Bollettino n. 7
Bollettino di SOS scuola n. 7 A.s. 2011/2012
ITE “V. Cosentino”
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Per saperne di pi첫 http://www.sos-scuola.it
Finito di stampare: dicembre 2012
Impaginazione a cura di Chiara Marra
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Tecnologie digitali, cultura, democrazia. Dove stiamo andando? (note dei coniugi Chiara Marra e Tommaso Cariati, dalla riunione del 13 ottobre 2011) 1. Il cammino fatto SOS scuola ha iniziato la sua avventura sette anni fa e ha fissato in tre punti le sue finalità: lavorare per saperi validi, vivere relazioni autentiche, promuovere una responsabilità piena. All’inizio abbiamo lasciato che i suoi componenti, studenti, genitori e docenti, proponessero di volta in volta le iniziative e le attività più adatte alle circostanze. Due anni fa però abbiamo avvertito l’urgenza di misurarci con il tema “Fare cultura ed educare oggi”, che l’anno scorso, per aderire meglio all’evento dei 150 anni dell’Unità d’Italia, abbiamo modificato in “Fare cultura ed educare 150 anni dopo l’Unità”. Il lavoro che abbiamo svolto nell’ultimo biennio è stato imponente se lo paragoniamo con i nostri poveri mezzi: abbiamo dialogato con Carlo Molari, con Silvano Petrosino, con Pino Stancari, con Antonino Papisca, con Umberto Santino, con Dora Ciotta, con Mimmo Cersosimo, per citare soltanto alcuni dei nostri interlocutori. Inoltre, abbiamo collaborato con enti come Famiglia Aperta e la Fondazione Rubbettino. L’anno scorso abbiamo affrontato argomenti di grande attualità come quello della dignità della donna, quello dell’immigrazione, studiato a diversi livelli, quello della questione meridionale, quello del brigantaggio, quello delle mafie. Inoltre abbiamo partecipato con ben sei classi alla ricerca di Famiglia Aperta sul tema “Il primato delle persone nella società multietnica”. Il convegno relativo si svolgerà a Vigevano, in provincia di Pavia, i giorni 2728-29 ottobre. I materiali che sono stati raccolti alle diverse latitudini, compresi quelli delle nostre sei classi, sono stati stampati in un opuscolo e distribuiti agli studiosi che parteciperanno al convegno perché ne facciano una lettura accurata alla luce delle loro conoscenze scientifiche. A questo convegno Tommaso è stato invitato a portare una testimonianza proprio su Sos scuola e vi parteciperà accompagnato da quattro studenti della V F mercurio: Vanessa, Giada, Kamil e Fabrizio. Raccomandiamo sempre di visitare il sito del gruppo all’indirizzo sosscuola.it e di leggere il bollettino che ogni anno stampiamo allo scopo di cu5
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stodire la memoria di quello che facciamo e di diffondere il messaggio del gruppo. Sos scuola si presenta come un modo originale ed alternativo di fare scuola, uno spazio di partecipazione democratica e di costruzione della cittadinanza attiva e responsabile. Vi proponiamo alcune considerazioni sul lavoro dell’ultimo biennio: a. a volte abbiamo messo in programma iniziative che non abbiamo realizzato; b. presi dal presente, come sollevati su onde possenti, a volte abbiamo fatto cose a cui all’inizio dell’anno non pensavamo; c. il lavoro fatto con Famiglia Aperta è stato veramente notevole, per rendersene conto basta leggere i materiali raccolti e pubblicati (li trovate nel bollettino, sul sito e nella cartella dei lavori di base di Famiglia Aperta); d. le cose che a volte non siamo riusciti a fare sono rimaste come traccia per il futuro; e. sul tema “Fare cultura ed educare oggi” non siamo riusciti ad attivare il dibattito che speravamo di suscitare, perché raramente i relatori invitati hanno preso contatto profondo con il percorso che stavamo vivendo; f. qualcuno ci ha promesso varie volte che sarebbe venuto a raccontarci che cosa fanno oggi i fisici, ma non è mai venuto (con lui avremmo potuto dibattere la questione della velocità superluminale dei neutrini o la teoria delle stringhe). Vi confessiamo però che il nostro amico Gianfranco Solinas sette anni fa aveva individuato in Sos scuola una profezia. Ebbene, ringraziamo Dio perché egli vede e provvede. 2. Le emergenze che ci interpellano Già l’anno scorso ritenevamo opportuno soffermarci su alcune questioni particolarmente importanti in questo tempo accelerato, di questa “modernità cannibale”, come la definisce Andrea Zanzotto, il quale l’altro ieri ha compiuto novant’anni. Tra questi temi scottanti avevamo menzionato la libertà d’espressione, il lavoro (e le morti sul lavoro), l’istruzione, la democrazia. A noi pare che l’emergenza delle emergenze oggi sia proprio la democrazia, che appare malata o dimezzata o azzoppata. La democrazia è un sistema di governo contraddittorio e nient’affatto perfetto: chi vive in una dittatura lotta per conquistarla, chi l’ha ricevuta in eredità non l’apprezza e rischia di perderla. La democrazia oggi dà disagio, come suggerisce il titolo del recentissimo libro di Carlo Galli, “Il disagio della democrazia”. La democrazia può assomigliare moltissimo a una dittatura. Predrag Matvejevic, bosniaco, ha coniato il termine “democratura”, una sorta di ossimoro, un ibrido tra democrazia e dittatura: democratura, appunto. 6
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Alcune circostanze in particolare ci fanno ritenere che la democrazia sia in pericolo: a. l’arroganza e la protervia di talune forze politiche che si ispirano alla legge della giungla, piuttosto che alla Costituzione e al Codice internazionale dei diritti dell’uomo, senza remore morali di sorta, e usando in modo spregiudicato il denaro e i mezzi di informazione (Bossi recentemente a Venezia ha detto: “Più l’Italia va giù, più la Padania va su”. Che cosa intendeva?); b. la povertà galoppante, la distruzione dello stato sociale, lo smantellamento dell’istruzione a tutti i livelli e i tentativi reiterati di imbavagliare la gente; c. i giovani che, di volta in volta, vengono descritti come bamboccioni perdigiorno, mammoni senza futuro, sospesi nelle nuvole, galleggianti nella bambagia. Su questo tema segnaliamo La fatica di crescere, di Vittorino Andreoli, e L’ospite inquietante, di Umberto Galimberti, il quale sostiene che i giovani sono travolti dal nichilismo. Segnaliamo anche il recente film Gli sfiorati, di Matteo Rovere: i giovani sarebbero sfiorati da tutto, ma toccati da nulla; d. il fenomeno inarrestabile della globalizzazione, lo strapotere delle multinazionali e delle agenzie di rating che hanno potenti conflitti d’interesse, uniti alla perdita di quote crescenti di sovranità degli stati nazionali. Facciamo una digressione: John Le Carré, un inglese di ottant’anni che ha fatto il diplomatico, la spia ed è anche romanziere, sostiene che la prossima guerra mondiale si combatterà per il controllo delle risorse energetiche, e probabilmente le grandi potenze cercheranno di spartirsi il continente africano, ancora ricco di giacimenti inesplorati. Del resto, le grandi potenze si stanno accaparrando i terreni fertili, anche situati in paesi lontani, da destinare all’agricoltura, perché un altro grandissimo problema è quello alimentare, che ha per corollario quello dell’acqua. A questo riguardo segnaliamo che, se la Turchia costruisce dighe sul Tigri e sull’Eufrate sull’altopiano dell’Anatolia, provoca il prosciugamento della Mesopotamia; che Israele controlla l’acqua della valle del Giordano e impedisce ai suoi vicini di praticare l’agricoltura; che in Egitto potrebbe accadere quello che starebbe accadendo alla Mesopotamia. Un altro grande problema è quello dello smaltimento dei rifiuti, come sappiamo bene noi italiani per via dei rifiuti della Campania. Tutti questi problemi faranno nascere tensioni e conflitti molto seri che potrebbero causare lo scoppio di un conflitto mondiale. Appare emblematico, a questo riguardo, che il festival del diritto, che ha luogo a Piacenza, abbia avuto quest’anno per titolo “Umanità e tecnica” e l’anno prossimo si intitolerà “Solidarietà e conflitti”. 7
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In verità, come al solito, accanto a tante ombre vi sono molte luci. Per esempio: a) di solito le crisi sono molto salutari perché contengono un valore pedagogico; b) molti italiani hanno saputo sottrarsi al potere soporifero dello sfascismo dilagante, anzi sono ben desti, come dimostrano le ultime tornate elettorali a Torino, a Milano, a Napoli; la raccolta di oltre un milione e duecentomila firme per abolire la legge elettorale denominata “porcellum”; le numerose manifestazioni di protesta che si svolgono quasi quotidianamente nelle piazze; il finanziamento spontaneo della televisione via Internet di Michele Santoro; c) la Costituzione, alla prova dei fatti, dimostra di essere un baluardo nient’affatto facile da smontare. Grazie a questo strumento un po’ polveroso, il grande vecchio Napolitano e la Corte costituzionale non si stancano di ricordare ai signori del palazzo accanto che alle loro porcate c’è pur sempre un limite. Rispolveriamo allora alcuni articoli della Carta costituzionale. I filoni più importanti, per noi che viviamo nella scuola, sembrano essere tre: 1. la libertà di espressione; 2. l’istruzione; 3. il lavoro, peraltro inserito profeticamente proprio nell’incipit dell’articolo 1. Lavoro: art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”; art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”; art. 35: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”; art. 36: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”; art. 41: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Un breve commento sull’art. 41: coloro che vogliono cambiarlo, vogliono stravolgere il secondo periodo introdotto da quel “Non”, che lascia indovinare anche un “Ma”, prima del “non”. Che cosa hanno in mente questi superlegislatori? Istruzione: art. 33: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”; art. 34: “La scuola è aperta a tutti”. Libertà di espressione: art. 21: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. 8
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Qui però casca l’asino. Noi parliamo di esercizio della cittadinanza attiva, ma se non c’è scuola, se non disponiamo dei mezzi di informazione ed espressione, se siamo imbavagliati, disoccupati, rassegnati, depressi, quale cittadinanza possiamo esprimere? Rileggiamo gli artt. 1, 2 e 3: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”; “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”; “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”. Che cosa vogliono scrivere al posto dell’incipit dell’articolo 1, i superlegislatori? “L’Italia è un paese fondato sull’etere, sulle chiacchiere, sull’aria fritta, sulla menzogna, sulla disoccupazione, sulla legge del più forte”? Insomma, con Carlo Galli, capiamo bene “il disagio della democrazia”, di questa democrazia svuotata di contenuti, che non garantisce pari dignità ai diversi progetti di vita. Però capiamo altrettanto bene che la Costituzione, e il Codice internazionale dei diritti umani, con il quale la nostra Carta è in singolare sintonia, ci permettono di urlare al mondo che non è più tempo di sudditi e di regnanti. Ai temi dei diritti umani calpestati e della democrazia azzoppata, noi accosteremmo quelli dei sistemi digitali d’informazione e comunicazione. Questi mezzi influenzano ormai tutto il nostro vissuto e tutto il nostro immaginario e si legano a filo doppio ai temi della democrazia dimezzata, imponendo di ridefinire i termini della cittadinanza. Anche qui però scorgiamo luci ed ombre, se consideriamo il ruolo che Internet avrebbe giocato nello scongelamento politico e sociale del Nord Africa. Ma qui c’è un cane che si morde la coda, perché se non c’è istruzione efficace, se siamo disoccupati, se siamo annebbiati, se siamo depressi, Internet non serve a niente; serve soltanto ai potenti come ulteriore strumento di controllo sociale. Per entrare nel merito, riguardo alle tecnologie digitali, citiamo soltanto alcuni sistemi e mezzi, o possibilità e servizi, che peraltro hanno molto a che fare con i processi di produzione delle idee e di diffusione della cultura, e quindi con la democrazia: 1. posta elettronica, chat e messaggerie varie, Facebook; 2. Twitter, Wikipedia, Treccani on line, vocabolari on line, quotidiani on line, tv e radio on line, Youtube, Ansa.it, la Crusca on line, Dop on line; TED, Livestation, Blackberry, Servizio pubblico via Internet, Ipod, Ipad, Iphone; 3. musica in podcasting, juke box on line, e-book, spazi liberi per ebook on line (prossimamente vi pubblicheremo il bollettino del gruppo e Segni sulla sabbia di Tommaso); a questo proposito c’è il caso di Coelho il qua9
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le offre i suoi romanzi gratis in Internet e, paradossalmente, vede aumentare le vendite dei suoi libri a stampa; 4. Web o Internet 3.0; 5. Cloud computing. Su tutti questi temi, mutuamente intrecciati, noi crediamo sia opportuno soffermarsi, per tentare di comprendere dove stiamo andando, e tenerci pronti ad affrontare le sfide che ci attendono, nella speranza di non vedere l’Italia finire come la Grecia. Perché, vedete, è opportuno ricordarlo bene che la libertà non si acquisisce una volta per tutte, come se fosse un appezzamento di terreno. Assomiglia invece alle colture che possono essere realizzate su quel terreno: se viene trascurato, vi cresceranno rovi e gramigna. Come disse quel tale, non si è veramente liberi se non si è disposti a morire per la libertà. Noi siamo pronti a morire per la nostra libertà? 3. Proposte e dibattito Emilia: nella relazione di Tommaso ci sono tante provocazioni. Sul Corriere c’è un interessante intervento di Beppe Severgnini che consiglio a tutti di leggere. Invito tutti a prendere parte alle due attività di lettura organizzate dalla Fondazione Rubbettino: una è rivolta a docenti e studenti, l’altra, che si svolge alla BAU, è rivolta a tutti. Maria Rosaria: propongo al gruppo la partecipazione ad un progetto della mia scuola contro il bullismo. Il 26 settembre ho partecipato alla giornata delle lingue presso l’università e sono rimasta colpita dal fatto che i ragazzi si vergognavano di parlare. È utile l’invito di Emilia alla lettura, perché aiuterà i ragazzi ad abituarsi a prendere la parola. Tra i ragazzi è molto serio il problema dell’uso della marjuana, che brucia il cervello. Propongo di invitare una neurologa a parlarci di questo problema, la dott.ssa Teresa Ting. Rosa: terrei d’occhio il problema della globalizzazione, su cui forse molti stanno aprendo gli occhi. Dobbiamo documentarci per poter lasciare il segno sui ragazzi. Se la costituzione ancora resiste, forse dobbiamo ringraziare la scuola che, anche malamente, ne ha portato avanti i valori. America: tutti i temi proposti da Tommaso sono stimolanti; bisogna selezionarli. Dominique, mio marito, può contribuire all’incontro sull’e-book, dato che ne è un utilizzatore entusiasta. Iole: ai ragazzi dico che devono abituarsi a dialogare con persone adulte che non siano solo i genitori o i propri docenti. Chiederei ai ragazzi di prepararsi su elementi di diritto costituzionale. Alfio: vogliamo dare un tema? Potrebbe essere “Conciliabilità fra democrazia e nuove tecnologie”. Vorrei che provassimo a definire anche il calendario degli incontri, secondo me dovremmo vederci una volta al mese. Al 10
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giorno d’oggi ci si sente un po’ orfani culturalmente, perché i maestri della nostra giovinezza sono stati messi in crisi. La vera rivoluzione sta in una ridefinizione dei concetti fondamentali di libertà e democrazia, perché la loro definizione classica ci sta stretta. Se volete, io posso parlarvi di libertà e democrazia nell’antica Grecia, ma non so se vi interessa. Potremmo, poi, invitare autori che conoscono bene il mondo giovanile, come Paolo Crepet. Chiara: i temi sono tutti interessanti. Io potrei offrirvi una chiacchierata sul consumo critico, che è un modo, magari piccolo, di reagire alla globalizzazione. Vanessa: io credo che sia molto importante che noi giovani ci abituiamo a un confronto libero e responsabile con altre persone, perché noi saremo la futura classe dirigente del paese. Tommaso: potremmo invitare i giovani del gruppo a preparare e proporre due attività: un reportage sul viaggio a Vigevano, quando si andrà al convegno di Famiglia Aperta, e un ipertesto sui diritti fondamentali della costituzione, confrontati con altre carte, come la costituzione della Repubblica romana del 1849 e il Codice internazione dei diritti umani. C’è, inoltre, la possibilità di incontrare Piercarlo Maggiolini e di dialogare con lui sui temi dell’etica e delle tecnologie digitali. Potremmo anche invitare Stefano Rodotà o Giuseppe Limone per una conversazione ampia ed approfondita sulle questioni scottanti del nostro tempo. Propongo, infine, accogliendo il suggerimento di Alfio, di adottare il titolo: “Tecnologie digitali, cultura, democrazia. Dove stiamo andando?” 4. Programma a) In novembre, incontro con i quattro studenti della V F mercurio che presenteranno il reportage sul viaggio a Vigevano; b) in dicembre, incontro con Alfio sulle basi della democrazia in Grecia antica e dintorni; c) in gennaio, incontro sulle tecnologie digitali: Giuliano e Tommaso offriranno una panoramica dei mezzi e strumenti informatici; d) in febbraio, incontro sui diritti umani e costituzionali: alcuni studenti di III B mercurio, e altri della V F mercurio, presenteranno ipertesti su principi e valori fondamentali; e) in marzo, incontro con Chiara su consumo critico e cittadinanza; f) in aprile incontro con Teresa Ting sul pericolo delle droghe tra i giovani; g) in maggio, incontro con Piercarlo Maggiolini su etica, tecnologie digitali, sistemi informativi. 11
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Gli studiosi Giuseppe Limone e Stefano Rodotà potrebbero essere invitati l’anno prossimo, dopo il lavoro preparatorio del presente anno. Oltre agli incontri da tenere a scuola, si propone di effettuare tre o quattro visite guidate a Mileto e al promontorio del Poro, a Riace e Gerace, al Parco della Sila (Cupone, Cozzo del Principe), a San Giovanni in Fiore, a Cerchiara e Sibari.
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Visita guidata al comprensorio del massiccio del Pollino (21 settembre 2011, appunti a cura di G. Bruzio, R. De Vita, V. Guido, A. Urso e C. Vitaro) Il 21 settembre le classi 3BM, 5BM e alcune ragazze del 5FM accompagnate dai professori Cariati, Rovito e Scornaienchi, si sono recati al Parco Nazionale del Pollino, con l’intento di fare una vera e propria escursione tra la montagne del massiccio possente. Partiti dall’Istituto “V. Cosentino” di Rende verso le 7.30 hanno iniziato il tragitto con canti e balli. Dopo poche ore, arrivati sulle montagne del Pollino, precisamente al rifugio “De Gasperi”, i docenti sono stati costretti a cambiare programma rimandando l’escursione, viste le cattive condizioni atmosferiche del luogo. Grazie all’iniziativa del prof. Cariati, è stato però possibile visitare il paese di Frascineto con il suo importante Museo delle icone. I ragazzi, entusiasti dell’iniziativa proposta dai professori, hanno accolto la proposta, visitando il Museo delle icone con molto interesse. Alunni e docenti mediante il supporto della guida, hanno appreso una varietà di notizie riguardanti le procedure per la realizzazione delle icone, e inoltre hanno potuto apprezzare opere di grande rilevanza artistica e culturale. Il museo delle icone e della tradizione bizantina di Frascineto, centro di eccellenza della cultura bizantina in Calabria, è stato realizzato dopo una attenta analisi del contesto italo-albanese di tradizione bizantina. La sua realizzazione è stata curata dal prof. Gaetano Passarelli, esperto di iconografia e docente di storia e civiltà bizantina. All’interno del Museo, gli spazi disponibili sono stati adeguati alle esigenze di rappresentazione dei diversi temi trattati. Si tratta di un’esposizione complessa ed affascinante dedicata ad un rapporto stretto e di confronto tra la creazione artistica e lo spazio sacro. Il museo costituisce il primo momento di acquisizione delle conoscenze legate all’ambiente italo-albanese di tradizione bizantina. Emblema del museo è l’aquila bicipite imperiale bizantina con inciso sul petto la scritta IC XC NIKA (Gesù Cristo vince), per sottolineare la continuità di legame e di fede con i propri antenati. La prima sala, al piano terra, ospita l’atelier dell’iconografo e un video didattico sulle fasi di preparazione dell’icona. Le icone sono opere destinate, attraverso il disegno e la simbologia dei colori, a trasmettere un messaggio sacro. la collezione di icone esposta è di oltre 250 pezzi, provenienti da varie località: Russia, Bulgaria, Grecia, Roma13
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nia, Serbia. Vi sono icone da Chiesa e altre da devozione familiare espresse in forme e dimensioni varie. Successivamente, alunni e docenti si sono recati a Civita, dove è stato possibile visitare il paese con tutte le sue caratteristiche arbereshe, ma non solo, ragazzi e insegnanti hanno anche percorso un breve tragitto fino al fiume Raganello, con il suo maestoso canyon, e al ponte del diavolo. Il fiume nasce nel cuore del possente massiccio del Pollino e sfocia nello Ionio nei pressi di Villapiana.
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SOS scuola a Vigevano. Persone, comunità, democrazia (Vigevano, 27-30 ottobre 2011 – appunti a cura di G. Bruzio e V. Guido) Andata. 26 ottobre 2011, quattro ragazzi dell’Istituto Tecnico Economico “V. Cosentino” di Rende, frequentanti la classe V F M, accompagnati dal Prof. Tommaso Cariati, iniziano il loro viaggio per Vigevano: partiti la sera, dalla stazione di Castiglione Cosentino, i giovani iniziano così la loro avventura. Accompagnati dal rumore assordante del treno, giungono l’indomani mattina alla stazione centrale di Milano. Da lì proseguono il loro viaggio verso Vigevano, dove li attende la lunga maratona: il “XVI Convegno Studi dell’Associazione Culturale Famiglia Aperta – Primato delle persone nella società multietnica”, presso Cinema Teatro ex Odeon della Comunità parrocchiale dell’Immacolata – Parco Parri. Convegno. I temi trattati sono molto importanti. Ve ne sono di taglio sociologico, psicologico, teologico, psichiatrico, economico. Varie sono le relazioni fornite da esperti dottori, inoltre vi sono esposte esperienze di vita che riguardano in particolar modo l’accoglienza, ma anche la convivenza con persone di diverse etnie. Il convegno costituisce il momento conclusivo di un lavoro di ricerca attuato a partire dal dicembre 2009, sul tema della società multietnica, visto attraverso il prisma della dimensione familiare. Parla della società multietnica che pone sfide a diversi livelli. C’è il livello politico-istituzionale, il livello sociale, il livello delle interazioni fra persona e persona. A tutti i livelli è possibile agire per promuovere l’integrazione fra culture differenti. Ma il livello che risulta cruciale, nell’interazione fra culture differenti, è il livello interpersonale. Il problema della società multietnica riconduce dunque al problema della relazione con l’altro. Emerge che, nel relazionarsi con l’altro, esistono ostacoli che possono minare la possibilità stessa della relazione. E quanto più l’altro con cui ci si relaziona è distante dal soggetto, tanto più questi ostacoli aumentano. È questo il nucleo problematico della relazione multiculturale. Tuttavia, esistono delle risorse personali che ognuno può mobilitare e che possono aiutare a superare gli ostacoli e rendere la relazione con l’altro possibile. "Quali paure e quali opportunità per relazioni interpersonali nuove?". Secondo il Dott. Gianni Francesetti, psichiatra e psicoterapeuta di Torino, l’ospitalità è l’atto di accogliere il forestiero o il prossimo dandogli sostegno. 15
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Bisogna trasformare in prossimo colui che viene da lontano. L’immigrazione pone tanti problemi di ordine pubblico, però nella psicologia non si gioca più con questo problema, ma si parla di paura. Il prossimo è tenuto lontano e il lontano è tenuto approssimato (che significa rendere meno definito). Oggi si parla di “paura liquida”: prendere qualsiasi forma avendo uno stimolo e fluire nell’aspetto interiore della persona. È una paura che viene non tanto da un definito elemento di paura, ma nasce in un modo indefinito. Non è una paura chiara, ma è un’incertezza difficile da contenere, è indefinita. Il contenimento della paura di un bambino si ha attraverso il corpo. Le famiglie oggi hanno un problema di contenere i propri familiari, sia fisicamente che mentalmente. I bambini ricevono il contenimento attraverso i “media-telematici” (dove però non trovano il contenimento corporeo che consente di portare la paura sullo sfondo). L’antropopoiesi è un processo che dura tutta la vita. Infatti non diventiamo uomini o donne alla nascita, siamo uomini incompleti fino a quando non viviamo la relazione che ci completa, che ci riempie. Questo processo che completa, paradossalmente, ha bisogno di un processo di perdita. Nel fare gli uomini oggi, il nostro contesto è carente in due punti: illusione, mancanza di unicità; immunità. Non si può diventare unici senza dolore, questo dolore si ha nel passare da una fase a all’altra della vita, attraverso le esperienze che viviamo. Essere unici vuol dire essere solo se stessi, sapendo che: “una vita non è mai abbastanza”. Il non attraversamento del dolore si ha per la paura di incontrare e stare accanto a qualcuno. Chi ha meno voce merita più orecchio. Chi ha meno potere, porta un carico di novità. “Esperienze e idee per nuovi stili di vita familiare”. Per nuovi stili di vita familiare bisogna creare spazi per una vera solidarietà, per un’accoglienza dell’altro “come se stessi”. Inoltre occorre educarsi ed educare. Occorre fare sosta, mettersi in ascolto, pregare, riflettere, fare formazione ed animazione. Sorgono alcune domande: poiché è stato detto che se sopportiamo il dolore dell’attraversamento saremo unici (noi stessi), con il non attraversamento del dolore si può essere unici? Senza attraversare il dolore non potremo essere amati. Quando incominciamo a crescere, quando iniziamo a capire la verità, accettando quindi anche il nostro corpo, passiamo delle fasi che comportano dolore (c’è gente che non si accetta per il proprio aspetto fisico). È questo il dolore da affrontare attraverso un cammino che bisogna iniziare e compiere. Di molto altro si parla in questo importante convegno, ma noi rimandiamo il lettore interessato al volume degli atti, segnalando in particolare la rela-
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zione di Giuseppe Limone, filosofo del diritto e poeta napoletano di grande profondità e spessore. Nostro contributo. L’ultimo giorno del Convegno anche noi del “Cosentino” di Rende prendiamo la parola. È emozionante: al tavolo si siedono il professore Cariati, Kamil e Vanessa. Il professore racconta l’esperienza di SOS scuola e del rapporto tra questo gruppo e Famiglia Aperta. Vanessa e Kamil raccontano le loro esperienze, che sono due facce della stessa medaglia: Vanessa è una ragazza calabrese emigrata, per un periodo della sua infanzia, con la sua famiglia in Germania. Kamil è polacco immigrato in Calabria. Visita di Vigevano. Al di là degli approfondimenti culturali, sempre molto interessanti, il viaggio ci permette di visitare la bellissima Vigevano. Purtroppo con gli appunti non siamo in grado di rendere conto di tutte le meraviglie che vediamo. Questa piazza è veramente fantastica, unica, forse la più bella d’Italia. Non aggiungiamo altro, andate a vedere le immagini sul sito del gruppo SOS all’indirizzo http://www.sos-scuola.it/Relazioni/ vigevano.html, rimarrete di stucco. Incontro con Piercarlo Maggiolini. Il convegno di Famiglia Aperta ci permette di incontrare un amico del nostro professore Cariati, Piercarlo Maggiolini. Si tratta di un docente del Politecnico di Milano che si occupa di Sistemi informativi aziendali e di Responsabilità sociale delle imprese. Ha scritto, a quanto pare, diversi libri su questi argomenti. Con lui passiamo alcune ore e programmiamo un suo viaggio in Calabria, da effettuarsi in primavera, ospite della nostra scuola. Con il suo inseparabile i-Pad, Kamil filma una parte interessantissima del colloquio. Il filmato si trova all’indirizzo http://www.sos-scuola.it/Relazioni/vigevano.html. Visita di Milano. Il viaggio ci offre l’opportunità di visitare anche Milano. Dato che il treno che ci riporta in Calabria parte di sera, abbiamo quasi un’intera giornata da dedicare alla metropoli lombarda. Entriamo nel vortice frenetico della città attraverso la metropolitana. Il Duomo è fantastico, pieno di gente. Andiamo al teatro Alla Scala, visitiamo la casa di Manzoni. Vaghiamo per vie e per chiese, secondo l’interesse del professore Cariati, andiamo a piazza Fontana. Mangiamo da McDonald’s, che è zeppo di gente. Il pomeriggio, in tram e a piedi, andiamo a visitare il Cenacolo di Leonardo e tante altre cose. La sera altro bagno di folla in tram e ai navigli, dove c’è la fiera dell’antiquariato. Anche per Milano rimandiamo alla pagina http://www.sosscuola.it/Relazioni/vigevano.html del sito del gruppo SOS scuola. La sera, sul treno, siamo tutti stanchi morti ma felici, sia per quello che abbiamo vissuto, sia perché torniamo a casa.
