Bollettino n. 9

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SOS scuola Bollettino n. 9

Anno Scolastico 2013/2014 ITE “Vincenzo Cosentino”



Indice

Tecnologie digitali, cultura, democrazia. Dove stiamo andando? Ecco per esempio dove... La porta stretta. Quello che resta dell’umano Disconnect, ovvero un’umanità ferita in trappola in Internet Mezzi di comunicazione, potere, libertà. Dibattito a partire dalla lettura di Fahrenheit 451 Vivere il presente, scrutare e costruire il futuro Appendice Calabria. I viaggi del cuore Il lungo cammino fra le genti e i luoghi d’Italia Viaggi in Italia Il sapere non è la saggezza, la saggezza non è la sapienza

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Tecnologie digitali, cultura, democrazia. Dove stiamo andando?


Ecco, per esempio, dove… (raccolta di titoli di giornali sul Datagate)

Datagate, registrate milioni di telefonate francesi. Parigi convoca ambasciatore Usa Secondo il quotidiano “Le Monde” l‟agenzia statunitense di controspionaggio Nsa ha intercettato in modo massiccio le comunicazioni dal 10 dicembre 2012 all‟8 gennaio 2013. Ministro degli Interni Valls: notizie “scioccanti” La Repubblica, 21 ottobre 2013

La sicurezza delegata agli Usa Il patto inconfessabile dell’Europa Quando ai vertici della Bce chiesero di spegnere i telefonini, estrarre le batterie e metterle via. Il silenzio di Barroso e Van Rompuy sul Datagate e l‟intelligence delegata in outsourcing agli Stati Uniti La Repubblica, 2 luglio 2013

Nsa, dove vanno i nostri segreti? L’Area 51 dei dati è una fortezza in Utah Gli impressionanti numeri del datacenter dell‟agenzia per la sicurezza Usa: miliardi di byte e supercomputer per poterne reggere il peso e le operazioni collegate. Lo spazio si esaurirà entro qualche anno, ma nuovi impianti sono già in costruzione La Repubblica, 1 luglio 2013


Datagate, lo scoop incompiuto. Il mistero delle slide mancanti Mentre Edward Snowden fa perdere le proprie tracce Guardian e Washington Post preparano, fra mille cautele e qualche timore, le prossime rivelazioni. Solo cinque le diapositive diffuse finora su 41, ecco cosa potrebbe saltare fuori dal resto del materiale di SIMONE COSIMI La Repubblica, 12 giugno 2013

“Così l’algoritmo dei metadati scopre mail e telefonate sospette” Massimiliano Sala, crittografo spiega come il governo degli Stati Uniti è riuscito a fare intercettazioni di massa: “Un software incrocia le informazioni e fa scattare l‟allarme” di ALESSANDRO LONGO La Repubblica, 9 giugno 2013

La corsa agli armamenti digitali per sopravvivere alla cyber guerra Ormai tutte le grandi società italiane investono in sicurezza informatica, ingaggiando ex hacker per respingere gli attacchi che provengono dalla Rete. Ma anche, in molti casi, per “attaccare”. E ci sono aziende che vendono sistemi in grado di hackerare le difese più impenetrabili di VITTORIA IACOVELLA La Repubblica, 4 ottobre 2012

Dal phishing all’apocalisse informatica “Lo Stato difenda il cyber cittadino” La denuncia arriva dall‟Osservatorio di Sicurezza Nazionale. Nell‟ultimo anno, gli attacchi sono aumentati di oltre il 200%. Il Ministero della Difesa intanto annuncia che nel 2012 aumenterà i fondi per la difesa “cibernetica”: saranno stanziati 50 milioni di euro La Repubblica, 4 ottobre 2012

Il viaggio nella sala di “controllo” dove si combatte la lotta contro il bug Poste Italiane è stata tra le prime a dotarsi di un dipartimento di cyber security. Un‟intera area è dedicata al monitoraggio e all‟identificazione, in tempo reale, delle nuove minacce che provengono dal Web. Dietro ai computer lavorano, alternandosi ininterrottamente, circa 100 persone. Fanno attività di intelligence e “diga” antifrode La Repubblica, 4 ottobre 2012


La porta stretta. Quello che resta dell’umano (appunti per la riunione del 9 gennaio 2014 di Tommaso Cariati)

Finalmente il gruppo si ritrova dopo un lungo periodo di inattività apparente: si era fissato un incontro in ottobre, poi rinviato a causa dell‟occupazione dell‟istituto. In novembre e in dicembre, a causa di vari eventi negativi, si è dovuto rinunciare (per esempio, Giuliano, viaggiando su e giù da Acri, ha avuto un incidente d‟auto; alcuni di noi hanno problemi con i genitori anziani e sofferenti). All‟incontro sono presenti: Tommaso, Chiara, Rosa, Francesca Scanga, Angela Salerno, Francesco Marrelli, Ilenia Albanese, Francesco Fazio, America, Alfio. Niente male per riattivare il dialogo. Dopo i saluti si entra nel vivo del dibattito. Tommaso: da tempo desideravo vedervi riuniti per ipotizzare un programma per i prossimi mesi. Vi ricordo che il tema sul quale da due anni stiamo lavorando è quello dei rapporti tra nuove tecnologie, mezzi di produzione e circolazione della conoscenza, e democrazia. L‟anno scorso abbiamo prodotto moltissime riflessioni a riguardo, ma restano diversi ambiti che potrebbero essere esplorati. Per esempio, c‟è l‟ambito posto in primo piano dal “caso Snowden” sull‟abuso dei dati da parte dei sistemi di sicurezza o di spionaggio. Sul sito del gruppo, all‟indirizzo www.sos-scuola.it, abbiamo una sezione dedicata a questo argomento. Un altro tema che recentemente abbiamo tenuto d‟occhio è quello degli effetti che i mezzi digitali producono sui giovani. Anche su questo tema abbiamo accumulato materiale sul sito. C‟è poi il tema del rapporto tra “mondo fisico” e “mondo virtuale”, esplorato la primavera scorsa grazie alla partecipazione al progetto Meet No Neet, lanciato da Mondodigitale di Roma e Microsoft. Non c‟è giorno in cui sui quotidiani non ci sia un articolo sulle applicazioni dell‟informatica nella vita quotidiana. Per esempio, [Sfogliando il «Corriere della sera»] oggi si parla delle “fantastiche” applicazioni della stampa 3D, che rivoluzionerà ancora, dicono, il mondo della produzione e del lavoro, dato che si applicherà alla pizza, ma anche alla produzione di organi artificiali, così come alla riparazione dei tessuti danneggiati in un incidente o per ustioni. Nella pagina della cultura, invece, si parla del fenomeno dello “scrittore compulsivo”, che può mettere in circolazione un numero impressionante di libri all‟anno, grazie alla possibilità di pubblicare online. La velocità eccessiva di produzione di costoro metterebbe però a dura prova la capacità dei lettori di gustare tutto ciò che i loro


scrittori preferiti pubblicano. Chiara racconta del suo viaggio a Londra, effettuato durante le vacanze di Natale con Tommaso. Esprime tutta la sua meraviglia provata visitando la grande metropoli britannica: l‟ordine, la precisione, il livello di civiltà delle persone, i musei aperti a tutti ecc. Francesca: anche noi siamo stati in Inghilterra con la scuola a maggio e settembre 2012. Alfio racconta la sua esperienza fatta esibendosi a Civita come cantautore. Francesco M.: nell‟ambito del progetto Meet No Neet abbiamo deciso di fare uno spettacolo. Il progetto del nostro spettacolo è arrivato alla fase finale. Abbiamo dovuto mandare un video del backstage, che è piaciuto molto. Venerdì 27 gennaio dovremmo andare a Milano alla sede della Microsoft per partecipare a un grande evento, al quale partecipano scuole di nove regioni d‟Italia, per ritirare il premio. Il nostro lavoro si chiama “Spettacolare per il sociale”. Comunque, per saperne di più potete visitare il sito www.sos-scuola.it, sul quale c‟è una sezione dedicata a Meet No Neet. Tommaso: se si va a Milano, i ragazzi, grazie alla maestria che hanno acquisito, faranno un reportage sul viaggio, da presentare e discutere in un incontro di Sos scuola. Alfio invita i ragazzi che devono realizzare lo spettacolo sul sociale ad attivarsi perché, dice con ironia, alludendo alle condizioni di salute, “io sono stato preavvisato che non ho molto tempo a disposizione”. America: in un altro incontro si potrebbe vedere un film, per esempio “Amistad”. Da Wikipedia scopriamo che: “Il film è ambientato nel 1839 e si apre con un‟immagine di un uomo di colore in una notte di tempesta su una nave, l‟Amistad, che riesce a liberarsi dalle catene che lo imprigionavano e libera anche i suoi compagni. Armatisi di spade e coltelli attaccano i membri dell‟equipaggio; si arriva al culmine quando l‟artefice della sommossa (Joseph Cinqué) uccide il capitano della nave trapassandolo con la spada. A quel punto prendono in mano la situazione e costringono gli spagnoli rimasti vivi a virare verso l‟Africa. Sei settimane dopo avvistano un‟isoletta e con una piccola imbarcazione raggiungono la terraferma per rifornirsi d‟acqua. Arriva però anche una nave americana che sentendo le grida degli spagnoli attacca gli ammutinati, che vengono rifatti schiavi. La questione ben presto si complica perché non si sa a chi appartengano questi schiavi”. Rosina: pongo un quesito: come vengono tenuti in Italia i “Cie”, Centri di identificazione ed espulsione? Altro argomento interessante è la “terra dei fuochi”. Come mai ci sono dei momenti di calo riguardo


alla democrazia e alle informazioni? Come possono accadere questa cose in un paese civile come l‟Italia? Tommaso: ecco, Rosa, segui per noi questi argomenti molto interessanti e, quando avremo abbastanza materiale, ne discuteremo in un incontro del gruppo; ti va? Francesco M.: un altro film che si potrebbe vedere è “Invictus”, su Mandela. Da Wikipedia su “Invictus” apprendiamo che: “La storia è ambientata in Sudafrica, nel periodo successivo alla caduta dell‟apartheid e all‟insediamento di Nelson Mandela come presidente. Appena entrato in carica, Mandela si pone l‟obiettivo di riappacificare la popolazione del paese, ancora divisa dall‟odio fra i neri e i bianchi afrikaner. Simbolo di questa spaccatura diventa la nazionale di rugby degli Springboks, simbolo dell‟orgoglio afrikaner e detestata dai neri, che proprio in seguito alla caduta del regime dell‟apartheid viene riammessa nelle competizioni internazionali dopo un boicottaggio di circa un decennio. In vista della Coppa del Mondo del 1995, ospitata proprio dal Sudafrica, Mandela si interessa delle sorti della squadra, con la speranza che una eventuale vittoria contribuisca a rafforzare l‟orgoglio nazionale e lo spirito di unità del paese. In particolare, entra in contatto con il capitano François Pienaar, facendogli capire l‟importanza politica della incombente competizione sportiva. Questa frequentazione fra Pienaar e Mandela dà inizio a una serie di eventi che rafforzano il morale degli Springboks (reduci da un lungo periodo di sconfitte) e li conducono fino a una insperata vittoria in finale contro i temibili All Blacks. Il successo della nazionale diventa simbolo della grandezza della neonata “Rainbow Nation”. La vittoria degli Springboks ha significato molto per il Sudafrica perché ha riavvicinato la popolazione nera con la popolazione bianca”. Chiara: si potrebbe leggere Fahrenheit 451 di Ray Bradbury sul rapporto fra lettura, cultura e tecnologia. Tommaso: ottima proposta; in verità i libri o i film dovrebbero trattare il rapporto, l‟intreccio tra innovazione tecnologica, cultura e democrazia, più che uno, ancorché importantissimo, di questi aspetti. Per esempio, un paio di film recenti che val la pena tenere d‟occhio sono “Disconnect” ed “Her”, ma mi riprometto di documentarmi meglio. C‟è, inoltre, uno scienziato-scrittore che suscita in me un certo interesse; è Giuseppe Longo. Un suo libro si intitola Simbionte; potremmo leggerlo. Vi informo inoltre che io ho già una relazione in stato avanzato di stesura che si intitola “Il bambino e l‟acqua sporca”, che intendo offrirvi quanto prima. Infine, mi piacerebbe recuperare l‟incontro con


Piercarlo Maggiolini, presbitero ed esperto di sistemi informativi aziendali e di responsabilità sociale delle imprese, che già due anni fa avevamo messo in programma. Da Wikipedia scopriamo che: “Disconnect è un film del 2012 diretto da Henry Alex Rubin, con protagonista Jason Bateman. Il film viene presentato fuori concorso durante la 69ª edizione della Mostra internazionale d‟arte cinematografica. Tre nuclei di personaggi che hanno relazioni bilaterali si ritrovano in una rete ben strutturata di rapporti attraverso chat e social network. Un adolescente è vittima di cyberbullismo, una coppia, in crisi per la perdita del proprio figlio ancora neonato, scopre che qualcuno ha clonato la loro carta di credito. L‟investigatore privato, vedovo ed ex poliziotto, incaricato di scoprire l‟autore del furto informatico, scopre che suo figlio e il suo migliore amico sono gli artefici del cyberbullismo verso il 15enne. Infine, un ragazzo che lavora come modello online su chat per adulti viene contattato da una giornalista interessata alla sua storia. Ricevendo notorietà, la giornalista finisce con l‟affezionarsi al ragazzo e cerca di toglierlo da quel mondo”. Invece “Her di Spike Jonze, al secolo Adam Spiegel, regista, sceneggiatore ed ex marito di Sophia Coppola, autore del celebre Essere John Malkovich. Con Her, Spike Jonze, credo sia riuscito a produrre un altro film cult. I suoi 109 minuti di pellicola scorrono sul grande schermo con una fotografia piena di luce. La location è una contemporanea Los Angeles, dove il suo protagonista Joaquin Phoenix, lavora come autore di lettere d‟amore. La dimensione futuristica (di un futuro nemmeno troppo lontano) che il film ci consegna, è concentrata nel rapporto personale che ognuno di noi ha con il virtuale. La dipendenza quotidiana dal nostro pc, da Internet e da tutto ciò che ci facilita la vita regalandoci illusoriamente tempo, e che diventa, nel film, il nostro tempo, la nostra vita. Theodore, il protagonista si innamora ricambiato del suo sistema operativo, la sua voce lo accompagna in ogni momento. E lei, Her, grazie al continuo flusso di informazioni che raccoglie in rete, da intelligenza artificiale diventa anche emotiva. Una persona senza corpo che prova sentimenti umani, gelosia e desiderio, e coinvolge Theodore in una intensa storia d‟amore, fatta di complicità, progetti e musica quella che lei compone per lui come „fotografie‟ di momenti trascorsi insieme. La poesia di questo film sta nella sua virtuale verità: l‟amore è sublimazione che va oltre la corporeità”. Il simbionte è un romanzo il cui autore, Giuseppe Longo, è un esperto di teoria e tecnica della comunicazione. Dalla scheda che accompagna il libro, riportiamo quanto segue: “Da sempre la nostra


