SOS scuola Bollettino n. 1
Anno Scolastico 2005/2006 ITC “Vincenzo Cosentino”
Indice
Insegnare ed educare nella società degli idoli Gli idoli di oggi: i giovani si raccontano Comunicare oggi: testi, ipertesti e immagini Giovani, istituzioni e politica per promuovere la cittadinanza attiva La speranza nella società attuale La famiglia, scuola e laboratorio di fede Relazione di sintesi del lavoro di ricerca svolto dal gruppo SOS scuola per l’associazione “Famiglia aperta”: La famiglia e i giovani nella società degli idoli Verifica attività Sos scuola 2005/2006
Rende, 12.IX.2005 Oggi nei locali dell’I.T.C. “V. Cosentino” viene costituito il movimento SOS scuola. Il movimento persegue tre finalità: promuovere relazioni autentiche; sviluppare e trasmettere saperi validi; suscitare responsabilità piena. Il movimento sceglie di formare un gruppo permanente di quindici o venti persone tra studenti, genitori, docenti e adulti sensibili ai temi dell’istruzione e dell’educazione. Il gruppo si riunisce ogni tre o quattro settimane per studiare un tema di interesse culturale e scolastico. La riunione normalmente inizia con una relazione, proposta da uno dei componenti o da un esperto, e termina con un dibattito pacato e sereno, in modo che ciascun partecipante sia protagonista. Periodicamente il gruppo organizza e vive esperienze conviviali, come gite in luoghi di interesse culturale, spirituale o naturalistico.
1. Tommaso Cariati
13. Giuliano Albrizio
2. Cosimo Mercuri
14. Giuseppina Barrese
3. Alfio Moccia
15. Rosina Filippelli
4. Lina Pecoraro
16. Maria Panza
5. Chiara Marra
17. Emilia Florio
6. Christian De Rose
18. Corradino Iannace
7. Carla Careri
19. Mario Vetrò
8. Irma Carnevale
20. Roberta Runca
9. Alina De Rose
21. Franca Nicoletti
10. Alessandra Speranza
22. Luigi Falco
11. Maria Luisa Savelli
23. Luisa Salituro
12. Costantina Ripoli
Insegnare ed educare nella società degli idoli (Appunti di Tommaso Cariati preparati per l’avvio dei lavori del gruppo SOS scuola, 25 ottobre 2005)
1. Premessa Abbiamo creato un gruppo di lavoro e di studio formato da docenti, genitori e studenti per interrogarci periodicamente su temi che riguardano le sfide del nostro tempo e la scuola. Abbiamo chiamato questo gruppo SOS scuola. Nell’alfabeto Morse SOS è tre punti, tre linee, tre punti, facile da ricordare, facile da produrre con mezzi semplici: questa è la ragione che ne ha fatto il sistema per lanciare richieste d’aiuto. Nel tempo, però, SOS ha assunto il significato di acronimo di Save Our Souls, salvate le nostre anime. SOS scuola, quindi, è un grido lanciato a coloro che hanno orecchi per intendere, perché si mobilitino per salvare le anime di quelli che sono coinvolti, a vario titolo, nel sistema della scuola. Salviamo le nostre anime, evitando la dispersione, lo spreco, la dissipazione del nostro tempo e dei nostri talenti. Salviamo le nostre anime cercando e seguendo la nostra vocazione. Il gruppo vuole promuovere relazioni autentiche e significative, lavorare per saperi validi, suscitare responsabilità piena. 2. Gli studenti oggi Alcune scuole della Calabria, compresa la nostra, hanno svolto una ricerca su interessi, aspettative, sogni dei loro studenti. I temi affrontati dai ricercatori sono molti e spaziano dalla famiglia alla droga, dallo studio al rapporto con gli insegnanti, dal lavoro alla politica, dal sesso ai “consumi culturali”. L’indagine svolta nella nostra scuola è stata condotta con il metodo IARD e realizzata in collaborazione con Walter Greco, ricercatore del Dipartimento di Sociologia dell’Università della Calabria. Da questa indagine risulta che gli studenti, provenienti da famiglie piuttosto giovani, raggiungono la scuola prevalentemente con
la macchina. Tutti hanno una camera propria o da condividere con un fratello; hanno cellulari, computer, play station. Nello studio preferiscono le immagini e i suoni al testo scritto e alle formule e, specie i maschi, usano poco strumenti come il diario, gli appunti personali o di compagni, il vocabolario, l’enciclopedia. Il rapporto tra docenti e discenti è problematico. La scuola appare lontana dai modi di essere, dai linguaggi e dagli stili degli studenti. Gli insegnanti, secondo gli studenti, hanno la tendenza a non considerare le loro esigenze e hanno difficoltà a utilizzare linguaggi e metodi diversi. D’altronde, nonostante non ci sia più l’esame di