solo dalle fonti letterarie, poiché le ricerche archeologiche erano appena cominciate. E per quanto riguarda i bizantini non c’erano ancora state le ricerche di Guillou, di Falkenausen, di Fonseca, di Burgarella. Così come sui Longobardi mancavano le scoperte archeologiche che attestano la loro presenza stabile almeno nella Calabria nordoccidentale. Però per molti intellettuali reggini la Calabria ancora oggi sembra essere solo Grecia, classica o bizantina. Se volgiamo la nostra attenzione alla storia linguistica notiamo che i testi in dialetto riportati nel Sussidiario sono tratti quasi tutti dal patrimonio del dialetto della Calabria meridionale. Fa eccezione, ad esempio, un testo tratto da La notte di Natale di Vincenzo Padula. Ovviamente nel 1925, quando Alvaro compone il Sussidiario, non erano stati ancora pubblicati gli studi di 83


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Rohlfs, il quale compie il suo primo viaggio in Calabria nel 1921, di Alessio, il quale scrive negli anni Trenta, di Mosino, che scrive negli anni Ottanta, né quelli di Trumper, che opera nell’ultimo quarto di secolo. Certamente qualcosa il nostro autore doveva avere per le mani se cita un testo di Padula. Di questo autore, però, le migliori ricerche dialettologiche sono rimaste a lungo inedite e solo recentemente stanno vedendo la luce grazie al lavoro di John Trumper. Tuttavia, già dalla metà dell’Ottocento circolavano buoni studi sui dialetti di diverse regioni italiane, compreso quello calabrese. Ad esempio, il Vocabolario di Luigi Accattatis sul dialetto di Cosenza è del 1895, e offre anche una raccolta di testi. Osserviamo anche, ma sia detto en passant, che la cartina geografica della Calabria che apre il Sussidiario erroneamente indica come “mare Adriatico” quello che formalmente è il Golfo di Taranto, e dunque ancora mare Ionio. Comunque, concludendo, ribadiamo che il Sussidiario è un’opera importante e ingiustamente sottovalutata. In essa troviamo l’Alvaro scrittore e, in nuce, alcuni temi a lui cari che ritroveremo in opere ben più note, come Gente in Aspromonte. Si direbbe anzi che nel 1925 lo stile di Alvaro fosse già ben riconoscibile, e che egli abbia sfruttato l’occasione offertagli dalla stesura del Sussidiario per riordinare e approfondire il suo pensiero e i suoi ricordi sulla Calabria e sui calabresi, che in seguito utilizzerà, senza modificarli, in tanti luoghi della sua opera.

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Segni sulla sabbia Note di viaggio di Tommaso Cariati

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Calabria citeriore, terra dai mille volti Con tutto quel mare intorno, la Calabria non ha un solo angolo adatto a un approdo sicuro, ed è rimasta a lungo inaccessibile. Non c’è un golfo degno di questo nome, come quello di Taranto o quello di Napoli. E non c’è neppure un arcipelago adeguato alle esigenze di un vero porto (i porti di Cetraro, Sibari, Vibo non sono significativi; come, per motivi diversi, significativo non è il porto di Gioia Tauro, che ha richiesto, per un progetto folle, lo sbancamento di ettari ed ettari coltivati a uliveto e ad agrumeto). Ma la Calabria è rimasta a maggior ragione inaccessibile per via di terra. Se trascuriamo i due stretti corridoi litoranei, attraverso i quali, tra acquitrini e paludi, il transito non è mai stato agevole, chi cerchi di arrivare in Calabria per autostrada, prima di raggiungerla finisce in mezzo alle montagne. Già lungo il Vallo di Diano inizia un’ascesa che, se l’A3 non fosse l’unica autostrada del territorio, potrebbe far credere al viaggiatore di avere sbagliato direzione, e di non scendere affatto in Calabria. L’arrampicata culmina al passo di Campotenese, alla base del grande massiccio del Pollino, da dove parte una lunga galoppata, questa volta in discesa, fin quasi alla valle del Crati. Addirittura nei pressi di Lagonegro, quella che abusivamente viene definita “autostrada”, subisce una strozzatura che impone una brusca ridefinizione mentale delle categorie stradali. D’inverno poi, ad ulteriore riprova che siamo in mezzo alle montagne, da Lagonegro a Campotenese la neve può essere un serio ostacolo al transito (un’alternativa in questi casi è la statale 18 litoranea, da raggiungere lungo la valle del Noce-Castrocucco). L’autostrada A3 corre, grosso modo, lungo la statale 19 delle