specie si ibrida con gli strumenti che costruisce: in realtà homo sapiens è sempre stato homo technologicus, un ibrido di uomo e tecnologia in perpetua trasformazione. Ma nel mondo che ci stiamo costruendo, il vecchio homo sapiens, o meglio i primi simbionti, a bassa intensità tecnologica, non sono più a loro agio e vengono via via sostituiti da altre creature, a tecnologia sempre più intensa, che tendono ad adattarsi alla corrispondente successione di ambienti sempre più artificiali. Giuseppe Longo ci narra l‟avventura di questo simbionte che, avviato a un futuro post-umano, forse superumano, è tuttavia lacerato dal disadattamento tra la componente biologica e quella tecnologica e si volge al passato con nostalgia”. “Un essere umano (più donna che uomo) che porta sulla fronte il simbolo di una piastrina di silicio o la piastrina stessa impiantata: un simbionte, forse, che con la parte umana, specie con gli occhi (invisibili o meglio inaccessibili) e con l‟inclinazione del capo, esprime una grande cieca tristezza, confermata e accentuata dalla lacrima che sgorga e cola lungo la gota, lungo il bellissimo naso greco: gli (anzi le) manca la bocca e questa sua impossibilità di gridare il proprio dolore me la rende ancora più cara: sembra guardare in giù, ma gli inaccessibili occhi contemplano due panorami diversi, proibiti agli umani: forse l‟occhio destro, chiuso, vede un paesaggio di devastazione interiore, mentre il sinistro, appena abbozzato, contempla un paesaggio esterno di torri e cuspidi smaglianti attraverso il prisma caleidoscopico e multicolore di quella lacrima suprema” Durante la prossima riunione, approfondita la conoscenza di libri e film, e sondata la disponibilità delle persone, preciseremo il programma.


Disconnect, ovvero un’umanità ferita in trappola in Internet (dibattito seguito alla visione del film Disconnect, del 13 febbraio 2014, appunti di Francesca Scanga) Tommaso: questo film si inserisce in un filone che inizia alla fine degli anni ‟90, con lo sviluppo di Internet. Un primo prodotto, intitolato Cellular, non risulta particolarmente riuscito. Alcuni anni dopo è stato fatto un film intitolato Connected, anche quello presentava alcuni problemi tecnici o artistici. Due anni fa è stato prodotto Disconnect; quest‟opera sembra più riuscita. Ora il film è arrivato in Italia e noi abbiamo voluto vederlo, perché permette di fare riflessioni interessanti in ordine al tema che il gruppo sta affrontando da due o tre anni: il rapporto tra tecnologie, circolazione della conoscenza, democrazia e libertà. Esso è costruito intorno a tre vicende intrecciate tra loro. In una vi è una coppia in crisi che ha perso il figlio. La moglie, chattando con uno sconosciuto, si fa fregare le credenziali della banca e la coppia si trova col conto prosciugato. La seconda vicenda vede protagonisti due ragazzini che giocano un tiro mancino a un loro coetaneo. Questi, quando scopre di essere diventato lo zimbello della scuola, tenta di impiccarsi ed entra in coma. La terza vicenda riguarda un‟organizzazione che, sfruttando adolescenti, offre ai clienti strani intrattenimenti on line. La prima cosa che mi ha colpito durante la visione del film è questa: tutti i personaggi coinvolti sono persone in qualche modo ferite nella vita. La coppia aveva perso un bambino ed era in crisi; il tecnico informatico aveva perso la moglie e non ha un buon rapporto con il figlio; quest‟ultimo ha le sue frustrazioni e i suoi problemi, infatti è uno dei due ragazzini che attirano nel tranello il ragazzo-vittima. Poi c‟è la giornalista: anche lei ha un problema; lei cerca di far carriera. Tra l‟altro, va a letto con il capo senza nessun trasporto, quindi è ossessionata dall‟idea di avere successo. Ed è per questo che si mette alla ricerca in Internet di storie particolari che le permettano di realizzare un‟intervista. Fa l‟intervista è arriva addirittura alla Cnn. Come vedete i problemi nascono perché le persone sono sole, sono ferite e adottano soluzioni palliative ed inefficaci per le loro sofferenze. Internet dà l‟illusione che i problemi si possano risolvere o almeno alleviare molto facilmente, invece li complica: e li complica fino al punto che quei personaggi entrano in una trappola, o ci rimettono la vita.


Mi ha colpito anche il fatto che le persone alla fine devono fare a cazzotti per riscoprire le cose semplici, cioè la fisicità, il corpo, il menar le mani, il toccarsi per guarire dalla malattia che hanno contratto stando nel mondo virtuale. Iole: durante tutto quest‟anno ci sono stati casi di suicidi di ragazzi. L‟ultimo è quello della ragazzina quattordicenne, che non solo ha subito violenza ma è stata anche assassinata. Io penso che questi mezzi potenti allargano sì la mente però fanno aumentare tanti problemi, perché manca proprio la fisicità come dice Tommaso. Nell‟adolescenza i problemi ci sono e questi ragazzi invece di trovare qualcosa di diverso si rifugiano in un mondo falso. Il film fa vedere tre modi di abusare di questi mezzi. Per i ragazzi è pericoloso, perché nell‟adolescenza si è cattivi, quindi bisognerebbe far capire ai ragazzi come difendersi: manca l‟educazione emotiva. Nunzio: questi mezzi di comunicazione si sono diffusi e evoluti in modo così rapido che hanno colto impreparati tutti: sia come genitori che come insegnanti nel mondo della scuola, non si è ancora pronti a dare un‟educazione all‟uso e non all‟abuso di questi mezzi. Non sarebbe il caso che a scuola si cominciasse a insegnare un po‟ di più l‟uso di queste tecnologie, visto che fanno innegabilmente parte della nostra vita? Chiara: io posso raccontarvi un‟esperienza reale, fatta a scuola con gli alunni sull‟uso di Facebook. Io insegno in una classe dove c‟è un bullo vero, che picchia i compagni, li minaccia ecc. Questo è stato segnalato alla dirigente e ai genitori, dato che è stato scoperto. Nella stessa classe c‟è un ragazzino che è un po‟ lo zimbello di tutti. Purtroppo è un ragazzino immaturo: fino all‟anno scorso portava i capelli lunghi, senza badare al fatto che ci stava veramente male. Ora, finché viene preso in giro in classe, lo vedi e intervieni. Da un po‟ si è aperto l‟account su Facebook. Siccome è ignorante, quando scrive su Facebook, scrive delle cose completamente sgrammaticate. Per esempio, invece di scrivere “è vero” ha scritto “evvero”. Alcuni compagni, forse pensando di non fare niente di male, hanno commentato dicendo “ma che fai?” , “sei un ignorante”, “ma che scrivi?”. Quando ho visto queste cose, ho immediatamente detto all‟autore di questi commenti che questo modo di commentare le cose del compagno non andava bene, che già il compagno era vittima in classe


e non doveva esserlo anche su Facebook. E nello stesso tempo sto provando, con delicatezza, a spiegare al ragazzino, di scrivere correttamente e che su Facebook non si mette tutto, non si mettono le foto di casa tua, con i genitori, con il gattino. Anche il modo come tu usi lo strumento fa sì che gli altri, se sono persone superficiali o cattive, entrano o posso entrare in un uso perverso dello strumento. Giovanna: però questo è limitante. Non c‟è niente di male che il ragazzino stia a casa abbracciato alla mamma. I “malati” sono coloro che etichettano ciò come un comportamento da bambino. Vissuto così è una falsità già in partenza. Nunzio: la prima impressione che ho avuto vedendo questo film è che “sembra un manicomio!”. Dico che se questa, i giovani e quelli che vogliono apparire giovani a tutti i costi, sarà la futura classe dirigente, dobbiamo preoccuparci seriamente. Francesca: anche io fino ad un po‟ di tempo fa, quando uscivo con mia madre, le dicevo di starmi lontana perché magari non volevo farmi vedere con lei. Fa parte dell‟adolescenza. A dodici anni è normale che un compagno, se ti vede in compagnia dei tuoi genitori su Facebook, ti reputa un bambino. Non dico che tu non debba starci, ma di non pubblicarlo; anche chi non lo pubblica sta con la mamma. Giovanna: quindi alla fine mi chiedo: qual è il vero valore di Facebook? Roberta: secondo me, se fosse usato per mantenere i rapporti sarebbe un ottimo strumento. Alla base del problema di chi abusa di questi mezzi c‟è la solitudine, la mancanza di dialogo con chi lo circonda. Lo vediamo anche nel film: i luoghi sono tutti bui, scuri; quindi, secondo me, il regista ha voluto anche creare scene tali che facessero capire l‟oscurità di queste situazioni. Una casa che non ha niente da nascondere, dove c‟è gioia, non ha bisogno di tutta quell‟oscurità. Chiara: infatti, secondo una mia interpretazione, il titolo Disconnect ha più a che fare con una disconnessione dal mondo reale. Nel finale per ritornare con i piedi per terra, hanno bisogno di un contatto fisico che non sia solo visivo. Tommaso: riprendendo la riflessione iniziale e valorizzando la considerazione che Chiara ha appena fatto, si potrebbe affermare che tanto più un soggetto è “disconnesso” dalla realtà nella quale vive, tanto più tende a rifugiarsi nel mondo virtuale, “connettendosi”


eccessivamente a un mondo che gli dà l‟illusione di colmare il suo vuoto di relazioni umane calde ed autentiche. L‟abuso di “connessione” virtuale poi, stando a quello che si vede nel film, ma anche ai numerosi casi che conosciamo dalla cronaca, produce una maggiore “disconnessione” dalla realtà, e così via. Tutto questo non deve meravigliarci perché i rischi legati agli eccessi d‟uso di Internet non sono molto diversi da quelli legati agli eccessi d‟uso della lettura. Miguel De Cervantes ce ne ha dato un esempio geniale e intramontabile. Il suo eroe Don Chisciotte della Mancia, avendo letto troppi romanzi cavallereschi, si crede un grande cavaliere, che, quando si presenta l‟occasione, si scaglia contro i mulini a vento, credendoli nemici su grandi cavalli. Qui il tema da affrontare diventa quello del “limite umano” e del “senso della misura”, che riguarda Internet come il cibo, la lettura come l‟alcol, la cocaina come il sesso, l‟ozio come il lavoro. Alfio: bisognerebbe entrare nelle finalità del registra. Per noi che lo vediamo, il film ha dei limiti artistici, le scenografie sono ridotte all‟essenziale, prevalgono gli studi, gli ambienti chiusi; questi sono aspetti tecnici. Il discorso è fatto su diversi piani, non approfonditi perché ognuno di quegli aspetti apre problematiche enormi. Tutte le nuove cose, come la stampa nel 1400, creano incertezza. Queste nuove opportunità sono mezzi, poi l‟uso che ne fai determina la positività o negatività. Non dobbiamo prendercela con i giovani: qua c‟è una carenza, un bisogno di recuperare eticità, umanità, perché nel film leggo una grande solitudine e non c‟è differenza tra i giovani e i loro genitori, ognuno ha il suo mondo. Dobbiamo riscoprire che non si educa con le prediche ma con la coerenza del nostro comportamento. Non è che deve essere un comportamento da santi, perché tutti sbagliamo, ma almeno dobbiamo riconoscerlo, dobbiamo uscire dalle ipocrisie. Quando ci scandalizziamo? Quando scopriamo le magagne, quando troviamo gli scheletri nell‟armadio, che hanno sopratutto i grandi. E quando i ragazzi scoprono questo, non siamo credibili e allora, cosa predichiamo? A cosa educhiamo? Prendiamoci le nostre responsabilità, non solo teoriche ma anche dei comportamenti. Ognuno ha il compito morale di educare alla convivenza pacifica. Chi fa il male non deve farlo, non tanto perché è un comportamento non legale, ma perché è disumano; quest‟aspetto viene prima della legalità.


Roberta: il “tecnico” non aveva nessun rapporto con il figlio, che comunque aveva terrore del padre: non avevano dialogo. Giovanna: noi parliamo dei ragazzi, ma in realtà noi abbiamo delle vittime in classe. Perché poi, quando noi parliamo con i genitori, ci rendiamo conto di che modelli hanno, che esempi vengono dati. Dove sono le regole? Nunzio: secondo me esistono dei problemi di natura più pratica. La rete ha creato una serie di delinquenti diversi da quelli abituali. Nell‟uso del computer dovremmo diventare più responsabili e accorti. Non bisognerebbe usare carte di credito per acquisti online. Per evitare problemi, per acquisti online, utilizzo una carta di credito prepagata, dove si trova poco denaro, così, se mi fregano, non ci rimetto molto. Chiara: vi parlo di un libro: La storia infinita del genere fantasy. È un libro bellissimo. La storia parla di un bambino che ama leggere, e per questo è preso in giro. Questo bambino riceve dal suo amico libraio la copia di questo libro. Il bambino va a scuola, ma siccome era in ritardo e non voleva essere sgridato, dato che faceva sempre tardi, se ne va in soffitta dove si sistema e legge il libro. Legge il libro e legge le avventure del mondo fantastico di Fantàsia, che è il mondo creato dai nostri sogni. Questo mondo rischia di sparire perché gli uomini non sognano più. Così la principessa incarica un ragazzo, anche lui del mondo di Fantàsia, di salvare il mondo dei sogni. Questo ragazzo ha una serie di avventure. Il mondo di Fantàsia sta scomparendo perché è invaso dal nulla. Nella sua ultima avventura, lui si scontra con un lupo nero che, durante lo scontro gli dice che non avrebbe potuto salvare Fantàsia, perché il potere vuole che avanzi il nulla, visto che se il nulla vince, le persone e i cervelli posso essere controllati. Per collegarmi all‟educazione, secondo me il problema di fondo è educare all‟empatia: per limitare i comportamenti violenti basterebbe suscitare la domanda “come mi sentirei io se, quello che sto facendo a lui, un altro lo facesse a me?”. Questo può far sì che coloro che sono dominati da un istinto che li spinge a sopraffare gli altri si rendano conto che stanno facendo una cosa disumana.