riparazione e ci siano invece nella scuola molte attività volte a sostenere e ad aiutare gli studenti, il 30% degli studenti ha già utilizzato forme esterne di aiuto, come le lezioni private. Il disagio scolastico si avverte maggiormente nelle classi prime e terze, nonostante i progetti accoglienza e orientamento. Alla domanda “potendo operare una scelta, che cosa aboliresti?” più del 16% ha risposto “dovere stare in silenzio durante le lezioni” (più le ragazze che i ragazzi), quasi il 30% “dovere stare immobili”(più le ragazze che i ragazzi), il 14,5% “non potere uscire liberamente” (più le ragazze che i ragazzi), più del 21% “dover entrare a un orario fisso” (più i ragazzi che le ragazze), il 18,2% “dover sottostare alle verifiche periodiche” (più i maschi che le femmine). L’autore del rapporto scrive: «Crediamo sia utile sottolineare che le risposte dei ragazzi e delle ragazze, piuttosto che esprimere un giudizio di assenso o di condanna, vadano lette come richieste esplicite ai loro insegnanti, nel tentativo di ridurre l’inevitabile distanza che il rapporto implica. Crediamo – continua l’autore del rapporto – vada letta in questo senso la percentuale piuttosto elevata di studenti che sottolineano come, al di là di tutto, esiste una sostanziale difficoltà, da parte dei docenti, di riuscire a sviluppare rapporti empatici all’interno della giornata scolastica». Gli studenti sembrano godere di grande autonomia rispetto alla famiglia. Alcuni svolgono piccoli compiti di collaborazione in casa, come spazzare o lavare i piatti, ma l’indipendenza cresce al crescere del grado di istruzione dei genitori. «Con tutta probabilità, – scrive l’autore del rapporto – per costoro, la dimensione principale è posta al di fuori della casa, o comunque essi vivono in una sorta di limbo generazionale che li preserva dalla materialità delle responsabilità quotidiane». I valori tradizionali sono più tenaci quando il padre è più anziano. L’edonismo è più presente nel biennio e cresce al diminuire dell’età del padre. Lo “sballo” tra i ragazzi è molto frequente. I maschi hanno fiducia nelle autorità visibili e prossime, come il sindaco o i
carabinieri, mentre le ragazze hanno fiducia nelle istituzioni sovranazionali e nei mass media; ciò segnala che le ragazze sono più aperte dei ragazzi. Il lavoro appare importante quando il genitore ha un basso grado di istruzione e sembra rappresentare il mondo della seriosità, dell’impegno, del “sacrificio”, della fatica. «Ora si studia e si gode, poi si vedrà», sembrano dire gli studenti. Gli atteggiamenti più ricorrenti sono stati definiti dai ricercatori machismo e happydaysismo: solo un ragazzo su tre affida la propria immagine a uno stile esclusivamente culturale, gli altri puntano sulla cura del corpo e sull’aspetto. «Le identità […] – scrive l’autore del rapporto – si giocano su un piano unificante dettato da una omologazione indirizzata verso l’adesione a modelli di massa. Il centro commerciale sostituisce i tradizionali punti di aggregazione all’aperto». 3. Gli studenti sul campo Un giorno una collega che insegna in una classe di giovani apparentemente normali, per nulla soddisfatta tanto del comportamento che essi hanno in aula quanto del grado di rendimento, mi chiese: «Che cosa fa sì che questi giovani siano sciatti, volgari, iperattivi, eccitabilissimi, vivaci oltre ogni immaginazione e contemporaneamente tanto lenti nell’apprendimento, inetti nell’applicarsi a qualsiasi cosa, incapaci di autodisciplinarsi, forse un po’ stupidi? Perché dicono spesso: “Non capisco”, “Non ho capito”, “Non l’ho saputo fare”, “Non ci riesco”, “Non ho mai capito questa materia”? Perché gridano, urlano, compiono azioni inconsulte, rompono suppellettili e arredi, buttano a terra carte, lattine, bottiglie, imbrattano i muri e smontano i bagni, rubano?». Non so. Forse c’entra il benessere senza limiti che induce genitori ed educatori a concedere tutto e a non chiedere niente. Forse c’entra quello che consumano: cibi pieni di conservanti ed eccitanti, audiovisivi di ogni genere, alcolici, droghe, sesso. Forse c’entra il fatto che questi giovani percepiscono che la società globalizzata e opulenta è anche la società dell’incertezza e del rischio. Non so. Forse c’entra che questi ragazzi sono portatori di qualche forma di handicap? Forse non lo sapremo mai. Intanto nella trincea della classe alcuni si chiedono continuamente: che cos’è la normalità? Come insegnare poche nozioni ben meno che normali? Come fare in modo che ognuno di questi giovani acquisisca le conoscenze e le competenze disciplinari a un