Calabrie, che segue, a sua volta, l’antico tracciato della romana via Popilia. E ciò non è un caso, perché, sia chiaro, questo varco attraverso le montagne è “il” varco verso la regione più estrema dello Stivale, del resto per nulla agevole, come hanno ben visto i viaggiatori che dalla fine del Settecento hanno arditamente cercato di raggiungerla. A nord, insomma, la Calabria è ben difesa da massicci montuosi che la rendono di fatto inaccessibile, anzi isolata. Giuseppe Isnardi, che questa terra ha amato e conosciuto meglio dei calabresi (si legga il suo Frontiera calabrese), ha scritto che la Calabria, a ben considerare (ovviamente ciò va rapportato al tempo in cui l’aeronautica civile non era ancora sviluppata), è una regione più isolata della Sicilia, che però è un’isola. Comunque, chi giunga in Calabria per via di terra, si immerge in una regione dai mille volti, perché un conto è penetrare nell’alto Tirreno, lungo il Noce-Castrocucco (dove le montagne, ricche di vegetazione e di acqua, scen86


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dono ex abrupto al mare), altra cosa è giungere nella piana di Sibari, da Roseto Capo Spulico e Trebisacce, altra ancora, a maggior ragione, è scendere nelle valli dell’Esaro-Coscile prima, e del Crati poi, dal Pollino e da Castrovillari. Si tratta di mondi aventi peculiarità proprie, specialmente la cimosa tirrenica, fisicamente separata dagli altri. Il dato geografico qui sembra determinante. In questa porzione non ampia d’Italia, che è la Calabria settentrionale o citeriore, troviamo ben cinque sistemi montuosi indipendenti. Vi è innanzitutto il massiccio del Pollino che la rende inaccessibile e la divide dalla Lucania, ci sono poi, a occidente, il gruppo dell’Orsomarso e la Catena costiera; al centro, invece, troneggia la Sila (suddivisa al suo interno in Sila grande e Sila greca, nella provincia di Cosenza, e Sila piccola nella provincia di Catanzaro); il gruppo del Reventino sovrasta a sud-ovest la città di Lamezia. Cinque sistemi montuosi debolmente correlati che suddividono il territorio in tanti compartimenti quasi indipendenti. Già, perché accanto alle montagne ci sono le pianure e le valli e le gole da considerare (la piana di Sibari, la valle del Crati, la valle del Neto e il Marchesato; le gole spettacolari del Raganello, quelle del Lao, e quelle granitiche del Trionto, e quelle del Savuto, quelle del Mucone, quelle dell’Amato; le cascate dell’Argentino, e quelle del Vulganera, e quelle del Colognati). Una complessità e una ricchezza che non troviamo nella Calabria meridionale (la valle del Mesima a sud non è la valle del Crati con i suoi 200-250 mila abitanti; il monte Alto non è la Sila con la sua cospicua estensione, la sua natura alpina, i suoi paesaggi, i suoi laghi, la sua flora, la sua fauna). Nella Calabria settentrionale, ad esempio, una delle strade trasversali che collegano i due mari è detta “strada delle terme”, perché vi si trovano le terme di Cassano, le terme di Spezzano Albanese, le terme di Guardia Piemontese (e dovremmo annoverare pure la grotta delle ninfe di Cerchiara). E quanto a terme bisogna menzionare poi quelle di Caronte nell’area lametina. Il clima è vario e particolare in tutta la regione. L’aria che si respira, ad esempio, a Camigliatello o a San Giovanni in Fiore non è solo aria di montagna, è aria di montagna che subisce l’influsso benefico della vicinanza dei mari; e il clima delle coste subisce pure l’influsso dell’aria di montagna, perciò a Santa Maria del Cedro, nell’alto Tirreno, si producono i cedri migliori del mondo, e i rabbini vengono a comprarli per la loro “festa delle capanne”. Il viaggiatore che desideri prendere contatto non superficiale con la Calabria settentrionale, si imbatte però innanzitutto in un ginepraio di denominazioni, costituito dai mille nomi con cui questa terra nei secoli è stata designata, e rischia di rimanere frastornato. Qui siamo in Magnagrecia, ma anche nell’Enotria e nel Bruzio; e siamo in Calabria, quella “citeriore”, perché, poi, c’è l’altra, quella “ulteriore” (e occorre stare attenti perché il nome 87