Mezzi di comunicazione, potere, libertà Dibattito a partire dalla lettura di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (introduzione e appunti della riunione del 31 marzo 2014 di Chiara Marra) Introduzione

Ho letto il libro in passato in qualche contesto in cui siamo stati invitati a leggerlo, altrimenti non l‟avrei letto, sia perché non conoscevo l‟autore sia perché il titolo era troppo enigmatico. Il libro racconta la storia di un “milite del fuoco”, Guy Montag, ed è ambientato in America, nel futuro, rispetto al tempo in cui vive l‟autore. I militi del fuoco incendiano i libri. Tornando a casa, dopo il lavoro, un giorno Montag incontra una ragazza, Clarissa, che è una nuova vicina di casa. Sulle pareti TV della casa della gente vengono proiettate le vite di personaggi particolari che diventano la famiglia virtuale della gente che vive in quelle case; addirittura i personaggi, grazie a particolari dispositivi elettronici, danno l‟impressione che siano familiari veri. Clarissa è diversa, ma Clarissa è normale. La famiglia di Clarissa legge, pensa, partecipa a scambi di idee. Montag incontra varie volte Clarissa. Una sera, tornando a casa, Montag trova la moglie sotto l‟effetto di massicce dosi di tranquillanti. Allora chiama dei tecnici che provvedono a cambiare il sangue delle persone che si imbottiscono di droghe o di barbiturici. Un giorno i militi danno fuoco alla casa di una vecchietta che ha tanti libri. La vecchietta si lascia bruciare con i libri. Montag preleva istintivamente un libro e lo porta a casa. Il giorno dopo non vuole andare al lavoro. Arriva il capitano. Il capitano spiega che «non c‟è milite del fuoco che, prima o poi, non passi questa crisi. Hanno soltanto bisogno di capire, di sapere come funzioni il meccanismo». Così comincia a raccontare a Montag la storia della milizia del fuoco e spiega che ad un certo punto i libri sono stati soppiantati da altri strumenti di conoscenza: la fotografia, la radio, il cinema. Nel corso della storia, spiega il capitano Beatty, «la durata degli studi si fa sempre più breve, la disciplina si allenta, filosofia, storia, filologia abbandonate, lingua e ortografia sempre più neglette, fino ad essere quasi del tutto ignorate. La vita diventa una cosa immediata, diretta, il posto è quello che conta, in ufficio o in fabbrica, il piacere si


annida ovunque, dopo le ore lavorative. Perché imparare altra cosa che non sia premere bottoni, girar manopole, abbassar leve, applicar dadi e viti?». Non c‟è stata una dittatura, un provvedimento legislativo: l‟innovazione tecnologica e la pressione delle masse hanno fatto sì che i libri non si vendessero più. Dice Beatty: «Non è stato il governo a decidere; non ci sono stati in origine editti, manifesti, censure, no! Ma la tecnologia, lo sfruttamento delle masse e la pressione delle minoranze hanno raggiunto lo scopo, grazie a Dio!». «A misura che le scuole mettevano in circolazione un numero crescente di corridori, saltatori, calderai, malversatori, truffatori, aviatori e nuotatori, invece di professori, critici, dotti e artisti, naturalmente il termine „intellettuale‟ divenne la parolaccia che meritava di diventare. … Non è che ognuno nasca libero e uguale, come dice la Costituzione, ma ognuno vien fatto uguale. Ogni essere umano a immagine e somiglianza di ogni altro; dopo di che tutti sono felici, perché non ci sono montagne che scoraggino con la loro altezza da superare, non montagne sullo sfondo delle quali si debba misurare la nostra statura! Ecco perché un libro è un fucile carico, nella casa del tuo vicino». Clarissa era una ragazza strana, una bomba a orologeria: è morta. Il capitano dice a Montag che sa che è stato tentato di prendere un libro per vedere cosa c‟è dentro e gli dice che può tenerlo per ventiquattr‟ore, poi deve bruciarlo o saranno i suoi capi a bruciarlo per lui. Una volta andato via il capitano, Montag si alza e mostra alla moglie i libri che aveva nascosto in casa nel corso dell‟ultimo anno. La moglie si spaventa, ma assieme al marito comincia a leggere. Man mano che il marito legge, però, Mildred è sempre più disorientata, ha paura che torni Beatty a bruciare la loro casa, si sente sola senza la “famiglia del salotto”. Ad un certo punto si rendono conto che dietro la porta di casa loro c‟è il “segugio meccanico” che annusa l‟aria e così vengono scoperti: si sa che hanno molti libri. Visto che con la moglie non è possibile dialogare, Montag si ricorda di Faber, un vecchio professore che aveva incontrato in un parco alcuni mesi prima. Montag decide di andare da Faber con una Bibbia in mano e riceve così conferma che Faber è un uomo colto, e gli propone di fare insieme qualcosa per salvare le cose che di solito stanno nei libri. Faber dice che in realtà non sono i libri ciò che manca a Montag, ma quello che nei libri si poteva trovare per timore che venisse dimenticato. «Non c‟è nulla di magico, nei libri; la magia sta


solo in ciò che essi dicono, nel modo in cui hanno cucito le pezze dell‟Universo per mettere insieme così un mantello onde rivestirci. […] Tre cose ci mancano: numero uno: sapete perché libri come questo siano tanto importanti? Perché hanno sostanza. Che cosa significa in questo caso “sostanza”? Per me significa struttura, tessuto connettivo. Questo libro ha pori, ha caratteristiche sue proprie, è un libro che si potrebbe osservare al microscopio. […] Insomma, questa è la prima cosa delle tre che ci mancano. Sostanza, tessuto di elementi vitali». Sostiene Faber. «E la seconda?» «Agio, tempo libero.» «Oh, ma noi abbiamo molte ore libere ogni giorno.» «Ore libere dal lavoro, sì. Ma tempo di pensare? Quando non conducete la vostra macchina a cento miglia all‟ora, a un massimo in cui non potete pensare ad altro che al pericolo, allora ve ne state a giocare a carte o sedete in qualche salotto, dove non potete discutere col televisore a quattro pareti. Perché? Il televisore è “reale”, è immediato, ha dimensioni. Vi dice lui quello che dovete pensare, e ve lo dice con voce di tuono. Deve aver ragione, vi dite: “sembra” talmente che l‟abbia! Vi spinge con tanta rapidità e irruenza alle sue conclusioni che la vostra mente non ha tempo di protestare, di dirsi: “Quante sciocchezze!”». «Ma la “famiglia” è gente in carne e ossa». «Come, scusate?». «Mia moglie dice che i libri non sono “reali”». «E Dio sia lodato per questo. Li si può almeno chiudere, dire: “Aspetta un momento”. Potete farne ciò che volete. Ma chi mai è riuscito a strapparsi dall‟artiglio che v‟imprigiona quando mettete piede in salotto TV? Vi foggia secondo la foggia che esso più desidera! L‟ambiente in cui vi chiude è reale come il mondo. “Diviene” e pertanto è la verità. I libri possono essere battuti con la ragione. Ma nonostante tutto quello che so e tutto il mio scetticismo, non sono mai stato capace di discutere con un‟orchestra sinfonica di cento elementi, a tutto colore, tre dimensioni e facente parte integrale, costitutiva di questi incredibili salotti. Come vedete, il mio salotto non è costituito che di quattro semplici pareti di calce e mattoni». […] «Dove andremo a finire? I libri potranno esserci di aiuto?» domandò Montag. «Soltanto se potremo avere la terza cosa che ci manca. La prima, come ho detto, è sostanza, identificazione della vita. La seconda, agio, tempo di pensare a questa identificazione, di assimilare la vita. La terza: diritto di agire in base a ciò che apprendiamo dall‟influenza che le prime due possono esercitare su di


noi. E non credo che un vecchio decrepito e un milite incendiario in rivolta possano far molto, al punto in cui siamo...». Faber propone a Montag di usare una speciale ricetrasmittente di sua invenzione attraverso la quale il professore avrebbe potuto ascoltare tutto quello che accadeva intorno al milite del fuoco e suggerirgli le cose da dire o da fare. Così Montag va in caserma fiducioso di essere in grado, con l‟aiuto di Faber, di affrontare il capitano. In caserma Beatty si mostra soddisfatto del rientro di Montag, ma gli fa un discorso che mette in crisi il milite, e che lo innervosisce molto, perché il capitano usa il contenuto di alcuni libri per tentare di convincere il sottoposto che i libri sono ingannevoli e pericolosi. Improvvisamente arriva una denuncia e la squadra di militi parte per la missione di distruzione della casa… di Montag. Beatty costringe il milite a incendiare lui stesso la casa con il lanciafiamme e Montag obbedisce finché, esasperato dalle parole del capitano che intanto aveva scoperto la ricetrasmittente che manteneva Montag in comunicazione con Faber, gli punta contro il lanciafiamme e lo uccide. Con lo stesso strumento “uccide” anche il “segugio meccanico”. Poi Montag va da Faber, che lo aiuta a fuggire e gli consiglia di dirigersi oltre la ferrovia, verso il fiume, dove avrebbe potuto incontrare altri fuggiaschi come lui. Intanto si scatena la caccia all‟uomo, utilizzando un nuovo segugio meccanico fatto arrivare da un altro distretto. Montag riesce a sfuggire alle ricerche, nascondendosi nel fiume e, improvvisamente, si rende conto di tutta la vita che ha attorno: il cielo, l’acqua, la terra, gli alberi, un cervo che incontra uscendo dal fiume. Finalmente era «profondamente consapevole del proprio corpo, della sua faccia, della sua bocca, dei suoi occhi colmi di tenebre, delle sue orecchie echeggianti di suoni, delle sue gambe tutte segnate dai rovi e dalle ortiche, vide innanzi a sé un fuoco. Era un fuoco che scompariva, ritornava, come un occhio che ammiccasse . Si fermò, timoroso di spegnere quel fuoco con un solo respiro. Ma il fuoco c‟era, ed egli vi si avvicinò cauto, alla lontana. Gli ci volle quasi un quarto d‟ora prima di essersi avvicinato abbastanza, e allora si fermò a osservarlo, non visto. Il poco moto della fiamma, il suo colore bianco e rosso, rivelavano un fuoco strano, dato che per lui significava una cosa ben diversa. Non serviva a bruciare, ma a scaldare. Vide infatti molte mani protese al calore della fiamma, mani senza braccia, rimaste, queste, celate nell‟ombra. Sopra le mani, volti immobili, che si agitavano soltanto, a scatti repentini, sobbalzando, con la luce del fuoco. Montag


non aveva mai saputo che il fuoco potesse apparire così. Non aveva mai sospettato in vita sua che il fuoco potesse dare esattamente come prendeva. Perfino l‟odore era diverso». Intorno al fuoco Montag incontra altri fuggiaschi come lui che sono ex professori universitari, o sacerdoti: uomini-libro che conservano, nella loro memoria, uno o più libri. Da uno di questi uomini, Granger, Montag impara che la loro missione è quella di ricordare fino a quando finirà la guerra e forse si potrà scrivere nuovamente i libri, perché la cultura è fondamentale affinché il mondo continui. Dice Granger a Montag: «Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia ove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l‟albero o il fiore che abbiamo piantato, noi si sia là. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, finché si cambia qualche cosa da ciò che era prima che la si toccasse in qualcos‟altro che è come noi dopo che la nostra mano se ne è staccata. La differenza tra l‟uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta una vita». Dibattito Emilia: il titolo fa riferimento alla temperatura alla quale la carta brucerebbe. Questo fa pensare a un libro di fantascienza invece è un libro drammatico sull‟assenza di relazioni umane (per esempio tra Montag e sua moglie). C‟è più relazione tra Montag e Faber, nonostante la durata del rapporto sia relativamente più corta. Rosa: ho visto il film negli anni ‟60: mi colpì perché sentivo il dramma del protagonista che cerca di comprendere perché si bruciano i libri. C‟era qualcosa che me lo ha fatto amare: per esempio, ricordo la vecchietta che va a fuoco con i suoi libri. Ricordo anche che alcuni anni fa, al tempo della riforma Gelmini, gli studenti portavano tute con scritto Fahrenheit 451. Giovanna: non ho letto il libro. È una storia triste, un duello tra fazioni, vediamo chi l‟avrà vinta. Anche oggi c‟è questo duello; credo che la carta stampata scomparirà. Vedremo. Con il libro c‟è più poesia, non è solo il contenuto. Il tablet è più freddo. Il libro viene letto con tutti i sensi. Alfio: questo libro ci riguarda. È bene che ci siamo visti per parlarne, è molto attuale: c‟è la preoccupazione del pensiero unico. Il


pensiero unico semplifica, la democrazia complica. Allora la tentazione del potere è quella di omologare le persone per rendere tutto molto più semplice. Un altro tema è quello legato ai principi universali della logica. Popper sembra giustificare il relativismo scientifico che può diventare relativismo etico. Noi che abbiamo ricevuto una formazione solida non abbiamo il minimo dubbio che il libro sia superiore a tutte le macchinette elettroniche. Io vivrò ancora con il libro: abbiamo fatto bene oggi a parlarne. Giovanna: responsabili di quello che accade oggi siamo noi adulti. I giovani mica si pongono problemi. Ma i valori “solidi” che noi avevamo che fine hanno fatto se questi ragazzi sono frutto dell‟opera di noi adulti? Iole: innanzitutto dico che mi è piaciuto come il libro è scritto. Ho apprezzato lo spirito profetico dell‟autore: sembra che parli proprio di ciò che viviamo noi oggi: i libri ridotti a due o tre pagine di riassunto, poi ancora più ridotti… I nostri alunni fanno proprio così: quando si preparano per sostenere le interrogazioni a fine trimestre si fanno fare dei riassuntivi striminziti e li imparano a memoria; poi pretendono di essere promossi, e vengono promossi. Tommaso: il libro oggi è distrutto, è bruciato, incenerito: i ragazzi di oggi non leggono libri, al massimo un libro di Volo o di Covatta. Già alcuni anni fa avevo uno studente che tutti gli anni otteneva la borsa di studio per merito, ma affermava candidamente che a casa non aveva libri. Uno si appassiona alla lettura se da neonato ha succhiato il latte mentre la mamma leggeva libri: oggi neanche le mamme leggono libri; tutti sono felici con smartphone, tablet, computer e social network. Consideriamo i libri di testo: oggi i libri di testo hanno titoli vuoti (Filosoficamente, Entriamo in azienda, Eprogram o Telepass) e scimmiottano i sistemi multimediali e iconici. Un tempo, chi non si appassionava alla lettura da piccolo, perché aveva i genitori analfabeti, quando entrava nella scuola doveva fare i conti con il libro e con le modalità a cui il libro ti costringe (stare seduto, leggere, ragionare e riflettere, capire e memorizzare). Oggi i bambini di quattro anni insegnano alle mamme come manovrare con i polpastrelli sul touchscreen di tablet e smartphone, e credono di saperla più lunga degli adulti sulla vita. Il libro è morto anche perché lo sostituisce il libro elettronico, anche se in Italia fa fatica ad affermarsi. Però nei paesi nei quali il libro è stato mandato in soffitta per legge, e dove i bambini di quattro anni entrano in prima elementare muniti di dispositivi elettronici che li collegano allo scibile umano con pochi click, tra venti anni vi sarà una popolazione giovane che ignora l‟odore della carta stampata e pensa e


opera in modi inediti. Infatti l‟e-book, l‟ipertesto, il web non sono libri, sono un‟altra cosa. Offrono anche alcuni vantaggi sul libro cartaceo, ma sono un‟altra cosa. Non oso immaginare gli Elementi di Euclide o la Divina Commedia da studiare e comprendere in e-book: quale lavoro di riflessione vi si può fare? I libri di Volo, sì, quelli puoi leggerli in e-book.