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SOS scuola, Famiglia Aperta e la pedagogia della costruttività gioiosa (testimonianza di Tommaso Cariati al convegno di Famiglia Aperta, Vigevano, 27, 28, 29 ottobre 2011) 1. Il gruppo SOS scuola, le sue attività, il suo metodo SOS scuola è un gruppo formato da una ventina di persone, tra insegnanti, genitori e alunni. È nato sette anni fa nell’istituto tecnico commerciale “V. Cosentino” di Rende, in provincia di Cosenza. I componenti sono vivamente interessati ai temi della cultura, della formazione e dell’educazione. Il gruppo persegue tre finalità principali: promuovere relazioni autentiche tra i suoi componenti e all’esterno, sviluppare e trasmettere saperi validi, suscitare e rafforzare il senso di responsabilità (diremmo anzi che operiamo per una responsabilità piena). Le attività che il gruppo promuove e vive sono fondamentalmente di due tipi: a) le riunioni mensili, durante le quali si ascolta una relazione, o si guarda un film, o si presenta un libro e poi si interviene liberamente nel dibattito; b) le esperienze “conviviali”, come le gite in luoghi di interesse culturale, spirituale o naturalistico. Ogni attività viene documentata con l’impegno degli studenti, secondo una pedagogia attiva che amiamo definire “della costruttività gioiosa” la quale valorizza la serietà, l’impegno, la responsabilità e la vocazione di ciascuno. In questo modo, ognuno si realizza in un processo autopoietico, ma all’interno di relazioni significative e responsabili. SOS scuola è nato, infatti, dall’esigenza di combattere l’individualismo e il relativismo imperanti nella società attuale, in questo tempo “cannibale”, come avrebbe detto il grande poeta veneto Andrea Zanzotto. L’approccio è quello della promozione di relazioni autentiche e responsabili tra persone di generazioni diverse, accompagnata dalla riflessione individuale e comunitaria su temi importanti come la cittadinanza attiva e i diritti umani. Attraverso i processi educativi e auto-educativi che il gruppo promuove, si spera di attenuare il senso di smarrimento e di disorientamento che caratterizza la contemporaneità e di sviluppare nelle persone il senso di fiducia nel prossimo, la speranza nel futuro e la gioia di cooperare per un mondo migliore, perché senza questi sentimenti non è possibile nessuna azione educativa e formativa efficace. All’inizio, i temi su cui confrontarsi venivano lanciati liberamente dai 18
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componenti del gruppo, secondo le necessità del momento. Via via che gli anni passavano, però, abbiamo avvertito l’esigenza di definire, all’inizio di ogni anno, il percorso che avremmo affrontato. Un’altra conquista è avere imparato a cogliere le occasioni preziose che ci vengono offerte dall’ambiente, per esempio, da Famiglia Aperta, dal 60esimo anniversario della costituzione, o dal 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia1. Il gruppo utilizza due strumenti ulteriori, il sito Internet (www.sosscuola.it) e il bollettino annuale, per raccogliere, custodire e diffondere il suo patrimonio di idee, oltre che per motivare gli studenti. Nel bollettino raccogliamo i testi più significativi elaborati ogni anno, comprese ampie tracce dei dibattiti. Il sito, in particolare, si è rivelato anche uno strumento potente di motivazione allo studio, dato che i giovani possono vedere concretamente il risultato del loro lavoro e l’esito della loro creatività2. 2. Il cammino dell’ultimo biennio e la collaborazione con Famiglia Aperta Il lavoro che abbiamo svolto nell’ultimo biennio è stato imponente, se paragonato con i nostri poveri mezzi. Abbiamo dialogato con Carlo Molari, teologo, grazie a una collaborazione con la Fondazione Rubbettino, con Silvano Petrosino, filosofo di Milano, con Pino Stancari, biblista, con Antonino Papisca, esperto di diritti umani, di Padova, con Umberto Santino, esperto di 1
Due anni fa abbiamo avvertito l’urgenza di misurarci con il tema “Fare cultura ed educare oggi” perché, nella società dell’immagine, spesso osserviamo una vera e propria eclisse della cultura dalla scuola. La cultura solida, classica sulla quale si sono formate schiere intere di intellettuali e dirigenti, che permette di andare davvero oltre le apparenze, risulta indigesta, non solo in televisione. Termini come induzione, deduzione, abduzione; ipotesi, tesi, dimostrazione; astrazione, generalizzazione; ipotassi, paratassi; entropia, indeterminazione, ricorsione, falsificazione; sono tutte parolacce da evitare accuratamente. A questo riguardo, viene in mente Segmenti e bastoncini, il titolo di un libretto di alcuni anni fa, scritto da Lucio Russo, un professore di fisica, che racconta come, al concetto astratto di “segmento”, perfino gli studenti universitari di discipline scientifiche preferiscano quello concreto di “bastoncino”. Da questo punto di vista, il lavoro di ricerca di Famiglia Aperta è preziosissimo perché ci è di grande aiuto per andare oltre l’apparenza. L’anno scorso, poi, per aderire meglio all’evento dei 150 anni dell’Unità d’Italia, abbiamo modificato quel tema in “Fare cultura ed educare 150 anni dopo l’Unità”. 2 Da una costola di SOS scuola l’inverno scorso è nato Soscafè. In sostanza, ogni mercoledì ci incontriamo intorno a un tavolo di un bar per dialogare, sempre in modo serio, ma libero, sui temi che ci toccano da vicino, partendo da una notizia di cronaca, una poesia, un libro letto, un film visto, un convegno al quale abbiamo partecipato. La regola che abbiamo stabilito è la seguente: nessuno monopolizzi la conversazione, nessuno stia sempre in silenzio, ognuno metta qualcosa in comune, alimentando a modo suo il confronto, nella convinzione che il dialogo franco, serio e pubblico, tra pari, su qualsiasi argomento, farà crescere tutti.
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lotta alla mafia, direttore del centro di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo, con Mimmo Cersosimo, economista impegnato sul fronte dello sviluppo regionale e studioso della Questione meridionale. Soprattutto però abbiamo incontrato e dialogato con Dora Ciotta la quale, nel mese di novembre del 2010, ci ha fatto il dono di venire da Mortara in Calabria. La collaborazione tra il nostro gruppo e Famiglia Aperta è molto feconda ed è cresciuta negli anni. Al convegno di Roma del 2004 eravamo presenti soltanto mia moglie ed io. Alla tappa di ricerca successiva abbiamo dato un contributo, coinvolgendo il nostro gruppetto di amici, ma nessuno di noi ha potuto partecipare al convegno che si è svolto a Monopoli, in Puglia. Alla tappa che si è conclusa a Salice Terme, in provincia di Pavia, invece, abbiamo partecipato, ai lavori di base con una classe del “Cosentino” e una della scuola media in cui lavorava mia moglie, e con una testimonianza, mia e di due studentesse, alla tavola rotonda. Alla tappa che ci ha portato a Vigevano abbiamo partecipato con ben sei classi e tre professori animatori, e al convegno siamo presenti un docente e quattro studenti: Vanessa, calabrese figlia di emigranti in Germania ed emigrante lei stessa, Giada, Kamil, polacco trapiantato con la famiglia in Calabria, e Fabrizio. Vanessa e Kamil rappresentano, per dir così, le due facce di una stessa medaglia che emigrazione ed immigrazione rappresentano. Il lavoro svolto nelle classi, con lo strumento di Famiglia Aperta, ha prodotto molti effetti. Innanzitutto, ci ha permesso di coinvolgere intere classi in un lavoro di gruppo, giacché nessuna classe fa parte integralmente di SOS Scuola; in secondo luogo, ha fatto emergere e smascherare stereotipi e luoghi comuni nei partecipanti; in terzo luogo, ha fatto conoscere la realtà degli immigrati da punti di vista diversi dal proprio, e ha fatto conoscere meglio, tra loro, giovani che credevano di sapere tutto gli uni degli altri; in quarto luogo, ha permesso di creare un clima di ascolto e di collaborazione, che è risultato utile anche nel lavoro quotidiano, per esempio, con la matematica e con la ragioneria. Durante lo svolgimento della ricerca è emersa una vera e propria aporia. Quando abbiamo chiesto agli studenti che cosa pensassero degli immigrati, le risposte sono state di indifferenza o di rabbia e sfioravano il razzismo: “gli immigrati devono tornare a casa loro”, “ci portano via il lavoro”, “vengono qui per compiere atti illegali, come rubare”, dicevano. Quando, invece, abbiamo chiesto loro di esprimersi sugli immigrati che conoscevano personalmente, tutto è cambiato: “conosco uno che lavora ed è apprezzato”; “conosco una badante molto amata nella famiglia dove lavora”; “conosco un imbianchino con il quale ho lavorato durante l’estate scorsa, è molto scrupoloso e simpatico”. 20
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I nostri giovani, comunque, sono apparsi mediamente tiepidi nell’accoglienza, ma non razzisti. Riportiamo di seguito alcuni punti di vista, scelti tra quelli più aperti ed originali espressi durante il lavoro svolto nelle nostre classi. Il materiale, nella versione integrale, è nella cartella dei lavori di base del convegno e nel sito del gruppo, all’indirizzo www.sos-scuola.it. «Io penso che nei nostri ragionamenti siamo troppo egoisti, perché pensiamo troppo a noi stessi, alla nostra famiglia ed al nostro paese. In ciò non siamo molto diversi dai leghisti che dicono che il Nord è stanco di mantenere il Sud parassita. Questo schema ci tiene tutti prigionieri. Bisogna prendere atto che ogni essere umano è portatore di dignità e di diritti come è scritto nella carta delle Nazioni Unite. Dovremmo studiare un modo per dividere il pane con gli affamati e se le risorse non bastano, cambiare stile di vita. Perché non è più tollerabile che il 20% della popolazione mondiale disponga dell’80% delle risorse del pianeta». «Io credo che a tutti dovrebbero essere garantiti i diritti umani essenziali: cibo e vestiti, alloggio, istruzione, assistenza medica e legale. A tutti coloro che pensano di radicarsi in Italia, inoltre, si dovrebbe concedere subito una sorta di cittadinanza provvisoria, in attesa di conferma dopo un certo tempo, durante il quale la persona viene seguita, osservata e aiutata da gente specializzata. A nessuno dovrebbe essere permesso di sfruttare gli immigrati, e a chi sfrutta i clandestini, riduce in schiavitù un uomo, o lucra sul traffico di esseri umani dovrebbero essere comminate pene veramente severe». «Il governo e il parlamento dovrebbero studiare sussidi per imprenditori, artigiani, comunità, associazioni, famiglie che offrono progetti di inserimento e di aiuto a qualche straniero che vuole lavorare seriamente per un progetto di vita in Italia. Inoltre, il governo dovrebbe stanziare risorse che permettano di impiegare figure professionali adeguate all’assistenza alle persone che vogliono inserirsi nel nostro paese, creando così posti di lavoro per i giovani italiani disoccupati». «Quando incontriamo e frequentiamo una persona dovremmo osservarla e conoscerla approfonditamente sotto vari aspetti. Soltanto così possiamo sperare di non sbagliare». «Teoricamente sono d’accordo che il mondo deve essere un’unica comunità, però nel corso della storia si sono formate tante crepe, che non è facile risanare. Queste fratture tra popoli e nazioni richiedono molto lavoro di riparazione. Ritengo che ogni persona dovrebbe lavorare nel suo piccolo per costruire una cittadinanza mondiale». «Gli uomini devono prendere atto che l’umanità forma un’unica famiglia, ma è estremamente difficile vivere la comunione a livello planetario, 21
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perché ogni persona vive in uno spazio e in un tempo ben precisi. Comunque, vi sono aspetti della cultura che ostacolano la costruzione di una cittadinanza universale (l’attaccamento eccessivo a usi e costumi, le ideologie, una visione distorta della religione); ve ne sono invece altri che favoriscono l’uscita dal proprio “recinto” e l’apertura agli altri (la musica, la danza, lo sport praticato con sano spirito, la scienza coltivata per l’amore della conoscenza, la religione intesa come esperienza liberante dello spirito)». 3. La percezione che di SOS scuola (e della ricerca di Famiglia Aperta) hanno studenti ed osservatori Gli studenti percepiscono SOS scuola come un modo originale e veramente alternativo di fare educazione e formazione, per l’importanza dei temi che il gruppo invita a trattare, ma soprattutto per le modalità attive che adotta trattandoli. Gli studenti si sentono veramente liberi di esprimersi perché, quando uno parla, gli altri ascoltano in silenzio. Riporto di seguito la testimonianza di un giovane del gruppo:«Ormai avevo acquisito sicurezza nel parlare cercando di tirar fuori più cose possibili da dire ai docenti. … Ora, il punto non è la bravura nel leggermi o capire le mie sensazioni o intenzioni; il punto è che trovandomi in quella circostanza è stato davvero costruttivo ricevere un parere e, soprattutto, essere capito da qualcuno che non avevo mai visto prima. A quel punto ha preso la parola anche un altro … e mi ha detto che potevo diventare anche ingegnere del suono. La notizia mi ha spinto, poi, la sera, a documentarmi meglio, ma, lì per lì, l’incontro procedeva come desideravo: ho espresso quello che avevo da dire e soprattutto ne sono uscito con qualcosa in più. Nella parte conclusiva ho spiegato ai docenti presenti come componevo la mia musica: nessuno mai si era interessato più di tanto all’argomento. Infine sono rimasto ad ascoltare gli altri ragazzi, li ho seguiti tutti con lo stesso interesse. Proprio quando ci si trova in queste situazioni si capisce quanto sia importante il dialogo. Io sono stato fortunato, ma penso anche a chi questo dialogo non può averlo». Una collega australiana, che l’anno scorso ha visitato la nostra scuola, ed era interessata ai metodi di insegnamento dell’“educazione civica”, si è lasciata coinvolgere nelle attività del gruppo SOS scuola. Dopo i primi approcci, ci disse: «Sono privilegiata a essere qui: io sono australiana, figlia di calabresi. Mi è piaciuto il confronto che ho avuto con voi nelle classi sui temi dell’immigrazione, partendo dalle domande di Famiglia Aperta». Nello specifico, sul tema ha detto: «In Australia siamo tutti immigrati. Io e la mia famiglia abbiamo vissuto una parte di questa immigrazione. Negli anni ’50 il governo australiano aveva deciso, tramite una legge, che tutti gli immigrati dovevano abbandonare la propria identità culturale e uniformarsi a 22
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quella inglese; questo però non era possibile, perché le persone erano molto legate alle proprie origini, e, infatti, oggi questa legge è stata abolita, perché abbiamo capito che dobbiamo “formarci all’equilibrio fra uguaglianza e differenza”. Il nostro governo ha capito che possiamo imparare tanto dalle altre culture, e per questo tutti noi siamo diventati più aperti. Ancora oggi coloro che si trasferiscono in Australia sono ben disposti a condividere la loro cultura con noi. È necessario aprire questo dialogo, ma per realizzarlo dobbiamo “avere fiducia nella comunicazione interculturale”; è una cosa fattibile cercare di vivere bene e interagire con tutti; quello a cui aspiriamo riuscirà a realizzarsi se lo vogliamo». Quando è andata via, la collega ha tenuto a ribadire che tutti gli scambi ufficiali e istituzionali non le avevano permesso di acquisire quanto le aveva dato SOS scuola, per i temi, ma soprattutto per il metodo adottato dal gruppo. Recentemente, un nostro amico ci ha mandato una pagina fitta fitta di riflessioni suggeritegli da un nostro testo. Egli scrive: «Ho letto la relazione di SOS scuola: è molto bella, sia per come è scritta, sia per i contenuti che propone, indiscutibilmente di alto profilo … Tanto di cappello a quelli che, come voi di SOS scuola, si impegnano autonomamente e si caricano di lavoro e spese extra per migliorare la società. Spero che possiate diventare sempre più numerosi, e che altri seguano il vostro esempio. Da parte mia, non mancherò di segnalarvi ad ogni occasione propizia». 4. Da dove viene SOS scuola e dove va Nei primi anni del nuovo secolo, ero un uomo di una quarantina d’anni ed ero docente di ruolo, da più di un decennio, nella scuola superiore. Ero stato capo scout e avevo svolto numerose collaborazioni con l’università della Calabria. Decisi di concentrarmi sulla scuola perché l’educazione dei giovani mi interpellava molto, in un momento in cui la situazione giovanile appariva gravemente problematica. Ricordo che c’era stata la riforma degli esami di maturità, iniziava la stagione dei progetti, si sperimentavano le cosiddette “funzioni obiettivo”, divenute poi “funzioni strumentali”, gli studenti apparivano sempre più annoiati e demotivati, si parlava molto di lotta alla dispersione scolastica e di disagio giovanile (non c’era ancora stato lo scempio della scuola pubblica operato da Gelmini e Tremonti). Un giorno chiesi a un collega che era molto attento a saltare sulle novità legislative, se scuola dei progetti volesse dire “una scuola in cui gli studenti fanno progetti” o una in cui “gli studenti partecipano a un progetto”. Mi disse sinceramente che la prima ipotesi non era realizzabile, che certamente si trattava della seconda. Rimasi molto perplesso perché, nella mia esperienza didattica, avevo sempre motivato gli studenti, specialmente 23
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quelli più grandi, spingendoli a concepire e a realizzare un loro progetto, lavorando in gruppo. Dopo tutto, Baden Powell, il fondatore dello scoutismo, riteneva che i ragazzi dovessero vivere l’avventura, progettando e realizzando “imprese”. La stagione dei progetti, purtroppo, non ha fatto passare la scuola da una didattica passiva a una attiva, anzi fa subire ai ragazzi attività frammentate e poco armonizzate con la didattica curricolare, ricattandoli in vari modi. Manca soprattutto un lavoro di interiorizzazione, confronto critico, condivisione, quello che si fa mettendosi in cerchio e condividendo liberamente riflessioni e ed emozioni suscitate, per esempio, dalle domande di Famiglia Aperta3. In quegli anni ho scritto il seguente testo: Hanno ucciso il padre, la madre / e anche il maestro; / sono trapassati Marx, Freud, Croce, Von Hayek / e ora sono orfani, Joe. // Hanno messo al centro / una potenza di I / con esponente tre / e al posto di Dio la rete. // Hanno ucciso il maestro / e trasformato il tempio in fiera, Joe. // Ci sono giostre, domatori di elefanti / e incantatori di serpenti; / danze, canti e gare di galli; / tutto gratis; venite, vedete; / fate un giro; non costa nulla; / spettacolo garantito. Non si tratta di disconoscere le nuove sfide educative; tutt’altro. Si tratta di immergersi pienamente e con intelligenza nella nuova realtà. Una realtà evanescente, cangiante, priva di punti di riferimento4. 3
I progetti hanno introdotto una grandissima confusione nella scuola perché, spesso, hanno veicolato il messaggio che non conta tanto la scuola normale, quella che si fa la mattina, quanto partecipare ai progetti pomeridiani. E si coltiva anche l’idea folle di sostituire il maestro e i docenti con i sistemi multimediali, i videogiochi, la Lim (Lavagna Interattiva Multimediale) e Internet. Del resto, i famosi progetti si chiamano “Matematicamente”, “Economicamente”, “Storicamente”, “Etnicamente”, “Filosoficamente” o “Non è mai troppo tardi” perché si deve glissare sui contenuti. Non si può dire “parliamo della vita e del senso di responsabilità, o della fatica di diventare uomini e donne”, “parliamo di vita e rapporti con gli altri” o “di vita ed etica”, dobbiamo dire “Eticamente”. 4 Bauman ci ha parlato di “società liquida”; Paolo Crepet e il Papa ci parlano da tempo, ciascuno a modo suo, delle sfide educative; Umberto Galimberti ha intitolato il suo libretto sui giovani e sul nichilismo L’ospite inquietante; in esso spiega che noi adulti abbiamo scambiato per profondità dei ragazzi quello che è soltanto “cortocircuito emotivo”; La fatica di crescere, di Vittorino Andreoli, ci parla di generazione digitale, che vive totalmente nel presente; nel recente film Gli sfiorati, di Matteo Rovere, i giovani sarebbero sfiorati da tutto, ma toccati da nulla. Il dott. Francesetti in questo convegno ci ha detto cose analoghe a quelle che troviamo nei libri di Galimberti, Andreoli, Crepet. Tutti gli studi sulla condizione giovanile, da quelli nazionali a quelli del dipartimento di Sociologia dell’università della Calabria; da quello che noi stessi abbiamo realizzato con la consulenza di un sociologo sugli studenti della nostra scuola a quello recentissimo realizzato nella cittadina di Castiglione Cosentino, segnalano che i giovani forse hanno tutto, ma sono soli, vittime dell’ospite inquietante di Galimberti, il nichilismo. Noi lo avevamo compreso grazie a
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In quegli stessi anni, chiamato dal collegio dei docenti ad assumere l’incarico per la cosiddetta “funzione strumentale” relativa ai servizi per gli studenti, ho proposto un progetto denominato “Dispersionezero”. Il progetto mirava ad affrontare il problema alla radice: mettere accanto a ogni studente e a ogni classe un “angelo custode”, un docente-tutor dotato di empatia e capace di suscitare fiducia, per costruire una relazione sincera, forte e duratura. L’impegno non doveva limitarsi alla sfera scolastica, ma doveva estendersi a tutto il vissuto dei giovani, perché, come ha spiegato Giuseppe Limone, il vissuto è unico e irripetibile e nasconde la profondità della persona. Il progetto “Dispersionezero” è stato minato dalla valanga progettista faie-scorda. Questa, per sommi capi, è l’esperienza da cui è nato il gruppo SOS scuola. Nel prossimo futuro, il gruppo affronterà i temi della libertà e delle sfide poste alla democrazia dalla globalizzazione e dalle tecnologie digitali, temi toccati anche da Giuseppe Limone in questo convegno. Il titolo che abbiamo scelto per il prossimo biennio è precisamente: “Tecnologie digitali, cultura, democrazia. Dove stiamo andando?”5. Un collega, durante la riunione di programmazione, ha detto: «Al giorno d’oggi ci si sente un po’ orfani culturalmente, perché i maestri della nostra giovinezza sono stati messi in crisi. La vera rivoluzione sta in una ridefinizione dei concetti fondamentali di libertà e democrazia perché la loro definizione classica ci sta stretta». Ebbene, quali sfide la democrazia subisce oggi? A noi pare che le sfide principali siano riconducibili ai nuovi mezzi d’informazione e al fenomeno della globalizzazione6. Noi insegnanti dobbiamo prendere atto che viviamo come sulle sabbie mobili: lavorando con la cultura, con le idee, con un semplice modello interpretativo, quello della scala dei bisogni di Maslow: senza scuola di vita, saltando i primi gradini, e privi, come spesso sono, di contenimenti autorevoli, i giovani rischiano di farsi molto male. 5 La democrazia è un sistema di governo contraddittorio e nient’affatto perfetto: chi vive in una dittatura, lotta per conquistarla, chi l’ha ricevuta in eredità, non l’apprezza, e rischia di perderla. La democrazia oggi dà disagio, come suggerisce il titolo del recentissimo libro di Carlo Galli, Il disagio della democrazia. La democrazia, del resto, può assomigliare moltissimo a una dittatura. Predrag Matvejevic, un vecchietto bosniaco, scrittore, ha coniato il termine “democratura”, una sorta di ossimoro, un ibrido tra democrazia e dittatura, democratura, appunto. Oggi la democrazia appare malata, dimezzata, azzoppata. 6 Appare emblematico, a questo riguardo, che il festival del diritto, che ha luogo a Piacenza, abbia avuto quest’anno per titolo “Umanità e tecnica” e l’anno prossimo avrà quello di “Solidarietà e conflitti”. Assai significativo è il fatto che i filosofi siano tornati a interrogarsi su “Realtà e interpretazione”. Per esempio, il festival della filosofia di Modena-Carpi-Sassuolo quest’anno ha affrontato il tema “Natura” e l’anno prossimo affronterà “Cose”, e, proprio in questo mese di ottobre, all’università della Calabria, si è svolto un convegno su “La natura della realtà sociale”.
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l’informazione (la grande sfera simbolica dell’esistenza, quella che ci rende umani), dobbiamo chiederci continuamente quali rischi corriamo, quale lavoro educativo sia possibile, quali interventi sono irrinunciabili7. La sintesi del lavoro d’avvio è sul sito ed ha già suscitato qualche reazione. Per quanto riguarda le attività, in novembre, i quattro studenti presenti a Vigevano proporranno un reportage sul nostro viaggio e sul convegno di Famiglia Aperta; in gennaio due gruppi di studenti proporranno due ipertesti sui diritti fondamentali presenti nella nostra Costituzione, confrontandoli con quelli che si rinvengono in altre “carte”, come la costituzione della Repubblica romana del 1849 e il Codice internazione dei diritti umani; intanto, un collega offrirà una conversazione sulla democrazia nell’antica Grecia; in gennaio, due colleghi proporranno un excursus sulle tecnologie digitali: sui fondamenti, le potenzialità, i limiti, i rischi; in primavera verrà in Calabria, da Novara, Piercarlo Maggiolini, docente di sistemi informativi al politecnico di Milano, e prete, curatore e coautore di un’opera in due volumi su etica e informatica, uscita da Franco Angeli, con il quale affronteremo il tema dell’etica in relazione alle tecnologie digitali e ai nuovi media. Stiamo pensando di invitare anche Stefano Rodotà, calabrese di Cosenza e “regista” del festival del diritto di Piacenza. Giuseppe Limone ha già detto che è disponibile a dialogare con noi in Calabria sui temi scottanti del nostro tempo, magari l’anno prossimo, dopo il lavoro preparatorio che svolgeremo quest’anno. Il Signore benedica la nostra opera.
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Negli anni Trenta del secolo scorso, Walter Benjamin ha pubblicato il suo L’opera d’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica, ma a quel tempo la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte e della cultura era rudimentale. Oggi quel libro andrebbe riscritto. Abbiamo, è vero, Mc Luhan e la metafora del “villaggio globale”, Homo videns di Sartori e La terza fase di Raffaele Simone, gli studi di Umberto Eco sui mass media, ma su questi temi servono una riflessione e un dibattito continui. Oggi però occorre tenere conto di tutto ciò che ruota intorno alle tecnologie informatiche e digitali, dal commercio elettronico, alla banca on line, all’e-book, ai social network. Giuseppe Limone, dal canto suo, sta svolgendo un grande lavoro intellettuale in tanti ambiti, compreso quello di Famiglia Aperta: aspettiamo di vedere fiorire un’opera organica e originale su questi temi cruciali della nostra esistenza sulla terra.