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“Calabria” nell’antichità designava la Puglia e fu traslato dai Bizantini nell’alto medioevo a designare l’attuale Calabria). Calabria citeriore, sebbene sia un nome desueto, designa bene la Calabria settentrionale. Esso fu introdotto nel basso medioevo per designare l’attuale territorio della provincia di Cosenza e, approssimativamente, la Sila catanzarese, a nord della depressione di Marcellinara. Magnagrecia, invece, è il nome preferito dagli amanti della classicità, i quali credono che, da queste parti, la storia sia finita con la Grecia e, in parte, con Roma, che ha parzialmente fatto propri i moduli e gli stili della cultura greca. Il nome “Magnagrecia”, per la verità, pone non pochi problemi per la Calabria settentrionale. Infatti gli Italioti occupavano soltanto le coste (sullo Ionio, la piana di Sibari, le strette pianure litoranee fino a Puntalice, la piana di Crotone, e solo alcune porzioni della fascia tirrenica, dove si trovavano gli empori di Sibari e di Crotone). L’entroterra, viceversa, era occupato dagli Enotri prima, e, a partire dal V-IV secolo a.C., dai Brettii, dai quali deriva il nome “Bruzio”. Del resto, “Bruzio”, utilizzato dai romani per indicare l’intero territorio regionale, non va bene per la ragione opposta per cui è inadeguato Magnagrecia. Per la Calabria settentrionale sarebbe più adatto “Enotria” perché, stando agli archeologi e agli storici dell’antichità, prima dell’avvento dei coloni greci, questa parte della penisola era capillarmente abitata da gente di questa etnia. Gli Enotri sarebbero stati combattuti, ricacciati nell’entroterra, o assimilati, o sterminati dai civilissimi greci, ultimi arrivati. Una bella confusione, che non si attenua neppure interrogando gli addetti ai lavori. Per esempio, nell’estate del 2007, all’Università della Calabria si è svolto un convegno internazionale dal titolo “Enotri e Brettii in Magnagrecia” e noi ci siamo chiesti che senso avesse quel titolo, se gli Enotri questa terra l’abitavano prima che arrivassero i Greci? Non sarebbe stato più giusto scrivere “Enotri, Brettii e Greci in Calabria”, o, addirittura, “Greci e Brettii in Enotria”? È la storia della Calabria, che ha mille volti (e siamo ancora all’età antica). Sono comunque i volti molteplici della geografia che in questa regione forse più che altrove hanno determinato i mille volti della storia, della lingua, della gente. Si pensi che in età altomedievale i Longobardi del sud hanno preferito arroccarsi sulle montagne della stretta dorsale appenninica occidentale, stabilendo come limes il corso dei fiumi Crati e Savuto; hanno controllato la Sila da lontano, senza costruirvi opere di fortificazione; e hanno lasciato che i Bizantini con la loro flotta controllassero le pianure e le coste, lungo le quali sorgevano città importanti quali Rossano, Santa Severina, Amantea. Si determinò così, in un certo senso, una convivenza simile a quella che si era avuta nell’antichità tra Italioti lungo le coste e Brettii nell’entroterra (i Brettii però 88


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la Sila la occupavano e la difendevano, come dimostrano le fortificazioni che si trovano a mezza costa lungo il litorale ionico da Paludi a Caloveto, a Cariati, a Terravecchia, fino a Strongoli, l’antica Petelia; non solo, i Brettii, se non fossero stati neutralizzati da Roma, al termine della guerra annibalica, forse avrebbero conquistato le fiorenti città della pianura). Dopo i romani, che avevano unificato la penisola, e quindi anche la Calabria, ci sono voluti, nell’XI secolo, i Normanni perché la regione ritornasse a essere unita (e c’è da considerare pure che nell’alto medioevo questa terra montuosa e scabra faceva gola anche ai temibili saraceni). Che tempi dovettero essere quelli tra la fine del V secolo e la prima metà dell’XI per questa porzione di mondo e per i suoi abitanti! Il calabrese settentrionale è fondamentalmente un montanaro. Lo è dal tempo degli Enotri, lo è per l’indole dei Brettii, lo è anche per l’apporto romano al DNA, lo è per l’influenza montanara longobarda e lo è perché, all’indomani delle guerre puniche, con buona pace degli amanti del mondo classico, da queste parti, salvo i muri e le strade che gli archeologi stanno riportando alla luce nella piana di Sibari, di greco non era rimasto nulla. Bisognerebbe vederlo all’opera il calabrese. Si vedrebbe con quale colpo secco zu Peppinu di Calopezzati scanna il porco, come zu ’Ntoni di Ortiano fa faville maneggiando l’accetta aggrappato all’ulivo come un gatto, in quale modo zu Giseppe al Cannavo