Vivere il presente, scrutare e costruire il futuro (appunti dalla riunione del 29 maggio 2014 di Francesca Scanga) Presentazione Tommaso: l‟incontro si articola in due momenti. Innanzitutto vediamo il lavoro che hanno preparato Angela Salerno e Francesco Fazio. Vi anticipo che si tratta di un prodotto multimediale, anche ipermediale possiamo dire, sulla multimedialità come contenuto. È un modo per parlare della multimedialità e per mostrare che cos‟è la multimedialità, attraverso la multimedialità. La seconda cosa che faremo, solo apparentemente scollegata dalla prima, è ascoltare una lezione di Umberto Galimberti, un filosofo e psicanalista dell‟università di Venezia. Abbiamo catturato una sua lezione dal titolo “Dove andiamo?” e ora l‟ascoltiamo (https://www.youtube.com/watch?v=4z_wXuIS4-g). Questa lezione ci interessa molto, visto che il titolo praticamente coincide con il sottotitolo del tema che il nostro gruppo studia da due anni: “Tecnologie digitali, cultura, democrazia. Dove stiamo andando?”. Il piccolo prodotto multimediale dei ragazzi ha a che fare con la tecnica, la cultura, la conoscenza ed è anche una riflessione su queste cose, riflessione indispensabile per noi docenti e studenti, perché dobbiamo chiederci sempre dove siamo e dove stiamo andando. Infatti il tema di oggi è “Vivere il presente, scrutare e costruire il futuro”. Umberto Galimberti ci parla proprio della tecnica, della prepotenza della tecnica e ci dice anche che la filosofia, che dovrebbe insegnarci a riflettere, è impotente di fronte all‟onda travolgente della tecnica. Perciò, come vedremo, le due parti dell‟incontro, il lavoro degli studenti e la riflessione di Galimberti, stanno bene insieme. Visione del progetto di Angela e Francesco Angela: il progetto che presentiamo oggi si intitola “Creatività e metodo nella multimedialità”. Questo progetto è nato in seguito ad una riflessione fatta dal professore Cariati in classe durante alcune lezioni. Il punto di partenza è stato la considerazione che alcuni credono che la creatività sia frutto dell‟ispirazione, mentre altri sostengono che senza metodo non si può fare un‟opera d‟arte. Siamo arrivati a domandarci dove stesse la verità. Nell‟arte ci vogliono sia creatività che metodo, perché senza la


creatività si ingabbia il genio che c‟è dentro di noi e senza metodo non si fa un‟opera d‟arte. Siamo arrivati all‟esempio del cervello, composto da due emisferi, destro e sinistro. La parte destra è la sede della creatività e quella sinistra della razionalità. Da queste prime considerazioni, ci siamo chiesti se un lavoro multimediale, un sito web, per esempio quelli che noi abbiamo imparato a progettare e sviluppare dalla terza classe in HTML, sia da considerarsi un‟opera d‟arte da valutare anche sotto un punto di vista estetico, oltre che dal punto di vista della funzionalità e dei contenuti. E così la nostra ricerca ci ha condotto a illustrare le idee che via via andavamo maturando proprio con un prodotto multimediale o ipermediale: è il lavoro che vi presentiamo. Come detto, questa non è stata la nostra prima esperienza con l‟HTML, ma sono già tre anni che facciamo progetti multimediali. Prima di questo progetto, in quest‟anno scolastico, abbiamo realizzato altri lavori, come ad esempio: “Lo scandalo Datagate con Snowden” e “L‟informatica e i mezzi di comunicazione”. Questo progetto nasce dal desiderio di inventare qualcosa che mostrasse cosa fosse la multimedialità e cosa fosse l‟ipertesto. Ma un‟opera va anche giudicata dall‟aspetto estetico, e l‟estetica non va confusa con ciò che comunemente si intende, perché l‟etimologia rimanda alla sensibilità, quindi a dei criteri di efficacia comunicativa ed emozionale. Quando si deve realizzare un progetto, bisogna avere presente che, se consideriamo ad esempio un film, un conto è fare un qualsiasi film, un conto è fare un capolavoro. Noi di Sos ad esempio abbiamo visto il film “Disconnect”. Questo trattava temi che già altri film avevano trattato, però non hanno avuto la stessa riuscita. Vuol dire che “Disconnect” è migliore dei precedenti come opera d‟arte. Il progetto che vedrete oggi ha subito varie modifiche, nel senso che la prima versione è stata arricchita. Nella seconda abbiamo utilizzato strumenti diversi, fino a che non siamo arrivati ad essere convinti che questa potesse andare più o meno bene e che rappresentasse l‟idea di partenza, che era quella di mettere a confronto la creatività con il metodo nella multimedialità. Francesco: la struttura del progetto è fondamentalmente basata sulla contrapposizione dei due argomenti principali: creatività e metodo. Ogni parte a sua volta ospita le successive pagine. Si raggiunge quindi la creazione finale del progetto in uno schema ad albero.


Per quanto riguarda tecniche e stili, è stato fatto ampio ricorso al linguaggio HTML, nel codice però abbiamo incorporato molti componenti multimediali sviluppati con strumenti come Flash e Photoshop. Di fatti abbiamo utilizzato diversi programmi CASE (Computer Aided Software Engineering), oltre all‟HTML. I principali sono stati Microsoft Office Frontpage, Microsoft Office Expression Web, Macromedia Flash, Ulead Video Studio. In alcuni casi è stato fondamentale modificare “a mano” il codice HTML di alcune pagine in quanto alcuni parametri e funzionalità dei CASE non arrivano al livello di personalizzazione delle pagine tale da renderle efficienti e funzionali. Il lavoro è visionabile sul sito del gruppo Sos Scuola, all‟indirizzo www.sos-scuola.it. Visione lezione “Dove andiamo?” di Umberto Galimberti (appunti minimi) L‟uomo non è più il soggetto della storia. L‟uomo non usa strumenti per realizzare i suoi scopi. Oggi la tecnica è il soggetto della storia e l‟uomo è un funzionario degli apparati tecnici. La tecnica è la più alta forma di razionalità. È la ragione strumentale. Oggi, a causa della mentalità diffusa dalla tecnica, capiamo solo ciò che è utile. Non capiamo che cosa è bello, che cosa è buono, che cosa è sacro: capiamo solo ciò che è utile. La grande trasformazione si può far risalire alla Seconda guerra mondiale. Già Hegel aveva capito che quando un fenomeno cresce quantitativamente, oltre una certa misura si ha anche un cambiamento qualitativo del paesaggio. Se la tecnica è la


condizione universale per raggiungere qualsiasi scopo, la tecnica è il primo scopo che tutti vogliono. In questo scenario entra in crisi anche la democrazia. Gunther Anders ha scritto un libro bellissimo intitolato “L‟uomo è antiquato”. Vedete, il telefonino contiene più intelligenza oggettiva superiore alla capacità soggettiva di ognuno degli utilizzatori. Questo rende l‟uomo obsoleto, antiquato, inadeguato ai nuovi apparati tecnici. Ci troviamo in una situazione paradossale in cui l‟etica è patetica. L‟etica oggi chiede a chi può, alla tecnica, di non fare ciò che può. Si tratta dell‟impotenza dell‟etica. Heidegger aveva compreso che nell‟epoca moderna chi vede un fiume non vede il fiume ma l‟energia elettrica che se ne può ricavare, chi vede un bosco non vede il bosco ma il legname che se ne può ricavare. Gunther Anders, allievo di Heidegger, ha scritto che l‟uomo non è più il pastore dell‟Essere ma il pastore delle macchine, anzi il semplice sorvegliante di apparati tecnici di cui non comprende nulla. Questo pensatore originale ha scritto che nell‟età della tecnica stiamo vedendo in grande quello che il Nazismo ha fatto vedere in piccolo. Il Nazismo, egli dice, è stato un teatrino di provincia. Egli spiega che la responsabilità personale, nel Nazismo come nell‟età della tecnica, si limita al funzionamento delle procedure e degli apparati, ignorando le conseguenze delle azioni. Perfino la parola “lavoro” diventa equivoca.


Heidegger già nel ‟52 diceva che inquietante non è che il mondo si trasformi in un enorme apparato tecnico, inquietante è che non siamo preparati per questa radicale trasformazione, ancora più inquietante è che non disponiamo di un pensiero alternativo al pensiero calcolante che ha monopolizzato il nostro modo di pensare. Allora, dove andiamo? Forse non sappiamo dove andiamo, perché la tecnica è cieca.

Dibattito Tommaso: si parla tanto di tecnologie nella didattica e di iniezioni di dosi massicce di mezzi digitali per aiutare la scuola ad uscire dalla crisi in cui si trova; i giovani già usano mezzi tecnologici potenti e sofisticati; ma Galimberti dice che la tecnica è la forma più alta di razionalità e domina tutto; dice, citando Gunther Anders, che l‟uomo è antiquato; dice che l‟etica è patetica; dice che siamo tutti, specialmente i giovani, più o meno preda di un fantasma che si chiama nichilismo. Mi pare che gli spunti per discutere siano tanti. Vi invito a dire qualcosa anche riguardo al lavoro multimediale di Angela e Francesco. Alfio: che cosa ne pensa Galimberti, io non l‟ho capito. Lui ha analizzato le contraddizioni del nostro tempo; anche attraverso i riferimenti storici ha dimostrato la diversità, l‟evoluzione. Flora: io non sono d‟accordo quando dice che l‟uomo fa una cosa perché è condizionato. E quindi nell'uomo c‟è irrazionalità, invece non c‟è irrazionalità. Gaëlle: Galimberti fa un‟analisi in parte accurata, tagliente anche, ma io da giovane la vedo diversamente su alcuni aspetti. Sì, lui ha ragione in parte, però credo che lui pecchi di eccessiva concentrazione sull‟Occidente. Ovvero, anche riguardo al fatto che lui dica che le radici cristiane permeano l‟Occidente, siamo tutti d‟accordo benissimo, ma non c‟è solo l‟Occidente nel mondo. In particolare lui faceva questo ragionamento, se togliamo la parola “Dio” capiamo ancora il nostro mondo, se togliamo la parola “denaro” non lo capiamo più. Ma non è così, perché nel nostro mondo ancora ci sono altre dimensioni in base a cui si regalano le cose, in cui il denaro non entra. Se togliamo la parola “uomo” non capiamo più niente perché spariscono i protagonisti della realtà sostanzialmente. Quindi io questo lo trovo discutibile; cioè sicuramente lui parla di una cosa dilagante ma che non è ancora pervasiva, e anzi ci sono controtendenze. Secondo me questo nichilismo non è una cosa senza fine, può essere un distruggere per ricostruire un qualcosa. Lui diceva: questo è un mondo in cui non c‟è responsabilità e non vediamo il fine delle azioni; bene, ma questo può chiamare nuova responsabilità. Non siamo


tutti tecnocrati, non è vero che non abbiamo sensibilità verso la natura: chi più, chi meno ci stiamo accorgendo delle cose. Quindi io non la vedo in maniera così tetra, sicuramente il suo è un intervento molto interessante, però vedo una prospettiva positiva. Il lavoro dei ragazzi l‟ho trovato bello, soprattutto nella prima parte, e l‟ho trovato interessante come accostamento concettuale. Alfio: è vero che il cervello diviso in due emisferi è la teoria dominante, ma ci sono oggi teorie secondo le quali questa separazione non è netta, ma le due parti si influenzano continuamente. Galimberti è un grande seminatore di dubbi, ed è un‟ottima cosa, perché i dubbi hanno alimentato la ricerca e la ricerca ha portato progressi. Mi pare che tutto l‟impianto del ragionamento di Galimberti potrebbe dare ragione a una teoria, non nuova ma che è stata sempre nella storia della filosofia, che si chiama determinismo che praticamente scarica di responsabilità le persone, e alcuni movimenti vi si sono basati. L‟uomo non ha responsabilità nelle ricerche e non si salverà per volontà sua ma per predestinazione. Galimberti dice: noi non possiamo decidere niente, le cose stanno così. Viene messa in crisi anche la coscienza dell‟uomo. La verità cambia, non è sempre la stessa. Chiara: voglio provare a mettere in relazione il lavoro dei ragazzi con la lezione di Galimberti. Premesso che la lezione mi è sembrata abbastanza inquietante, quello che ha detto lui è inquietante più del nichilismo. Mi verrebbe voglia di incontrarlo e chiedergli: tu per cosa vivi? Perché forse la domanda a cui tutti quanti noi siamo chiamati a rispondere è: io per che cosa vivo? Se tutta l‟analisi di Galimberti fosse vera, io, che insegno nella scuola media, dovrei probabilmente licenziarmi domani mattina, perché penso che il lavoro dell‟insegnante sarebbe il lavoro più inutile del mondo. Una sollecitazione che mi veniva dal lavoro che hanno fatto i ragazzi: sono rimasta colpita dal fatto che la realizzazione di un prodotto multimediale porta con sé la collaborazione fra tante persone che invece il prodotto “unimediale” (scrittura, musica, arte figurativa) non esige. Allora forse anche rispetto al quadro tracciato da Galimberti, la collaborazione tra le persone non può mancare. Due sono le cose che dobbiamo necessariamente conservare per interpretare il mondo: l‟uomo e la relazione tra le persone. Cosimo: parlando del lavoro degli studenti, loro sono miei alunni, quindi l‟impatto è diverso: sono parziale. Si va a valutare il lavoro, la