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Dibattito seguito all’incontro su Sos scuola a Vigevano (appunti a cura di C. Vitaro, relativi all’incontro del 21 novembre 2011) Emilia: voi avete fatto un’esperienza che è valida su più piani; vorrei chiedere quali sono i campi che avete individuato? (Anche se qualcuno è stato già detto, uno dei ragazzi diceva: «Abbiamo fatto un’esperienza di umanità», quindi ad un livello di “umanità” sicuramente avete fatto un’esperienza, perché vi siete confrontati con persone di altre generazioni, di altri posti, con un’altra cultura). Avete detto che avete fatto un’esperienza culturale e anche questo è vero evidentemente perché siete andati alla ricerca del duomo ma anche della casa di Manzoni, se non aveste studiato Manzoni non vi sarebbe venuto in mente di dire: «Andiamo a vedere dove questo grande scrittore abitava». Detto questo, avete trovato altri piani sui quali adesso vi potreste confrontare e dire: «Adesso siamo un po’ più ricchi?». Francesco: volevo sapere se, anche dal punto di vista personale, questa esperienza vi ha arricchito, vi ha cambiato in qualche modo; magari adesso non ne siete consapevoli del tutto, ma volevo sapere: «In che cosa vi ha migliorato quest’esperienza?». Fabrizio: come ha detto la compagna, noi non siamo più i protagonisti di questa vita che va “stretta”, perché magari i giovani di oggi fanno atti di violenza, bevono, si drogano e magari poi si lamentano perché non trovano posti di lavoro. Noi non siamo più quelli di prima. Giada: è stata un’esperienza molto importante anche perché sono andata a riscontrare cose che non sapevo, persone nuove, diverse da noi. Maria Rosaria: i ragazzi hanno difficoltà a trovare un ruolo in questa società. Io lo vedo perché lavoro in una scuola media e seguo alunni che manifestano questa difficoltà. Per esempio, ho una ragazza marocchina con un problema. Io penso che sia il fatto che lei crede di essere invisibile. Al contrario di Kamil, così come Silvester (il fratello) che hanno carattere completamente diverso, con i quali siamo riusciti a vivere belle esperienze insieme. Quindi io credo che il tipo di esigenza dipenda anche dai paesi di provenienza. Vi chiedo, dopo questa esperienza: «Che cosa fareste voi di fronte ad una situazione del genere? un compagno di origine diversa come potreste aiutarlo? che fareste? avete acquisito qualcosa?». Francesca S.: sono contenta di partecipare agli incontri di SOS scuola, infatti appena mi è stata data l’occasione di venire, ho subito accettato. Da 27
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come i ragazzi hanno illustrato il loro viaggio, si capisce che è stato bello, anzi hanno scambiato pure molte cose. Tommaso: SOS scuola propone un modo alternativo e originale di fare scuola. Serenella: è stata sicuramente una bella iniziativa, molto positiva. Però, allacciandomi a quello che dicevano prima i ragazzi, per quanto riguarda i giovani che presentano disagi vari e, per esempio, commettono atti vandalici: in questo possono avere un ruolo i genitori. Io credo che incida il fatto della scarsa presenza dei genitori nella vita dei giovani perché, lavorando, non si vive con i figli 24 ore su 24. Comunque c’è da dire che anche la società, oggi come oggi, trascina i ragazzi. Cristina: io voglio fare una premessa: diciamo che mi sono “pentita” di non aver fatto questo viaggio con loro, non solo perché stare tra amici è bello, ma anche perché oggi ho capito che, andando, anch’io avrei potuto imparare qualcosa in più, proprio come hanno fatto loro. Apprendere cose importanti sia dal convegno, sia da una serie di altre cose che adesso non elenco, è essenziale per la nostra vita. Anche il fatto stesso di avere un dialogo in questa maniera con i professori ci arricchisce. Se potessi tornare indietro, lo farei sicuramente. Francesca B.: per quello che diceva la signora prima, riguardo alla ragazzina marocchina, e di Kamil: io credo che questa diversità che avete riscontrato nei due ragazzi discenda dalla famiglia, dalle abitudini che hanno i genitori. Per i musulmani, sappiamo come la donna viene considerata: per loro è un problema affrontare la nostra società perché noi siamo l’esatto contrario. Io in Germania avevo un’amica turca che ha combattuto in famiglia per non portare il burqa, ma poi ha sposato un cugino di primo grado. Da noi una cosa del genere è assurda. Io mi sono ritrovata a vedere dei filmati, relativi a come i turchi residenti in Germania trascorrevano le ferie in Turchia, e sono rimasta a bocca aperta in quanto vedevo la schiera degli uomini da una parte e le donne dall’altra (a tavola la donna non può stare con gli uomini). Gianmarco: io credo che l’esperienza che i quattro studenti hanno vissuto è stata sicuramente bella perché hanno potuto conoscere altre realtà. Vorrei ritornare al discorso che ha fatto prima la signora Sorrentino: «Come ti comporteresti se ci fosse un bambino straniero nella tua classe?». Io prima di tutto lo aiuterei ad entrare in questa società, perché è una società veramente difficile, dato che ci sono quelli più bulletti che ti prendono in giro. Lo dico per esperienza personale perché anche io ho vissuto episodi di questo genere. Io reagisco veramente male, perché loro, anche se lo dicono scherzando, lo fanno con una cattiveria capace di ferirti il cuore. E, come già detto, aiuterei que-
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sta persona magari portandola a casa, offrendogli il nostro cibo. Poi si potrebbero fare i compiti insieme, potrei aiutarla nella lingua e nella pronuncia. Alfio: l’esperienza di questi ragazzi non mi è sembrata una gita, della gita scolastica ha il fatto che sono andati fuori dalla scuola, che sono stati accompagnati. Che cosa ha reso originale e diversa l’esperienza di questi ragazzi? Il fatto che già nella preparazione hanno discusso, con l’aiuto del professore Cariati, dei contenuti del viaggio: del cosa si andava a fare. E di positivo in questi ragazzi c’è il fatto che sono andati lì con i loro limiti, con un po’ di paura e con un po’ di curiosità. Io così farei le gite. Non per classe ma per interesse. Angela: io sono appena reduce da un viaggio a Dublino e sono stata un mese con i ragazzi. Io dico che stare un mese con loro è sempre bello perché è un arricchimento per noi e per loro. In queste occasioni li riscopriamo veramente nel loro essere più intimo. È stata molto bella l’esperienza fatta fuori, così com’è stato bello, l’anno scorso, quando abbiamo fatto il lavoro con la tecnica della “tavola rotonda”, sulla tematica dell’immigrazione proposta da Famiglia Aperta. Gaëlle: ritornando alla ragazzina marocchina, secondo me il problema è come entrare in relazione con lei e non come insegnarle qualcosa. Quando uno vuole mettersi in relazione con l’altro la prima cosa da fare è mettersi in gioco. Questa relazione può costruirsi attraverso un interesse, per esempio, le si potrebbe chiedere di portare delle musiche del suo paese, o farle disegnare il suo paese, capire quali sono per lei i valori importanti, o magari iniziando a portare noi le nostre musiche. È stato dimostrato che se uno sorride, l’altro che gli sta di fronte è portato a sorridere. Rosa: sono colpita dall’interesse suscitato da questa esperienza. Senz’altro ha ragione Alfio quando dice che gli alunni, prima di portarli ad un viaggio di istruzione, andrebbero preparati e andrebbero portati in posti significativi. E poi quando Fabrizio dice che usavano un linguaggio colto, ci dice che, dal suo piccolo, li vedeva come grandi personaggi, magari proprio per la mancanza di contatti continui con persone di questo livello. E io direi che bisogna proprio cercare di rendere tutto più omogeneo e levare questa differenza di linguaggi. Francesco: siccome c’era questa richiesta di avere un linguaggio più alto, il fatto di avere un primo ministro come Monti che usa un linguaggio alto (io l’altra volta lo seguivo e sentivo espressioni come “economia duale ” oppure “uno iato”), allora, se i termini sono questi, io posso anche fare una lezione su cosa sia un’economia duale, ma se i termini sono “bunga bunga”, che cosa faccio? Siccome il linguaggio televisivo ci condiziona molto, forse è il caso di cambiare le cose radicalmente. 29
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L’ITE “Vincenzo Cosentino” incontra don Aniello Manganiello, prete “anticamorra"“ (a cura di M. Caiazzo, A. Gerbasi e S. Lio) L’ITE “Vincenzo Cosentino” ha scelto di mettere al centro della sua attenzione e della sua attività il tema della legalità, così attuale nel nostro territorio, in particolare in questo periodo caratterizzato dall’acuirsi del fenomeno delle rapine, del bullismo, degli omicidi tra esponenti della criminalità locale. Accanto all’esigenza del rispetto delle regole e della repressione dei fatti criminosi, noi intendiamo interrogarci sull’altro tema forte a livello sociale che coinvolge in maniera prioritaria i giovani: la prevenzione. Per questo motivo la nostra scuola ha scelto di invitare don Aniello Manganiello, prete che ha operato a Napoli, nel noto quartiere di Scampia, autore del libro edito da Rizzoli Gesù è più forte della camorra. Sedici anni a Scampia tra lotta e misericordia. L’incontro con l’autore si è svolto il 7 novembre 2011 nell’auditorium dell’ITE “V. Cosentino”. Hanno partecipato le classi quinte dell’istituto e alcune classi di altre scuole del territorio. Sono intervenuti il giudice Eugenio Facciolla, mons. Vincenzo Filice e il prof. Enzo Bova. Gli studenti hanno partecipato con molto interesse. Don Aniello ha concluso i lavori sottolineando i temi della devianza giovanile, dell’accoglienza, del contributo che i giovani possono dare alla crescita del proprio territorio, nonostante le difficoltà e le problematiche legate alla disoccupazione, al degrado, alla violenza diffusa.
La camorra è l’uomo nero. Intervista a don Aniello Manganiello tratto da http://www.serviziocivilemagazine.it
Don Manganiello, come spiegherebbe a dei bambini, non di Scampia, cos’è la camorra? La camorra è l’uomo nero, quello che rappresenta le paure, il pericolo, le violenze, quello che mi vuole portare via l’affetto dei genitori, la casa, i giocattoli. È quello che mi dà le botte, che vuole rubare in casa mia. È quello contro cui mio padre non può far nulla. In realtà è proprio questo l’operato della camorra in quel contesto: limitare la libertà d’azione a tutti, dai piccoli ai più anziani. È quello che detta legge nel commercio, quello che spaccia la droga e morte, è quello che porta via il guadagno di una vita. È l’usuraio che 30
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mi chiede percentuali alte sui prestiti, quello che spara per strada per scippare e uccide per vendicarsi. È quello che ruba a papà e mamma, quello che ci punta la pistola per portar via il portafogli, l’orologio e i gioielli. Scampia. Quale fu il primo impatto, quando decisero di trasferirla lì da Roma? A Scampia, mi presero per un tossicodipendente. Per il mio modo di vestire, il colletto slacciato, jeans neri. Ci sono andato con molta paura, non per Scampia in particolare: la mia era una paura diffusa, per tutta il circondario napoletano. Napoli, città del furto, dell’imbroglio, dell’illegalità. Sono arrivato così e nemmeno volevo andarci, provenivo da Roma, dal quartiere Prati, dove avevo vissuto un’esperienza bellissima, idilliaca direi ed andare a Scampia, ovviamente mi spaventava. Per tre anni ho dovuto faticare. Sono stato lo zimbello dei tanti tossicodipendenti. Mi raccontavano storie di povertà e di bisogni personali. Mi chiedevano soldi e io glieli davo, credendo così di aiutare le loro famiglie. Solo dopo tanto tempo, alcune persone cominciarono a spiegarmi che erano tutte bugie, e che i soldi che davo servivano a tutt’altro, per comprare droga e certamente non per le vicissitudini familiari. Allora, aprii gli occhi e sono diventato fermo e severo, ma con una progettualità e prassi per aiutare i tossici ed ex tossici in un cammino di rinascita. I tossicodipendenti che venivano a chiedere soldi e aiuto, li accompagnavo personalmente presso le comunità, seguendoli nella loro guarigione, specializzando il mio intervento in merito a quel problema. Il suo è un libro di denuncia o più di testimonianza? Quanto è importante dare speranza alle persone che l’hanno persa? Sia di denuncia che di testimonianza. Di denuncia, perché metto nero su bianco tutti i torti che sono stati fatti nei confronti di Scampia. Di denuncia verso chi ha fatto male a Scampia. Le istituzioni sono assenti, la polizia è corrotta. Io ho fatto allargare i marciapiedi e ho raccolto firme per far smuovere le istituzioni. Quando arrivai via Don Guanella era disseminata di siringhe: noi le abbiamo ripulite. Nel libro ho detto che la Iervolino si dovrebbe vergognare perché il Comune non paga dal 2007 le rette giornaliere di 12.00 euro, per il semiconvitto dei minori a rischio affidati alla parrocchia che sono circa 300. Come posso tacere? Di testimonianza, per le conversioni di noti camorristi che racconto come quella di Giuseppe Sarno, fratello di Costantino, capo clan, che quando venne scarcerato all’inizio del 2000 mi aveva incontrato e aveva confessato di volersi rifare un vita, lontano da Napoli. Due sere dopo, tornando dal commissariato dove doveva andare a firmare, fu freddato da due killer. Testimonio l’impegno di tanti operatori che quotidianamente danno il loro contributo gratuito per rispondere alla richiesta di assistenza ed aiuto 31
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delle tante famiglie bisognose: i comitati di resistenza anti-camorra di Scampia, Mammut, il centro di sperimentazione e di ricerca pedagogica che ha sede a Scampia, i Gesuiti e tante associazioni che s’impegnano quotidianamente tanto portando risposte e speranza. Camorra, politica, Chiesa. Quale il loro rapporto? Nel corso di questi anni sono stati al mio fianco politici sia di destra che di sinistra: il 23 giugno prossimo, a Montecitorio, Gianfranco Fini insieme ad altri esponenti politici presenterà il mio libro. Un tempo la politica scendeva a compromessi con la camorra per accaparrarsi i voti, oggi la camorra è parte integrale delle istituzioni. Oggi occupa poltrone nei consigli delle municipalità napoletane, e anche nelle istituzioni superiori. La Chiesa nei confronti della politica dovrebbe essere più autoritaria, perorando ad esempio, come ho già detto, le iniziative contro la cattiva gestione pubblica, inoltre dovrebbe appoggiare ed affiancare, alzando forte la sua voce, chi è esempio e portatore di valori etici. La Chiesa ha il compito e il dovere di educare, il che è diverso dall’insegnare. Il cardinale Sepe in passato più volte si è prodigato per questo, e ne sono contento.
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Visita a Riace (appunti di F. Ricchio e C. Vitaro) Giorno 13 novembre 2011 ci siamo recati a Riace (provincia di Reggio Calabria) dove abbiamo “toccato con mano” il forte fenomeno dell’immigrazione. Questo dramma riguarda sempre più persone dei paesi meno sviluppati. La meta della nostra visita è stata scelta perché Riace è il cosiddetto “paese dell’accoglienza”. Qui nel 1998 è stata fondata un’associazione, “Città futura”, con lo scopo di accogliere, sistemare e integrare immigrati provenienti da varie parti del mondo, in particolare Eritrea, Kurdistan, Iraq, Afghanistan, Somalia, Etiopia, Libano, Palestina. Dovevamo incontrare il sindaco, ma per motivi amministrativi “ci ha dato buca”. Perciò a parlarci, di come l’Associazione e il paese si impegnano a portare avanti l’importante progetto dell’accoglienza, è stata la signora Caterina Saraca. Per i primi due anni l’Associazione ha operato senza alcun supporto da parte dello Stato. Ma, nonostante tutto, i fondatori sono riusciti a far sorgere su solide basi un vero e proprio modello di convivenza multietnico. La Saraca ci ha raccontato alcune storie di persone che hanno trovato in questa penisola un briciolo di speranza: ci ha parlato di come aiutano e danno una mano a queste persone. Poi ci ha fatto vedere con i nostri occhi quali risultati sono stati raggiunti: abbiamo visitato la scuola dove queste persone frequentano ogni giorno le lezioni per imparare a leggere e scrivere la nostra lingua. Nelle classi abbiamo potuto parlare e conoscere meglio la storia di alcuni di loro. Quella che ci ha colpito di più è stata la storia di un signore originario della Somalia che, prima di approdare sulle coste della Puglia, ha vissuto per circa diciotto anni in Libia. La recente guerra di Libia lo ha costretto ad abbandonare, con la sua famiglia, la Libia su una “barca della speranza”, senza sapere se sarebbero arrivati vivi (ma rimanere sarebbe stato comunque una morte certa). Dopo aver visitato la scuola, siamo andati a visitare i laboratori artigianali dove alcuni immigrati lavorano. Ci sono laboratori della ceramica, del legno, del vetro soffiato. In ciascuno di essi abbiamo incontrato una collaboratrice dell’Associazione e uno o due persone straniere. I prodotti realizzati in questi laboratori vengono esposti e venduti in molte botteghe della nostra regione. Questo paese ha lasciato un segno in tutti noi in quanto abbiamo conosciuto una realtà che molti ignorano, ma che tutti dovrebbero conoscere. 33
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Nel pomeriggio ci siamo recati a Stilo, città natale di Tommaso Campanella, per visitare la Cattolica: una piccola chiesa bizantina a pianta di forma quadrata. La denominazione di “Cattolica” sta ad indicare la categoria delle “chiese privilegiate” di primo grado, essa spetterebbe solo alle Chiese munite di battistero. La Cattolica di Stilo costituisce un gioiello di architettura puramente e tipicamente bizantina. Dopo aver visitato Stilo, speravamo di andare a visitare il monastero di San Giovanni Therestis di Bivongi, abitato da monaci ortodossi del monte Athos o della Romania, ma l’autobus non è riuscito a salire per la strada stretta che porta al monastero. Allora si è deciso di andare via facendo una sosta a Mammola per visitare il MuSaBa (Museo Santa Barbara) di Nik Spatari. MuSaBa è situato nella valle del Torbido. La sera, durante il viaggio di ritorno verso casa, ci siamo fermati a Pizzo per mangiare un tartufo. È stata una giornata intensa e bellissima che ha suscitato molte emozioni in tutti.
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Emigrazione ed accoglienza in Calabria, due facce della stessa medaglia (di Tommaso Cariati) Davanti al municipio di Riace, borgo collinare dell’alto Ionio reggino, c’è un dipinto murale che reca la scritta: «L’accoglienza è nelle nostre radici». In questo paese, dalla fine degli anni Novanta, una rete formata dall’associazione Città futura, dal comune e dagli stessi cittadini offre ai profughi che giungono con le carrette del mare, o in altra maniera non meno avventurosa, casa, cibo, assistenza, vestiario, istruzione, perfino lavoro. Il caso è stato raccontato dal film documentario Il volo, di Wim Wenders, che però è stato girato a Badolato, altro paesino della fascia ionica, situato un poco più a nord, in provincia di Catanzaro. Riace, grazie a quell’iniziativa meritoria, ha ritrovato una certa vitalità: alcuni giovani disoccupati hanno trovato un impiego, la scuola non ha chiuso i battenti, gli stessi stranieri vengono impiegati nelle botteghe aperte dalla rete umanitaria. Vi sono infatti, dispersi nei vicoli del paese, diversi laboratori per la costruzione di souvenir, ottenuti usando l’argilla, il vetro, il legno multistrato, la stoffa. La mattina di una bellissima giornata di novembre, viaggiando verso Reggio Calabria, diretti proprio a Riace, ripensiamo alle scene del cortometraggio di Wenders e cerchiamo di raffigurarci il paese dell’accoglienza. Intanto sfilano le colline calabresi con i loro chiaroscuri prodotti dalla luce del sole obliqua, i ciuffi di pioppi seminudi nelle valli roride, fitti e snelli, dalle foglie immobili per totale assenza di brezza, gli agrumeti abbandonati e quelli che ancora ricevono qualche cura, gli ulivi secolari, alti e selvatici come querce, gli impianti recenti di kiwi a pergoli. Il mare di Pizzo, poc’anzi, dal viadotto, era una lastra piatta e liscia di cobalto. Giunti sull’altro versante, l’aria è calda, quasi come nelle belle giornate di tarda estate. L’autobus si inerpica per le modeste alture, che sono grumi secchi di argilla chiara, che, bagnati, diventano grigio-verdastri, solcati da calanchi e privi di vegetazione, quasi dovunque. Lungo la strada, che appare alquanto trascurata, sfilano mandorli con i frutti tenacemente attaccati ai rami nudi, e fichi d’India esibiscono sporadici frutti spinosi e rossastri. La coordinatrice dell’associazione Città futura, Caterina Saraca, ci racconta come è nata, da queste parti, alla fine degli anni Novanta, l’esperienza dell’accoglienza resa famosa dal cortometraggio di Wim Wenders. Poi ci invita a visitare la scuola: vi sono tre classi frequentate da alcune persone di 35
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colore. La classe più numerosa è quella dei “minori non accompagnati”, giovanottoni ai quali stentiamo ad attribuire meno di diciotto anni. In questa scuola singolare si insegna l’italiano, come a bambini di prima elementare. Anche la bidella è di colore. Purtroppo non riusciamo a dialogare con questi studenti, ciascuno dei quali dovrebbe avere un’odissea personale da raccontare, e sentimenti, emozioni, rabbia, misti a gioia di vivere. Pensiamo al film documentario Come un uomo sulla terra e siamo sicuri che ognuno di loro custodisce un dramma degno di Shakespeare. È un vero peccato che non si possa parlare con questi sopravvissuti, sorseggiando un tè caldo e guardandosi negli occhi, da uomo a uomo, come avrebbe detto Corrado Alvaro. Dopo la visita alla “scuola adulti”, la Saraca ci accompagna alle botteghe -laboratorio: una sorta di catuoju minuscolo nel quale una donna del luogo, dai capelli corvini e lisci, e un uomo che sembra indiano costruiscono al tornio e, in seguito dipingono, oggetti in argilla; una cantina nella quale due donne mostrano centrini, bavaglini e tappetini ricamati; un catuoju stretto e lungo, come un antro, nel quale una giovane donna bionda e una di colore, forse eritrea, producono oggettini in vetro; uno stanzone, attrezzato con computer e macchine utensili automatiche, nel quale due donne africane producono e dipingono figure africane stilizzate: le figure variopinte costano dai venti ai trenta euro, e pare che vengano ordinate anche tramite un sito web, in una sorta di sistema di e-commerce. Abbiamo tanto sperato di vedere, all’uscita della scuola, i bambini di tutti i colori, ma non è stato possibile. Chi sa se, come si vede nel film di Wenders, l’unico bambino del posto ha trovato compagni con i quali giocare a calcio? Il borgo, al nostro arrivo, ci è apparso troppo tranquillo: al bar, all’angolo della piazza dove sorge il municipio, alcuni vecchi giocavano a carte e si godevano il tepore del sole autunnale. Inoltrandoci per le vie, abbiamo incontrato qualche donna anziana, qualche manovale intento a impastare malta cementizia, gestori di minuscoli negozi: uno di questi, un uomo giovane, assicura che da alcuni anni il paese, nella bella stagione, è frequentatissimo. Nell’aria, troppo calda, non c’è il profumo tipico del legno d’ulivo bruciato nei focolari. Durante la visita mancano pure quei sapori e quegli odori familiari dei paesi del Sud. Forse nell’aria percepiamo qualcosa di incomunicabile, di non detto o di indicibile. Azzardo un confronto con i miei giovani compagni di viaggio. «Che ve ne pare, l’integrazione funziona?». Michele: «Mi ha colpito che la signora abbia tenuto a precisare che non si tratta di “immigrati” ma di “rifugiati”».
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Rosaria: «Infatti questi non se la passano male, non vivono mica come quelli di Rosarno. Avete sentito che a volte protestano perché il colore delle tende del salotto non è intonato a quello dei divani?». Salvatore: «Ho sentito anche che alcuni profughi vogliono andare in Svezia, perché lì, più prodighi ed accoglienti dei calabresi, le autorità danno a ciascuno una carta di credito che viene ricaricata automaticamente». Maria: «Io sono perplessa. C’è qualcosa di artificiale in quello che abbiamo visto. Per esempio, arrivando ho scorto una donna, certamente non africana, ma del luogo, curva sotto un ulivo intenta a raccogliere quelle piccolissime perle nere per produrre qualche bottiglia d’olio per i figli, ostacolata dall’erba troppo fitta e alta, e mi chiedo che rapporto ci sia tra la sua fatica umile, identica a quella dei suoi antenati, e quanto ci è stato mostrato in paese». Michele: «Gli immigrati, i profughi trasmigrano a causa di guerre o di motivi politici, o sono costretti a fuggire da condanne come la lapidazione e la pena di morte. Ma scelgono di venire in Italia perché qui vige una costituzione democratica, e leggi più permissive». Salvatore: «È un problema che varia da etnia a etnia. Alcuni riescono ad inserirsi bene, mentre altri no. Io sono contrario all’immigrazione anche perché il denaro che guadagnano verrà speso nel loro paese, e ciò è negativo per l’economia italiana. E poi, se gli immigrati hanno un certo tipo di cultura, come il maschilismo e la poligamia, incontreranno comunque difficoltà a relazionarsi. Per non parlare di questi che, in quanto profughi, sono trattati con i guanti bianchi». Maria: «Noi siamo un popolo di emigranti, come insegna bene Vito Teti da San Nicola da Crissa – forse ci sono più calabresi sparsi nelle varie parti del mondo che in Calabria –, e non dovrei pensare certe cose, ma il fenomeno dell’immigrazione è negativo per gli italiani, perché, con questa crisi nera, se qualcuno di noi ha veramente bisogno, si accontenta di fare qualsiasi lavoro; invece, se ci sono gli immigrati che accettano di lavorare a basso costo e al nero, il lavoro non è più disponibile». Rosaria: «Gli immigrati rischiano la vita spinti dai bisogni elementari: mangiare, vestirsi, curarsi. Vengono in Italia per non morire, ma anche noi abbiamo bisogno di loro, perché noi, troppo benestanti, un sacco di lavori, come accudire i bambini e gli anziani, non vogliamo più farli. Niente paura però: l’umanità è migrante, è sempre stata in movimento, nomade. Per esempio, noi meridionali continuiamo a emigrare: gli studenti, i laureati continuano ad andare al Nord e all’estero. Certo, l’incontro con altre genti ci mette alla prova. Che cosa dobbiamo fare?».
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Salvatore: «Noi crediamo che gli “stranieri” siano “gli altri” e che la “nostra” penisoletta sia “nostra proprietà”. Se ci guardassimo attentamente allo specchio, se tenessimo conto della nostra statura, del colore della nostra pelle, dei nostri caratteri somatici e dei nostri capelli, ci renderemmo conto che noi – attraverso i nostri progenitori, ovviamente – siamo giunti in queste terre solo qualche secolo prima dei nordafricani e degli afgani che vi giungono oggi avventurosamente: forse queste terre incuneate nel Mediterraneo tra mezzo secolo, visto che noi non vogliamo avere figli, apparterranno a questi nuovi abitanti, che sono dotati di coraggio e di spirito d’avventura non comuni». Rosaria: «Io credo che a tutti dovrebbero essere garantiti i diritti umani essenziali: cibo e vestiti, alloggio, istruzione, assistenza medica e legale. A tutti coloro che pensano di radicarsi qui si dovrebbe concedere subito una sorta di cittadinanza provvisoria, in attesa di conferma dopo un certo tempo, durante il quale la persona viene seguita, aiutata e osservata da gente specializzata. A nessuno dovrebbe essere permesso di sfruttare gli immigrati, e a chi sfrutta i clandestini, riduce in schiavitù un uomo, o lucra sul traffico di esseri umani dovrebbero essere comminate pene veramente severe». Salvatore: «Il governo e il parlamento dovrebbero studiare sussidi per imprenditori, artigiani, comunità, associazioni, famiglie che offrono progetti di inserimento e di aiuto a qualche straniero che vuole lavorare seriamente per un progetto di vita con noi. Il governo dovrebbe stanziare risorse che permettano di impiegare figure professionali adeguate alle necessità enormi d’assistenza per le persone che vogliono inserirsi nel nostro paese, creando così posti di lavoro per i giovani italiani disoccupati, come in piccolo è avvenuto a Riace». Ho stuzzicato forse troppo la fantasia dei miei giovani interlocutori. Nondimeno, i pensieri che esprimono, ancorché contraddittori, non vanno presi sottogamba. Sarà che, come recita il motto del murale, «l’accoglienza è nelle nostre radici», ma l’integrazione non è bere un bicchiere d’acqua fresca. Andando via da Riace, visitiamo la città di Tommaso Campanella. La Cattolica di Stilo suggerisce qualche riflessione ulteriore. In queste contrade, durante l’alto Medioevo, i cosiddetti monaci basiliani, in fuga dall’Oriente, diedero vita a una rete capillare di luoghi di preghiera, laure abitate da minuscole comunità di monaci, e grotte e anfratti abitati da anacoreti. Nei giorni di festa, tutti i monaci di un certo territorio si radunavano per celebrare la messa in una chiesa, detta “cattolica”. La Cattolica di Stilo, di pochi metri quadrati, gioiello dell’architettura bizantina calabrese, è solo uno di questi luoghi di culto. Ebbene, quale messaggio diffondevano i monaci basiliani? La buona
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novella dell’evangelo, al punto che padre Pino Stancari ha potuto scrivere che la Calabria è terra in cui l’evangelo è penetrato in profondità, nel sottosuolo. Monsignor Bregantini, oriundo del Trentino-Alto Adige, ma perfettamente sintonizzato con la radice cristiana della Calabria, ha saputo farsi accogliere a Locri, ed ha accolto Mirella Muià, alle porte di Gerace, proprio presso una chiesa bizantina, e il francese Frédéric Vermorel, nell’eremo di sant’Ilarione, tra Stilo e Caulonia. Entrambi questi luoghi, a loro volta, sono oggi centri di preghiera e di accoglienza. La fantasia artistica di Wim Wenders fa iniziare Il volo con un pensiero rivolto ad Ulisse. Nulla da eccepire; ma che rapporto c’è tra Ulisse e i profughi trasportati dalle carrette del mare? Apparentemente nessuno, visto che Ulisse voleva fare ritorno a casa, mentre questi viaggiatori del Terzo millennio vanno, caso mai, verso una terra promessa, come Abramo, nell’Antico Testamento, e come i monaci basiliani, nell’alto Medioevo. Questa semplice considerazione avrebbe permesso al regista de Il volo di cogliere la sorgente dell’accoglienza in Calabria. Questa sorgente, però, non ha irrorato tutto il campo in modo uniforme, o, se lo ha fatto, il sole cocente delle estati calabresi ha prosciugato molti lembi di territorio, e molti cuori, altrimenti come spiegare la strage di Duisburg, in Germania? Perché Rosarno e perché gli attentati contro le cooperative sociali di Locri, avviate per il bene dei calabresi da Bregantini, che è stato per anni vescovo della diocesi di Locri-Gerace? Perché a Rende, in un condominio, per un materasso si va in tribunale? Perché a Castiglione Cosentino si aspetta diciotto anni per allargare, di venti centimetri, un piccolo tratto di strada comunale? Perché le liti tra coniugi, e i divorzi sono frequenti quasi come a Milano? Perché il sentimento della famiglia degenera spesso in familismo, in cricca, in clan? Se Wim Wenders avesse interrogato Luigi Maria Lombardi Satriani, da Briatico, o Giulio Palange, da Cosenza, avrebbe scoperto che, qui in Calabria, il cristianesimo convive da secoli con il paganesimo; alla stessa conclusione sarebbe giunto se avesse assistito alla preparazione, da parte della famiglia, di un defunto per la sepoltura. Ciò nonostante, l’accoglienza in Calabria è viva, specialmente negli strati umili della popolazione, anche se mista a diffidenza o a vera e propria paura ancestrale, come segnalano i detti popolari l’ospitu è cumu ’u pisciu, roppu tre gghiurni puzza e china intra ti puorti, fora ti caccia. A un tiro di schioppo da Stilo, del resto, appena oltre il gran solco dello Stilaro, in agro di Bivongi, si trova il monastero di San Giovanni Therestis, un antico monastero bizantino rimesso in piedi ed abitato da monaci ortodossi provenienti dal monte Athos o dalla Romania. Ebbene, nonostante i cristiani d’Oriente e quelli d’Occidente professino in tutto la stessa fede, confessando 39
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di credere “la Chiesa una”, litigano da almeno un millennio per la cosiddetta questione del “filioque”. E nonostante gli albanesi di Calabria, giunti in queste terre alla fine del XV sec. e ben radicati in esse, siano, da una parte, un ottimo esempio di accoglienza riuscita, e, dall’altra, un ponte tra Oriente ed Occidente cristiano perché conservano il rito greco e la lingua, poiché, per ragioni pratiche, hanno deciso di obbedire al Papa, sono considerati traditori dagli ortodossi, e non potenziali messaggeri di pace e di riconciliazione. Si racconta che Nilos Vatopedinos, un calabrese fattosi ortodosso, inviti spesso i cattolici a imitarlo perché “quando la mamma era assente, andava bene pure la matrigna, ma ora che la mamma è tornata, come al monastero di Bivongi, perché stare oltre con la matrigna?”. Viene in mente quel giorno in cui, durante un gioco di interazione proposto da operatori sociali, in un campo sul tema dell’accoglienza e dell’affido, alla domanda: «Che cosa è l’accoglienza?», qualcuno ha risposto: «Un tramonto», qualche altro: «Armonia». La dottoressa che ha proposto quel gioco ha commentato che, nel primo caso, se chi deve essere accolto non ama i tramonti, è un bel guaio; così come, nel secondo caso, se un giorno l’armonia temporaneamente si rompe e spunta il conflitto, perché la relazione deve evolvere e stabilirsi su un piano diverso, siamo fritti. Andando via dalla costa ionica, sazi di riflessioni sull’integrazione e sull’accoglienza, abbiamo deciso di fermarci a salutare Nik Spatari, al parcomuseo Musaba, in agro di Mammola. Era il tramonto e Nik, ottantadue anni, lavorava alla sua nuova opera gigantesca sulla storia di Abramo: un mosaico realizzato con piastrelle, quelle che si usano nelle case per rivestire bagni e cucine. Ci ha accolti, sospendendo il lavoro, felice di poterci spiegare il rapporto che, secondo lui, da una parte intercorre tra Abramo, i Sumeri e gli Ittiti, dall’altra, tra questi ultimi e la Calabria. La verità, ci pare, è questa: da un lato, Nik ha succhiato il latte dal seno di una donna calabrese d’altri tempi, umile e cattolica, e con il latte, senza saperlo, ha assorbito l’accoglienza evangelica, dall’altro, Nik, artista autentico, dedica tutta la vita a una ricerca di senso, prima che di espressione artistica, alla maniera degli anacoreti basiliani. Queste due caratteristiche lo rendono felice di dialogare con chi è seriamente interessato alla sua opera ciclopica, che è anche ricerca biblica e spirituale: lo dimostrano questo mosaico su Abramo e Il sogno di Giacobbe, realizzato negli anni Novanta, sul sommo del cocuzzolo del parco-museo di Santa Barbara. Da Nik Spatari abbiamo incontrato un indiano, un giovane factotum, ospite, crediamo, gradito. Questo giovane, che ha lasciato la moglie in India, alla quale riesce a fare visita una volta ogni due o tre anni, appare perfettamente inserito come in una famiglia vera, e, a sua volta, si mostra gentile e accogliente con noi; ne siamo lieti e gliene siamo grati. 40
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Wim Wenders, che cita Ulisse, cerca forse, come Norman Douglas e altri viaggiatori occidentali, la Calabria pagana. Nik Spatari cerca, invece, semplicemente, le sue radici, sia pure compiendo un giro tortuoso e lunghissimo; speriamo che lo conduca a casa. Wenders insegue l’Ulisse girovago, caro agli intellettuali atei, approdato forse un giorno sulle sponde di questo mare; Spatari parte dai Sumeri e dagli Ittiti per giungere a Giacobbe e ad Abramo, e forse all’evangelo. Forse però essi non sanno che Franco Mosino, da Reggio Calabria, intellettuale “filoellenico”, quanto ad ipotesi ardite, si è spinto molto più in là: ha affermato, infatti, che l’Odissea stessa è stata scritta in Calabria. Viaggiando verso Cosenza, ci torna in mente il seguente fatto. Dell’evangelo è arcinota la parabola del buon samaritano, e molti credono – commettendo un discreto abuso, come disse un giorno padre Pino Stancari, guarda caso, in un campo sull’accoglienza – che buon samaritano è ognuno di noi quando facciamo come Città futura fa a Riace, o quando diamo una mano alla Caritas, o facciamo volontariato, o lavoriamo nel “terzo settore”. Invece, Gesù solo – disse padre Pino – è il buon samaritano, e, solo se ci mettiamo al suo fianco con umiltà, lui compie, per noi, il miracolo dell’accoglienza. L’invito: «Va’ e fa’ lo stesso», che alla fine della parabola viene rivolto da Gesù all’interlocutore, mi è parso sempre da completare così: «Va’ e fa’ lo stesso, se ne sei capace (scoprirai che hai bisogno di me in quest’opera immensa)». Accoglienza e integrazione non sono bere un bicchiere d’acqua fresca, ma processi lunghi, impegnativi, dolorosi; essi richiedono lotta lunga e continua, e preghiera ininterrotta e intensa. L’incontro con l’“altro” fa sempre un po’ paura. Ma l’incontro avviene sempre con l’“altro”, non con un clone di noi stessi. Purtroppo, noi siamo portati a credere che il nero o il giallo siano “stranieri” e “barbari”, invece, le persone che ci assomigliano – per patrimonio genetico e caratteri somatici, per colore della pelle, o per tipo e colore dei capelli, o per lingua – siano come noi, dimenticando, da una parte, che anche gli “stranieri” sono persone, dall’altra, che il vicino di pianerottolo, che incontriamo ogni giorno, è anch’egli straniero e può essere nostro nemico. Anche il coniuge e i figli, con i quali condividiamo tutto, sono stranieri da incontrare, riconoscere ed accogliere ogni giorno della nostra vita. Forse l’accoglienza è nelle nostre radici, ma, talvolta, fatica a passare per il cuore e salire al cervello.