torce i fringoli intrecciando sporte, come zu Michele aggioga i buoi alla Cocumila, con quale piglio zu Vasiliu lavora la terra col tridente per le patate al Fagheto, in che modo un tempo zu Vincienzu e zu PaΔquale abbattevano farnie, lecci e pini larici con lo stroncatoio, come zu Tumasu a Castiglione corica fieno, roveti e canne masche con il falcione, con quale grinta zu Luviggi di Colognati conduce, timpe timpe, un camion sgangherato col solo braccio sinistro, avendo il destro ingessato. Il calabrese montanaro ha però molte altre virtù accanto al coraggio e alla grinta che manifesta a livello pratico-operativo come un guerriero. Ma per coglierle è necessario considerare anche la sua indole intellettuale e la sua dimensione religiosa che gli provengono soprattutto dal mondo cristiano, specialmente da quello orientale bizantino. E per intuirle, queste altre virtù, occorre osservare attentamente quei giganti dello spirito e dell’intelletto che sono Nilo da Rossano, Gioacchino da Fiore, Francesco da Paola, Ugolino da Cerisano, Umile da Bisignano, Telesio da Cosenza. E l’avventura non termina certo con questi mostri d’altri tempi. Per rendersene conto basta sfogliare le poesie di un Duonnu Pantu, il vocabolario di un Accattatis, l’opera di un Padula, i versi vernacoli di un De Marco (alias Ciardullo), la narrativa di un De Angelis; anzi per certi versi l’esperienza continua e si intensifica con le ricerche scientifiche di fisica e di informatica, o quelle di archeologia, antro89


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pologia e sociologia svolte ad Arcavacata dai calabresi, o all’estero, ma anche con i lavori letterari di un Tonino Barbieri, con la sua ossessione per il rapporto tra significato e significante, di un Angelo Fasano, poeta troppo prematuramente scomparso, di una Matilde Tortora, di un Franco Dionesalvi, di un Giulio Palange, con il suo italiano magnificamente contaminato dal dialetto e il suo piglio intellettuale da mastino (si legga il suo Osceno in giallo). Quella citeriore è veramente Calabria dai mille volti. Il viaggiatore che si accinge a visitare questo mondo si porrà sicuramente domande sul sistema produttivo e industriale. Egli si chiederà: “Che cosa si produce in Calabria settentrionale?”. Ebbene, niente (si fa per dire). Da queste parti l’industrializzazione forzata ispirata dai guru degli anni Cinquanta, Pasquale Saraceno in prima fila, è fallita. Per vederlo basta visitare Crotone, in un certo senso l’unica città industriale della Calabria settentrionale: lungo la statale 106 si osservano, ben allineati, relitti e manufatti da archeologia industriale. A onor del vero, nel comprensorio della città di Pitagora si trovano anche industrie attive, come quella che produce energia da biomassa. Il viaggiatore attento si renderà conto però che, nonostante non ci sia piano regolatore di città e di paese che non preveda la “zona industriale”, in questa parte della penisola c’è una certa allergia per l’industria. I capannoni che si incontrano nella valle del Crati, a Piano Lago, nella piana di Lamezia, nella piana di Sibari, sull’altopiano silano, per lo più, sono depositi, o ospitano lavorazioni artigianali o processi di trasformazione di prodotti agricoli (o sono vuoti). Certo, a Momena di Rossano si incontra anche una centrale termoelettrica, nella valle del Crati un’industria agroalimentare di rilievo extraregionale, a Soveria Mannelli le industrie grafiche ed editoriali capaci di produrre libri che vengono recensiti dal «Corriere della sera», a Castrovillari una fabbrica che produce cemento, ma, lo ripetiamo, la Calabria non ha vocazione industriale, anche se ovviamente si sfruttano il granito silano, il marmo di San Lucido, il legname della Sila. La gente da queste parti sembra preferire le produzioni di dimensioni medio-piccole, artigianali, ad esempio per il consumo familiare; preferisce consumare i capicolli e le soppressate di Longobucco, il formaggio caprino di Luzzi o di Zagarise, il caciocavallo, quello vero, prodotto con latte di vacca e senza patate, di Trepidò, il vino di Cirò o di Donnici o del Savuto, magari fatto in casa procurandosi le uve, l’olio di Caloveto, le pesche e le clementine di Sibari, i pomodori di Belmonte, le cipolle di Tropea o di Campora San Giovanni, i porcini della Valle dell’Inferno (bisogna vederlo lo spettacolo offerto dai cosentini che, con le auto in processione, nei mesi autunnali alle cinque del mattino si recano sull’altopiano della Sila alla ricerca di funghi, facendo a gara a chi arriva prima, magari al buio, e