fatica, le traversie che sono dietro il lavoro dei ragazzi, gli approfondimenti, si supera la prima impressione superficiale e si va più a fondo. Logicamente questi sono lavori preziosissimi, perché vanno al di là della superficie. Al di là del lavoro, che mi è piaciuto, però trovo un limite, il fatto che adesso c‟è un‟esigenza diversa: dobbiamo essere più professionali. Voi ci siete, il lavoro c‟è, ci sono tutti i contenuti, allora bisogna fare un salto di qualità, non ci devono essere situazioni in cui qualcosa non funziona. Galimberti lo conosco, mi interessa e lo seguo, perché le sue analisi sono molto interessanti. Ciò che mi ha colpito di più è il paradosso fra il primato della persona, dell‟individuo libero, che può fare tanto, e poi invece lui che dice che noi siamo in un sistema che ci influenza e limita la nostra libertà. Nel futuro forse, potremmo riuscire a vedere il nichilismo e trovare l‟energia in positivo, potremmo trovare situazioni in cui queste cose si possono superare. Flora: durante l‟anno abbiamo trattato con i ragazzi la comunicazione. La cosa non è andata avanti perché loro non sono riusciti ad entrare in questo tipo di metodologia, i ragazzi non sono ancora pronti per questo tipo di approccio, alla didattica laboratoriale, come quella che è stata seguita nella preparazione e nello sviluppo del lavoro che abbiamo visto. Angela: volevo rispondere al professore Ascente, quando ha detto che bisogna essere consapevole dei propri limiti per riuscire a superarli. Io credo che sia io che Francesco sapevamo di alcuni problemi tecnici del nostro progetto, però ci tenevamo a presentarlo prima dell‟esame proprio per metterci alla prova. Nunzio: vorrei sapere se Galimberti ha un certo tipo di rapporto con la tecnologia. Una cosa non mi è piaciuta di questo filmato, che è un monologo. A me sarebbe piaciuto un contraddittorio con delle persone di pari livello. Lui ha detto: la tecnologia è il fine della nostra società e non il mezzo. Io qua potrei non essere d‟accordo: è un mezzo asservito all‟economia, si sviluppa tutto intorno all‟economia su un principio che regola il mondo di oggi, il profitto. Secondo me, l‟ideologia che domina il mondo in grande parte è l‟ideologia del profitto, che fa girare tutta l‟economia. Non è un fine la tecnologia se ragioniamo così. Tommaso: vi faccio una provocazione. Galimberti ad un certo punto, citando Gunther Anders, ha detto che l‟uomo è antiquato: l‟uomo è inadeguato rispetto alle possibilità tecniche. Noi restiamo scettici perché non osiamo immaginare un mondo in cui non ci sia una innovazione tecnica continua e forzata: tutti crediamo ciecamente in un progresso illimitato. Anzi tutti siamo convinti che le guerre,


l‟inquinamento, le ingiustizie ci sono solo perché ancora gli scienziati non hanno trovato tutto quello che c‟è da trovare, ma quando l‟avranno trovato saremo tutti felici. Ora, c‟è chi teorizza un‟epoca post-umana in cui conosceremo delle creature ibride nelle quali la base biopsichica sarà minima rispetto al gran numero di funzioni sofisticate e potenti che essa potrà svolgere grazie a congegni tecnici incorporati nella base biologica. Ebbene, con questo nostro modo di ragionare, non diamo ragione a Galimberti? Non siamo già vittime dell‟ideologia tecnicista? Inoltre: non ha ragione anche sul fatto che l‟uomo è antiquato? Dopo aver trasformato l‟evento della nascita in un‟esperienza d‟ospedalizzazione, in una malattia, e la morte in un evento di distacco da qualche macchina, o in un suicidio più o meno assistito da tecnici, non vi pare che il processo della riproduzione sia rimasto una grande barbarie e che potremmo esserne liberati, dato che ormai sarebbe possibile ordinare in Internet il bebè con le caratteristiche desiderate e riceverlo a casa dopo nove mesi, o anche meno? Ma a questo punto, che cosa è la vita? Pensiamoci, ne riparleremo in un altro incontro. Intanto io vi dico che condivido abbastanza l‟analisi presentata da Galimberti. C‟è addirittura chi parla di “attacco alla sorgente della vita” da parte di talune potenze che dominano nel mondo. Certamente, nella visione di Galimberti manca la variabile “Dio”, perché sulla scia di Nietzsche, egli ritiene che “Dio è morto”. A proposito del fatto che l‟“uomo è antiquato”, quanto è antiquato un frate che cammina scalzo e prega un Dio invisibile, crede nelle favole raccontate nel vangelo e spreca la sua vita digiunando e predicando una realtà incomprensibile e scandalosa? Quanto è antiquato se paragonato alle creature del mondo post-umano, al simbionte? Il Dio che è morto, però, è il Dio dei filosofi, quello che, per dirla con Galimberti, “ha fatto storia” nel Medioevo, un idolo che talvolta è stato capace di far compiere imprese come le crociate, non il Dio vivente di Abramo, Isacco e Giacobbe; di Paolo di Tarso, Francesco d‟Assisi, Ignazio di Loyola, Teresa di Calcutta e papa Bergoglio. Il Dio di costoro è vivente ed opera per sanare i disastri che gli uomini (banchieri, tecnici, scienziati, politici, imprenditori, generali) continuamente provocano. Dio è la variabile mancante del modello zoppo presentato da Galimberti, ma la sua analisi non è sbagliata.


Appendice


Calabria I viaggi del cuore di Tommaso Cariati a mia moglie Chiara, che sostiene la mia vocazione

Capitolo 1. La Calabria, su due ruote (e due piedi) Quando mi slancio su due ruote da monte Scuro verso Camigliatello mi sento felice come un bambino, e ho più di cinquant‟anni. Lo stesso mi succede da Rogliano verso Cosenza, dal monte Poro verso Tropea, o a piedi da monte Paleparto verso il Trionto o da Sculca a monte Botte Donato. Fai una delle cose più semplici e faticose di questo mondo ma sei libero, libero come il vento. Si tratta di una miscela magica di cui fa parte perfino la forma della strada. In Calabria ci sono ancora strade che si lasciano percorrere con naturalezza: invitano il viandante e lo accompagnano. Si inoltrano, sinuose come certi fiumi che scorrono in pianura, nei boschi di pini, castagni o faggi senza fare violenza al paesaggio. Sono state costruite con pala e piccone a regola d‟arte, adattandole dolcemente ai fianchi dei declivi e rispettando le curve di livello. Percorrerle è una gioia. Sono le strade che mi attraggono; delle altre preferisco tacere. Pare che le antiche mulattiere seguissero un tracciato che emergeva piano piano in base alle preferenze delle cavalcature cariche di legna, grano o sabbia: i profili più ripidi e accidentati venivano scartati senza esitazione; conoscevano bene, le brave bestie, la fatica delle ascese. La stessa saggezza, le cavalcature, forse ancora dimostrano quando devono guadare un corso d‟acqua impetuoso o torbido: non si avventurano mica in modo ortogonale alla corrente; procedono con grandissima prudenza obliquamente, prima risalendola, poi discendendo. Sì; da queste parti la diffusione delle strade è stata accompagnata dalla diffusione di mezzi a due ruote, forse perché ricordavano le cavalcature. Molti uomini, giovani o di mezza età, hanno scoperto il motore a scoppio attraverso la moto Morini o Gilera. Vi fu anche un tale di qua che a Milano inventò un marchio di motociclette. L‟auto era cara; forse dava un senso di claustrofobia e di maggior pericolo: meglio una moto, ti fa sentire libero come quando cavalchi un mulo o un cavallo, e quando si imbizzarrisce ti butti e la lasci andare. Quando avevo otto o nove anni, alla fine dell‟estate sono andato


con la zia Adelina sull‟altipiano della Sila a raccogliere le patate. Facevo la mia parte come uno grande e guadagnavo settecento lire al giorno. Intorno al dieci di ottobre, dovendo andare a scuola, sia pure in ritardo, mio padre diede l‟incarico a un suo compagno di lavoro che veniva a trovare la moglie, raccoglitrice di patate anch‟ella, di portarmi via con lui sulla sua bella moto. Ricordo che mi avvolsero in una coperta di lana e mi sistemarono sulla sella scongiurandomi di tenermi saldamente avvinghiato al buon uomo. Ricordo che era notte e faceva molto freddo. Ricordo che percorremmo un dedalo infinito di strade sterrate. Ricordo che si saliva e si scendeva, si guadavano rigagnoli d‟acqua, e faceva freddo. Quando, infine, giungemmo dalle parti di Macchiafarna, si era fatto giorno ed ero intirizzito. Il sole ci salutava levandosi dalle parti di Cirò. Mio padre era lì; mi sistemò vicino al fuoco e sparì in un boschetto. Ne ritornò con due pinicoli, li fece arrostire sui carboni e me li diede per colazione. Era una giornata luminosa e io, sia pure da lontano, finalmente riconoscevo i luoghi. La sera ce ne andammo a casa insieme. Quando ero un ragazzo, ho sentito raccontare che la prima volta che un tale è giunto in paese in bicicletta, la gente era esterrefatta. «Un uomo vola come un uccello su due cerchi di botte», dicevano. Ma la storia ciclistica da queste parti non si è sviluppata, considerato che la Calabria è una regione montuosa e il cambio Shimano doveva essere un lusso. Zio Serafino, alto più di un metro e novanta, aveva una grande bicicletta appesa a un muro: gli era servita per imparare l‟equilibrio, poi era passato alla moto. Io desideravo tanto provare quell‟aggeggio enorme, ma non osavo neanche toccarla. Io praticamente non ho mai desiderato passare dalla bicicletta alla moto, se escludiamo che da adolescente ho avuto una Vespa cinquanta. Ho invece sempre creduto che camminare fosse bellissimo e che andare in bicicletta fosse un grado di progresso giusto. Se tu superi una certa soglia di velocità, non sei più un uomo che viaggia, sei un pacco postale. Un vecchietto, su questo punto, una volta mi disse: «Ho visto in televisione un professore, mi pare Galaberti o Calamberti, doveva essere un nome longobardo, che diceva che la tecnica ormai è lo scopo che tutti vogliono, altro che mezzo per raggiungere un fine, e che l‟etica è patetica. Non ho capito molto. Parlavano anche di epoca postumana, in cui gli uomini vogliono annullare la fatica, azzerare la sofferenza, vincere la morte e dare vita a creature ibride denominate simpionti o simbrionti, “caratterizzate da un tasso di contenuto tecnico prossimo al novanta percento”; non ci ho capito molto: faticare e sudare è concepibile soltanto per dare spettacolo, nello sport alleato della tivù». Che dire? Da queste parti un tempo tutti camminavano.


Disse una volta, come tra sé e sé, durante l‟omelia della messa dell‟aurora del giorno della Madonna Assunta, presenti poche vecchiette probabilmente illetterate, un prete di montagna di queste parti: «L‟uomo ha visto gli uccelli e ha voluto imitarli, ha visto i pesci e ha voluto imitarli. Ha voluto perfino andare sulla Luna e sogna di colonizzare lo spazio. Forse per questo non gli importa di contemplare e rispettare la bellezza del creato: prima o poi abbandonerà gli angusti confini della Terra, magari viaggiando sempre alla velocità della luce abbatte drasticamente l‟effetto deleterio del tempo». Mia moglie ed io ci eravamo alzati presto perché dopo la messa volevamo andare, a piedi, dal paese ai sansi del Trionto, passando per San Giuseppe. Camminando mi ricordai che una volta una vecchietta, che di mattina presto nel suo orto legava i pomodori ai pali, e respirava aria fresca, lungo la strada che da Castiglione Cosentino porta al lago di Tarsia, durante una pausa tra una pedalata e l‟altra, mi disse: «Vi fanno credere qualsiasi cosa, con la televisione. Davvero credete che sono andati sulla Luna? È una messinscena, uno spettacolo». La mia interlocutrice era convinta di quello che diceva, e non credo che avesse sentito parlare della teoria secondo la quale la trasmissione televisiva dello sbarco americano sulla Luna fu un film girato a terra da cineasti di Hollywood ingaggiati per l‟occasione, dato che lo sbarco vero presentava qualche problema. Sorvolai; le dissi: «Parliamo di cose più semplici. Come è bello il tuo orto. È verde, ordinato, e come produce! una meraviglia». Rispose: «Non sai la guerra che si combatte ogni giorno! Ogni mattina io sono qui: osservo, innaffio curo, raccolgo, accarezzo; schiaccio la jifa e la dorifora con le dita; chiudo buchi di talpe e allontano parti rinsecchite; faccio sentire la mia presenza a uccelli, topi e serpenti, in modo che stiano lontani. Ogni mattina ricomincio». Rimontai in sella e meditai sull‟entropia. Poi, ripensando alle parole della vecchina su luna e televisione, mi vennero in mente i messaggi che sono stati sparati nello spazio rivolti a ipotetiche creature extraterrestri. Possiamo credere che gli extraterrestri decifreranno mai i messaggi redatti in inglese, in formule matematiche o in linguaggio binario? È proprio tutto uno spettacolo! Quando ero adolescente percorrevo molti chilometri in bicicletta, su due cerchi di botte. Avevo conosciuto un uomo che alcuni anni prima aveva gareggiato come ciclista, e voleva farlo ancora. Contento di avere un compagno disposto a pedalare, mi aveva fornito una bicicletta da corsa un poco arrugginita. Una mattina d‟estate uscii all‟alba, da solo, per un giro di allenamento. Contando di rientrare presto presto, prima che si svegliasse la fame, non portai nessuna merenda. Pedalai spedito, col favore della brezza mattutina dello Ionio, da Mirto a


Rossano a Corigliano, lungo la 106; salii a Corigliano Calabro e scesi a Rossano Scalo passando per Piragineti; salii da Celadi e mi diressi verso Paludi; quindi puntai su Cropalati, con l‟obiettivo di ritornare a Mirto, passando per il ponte di Trionto e per il bivio di Caloveto. Nei pressi del cimitero di Cropalati, quando mancava uno sputo per finire la salita e catapultarmi lungo i grandi tornanti del versante che si affaccia sul vasto greto del Trionto, le gambe si incepparono e dovetti scendere dalla sella. La crisi glicemica aveva raggiunto l‟acme. A piedi piano piano riuscivo però ad andare. Si trattava di spingere il cavallo meccanico fino al valico di Cropalati; dopo, crisi o non crisi, mi sarei slanciato a capofitto verso casa. Mentre avanzavo, poco oltre il cimitero vidi, a qualche metro dalla strada, un fico; ne feci un pasto, e, in men che non si dica, mi venne un‟energia che non avevo alla partenza. Inforcai il catorcio e volai a Mirto. Una volta, mentre pedalavo, e volavo come un uccello, da Parenti a Castiglione Cosentino, passando per Rogliano e Donnici, incontrai un uomo che falciava il fieno in modo tradizionale. Impugnava un falcione con tutt‟e due le mani e si muoveva ritmicamente in una specie di danza. Faceva oscillare l‟attrezzo compiendo un movimento di rotazione del busto, e l‟erba cadeva formando una specie di cordolo verde e diritto. La lama era lunga solo sessanta centimetri, ma il lavoro progrediva speditamente. Mi fermai e lo interrogai: «Perché non usi decespugliatore, tosaerba o falciatrice?». Disse: «Per non disturbare gli uccelli». Aggiunse: «Anche perché non mi venga voglia di possedere campi più vasti, e perda la pace». Dissi: «Fai una faticaccia». Rispose: «Ti assicuro che con un attrezzo ben armato, calibrato e affilato produco più io così di te con il decespugliatore, soprattutto se consideri il rumore assordante, il tempo e i soldi per procurarsi benzina e olio, le spese e i tempi morti per la manutenzione». Dissi: «Non hai anche tu spese e tempi morti di manutenzione?». Rispose: «È tutto questione di arte. La mia arte comprende la competenza per armare e mantenere l‟attrezzo efficiente, in modo che faccia musica come un flauto». Dissi: «Che arte è quella di strofinare una pietra cote su una lama tagliente?». Rispose: «Ci sono segreti nell‟arte della manutenzione del falcione che non posso svelare al primo passante». Aggiunse, come per glissare su quanto aveva appena detto: «Considera pure i costi sociali, sempre connessi con i cambiamenti tecnologici, se vuoi fare un bilancio equo». Dissi: «Ti riferisci a obsolescenza, stress per l‟addestramento, oltre che al disturbo degli uccelli e dei cristiani». «I fabbricanti e venditori di macchine hanno la capacità di farci sentire tutti menomati… Il petrolio prima o poi finirà». Così disse.