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SOS scuola sulle orme di Gioacchino da Fiore (appunti di F. Fazio e F. Marrelli relativi alla gita dell’11 dicembre 2011) La prima cosa che colpisce a San Giovanni in Fiore è l’Abbazia. L’Abbazia Florense è fra i più grandi edifici religiosi della Calabria, grazie all’imponenza dell’intero complesso badiale. Essendo il primo edificio ed insediamento di San Giovanni in Fiore, decreta anche la nascita della città. La costruzione dell’Abbazia è legata a un lungo corso di avvenimenti: Gioacchino, il fondatore del monastero, viaggiò da giovane, venendo accolto in numerose comunità monastiche. Affinò la sua spiritualità per molti anni ricercando, dopo la nascita di un grande bisogno di meditazione, un luogo dove, regnando la pace, si potesse abitare. Giungendo al di sopra della valle del fiume Arvo, Gioacchino scelse in quel luogo il punto di edificazione del monastero, dedicato a San Giovanni Evangelista. L’Abbazia venne iniziata a costruire intorno al 1215 dall’ideazione dell’architetto e vescovo Luca Campano, che, tra le altre cose, fu autore del Duomo di Cosenza; la costruzione risultò molto faticosa per i monaci, che dovettero vivere in condizioni precarie fino al completamento dell’opera, avvenuto nel 1230.
Ma chi era Gioacchino da Fiore? “Il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato” (Dante, Paradiso XII 140-141 ). Durante la sua vita fatta di studi e pensieri, Gioacchino da Fiore ci ha lasciato, senza contare tutte le opere andate perdute o non trascritte del tutto, 42
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un totale di 33 libri e trattati, a cui vanno aggiunti un insieme di manoscritti vari, gli Opuscoli. I più importanti, sia per i temi trattati che per l’originalità, sono:
- Concordia Novi ac Veteris Testamenti
- Expositio in Apocalypsim - Psalterium decem chordarum - Liber Figurarum I primi tre libri trattano l’innovativa interpretazione delle Sacre Scritture; nonostante appunto l’importanza di queste tre opere, vennero messe per iscritto solo sotto l’esortazione di Papa Lucio III; il Liber Figurarum è una raccolta di immagini mirate a favorire una comprensibilità maggiore delle opere dell’abate.
Dal 1982 a San Giovanni esiste un Centro internazionale di studi gioachimiti. Questo ente culturale, posto all’ultimo piano dell’ala orientale della stessa Abbazia, ha lo scopo di diffondere il pensiero di uno dei più famosi 43
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pensatori e teologi cattolico-medievali, Gioacchino da Fiore, ma non solo: il Centro, infatti, si propone di raccogliere sia le opere dell’abate, sia quelle che trattano della sua vita e i suoi studi, sparse in tutto il territorio europeo. Questo continuo lavoro è testimoniato e ammirato oltretutto dal gran numero di curiosi, studenti, religiosi di tutto il mondo che si recano ogni anno a visitare l’Abbazia e osservare da vicino i disegni contenuti nel Liber Figurarum del grande pensatore. L’incontro che abbiamo avuto il giorno della visita con il Presidente del Centro, dott. Giuseppe Riccardo Succurro, è stato estremamente interessante. Durante la visita a San Giovanni siamo entrati anche nelle case private e abbiamo assistito alla preparazione di dolci tipici. La pitta ’mpigliata è un dolce tipico calabrese, originario di San Giovanni in Fiore ma molto diffuso in tutta la provincia di Cosenza. Ingredienti (per 8 persone): farina 500 gr, uova 2, olio d’oliva 200 ml, vino moscato 200 ml, sale q.b., lievito in polvere 1 bustina, miele 250 gr, noci 180 gr di gherigli, pinoli 80 gr, uva sultanina 100 gr, fichi secchi 500gr.
Poco dopo, ci siamo imbattuti in alcuni negozietti tipici del luogo dove vengono realizzati particolari manufatti. Il pranzo l’abbiamo preso in un ristorantino del centro storico sorseggiando il vino di Tommaso Cariati.ese.
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In giro per il paese ci siamo imbattuti anche nel fenomeno dell’emigrazione. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso, inizia una corrente migratoria dei florensi all’estero che diventerà un fiume in piena dalla metà degli anni Sessanta in poi. Si trattò di un esodo che toccò tutte le regioni italiane, soprattutto quelle settentrionali agli inizi del flusso migratorio. Nei decenni successivi il primato migratorio passò alle regioni meridionali. Con quasi tre milioni di persone emigrate soltanto da Calabria, Campania e Sicilia, e quasi nove milioni da tutta Italia. Le mete preferite erano l’Argentina, il Brasile, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia. Episodio degno di nota e simbolo delle emigrazioni: il 6 dicembre 1907, a Monongah, West Virginia, USA, nelle miniere della città una serie di esplosioni causano una ecatombe di vite umane; le vittime rimarranno sempre dal numero imprecisato perché neanche un terzo dei minatori era registrato; fra le vittime decine di florensi emigrati in cerca di fortuna in America... alcuni di loro erano appena dei ragazzi. È per fornire informazioni e supporto ai discendenti degli emigrati il motivo per cui è sorta l’Associazione degli emigranti di S. Giovanni in Fiore.
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Poco prima di prendere la via del ritorno, abbiamo assistito alla presentazione di un libro in cui sono stati raccolti canti sacri in dialetto locale. Il libro è stato presentato nell’abbazia. Sono intervenuti, oltre all’autore, il vescovo di San Marco-Scalea, Leonardo Bonanno, originario di San Giovanni in Fiore, il prof. Alfredo Prisco. Il professor Prisco è noto per aver condotto studi approfonditi sul dialetto locale che hanno dato vita ad un ottimo vocabolario.
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Pino Caminiti LE NOBILTA’ INCONTAMINATE Foscolo Manzoni Leopardi (relazione di Daniela Guido)
Se è vero, come dice U. Eco, che ogni titolo offre in sé una chiave di lettura, è forse proprio il titolo dell’opera di Caminiti a suggerirne i fondamentali prodromi interpretativi. Esso, come spiega l’Autore nella premessa al volume, è desunto da una lettera che Foscolo scrive alla madre; è una “nobiltà incontaminata”, appunto, quella che il poeta rivendica a se stesso, ma tale nobiltà, nella sua essenza più profonda, può e deve ben essere attribuita anche agli altri due poeti, poiché tutti risultano infine legati dal comune denominatore di “un’abbagliante grandezza spirituale”. È dunque questa la prima notazione che suggerisce, a mio vedere, una netta chiave analitica del saggio e fornisce un piano di lettura che recupera anzitutto il dato umano e spirituale dei tre poeti, e ne sottolinea lo spessore etico. Ma al di là di tali ovvie riflessioni, l’opera risulta originale nell’impianto della sua struttura, a cominciare dal confronto dialogico in forma di colloquio fra i due interlocutori, fino alla varietà di piani di lettura che sa offrire, destinati ad una pluralità di lettori. Se infatti si deve considerare il testo anzitutto un saggio critico, è altrettanto vero che la cornice narrativa ne esalta la godibilità di lettura, e ciò credo avvenga anche per quanti non siano strettamente da considerarsi “addetti ai lavori”; da ultimo, ma non per ultimo, ne risulta il focus di una prospettiva storico-letteraria in cui l’elemento tecnico e specialistico sa coniugarsi ad una capacità affabulatoria non comune. L’impianto critico ed argomentativo consente di focalizzare, inoltre, gli aspetti salienti dei tre autori, operando sintesi esaustive artisticamente modellate con la sobrietà espressiva di uno sguardo d’insieme rapido eppure attento, segno di una stratificazione della materia che sa risolversi in levità narrativa e perizia analitica. Tale “sguardo d’insieme”, inoltre, sottende ad una visione “globale” della cultura letteraria, che è una, come uno è il sapere, e passa, tramite la sostanza umana che osserva, attraverso i secoli e le tendenze di gusto. In tale ottica, appunto, frequenti sono nel testo i richiami, gli echi, i riferimenti tanto ai classici quanto ai moderni, suggerendo non di rado parallelismi illuminanti ai fini di una comprensione profonda di temi e modelli. 47
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Voglio evidenziare solo alcune sottolineature presenti nel testo che più di altre, ritengo, siano in grado di operare suggestioni nella lettura. Esse si articolano intorno ad alcuni aspetti fondanti dell’opera artistica quanto della sostanza umana dei tre autori indagati e riguardano l’uso della parola, la problematicità (intesa essenzialmente come complessità) delle tre figure poetiche e la portata della loro meditazione esistenziale. Sicuramente suggestiva l’indagine sulla musicalità delle scelte lessicali, variamente declinata sia sul piano poetico che prosastico, sull’uso che ciascuno dei tre autori fa della parola e sulle conseguenze espressive che esso comporta. Gli esempi vanno dalle preziose sonorità dell’endecasillabo foscoliano nei tre sonetti maggiori (laddove si sottolinea, ad esempio, la resa fonosimbolica del campo semantico dell’acqua in A Zacinto, tutta giocata sulla perizia artistica delle assonanze e consonanze), alla “partitura sinfonica” dei Sepolcri (in cui perfetto è l’incontro tra logos e melos nel chiaroscuro sublime della chiusa finale), fino alla rarefazione, quasi, della parola presente nelle Grazie. Illuminante, a mio vedere, l’intuizione dello scarto, fra Sepolcri e Grazie, che investe proprio la funzione della parola (oltre che l’approccio al reale), con una ricerca – come dice l’Autore – della “verginità” della parola poetica che, paradossalmente, ne alleggerisce l’aristocraticità: il poeta può così affermare che la trasfigurazione poetica sa toccare anche l’animo di uomini semplici (l’esempio è quello del pescatore che, stupefatto, abbandona le reti), purché essi, beninteso, siano capaci di emozionarsi davanti alla Bellezza. Ed è alla parola, infine, che Foscolo affida la cura del dolore per la perdita del fratello, una sofferenza che riesce ad essere ricomposta ed accettata solo attraverso il canto. Le suggestioni foniche della parola poetica manzoniana sono indagate nella loro varietà di risultati: le scelte ritmiche originali dei cori delle tragedie (il doppio senario) imbastite su una sintassi essenziale che ne potenzia l’effetto, la perizia tecnica del linguaggio negli Inni sacri (segnatamente nella Pentecoste) che sa fondere realismo ed astrattezza teologica con l’uso, ancora, di parole che tendono alla rarefazione, ma che non perdono mai in concretezza. Sul versante prosastico, infine, si individua proprio nell’uso del linguaggio il valore aggiunto che rende i Promessi Sposi il primo romanzo moderno capace di rappresentare la verità multiforme della vita e degli uomini; notevole, qui, mi pare l’indicazione in base alla quale Manzoni fa con la prosa ciò che Petrarca ha fatto con la poesia, ossia la perfezione formale arriva a placare l’ansia interiore e ricompone i conflitti irrisolti. Della musicalità del canto leopardiano viene paradigmaticamente citato l’incipit della Sera del dì di festa, per l’uso sapiente degli accenti e dell’interpunzione, le suggestioni foniche di A Silvia, l’utilizzo del lessico insieme aulico e quotidiano, familiare, paesano nel Sabato del villaggio, in 48
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cui l’uso dei tempi verbali viene riconnesso alla poetica della “rimembranza”, laddove Caminiti afferma, con notazione brillante: “Leopardi ricorda anche quando usa il presente”. L’attacco de La Ginestra, infine, viene giustamente equiparato, nella solennità e nell’ampiezza, alla nobile, nobilissima cantabilità beethoveniana, quella dell’incipit della V sinfonia, commovente, capace di toccare corde profonde con profondità di accenti; per altro verso, ancora, viene menzionato il chiaroscuro potente di certi versi scabri de La Ginestra, a sorpresa lontanissimi dalla poetica dell’indefinito, evocativi della “pietrosità” di alcune liriche montaliane. Che i tre autori sfuggano ad ogni maldestro tentativo di costrizione in una formula che ne definisca scolasticamente il ruolo o il senso, è cosa ovvia; ma l’impianto argomentativo del saggio precisa i termini della problematicità delle tre figure artistiche, affermandone la definitiva complessità attraverso l’approccio ad alcuni temi portanti (il rapporto poesia/filosofia, il problema del male e del dolore, l’apertura all’“altro da sé”) , sottolineando la portata della loro meditazione esistenziale anche in relazione alle risposte fornite. Mi pare, in tal senso, illuminante la consonanza che si rileva fra Manzoni e Sofocle nelle Tragedie (specie nell’Adelchi), laddove il male è enigma imperscrutabile all’uomo, per cui vano è cercare risposte o tentare di indagarne le cause: come Sofocle, Manzoni ne analizza gli effetti, devastanti, come ben appare nella nota allegoria della descrizione della vigna di Renzo. Ribadita, infine, è la centralità (sia sul piano filosofico che poetico) del motivo del dolore e dell’infelicità come unica certezza data nella riflessione leopardiana: se ne ricostruisce esaustivamente la genesi e l’evoluzione, a partire dall’ Ultimo canto di Saffo, seguendone il percorso nelle Operette Morali (il Dialogo della Natura e di un Islandese” e quello fra Plotino e Porfirio sugli altri), giungendo fino al messaggio de La Ginestra, in cui la tensione etica si risolve in richiamo alla fratellanza fra gli uomini (notevole, mi sembra, l’osservazione condivisa fra gli interlocutori sugli echi delle conclusioni leopardiane ravvisabili ne La peste di Camus). Una rilettura dei tre autori, dunque, attenta, partecipe, originale, nel segno di una comprensione intima che, nel testo di Caminiti, si risolve spesso in potenti colpi d’ala, capaci di luce, e si arricchisce sul piano espressivo nelle sonorità eleganti della sua prosa. Un dialogo partecipe e consapevole, la parola che sa comprendere la parola: un incontro di “nobiltà incontaminate”, appunto, che nel tempo continuano, attraverso le misteriose vie del Bello e del Vero, a riconoscersi.
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Dialogo con Pino Caminiti su Foscolo, Manzoni e Leopardi (appunti a cura della V F Mercurio dell’ITE “Cosentino” di Rende)
Lunedì 16 gennaio 2012, presso la Biblioteca Civica di Quattromiglia, si è svolta la presentazione del libro Le nobiltà incontaminate scritto da Pino Caminiti. La presentazione è stata organizzata congiuntamente dalla Fondazione Rubbettino e dal gruppo Sos scuola. Ha introdotto i lavori e ha moderato Emilia Florio, mentre Daniela Guido ha svolto la relazione. L’autore è intervenuto chiarendo quale è stato l’intento da lui perseguito con quest’opera e come ha strutturato il libro. Il lavoro presenta un dialogo tra l’autore e un suo interlocutore su Foscolo, Manzoni e Leopardi; di fatti si tratta di un saggio su questi tre grandi autori della letteratura italiana dell’Ottocento, suddiviso in tre parti, una per ciascun autore affrontato. La sala conferenze della biblioteca era gremita di persone mediamente interessate all’argomento. Tra i presenti c’erano anche alcuni studenti delle scuole di Rende, i quali senz’altro hanno tratto buon profitto dall’incontro.
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La relatrice, Daniela Guido, ha offerto una lettura molto tecnica del libro in un linguaggio sicuramente per addetti ai lavori. Per esempio, a proposito di “A Zacinto” si è detto che la poesia è “tutta giocata sulla perizia artistica delle assonanze e consonanze”, dei “Sepolcri” si è detto che “è perfetto l’incontro tra logos e melos nel chiaroscuro sublime della chiusa finale”. Per fortuna, quando la relatrice ha concluso è intervenuto l’autore che, da vecchio professore, ha saputo rendere più accessibile il pensiero, l’opera e la vicenda umana dei tre autori trattati, anche con riferimenti a cantautori italiani contemporanei. Il dibattito è stato ravvivato dalla presenza di un signore che è parso essere molto documentato sugli studi manzoniani e ha parlato a lungo della acristianità dell’autore dei Promessi Sposi. In particolare ha affermato che “Manzoni si muove su due opposti, cioè tra crocefissione e resurrezione e capisce che la vita è un enigma”. Una studentessa del “Cosentino” ha chiesto se il pessimismo di Leopardi può in qualche modo rapportarsi al pessimismo della società d’oggi. Una signora ha detto che sicuramente tutti i giovani presenti erano d’accordo con Pino Caminiti quando dice che a Leopardi abbiamo messo il timbro di pessimista, quando invece è un poeta che ha sempre amato la vita. I presenti hanno potuto anche acquistare il libro (edito da una casa editrice della Liguria occidentale).
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Tutti noi siamo tornati a casa con un pizzico di soddisfazione e un poco di orgoglio per aver partecipato a un evento di grande valore culturale. Attraverso incontri come questo noi giovani abbiamo la possibilitĂ di arricchirci culturalmente e affinare lo spirito.