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a chi ne raccoglie di più), il pane di Forello, le patate di Camigliatello, qualche ghiro, qualche sarda o alice di Cariati salata a Longobucco. Che la Calabria settentrionale sia terra dai mille volti lo si vede bene anche dai dialetti. Gli idiomi di quest’area sono generalmente varietà di volgare derivato dal latino che, finito l’ordine romano, si è trasformato per effetto della reazione del sostrato osco (la lingua dei Brettii), incorporando relitti di greco antico e di lingue preindeuropee e, soprattutto, accogliendo apporti del greco bizantino, del longobardo, dell’arabo (almeno fino alla metà dell’XI secolo). Nonostante la base latina comune, però, il dialetto che si parla a Cosenza, nei suoi Casali e nella Sila grande non è lo stesso che si parla nell’area del Pollino; l’idioma che si parla nella Sila catanzarese non è lo stesso che si ascolta lungo la costa tirrenica; la lingua che si parla a Rossano e nel suo comprensorio è diversa da quella di Longobucco; e vi sono fenomeni linguistici che scompaiono man mano che ci si allontana da una certa zona e poi ricompaiono, come un fiume carsico, in un’altra. Però, se la Calabria meridionale nel Novecento ha dato i natali a tanti noti scrittori italiani, come Corrado Alvaro, Fortunato Seminara, Mario La Cava, la Calabria settentrionale ha visto per prima, nel XIV secolo, la comparsa del volgare calabrese e nel Quattrocento, con Sergentino Roda da Rossano e con Joanne Maurello da Cosenza, le prime opere in questa lingua. Il viaggiatore che giunga in questa terra, se avrà pazienza di prendere contatto con la sua complessa realtà, scoprirà molte altre particolarità che lo sorprenderanno. Andando a Lungro, a San Demetrio Corone, a San Benedetto Ullano, a Civita, a Santa Caterina Albanese e in altri luoghi ancora egli troverà le comunità arbëreshe, le quali, nel XV secolo, dopo la caduta di Costantinopoli per mano degli Ottomani, si sono trasferite al di qua dell’Adriatico, portando con sé usi, costumi, lingua e religione, e conservandoli gelosamente. Anzi, in tema di religione possiamo dire che il cristianesimo ortodosso in Calabria citeriore è uscito dalla porta (a causa del ritiro dell’impero bizantino e dell’introduzione del rito latino da parte dei Normanni, i quali agirono d’accordo con il successore di Pietro) ed è rientrato dalla finestra, per la venuta delle comunità albanesi, appunto. Gli albanesi di Calabria in verità obbediscono al Papa anche se nella liturgia conservano il rito e la lingua greci. E c’è di più. A Guardia Piemontese e a San Sisto dei Valdesi, è possibile prendere contatto con due comunità occitane, rifugiatesi qui durante il basso medioevo dalle valli del Piemonte, per sfuggire alle persecuzioni religiose o al sovrappopolamento di quei luoghi. Queste comunità, nonostante le persecuzioni della Chiesa di Roma, ancora professano la religione cristiana riformata e parlano una lingua che deriva dalla lingua d’óc. Davvero, è terra dai mille volti, questa Calabria citeriore. 91


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La grecità di Calabria che resiste Intorno alle sedici ci trovammo a Roccaforte del Greco, in provincia di Reggio Calabria. La guida ci invita a salire sulla sommità del borgo, passando per viuzze anguste; lì si apre un sipario. Dal punto panoramico, guardando verso nord-est, in basso si vedono tre paeselli: quasi sotto di noi è Ghorìo di Roccaforte, più in là, in basso, oltre il torrente Amendolea, a circa cinquecento metri di altitudine, Roghudi, e ancora più in là Chorìo di Roghudi. È il primo maggio. Nei pressi di Roccaforte, le viti superstiti di una vecchia vigna sono state cosparse di zolfo ramato. Con noi sono due guide esperte: Mimmo Minuto, studioso di storia bizantina in Calabria, e Salvino Nucera, originario del luogo, di Chorìo di Roghudi, scrittore in lingua grecanica. Questo è l’Aspromonte; il torrente Amendolea che ha laggiù il suo ampio letto di pietre bianche, serpeggiante tra le balze, scende direttamente dal monte Alto. Questo è l’Aspromonte di Corrado Alvaro, anche se non si incontrano più i suoi pastori e le loro