Quando montai in sella pensai all‟antica arte dei samurai, la quale comprende la competenza di costruire la spada, sulla base di conoscenze profonde delle leghe ferro-carbonio e della meccanica dell‟acciaio, con procedimenti metallurgici raffinatissimi, che qui non posso raccontare. I samurai non corrono dietro all‟ultimo ritrovato della tecnica moderna; hanno la loro arte, come i monaci hanno l‟arte di meditare. Il problema è fermarsi, guardare, camminare scegliendo dove andare, sapendo che ognuno deve trovare la sua via d‟uscita dal mondo. E mi ricordai pure, mentre pedalavo, che, ne Lo Zen e il tiro con l’arco, un americano racconta che, trovandosi in Giappone e volendo imparare un‟arte di quel paese, pensava al tiro con la pistola, perché, come quasi tutti gli americani, aveva una certa pratica con le armi da fuoco. Scoperse che c‟è una via opposta: non si trattava di accumulare conoscenza su conoscenza, ma di disimparare e diventare un cosa sola con l‟arco che sta fermo, la freccia che vola e il bersaglio che sta dall‟altra parte: perciò meglio il tiro con l‟arco. A scrivere un libro però non seppe rinunciare. Un giorno ho voluto affacciarmi, sui due cerchi di botte, da Serra San Bruno e contemplare il mare Ionio. Tu pedali, pedali per una strada ben fatta in mezzo ai boschi finché ti trovi alle ferriere di Mongiana. Intanto pensi ai Certosini che vivono in maniera incomprensibile. Pensi anche ai parchi avventura tanto di moda anche nella terra di Francesco di Paola e Nilo da Rossano, a Lorica, a Mangiebevi, a Serra San Bruno. Pedali ancora in salita fino al passo di Pietra Spada. Ti ritornano in mente le parole di un anziano. Disse: «Hanno trasformato la vita in una mostra e vi vogliono tutti guardoni. Si pescano trote d‟allevamento e si va in groppa di pony per ammazzare il tempo. Per vivere l‟avventura ci vuole un parco. Noi ci arrampicavamo sulle querce e sui castagni più robusti per cercare nidi, armare trappole per uccelli e roditori, per tagliare frasche per foraggiare le vacche, anche di notte: era la vita ed era l‟avventura. Eravamo senza scarpe e il gelo mordeva la carne. Il rischio era la nostra vita». Obiezione: «Il mondo è cambiato». Risposta: «Sì; il mio sport preferito è il wild running, senza attrezzi e senza protezioni». Sapevo che in certe contrade della Calabria si giocava alla staccia, in altre allo stiriddu, a Soveria Mannelli con le pezze di formaggio, ma non sapevo di questo sport con un nome inglese che fa pensare a una vera disciplina olimpica. Domanda: «Parli della corsa campestre, del cross country running?». Risposta: «No, parlo del wild running, uno sport che abbiamo inventato qui». Domanda: «Come funziona?». Risposta: «Si basa su dodici prove. Alla fine, per i pochi che giungono sani al traguardo, conta il tempo». «È un‟esperienza di


sopravvivenza?». «C‟è l‟arrampicata sugli alberi, il passaggio sotto il reticolato, la corsa lungo un torrente, lanciarsi nel vuoto con le liane da un albero all‟altro». Così disse, ma non ho potuto sapere se questo sport è stato mai praticato da qualcuno. Intanto il mio cavallo meccanico andava per inerzia verso Bivongi e Stilo, e volavo come un uccello. L‟energia potenziale che il sistema cavallo meccanico-ciclista possedeva su al valico si trasformava in energia cinetica, e bisognava frenare dissipandone in attrito una parte, altrimenti si va a gambe per aria. La faccenda del wild running richiama alla mia memoria un altro sport: il triathlon agricolo o agricoltural triathlon, inventato da noi e praticato dalle mie parti. Sorrido. Una strada bella da percorrere è quella che va da Quaresima a Cosenza. Anche quella che circonda il lago Arvo è bella, specialmente dal lato di Pino Collito. Puoi imbatterti in ciliegi che, protendendo i loro rami stracarichi di frutti rosacei e dolci fin sulla strada, ti permettono di fare una scorpacciata memorabile. Da quelle parti c‟è un tale che costruisce cesti, panieri, canestri con umili salici e canne, come si è fatto per secoli, oggetti senza mercato, ma lui li numera e firma. Vi appone una targhetta in cuoio chiaro su cui scrive il numero di serie, la data, la firma e il nome della persona che lo riceve in dono: li costruisce solo per il piacere di donarli, mica per il mercato. Nonostante da quelle parti non ci siano canne, ne ha già costruito varie centinaia. Dice che firma, come Boccioni, Picasso, Van Gogh, o Armani, Versace, Saint Laurent, anche per le molte migliaia di cestai anonimi che nei secoli hanno tramandato l‟arte. Devi vedere come trasforma una canna e un mucchietto di rami informi in un oggetto grazioso. Scortica i salici e spacca le canne con destrezza. Prepara il fondo e vi sistema radialmente i montanti, dando vita a una specie di ragno. Poi piega i montanti e intreccia l‟orlo di base. Quindi tesse la parte in elevazione con le canne. Infine, aiutato dalla moglie, costruisce l‟orlo di testa; e non c‟è più nulla da togliere o aggiungere. È uno spettacolo, ma lui non ama essere visto. Spesso si reca in posti inaccessibili, con la moglie, e ne ritorna con un oggetto bellissimo. Gli chiedi se è difficile, risponde che è tutto questione di arte. Una volta scendevo a Gerace dai piani della Melia, volando come un uccello sui due cerchi di botte. I boschi e il panorama sulla Costa dei gelsomini erano belli. Dicono che da queste parti si svolse una battaglia tra i ribelli di Spartaco e i Romani. Penso ai Greci e ai Romani e ad Annibale. Penso ai guerrieri germanici e ai Normanni. Penso che gli inglesi hanno una parola come “trap”, da cui “trapper”, e noi in Calabria abbiamo “trappula” e “trappa”, intrico di rovi e cespugli, come una trappola. L‟inglese ha “spit” e il calabrese ha


“spitu”, spiedo. Sono parole che hanno una radice comune, germanica, come tante altre parole portate in Italia, per esempio, dai Longobardi. Più a valle, da queste parti, dicono resort, business planning, tour operator, location, Facebook e social network, advertisement e marketing territoriale, ma con l‟accento locale. Dicono che bisogna vendere pacchetti turistici a canadesi, giapponesi e russi, per mangiare: bisogna vendere il territorio alla borsa del turismo, dicono. Ne ho parlato con una donna. Mi ha detto: «A un tiro di schioppo da qui, all‟ombra dell‟Aspromonte, si parla ancora greco. Qui invece siamo tutti malati di anglofilia. Scherziamo con la lingua di Shakespeare, e sporchiamo la lingua di Dante. Un giorno ci hanno detto che la nostra lingua non era buona, e abbiamo imparato quella dei piemontesi. Non abbiamo fatto in tempo a imparare quella lingua straniera, insegnata male da maestri che qualche volta avevano frainteso, e ci dicono che l‟italiano non va più, nemmeno dalle parti di Brussel, e dobbiamo imparare la lingua bastarda della guerra, del commercio e della tecno-scienza. Dovremmo leggere il saggio del liceale Corrado Alvaro sul popolo di Polsi, per capire che l‟uomo è fatto per camminare, mica per stare seduto dietro una scrivania di un tour operator, parlando al telefono in inglese mezzo sgrammaticato. La scrivania serve a intimidire coloro ai quali si dà udienza. La colonizzazione non finisce mai». L‟inglese è una lingua ibrida e ricchissima, nient‟affatto facile da imparare, perciò saremo sempre gente delle colonie. Un giorno, scendendo dalle parti di Campana, ho incontrato un tale che, aiutato da due donne, armeggiava con ginestra, pertiche e travicelli. Mi sono fermato subito. «Che cosa fate?». «Costruisco un pagliaro». «Al tempo dell‟acciaio, delle leghe leggere, del grafene, del cemento armato, e dei grattacieli?». «Il pagliaro è l‟immagine dell‟umiltà». «È facile?». «È sempre questione di arte, ma il materiale non costa niente, e quando il pagliaro si brucia o si demolisce viene riassorbito perfettamente dalla natura». «Com‟è quest‟arte?». «Procuri tanta tanta ginestra, tante pertiche lunghe e flessibili, parecchi tronchi di giovani alberi. Prepari lo spiazzo. Leghi insieme i tronchi dalla parte sottile in modo da formare lo scheletro di un cono. Poi fissi le trenche, cioè le pertiche, intorno alla struttura conica, assicurandole con torchie ai singoli tronchi. Poi sistemi la ginestra sulle trenche, con le cime verso il basso in modo da far spiovere l‟acqua. Sopra la ginestra, in corrispondenza delle trenche che sono a contatto con i tronchi, poni un altro filare di trenche. Infine stringi ben bene, per mezzo di altre torchie, queste trenche, la ginestra e le trenche di sotto». «A che scopo tanta fatica?». «Per costruire una cappella». Così disse.


Da queste parti c‟è ancora gente che passa l‟estate sulle montagne e l‟inverno a valle con l‟armento. Se vai dalle parti della Valle dell‟inferno, tocchi con mano la realtà. La gente della transumanza e delle fiere un tempo percorreva a piedi centinaia di chilometri. Quando ero ragazzo, un mio vicino di casa, che era allevatore di vacche, ha commesso con suo figlio l‟imprudenza di attardarsi con l‟armento sulle montagne e, sorpreso dalla neve, ha rischiato di lasciarci la pelle. Me lo ricordo rannicchiato vicino al focolare a smaltire infreddatura e terrore. La gente gli faceva visita come si faceva con quelli che ritornavano dall‟ospedale dopo una malattia grave. Ricordo il racconto del viaggio rocambolesco di mucche e uomini e dei tentativi sfortunati di accendere il fuoco. La vita era l‟avventura. Da queste parti un tempo tutti camminavano. Ricordo il viaggio che ho fatto con mio padre da Caloveto, a Cropalati, al Destro, a Ortiano. Ci alzammo una mattina e trovammo neve abbondante. Partimmo e facemmo a piedi gran parte della strada. Non avevamo fretta, era la forza del nostro andare. Mio padre raccontava che quando avevo quattro anni, a Macchia di Pietro, sul Neto, un giorno trovandomi nei campi con lui che lavorava, improvvisamente dissi: «Io vado a casa», e me ne andai. La casa si trovava forse a un chilometro: non era nostra, ma c‟era la mamma. Come disse quel tale: ci hanno confinato in palazzi che sono alveari e ci fanno credere che siamo tutti handicappati. Quando il mio compagno di avventure ciclistiche mi invitò a partecipare al giro di Rossano sui due cerchi di botte, cioè la bicicletta un poco arrugginita, arrivai ultimo. I crampi alle gambe non mi permettevano di stare in piedi. Io arrivai ultimo, lui si fermò molto prima. Alla gara successiva, dopo un allenamento più adeguato, mi disse: «Tu vai come un treno. Io rinuncio e tu gareggi con la mia bicicletta». Non dissi nulla. Ci pensai e accettai. A Cassano bisognava fare diversi giri su un circuito. Io partii ma dopo poco forai. Sostituii, svelto svelto, il tubolare, ma nella fretta non mi resi conto che non era incollato bene al cerchio: il mezzo non era mio e non sapevo da quanto tempo non si montava. Saltai in sella e pedalai con furia, per recuperare il tempo perso. Mi sentivo bene e volavo come un uccello. In una curva trovai un tratto di strada pieno di buche: il tubolare schizzò via dal cerchio; il cerchio nelle buche si accartocciò; stramazzai sull‟asfalto. Per fortuna passò un cristiano che portava il figlio a vedere la gara, mi raccolse e mi accompagnò in paese. Il mio compagno raccontò: «Quando, alla fine del primo giro, non ti abbiamo visto passare, abbiamo pensato: “Forse andava troppo velocemente, e non l‟abbiamo visto”». Sembra incredibile, ma ho imparato ad andare in bicicletta proprio


con l‟aggeggio enorme appeso al muro di zio Serafino. Quando avevo circa dieci anni, un giorno ho ottenuto il permesso di provare l‟oggetto del desiderio. Ero troppo piccolo però per una bicicletta ventotto, pesante e con i freni a bacchetta. Dedicai una giornata intera andando avanti e indietro su uno stretto spiazzo, un poco in pendenza, antistante la casa dello zio e di zia Adelina. In discesa infilavo una gamba tra i tubi, ponendo il piede sul pedale; l‟altro piede era sicuro a terra: lasciavo andare la bicicletta e saltellavo come un canguro col piede che era a terra. In salita, spingevo il mezzo. La sera me ne andai a casa stanco ma felice, anche se non sapevo se avevo acquisito qualche nozione sull‟arte di volare come un uccello su due cerchi di botte. Nei giorni seguenti mi capitò di provare la bicicletta di un vicino, adeguata alla mia statura. Portai la bicicletta nella parte alta della strada e montai in sella, con mia grande sorpresa constatai che, grazie alla giornata di fatica con il cavallo meccanico di zio Serafino, ero in grado di stare in equilibrio. Da quel momento ho messo in croce mia madre fino a quando, un giorno che faceva molto caldo, a Cropalati mi ha comprato la bicicletta. Ricordo che anticipammo il pranzo e andammo per greti pietrosi, sotto il sole cocente, a piedi, da Ortiano a Puntadura. Da lì, con la corriera, andammo a Cropalati. Sentivo che era un viaggio particolare: di solito la corriera si prendeva di mattina presto, d‟inverno, per andare a raccogliere le olive a Caloveto, mica di pomeriggio nel mese di luglio. Comprammo la bicicletta, ma era troppo presto per ritornare con la corriera: doveva arrivare a Rossano e ritornare. Decidemmo di avviarci a piedi. Era una strada ben fatta, che invitava a volare come un uccello, ma io camminavo accanto a mia madre, e spingevo la bicicletta. Ogni tanto mi prendeva in giro. «Mettiti sopra e vai». Rispondevo: «Non posso lasciarti indietro», ma non sapevo tenere l‟equilibrio e pedalare.