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Democrazia, libertà e cittadinanza nella Grecia antica (appunti relativi all’incontro del 2 marzo 2012) 1. Comunicazione di Alfio Moccia Nell’antica Grecia la parola “democrazia”, che deriva da demos=popolo e cràtos=potere, quindi potere (governo) del popolo, fu usata nella polis di Atene con significato dispregiativo e veniva utilizzata dal ceto sociale egemone (aristocratici), soprattutto al tempo di Pericle (Atene 495-429 a.C.) per indicare il disprezzo della classe egemone verso il “potere del popolo” e/o della maggioranza che fondava la sua forza non sulla qualità ma sulla quantità dei cittadini, senza conteggiare gli schiavi che erano la maggioranza ma non godevano né di diritti politici né civili. Ritengo interessante proporre all’attenzione di chi ascolta o legge queste mie modeste considerazioni sulle origini della democrazia due brevi ma significativi testi riferiti ai tempi di Pericle, quindi del periodo d’oro della civiltà greco-ateniese, che rispecchiano due giudizi e due concetti diversi sullo stato e sul governo democratico nelle polis greche. Il primo documento, tratto da “L’elogio di Atene” è uno dei famosi discorsi che lo storico Tucidide mette in bocca a Pericle ed esprime l’orgoglio degli ateniesi per il loro sistema politico. Il secondo documento è uno scritto anonimo che per lungo tempo fu attribuito erroneamente a Senofonte. L’autore del testo, oggi noto come pseudo-Senofonte, si dichiara esplicitamente contrario al sistema politico ateniese ed è un ottimo esempio del punto di vista politico degli ateniesi aristocratici, convinti che solo i migliori (àristoi=gli ottimi) o solo i pochi (òligoi) potessero avere la responsabilità e la maturità per governare lo stato e gestire il potere nella polis. Di seguito proponiamo all’attenzione del lettore i due brevi testi tradotti dal greco. “... Abbiamo una costituzione che non imita le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più d’esempio agli altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone ma alla maggioranza, essa è detta democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, se uno può fare qualcosa di buono alla città, non ne è impedito dall’oscurità del suo rango sociale” (Tucidide, La guerra del Peloponneso, libro V). Ed ecco, per contrasto, il testo anonimo, noto come di pseudo-Senofonte: 53
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“... In ogni parte del mondo gli elementi migliori sono avversari della democrazia. Queste persone sono poco portate alla sfrenatezza e all’ingiustizia: sono anzi interessate a tutto ciò che è onesto. Nel popolo, invece, troviamo grandissima ignoranza e smodatezza e malvagità. E’ la povertà, soprattutto, che lo spinge ad azioni vergognose, e così pure la mancanza di cultura e di educazione, che in taluni è dovuta a insufficienza di mezzi... Una città con tali ordinamenti non può certo essere un modello di perfezione. Il popolo non vuole essere sottomesso in una città bene amministrata, ma vuole essere libero e comandare, e del mal governo gliene importa ben poco. Se tu cerchi un buon governo vedrai in primo luogo i più capaci imporre le leggi al popolo, e poi le persone per bene si vendicheranno della plebaglia, prenderanno loro le decisioni sugli affari della città e non permetteranno che dei pazzi partecipino al Consiglio o si alzino a parlare o siedano in Assemblea. Così, con questi saggi provvedimenti, in poco tempo il popolo piomberebbe nella sottomissione...” (Pseudo-Senofonte, La costituzione degli Ateniesi, 4,5,6,7). Come si evidenzia dai testi citati, già alle origini il termine “democrazia” è nato con un curioso destino che lo seguirà nella sua evoluzione storicoculturale con tutta la carica del suo equivoco semantico. In altri testi dell’antica Grecia, in particolare ad Atene, i sostenitori del regime politico che dovrebbe garantire condizioni di parità e di giustizia tra i cittadini al fine di sostenere il sistema politico al posto di “democrazia” usavano altri termini come “Isonomìa”=leggi uguali per tutti, “isogorìa”=pari dignità nelle assemblee rappresentative, diritti ispirati ai principi di “parresìa”= libertà di parola e di “elèuterìa”= libertà, indipendenza. A ispirare questi principi politici e giuridici nell’antichità, non solo in Grecia, ma in Roma e nelle vaste aree geografiche pre-greche e pre-romane, contribuivano gli intellettuali, in particolare i filosofi, i poeti e gli artisti che nei vari contesti storici rappresentavano i riferimenti culturali per le politiche dei tempi. In particolare un ruolo importante per dare forma e contenuti alla vita politica e civile organizzata dell’antichità ebbe il filosofo Aristotele(384322 a.C,), discepolo di Platone e autore di un pensiero filosofico nuovo ed originale che si discosta in modo sempre più evidente da quello del maestro ed eserciterà per molti secoli un influsso diffuso sul pensiero filosofico successivo in Oriente e in Occidente fino a tutto il Medioevo europeo. I suoi vasti campi d’indagine sono principalmente tre: il mondo logicomatematico, guidato dal sillogismo, il mondo fisico, costituito dalla materia e il mondo metafisico, costituito dalla forma; la materia e la forma costituiscono la “substantia”=sostanza della realtà. Vale la pena sintetizzare brevemente qui la sua visione politica documen54
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tata sui frammenti di testo pervenuti fino a noi e conosciuti come “La Costituzione di Atene”. Aristotele vede il fondamento della comunità politica nel fatto che la “pòlis”=città è fatta di parti complementari tra loro, proprio come un organismo animale. Compito della comunità politica è garantire ai cittadini una vita felice costituita dall’esercizio da parte di coloro che ne sono degni e capaci delle funzioni più nobili dell’animo umano. Per questo il governo della comunità, città o stato che sia, deve essere sottratto all’arbitrio, guidato dalle leggi vigenti, reso stabile da una classe media di cittadini né troppo poveri né troppo ricchi e da un buon equilibrio tra città e campagna. Solo una comunità di questo genere può creare le condizioni per l’educazione dei giovani alla moderazione delle passioni e degli affetti e all’apprezzamento della vita intellettuale. Aristotele, tra l’altro, aveva immaginato un mondo fondato su un equilibrio dinamico di saggezza, scaturito dallo sviluppo intellettuale (scienza e conoscenza) e da un comportamento di vita moderato e guidato da un sistema normativo valido per tutti (Etica). Sappiamo che consigliava questo modello di società e di vita al giovane Alessandro Magno, che però preferì seguire altre voci provenienti da altre direzioni e orientate verso orizzonti diversi. L’equivoco semantico sul termine “democrazia” proseguì dalle sue origini nell’antica Grecia attraverso i secoli che dall’età classica attraversarono il Medioevo e l’età moderna. Per questo anche oggi il concetto stesso di democrazia, dalle origini ai tempi nostri, non è cristallizzato in una sola accezione o in unica e concorde definizione, ma trova la sua espressione storica in diversi contesti e applicazioni, con in comune l’obiettivo e/o la presunzione demagogica di dare al popolo il potere effettivo di governare. Oggi per democrazia si suole indicare sia una forma di struttura istituzionale dello stato, con potere nelle mani del popolo, che un modo di governare, in nome e per conto del popolo=democrazia indiretta o delegata. Essa si colloca, quindi, a fianco di altre forme di stato o di governo come monarchia (potere nelle mani di una sola persona), aristocrazia, oligarchia, tirannide, dittatura ecc. Come già accennato in queste brevi note i Greci antichi preferivano indicare la forma corretta del buon governo del popolo col termine di “politèia” piuttosto che la sua forma degenerata e indicata col termine “democratìa” che per Aristotele è il ”regime della massa dei poveri” e per Platone è “licenza di fare ciò che si vuole”. A ben guardare alle origini e a seguire l’evoluzione delle esperienze dei popoli nel corso dei secoli, oggi noi possiamo facilmente constatare come la “politèia” dei greci e ben lontana dalla “democrazia” dei moderni e coglierne 55
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soprattutto le differenze di forma e di contenuto ma anche qualche analogia. Tra il nostro tempo e il tempo antico di riferimento ci sono secoli di storie di esperienze di popoli e di culture eterogenee che si esprimono attraverso progressi e involuzioni, insurrezioni e rivoluzioni, restaurazioni, rinascite e tramonti di imperi e di stati che, per riferirci solo ai secoli più vicini a noi, si chiamano illuminismo, romanticismo, risorgimenti nazionali europei, Poi ci sono le involuzioni democratiche del cosiddetto “secolo breve”, il novecento, che si chiamano nazionalsocialismo, fascismi, comunismi. Questi eventi segnano e condizionano ancora il nostro tempo e proiettano luci ed ombre sul nostro concetto di “democrazia”, non senza retorica e tentativi di vecchie e nuove mistificazioni in nome e sulla testa del “popolo sovrano” o in nome della democrazia. Nel nostro mondo globalizzato, malgrado forme sempre nuove di informazione e di comunicazione spesso appaiono restringersi più che allargarsi nuovi strumenti di partecipazione e di controllo del potere che pare tornare a concentrarsi in nuove forme di oligarchia se non di moderni ceti di rinascenti aristocrazie plutocratiche non moderate né dall’etica né dall’estetica, intese come strumenti di comportamento e di conoscenza. Per concludere queste brevi note su un argomento così ampio e articolato come la democrazia mi preme sottolineare un altro equivoco semantico spesso frainteso demagogicamente: l’accostamento tra democrazia e libertà, come termini simili e confusi tra loro. I due termini esprimono concetti e valori molto diversi e non vanno confusi o considerati come sinonimi. Nella realtà fattuale di alcuni contesti storici o socio-economici può esserci libertà senza democrazia, così come può esserci democrazia senza libertà. Ogni riferimento all’attualità politica nazionale e internazionale non è affatto casuale. 2. Dibattito Dopo la relazione di Alfio, come al solito, segue un vivace dibattito. Uno dice: «Sono grato al gruppo Sos scuola che nel suo piccolo riesce a organizzare un incontro estremamente utile per comprendere anche il mondo nel quale viviamo. Che cosa deve fare una scuola, sia pure di carattere tecnico come il Cosentino, in questo tempo travagliato e confuso, se non incoraggiare ricerche e dibattiti che permettano di comprendere ed orientarsi? Grazie ad Alfio perché è sempre presente a questi incontri e perché questa volta ha illustrato con competenza un argomento difficile a tutto vantaggio di ognuno di noi, ma soprattutto degli studenti presenti». Un altro esclama: «Noi abbiamo sempre pensato che la “democrazia” e la “libertà” siano nate in Grecia e che la pratica di governo in Grecia fosse già allora una sorta di panacea per tutti i mali della società. A ben vedere, 56
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l’economia era basata sulla schiavitù; le donne non avevano alcuna voce in capitolo; i poveri diavoli non avevano alcun potere; chi sapeva manovrare utilizzando i mezzi a disposizione, compresa la demagogia e la possibilità di eliminare fisicamente l’avversario, non si faceva scrupoli; Atene non era certo una repubblica ma un impero. Ma che democrazia era quella di Atene?». Una professoressa spiega: «Qui occorre rilevare l’importanza dell’idea “democrazia” non la purezza del concetto o della prassi politica, una forma di governo che allarga il potere a molti soggetti e che si contrappone da una parte alla tirannide, cioè il potere di uno solo, e dall’altra all’aristocrazia, cioè il potere di pochi». Una studentessa dice: «Effettivamente, devo ammettere che dopo questo incontro comprendo un poco meglio la confusione che avvolge termini come “democrazia”, “libertà”, “uguaglianza”. Confesso però che molti aspetti ancora mi sfuggono perché le nostre basi culturali non sono molto solide. Per esempio, tutta la parte etimologica per noi è ostica e richiede un approfondimento. Intuisco anche che spesso quando ci riempiamo la bocca di questi concetti, spesso non sappiamo esattamente quello che diciamo; non lo sanno neppure coloro che si presentano come competenti, magari perché sono docenti di storia o di lettere. Alfio Moccia è un caso raro, il caso di un docente che coniuga la passione vera per la politica e la conoscenza con l’impegno ad essere sempre all’altezza delle sfide». Un’altra persona afferma: «Io sono sempre felice di poter ascoltare persone come Alfio che ci parlano delle radici della nostra cultura. Io lo dico sempre agli studenti che le nostre radici culturali sono nella Grecia antica, non solo perché la Grecia è la culla della cultura occidentale: noi calabresi siamo, ci pensate, ragazzi, gli eredi della Magna Grecia». Un altro spiega: «L’incontro di oggi deve servire a fissare alcune coordinate che ci permettano anche di leggere, per esempio, il testo della nostra costituzione. Deve servire però anche a sfatare alcuni miti. Il primo mito riguarda l’età classica come l’epoca d’oro della civiltà, in cui l’umanità ha raggiunto il vertice in ogni campo e dopo non si è avuto altro che oscurantismo o scimmiottamenti di quella stagione fortunata. Mi pare che la relazione di Alfio, in questo senso, sia una buona tessera del mosaico, perché ci dice chiaramente che il concetto di “democrazia” è confuso ed ambiguo fin dal suo apparire. In questo senso, il lavoro di ricerca di Luciano Canfora mi sembra estremamente interessante. Segnalo in particolare la sua opera di recente pubblicazione Il mondo di Atene in cui l’autore prende di mira proprio il celebre Epitafio di Pericle che troviamo in Tucidide, citato anche da Alfio, per svelarne il contenuto mitico. A ben vedere il sistema di governo ad Atene era “una democrazia solo a parole”, anzi il potere imperiale di Pericle era quello 57
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di un principato. In un’intervista Canfora afferma che secondo Tocqueville la democrazia di Atene era una aristocrazia piuttosto ampia, e per Max Weber era una Gilda che si spartiva il bottino. Il secondo mito che dobbiamo sfatare riguarda noi meridionali e la Magnagrecia, cui faceva riferimento l’intervento precedente. Noi oscilliamo tra due estremi, entrambi molto dannosi: da una parte ci sono quelli che pensano che noi siamo sempre ultimi e dobbiamo imitare tutte le novità che arrivano dall’esterno e seguirle acriticamente, perché ciò che è nuovo è senz’altro buono, anzi ottimo; dall’altra ci sono quelli che credono che noi siamo i migliori in assoluto perché siamo i discendenti di Pitagora. Come al solito la verità sta nel mezzo e per intuirla basta constatare che la grande Sibari è stata distrutta molto presto, nel 510 a.C.; che all’indomani delle Guerre puniche, in Calabria, di magnogreco era rimasto ben poco; che il nocciolo duro della nostra identità si è formato durante il lunghissimo arco di tempo che abbraccia l’epoca romana (basta considerare la nostra lingua) e l’epoca romaica, cioè bizantina (basta considerare il sentimento religioso e alcune tradizioni), la cui cultura filtra in tutto il basso Medioevo». Un altro chiosa: «Se uno ha la ventura di crescere in una famiglia in cui alcuni membri si chiamano Temistocle e Clitemnestra, fa studi classici e insegna letteratura greca al liceo tutta la vita, ancorché in Calabria nel XX secolo, può convincersi facilmente di essere qualcuno spuntato fuori proprio da quel mondo e venuto a svolgere una missione: ricordare a tutti che noi siamo tutti magnogreci. Se un altro dedica tutta una vita agli studi omerici e si definisce “filoelleno”, pur vivendo nel XX secolo in una città della Calabria, può convincersi che l’Odissea sia stata scritta a Reggio Calabria. Esattamente come un altro che si converte alla religione ortodossa e crede di dover svolgere l’alta missione di sostituire, all’inizio del Terzo millennio, in tutta la Calabria, la religione cattolica con quella ortodossa. In tutti i casi si tratta, evidentemente, di allucinazioni».
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Il ruolo delle istituzioni nella lotta alla ’ndrangheta Incontro con Salvatore Magarò, presidente della Commissione regionale antimafia (appunti a cura di M. Caiazzo, A. Gerbasi, S. Lio) Il 10 marzo 2012, si è svolto, nell’auditorium dell’ITE “V. Cosentino”, un incontro con l’on. Salvatore Magarò, da alcuni anni presidente della Commissione regionale antimafia. L’incontro ha visto la partecipazione di alcune classi del nostro istituto e, attraverso un ricco dibattito che qui presentiamo, ha dato modo, a noi studenti, di chiarirci le idee sulle attività svolte dalla Commissione regionale presieduta dall’onorevole Magarò.
Dibattito Come facciamo a credere nella lotta antimafia, se le istituzioni preposte a questo tipo di lotta sono corrotte?
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Bisogna sperare sempre che qualcuno combatta la mafia. E’ la speranza che mi fa continuare a lottare. La mafia ormai ha infettato ogni istituzione e possiamo sconfiggerla credendoci, combattendo tutti insieme, con forza di volontà e coraggio. Quale aiuto e quale sostegno viene dato ai familiari delle vittime di mafia? Abbiamo deciso di stare vicino ai familiari delle vittime della mafia e a coloro che hanno avuto il coraggio di denunciare varie estorsioni, secondo una legge stipulata proprio per tutelare i diritti di questa gente, cioè protezione per i familiari delle vittime. I testimoni di giustizia devono avere diritto di vita e di lavoro. Lei che da molti anni si occupa della vita politica calabrese ha mai ricevuto minacce e intimidazioni dalla mafia? Hanno mai cercato di corromperla? Nella mia attività regionale non ho mai subito minacce o intimidazioni di grande spicco, solo una volta mentre entravo nel mio studio, ho notato quattro colpi di pistola sulla porta di entrata, può darsi che lo hanno fatto per intimidirmi. Però, vedete, questo fenomeno non si combatte solo con le manette, ma anche con la formazione culturale, scolastica e con un lavoro dignitoso. Mi ha colpito la sua affermazione: "La mafia prima o poi sarà sconfitta" (lei ha anche citato Falcone: "La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha una nascita, uno sviluppo e una fine"). Però un giudice di Reggio Calabria dice che con la mafia si può solo convivere. Che cosa ne pensa? Ognuno si assume le responsabilità delle cose che dice. Io vi ho parlato della mia visione del fenomeno che coincide completamente o parzialmente con quelle di altri uomini come Falcone. D’altra parte, alcuni grandi uomini grazie ad un sogno sono riusciti a cambiare la storia (si pensi soltanto a Gandhi e a Martin Luther King). Le ultime indagini condotte congiuntamente dalle procure di Reggio Calabria e di Milano hanno rivelato che "Reggio è una città nelle mani della mafia". Che cosa hanno fatto le istituzioni in questi anni a Reggio Calabria? Sì, mi rendo conto di ciò che sostengono le indagini, però non si può nemmeno disconoscere quanto di buono nella provincia di Reggio è fiorito negli ultimi tempi: pensate al movimento "Adesso uccideteci tutti" e all’opera compiuta da Monsignor Bregantini che permette di dare lavoro pulito a migliaia di persone (vi inviterei a fare una visita nella locride). 60
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Alcune delle iniziative promosse dall’on. Magarò nell’ambito della Commissione antimafia
Targa antimafia che la Regione Calabria distribuisce agli enti che intendono esibirla al proprio ingresso. Il Cosentino ha aderito a questa iniziativa che dà un forte messaggio di legalità e democrazia, efficace per la costruzione del senso di cittadinanza in tutti gli studenti. Anti’ndrina L’Anti’ndrina è una campagna pubblicitaria realizzata da Salvatore Magarò, Presidente della Commissione Regionale contro la ’ndrangheta. In una scatola che ricorda l’aspirina si trovano un sacchetto di gustosi confetti e un bugiardino che, mantenendo la metafora del medicinale, sensibilizza il lettore con ironia e leggerezza riguardo al grave problema della ’ndrangheta.
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Fasti e miserie del capitalismo. Visione del film documentario di Michael Moore, Capitalism: a love story (appunti dalla riunione del 27 marzo 2012, a cura di Nunzio Bilotta ) Introduzione Questo film documentario di Michael Moore, molto probabilmente, non sarà mai trasmesso in reti televisive pubbliche come la Rai o private a grande diffusione, tipo Mediaset e dopo averlo visto se ne capirà il perché. La prima volta che lo vidi fu per caso, su una rete satellitare, Sky. Colpito dal contenuto, ne cercai la replica e lo registrai, proponendone la visione agli amici Chiara e Tommaso Cariati i quali a loro volta mi chiesero di condividerne la visione con questo gruppo. Contenuto del film Il film ci dà una conferma di quello che oggi abbiamo un po’ tutti intuito, concentrandosi su quel sistema economico e di pensiero oramai fuori controllo che è il capitalismo contemporaneo: lo strapotere senza scrupoli di banche, corporation, assicurazioni. Il regista parte da un parallelo tra la caduta dell’Impero Romano e i nostri giorni e prosegue parlando del dramma degli sfratti, dei licenziamenti di massa, delle perversioni della finanza, delle disparità economico-sociali, del degrado ambientale e della perdita di umanità di un sistema in nome della logica del profitto e lascia che dal suo film emerga una posizione drastica e inequivocabile: l’incompatibilità tra questo capitalismo e la democrazia. Le ragioni della proposta Trattando di aspetti costantemente e prepotentemente presenti nella nostra vita di tutti i giorni, è uno stimolo alla riflessione per la migliore comprensione degli stessi, affinché ci si possa difendere da essi adeguatamente o, addirittura, cambiarli. Messaggio del film È proprio questo il messaggio di fondo del film: un invito alla presa di coscienza e all’azione collettiva, individuata come strumento primario per costringere il potere politico ad agire per il bene di tutta la popolazione, anziché per quello di banche e corporation. 62
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Dibattito Alfio: i cittadini non possono più stare alla finestra a guardare. Sono state messe in evidenza le diverse forze in gioco: economia, finanza distorta, politica e etica nascosta dietro la religione. Si mettono in contraddizione, come termini antitetici, capitalismo e democrazia. Oligarchia e aristocrazia non sono democrazia. A volte si scelgono democraticamente le dittature. Rosa: tanti stimoli dalla visione del film: l’America, che è sempre vista come un paese ricco, è meno provvista di diritti rispetto all’Italia. Questo mi fa pensare al tentativo di smantellare gli ultimi diritti che ancora abbiamo in Italia. Cosa distingue gli americani da noi? La capacità di ribellarsi, perché noi italiani ci opponiamo se ci toccano i diritti fondamentali Nunzio: il messaggio del film spinge ad una presa di coscienza e ad una forma di ribellione. Giovanna: secondo me siamo troppo morbidi, forse perché non ci hanno ancora toccato nel profondo. L’Italia sembra il paese del tirare a campare. È un problema di civiltà e di apertura mentale che manca. Tendiamo a sistemare noi stessi anche a discapito di altri. Francesca: il film mi ha colpito perché rispecchia quello che stiamo vivendo in Italia. Il messaggio è quello di pensare ad una forma di ribellione. Mi hanno colpito molte scene. La perdita della casa o del lavoro mi hanno fatto pensare. L’occupazione delle fabbriche mi sembra una forma di speranza. Iole: quello che abbiamo visto nel film mi ha fatto pensare a quello che sta accadendo anche da noi. Basta pensare a quante finanziarie ci sono in giro. È necessario cambiare stile di vita facendo resistenza al sistema. 63
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Nunzio: secondo me la questione di fondo è quella morale, perché nessun sistema può reggere se manca un fondamento etico. Come si può arrivare a costruire questo tipo di fondamento? Tommaso: mi interessa segnalare la distorsione che si è introdotta nel sistema educativo e formativo: per studiare gli americani devono farsi prestiti. In questo modo ci si piega alla richieste delle banche e si perde la libertà. Una seconda cosa: ci tirano con la carota in un sistema che sembra permettere a tutti di esprimersi. Allora veniamo spinti alla competizione per l’acquisizione delle competenze richieste dal mercato. Ma la “torta” è stata già suddivisa. Chiara: il film offre molti spunti interessanti, e non c’è il tempo per approfondirli tutti. Quello che mi ha colpito, e che forse, a mio avviso, in Italia manca, è l’importanza della comunità. Alcuni sono riusciti a rioccupare le loro case perché si sono messi insieme agli altri, alla comunità di appartenenza. Forse un modo per uscire dalla crisi è quello di provare a sperimentare stili di vita più comunitari.
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Escursione nel Parco nazionale della Sila e a Longobucco (mercoledì 4 aprile 2012, appunti a cura di A. Salerno e F. Scanga) Il gruppo SOS scuola ha compiuto un’escursione nel Parco Nazionale della Sila; ha partecipato un nutrito gruppo di studenti della III BM. Intorno alle 8:30 siamo partiti dalla scuola con un pullmino per raggiungere la destinazione prefissata. Dopo una breve sosta a Camigliatello, siamo arrivati al Centro visitatori del Cupone, dove abbiamo visitato l’orto botanico e percorso il sentiero 1.
La camminata è durata più di un’ora, e abbiamo potuto apprendere il modo in cui veniva raccolta la resina prodotta dai pini secolari della Sila (già dagli antichi Romani), conoscere un sistema tradizionale di irrigazione, e vedere la ricostruzione di una carbonaia con annessa capanna per i lavoratori.
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Proseguendo abbiamo potuto vedere alcuni animali presenti nei recinti faunistici tra i quali: il lupo, il daino, il cervo e il capriolo. Ad accompagnarci lungo il sentiero è stato un cane presente nel Parco, che abbiamo battezzato Friz.
Bello è stato poter ascoltare il rumore del vento tra gli aghi dei pini e sentire i profumi del bosco. Al termine di questa passeggiata di circa 3 km, siamo andati al lago Cecita, detto anche Mucone; lago artificiale realizzato per la produzione di energia elettrica, dove abbiamo fatto tante foto e ammirato il paesaggio da rimanere senza parole. La giornata è stata magnifica e al lago faceva veramente caldo.
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Successivamente la nostra escursione è proseguita per la Fossiata, dove c’erano ampi cumuli di neve, ma tra un cumulo e l’altro tappeti viola di crochi. All’area pic-nic della Fossiata abbiamo pasteggiato con salumi, pizze rustiche, frittatine e vino. Terminato il pic-nic ci siamo diretti verso Longobucco, paesino di circa 3.000 abitanti, situato nell’alta valle del Trionto, in prossimità del confine tra Sila Grande e Sila Greca. A Longobucco abbiamo visitato il Museo dell’artigianato silano e della difesa del suolo, che ha sede in un’ex convento di Frati Francescani minori, dove non solo abbiamo potuto ascoltare la storia di Longobucco: al pianoterra del medesimo edificio due simpatici amici del luogo ci hanno mostrato una sorta di mostra della tradizione contadina. Qui abbiamo potuto vedere e toccare alcuni oggetti della tradizione.
Dopo abbiamo visitato la mostra permanente dell’imprenditore Celestino (coperte, tappeti, arazzi, seta grezza, filato di ginestra…) che da sola merita un viaggio a Longobucco. Eugenio Celestino negli anni ’30 fonda il “laboratorio d’arte tessile”, a cui va il merito di aver conservato l’attività tradizionale della tessitura artistica. Questo longobucchese ricevette tante onorificenze, riuscendo a rifornire la Casa Reale, papa Giovanni Paolo II e alcune tra le più importanti case d’alta moda. Nel 1950 istituisce una “Bottega scuola” attiva ancora oggi. Un ringraziamento particolare da parte nostra va alla signora che ci ha fatto da guida con sobrietà e gentilezza nei diversi spazi della mostra.
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Abbiamo terminato cosĂŹ la nostra escursione e siamo rientrati a Rende verso le 19:00.
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Caritas in veritate, lavoro, democrazia (appunti di Tommaso Cariati per l’incontro di amicizia del 16 aprile 2012) 1. Caritas in veritate 1.1 Prime considerazioni. La terza enciclica di Benedetto XVI porta la data del 29 giugno 2009. Doveva uscire un paio di anni prima, per il quarantesimo anniversario della Populorum progressio di Paolo VI, ma l’esplosione della crisi economica negli Stati Uniti avrebbe imposto un supplemento di riflessione. Il documento è suddiviso in sei capitoli, un’introduzione e una conclusione. I capitoli nell’ordine si intitolano: Messaggio della Populorum progressio, Sviluppo umano nel nostro tempo, Fraternità, sviluppo umano e società civile, Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente, Collaborazione della famiglia umana, Sviluppo dei popoli e tecnica. Le parole che ricorrono nei titoli dei capitoli sono: “sviluppo”, “fraternità”, “società”, “famiglia”, “tecnica”, “diritti”, “doveri”, “ambiente”, “collaborazione”, “umano”, “popoli”. Tra queste quella che ricorre più spesso è “sviluppo”. Questi termini, variamente accostati tra loro (per esempio nelle locuzioni:“sviluppo umano”, “sviluppo economico”, “sviluppo dei popoli”), permettono di intuire che l’enciclica parla dell’uomo alle prese con l’economia e la tecnica e dei rapporti con il suo prossimo. Di fatti si tratta di una nuova tessera del mosaico della dottrina sociale della Chiesa. Nonostante l’enciclica tratti di sviluppo, tecnologia, economia e tecnica, considerando altri elementi scopriamo che il papa continua a scrivere dei temi preferiti: amore, fede, Dio. Ciò si evince considerando attentamente l’introduzione, la conclusione, il titolo, il fatto che l’autore nel corpo del testo parla della Trinità e dell’“amore sacramentale” tra gli sposi, della visione “personalista e comunitaria”, della teologia e della metafisica come strumenti indispensabili per gli scienziati. La circostanza che le prime tre parole importanti dell’enciclica siano “carità”, “verità”, “Gesù”, specialmente se accostata al titolo e al fatto quel titolo è stato tratto da san Paolo, ci induce a ritenere che il papa parla volentieri di fede, speranza e carità, di uomo in rapporto a al Dio vivente e a Gesù Cristo, e che quando è costretto dalle circostanze esterne a parlare d’“altro” lo fa sempre in riferimento alla sua bussola fondamentale.