greggi. La carta da satellite della Calabria segnala una lunga macchia verde che, partendo subito dopo l’istmo di Sant’Eufemia, corre lungo le Serre, e giunge fino a questi luoghi. La fascia ionica, invece, è tinta di marrone, come zona priva di boschi e adibita a colture mediterranee, in realtà argillosa e brulla, specialmente d’estate. Il 38° parallelo passa press’a poco da questi posti. Si tratta del parallelo che passa, a oriente, per Atene e la Turchia centrale, e a occidente per Cordoba, in Spagna; un dato da non sottovalutare. Il monte Alto è un’escrescenza dell’Appennino calabro. Dalla depressione istmica di Marcellinara tra i due golfi, la quota prende a salire man mano che ci si inoltra verso le Serre, in direzione sud, ma le Serre restano in media poco più di 1000 metri (1400 metri circa monte Pecoraro). In Aspromonte invece la quota s’innalza improvvisamente fino a sfiorare, nel monte Alto, i 2000 metri. Non per nulla questa vetta è detta anche monte Cocuzza, come quell’altra escrescenza, un poco più modesta però, che si trova nella Calabria settentrionale sulla Catena costiera, detta monte Cocuzzo, appunto (cocuzza o cucuzza, poco importa, sempre della cucurbita, cioè della zucca, si tratta). Questo tratto dell’Appennino visto dal mare sembra un immenso cetaceo, o un animale gigantesco coricato, ma col capo-cucuzza ben eretto, forse intento a ruminare. Da questa escrescenza passa la strada, si fa per dire, in realtà la pista carrozzabile che da Bagnara sale, attraversando tutto l’Aspromonte, e poi precipita al santuario di Polsi. 92


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La nostra visita dell’area grecanica era iniziata la mattina ad Amendolea, centro importante al tempo dei Normanni, ma abbandonato negli anni Cinquanta. Là in mezzo secolo è crollato tutto. Le case, rimaste prive di tetto, sono diventate ruderi, come il castello. Le mura della chiesa, invece, sono ancora in piedi. Da queste parti e dalle parti di Scilla è stato girato il film Un ragazzo di Calabria, con Gian Maria Volonté e con Diego Abatantuono nei panni del padre-padrone che, in verità, parla un calabrese improbabile, con quelle “s” impure, per esempio, di “questo” e “basta” trasformate arbitrariamente in “sc”, come si sentono nelle Marche, non in Calabria. Intorno si vedono terreni ripidi, pietrosi e aridi, adatti appena al pascolo: deve essere stata dura la vita in questi posti: chi sa quanti picconi sono stati rotti per strapparne qualche pezzo alla natura. Si vedono ancora, di tanto in tanto, in lontananza, fazzoletti di terra fertile, un tempo coltivata a orti. E pennacchi di fumo all’orizzonte segnalano che ancora qualcuno dissoda il podere e lo difende dagli sciagurati incendi estivi. Il mandorlo, benché abbandonato, fruttifica caparbio nelle pietraie. Mentre il bergamotto giù, al margine del torrente, ormai è buono soltanto da mostrare ai turisti. Le ginestre e il “cammarino” colorano i dorsi dei monti con pennellature gialle e giallo-arancio. Ai piedi della montagna, tra gobba e gobba, in un orto sottratto un tempo alla fiumara, una donna anziana compie il rito annuale della zappatura per piantare pomodori, fagioli e zucche, forse non per bisogno ma per mantenere viva la memoria. A questo medesimo scopo per noi è utile sfogliare alcune pagine di qualcuno della folta schiera di scrittori calabresi, la maggior parte dei quali sono proprio della Calabria meridionale. E non pensiamo a Ibico di Reggio magnogreca, né a Barlamo o a Tommaso Campanella. Parliamo di Corrado Alvaro da San Luca, l’autore di Gente in Aspromonte, di L’età breve, di L’amata alla finestra, di Fortunato Seminara da Maropati, autore de Il vento nell’oliveto, un capolavoro mancato per qualche epsilon, di Mario La Cava da Bovalino, di Leonida Rèpaci e di Antonio Altomonte da Palmi, di Saverio Strati da Sant’Agata del Bianco, di Francesco Perri da Careri, di Antonio Delfino da Platì, di Lorenzo Calogero da Melicuccà, poeta morto suicida al terzo tentativo, per citare solo i più noti. E tutti, chi in un modo chi in un altro, hanno scritto della loro terra, la Calabria reggina, magari identificandovi tutta la regione. Si direbbe che da queste parti uno dei mestieri preferiti sia proprio scrivere, per lo più in prosa, ma anche discutere di politica o di filosofia e di storia, come aveva ben visto Corrado Alvaro, che diventa poi discettare appassionato di economia politica e di “Questione meridionale”. Sarà l’orgoglio magnogreco, sarà quel passaggio di san Paolo da Reggio, di cui si fa cenno negli Atti degli Apostoli, sarà la lunga presenza del mondo greco bizantino e dei monaci italo-greci, sarà l’aria dello Stretto, ma 93