livello minimo accettabile? Come correggere un’educazione impostata male o mai impostata e lasciata all’imperio del pensiero unico e dello spirito del tempo? 4. Insegnare ed educare Recentemente sulla rivista dell’Equipes Notre Dame, movimento internazionale di spiritualità delle coppie, è apparso un articolo dal titolo: “Educare si deve, ma oggi si può?”. Domanda molto interessante; noi, però, volgeremmo in domanda anche la prima parte del titolo che gli autori pongono come affermazione. Quanti sono coloro che ritengono che il lavoro educativo svolto in famiglia, negli oratori, negli scout, a scuola è un vero lavoro, urgente, importante e insostituibile? Educare si deve? Nell’articolo menzionato si legge che educare è «anticipare il senso sorprendente e promettente della vita». E a chi interessa più questo “senso della vita”? Il senso della vita non è tutto nel produrre, nel consumare, nel progresso economico e tecnologico, nel divertimento? Chi crede ancora che la vita abbia un oltre, un’eccedenza, un ulteriore che è mistero? Infatti, più avanti gli autori scrivono che un’idea alta dell’educazione dei giovani «sembra non conoscere più [neppure] una grammatica e una sintassi utile ad esprimersi». L’articolo si conclude con un elenco di verbi validi ad inventare la nuova grammatica dell’educazione: ascoltare (non solo sentire; ascoltare il e in silenzio); accogliere (fare spazio dentro di sé all’altro); attendere (non avere fretta, avere premura e fiducia); accompagnare (stare accanto, stare vicino nel dividere e nello spezzare il pane – ad cum pane); ammonire (da admoneo: stare vicino ai pensieri, ai vissuti, alle attesa, alle speranza, alle paure); annunciare (far risuonare buone notizie); animare (offrire stimoli alle ragioni del vivere); aggregare (far camminare verso, incontro, insieme, con); ammirare (guardare con occhi trasparenti, stupiti); accorgersi (da ad cor: avvicinarsi al cuore, ascoltare le ragioni del cuore, coltivare l’intimità, leggere dentro con sguardo accogliente e non giudicante). (Agnese e Mario Mozzanica – lettera END 134). Dunque, educare si deve, ma come fare nella fretta, nella frammentazione e nel frastuono? Chi deve farlo e con quali mezzi, con quali spazi, con quali valori comuni? Non abbiamo forse disertato un po’ tutti il campo dell’educazione? Chi introdurrà i ragazzi e i giovani nel mistero della vita? Le macchine, ancorché pensate accuratamente
per soddisfare bisogni di apprendimento e di educazione, che i pedagogisti moderni credono di poter sostituire all’educatore? Gianfranco e Maria Solinas, i coniugi che l’anno scorso hanno tenuto qui nella nostra scuola una conversazione su “Costruire relazioni di comunità in un mondo frammentato”, in un documento del 2001, scrivono: «sempre più insaziabile, nelle nostre famiglie, è la fame di consumi inutili, di denaro, di beni status-symbol, di sicurezze economiche che trasmettiamo ai nostri figli». I coniugi Solinas, nello stesso documento, testimoniano che quando si sono inventati «progetti astratti di moderazione e sobrietà», hanno ottenuto scarsi risultati. «Le cose sono cambiate – scrivono – quando ci siamo lasciati destabilizzare dal Signore. Accogliere i figli naturali, un figlio adottivo, dei bambini in affidamento, ha significato, per esempio, che uno di noi sarebbe dovuto restare accanto a loro stabilmente e che non era pensabile un secondo reddito da lavoro in famiglia». Ecco una testimonianza che deve interpellarci tutti: le scelte di sobrietà non possono essere imposte, devono essere vissute. Altro che modelli astratti e sistemi multimediali per l’educazione. 5. Le nostre opere Abbiamo posto molte domande ma siamo ancora alla superficie nella nostra indagine. Apriamo il libro della Genesi, capitolo 3. Leggiamo. «Ma il signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”. Rispose: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto”. Riprese: “Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”. Rispose l’uomo: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”. Il Signore Dio disse alla donna: “Che hai fatto?”. Rispose la donna: “Il serpente mi ha ingannata ed io ho mangiato”.» (Gen 3,9-13). In questo brano non troviamo soltanto il peccato di superbia, troviamo anche l’autoinganno, l’ipocrisia, la ribellione, l’abuso della libertà, la falsa testimonianza, il nascondimento. A proposito di questo brano, ne Il cammino dell’uomo (pp. 2122), Martin Buber scrive: «Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo