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1.2 Alcuni brani significativi «La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo» (n. 34). «Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza. Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave» (n. 35). «Occorre impegnarsi incessantemente per favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione planetaria» (n. 42). «Le modalità con cui l’uomo tratta l’ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta se stesso e, viceversa. Ciò richiama la società odierna a rivedere seriamente il suo stile di vita che, in molte parti del mondo, è incline all’edonismo e al consumismo, restando indifferente ai danni che ne derivano. È necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare nuovi stili di vita, “nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti”» (n. 51). «Paolo VI notava che “il mondo soffre per mancanza di pensiero”. L’affermazione contiene una constatazione, ma soprattutto un auspicio: serve un nuovo slancio del pensiero per comprendere meglio le implicazioni del nostro essere una famiglia; l’interazione tra i popoli del pianeta ci sollecita a 70
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questo slancio, affinché l’integrazione avvenga nel segno della solidarietà piuttosto che della marginalizzazione. Un simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell’uomo» (n. 53). «Il tema dello sviluppo coincide con quello dell’inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli nell’unica comunità della famiglia umana, che si costruisce nella solidarietà sulla base dei fondamentali valori della giustizia e della pace. Questa prospettiva trova un’illuminazione decisiva nel rapporto tra le Persone della Trinità nell’unica Sostanza divina. La Trinità è assoluta unità, in quanto le tre divine Persone sono relazionalità pura. La trasparenza reciproca tra le Persone divine è piena e il legame dell’una con l’altra totale, perché costituiscono un’assoluta unità e unicità. Dio vuole associare anche noi a questa realtà di comunione: “perché siano come noi una cosa sola”» (n. 54). «La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità» (n. 56). «La tecnica attrae fortemente l’uomo, perché lo sottrae alle limitazioni fisiche e ne allarga l’orizzonte. Ma la libertà umana è propriamente se stessa solo quando risponde al fascino della tecnica con decisioni che siano frutto di responsabilità morale. Di qui, l’urgenza di una formazione alla responsabilità etica nell’uso della tecnica. A partire dal fascino che la tecnica esercita sull’essere umano, si deve recuperare il senso vero della libertà, che non consiste nell’ebbrezza di una totale autonomia, ma nella risposta all’appello dell’essere, a cominciare dall’essere che siamo noi stessi» (n. 70). «Di fronte a questi drammatici problemi, ragione e fede si aiutano a vicenda. Solo assieme salveranno l’uomo. Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia l’estraniamento dalla vita concreta delle persone» (n. 74). 1.3 Osservazioni Al n. 34 il papa mette in guardia dal pericolo che nasce affidandoci esclusivamente ai mezzi umani. La storia dimostra che, perfino quando ci applichiamo a promuovere il bene, affidandoci esclusivamente ai mezzi umani possiamo fare disastri. 71
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Al n. 35 il pontefice ricorda che esistono tre forme di giustizia: quella commutativa, tipica del mercato, il cui corrispettivo è il valore equivalente (il prezzo); quella distributiva, tipica della redistribuzione di un’autorità come lo stato attuata come misura di politica economica (il welfare); quella sociale o contributiva, fondata sulla reciprocità, che permette a ogni uomo di mettersi in gioco con le proprie capacità. La seconda e la terza forma di giustizia sono sintetizzate bene con la necessità segnalata recentemente da Giuseppe Limone di contemperare nei rapporti umani pietas con pudor. L’intero modello è poi spiegato benissimo da Stefano Zamagni, il quale avrebbe fatto parte della commissione che ha lavorato per la preparazione dell’enciclica. Al modello tripolare della giustizia si collegano i modelli, anch’essi tripolari, della sussidiarietà circolare basato su Stato, Privato, Terzo settore, e della democrazia liberale, solidale, sussidiaria. Al n. 42 il papa fa riferimento, ma senza adeguato collegamento con il resto del discorso, al modello epistemologico elaborato da Emmanuel Mounier e altri, ripreso e approfondito in Italia da Giuseppe Limone (si vedano i suoi studi e la rivista “Persona” da lui fondata). Al n. 51 Benedetto XVI parla del rapporto uomo-creato e dell’impatto, spesso distruttivo, che l’attività dell’uomo ha sull’ambiente. Al n. 53 il papa avverte che le scienze, anche quelle sociali, hanno bisogno dell’apporto della teologia e della metafisica. Al n. 54 il riferimento esplicito è, come segnalato più sopra, alla santissima Trinità quale modello perfetto di relazione interpersonale. Mentre al n. 56 è al rapporto circolare ed equilibrato tra fede e ragione, indispensabile per non cacciarsi in situazioni paradossali e patetiche. Ai nn. 70 e 74 il pontefice scrive dell’equilibrio e della prudenza necessari nel maneggiare la tecnica. 2. Strumenti e mezzi per un’economia umanizzata Le prospettive disegnate dal papa ci inducono a un cauto ottimismo. I disastri provocati da industriali e finanzieri sono sotto gli occhi di tutti e ne paghiamo ogni giorno le conseguenze, per non sperare che si trovino vie nuove per la politica e l’economia, ma contemporaneamente non vorremmo abbassare troppo la guardia. Stefano Zamagni dice che la crisi è dovuta a due fattori: aver fatto dell’efficienza un feticcio e aver fatto delle imprese una merce che può essere comprata e venduta alla borsa. Può darsi. Altri danno la colpa ai titoli derivati e ai giochi di prestigio della finanza creativa che ha fatto di Wall Street un immenso casinò. Può darsi. Giuseppe Limone sostiene che l’uomo si è illuso di poter vivere felice al centesimo piano di un palazzo, incurante del fatto che 72
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le fondamenta poggiavano sulla sabbia: credeva che quella base precaria riguardasse solo gli inquilini del primo piano. Può darsi. Una commissione d’inchiesta in America non è riuscita a indicare i responsabili della crisi scoppiata nel 2008. Tutti conoscono però i disastri che si sono verificati, causati da comportamenti imprenditoriali tutt’altro che responsabili, che hanno provocato danni sociali immensi. C’è un fenomeno tutto particolare e mostruoso che vede le imprese stipulare polizze sui propri dipendenti di basso livello, nominando se stesse come beneficiarie in caso di morte, una vera e propria scommessa sulla morte del dipendente. L’impresa in questi casi non solo può sfruttare informazioni sulla salute del dipendente, ma può anche operare in mille modi affinché quel dipendente si trovi a vivere in condizioni che aumentano la probabilità che si ammali e muoia. Ben venga, dunque, un’economia umanizzata ed umanizzante. 2.1 Studi e modelli Da alcuni anni assistiamo a un vero e proprio fiorire di studi che vanno nella direzione di umanizzare il mercato. Non si tratta di invenzioni dal nulla; si tratta piuttosto della riscoperta di filoni di ricerca proposti in passato e non sufficientemente considerati dagli scienziati sociali, magari bollati come marginali. Ebbene, la crisi si sta rivelando per quella che è, cioè anche kairos, tempo favorevole per recuperare quanto di buono avevamo trascurato. Vi sono studiosi che riscoprono il saggio sul dono di Marcel Mauss, altri riscoprono il pensiero di Karl Polanyi; c’è chi scopre l’economia civile di Antonio Genovesi e chi il pensiero di Emmanuel Mounier; vi sono studiosi che si richiamano alla dottrina sociale della Chiesa e altri all’evangelo; c’è chi riscopre l’economia fiorita in Italia durante il Rinascimento e chi il mutuo appoggio di Kroptikin. In Italia, già alcuni decenni fa, Giacomo Becattini ed altri avevano messo in luce una via tutta nostra allo sviluppo economico. Molto tempo prima che all’estero si incominciasse a parlare di “forza dei legami deboli” e di “capitale sociale”, concetto ancora troppo economicistico. Questi studiosi avevano compreso il segreto dello sviluppo locale endogeno: un impasto di impegno personale, di responsabilità sociale degli imprenditori e di fiducia nelle relazioni interpersonali. Questo impasto ha fatto da collante sociale per secoli e poi è stato spazzato via dal capitalismo, e oggi, avendo dilapidato quel preziosissimo patrimonio immateriale, il capitalismo ha promosso una sorta di guerra di tutti contro tutti e non sa più quali vie imboccare. A livello internazionale, gli studiosi che da anni sostengono la necessità di cercare e imboccare strade nuove, compresa la riforma del Pil, non sono mancati: Stiglitz, Sen, Latouche sono i più citati. 73
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In Italia Stefano Zamagni, muovendosi nel solco dell’economia civile di Genovesi e nell’alveo della dottrina sociale della Chiesa, dalla fine degli anni Novanta si è fatto paladino del terzo settore e di un’economia che poggi su tre gambe: privato, stato e terzo settore. Un altro studioso che in Italia cerca di dare contributi alla riflessione relativa alla ricerca nuove vie dello sviluppo economico e sociale, il quale ha condotto studi anche con Zamagni, è Luigino Bruni. Questo studioso giunge a parlare anche di economia di comunione, non solo sociale o civile. Antonio Baggio, d’altra parte, ha fatto studi sulla fraternità, altro nome della componente assente nel modello capitalistico. Piercarlo Maggiolini, parafrasando Kofi Annan, ha intitolato l’ultimo libro “Ciò che è bene per la società è bene per l’impresa”, dando a modo suo un contributo alla dottrina della responsabilità sociale dell’impresa. Uno studioso dal pensiero veramente robusto ci sembra Giuseppe Limone, il quale conduce una ricerca poderosa, impostata su molti piani contemporaneamente, che, da un lato, è una critica radicale del moderno e del post moderno, e, dall’altro, uno sforzo quasi titanico fatto per definire un modello epistemologico della persona umana, a partire dagli studi di Mounier. 2.2 Strumenti operativi A questo punto è opportuno segnalare alcuni strumenti pratici utili per praticare o per riscontrare la responsabilità di imprese, associazioni, istituzioni e persone. Innanzitutto, ricordiamo la carta dei diritti umani delle Nazioni Unite, della quale Antonino Papisca ha detto: «Può essere considerata un programma educativo poliennale per tutta la scuola», e la nostra Carta costituzionale, con le sue tre gambe libertà-solidarietà-sussidiarietà, sempre da riscoprire e far applicare. Accanto a questi strumenti menzioniamo il principio societas delinquere potest, introdotto alcuni anni fa nel nostro ordinamento, per sanzionare i comportamenti criminosi delle società, ricavato ribaltando un principio considerato sacro dal tempo dei Romani: societas delinquere non potest. Segnaliamo anche la norma Iso 26000, intitolato Guida alla responsabilità sociale, che vuole essere appunto una guida internazionale alla responsabilità di imprese ed organizzazioni. 3. Caritas in veritate e Costituzione Ciò di cui il papa si occupa nella Caritas in veritate, a ben vedere, è il senso della vita degli uomini, di tutti gli uomini: operai e intellettuali, imprenditori e lavoratori dipendenti, governanti e cittadini, credenti e non cre74
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denti. Questo fatto ci induce a confrontare il contenuto dell’enciclica con le basi della Costituzione italiana, alla ricerca dei punti di contatto. La Costituzione del 1948 menziona 23 volte la parola lavoro o la parola lavoratore; ha, insieme alla libertà e alla solidarietà, contenute nell’aggettivo “democratica”, il lavoro come fondamento, posti significativamente nell’art. 1, comma 1. Ha poi la libertà di ricerca e la libertà di insegnamento; la libertà di espressione e la libertà di impresa. Ha nell’art. 2 il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo. Ci chiediamo: da dove provengono questi principi e questi valori? I padri costituenti avevano ben presenti gli orrori della guerra e dei campi di sterminio, perciò non cercarono di gettare solide basi di civile convivenza umana; cercarono caparbiamente le ragioni profonde della vita dell’uomo per porle a base di una nuova civiltà. Non è un caso che la Costituzione venne redatta proprio mentre veniva redatta la carta dei diritti umani delle Nazioni Unite. E non fu certo per caso che i costituenti scrissero innanzitutto l’art. 2. Dopo scrissero l’art. 4, sul diritto-dovere al lavoro. Successivamente, Giorgio La Pira propose un articolo che doveva precedere gli articoli economici. La sostanza della proposta La Pira venne suddivisa, una parte confluì nell’art. 3, e una parte nell’art. 1, comma 1. Ecco donde proviene il fondamento della nostra Carta sul lavoro, oltre che sulla libertà e sulla solidarietà: dal pensiero di alcuni cattolici illuminati dal vangelo che si chiamano La Pira, Dossetti, Lazzati, Fanfani (non, come pensano ingenuamente ed erroneamente taluni, dal pensiero di sinistra). Il fondamento sul lavoro ha posto non pochi problemi perché rappresentava una novità assoluta, nel panorama del pensiero costituzionale. In seguito Malta ha scritto nella propria costituzione qualcosa di simile, nessun altro paese, segno che l’anomalia della fondazione sul lavoro costituisce ancora un problema per tanti. Non è un caso che in Italia ci sia gente che cancellerebbe volentieri questo riferimento tanto forte al lavoro. Purtroppo, coloro che vogliono cancellare il riferimento al lavoro, cancellerebbero anche il riferimento forte che nell’art. 41 è alla responsabilità sociale delle imprese; come mai? Noi crediamo che alla base di una certa contrapposizione tra “lavoristi” e “liberisti” ci sia un gigantesco fraintendimento su che cosa sia il lavoro. Coloro che intraprendono l’iniziativa privata, i liberi professionisti, i manager, i giornalisti free lance, i politici non sono lavoratori? Forse proprio loro ritengono di non essere lavoratori. Ma se non sono lavoratori, come arrivano a guadagnare milioni e milioni di euro all’anno? Che para-lavoro fanno per guadagnare tanto? Forse fanno impresa alla maniera di quel tale che scatta foto, spiando la gente e ricattando i malcapitati, i quali pagano, e molto, perché loro i soldi li guadagnano attraverso imprese dello stesso tipo. Forse fan75
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no iniziativa privata e libera impresa alla maniera di quell’altro che procaccia escort per il reuccio di turno, il quale è mago dell’arricchimento facile. No, non è su questi principi che sono nati e si sono sviluppati i distretti industriali in Italia; non è questa l’economia di Genovesi, né quella di Becattini o di Zamagni. Ma allora che cosa è il lavoro per l’uomo e per la società? Possibile che i padri costituenti abbiano intravisto, nelle macerie della guerra e nei fumi densi dei forni crematori, qualcosa di cui noi ignoriamo la portata e che assomigli al pensiero del papa? Seguendo un ragionamento che abbiamo sentito fare a Limone, possiamo dire che ogni uomo, ogni persona, porta un’energia iniziale, “energheia”, alcuni dicono energia “ontologica”, potenziale, che viene via via integrata con apporti esterni ed interni di varia natura (alimentazione, affetti ecc.), man mano che quell’energia potenziale si trasforma in opera, lavorando. È significativo che “lavoro” ed “opera” in greco siano detti entrambi “ergon”, parola imparentata con “energheia”. In questo modo avviene l’autopoiesi umana, cioè la realizzazione della persona umana, il suo farsi incessante fino alla morte. Il processo di autopoiesi, dal greco “auto”, cioè “se stesso”, e “poieo”, cioè “fare”, ovviamente non avviene su un’isola deserta, dove anzi non potrebbe avvenire affatto, ma in relazione con gli altri in una trama viva di scambi. In questo senso, allora, lavorare, per l’uomo, è un bisogno fondamentale, come nutrirsi, vestirsi, abitare una casa (riposare o dormire), curarsi, per citare bisogni basilari o fisiologici. Il lavoro è il mezzo attraverso il quale si estrinseca la stessa dignità della persona umana e si esercita la cittadinanza. Il lavoro è anche il mezzo attraverso il quale anche la libertà democratica prende corpo e consistenza. Da questo punto di vista, la nostra costituzione è bellissima e fecondissima, solo che ne comprendiamo tutti la portata: essa pone l’operare dell’uomo, qualsiasi operare, non come cosa morta, ma come strumento dell’autopoiesi di ciascuno, in armonia con gli altri, e contemporaneamente come il contributo di ognuno allo sviluppo “materiale” e “spirituale” della Nazione. Il “lavoro” nel senso della Costituzione italiana, ci parla dunque di una dimensione fondamentale della persona umana, così come della persona umana ci parla Benedetto XVI. Non è un caso che proprio nella Caritas in veritate troviamo esposto il modello triadico della giustizia, che, sotto altra forma, è anche il modello della sussidiarietà circolare caro, per esempio, a Zamagni, in cui i soggetti dell’economia non sono due, lo stato e il privato, ma tre, lo stato, il privato e il terzo settore. E non è un caso che i principi operanti nella nostra costituzione siano libertà, solidarietà e sussidiarietà, specialmente co76
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me è stata formulata recentemente nel titolo V riformato. In base alla libertà ognuno cerca l’autopoiesi che più gli aggrada; attraverso la solidarietà si attuano gli aiuti opportuni ai soggetti più svantaggiati, come avviene con il sistema progressivo per scaglioni dell’Irpef o attraverso meccanismi di welfare; attraverso la sussidiarietà ci si astiene dal fare la carità a chi può fare da sé, anzi si spinge ciascuno a fare da sé almeno in certa misura. 4. Tuttavia, che cosa è l’uomo? Qualcuno a questo punto potrebbe ancora chiedere: ma che cosa è l’uomo? E non avrebbe torto, perché questa è la domanda delle domande; la domanda che solo l’uomo può porre. E sia fatta, dunque: che cosa è l’uomo? Viene in mente il salmo 8: “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi? … di poco meno degli angeli … di gloria e di onore lo hai coronato …”. Parlando di “relazione”, il papa invita a fare una riflessione approfondita, e scrive: «Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell’uomo» (n. 53). Non sbaglia allora che chiede ancora una volta: che cosa è l’uomo? Per esempio: «La tecnica attrae fortemente l’uomo, perché lo sottrae alle limitazioni fisiche e ne allarga l’orizzonte. Ma la libertà umana è propriamente se stessa solo quando risponde al fascino della tecnica con decisioni che siano frutto di responsabilità morale. Di qui, l’urgenza di una formazione alla responsabilità etica nell’uso della tecnica. A partire dal fascino che la tecnica esercita sull’essere umano, si deve recuperare il senso vero della libertà, che non consiste nell’ebbrezza di una totale autonomia, ma nella risposta all’appello dell’essere, a cominciare dall’essere che siamo noi stessi» (n. 70). E ancora: «Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia l’estraniamento dalla vita concreta delle persone» (n. 74). In attesa che filosofi e teologi si accordino per un modello epistemologico dell’uomo, che sia sufficientemente chiaro e convincente per tutti, noi, per quanto ci interessa in questa sede, ribadiamo che l’uomo almeno: ha bisogno di nutrimento altrimenti muore, perciò deve procacciarsi il cibo; ha bisogno di vestirsi, perché sprovvisto di pelliccia; ha fame di cure e di relazioni, altrimenti non sussiste (ciò si vede bene nella sofferenza, nell’infanzia e nella vecchiaia); ha bisogno di un’abitazione che gli dia sicurezza e riposo e pace, perché non è un animale che possa rifugiarsi in una tana; vive un processo incessante di autopoiesi che lo apre anche al trascendente, cioè sogna, progetta e vive esperienze e avventure sotto forma di attività, lavoro, opere che, 77
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mentre gli permettono di soddisfare gli altri bisogni, gli permettono anche di essere pienamente uomo. Da questo punto di vista, chiediamo: c’è conflitto tra economia ed etica? L’economia fa pensare alle imprese, al mercato, alle banche, alla tecnica, alle macchine, alla catena di montaggio, alle assicurazioni; fa pensare anche agli aggettivi che accompagnano questa parola: economia politica, economia aziendale; micro e macroeconomia; economia civile, economia sociale, economia di comunione; c’è anche l’econometria che, stando a quello che se ne sa, va molto di moda a Wall Street, anzi pare che le menti più promettenti vengano assoldate non per studiare secondo vocazione e per il bene comune, come auspicato dal papa, ma per escogitare marchingegni mostruosi, anche soltanto di tipo concettuale, per conto delle grandi istituzioni economiche, cannoni micidiali e preziosi nella guerra di tutti contro tutti, che porta ad accrescere a dismisura la ricchezza e la potenza di chi se ne dota per primo. L’economia è la legge del governo della casa; la casa, non la tana; la casa, non l’appartamento al 160esimo di un grattacielo; la casa, non una stazione spaziale; la casa, non una trincea; la casa, non una cella in una baracca di Auschwitz; la casa, non un tugurio dal quale sono scappati anche i topi. Il governo della casa che è anche rete di relazioni e famiglia. Da questo punto di vista, non c’è più molta differenza tra economia, riportata a quello che è, senza aggettivi, ed etica. Chiediamo ancora: che cosa è l’uomo? C’è chi dice che l’uomo è un animale razionale; c’è chi dice che l’uomo è l’animale capace di concepire una strategia; c’è chi dice che l’uomo è l’animale capace di mentire, barare, bleffare. Noi chiediamo: dove vive, dove abita l’uomo? E ci rendiamo conto che questa domanda è terribilmente simile a quella del capitolo terzo della Genesi, “Adamo, dove sei?”. E ci ricordiamo che nel capitolo quarto della Genesi c’è la vicenda di Caino ed Abele, in cui Caino, non sapendo sostenere la relazione con il proprio fratello, lo elimina (forse i lavoratori che lavorano da imprenditori secondo l’art. 41 della Costituzione, vogliono eliminare quelli dell’art. 1?). E ci ricordiamo che in Genesi 11 c’è la storia della torre di Babele, in cui spicca la frase: “Facciamoci una torre che tocchi il cielo …”; non una casa in cui abitare (anche il capitalismo plutocratico, avendo come potente alleato la tecno-scienza, dice “crescita, sviluppo; cresciamo, cresciamo”, omettendo di aggiungere “così noi dei piani alti avremo sempre di più”). E ci viene in mente la questione cruciale del potere che alcuni vogliono esercitare sugli altri, per trarne un vantaggio, mica per niente, non fosse altro che per il piacere di comandare. Qui la lezione viene nientemeno che da Davide, si trova nel secondo libro di Samuele, e riguarda Davide, Betsabea e Uria l’ittita 78
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(mettete Uria in prima fila davanti al nemico, là dove più ferve la battaglia e arretrate …). Uria doveva morire, e il potere consente a chi lo detiene di compiere delitti senza sporcarsi le mani, come invece ha fatto Caino. Caino era un dilettante, era all’inizio dell’avventura umana: anche per questo ha poi costruito la città. Dopo tanti secoli di cammino su questa terra, dobbiamo ancora imparare l’arte di custodire e coltivare, di cui si parla in Genesi 2; non solo, non vogliamo impararla e non vogliamo esercitarla, con gioia ed umiltà. Perciò cerchiamo scorciatoie e, come allora, ci smarriamo stupidamente. 5. Flash dal dibattito Uno dice: “’U vuttu u ccrira ru rijunu”, cioè il sazio non può comprendere chi fa la fame. Un altro dice: “Qui tutti pagano il pizzo, possiamo sperare in qualcosa di buono?”. Un altro dice: “Ho consegnato quaranta copie del curriculum, ma niente”. C’è chi dice: “Però la realtà è buona”. Un altro dice: “L’esempio dovrebbe venire dall’alto; se non viene dall’alto, noi che cosa possiamo fare?”. Uno risponde: “Dall’alto non viene niente; quelli che sono in alto sono seduti comodi”. Una dice: “Sono contenta che finalmente si capovolgono le prospettive, non più prima l’impresa e poi la società, ma ciò che è bene per la società è bene per l’impresa; perché non ci hanno pensato prima?”. Un altro chiede: “Ma che lavoro fa chi guadagna sette milioni di euro in un anno? E che cosa ci fa uno con sette milioni di euro?”. Un altro dice: “Abbiamo costruito un mostro che ha diverse teste: ci sono pensionati giovani i quali prenderanno la pensione per i prossimi 40 anni, e ci sono i giovani che non trovano uno straccio di lavoro da fare; c’è una moltitudine che vive ai limiti dell’indigenza, e ci sono pochi privilegiati che nuotano nell’oro”. Una dice: “Io vedo che un insegnante, anche se ridotto ai livelli di un proletario, in questa situazione sembra un privilegiato”. Un altro dice: “Perfino il lavoro al call center a quattrocento euro è ambito”. Uno dice: “Se scorriamo la storia, ci accorgiamo che l’umanità ha avuto ben altri momenti bui: guerre, carestie; io dico che la situazione non sia poi tanto grave”. 79
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Un altro dice: “Io credo che questa crisi ci aiuterà a ritornare con i piedi sulla terra, a essere più sobri e più umili; dico anche che in Italia abbiamo avuto un vero campione di economia solidale o civile, Adriano Olivetti”. Una dice: “Che fare? Custodire il fuoco e distribuire scintille a chi muore di freddo; questo possiamo fare”.
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Democrazia e cittadinanza: costituzioni a confronto (appunti relativi all’incontro del 15 maggio 2012) Prima parte Costituzione italiana, Statuto albertino, Costituzione Repubblica romana, Carta diritti ONU (di I. Albanese, A. Salerno, F. Scanga) Noi abbiamo messo a confronto la Costituzione italiana del 1948, la Costituzione della Repubblica romana del 1849, lo Statuto albertino e la carta dei diritti umani delle Nazioni unite. Confrontando questi importanti documenti, abbiamo cercato di individuare alcuni diritti fondamentali: libertà di stampa e di espressione, diritto al lavoro e a una retribuzione, diritto d’istruzione ecc. Abbiamo organizzato il nostro lavoro in un ipertesto la cui pagina principale è strutturata in tabella. Nella prima riga della tabella abbiamo posto le quattro Carte anzidette, individuando altrettante colonne. Nelle righe successive abbiamo riportato i principi che volevamo mettere a confronto, evidenziando, per ogni colonna, i riferimenti degli articoli che nella singola Carta li trattano. Facendo click si questi riferimenti è possibile richiamare il testo dell’articolo (vedere la pagina Internet http://www.sosscuola.it/3BM/COSTITUZIONI.HTM del sito del gruppo SOS scuola). A titolo di esempio, riportiamo due righe della tabella.
Tutti possono manifestare liberamente il proprio pensiero. (art.21) La Stampa non può essere censurata. (art.21)
La libertà individuale è guarantita. La manifesta- (art.28) zione del pen- La stampa è siero è libera. libera ma (art.7) una legge reprime gli abusi. (art.28)
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Ogni individuo ha la libertà di opinione e di espressione (art. 19)
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Nel primo caso si vede che tute le Carte messe a confronto trattano il diritto esaminato, ciascuna in modo ben diverso. Nel secondo caso, invece, notiamo che lo Statuto albertino non reca traccia di riferimenti alla libertà di insegnamento.
L’arte e la scienza sono libere e libero ne è L’insegnamento è l’insegnamento. libero. (art. 8) (art. 33) La scuola è aperta a tutti. (art. 34)
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Ogni individuo ha il diritto all’istruzione. (art. 26)
Sempre a titolo di esempio, facciamo notare che cliccando sul riferimento all’articolo 21 della Costituzione italiana, si accede al testo dell’articolo e a un breve nostro commento: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria...nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili...”(art.21). Ogni soggetto può esprimere le sue opinioni liberamente, attraverso ogni mezzo di comunicazione, e ciò non può essere vietato, se non nei casi previsti dalla legge. La Stampa non può essere sottoposta a censura. Essendo un popolo libero, ogni cittadino ha la libertà di esprimere il proprio pensiero attraverso qualsiasi mezzo. Un aspetto che ci ha colpito, grazie al metodo comparativo adottato, è il riferimento al lavoro: praticamente soltanto la Costituzione italiana tratta in modo esauriente questo importante aspetto della vita dell’uomo. Concludendo, desideriamo sottolineare che noi avevamo già studiato lo Statuto albertino e la Costituzione italiana, ma il metodo utilizzato in questo lavoro di ricerca, suggerito dal professore Cariati, ci ha permesso di evidenziare facilmente punti di contatto e differenze tra le Carte messe a confronto. Inoltre, abbiamo potuto confrontare le due Carte dell’Italia che noi già avevamo studiato, da un lato, con la Carta della Repubblica romana, scoprendo punti di contatto straordinariamente fecondi, dall’altro con la Carta dei diritti umani delle Nazioni unite, come termine di paragone più avanzato. Da questo confronto abbiamo ricevuto la conferma che la nostra Carta costituzionale è bellissima e niente affatto superata. 82
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Seconda parte Costituzioni europee ed americana a confronto (di G. Bruzio e C. Vitaro) Noi abbiamo messo a confronto i diritti fondamentali che sono presenti in cinque Carte di altrettanti paesi d’Europa con il dettato della Costituzione americana e con il progetto di Costituzione europea. Abbiamo scelto la Costituzione polacca perché il preambolo fa esplicito e ampio riferimento alla fede cattolica, riferimento che tanto ha fatto discutere coloro che hanno redatto la Costituzione europea. La Costituzione albanese è stata scelta per omaggio al prof. Moccia, albanese di Calabria, e perché è stata scritta pochi anni fa. La Costituzione ungherese è stata scelta perché è stata redatta recentemente ed è l’ultima entrata in vigore, ha un riferimento alla storia precedente di quel paese, e ripudia la dittatura. La Costituzione americana è stata esaminata perché è breve, mentre le altre sono lunghe. Noi abbiamo lavorato con lo stesso metodo comparativo con cui hanno lavorato le tre compagne di III, suggerito dal professore Cariati. Anche noi abbiamo costruito una tabella come prima pagina di un ipertesto. A titolo di esempio, riportiamo alcune righe della tabella (vedere la pagina Internet http://www.sos-scuola.it/5FM/PROGETTO%20COSTITUZIONE.htm del sito del gruppo SOS Scuola).
DIRITTI
DIR. DI UGUAGLIANZA
COSTICOSTICOSTICOSTICOSTI- COSTITUZIO TUZION TUZION TUZION TUZION TUZION NE AE UNE ITAE ALBA- E EURO- E POMERIC GHERES LIANA NESE PEA LACCA ANA E
ART.3
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ART.18
ART.80
ART.32
ART.I /XV
Nella riga del diritto al lavoro, cliccando su articolo 4 si accede al testo. ARTICOLO 4 - Costituzione Italiana La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, 83
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un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Cliccando su articolo 35 si accede al relativo testo. ARTICOLO 35 - Costituzione Italiana La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero. Cliccando su articolo 36 compare il testo. ARTICOLO 36 - Costituzione Italiana Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi. Cliccando su articolo 41 compare il testo sulla libertà di intrapresa e i suoi limiti, qui collocato perché sempre di lavoro si tratta. ARTICOLO 41 - Costituzione Italiana L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità; sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
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Bollettino n. 7 ART. 4 / 35 /36 / 41
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ART. 75
ART. 24
ART. XII
DIRITTO DI LIBERTA’ PERSONALE
ART. 13
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ART. 27
ART. 66
ART. 31
ART. IV
LIBERTA’ DI DOMICILIO
ART. 14
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ART. 37
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ART. 50
ART. XXVII
LAVORO
DIRITTO ALLA SALUTE
ART. 32
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ART. 95
ART. 68
ART. XX
DIRITTO ALL’ISTRUZ IONE
ART. 34
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ART. 57
ART. 74
ART. 70
ART. XI
LIBERTA’ SINDACALE
ART. 39
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ART. 50
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ART. 59
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DIRITTO ALLO SCIOPERO
ART. 40
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ART. 51
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ART. XVII
ART. 45
ART. 99/100
XV EMENDAMENTO Sezione I; DIRITTO DI VOTO
ART. 48 XXIV EMENDAME NTO Sezione I
ART. ART. XXIII 62
Guardando la tabella, osserviamo che la Costituzione americana non tratta moltissimi diritti: questo perché, come detto, è una costituzione breve. Inoltre, l’unico diritto trattato da tutte le costituzioni esaminate, per ovvi motivi, è il diritto di voto. Desideriamo ringraziare il professore Cariati perché questo lavoro di ricerca ci ha permesso, lavorare in autonomia cooperando, di mettere a frutto le 85
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competenze acquisite in questi anni in diverse discipline: storia, diritto, italiano, inglese, informatica. L’informatica, in particolare, ci ha permesso di dare corpo al metodo comparativo, metodo che si è rivelato estremamente utile; e, crediamo, lo sarà anche in molti altri casi, ai quali in futuro intendiamo applicarlo. Dibattito (appunti a cura di A. Salerno e F. Scanga) Cristina: questo lavoro mi ha arricchito molto. Ho capito molto di più della Costituzione italiana. Ho individuato molte differenze soprattutto nelle Costituzioni ungherese e polacca nelle quali gli argomenti sono molto approfonditi. La Costituzione ungherese è divisa in quattro parti. Nel lungo preambolo c’è un forte riferimento alla storia del paese e al re santo Stefano. Emilia: perché avete deciso di esaminare proprio questi diritti? Perché questi diritti e non altri? Vi è chiaro che la Costituzione ha avuto bisogno di un’Assemblea costituente mentre lo Statuto albertino fu concesso? Cristina: abbiamo scelto di lavorare sui diritti che interessano proprio tutti i cittadini; comunque sono quelli che anche in diritto noi abbiamo studiato meglio. America: viene pubblicato questo lavoro sul sito? Questo lavoro mi ha suscitato molto interesse: mi colpisce per esempio che la Costituzione europea non abbia articoli riguardanti il diritto di sciopero. Iole: complimenti vivissimi per il lavoro. Studiando questi diritti, cosa vi ha meravigliato di più tra le differenze? Ho notato che alcuni diritti in alcune Carte sono espressi in maniera più approfondita in altre meno, qual è il modo migliore di esporre i diritti? Cristina: in particolare abbiamo notato il diritto allo sciopero e quello al voto. Secondo me il migliore è il diritto espresso in sintesi. Chiara: nell’esaminare le Costituzioni emerge l’utilizzo di parole diverse per indicare spesso gli stessi concetti: “cittadino”, “individuo”, “persona”. Vi siete chiesti come mai? Cristina: forse c’entra il contesto culturale in cui le carte sono state scritte. Forse “cittadino” fa riferimento alla rivoluzione francese, mentre “persona” è riconducibile a una visione cristiana, e magari “individuo” a una visione atea e materialistica della vita. Alfio: nella storia dei popoli si parla di Costituzione, ed è il pilastro su cui si regge tutto. Questo tutto è rappresentato da quattro parole: “educazione” (come educare, chi educare, a quali costi educare); “democrazia”; “libertà”; “economia”. Ma queste quattro parole sono la vita stessa. Può una costituzione contenere la vita stessa? Non può. Infatti la costituzione elenca i desideri più che la realtà. Per esempio, se è vero che l’Italia è 86
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fondata sul lavoro, l’Italia non esiste. La Costituzione di un popolo è frutto della sua storia. Più le Costituzioni sono lunghe e rigide, più devono essere rivisitate e sono anche meno facili da redigere. Tutte le Costituzioni sono frutto di una filosofia chiamata Illuminismo, e il loro limite sta nella visione laica di chi governa. L’insegnamento comune di queste Carte dice che i conflitti non si risolvono con lo scontro ma con il dialogo e il compromesso. Cristina: secondo voi, una Costituzione lunga e rigida può essere meno violabile? Franco: dal punto di vista del funzionamento dello Stato, una Costituzione lunga e rigida è di ostacolo nella vita quotidiana? Alfio: la semplificazione non è di impedimento allo svolgimento della vita quotidiana, perché il popolo si adegua alla propria legislazione. Tommaso: in generale, sono molto contento di come sono andate quest’anno le cose. All’inizio dell’anno abbiamo posto in evidenza i temi della cittadinanza e della democrazia, quello della circolazione della cultura e quello dei mezzi di comunicazione nell’era di Internet. In particolare in due tappe siamo riusciti ad esplorare il tema della democrazia nell’antica Grecia e oggi, grazie al lavoro di due gruppi di studentesse, i diritti umani e le carte costituzionali. A mio avviso, il tema nel suo insieme richiede che ci si soffermi ancora un anno. Quanto al dibattito di oggi sulle costituzioni, mi limito a riprendere il tema del lavoro menzionato nell’articolo 1 della nostra Carta. In diverse carte costituzionali si parla del lavoro, ma nessuna ne tratta come quella italiana, che pone il lavoro tanto in evidenza, a fondamento della Repubblica (mi risulta che Malta abbia una costituzione che tratta il lavoro in modo simile alla nostra, alla quale quella si sarebbe ispirata). Poi c’è l’articolo 41 che parla di “libera iniziativa”: imprese, professioni ecc. C’è chi ritiene che i lavoratori siano soltanto quelli dipendenti, e sarebbero quelli degli articoli 1 e 4, ma c’è un equivoco: il lavoro deve essere visto in senso più ampio. Vedete, ogni attività, che non sia gioco, è lavoro, anche quello che facciamo noi con i nostri incontri, ancorché gratuitamente. Ebbene, l’equivoco italiano è che i lavoratori dell’articolo 41 si sono messi contro i lavoratori degli articoli 1 e 4. Francesca: questo lavoro per me ha inciso molto perché ho appreso nuove cose. Ho scoperto nuove Costituzioni da me in precedenza trascurate. Sono orgogliosa del fatto che il mio lavoro sarà pubblicato sul sito. Anche il metodo seguito potrà essere utile successivamente, come metodo di studio e di ricerca. Alfio: è più semplice la Costituzione o il Codice Civile? Angela: il Codice Civile è più complicato della Costituzione, ma contemporaneamente semplifica la trattazione di alcuni diritti. Premetto che è stato il 87
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mio primo lavoro per SOS scuola. È stata un’esperienza formativa anche perché sottovalutavo determinate cose. Abbiamo lavorato io, Ilenia e Francesca utilizzando come fonte delle nostre ricerche Internet, lavorando con il linguaggio di programmazione HTML. Il lavoro rende orgogliose le persone. Commentare alcuni diritti ha presentato qualche difficoltà, per il resto, tutto liscio. Alfio: compiere questo lavoro ha comportato delle discussioni in classe e screzi con alcuni compagni che non hanno partecipato? Angela: no, l’unica cosa che non condivido è che alcuni prendono impegni e poi si ritirano.