Il lungo cammino fra le genti e i luoghi d’Italia Sul Viaggio nelle Regioni d’Italia di Tommaso Cariati, Rubbettino 2013, pp. 230, 16€ di Giuliano Albrizio Cosa rimane negli occhi del lettore quando volta l‟ultima pagina di un libro? A questa domanda provo a rispondere dopo aver letto Viaggio nelle regioni d’Italia, ultima fatica letteraria di Tommaso Cariati. Innanzitutto il lettore è pago e grato per aver visitato l‟Italia in poco più di duecento pagine. Per essere riuscito, nello scorrer veloce delle pagine, a visitare così tanti luoghi pur restando fermo. Lungo il tragitto nulla viene trascurato. Ogni luogo viene sezionato, studiato, approfondito. Apparentemente sembra solo un viaggio corporeo ma realmente è anche l‟anima dello scrittore che va errando da una regione all‟altra d‟Italia. Un‟anima vogliosa di scoprire, di conoscere, d‟apprendere. Gli occhi di Tommaso Cariati guardano il mondo cambiando continuamente prospettiva. Dal dettaglio, dal particolare, dal frammento all‟infinito le sue parole descrivono luoghi e paesaggi che lo hanno colpito, che gli hanno lasciato dentro una traccia indelebile. È grazie a questo che il libro si riempie di mille sfaccettature. L‟autore spesso invoca l‟intervento di altre persone per descrivere ciò che vede. E in ogni capitolo, fa un passo indietro. Lascia che siano altri a parlare per lui, con lui. Così, di volta in volta, poeti, letterati, intellettuali o scrittori “intervengono”, grazie alle citazioni scelte dall‟autore è come se prendessero parte al racconto. E questo rende il viaggio – se possibile – ancor più completo ed emozionante. L‟opera – è bene sottolinearlo – non è una raffinata guida per turisti curiosi, è molto di più: è un navigatore extrasensoriale su carta in quanto – attraverso le parole dello scrittore – riusciamo a far viaggiare la nostra immaginazione. Si cammina al suo fianco, lungo una serie interminabile di percorsi, nei quali tutti i sensi vengono appagati. Vediamo realmente ciò che ha visto Tommaso, ci sembra di ascoltare le voci di quanti lo hanno accompagnato nei vari luoghi, annusiamo l‟aria dei monti e del mare, calpestiamo la strada fatta insieme. Il viaggio è un lungo itinerario fra le genti, alla ricerca di antiche tradizioni, alla riscoperta di vecchi linguaggi, di parole dimenticate. A volte il passo è deciso, altre è titubante. Come se si volesse opportunamente dilatare il tempo della scoperta. Entriamo in luoghi nei quali bisognerebbe trattenersi più a lungo, in cui il viandante


dovrebbe tornare per focalizzare al massimo l‟attenzione sugli infiniti dettagli persi. Penso ai due capitoli interamente dedicati alle metropoli italiane – Roma e Milano – e immagino quanto sia stato problematico condensare in pochissimo spazio tutte le impressioni e suggestioni offerte dalle capitali che con modalità diverse governano il Belpaese. Viaggio nelle regioni d’Italia è anche un libro di storia e geografia, è un viaggio nella natura e nel tempo. L‟uomo cammina per valli, si inoltra su sentieri, percorre deciso viottoli e ci regala frammenti del passato, ricorda avvenimenti antichi. L‟autore compone e scompone un puzzle, mettendo insieme i vari pezzi, collegando usanze, affinità territoriali, idiomatiche e culturali, svelando origini comuni e simili concezioni di vita. Da una regione si passa all‟altra quasi con leggerezza, eliminando confini, cogliendo sottili analogie. Si parte dalle mille contraddizioni e miserie del Sud per arrivare alla prosperità di un Nord laborioso e tenace, passando dalle regioni centrali ricche di storia e cultura. Ed è come se ogni volta si sconfinasse in un altro Stato, in una terra diversa. Invece si resta in Italia, una nazione di cui è sempre lecito parlar male e in cui tutto vive insieme: gioie e dolori, ricchezze e povertà, eccellenze e mediocrità, eroismi e viltà, capolavori dell‟arte e discariche abusive, alta cultura e bassa ignoranza, uomini onesti e gente malavitosa. Questa è la terra nella quale, come dice giustamente Tommaso Cariati, gli opposti sono continuamente costretti ad armonizzarsi. È innegabile che in tanti passaggi emerga l‟amarezza di chi, raccontandola, vede una nazione incapace d‟essere coesa, razionale, decisa, orgogliosa. Un Paese che non sa camminare spedito, che è sempre pronto ad inciampare nei propri atavici limiti, nel suo “saper fare senza voler fare”. Nonostante tutto questo, per rispondere alla domanda da cui siamo partiti, negli occhi del lettore – alla fine del viaggio proposto dal libro – restano tante impressioni, tantissime emozioni. Si riflette a lungo su ciò che si è letto e si avverte inconsciamente il desiderio di partire, di riprendere subito il percorso intrapreso dall‟autore. Alla ricerca di noi stessi, delle nostre origini, delle nostre radici più profonde.


Viaggi in Italia Diario di un viaggiatore speciale attraverso le regioni italiane1 di Alfio A. Moccia

In questo nostro tempo di grande mobilità sociale, viaggiare è, per molti, attività necessaria per lavorare, per alcuni è mezzo per conoscere il mondo e i suoi problemi, per altri è ricerca di evasione e divertimento per sfuggire alla noia e alla monotonia del vivere quotidiano; per altri ancora, e ritengo siano una minoranza, è ricerca della conoscenza, della bellezza e forse anche della saggezza. A quest‟ultimo gruppo appartiene senza dubbio Tommaso Cariati, il fondatore e animatore principale, insieme alla sua inseparabile Chiara, della nostra famiglia di Sos scuola, che da dieci anni è presente nell‟Istituto scolastico “V. Cosentino” di Rende e ha contribuito ad animare con pazienza, spirito di dedizione e generosità, molte iniziative di grande spessore educativo e culturale. Cariati è persona sicuramente originale e già nota in vari ambienti e contesti, non solo per le sue capacità creative e le animazioni culturali che persegue sempre con tenacia e coerenza, ma anche per una serie di pubblicazioni che esprimono la sua versatilità e i suoi interessi su problematiche diverse sulle quali imposta la sua ricerca e con le quali invita al confronto critico. Da questa impostazione scaturisce sempre un discorso ampio e articolato che coinvolge chiunque desidera misurarsi con le tematiche trattate. Non è mia intenzione in questa sede elencare tutte le pubblicazioni del nostro autore, alle quali si può accedere per altre vie d‟informazione. Ora mi preme piuttosto evidenziare di Tommaso Cariati il suo grande slancio ideale, la sua ampia, anche se a volte un po‟ eclettica formazione culturale e professionale, la sua onestà intellettuale e la non comune sensibilità etica ed estetica, capace ancora di meravigliarsi davanti ai fenomeni naturali più semplici, che ormai sfuggono alle masse sempre più numerose di gente frettolosa, distratta ed eterodiretta da interessi contingenti e spesso volgari. Ho ritenuto utile sviluppare questo preambolo sull‟autore di Viaggio nelle Regioni d’Italia della casa editrice Rubbettino, ultima 1

Questo testo sarà pubblicato, integralmente o per sintesi, sul periodico di Cronaca e cultura arbereshe Katundi Yne-Paese nostro fondato e diretto da Demetrio Emmanuele nella comunità italo-albanese di Civita (Cosenza).


fatica di Tommaso Cariati, di cui proverò a tracciare qualche breve rilievo critico. Intanto intendo affermare subito che con questa nuova prova letteraria l‟autore si avvia verso una fase più pensosa e matura della sua esperienza esistenziale e culturale, confermando il suo slancio ideale e la sua onestà intellettuale, che in questi viaggi attraverso le regioni italiane lo hanno sempre accompagnato e confortato nelle emozioni, nelle rievocazioni storico-culturali e nei giudizi. Questi suoi compagni di viaggio non lo hanno mai lasciato solo, dagli ovili e dai tratturi della Sila cosentina dove è nato circa mezzo secolo fa, alle aule scolastiche, alle esperienze universitarie. Ma ora cerchiamo di parlare del suo libro in modo che chi legge queste brevi note abbia forse qualche motivo in più per incuriosirsi e avvicinarsi alla lettura. La lettura del Viaggio di Cariati è facile e quasi mai monotona nel suo contenuto e nella sua forma che ha una prosa molto curata e adeguata al discorso. Nel contenuto prevalgono descrizioni di luoghi, paesaggi, contesti socio-economici forse non del tutto sconosciuti a chi legge; ma qui sono filtrati dalle considerazioni e dalle tecniche linguistico-espressive con le quali l‟autore sa destreggiarsi con abilità e competenza. Per i contenuti, lo stile espositivo e i riferimenti storicogeografici e storico-culturali questo libro non si può ingabbiare o imbalsamare in alcun genere letterario. E nemmeno il titolo Viaggio nelle Regioni d’Italia deve ingannare il lettore perché questa pubblicazione non ha l‟impostazione di un comune libro di viaggi o di avventure, non è una guida turistica, né un compendio di storia o geografia per lettori pigri e superficiali. Il giudizio sull‟eventuale genere letterario e su altri aspetti del testo è affidato solo al lettore curioso e non distratto che avrà il piacere di comprarlo e di leggerlo senza fretta e senza pregiudizi o barriere ideologiche. E tuttavia, proprio a beneficio del lettore, mi sembra utile ancora sottolineare da queste righe alcune sintetiche considerazioni con qualche riferimento più specifico sia al contenuto delle sue 230 pagine, tutto compreso, sia alle tecniche stilistiche dell‟autore. Questo testo potrebbe essere definito una specie di diario intimo di un viaggiatore speciale che, in tempi e stagioni diverse, nell‟arco temporale di circa quattro anni, percorre lo Stivale italiano, lasciando fuori, per motivi contingenti e logistici solo la Valle d‟Aosta e la Sardegna. Le tappe, i percorsi, le soste, le accelerazioni e i rallentamenti delle tabelle di marcia non sono quasi mai casuali ma sono scelti e programmati, a volte anche nei dettagli, dall‟autore, e dalla sua inseparabile Chiara, infaticabile collaboratrice nella buona e


nella cattiva sorte. I viaggi infatti si snodano lungo assi spaziotemporali con numerose soluzioni di continuità. Lo stesso autore in una scarna paginetta introduttiva, ci fornisce alcune informazioni relative al tempo dei viaggi, effettuati tra il 2007 e il 2011; anche se il lettore ha l‟impressione di seguire l‟autoreviaggiatore dal Sud (Sicilia) al Nord-Nord-Est (Friuli-Trentino-Alto Adige) in un ideale percorso senza interruzioni, i percorsi reali e gli appunti di viaggio non hanno rispettato rigorose modalità sequenziali di contiguità territoriale; essi sono stati piuttosto determinati di volta in volta da motivi logistici contingenti. In una breve nota introduttiva l‟autore definisce il suo testo come il risultato di ventidue racconti di viaggio visti con un occhio simile a quello di G. Piovene del suo Viaggio in Italia e con l‟altro a quello di C. Alvaro del suo Itinerario italiano. Inoltre i ventidue capitoletti hanno titoli che, almeno nelle intenzioni dell‟autore, dovrebbero sintetizzare a modo di logo o ideogramma le caratteristiche dei luoghi visitati, che ai suoi occhi sono apparse più significative; ma l‟autore gradirebbe anche che le sue descrizioni dei luoghi e le sue emozioni e considerazioni restassero impresse nella memoria del lettore. In questo modo la Sicilia è sintetizzata come “l‟universo dei paradossi”, la Calabria citeriore è “terra dai mille volti”, la Puglia è “l‟Oriente d‟Italia”, e poi ancora, risalendo per lo Stivale, troviamo una “Campania felix” e una “Campania infelix”, l‟Umbria è “cuore vivo d‟Italia”, la Toscana è “deposito attivo d‟arte e di memorie”, il Piemonte è “il mondo come tenacia e volontà”, la Lombardia è “motore italiano d‟Europa”. Il volumetto si completa con due paginette con notizie bio-bibliografiche sull‟autore e con ben sette doppie pagine con l‟indice alfabetico dei luoghi e dei nomi citati nel libro. Avvertiamo ancora i nostri lettori che, malgrado il titolo e le quattro fotografie policrome di copertina, questo non è un libro “da vedere” o sfogliare come le centinaia di riviste periodiche patinate che fanno l‟occhiolino dalle edicole! Questo è un vero e proprio libro da leggere perché dentro le duecentotrenta pagine totali del testo non appaiono altre fotografie. E ci pare che questa impostazione grafica del libro non è casuale ma è una scelta ben precisa di quanti hanno curato il volume, forse anche per privilegiare il testo, che viene in questo modo esaltato e forse anche più apprezzato soprattutto nei passaggi descrittivi. Pare non interessi più di tanto al curatore della grafica che il lettore disponga di una serie di immagini policrome forse esteticamente più accattivanti ma imbalsamate, definite e limitate dalla fredda rigidità di un fotogramma. Interessa all‟autore che il lettore sia piuttosto stimolato nella sua immaginazione dalla forza evocativa del linguaggio