nascondimento “davanti al volto di Dio”, l’uomo scivola sempre e sempre più profondamente nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. […] L’uomo, cercando di nascondersi a Dio, si nasconde [anche] a se stesso». Tutto questo, e altro ancora, si cela nella “favoletta” della caduta di Adamo ed Eva. Ed eravamo solo all’inizio. Apriamo l’Esodo, capitolo 32. Leggiamo. «Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: “Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto”» (Es 32,1-2). Raccolsero tutto l’oro che possedevano e si fabbricarono il vitello d’oro. Tutto questo mentre Mosè parlava con Dio per il popolo e Dio gli consegnava “le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio”. San Paolo (Rm 1,22-32) scrive: «Mentre si dichiaravano sapienti, [gli uomini] sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. Perciò Dio li ha abbandonati alle impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del Creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami, le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che si addiceva al loro traviamento. E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia di una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni di invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia». Questo è un lungo elenco di forme di peccato o di disordine, ma nella lettera ai Galati (5,19-22) san Paolo è ancora più preciso. Qui egli definisce esplicitamente le “opere della carne”, sarx da contrapporre a quelle dello Spirito, pneuma. Le prime sono fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregoneria, inimicizia, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze,
orge e cose del genere; le opere dello Spirito invece sono amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé. Notiamo subito come molte di queste opere dello Spirito sono coerenti con i verbi della grammatica dell’educazione proposti dall’articolo della lettera END. E allora riproponiamo la domanda: è possibile l’educazione in un mondo in cui le leggi dello Spirito sembrano essere largamente sopraffatte dalle esigenze della carne? È possibile l’opera educativa nel regno del disordine e dell’idolatria? L’idolatria e il disordine non sono l’esatta negazione dell’opera educativa? 6. Come nasce l’idolatria? Carlo Carretto ne Il Dio che viene (pp. 181-182) esamina ad esempio il meccanismo del piacere e le sue distorsioni. Scrive: «Col piacere, l’uomo è spinto a fare cose indispensabili alla vita quasi senza accorgersene, anzi con un’impressione di pienezza, di verità e di gaudio inerenti alla stessa esistenza. Il piacere dei cibi aiuta l’uomo a nutrirsi, il piacere del riposo a ritrovare le energie, il piacere del possesso degli oggetti il senso della sua regalità nel creato, quello della valutazione di sé, il senso della dignità e della socialità». Il piacere del sesso, per esempio, «presiede niente meno che al mistero della vita». Ma questa creaturina è pericolosa – scrive Carretto – «perché noi siamo così deboli nel lasciarci attrarre. Anzi il suo potere di attrazione, sommato alla nostra fragilità di lasciarci attrarre, crea uno squilibrio pericoloso che finisce presto o tardi col farci del male». C’è chi lo chiama peccato, altri lo chiamano disordine, altri ancora esagerazione, e c’è anche chi lo chiama idolatria. Scrive ancora Carretto: «l’esagerazione nel mangiare la puoi chiamare golosità; l’esagerazione nel valutarsi la puoi chiamare superbia; l’esagerazione nel riposare la puoi chiamare accidia, pigrizia; l’esagerazione nei tuoi sentimenti, invidia e gelosia; l’esagerazione nel tuo amore per il possesso, avarizia; l’esagerazione nella ricerca del piacere sessuale, lussuria». 7. Le potestà e le dominazioni Dedichiamo un po’ di spazio all’ambito del potere e delle istituzioni. Quello che diciamo non vale solo per i grandi imperi oppressivi del passato o per le dittature mostruose del Novecento, vale anche per le cosiddette democrazie. Si pensi solo ai servizi segreti, deviati o non, e ai loro metodi, a Gladio, alla strategia della tensione, alle mafie.