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Nascita dell’Occidente (recensione a cura del 4B mercurio, ITE “V. Cosentino” di Rende, sotto la guida di Tommaso Cariati) Il libro Nascita dell’Occidente di Alessandro Corneli, edito a cura della Fondazione Achille e Giulia Boroli, Milano, 2008, è suddiviso in due parti: la seconda, a cura di Alessandro Corneli, tratta la nascita dell’Occidente, la prima parte, invece, presenta un saggio di Marta Sordi intitolato Idea di Occidente in Grecia e Roma. L’opera si inserisce nel quadro della riflessione sulle radici dell’Occidente di cui si è discusso anche a proposito della cosiddetta Costituzione europea. Usualmente si ritiene che la culla dell’Occidente sia la Grecia antica e il mondo romano. Difatti a questa idea rimanda fondamentalmente il saggio introduttivo di Marta Sordi. La ricerca di Alessandro Corneli amplia questo quadro estendendo le radici dell’Occidente, indietro nel tempo, a tutte le civiltà del vicino Oriente sviluppatesi nei millenni precedenti la fioritura della civiltà greca, e, in avanti, al mondo cristiano. Il libro rappresenta un utile strumento di riflessione che noi giovani possiamo utilizzare come guida per orientarci quando si parla di globalizzazione, di società dell’informazione, di democrazia, di mercato. Infatti, se la globalizzazione è stata possibile grazie ai mezzi moderni di informazione legati all’informatica, non dobbiamo dimenticare che, a ben vedere, le nuove tecnologie rappresentano un nuovo stadio del percorso che l’umanità ha compiuto lungo la linea che parte dalla comparsa del linguaggio e passa per l’invenzione della scrittura. Alessandro Corneli, citando fonti archeologiche e testi antichi, guida il lettore attraverso un viaggio appassionante che comprende la fase dell’invenzione della scrittura da parte dei Sumeri e arriva al cristianesimo. Egli mette in evidenza come la scrittura cuneiforme sia comparsa ben prima che fiorisse la civiltà nella Grecia antica. La scrittura ha permesso la memorizzazione dei dati relativi alle transazioni economiche molto prima che consentisse la redazione di opere di poesia, teatro, filosofia. Colpisce la fatica che gli “scolari” erano chiamati a fare per impadronirsi della scrittura al tempo dei Sumeri. Riportiamo di seguito un brano letto nel libro di Corneli: “Quando mi alzavo presto la mattina, mi volgevo a mia madre e le dicevo: ‘dammi la colazione, devo andare a scuola!’ mia madre mi dava due fo89
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cacce… A scuola l’incaricato della puntualità diceva: ‘Perché sei in ritardo?’ Io ero impaurito e il cuore mi batteva, entravo davanti il mio maestro e facevo l’inchino. Il mio direttore leggeva la mia tavoletta, diceva: ‘Ci manca qualcosa’, mi bastonava. L’incaricato del silenzio diceva: ‘perché parlavi senza permesso?’, mi bastonava. L’incaricato della condotta diceva: ‘perché ti sei alzato senza permesso?’, mi bastonava. L’incaricato di sumerico diceva: ‘perché non hai parlato sumerico?’, mi bastonava. Il mio maestro diceva: ‘la tua mano non è buona’, mi bastonava”. Da questo esempio si evince che imparare a scrivere non è mai stato facile e che la padronanza della scrittura si raggiunge solo attraverso un’applicazione costante e un impegno notevole. La scrittura però permette a chi sa usarla di acquisire un potere all’interno della società in cui vive che non è dato a nessun altro. Di fatti il potere politico, e anche quello economico, è strettamente legato alla padronanza di questo potente mezzo. Oggi però la comunicazione non si basa più solo sulla scrittura, ma su tutti i mezzi che spaziano dal telefono ad Internet e impiegano le tecnologie informatiche come potente strumento di integrazione. Naturalmente, anche la padronanza dei mezzi di comunicazione di oggi richiede un lungo tirocinio ma chi la possiede può dire di essere ben inserito nella società.
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Appendice
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SOScafè Il gruppo SOS scuola, da gennaio 2011, ha dato vita, presso il Time out di Quattromiglia di Rende, al caffè letterario denominato SOScafè. Alcuni temi affrontati finora sono stati: Il degrado della scuola italiana e la legge 104. Il convegno di “Famiglia Aperta” a Vigevano - fine ottobre 2011. La crisi profonda che ha colpito l’ITE “Cosentino”. L’esperienza di studenti universitari alle prime armi. “Fiume di Oppio” di Amitav Ghosh. Breve testimonianza sul viaggio fatto a Vigevano per partecipare al convegno su “Il primato delle persone nella società multietnica”. Depressione e fatica di crescere dei giovani; del governo Monti e della speranza per l’Italia; di democrazia nell’antica Grecia e dintorni. Nuovo corso della politica italiana; uomini divorziati ridotti in miseria; lettura di un paio di poesie di Bertolucci e di una preghiera per l’umanità. Mobbing, bossing, lecchinaggio; eutanasia e vita: il caso Lucio Magri; costruzione del supervirus sterminatore di popolazioni; originalità della ricerca di Famiglia aperta. L’evoluzione della specie “homo” sulla terra; l’attitudine alla cooperazione e al conflitto; Darwin e Kropotkin; natura e cultura: realtà, rappresentazione, astrazione, interpretazione; lo spettacolo indecente della politica e della vita parlamentare. Laurea honoris causa a Roberto Benigni da parte dell’Università della Calabria. Lettura di una poesia di Miretta Pasqui e di un testo di Giuseppe Limone sulla verità. Discussione su giovani e disoccupazione. Cittadinanza e diritti dei gay. Problemi relativi alla redazione e trasmissione dei testi biblici. Lettura del Salmo 122.
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Segni sulla sabbia. Viaggio nelle regioni 150 anni dopo l’Unità di Tommaso Cariati
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Toscana, deposito attivo d’arte e di memorie Ogni persona istruita possiede una propria chiave di lettura della Toscana, la quale dai paesaggi, alle città d’arte, alla letteratura, ne offre infinite. Per noi la vasta regione triangolare, cerniera tra centro del paese e nord padano, è soprattutto uno scrigno, anzi un deposito sempre attivo d’arte e di memorie. Tu pensa che in questa regione hanno avuto i natali quei geni dell’umanità che si chiamano Dante, Michelangelo, Leonardo. Ricorda che Ugo Foscolo, ne I sepolcri, rivolto a Firenze, scrive: «Te beata, gridai, […] / ma piú beata che in un tempio accolte / serbi l’itale glorie». La Toscana è però, per noi, soprattutto deposito attivo del patrimonio della lingua. Come dimenticare alcuni fatti cruciali? Ricordiamo che il fiorentino Dante Alighieri è l’autore del De vulgari eloquentia, trattato in latino sulla lingua “volgare”; che qualche secolo più tardi Leon Battista Alberti, il quale non era toscano, conduce a Firenze una battaglia con il “Certame coronario”, gara pubblica di poesia che mirava ad affermare l’importanza del volgare; che l’“Accademia della crusca”, che vigila sulla lingua, è un’istituzione plurisecolare che ha sede a Firenze; che Alessandro Manzoni, il grande lombardo autore de I Promessi sposi, si reca a Firenze per “risciacquare i panni in Arno”; che Nora Galli de Paratesi pubblica Lingua toscana in bocca ambrosiana; che altri raccomanda “lingua toscana in bocca romana”; che, insomma, comunque si rivolti la frittata, le radici della nostra lingua affondano in questa terra di colline e prati. La Toscana, approssimativamente, disegna un triangolo rettangolo sullo Stivale: a occidente presenta il lato più lungo, l’ipotenusa, definito quasi del tutto dal mare; a settentrione, l’ossatura dell’Appennino tosco-emiliano, dal passo della Cisa (dalle parti della Liguria) alla Bocca Trabaria (nei pressi del punto di intersezione dei confini di Toscana, Umbria e Marche), definisce il cateto di base del triangolo; l’altro cateto è descritto dal confine con Umbria e Lazio. Uno sguardo ai dati demografici ci è d’aiuto per cogliere subito alcuni aspetti di questa grande regione: la popolazione è stabile intorno a tre milioni e mezzo di abitanti; la superficie la colloca al quinto posto in Italia; la popolazione la pone al nono posto; la densità la colloca all’undicesimo posto; Firenze è all’ottavo posto dei capoluoghi, con poco meno di 366.000 abitanti. La Toscana è, dunque, una regione vastissima con aree fortemente urbanizzate, per esempio, la conurbazione di Firenze, Prato, Pistoia; e una costellazione di città di medie dimensioni sì, ma importanti e famose; e anche ampi spazi poco antropizzati: le zone montane, le crete di Siena, con il deserto di Acco94
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na, così classificato per la sua aridità e per il suo aspetto lunare, la Maremma, l’area acquitrinosa del Fucecchio. La regione, dal punto di vista geografico, appare segnata da pochi elementi strutturali: dai monti delle Alpi Apuane, nel settore nord-ovest; dalla cornice-cappello dell’Appennino Tosco-Emiliano, che esibisce il monte Prato, il quale con i suoi 2.053 m è il più elevato del territorio; dal mar Tirreno a occidente; e dalla profonda incisione del solco dell’Arno. L’asta fluviale più importante della regione, nel segmento da Firenze al mare, trascorre in direzione est-ovest; a monte del capoluogo, invece, l’Arno ha un andamento bizzarro perché prima, nel Casentino, scorre parallelo al Tevere, poi gira torno torno al massiccio calvo del Pratomagno, avvolgendolo in una boccola, o cappio, come per strozzarlo. Dante, nel Purgatorio, dell’Arno scrive: «Per mezza Toscana si spazia / un fiumicel che nasce in Falterona / e cento miglia di corso nol sazia». Anche questo è deposito di memorie: si tratta, da quelle parti, di un fiumicello perché dei numerosi affluenti non ha ancora ricevuto neppure il modesto tributo del Canale Maestro che solca la Valdichiana. Lungo questa valle il grande fiume toscano avrebbe anche potuto tirare diritto verso sud e, dopo Chiusi, regalare le proprie acque al Tevere. Invece segue il suo corso bizzarro; dopo Pontassieve, però, salvo descrivere anse morbide e pittoresche, il fiume finalmente riga diritto al mare, tagliando trasversalmente la regione: nel complesso sembra una serpe gigantesca con la testa a Pisa e la coda che striscia intorno al Pratomagno. La Toscana è regione in cui prevalgono le colline; non mancano però le montagne, neppure al sud dove troviamo il monte Amiata, e l’Argentario praticamente nel mare: sono due antichi vulcani spenti. Se guardi la cartina osservi che la regione è articolata in tantissime sub-regioni storiche, e famose non meno delle città: la Garfagnana, il Casentino, il Chianti, la Maremma, il Mugello ecc. Le città, grandi o piccole, ma tutte famose, punteggiano la regione come una galassia di stelle: Firenze, Siena, Pisa, Livorno, Arezzo, Pistoia, Lucca, Prato; quest’ultima cresciuta a dismisura nella seconda metà del XX sec. a tal punto da fare concorrenza alla stessa Firenze: di fatti ottenendo negli anni ’90, in un fazzoletto di terra, una propria provincia. Le città sono dislocate nella regione secondo un ordine abbastanza preciso: ve ne sono lungo la costa: Viareggio, Livorno, Cecina, o, poco discoste da essa, Pisa, a volte doppiate da una città gemella sul mare, come Massa, Carrara e, in parte, Grosseto; ve ne sono lungo l’asse viario Firenze-mare, di fatti un arco parallelo all’Arno: Firenze, Prato, Pistoia, Lucca; nel quadrante centrale troviamo Siena; Arezzo, invece, è dislocata a est, dalle parti dell’Umbria. Accanto alle città più importanti, noterai poi tante cittadine bellissime, spesso poste, come perle di una collana, lungo importanti assi di comunicazione: per esempio, 95
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Cortona, Montepulciano, Chianciano sui colli della Valdichiana; Castelfiorentino, Certaldo, San Gimignano, Poggibonsi, Colle di Val d’Elsa, Monteriggioni, Montalcino, San Quirico d’Orcia, Pienza, Radicofani lungo la via Cassia e la via Francigena. Non tutti i turisti che viaggiano in Toscana, per ammirare arte e paesaggi, sanno che l’identità di questa regione è stata costruita nei secoli, non sulla concordia, sulla convivenza civile e sulla reciprocità, ma su «irriducibili antagonismi». Diamo uno sguardo alla storia. Per esempio, nel 1260 Siena massacra a Montaperti l’esercito guelfo di Firenze, nel quadro del secolare scontro tra Guelfi e Ghibellini, e anche, in questo caso, della rivalità tra le due città; nel 1472 i fiorentini mettono a soqquadro Volterra per il controllo delle miniere, e l’odio di quelli di Volterra non si è ancora sopito, se nel 1992 per i festeggiamenti del quinto centenario della morte di Lorenzo il Magnifico, hanno fatto sapere che avrebbero celebrato messe in memoria dei concittadini caduti in quell’infausto evento; nel 1555, dopo molti mesi di assedio e una campagna feroce di conquista e di sterminio, Siena cade in mano del dispotico Cosimo I de’ Medici (pare che quando si arresero, gli abitanti di Siena fossero passati da 40.000 a poche migliaia). Nella guida rossa del Touring leggiamo: «Entrate nel salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, cuore cerimoniale e politico di Firenze e di Toscana. Entrate e guardatevi intorno. Vedrete da per tutto, affidate al pennello del Vasari e dei suoi allievi, scene di atroci battaglie, di libertà conculcate, di autonomie sconfitte; qui è raffigurata la conquista di Siena, più in là la presa di Pisa. Se alzate gli occhi in alto vedete il granduca Cosimo de’ Medici al centro del soffitto in veste di trionfatore, come un Cesare antico, come Zeus», come il Cristo pantocrator dei mosaici bizantini; concordiamo, è un bell’esempio di strettissimo intreccio tra deposito d’arte e storia. A Siena, analogamente, troviamo celebrate nel Palazzo Pubblico le vittorie della Valdichiana e di Poggibonsi. Mettiamo da parte questi pensieri e godiamoci il paesaggio. In questo viaggio nel cuore del deposito d’Italia d’arte e di memorie, in Toscana, siamo giunti dall’Umbria, dalla valle tiberina. Superato il lago Trasimeno, bellissimo con le sue alture e le sue isolette, siamo scesi nella Valdichiana. Varcato il confine, in alto a sinistra si vedono Chianciano e Montepulciano; nel fondovalle Chiusi. La valle è praticamente priva di pendenza, e ha qualche indecisione l’acqua che scola nel Canale Maestro: infine scorre, pigra, verso nord. I due laghetti di Chiusi e di Montepulciano sono graziosissimi; si vedono bene percorrendo la strada che da Chianciano porta a Montepulciano. Questa cittadina è bella: bisogna fare qualche sforzo per percorrere interamente il corso, che conduce alla sommità del colle nella piazza Grande, dove si trovano il palazzo comunale e il duomo. Dai numerosi punti di osservazione si può 96
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ammirare tutta la campagna coltivata a uliveti, vigne, mais, tabacco e girasoli, specialmente i rilievi situati al margine occidentale del lago Trasimeno, ben illuminate dal sole al tramonto. Dal fondovalle siamo saliti prima a Cortona e poi ad Arezzo, la città natale di Petrarca. Cortona è una città importante. Bellissimo è il Palazzo Comunale, con gradinata, simile a quello di Montepulciano: un po’ diversa in alto la facciata, e anche la torre centrale, più lineare. Il mercato allestito per i turisti occupa tutta la piazza principale e le strade. A Montepulciano assistiamo alla sfilata degli sbandieratori in erba (sono ragazzini). Si sta preparando il Bravìo delle botti, una gara in cui i concorrenti fanno rotolare delle botti lungo il corso del paese. Ad Arezzo sostiamo un poco: interessanti il Palazzo Comunale, suddiviso in due corpi, con la torre separata dalla fabbrica principale; entrambi con merlature alla sommità. Bello il duomo, ma ancor più bella, al nostro gusto, la basilica di San Francesco, perché semplice e lineare in mattoni e pietre, ad una sola navata, con celebri affreschi di Piero della Francesca. Bellissima anche la Pieve di Santa Maria e la piazza grande alle sue spalle: articolata, in pendenza, con gradinate, circondata da palazzi affascinanti: Benigni vi ha girato scene de La vita è bella. Nella Valle di Arezzo, bellissimo sull’Arno è il ponte a Buriano, in pietre, a schiena d’asino: bisogna proprio andare per vie secondarie per apprezzare l’Italia. Viaggiando verso Firenze, lungo la Val d’Arno superiore attraversiamo diverse volte il fiume, per esempio sul ponte del Romito. Nei pressi di Firenze compiamo un’incursione sulle colline del lembo settentrionale del Chianti, dalle parti di Impruneta. Il sole che declina, all’ora del vespro, fa risaltare i contorni di collinette e valli, ben coltivate a uliveti e vigne. Trascorriamo molti minuti in contemplazione del creato. Tu credi che il turista che si reca in Toscana per ammirare chiese e palazzi, affreschi, quadri, mosaici, sculture, si renda conto dello stridore che c’è tra la narrazione delle sacre scritture, illustrata, per esempio, sulle porte in bronzo del Battistero di Firenze e sul pavimento del duomo di Siena, e le lotte crudeli per il potere, con i continui ammazzamenti, tra queste città, e tra opposte fazioni d’una d’esse? Credi che si renda conto della contraddizione che c’è tra la potente Firenze dei Medici e la vita di San Giovanni Battista, patrono della città, che “vestiva di peli di cammello” e si “cibava di locuste”? O, ancora, della dicotomia che in Toscana vede schierato, da una parte, un esercito di artigiani, scalpellini, muratori, architetti, scultori, pittori, scienziati, come Giotto, Masaccio, Donatello, Brunelleschi, Botticelli, Michelangelo, Leonardo, e, dall’altra, contadini, allevatori, raccoglitori, mezzadri, carbonai, i quali hanno fatto grande la regione, non meno di quanto l’abbiano illustrata artisti, poeti, granduchi e cardinali? O credi che quell’esercito di operai umili ed anonimi nella storia svolga una funzione poco importante? La questione è 97
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ben posta, visto che l’hanno affrontata gli studiosi di antropologia, etnografia, cultura materiale, sociologia e, grazie alla crisi planetaria, finalmente, anche quelli di economia. Gli studiosi più intelligenti si sono resi conto che, accanto al capitale, al lavoro, alle materie prime e ai semilavorati, in un’impresa contano il capitale umano, ma anche il capitale sociale; che, oltre alle economie di scala, e di specializzazione, per esempio, il genio di qualcuno ben dotato e ambizioso, contano le economie di agglomerazione, i rapporti interpersonali, i valori, il rispetto, la stima, la fiducia reciproca: così funzionerebbero quei distretti industriali, le filiere del mobile, del divano, o dei tessuti di Prato, studiati dal toscano Giacomo Becattini, forse sulla scia degli studi dell’ungherese K. Polanyi, ma anche da studiosi che si sono resi conto dell’enorme forza che spesso sprigionano i “legami deboli”, cioè quelli basati, non sulla potenza economica o politica, o, ancora, gerarchicamente formalizzata, ma su amicizia, parentela, stima, fiducia, consuetudini, frequentazione continua e duratura. Gli scienziati sociali, per esempio M. Granovetter, cui rinvia la metafora della “forza dei legami deboli”, hanno scoperto che il mercato è un’istituzione radicata «in reticoli di interazione sociale: l’azione economica è “embedded” nelle reti di relazioni»; finalmente. Magari non è facile definire una metrica (in senso matematico, non quella che ha a che fare con la poesia), che permetta di misurare il grado di maggiore performance delle imprese che fanno parte di un distretto industriale, rispetto a quelle che non ne fanno parte; non è facile neppure spiegare come agiscono le relazioni di conoscenza, dare a esse un peso economico; né ancora come favorire la crescita e lo sviluppo del “capitale sociale” di un certo tipo. Senti questo: «L’idea di fondo […] è che la dimensione aziendale in sé sia ingannevole. In molte industrie, non è la dimensione dell’impresa ma la qualità dell’ambiente locale che determina la competitività del sistema manifatturiero. L’enfasi, in altre parole, viene spostata dalle economie di scala interne alle economie esterne localizzate». In una pubblicazione specializzata puoi leggere: «L’organizzazione produttiva distrettuale somiglia a quelle delle colonie di insetti: benché ogni individuo sia separato, non si capisce nulla del suo comportamento e della sua performance senza un riferimento alle interazioni nell’ambito dell’unità dell’ordine superiore, dello ‘sciame intelligente’». Del resto, pare che già gli economisti napoletani del SetteOttocento avevano evidenziato il “nesso fra sviluppo economico e sviluppo civile”, e che quelli lombardi, per esempio C. Cattaneo, avevano compreso l’importanza della società civile di un paese o di una regione come “attore partecipante al processo di sviluppo”. Pensa, uno sguardo precoce al deposito attivo delle dottrine economiche italiane avrebbe evitato molti guai al pianeta 98
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Terra. Ma lasciamo da parte queste riflessioni oziose e godiamoci il viaggio, ché siamo a Firenze, universalmente considerata città dell’arte, di deposito d’arte con un patrimonio di sculture, chiese, palazzi, dipinti, e memorie storiche, scientifiche e letterarie che ne fanno un museo diffuso. Due sono i siti nevralgici della città: piazza della Signoria, cuore del potere civile, e quello, poco distante, dove si trova il centro religioso. Vi si trova la stupenda cattedrale di Santa Maria del Fiore, immensa, forse la quarta al mondo, con cupola del Brunelleschi, il campanile di Giotto, sulla destra, guardando la facciata del duomo, di fronte il battistero di San Giovanni, con le celebri porte di bronzo che narrano cicli delle sacre scritture: straordinari sono i mosaici che si possono ammirare all’interno del battistero. Tra gli edifici del potere civile del tempo dei Medici, ritornati in auge al tempo dell’Unità d’Italia, tra il 1865 e il 1871, il Palazzo Vecchio ci piace molto; gli altri sono tutti sede di musei: Palazzo degli Uffizi, e, sulla sponda sinistra dell’Arno, Palazzo Pitti. Il museo diffuso che Firenze racchiude coincide per buona parte con la storia dell’arte, ma anche con la storia e il paesaggio della Toscana: vicino alla stazione di Santa Maria Novella troviamo l’omonima chiesa, con esterno di marmi bianchi e verdi; dalla parte opposta, la chiesa di Santa Croce, con faccia di marmo di Carrara: custodisce le spoglie mortali di Galileo Galilei, Niccolò Machiavelli, Michelangelo e altri, che «il forte animo accendono», per dirla col Foscolo de I sepolcri; si tratta di quel deposito attivo di memorie che, mentre viaggiamo, opera e suggerisce. Particolare è la chiesa Ortodossa Russa, con le sue cinque cupole a cipolla, colorate: dentro si trovano naturalmente icone bizantine. Ma Firenze non finisce qui: c’è l’Arno che da solo è un capolavoro, con i suoi lungarni e i suoi ponti, tra i quali spicca Ponte Vecchio, con le sue botteghe; ci sono le colline che cingono d’amorevole abbraccio la città: Fiesole, Lastra e le altre; c’è Piazzale Michelangelo, splendido punto di osservazione per foto ricordo e cartoline illustrate. Firenze è un deposito attivo d’arte e di memorie, tanto attivo che la città sta imparando a non rimanere imbalsamata come puro scrigno, e periodicamente si rinnova. Si è rinnovata profondamente per vestire degnamente i panni di capitale del neonato Regno d’Italia, negli anni ’60 del XIX sec., e si rinnova ancora: offre percorsi culturali e della memoria, per esempio riguardo alla “linea gotica”, costituita durante la seconda guerra mondiale; percorsi letterari e mostre sulle geniali realizzazioni tecniche di Leonardo; percorsi alla scoperta dell’architettura del Novecento. A Firenze, il marketing territoriale funziona benissimo: ai vari punti vendita dei biglietti di ingresso per visitare chiese, gallerie e mostre gli euro dei turisti vengono rastrellati come le fiche dai croupier sui tavoli dei casinò. 99
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Non sappiamo se qui ci troviamo di fronte a una sorta di “bolla finanziaria” che prima o poi scoppierà, come tutte le “bolle” basate su un sistema economico fasullo. Gli studiosi rassicurano: spendete; comprate servizi culturali, pacchetti del turismo religioso; investite in istruzione; telefonate, navigate. Gli studiosi rassicurano, ma periodicamente ti assale il sospetto che il mondo funzioni in un altro modo, come dicono i bene informati, coloro che sono saldamente inseriti: c’è la lotta politica, c’è la lotta economica, ci sono i partiti e gli schieramenti: bisogna scegliere: “o con noi, o contro”. Non hanno fatto così con gli Etruschi i Romani? Non hanno fatto così con Volterra e Siena i Medici? Non insegnano questo la storia e Machiavelli, con Il principe? Ah Machiavelli, «[…] quel grande / che temprando lo scettro a’ regnatori / gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue», come scrive Foscolo, ne I sepolcri. A Firenze ci si schierava e si rischiava l’esilio o la pelle, come accadde al sommo poeta Dante. Eccoci di nuovo alla dicotomia tra la liturgia del potere e le storie dell’evangelo affrescate, dipinte, scolpite nelle chiese e nei palazzi dei potenti. Ricordati che sta scritto: «I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere». Un uomo o una donna di potere, quando si pone alla guida di una comunità o di un popolo, vista l’immensa portata delle sue decisioni, per essere credibile dovrebbe rinunciare a ogni privilegio, facendosi povero. Tu ne hai visto molti di questi uomini? In verità a Firenze ne puoi incontrare uno: è sepolto nella chiesa di San Marco: si chiama Giorgio La Pira: docente di diritto romano e sindaco di Firenze, abitava con i frati domenicani di San Marco, conducendo una vita ascetica; splendido. Quanto all’Alighieri, “guelfo di parte bianca” o “ghibellin fuggiasco”, P. Caminiti ha scritto: «Dante era certamente un “uomo libero”, perché in possesso dell’unica vera libertà che sia concessa ad un essere umano, quella che sgorga dalla totale sottomissione al Trascendente. […] A un certo punto della sua vita […] egli prende le distanze dai partiti, e dunque non vuole essere ghibellino né guelfo, né bianco né nero»; ben detto. Il tema dell’operosità e del rinnovamento si addice benissimo alla città di Prato, praticamente unita a Firenze: la cittadina si è sviluppata tanto, con i suoi distretti, che da sola ha raggiunto dimensioni tali da farla assurgere a capoluogo di provincia, sia pure molto stretta e lunga, come un salsicciotto. La gente giura che, a Prato, in questo tempo di crisi economica molti capannoni sono chiusi, oppure sono abitati dai cinesi. Noi fatichiamo un poco per andare in auto da Firenze a Prato, per statali e provinciali: nella pianura disseminata di capannoni industriali, tra Campi Bisenzio e Sesto Fiorentino, le indicazioni stradali erano veramente insufficienti, e perfino contraddittorie. La città di Prato ha un bellissimo palazzo Pretorio, in muratura con due tona100