e partecipi in qualche modo alle emozioni, alle situazioni e rievocazioni e ricostruzioni storiche, alle immaginazioni di luoghi e di tempi più lontani o più recenti evocati anche dalle polisemie del linguaggio. In questo modo il lettore diventa un virtuale compagno di viaggio con cui scambiare impressioni, valutazioni, giudizi ed emozioni e prende piede quella pedagogia della condivisione che è stata palestra formativa per l‟autore e resta sicuro riferimento etico ed educativo per la vita quotidiana, che non sia tutta immersa nella materialità dell‟esistenza ma tenda a finalità più trascendenti. Anche la prosa si mostra a tratti colloquiale, discorsiva, come se l‟autore parlasse con il lettore-compagno di viaggio al quale confida spesso i suoi sentimenti con espressioni come: devi sapere che...non ti sembra che...e ancora senti questa...pensa che... tu credi che...! In queste brevi note e sommarie valutazioni ho tentato di contribuire a far conoscere, a chi ha l‟interesse e il piacere di leggerlo, questo nuovo lavoro del nostro instancabile e tenace autore un po‟ montanaro, un po‟ marinaro e un po‟ urbanizzato, dotato però di una sicura e ben forgiata formazione culturale e professionale che preferisce chiamare la natura “creato”, che sa cogliere nella complessità delle cose materiali la bellezza degli aspetti più semplici, che ama ripetere lo slogan “small is beautiful”-piccolo è bello- e che, a chi vuole visitare l‟Italia in modo originale e scoprire ciò che la massa dei turisti non vede, dà questo semplice consiglio: “per apprezzare l'Italia bisogna andare per vie secondarie”! Tommaso Cariati è un uomo veramente originale; nel suo cammino esistenziale preferisce percorsi inconsueti e non molto affollati, insomma non facile da piegare alle mode e ai comportamenti degli “animali” di corte o di cortile. Su queste basi si appoggia la sua sensibilità di osservatore critico del mondo che sta intorno a noi, convinto com‟è che etica ed estetica devono convivere pacificamente per produrre nel mondo arte, saggezza, virtù e conoscenza. Se così è, e se ho bene interpretato correttamente la poetica di Cariati, che traspare anche dal suo diario di viaggi in Italia, in futuro questo autore sicuramente dispiegherà ancora tutta la sua energia creativa, e non solo in campo letterario e pedagogico ma anche di altra natura, dove ancora etica ed estetica, scienza, poesia e fede si ritroveranno in naturale simbiosi e con sicuri benefici per la fatica dell‟esistenza.


Il sapere non è la saggezza, la saggezza non è la sapienza Sul Viaggio nelle Regioni d’Italia di Tommaso Cariati, Rubbettino 20132

di Pino Caminiti Nel De finibus Cicerone ci dona un‟interessante distinzione fra curiositas e sapienza, anzi “amore di sapienza”, che non consiste nel desiderio di sapere tutto (“omnia scire”), ma nell‟anelito alla “contemplazione delle massime cose”. Più tardi, Seneca delinea con precisione ancora maggiore la figura del sapiens con riferimento, appunto, alle “massime cose”, ossia alla divinità, al tempo ed alla morte, e addita la via della profondità interiore come l‟unica che il sapiens debba seguire. Io credo che queste citazioni (fra le tante al riguardo possibili) non siano peregrine, perché proprio l‟amore di sapienza è alla radice del “Viaggio” di Tommaso Cariati, un viaggio attraverso le regioni italiane che significa, per l‟autore, il proposito di conoscenza fuori di sé, ma finalizzata all‟appagamento intellettuale e, sopra ogni cosa, all‟arricchimento interiore. Ogni viaggio è un percorso dentro noi stessi, una sorta di Anabasi che noi compiamo nel momento in cui i dati esterni si riverberano sulla nostra coscienza e rafforzano l‟essenza della nostra interiorità o ce ne svelano aspetti a noi stessi ignoti. E questo vale ancor più per il “Viaggio” di Cariati, che è mirato alla “contemplazione delle massime cose”, come è facile evincere già dalla totale assenza, nel libro, di curiosità superficiale, fine a sé stessa. Ma l‟erranza di Tommaso per i luoghi della nostra Penisola ha qualcosa di più e di oltre, rispetto alle fatiche letterarie del suo genere. Ce lo dice l‟autore stesso, in una notazione davvero ardita e non a caso reiterata: “Il sapere non è la saggezza, la saggezza non è la sapienza”. Confesso la mia sorpresa: ho la sensazione che il distinguo sia troppo sottile, non sorretto da ragioni etimologiche o semantiche, ovvero dall‟uso letterario dei due termini. Poi, alla fine della lettura, e scorrendo a ritroso le pagine del libro, comprendo che l‟ideale di “saggezza” di cui si parla è il più elementare, in quanto il più umile, che si possa 2

Questo testo è stato proposto in occasione della presentazione del libro presso la libreria Ubik di Cosenza il 25 gennaio 2014.


concepire. Esso coincide con la verità del Vangelo, che esime l‟autore dal professare ideologie di sorta e gli consente di osservare e meditare nella condizione della libertà vera, che si carica di tensione civile ed etica, non di facili moralismi o di integrismi religiosi. La libertà distintiva dell‟unica Chiesa credibile, quella che “soffre, combatte e prega”. E infatti il libro è gremito di riferimenti al Vangelo, che tutto riesce a spiegare, che ogni evento semplifica o rende comprensibile. E l‟autore, a seconda dei casi, compatisce (cioè soffre insieme agli altri), combatte per la verità, assume le tappe del suo viaggio e le pagine del libro come una preghiera che si leva a Dio dalle fragilità e dalle grandezze degli esseri umani. Con questa prospettiva, Tommaso Cariati ci propone il macrocosmo del nostro Paese, che si spalanca nella sua trama intessuta di storia, di cultura, di tradizioni e di modernità: come un grande affresco, in cui ogni regione contribuisce col suo colore, acceso o tenue, secondo i casi, ad un insieme che risulta d‟incancellabile bellezza. È il Belpaese, insomma, da amare ed ammirare nello splendore dei paesaggi e delle città, da comprendere nelle contraddizioni e anche negli stridori della vita quotidiana. Tommaso dà l‟impressione di appartenere alla schiera degli italiani che sono fieri della propria storia, della loro koinè di lingua e di cultura. Ma intendiamoci: nel Viaggio non esistono tracce di idealizzazione o di rimpianto. Cariati ha una struttura mentale pragmatica, che gli impedisce di essere laudator temporis acti. Anche quando le sue riflessioni si fanno impietose o esprimono una forte delusione storica, egli non si chiude nell‟indignazione sterile che sembra ormai permeare tanti strati della nostra società. E se in certi casi non trova risposte, rinuncia all‟utopia, non al sogno, non alla speranza. Glielo suggeriscono la fede e come ho detto, la sua stessa struttura mentale. Il “Viaggio” comincia dalla Sicilia per un motivo geografico: si sviluppa infatti da Sud fino all‟estremo Nord. E all‟autore del libro, che è anche il viaggiatore-pellegrino, si presenta subito una terra complessa, contraddittoria, indefinibile. Certo la più sfuggente fra le regioni italiane, e quindi la più esemplare e significativa di quell‟ossimoro culturale ed antropologico che è l‟Italia. Terra di meravigliosa bellezza, la Sicilia, variegata nei paesaggi: con una natura brulla ed arsa in certe zone, lussureggiante in altre, quasi una metafora del perenne fluttuare fra vita e morte che da sempre attraversa la sicilianità, anzi la sicilitudine. Terra ricca di storia, crogiolo di razze e di popoli diversissimi fra loro, che hanno determinato un DNA singolare e misterioso, con una vocazione alla filosofia, all‟arte, alla


cultura assolutamente senza eguali, non soltanto in Italia. Si pensi solo al fatto che oltre la metà degli scrittori italiani contemporanei sono siciliani, e si avrà un‟idea dell‟incidenza di questa terra anche sull‟attuale panorama della nostra letteratura. Ma la sicilianità non ha solo il culto della Bellezza, ancorché intrisa di nostalgia e di inquietudine. Per contrasto, aspro e violento, ha al suo interno una storia mai interrotta di ingiustizie, di sopraffazioni, di tragedie individuali e sociali che chiamano in causa il Potere. E proprio il Potere è il Brutto, per Tommaso, l‟oltraggio perpetrato ai danni della Bellezza; il Brutto nelle sue forme varie e miserande. L‟autore lo rappresenta con tocchi rapidi, affidandosi alla forza disarmante della parola non urlata e ad una scrittura quasi sempre paratattica, la cui chiarezza obbedisce senza tentennamenti alla lucidità delle idee. Per altro la rapidità delle notazioni non è solo il segno di un‟evidente propensione alla sintesi: Tommaso non indugia più di tanto sui fatti narrati, su cose e nomi, perché avverte l‟insidia di muoversi sul terreno dell‟ovvio, di incorrere in quegli stereotipi su cui tanti saggisti amano invece esercitarsi. E la sua intenzione di sottrarsi all‟ovvietà si atteggia in taluni giudizi, netti ed inequivoci che potremmo definire “controcorrente”, se il termine non fosse abusato. Di Dacia Maraini, ad esempio, dice che ha una “scrittura perfetta, ottima per educande”. E più in là quando accenna agli esponenti della cosiddetta “scuola romana” e cita alcuni versi di Magrelli, incomprensibili e involontariamente comici, l‟autore ci dice che “questi benedetti poeti non ci sono di grande aiuto: ne sono tanto bisognosi loro”. Bene, abbiamo parlato dell‟esemplarità della Sicilia. L‟isola sembra infatti concentrare su di sé i chiaroscuri che ogni regione italiana presenta, in varia misura e con peculiarità differenti. Ed ecco, a proposito dei chiaroscuri, alcuni titoli introduttivi: “Calabria citeriore, terra dai mille volti”; “Campania felix, Campania infelix”; “Emilia Romagna, dove si armonizzano gli opposti”. Tommaso le percorre tutte, le nostre regioni, si potrebbe dire palmo a palmo, rammentandone le storie e i tratti salienti con l‟approccio che abbiamo definito. Un approccio che fa tuttavia registrare una deroga, precisamente quando lo scrittore-pellegrino compie il viaggio in Umbria. Già il titolo del capitolo dedicato alla regione (“Umbria, cuore vivo d‟Italia”) lascia intuire la redundantia cordis dell‟autore, ce ne offre un ritratto quasi a tutto tondo, giustificando il titolo stesso con una serie di ragioni significative e talora persuasive. La più pregnante riguarda la “fede genuina e spesso eroica della sua gente”, la religiosità venata di misticismo e vissuta da personaggi che devono considerarsi fra i più grandi della storia. L‟empatia dell‟autore diviene a tratti


medesimezza con questo lembo d‟Italia, specie là dove egli ci dice che il passato (quello di Francesco, di Chiara, di Benedetto) si proietta ancora nel presente, consegnando intatti i luoghi in cui “uomini e donne del nostro tempo, affaticati e oppressi, scelgono, secondo l‟invito del Vangelo, di ritirarsi ogni tanto per «sedersi in disparte e riposarsi un po‟»”. Ed è proprio tale empatia a proporci la spiritualità dell‟Umbria come una sorta di “dover essere” per tutti noi, e la regione come un‟isola felice dove, per servirci ancora del Nuovo Testamento, la plenitudo temporis è prefigurata e quasi a portata di mano. Ha scritto Seganen nel suo “Saggio sull‟esotismo”: “Si è fatto, come sempre, un viaggio lontano / da ciò che altro non era che un viaggio al fondo / nuovo di se stessi”. Ecco, Tommaso non si reca certo in terre remote o favolose, ma nel suo “Viaggio” attua a volte una singolare forma di esotismo, nel senso che molte cose, visitate e descritte, sono “altro” rispetto al suo vissuto. Ma il senso dell‟alterità, vorrei dire l‟amore per l‟alterità, fa parte del mondo interiore di Tommaso ed attiva, come nel caso dell‟Umbria, il senso dell‟appartenenza. Tommaso Cariati è comunque calabrese, pienamente calabrese. Alla Calabria lo legano l‟appartenenza territoriale e antropologica ed un amore senza condizioni. In Calabria egli è cresciuto, si è strutturato, ha operato, nel lavoro e in molteplici attività culturali. E tuttavia questo suo amore non fa velo allo scrittore del Viaggio. Il racconto della regione non si impone sugli atri per ampiezza, per dovizia di particolari, per pathos narrativo. Lo sguardo di chi osserva, medita e scrive è, come sempre, sospeso fra distacco e partecipazione. Le notizie fornite sono, come al solito, perfettamente documentate, le conoscenze variano dalla storia alla geografia alla lingua alla fonetica, con una sicurezza che proviene da studi rigorosi ed appassionati. Sopra ogni cosa, mancano segni di lamentosità meridionalistica, e il meridionalismo che vi compare è sempre vigile, teso ad un impegno concreto. E così non compaiono vacue rivendicazioni dell‟orgoglio delle proprie radici o accuse, rivolte ai politici, di aver dimenticato la Calabria. In questa regione che, come è stato detto, “è più isolata della Sicilia, che però è un‟isola”, si sono consumati sprechi d‟ogni genere, iniquità inaccettabili, e pochi hanno avuto il coraggio di non attribuire solo all‟“altro” le responsabilità del degrado. In questo senso (ma non soltanto in questo senso) si deve dire che Tommaso Cariati è un calabrese d‟eccezione. Non è un ingegnere che si diletta di letteratura o – cosa di per sé lusinghiera – “un poeta prestato all‟ingegneria”. Più propriamente, ai nostri occhi egli è riuscito a incarnare il sogno di un filosofo calabrese, studioso di J. Dewey, che tanti anni fa intitolò “Per


un umanesimo scientifico” un suo libro. Con Tommaso, in Tommaso, la scienza si salda con il patrimonio delle humanae literae e testimonia un profilo culturale non nuovo, ma oggi indispensabile: quello dell‟“uomo integrale”. Tommaso lo fa con i suoi scritti e con l‟interezza della sua persona, che conosce la fecondità della solitudine e sa metterla al servizio degli altri. Con passione, ma soprattutto con umiltà, che è dote rara nella società attuale e praticamente sconosciuta negli ambienti in cui egli opera.



Finito di stampare: ottobre 2014 Impaginazione a cura di Chiara Marra

Per saperne di pi첫: www.sos-scuola.it


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