Walter Wink, in Rigenerare i poteri (p. 24) esprime la seguente tesi: i poteri sono una cosa buona. I poteri sono decaduti. I poteri devono essere redenti. Immediatamente dopo l’autore spiega: «Queste tre proposizioni devono essere tenute insieme, in quanto ciascuna, presa isolatamente, non soltanto è falsa, ma è anche profondamente fuorviante. Non possiamo affatto affermare che i governi, le università o le industrie – le scuole, aggiungiamo – siano buoni , a meno che nello stesso tempo non ne riconosciamo la caduta. Non possiamo affrontare la loro pericolosa incontrollabilità e il loro carattere oppressivo se non ci ricordiamo che continuano a far parte della buona creazione di Dio. Infine, riflettere sulla creazione e caduta dei Poteri può voler dire legittimarli e soffocare ogni speranza di cambiamento, a meno che non si affermi nel contempo che tali Poteri possano e debbano essere redenti». 8. Gli idoli oggi Gianfranco e Maria Solinas parlano di sirene incantatrici ed elencano il possesso, gli status-symbol, la televisione, il denaro, ma anche il protagonismo, che si manifesta spesso in forme subdole anche «nel volontariato, nell’impegno pastorale, nell’accoglienza», e il «rifiutare la luce e vivere nella cecità», senza speranza in una chiamata e nella possibilità, sorretti dalla grazia, a dare un senso più alto e più pieno alla vita. Ma noi vogliamo chiederci: non sono tanti, forse troppi, gli ambiti della vita che oggi si configurano come vere e proprie fabbriche di idolatria o, per dirla con Giovanni Paolo II, come strutture di peccato? Facciamo un elenco: il successo, il prestigio, il piacere, la libertà, la ricchezza, la conoscenza, il potere, il progresso, la velocità, la sicurezza, l’informazione e la comunicazione, lo spettacolo e il divertimento, la tecnologia, la salute e il benessere e perfino la famiglia e la religione. Consideriamo due ambiti: la tecnocrazia e la sicurezza. Raimondo Panikkar, un pensatore ispano-indiano, che si definisce indù e cristiano contemporaneamente, definisce la tecnocrazia, cioè il potere detenuto ed esercitato da coloro i quali hanno acquisito a prezzo di dolorose mutilazioni, conoscenze e competenze tecniche indispensabili al funzionamento dell’imponente macchina-mondo, “la schiavitù dell'essere umano”. Quanto alla sicurezza, lo stesso Panikkar sostiene che «l’ossessione psicologica per la certezza, affermata da un grande filosofo quale fu Cartesio, ha
portato all’ossessione patologica per la sicurezza» che caratterizza in mille modi il nostro vivere quotidiano. «Grazie a Dio – sostiene Panikkar in un’intervista – niente è sicuro e l’aggrapparsi a presunte certezze ci pone sulla difensiva e finisce per renderci intolleranti, chiusi, incapaci di dialogo. Chi ha desiderio di sicurezza non può avere pace. Tra gli ostacoli che impediscono un vero dialogo, non a caso, c’è la paura. Ma a partire dal riconoscimento di tale paura si può lavorare al suo superamento. Ed è la consapevolezza della propria vulnerabilità la principale componente del dialogo: se sono convinto di avere ragione, di essere il più forte e penso di avere tutte le risposte, che dialogo è? Mi chiuderò al dialogo, pensando che l’altro non sia in grado di capirmi, e poi mi lamenterò della sua chiusura». Notiamo che le parole di Panikkar sono molto simili ai verbi della “grammatica dell’educazione” e alle parole con cui san Paolo designa le opere dello Spirito. E ricordiamo che, se Panikkar parla di disarmo culturale, che dovrebbe precedere il disarmo, e Gandhi parla di non violenza e Corrado Alvaro parla di potere della rinuncia, Gesù e san Paolo parlano di conversione. Purtroppo, però, oggi assistiamo al dispiegarsi di un delirio di onnipotenza nell’ambito dei desideri, della volontà, della conoscenza; una ipertrofia dei commerci, dei consumi, delle tecnologie; una esagerazione nello spettacolo, nel divertimento, nella comunicazione, nel piacere, nell’uso della libertà. Questi tre tipi di “rigonfiamenti patologici”, che hanno radici antiche, ma che oggi sono potenziati all’inverosimile grazie alla disponibilità di mezzi sofisticati e complessi, rendono tutto sproporzionato, mostruoso. Per esempio, la finzione, l’ipocrisia, la