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lità e merlature in alto, e il bel duomo: la facciata termina con paramentiparapetto a capriata: «appare unitaria per l’equilibrata purezza dei volumi e la vibrante bicromia dei paramenti esterni, in alberese e marmo verde di Prato»; saldo e massiccio è, invece, il Castello dell’Imperatore, detto anche Fortezza di S. Barbara o Castello Svevo, perché voluto da Federico II di Svevia per controllare la strada che dalla Toscana, attraverso la valle del Bisenzio, portava in Germania. Lasciata Prato, entriamo in Pistoia: non c’è quasi soluzione di continuità anche tra queste due città. Qui gli urbanisti discettano se parlare di “metropoli” o di “città metropolitana” o, ancora, di “conurbazione”. La cattedrale di San Zeno è bella, con tre ordini di logge, il portico e la decorazione di strisce di marmo bianco e nero; sulla sinistra di chi guarda il duomo c’è il campanile: era una torre di guardia longobarda; sulla destra c’è il palazzo dei vescovi; di fronte al duomo, il battistero di San Giovanni in Corte a base ottagonale. Nella grandissima piazza, in fondo, è il palazzo del comune. Nella piazzetta che si trova alle spalle del battistero, invece, c’è il mercato: compriamo pane, formaggio e frutta, ci dissetiamo alla fontanella pubblica, e consumiamo il nostro pasto frugale, seduti su un muretto. Viaggiando attraverso la Toscana, ci ricordiamo della questione della lingua posta da Dante, e quella del rapporto tra potere e potenza della parola, e ci viene in mente che oggi tutto è comunicazione. Nell’information society tutti parlano, coordinano, insegnano, dirigono: avvocati, professori, manager, giornalisti, esperti di marketing, addetti alla comunicazione aziendale, venditori, pubblicitari: le professioni del nostro tempo sono tutte basate sulla comunicazione. Non è un caso che siano nati tanti corsi di laurea che prevedono vari modi di impastare metodi e tecniche delle comunicazioni; non è neppure un caso che le cosiddette “tecnologie dell’informazione e della comunicazione” abbiamo assunto un ruolo tanto pervasivo nel nostro tempo, e che vengano insegnate in tutti i corsi di laurea. Se, però, le parole chiave del giornalismo sono “sesso”, “soldi” e “sangue”, e se i sistemi di comunicazione oggi sono sviluppati all’ennesima potenza, si pone un serio problema di decodifica dei messaggi. Ricordiamo il dialogo che avviene nel deserto tra Gesù e il diavolo durante le tre tentazioni: poiché Gesù ribatte colpo su colpo, anche citando la Parola di Dio, il diavolo, per avere maggiore presa, cita anch’egli la Scrittura: “Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù: sta scritto infatti: ‘Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano’ e anche: ‘essi ti sosterranno con le mani, perché il tuo piede non inciampi in una pietra’”: il diavolo, che conosce la Scrittura, scimmiotta Gesù, per confonderlo; potenza, e miseria, della parola umana. Per trovare esempi sagaci di uso strumentale e, diciamo, creativo della comunicazione basta aprire il Decamerone di Boccaccio, o i Promessi sposi di Manzoni, o, ancora, La certosa di Parma di Stendhal. 101
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Il nostro viaggio però continua. Superati i territori della provincia di Pistoia, nei quali si coltivano piante a perdita d’occhio nei vivai, ci avviciniamo a Lucca, la città totalmente murata, collocata in una landa extrapiatta, a meno di venti metri sul livello del mare. Si tratta di un’altra storia, un altro deposito, perché dopo essere stata, nell’alto Medioevo, capitale del ducato longobardo della Tuscia, si è sviluppata come comune, e, in seguito, si è costituita come repubblica, e neppure i Medici di Firenze osarono conquistarla. Su Wikipedia leggiamo: «Lucca contiene ancora intatte tante delle caratteristiche tipiche dei tempi lontani. L’anfiteatro, che conserva ancora la sua caratteristica forma di piazza ellittica chiusa; il foro, situato nell’attuale piazza S. Michele, dominato dall’omonima chiesa romanica […]. Ma la traccia romana più evidente è nelle vie del centro storico, che riflettono l’ortogonalità dell’insediamento romano impostato dal cardo e dal decumano […]». Oggi la cinta muraria è un passeggio cittadino molto frequentato. Il duomo di San Martino ha tre ordini di logge con colonnine, e portico con tre archi; a destra di chi guarda è il campanile in due tonalità. Particolare la chiesa di San Michele in Foro, edificata nel foro romano, dove al tempo dei Longobardi fu costruita una chiesa dedicata all’arcangelo. Alla sommità centrale della facciata campeggia una statua dell’arcangelo Michele nell’atto di trafiggere il drago con una lancia. Il duomo e la chiesa di San Michele bisogna contemplarli il pomeriggio, al tramonto: la facciata del San Michele è veramente stupefacente, più bella di quella del duomo. C’è anche il mosaico della facciata della chiesa di San Frediano, nei pressi della via Fillungo, corso della città: bisogna, però, vederlo al mattino, quando la luce del sole fa risplendere tutto il suo oro. La Toscana è un deposito attivo d’arte e di memorie: mantiene la mente aperta e allena le facoltà critiche. Per esempio, hai fatto caso che, a proposito di comunicazione, i dati, le parole, le tabelle, i testi, i file non sono l’informazione, ma solo materiale, più o meno grezzo, da cui si suppone che qualcuno, se ben motivato, possa ricavare informazione; ma può anche essere puro rumore. Dovremmo ricordare anche che troppa informazione equivale a nessuna informazione; che l’informazione e la conoscenza non sono la comunicazione, perché la comunicazione vera richiede il dialogo; che l’informazione e la comunicazione non sono il sapere, perché il sapere richiede una sedimentazione di informazioni all’interno di mappe preesistenti e condivise da un popolo in una storia; che il sapere non è la saggezza; che la saggezza non è la sapienza. Forse l’Accademia della Crusca potrebbe fare qualcosa per segnalare che non è bello dire: “attenzionare”, al posto di “porre all’attenzione”, e “notiziare”, al posto di “rendere noto”, “velocizzare” al posto di “accelerare”. 102
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Dopo Lucca, il nostro viaggio in Toscana subisce un’accelerazione, appunto. Pisa è un’altra meta. Una passeggiata sul lungofiume e poi andiamo alla Torre pendente: affascina sempre e meraviglia; il duomo e il battistero, in marmo, completano l’insieme della piazza dei Miracoli, dichiarata patrimonio dell’umanità. San Michele degli Scalzi con campanile, tutt’e due inclinati come la famosa Torre, e come il campanile della chiesa di San Nicola; e San Michele in Borgo, con tre ordini di logge e colonnine, sono due chiese graziose. Altre due sono quella di San Zeno e quella di Santa Caterina d’Alessandria. San Gimignano è inconfondibile, con quella selva di torri medioevali: piazza Cisterna sembra la scena di un film, costruita negli stabilimenti di Cinecittà. Lasciata la deliziosa cittadina, oltrepassiamo Poggibonsi e andiamo a vedere quel gioiello che è Monteriggioni: il centro storico è tutto un fortilizio, un Castello. Così Dante nell’Inferno: «però che, come in su la cerchia tonda / Monteriggion di torri si corona». Lungo la strada, alcuni pellegrini, solitari o a coppie, percorrono la via Francigena. A Monteriggioni trovano un alloggio di fortuna e una doccia calda. È gente che cammina per settimane o per mesi, a volte su strade molto trafficate e pericolose: che cos’è, vita spirituale, turismo alternativo o sport? Infine giungiamo a Siena, davanti alla porta Camollìa. Questa città, eterna rivale di Firenze, un po’ come Lucca, è tutto un altro deposito di storia, ma molto più importante. Quando al tramonto ci rechiamo in Piazza del Campo, concava e immensa, con la torre del Mangia, imponente, e il palazzo pubblico illuminati dal sole al tramonto, tu non credi ai tuoi occhi ed esclami: «È una meraviglia!». La Cattedrale, con tutti quei marmi rossi sulla facciata, e quelle storie bibliche sul pavimento, è un gioiello grande e grosso; ha un solo neo: l’orientamento. Da alcuni anni si possono ammirare anche gli affreschi della cripta: sono belli e fanno riflettere, anche se il personale non è in grado di rispondere a molte domande del viaggiatore curioso. Anche a Siena, come a Firenze, nei punti dove si acquistano i biglietti, gli euro dei turisti si rastrellano come le fiche ai tavoli dei casinò. Con tutte le storie bibliche illustrate, con tutte le meraviglie di Duccio di Boninsegna, Lorenzetti, Pinturicchio, Simone Martini, con tutte le madonne intitolate “Maestà”, non è facile sedersi o inginocchiarsi e meditare un poco. Noi troviamo pace e letizia solo in una chiesa quasi deserta, la basilica di Santa Maria dei Servi, nel Terzo di san Martino, che presenta una facciata semplice in mattoni a vista. In questa chiesa riusciamo a pregare, come non ci è accaduto neppure davanti alla testa di santa Caterina, che si trova nella chiesa di San Domenico: riusciamo a pregare sia davanti alle reliquie del beato Gioacchino, sistemate sotto la madonna del Manto, sia davanti alla bellissima “Madonna con bambino”, di Coppo di Marco103
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valdo: un capolavoro dipinto da un prigioniero preso a Montaperti, durante la famosa battaglia contro Firenze. A Siena una sera ci è capitato di andare a cena all’Orto de’ Pecci, un’oasi di verde e di pace, situata nella conca dietro la Torre del Mangia e il mercato della città: una sorta di laboratorio didattico per le scuole, ma anche ristorante. Se ci andate potreste incontrare Salvatore Accardo che conversa col nostro amico Gianni Passaniti. Un’altra sera, seduti a un semplice tavolo nel Terzo di Camollìa, ci è accaduto di cogliere la seguente conversazione tra un giovane studioso e una ragazza neolaureata: «Ho letto con interesse crescente Capitalismo e schizofrenia. Tu che ne pensi?». «Un’opera molto bella; aiuta a smascherare il potere e le gerarchie che bloccano il mondo». Questo frammento di conversazione ci ricorda un altro libro, Rigenerare i poteri, e tutta l’opera di Panikkar. Intanto, i due giovani cambiano argomento, ma soltanto apparentemente: «I nostri governanti dovrebbero essere rinchiusi nel palazzo pubblico di Siena, a meditare, almeno una settimana, sugli affreschi relativi agli effetti del buon governo e del cattivo governo». Rispondiamo: «È una bella idea; se fossero intelligenti, basterebbe loro una visione meditata de Il re leone, che presenta praticamente la medesima allegoria». Infine, lasciamo la Toscana, lambendo il monte Amiata e il lago di Bolsena, diretti a Roma. La Toscana è uno scrigno, anzi un deposito vivo e attivo di storia, di arte e di memorie. Si dice che si costruirà l’autostrada Pisa-Lucca-AbetoneBrennero; chi sa. Intanto la tranvia di Firenze è stata fatta e funziona. Si dice che il canale che scolma l’Arno, da Pontedera a Livorno, che è un poco trascurato e privo di manutenzione, diventerà presto un canale navigabile: richiede ben altre dimensioni, sia in larghezza che in profondità, naturalmente. Intanto ricordiamo le alluvioni passate e recenti della Toscana: di Firenze, della Lucchesia, dell’area del Magra, al confine con la Liguria. Ricordiamo anche che una galleria in costruzione, ancora in costruzione, già trasla verso valle a causa del maltempo, e sorridiamo. In Internet, c’è un portale “Toscana” che permette di fare bene un po’ di marketing, sul quale leggiamo: «Leonard Cohen sarà il primo settembre a Firenze, unica data in Italia, in concerto in piazza Santa Croce»; potenza della rete telematica. Sempre attraverso la rete apprendiamo di moltissime iniziative che riguardano lettura di poesie in salse varie: la “locanda dei poeti”, “voci di poesia a Firenze” e molti altri. Dino Campana, il poeta toscano “maledetto” delle montagne di Marradi, sul capoluogo toscano scrive: «Ho visto il tuo palazzo palpitare / Di mille fiamme in una sera calda / O Firenze, il magnifico palazzo. / Già la folla à riempito la gran piazza / E vocia verso il suo palazzo vecchio / E beve la sua anima maliarda». Miretta Pasqui, poetessa nostra contemporanea di Siena, con leggerezza, invece, scrive: «A volte 104
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pare / di andare lontano // Come un sogno // O il polline / d’un / fiore»: siamo noi viaggiatori inquieti, girovaghi, viandanti-pellegrini del terzo millennio? Della stessa Pasqui leggiamo terrae motus: «Crollano i vuoti / emergono / i piani nascosti // Anche la terra / forse / lentamente vuole / trasformarsi»: come dire, capovolgendo il comune buonsenso, anche le pietre e i morti cambiano: è il principio di Antoine Lavoisier: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, magari secondo i modi previsti dalla termodinamica di Ilya Prigogine, le cui parole chiave, però, sono: “caos”, “instabilità”, “disordine”, “probabilità”, “casualità”, “complessità”, “catastrofi”. Riflettiamo: il sapere richiede una sedimentazione di informazioni all’interno di mappe preesistenti e condivise da un popolo in una storia; il sapere non è la saggezza, la saggezza non è la sapienza; ardente è ora il desiderio di essere a casa.
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L’Italia 150 anni dopo l’Unità Dice Boyan: «L’Italia è un paese bello. La gente è gentile. Uno fa quello che vuole, nessuno gli dice niente. Bel paese è l’Italia: fai bunga bunga … Per noi stranieri d’Italia tutto è difficile, però, quando andiamo per uffici. Anche con datori di lavoro è difficile. Con la legge è difficile. Però voi italiani siete fortunati. Una cosa non capisco … d’estate ci sono tanti incendi, d’inverno tante frane, a Napoli tanti rifiuti … Tanta gente muore sul posto di lavoro … perché?». Tu, Boyan, vivi in Italia da dieci anni. Sei arrivato nella Penisola aggrappato alle barre d’acciaio sporgenti sotto un tir; non al primo tentativo, però. La prima volta, ti hanno acciuffato e ti hanno rispedito sulla sponda d’imbarco. Tu hai lottato con tutte le tue forze per poter vivere in Italia, donando al Belpaese la tua volontà, la tua intelligenza e il tuo coraggio, però devi ancora entrare nelle contraddizioni del popolo italiano. Sì; io sono arrivato sotto tir: volevo farcela e ce l’ho fatta. Qui, però, si parla di “bambocioni”, “fanuloni”, “mammoni”. Boyan, a modo tuo, hai fotografato l’Italia, e le sue contraddizioni, ma con una lente appannata. Dobbiamo, noi italiani di ieri e voi italiani di oggi, levarci gli occhiali deformanti e guardare in faccia questa realtà sfaccettata e complessa, o ingrovigliata ad arte, per cogliere l’essenziale in questo “tempo cannibale”, come avrebbe detto Andrea Zanzotto, e poter dire: «sì, sì; no, no». Io un giorno ho pensato: «Se uno arriva in Italia con paracadute prima in pianura Padana, dopo in Calabria, poi in Veneto o in Abruzzo, alla fine in Trentino e ogni volta chiediamo: “Dove ci troviamo, siamo sempre nello stesso paese?”, lui potrebbe rispondere: “No, no; troppo diverso”». Boyan, sai che la stessa cosa accadrebbe se uno venisse paracadutato, bendato, prima in pianura Padana, poi in Calabria, poi in Veneto, poi in Abruzzo, poi in Sardegna e gli si chiedesse di ascoltare attentamente come la gente parla e dire se ci troviamo nel medesimo paese? Potrebbe rispondere: «Eh no; le parlate si assomigliano ma sono molto diverse. Ognuno parla a modo suo: sembrano tutti stranieri, provenienti da un’altra patria linguistica, come il Papa». Io sono andato a scuola di italiano, ma non ho imparato tutto. Però capisco benisimo quello che sento. Io ho notato, come diceva mio professore, che molti italiani laureati dicono “velocizzare”, anziché “accelerare”; “location” anziché “luogo”; “governance” anziché “gruppo dirigente”; “attenzionare”, 106
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anziché “porre all’attenzione”; “notiziare”, anziché “dare notizia”; “taggare”, “un mail”, “postare” … perché? Boyan, dicono anche “rileva”, anziché “risalta, o emerge, o spicca”; “fondamentali” come sostantivo anziché come aggettivo (per esempio, dicono “i fondamentali”, anziché “gli indicatori fondamentali”); “spesso e volentieri”, anche quando un fatto si verifica spesso ma non volentieri (per esempio, “dottore mi viene la febbre spesso e volentieri”); “riuscire”, anziché “uscire di nuovo”; la grandine ha “rischiato” di distruggere il raccolto e il treno, deragliando, ha “rischiato” di travolgere la folla di passanti, quando è chiarissimo che il treno rispetto ai passanti non ha rischiato nulla, la grandine, poi, ha fatto, per così dire, solo il suo dovere. “Riuscire” vuol dire “avere successo”, no? Dicono anche “processare”, anziché “elaborare”, perché in Italia si processano i malfattori, non i dati; “scannerizzare” o “scannare”, per “acquisire con lo scanner”, giacché in italiano si “scannano” galli, capri e porci. Alcuni dicono pure “la verità vera” e “la giustizia giusta”, anziché semplicemente “verità” e “giustizia”, e anche “assolutamente sì”, anziché, semplicemente, “sì”. Capisci a che punto siamo? Dimmi: se da “sega” viene “segare” e da “master” “masterizzare”, da “scanner” dovrebbe venire “scannerizzare”; no? Non è detto, Boyan. Infatti, se da “scopa”, qualche volta, e con prudenza, deriva “scopare”, da “chiave” non deriva “ch … v … re”, né da “tromba” “tr … b … re”. Dobbiamo stare attenti noi italiani di oggi e di domani. Anche noi italiani di ieri, ma se nelle aule scolastiche si va principalmente per socializzare, soffriremo ancora. Pensa, Boyan, il ministro della difesa, La Russa, al tempo della guerra per la cacciata di Gheddafi, ha detto che l’Italia non avrebbe mandato in Libia “altri assetti”. Il sindaco di Genova, quando si è verificata l’alluvione disastrosa di novembre 2011, ha detto che non ha disposto la chiusura della scuole perché, altrimenti, i genovesi si sarebbero “movimentati” di più; come se le persone fossero merci che vengono “movimentate” da tir e nastri trasportatori. Ti segnalo un altro fatto, Boyan: sai che molti italiani vogliono cambiare il primo articolo della costituzione, che recita: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»? Forse per scrivere: «L’Italia è fondata sul fumo, sull’etere, sulle chiacchiere, sulla realtà virtuale, sulla furbizia, sul gioco d’azzardo, sulla menzogna»? Sì, questo dice molto degli italiani. Ho sentito che vogliono cambiare anche articolo 41, quello su libertà e responsabilità di imprese, che io ho stu-
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diato a scuola di italiano. Vogliono scrivere forse che in Italia iniziativa è libera e può svolgersi contro persone, ambiente, patrimonio d’arte, territorio? A proposito di libera iniziativa economica, Boyan, sai che uno studente della ragioneria, all’esame di stato, alla domanda: «Che cosa è un’impresa?», ha risposto: «Compravendita, scambio di denaro»? Quando il commissario, per aiutarlo, ha chiesto: «Tu creeresti un’impresa, una società senza un’idea di prodotto o di servizio che deve essere concepito, progettato e realizzato, prima di poterlo commercializzare?», egli ha risposto: «Tu crei l’impresa, poi qualcosa da fare si trova». Forse studente pensava a un futuro da disoccupato, da lavoratore al nero, o da lavoratore mandato a operare in un palazo fatiscente che ti crolla addoso e ti uccide, come è successo alle sarte di Barleta i primi di ottobre 2011; o a futuro da lavoratore pagato metà di quelo dichiarato in busta paga, o da lavoratore che, quando viene asunto, deve firmare una lettera di dimisioni senza data, che il padrone utiliza a suo piacimento. Boyan, conosci bene certe pratiche italiane. Dove le hai imparate? Sì, conosco, conosco. L’articolo 41 è tropo importante; anche statuto dei lavoratori, una grande conquista civile che i governi stanno smontando pezo dopo pezo: noi tutti, italiani di ieri, di oggi e di domani dobbiamo averli a cuore e difenderli. È importante anche articolo 21. Ho visto che hanno provato a sofocare libertà di espresione, ma finora non ci sono riusciti; no? Vuol dire che la costituzione funziona bene. Ci sono giornalisti onesti e coragiosi, e ci sono tanti cittadini laboriosi, seri, responsabili. Mi colpiscono ricercatori universitari, registi, attori che salgono su tetti, immigrati che salgono su gru, studenti e professori che vanno in piaza, cittadini della Val di Susa che si battono contro la Tav. Però c’è una cosa che non capisco: perché, la manifestazione del 15 ottobre 2011, festante e pacifica all’inizio, in piaza della Repubblica e in via Cavour, a Roma, si è trasformata in bataglia in piaza San Giovanni? Perché la polizia non è intervenuta prima? C’è un’altra cosa che non capisco, il modo di festeggiare l’Unità d’Italia. Guarda, Boyan, una scuola ha prodotto uno spot sull’identità italiana. Le poche parole usate, divise in tre gruppi, erano: «L’Italia l’abbiamo fatta; guai a chi la tocca; quanto agli italiani … ci stiamo lavorando». L’obiettivo era quello di sostenere un sentimento di italianità in fieri, che tenesse conto delle antiche diversità regionali, ma anche di quelle che emergono ogni giorno nella società multietnica. Un’idea aperta, condivisa dalla stragrande maggioranza degli italiani, ma avversata ostinatamente da molti uomini politici o di governo, che preferiscono le piccole patrie regionali. Pensa, Boyan, che nel 1911 i festeggiamenti dell’Unità sono stati incentrati sul tema di “Roma capitale”; nel 1961, dopo l’ubriacatura fascista e im108
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perialista, e due grandi guerre, certi temi erano anacronistici e si puntò sul mito del progresso economico e tecnologico, perciò i festeggiamenti si concentrarono a Torino come capitale industriale; nel 2011 capofila nei festeggiamenti è stato il Piemonte, ma le istituzioni sono apparse imbarazzate o contraddittorie, se non apertamente polemiche: ci sono state iniziative promosse da fondazioni private e da associazioni culturali ma, se si eccettua lo sforzo genuino di Giorgio Napolitano, senza l’impronta forte dello Stato. Si è sentito che siamo divisi e disorientati: per giunta l’evento è caduto nel bel mezzo di una crisi economica mondiale, non come il ’61, quando erano tempi di vacche grasse. Non possiamo dimenticare che nell’anno dell’Unità il capo dello Stato ha dovuto chiamare al governo una squadra di tecnici capeggiata dal professore Mario Monti, il quale ha intitolato il primo provvedimento “Decreto salva Italia”. Già; come riusciamo a sciogliere, italiani di ieri e noi di oggi, e queli di domani, i nodi venuti al pettine? Quello delle mafie che, come dice mio professore di italiano, condiziona la vita democratica; quello della Chiesa che fa politica; divario tra Nord e Sud; quello di abiso tra ricchi e poveri; conflitto di interese, e di interesse privato in atti d’ufficio; come scioglierli? Hai visto come hanno assasinato Angelo Vassallo, sindaco di Polica-Acciarroli a fine estate 2010? Hai visto che governo ha ignorato il fatto? Sì, ho visto: c’è di che essere indignati. Boyan, però, l’Italia è un grande paese; certo non è un corpo omogeneo, ma un mosaico. Questo paese variamente frammentato, la sua gente, ha una vitalità straordinaria. In passato ha affrontato e superato notti ben più buie di quella attuale. Sembra essere in balia di forze che non possono essere contrastate, quando consideriamo le mafie, l’inquinamento, la corruzione, la disoccupazione, i terremoti, le alluvioni, le frane; ma se si considerano, per esempio, i lavoratori onesti e la cultura, la realtà appare fecondissima. I disastri in Italia sono impressionanti, no? Fiumi mostruosi di acqua torbida e fango, detriti, tronchi d’arboli irrompono prepotenti in piaze e vie storiche di bellissime città, e travolgono motorini, automobili, uomini, donne, bambini, come è accaduto a Genova, i primi giorni di novembre 2011; come è possibile? Boyan, in Italia, negli ultimi anni, ci siamo convinti che ormai siamo entrati nella società dell’informazione, o nella società postmoderna, o postpostmoderna, o digitale, o virtuale, persino postumana, secondo le preferenze, in cui non ci si sporca più le mani: siamo tutti intellettuali, professionisti, speaker, vallette. I filosofi discettano sul concetto di “realtà”, alcuni sostengono che ormai siamo oltre la realtà, altri che il mondo sia pura interpretazione: gli ingegneri e i generali sono capaci anche di inibire o provocare la piog109
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gia, ma non a lungo, e non dovunque; così quando piove, restiamo attoniti, e travolti. I furbi, però, non vengono colti mai di sorpresa, essi sono seguaci della shock economy, e sanno che i disastri, come le guerre, sono necessari per il grasso business. Sì; io ho visto che qui nesuno vuole, e pochi ormai sanno, fare qualcosa con mani, come falciare, potare, zapare, spalare, racogliere olive, spaccare legna. Qui non sanno come impugnare attrezzi, tenerli in ordine; qui il corpo non è più adatto al lavoro, che è rapporto vero con realtà, tutta la realtà, compresa quella che qui si ritiene scomparsa. Vedrai, ci saranno sempre torrenti da arginare, cunete da pulire, montagne da rimboscare, briglie da riparare, boschi da difendere anche con fasce tagliafuoco, anziani da lavare; o no? Sì, Boyan, noi corriamo da una parte all’altra, ma non sappiamo perché. Spesso, in balia delle pulsioni, schiacciamo il prossimo, violentiamo, assassiniamo o restiamo immobilizzati dalla depressione (la cronaca è piena di eventi raccapriccianti). Cresciuti senza contenimenti nella società opulenta, siamo tanti bambini (non tutti, per fortuna) viziati, presuntuosi e prepotenti. La nostra democrazia è stata trasformata dagli avventurieri del governo in “democratura”. Sai, Boyan, che qualcuno ha detto che noi siamo una società “irrazionalpopolare”? Sai che un altro ha detto che siamo preda di un “ospite inquietante”, il nichilismo? Sai che qualcun altro ha teorizzato che siamo “prevedibilmente irrazionali”? Si tratta della scoperta dell’acqua calda: semplicemente, anziché educare alla prudenza, alla giustizia, alla fortezza, alla temperanza abbiamo liberato la bestia che è in noi; stiamo potenziando i vizi, anziché educare alla virtù. La corruzione dilaga a macchia d’olio dalla politica alla sanità, dall’industria allo sport, come il calcio, ma poi si sogna che la nazionale, e un italiano nero come Balotelli, facciano un miracolo; siamo bambini. Sai che Umberto Bossi, quando era ministro della Repubblica, a Venezia, durante un comizio, ha detto: «L’Italia va giù … Se l’Italia va giù, la Padania vien su»? Vuol dire: vada in malora Italia, perché nello scasso dello Stivale, Padania sguazza, come sciacalli durante aluvione o terremoto? Ma questo è molto grave. Speriamo che Lega e suoi compari siano al tramonto. Del resto, Boyan, Calderoli aveva definito “porcata” la legge elettorale da lui stesso proposta e fatta approvare … però, c’è speranza. Abbiamo una Carta costituzionale che, se pure imperfetta, è tra le più belle del mondo; abbiamo un popolo che, se pure un poco annebbiato dai venditori di fumo, è capace di reazione, basti considerare l’esito delle ultime tornate elettorali, elezioni amministrative e referendum sull’acqua; abbiamo uomini e donne che, se pure non sanno impugnare le tenaglie e la cazzuola, sanno usare la testa, basti considerare la serie pressoché infinita di istituzioni culturali che 110
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operano nella Penisola e di eventi dello stesso tipo che pullulano da un angolo all’altro del suo territorio. Sì, c’è l’Accademia della Crusca, l’Accademia dei Lincei, il Salone del libro di Torino, la Biennale di Venezia … C’è molto di più, Boyan. C’è il festival della letteratura di Mantova; c’è il Forum delle culture di Napoli; c’è Pordenonelegge; c’è il festival della filosofia di Modena-Carpi-Sassuolo, che nel 2011 ha dibattuto sul tema “Natura” e il 2012 si cimenterà con le “Cose” (buon segno, no?); c’è il festival del diritto di Piacenza, che nel 2011 ha affrontato il tema “Umanità e tecnica” e il 2012 discetterà su “Solidarietà e conflitti”; c’è Medmex, festival della musica all’interno della fiera del Levante di Bari; c’è il Festivaleconomia di Trento che nel 2012 ha avuto per tema “Cicli di vita e rapporti tra generazioni”; c’è Terrafutura alla Fortezza da Basso di Firenze, che alla nona edizione si è occupata del tema “Lavoriamo per il futuro. Lavoro, sostenibilità ed equità”; ci sono i “Dialoghi sull’uomo” di Pistoia durante i quali nel 2012 si è dibattuto sul tema “Dono, dunque siamo. Donare, scambiare, condividere per una società più equa”; c’è a Bologna la “Repubblica delle idee” dove, sempre nel 2012, si è dibattuto il tema “Scrivere il futuro”. Però tutti questi festival fanno pensare al divertimento, allo spettacolo e allo sciallo più che all’applicazione seria e profonda; che cosa dici tu? Forse sì; ma noi italiani amiamo la vita, lo sanno tutti. Del resto, se, da un lato, l’istruzione pubblica e la politica nel Belpaese sono ridotte a “circo equestre”, e nessuna invenzione importante degli ultimi venti anni è stata fatta in Italia, dall’altro, questo è pur sempre il paese di Dante, Leonardo e Michelangelo.
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