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sembra che a Reggio e nella sua provincia la dimensione intellettuale sia tenuta nella massima considerazione. E non è necessario, lo ripetiamo, risalire molto indietro nel tempo per trovare esempi di grandi uomini che hanno reso illustre la città. Uomini di cultura, e uomini contemporaneamente di cultura, d’impegno civile e di chiesa, ma anche donne, hanno lasciato qui tracce profonde. Pensiamo a Franco Mosino, che si autodefinisce “filellenico”, Domenico Minuto, Carmelo Restifo, Domenico Farias, Enrico Montalbetti, Antonio Lanza (redattore di quella vibrante Lettera dei vescovi dell’Italia meridionale del 1948, con quella famosa frase, “per una giustizia più piena, per una fede più pura”, ripresa da Giovanni Paolo II nel suo viaggio nella regione, ma che non tutti i vescovi, naturalmente, hanno firmato), Gaetano Catanoso, Italo Calabrò, Maria Mariotti. Tra l’altro, recentemente Reggio sembra essere diventata una fucina di vescovi per la Chiesa di Calabria: Agostino, Nunnari, Marcianò. Nella Calabria meridionale colpiscono però anche le “cattedrali nel deserto”. Il porto di Gioia Tauro, costruito per servire quello che avrebbe dovuto essere il “V centro siderurgico” d’Italia, potenza industriale, è rimasto inutilizzato per vari decenni fino a quando non si è pensato di riconvertirlo per altre funzioni, visto che l’acciaio che si produceva a Bagnoli, a Taranto, a Piombino, a Porto Marghera e in giro per l’Europa era troppo. A Saline Ioniche, invece, gli impianti della Liquichimica, che dovevano produrre mangimi per gli animali impiegando petrolio, sono arrugginiti e il porto è praticamente insabbiato. Subito dopo l’ultimazione degli impianti l’Istituto Superiore di Sanità ne vietò la messa in produzione, perché le bioproteine per alimentazione animale prodotte con sostanze derivate dal petrolio, come le paraffine, avrebbero potuto avere effetti cancerogeni sull’intero ciclo alimentare. Toccherà la stessa sorte al ponte sullo Stretto? La domanda è sensata ma inutile, visto che gli uomini politici investono solo nel breve periodo, poiché, come diceva cinicamente quel tale, “nel lungo periodo saremo tutti morti”. La nostra seconda tappa nel giro dei paesi grecanici era stata Gallicianò. Questo paesino ospita ancora uno sparuto manipolo di persone. A un tornante prima del paese si incontra un’opera di Mimmo Nucera, uno dei pochi abitanti del borgo. Costui, che è insieme architetto, capomastro e manovale, insomma artigiano factotum d’altri tempi, con la pietra locale a vista, poca malta cementizia, e molto, molto gusto, ha costruito quattro gioielli in stile tradizionale: l’opera che dà il benvenuto al visitatore, una fontana, un anfiteatro, una chiesa ortodossa, ricavata da due piccole abitazioni adiacenti. La chiesa, dedicata alla Madonna dei Greci, è stata consacrata dal Patriarca ortodosso d’Italia Gennadios, ed è stata visitata dal Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I; in essa si può ammirare un’icona della Madonna Odigitria. Qui, padre 94


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Nilo Vatopedino di tanto in tanto officia la messa in rito ortodosso. Tutte le scritte del paese sono in lingua neogreca e in grecanico. Le strade, lastricate con la pietra azzurrina di Lazzàro da architetti “professionisti”, sono invece un pugno nello stomaco del visitatore. In piazza, una vecchietta bruciata dal sole, come la giovane del Cantico dei Cantici (abbrustolita dal sole perché i suoi fratelli l’hanno posta a guardia delle vigne), conversa con le nostre guide in una lingua a noi incomprensibile: la lingua imparata e usata nel segreto dei rapporti familiari, e tramandata di generazione in generazione da un paio di millenni, senza sapere perché. Sulle balze e nei burroni, poche capre si cibano di ginestre, rovi, vitalbe e mille erbe, scegliendo le cime più tenere accuratamente. Percorrendo un altro tratto di queste piste ripide, che più che strade sono carrozzabili strette e dissestate, da Roccaforte del