dissimulazione, il nascondimento, la menzogna, l’inganno oggi, nel vuoto etico sostanziale, sembrano essere leciti non solo nell’arte della guerra, nella politica e negli affari, che ad essa sono imparentati anche nel lessico, ma anche nell’ambito del divertimento e dello spettacolo, come in quelli della ricerca, della medicina, dell’educazione, della cultura. Tutto è buono, lecito e a portata di mano. Altro esempio, la comunicazione e l’informazione, non solo quella pubblicitaria, creano spesso tante realtà fittizie, surreali, estranianti quanti sono i soggetti portatori di interessi coinvolti nei processi di comunicazione. Ciò perché si fanno prevalere i motivi di divisione a quelli di comunione, e quando si mettono in luce motivi ed elementi di unione lo si fa spesso con l’intenzione recondita di strumentalizzare l’interlocutore. A volte ci sembra di vivere in un mondo dominato da illusionisti di professione che inventano in continuazione nuovi giochi di
prestigio, non per un pubblico limitato di un quartiere o di una fiera, ma per il gran circo globale. Ma le tenebre non prevarranno perchÊ in tantissimi luoghi, dove meno ce lo aspettiamo, c’è eroismo in misura sovrabbondante, efficacissimo come lievito capace di far fermentare grandi quantità di pasta.
Gli idoli di oggi: i giovani si raccontano (Appunti dell’incontro del gruppo SOS scuola del 14.11.2005) 1. Idoli, omologazione e mass-media tra i giovani (testo letto da C. De Rose e preparato con la partecipazione di C. Iannace, A. Speranza, A. De Rose) Nella relazione del prof. Cariati tre punti mi sono sembrati fondamentali per spiegare meglio il mondo dei giovani: idoli, omologazione e ruolo dei mass-media. Oggi il concetto di idolo è molto distante da quello tradizionale; gli idoli di una volta erano uomini politici o rivoluzionari, persone di cui si abbracciavano le idee e il modo di pensare, si apprezzava la determinazione che avevano nei loro scopi, erano quindi modelli da prendere ad esempio e non persone da imitare in tutto e per tutto. Oggi invece la situazione è diversa, gli idoli vengono creati ed imposti dai mass-media, in particolare dalla televisione. Così basta mettere un microfono in mano ad un ragazzo qualsiasi e fargli cantare qualche canzone d’amore e tutte le ragazzine gli andranno dietro, oppure mettere in una casa delle persone sconosciute, molto meglio se ignoranti, e puntargli addosso delle telecamere 24 ore su 24 e tutti impazziranno per loro, o meglio ancora far apparire in TV qualche bella ragazza poco vestita ed ecco creati gli idoli. I ragazzi seguono quindi delle persone solo per la loro popolarità in termini di bellezza fisica o di simpatia, molto spesso persone con basso grado di istruzione, senza sapere come la pensano sui problemi della società, sempre che abbiano qualche idea a riguardo, dal momento che la popolarità è ricercata esclusivamente per i soldi. Ma non bisogna fare la critica alla televisione, anche se apparentemente eliminarla sarebbe una soluzione al problema; bisogna invece educare i giovani a saper guardare la televisione, a non farsi ipnotizzare dalla pubblicità, a saper pensare con la propria testa e a sviluppare delle idee proprie. Avere una propria personalità è ciò che è assente nei ragazzi di oggi e purtroppo per questo ci troviamo in una società piatta, standardizzata, dove lo scambio di opinioni non riguarda più questioni politiche, etiche o religiose, ma cosa è accaduto nell’ultima puntata de “L’isola dei famosi”, ed è questo ciò su cui di deve intervenire, cercare
di far in modo che i vari reality e talk-show passino in secondo piano rispetto ai veri problemi della società, che siano marginali nell’influenzare le scelte di un ragazzo. Attenzione però a non fare di tutta l’erba un fascio, perché non tutti i giovani, per fortuna, seguono questo filone. Ci sono anche i ragazzi che pensano con la loro testa, che hanno delle proprie idee; qui però entra in gioco il problema dell’omologazione. I ragazzi che vanno “contro corrente” tendono ad essere esclusi dagli amici, che quindi non possono essere più considerati tali, (e qui ci sarebbe da analizzare il concetto di amicizia tra i giovani oggi) per motivi alquanto stupidi, e vengono quindi costretti a scegliere tra rimanere soli oppure adeguarsi contro voglia, aderire agli schemi imposti dalla società, per evitare di essere etichettati come “asociali”. Seguire la moda è fondamentale per essere accettati da tutti, quindi è importante vestire firmato, possibilmente come gli idoli, oppure indossare dei simboli come la foglia a sette punte o il volto di Che Guevara, non importa se fai uso della prima o se conosci chi è il secondo, se ce li hai sei “rock” altrimenti sei “lento”. Tutto però dipende dagli ambienti e dalle persone frequentati. Il prof. Albrizio ci diceva di aver frequentato due realtà diverse qui in Calabria, quella della costa tirrenica, dove i giovani sono più orientati al mondo del lavoro e cercano da subito l’indipendenza economica, e quella dell’entroterra, molto più “cittadina”. Dalla statistica fatta dall’UNICAL nella nostra scuola è emerso infatti che i ragazzi preferiscono il centro commerciale agli spazi aperti, il che non è del tutto vero, è relativo solamente ad una parte di loro; occorre quindi tracciare delle differenze tra i ragazzi di “città” e i ragazzi di “paese”. Ritengo fondamentale analizzare in particolare tre punti: le maggiori opportunità di svago offerte dalla città, il senso del dovere e il concetto di divertimento. Indubbiamente le possibilità di svago in città sono maggiori rispetto a quelle che può offrire un paese in collina. Il centro commerciale, i locali notturni, i pub, le discoteche, i parchi, costituiscono tutti fonte di svago e a volte di tentazioni; è risaputo infatti che nelle discoteche o nei locali notturni circolano discrete quantità di droghe, oppure che nei parchi, soprattutto di notte, si aggirano “quelli che si fanno”. Inoltre tutta questa varietà di posti in cui andare riduce le amicizie (quelle vere) a poche, perché si tende a
rimanere in stretti rapporti solo con un ristretto numero di persone, cercando esclusivamente di allargare le conoscenze, per potersi vantare di conoscere questa o quella persona che nella zona è più popolare. Il paese è invece un ambiente molto più “caldo”, dove i luoghi di ritrovo sono pochi (il bar, la sala giochi, la piazza), le amicizie sono più strette, ci si conosce più o meno tutti, e il numero delle tentazioni è minore. Anche l’ambiente familiare in paese è più “caldo”, forse per le tradizioni che ancora si mantengono vive, quindi l’attaccamento alla famiglia è più sentito, la famiglia è molto più presente, più allargata e si ritrova più spesso insieme. Appunto perché la città offre più distrazioni, la percezione del lavoro, inteso sia come aiuto nelle faccende domestiche sia come lavoro vero e proprio, è molto diversa; in paese sarebbe uno “scandalo” che una ragazza di 16 anni non sappia mandare avanti da sola la casa, oppure che un ragazzo che ha terminato la scuola superiore con risultati scarsi vada all’università esclusivamente per non lavorare, costringendo i genitori a pagargli degli studi non sentiti; in città invece è molto più frequente che ogni famiglia abbia una donna delle pulizie, i giovani pensano quindi solo a divertirsi e preferiscono andare all’università, anche senza la vera voglia di studiare, proprio per rimandare ancora di alcuni anni la necessità immergersi nel mondo del lavoro. Infine il divertimento. Sicuramente a tutti piace il divertimento, ma non tutti lo concepiscono alla stessa maniera e non tutti sanno conciliarlo con il dovere. In città divertimento significa andare a ballare in discoteca, andare alle feste nei locali più “in”, o molto più semplicemente fare tutto ciò che non sia studio o lavoro e che possibilmente trasgredisca alle regole imposte dalla famiglia.; in paese molto spesso basta solo un mazzo di carte, un sabato sera un po’ più animato al bar o in pizzeria, o semplicemente una serata passata tutti insieme in piazza seduti alle panchine o sul sagrato della chiesa a discutere, parlare e scherzare. Non è che stia criticando la città e mettendo su un piedistallo il paese, queste sono situazioni che sono vere nella maggior parte dei casi, ma non costituiscono una regola; se si volesse veramente conoscere i giovani bisognerebbe studiarli uno ad uno.