Greco scendiamo a Roghudi. Il paese è stato abbandonato agli inizi degli anni Settanta senza motivo, ma con un pretesto, perché la gente voleva andare via. L’agglomerato sorge su uno sperone di roccia tra il torrente Amendolea a destra, guardando il mare, e un torrentello alla sinistra. La situazione è quella tipica di molti centri della regione: uno sperone di roccia difeso naturalmente da tre lati e collegato da un esile istmo alla montagna. Il torrente Amendolea è una tipica fiumara con il letto molto largo e ciottoloso: d’inverno deve fare un gran fracasso: certo non doveva essere gradevole all’orecchio, specialmente di chi abitava alle propaggini più basse. Qui capiamo bene che, come scrisse Corrado Alvaro, d’inverno i paesi d’Aspromonte sembrano galleggiare sulle acque. Le case sono intatte, anche se prive di infissi o con le porte spalancate. Al centro c’è la chiesa che si vede da ogni parte, perché in qualche ufficio, recentemente, si è deciso che si dovesse restaurare e dipingere di giallo, nonostante il paese sia lontano dal mondo e tutt’ora sia vigente il divieto di abitarlo. Davanti alla chiesa un cane da mandria riposa acciambellato. Disabitato dagli anni Settanta è pure Chorìo, la frazione di Roghudi. Salendo verso Bova osserviamo che qua e là una mano esperta ha provveduto a innestare “a spacco inglese” il pero sul “piraino”, ad un’altezza tale da impedire a capre e vacche di mangiare i germogli. Da lontano intravediamo altri paesi abbandonati, come Africo antico. La Calabria, se non si fosse spopolata a causa dell’emigrazione, conterebbe almeno il triplo di abitanti. E se è vero che il calabrese è migrante per costituzione, è vero anche che l’emigrazione ha scerpato, sradicato, snaturato. Guardate che cosa scrive Vincenzo Bonazza, che racconta di emigranti di varie provenienze in terra svizzera: “rema! rea… ah remaito! fino a ke / pirti duva i caniglia supai / i spalli… ke? / po futti / kke…fino a ke poirti cosa? / a caniglia, / a caniglia! a caniglia… duva kili / chi cazzu ghè? / io… io… mi cridiva di più / kke famiglia! No sai a ca95


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niglia!”. La lingua in terra d’emigrazione è il primo indicatore dello smottamento personale e sociale, e questa lingua disgregata segnala una pericolosa disgregazione dell’anima dell’emigrante. Ed è violenza l’insegnamento della lingua nazionale avulso da qualsiasi riferimento contrastivo al dialetto che è la lingua madre, la lingua dell’anima. Nella Calabria meridionale la Grecia, quella classica o quella bizantina, è presente innanzitutto nella toponomastica e nell’onomastica. Locri, Samo e Mileto sono soltanto alcuni casi esemplari. Per esempio, durante questo tour dei paesi grecanici abbiamo incontrato un tale in un bar, il quale, in forza della sua amicizia con una delle nostre guide, ha voluto offrire il caffè a tutta la comitiva, che di cognome fa “Proscenio”. Ma oltre a ciò, provate ad aprire la carta e vedrete una geografia tutta greca, e non si tratta solo dei vari Chòrio o Chorìo e Ghorìo. Provate a osservare i fiumi Potamo e Marepotamo; le località Dinami, Melicucco, Melicuccà, Cannavà, Cannavò, Pentedattilo, Laganà, Zervò, Nicotera, Filocastro, Zaccanopoli, Maropati, Polistena: Grecia, per lo più medievale e bizantina. La visita finisce alle venti a Bova. Aveva ragione Giuseppe Isnardi quando scriveva che la Calabria, se la si gira a piedi, dà l’idea dell’infinito; eppure noi non siamo andati a piedi. Rèpaci, da parte sua scrive: “La Calabria è una terra grande quanto mezzo Piemonte, e io non posso dire di conoscerla tutta. È questa una delle mie spine. Ho girato tanto mondo... e non conosco della terra nativa che quella balconata a mare infiorata di ulivi, di vigne, di eucalipti, di aranci, che guarda la Sicilia e le Eolie”. Bova è arroccato in alto e si vede anche dalla costa. I nomi delle strade sono in italiano, in greco e in grecanico. Il paese è abitato e vivo, e molte opere di restauro ben eseguite gli stanno restituendo una certa dignità. Chi sa per quale futuro. Comunque, dei paesi visitati è l’unico dove si possa giungere mediante autobus. Quando salutiamo i nostri ciceroni, a occidente il sole è una palla rossastra che galleggia nella bruma dello Stretto e la grecità di Calabria, come il mandorlo, resiste.

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