2. Gli idoli dei giovani (La voce di C. Iannace) Come avete notato, abbiamo fatto una netta distinzione tra ragazzi con mentalità cittadina e ragazzi con mentalità di paese, perché crediamo che le due mentalità abbiano visioni molto diverse su due punti che riteniamo fondamentali. - Il primo è il divertimento, ovvero cosa si intende per divertimento - Il secondo è il dovere, ovvero cosa si intende per dovere Nella mentalità cittadina il divertimento è inteso quasi come un “obbligo”, bisogna farlo altrimenti non si sta al passo. Nella mentalità di paese il divertimento non si deve andare a cercare a tutti i costi. Io personalmente noto che nella prima mentalità per divertirsi si ha bisogno di almeno 30 euro, nella seconda bastano 10 euro. Il secondo punto che ritengo importante è il dovere, cosa si intende per dovere. Nella mentalità cittadina si cerca sempre di evitarlo, cercando di rimandare le responsabilità il più a lungo possibile. Alcuni miei amici hanno deciso di continuare gli studi perché il divertimento compensa il sacrificio dello studio; pochissime persone cercano di lavorare durante l’estate, anzi lavorare viene ritenuta un’assurdità. Nella mentalità di paese c’è più bisogno di indipendenza, si vuole essere autonomi il prima possibile e la responsabilità non fa paura, alcuni miei compagni lavorano anche durante il periodo scolastico e riescono a sostenere i costi dell’auto da soli, senza pesare in alcun modo sull’economia familiare. Per quanto riguarda la famiglia abbiamo notato che chi ha una mentalità cittadina ha meno interesse per le esigenze della famiglia, invece chi ha mentalità di paese partecipa molto di più e in alcuni casi anche attivamente. Il discorso si amplia per quel che riguarda le tradizioni, i valori, le abitudini che piano piano vanno scomparendo. 3. Domande e risposte Dopo gli interventi di Christian e Corrado i presenti hanno posto le seguenti domande agli studenti: - I giovani della scuola fanno esperienze di associazionismo? Se sì, quale ruolo esso gioca? - Avete colto delle differenze tra “città” e “paese”. Che significato vi sembra di poter dare al fenomeno della globalizzazione?
- Siete tutti provenienti da un paese. Cosa direbbe sullo stesso tema un vostro compagno che abita in “città”? - Perché voi che siete “illuminati” lasciate che siano gli altri a decidere? Perché non vi siete candidati alle elezioni dei rappresentanti? - Davvero credete, come sembra, superiore la mentalità del paese rispetto a quella di città? - Voi sostenete che la mentalità, di paese o di città, faccia differenza tra i giovani. Non credete invece che conti di più il metodo educativo della famiglia? - Avete notato che il prof. Cariati nella sua relazione ha usato il termine “idolo” in un senso diverso da come lo usano oggi i giovani? Christian fa parte dell’associazione “Amici della montagna”, gli altri membri di questo gruppo sono più adulti e questo gli ha permesso di partecipare a dibattiti di carattere etico e religioso. L’appartenenza a questo gruppo gli è servita a sviluppare senso del dovere e responsabilità. Per lui è un momento di crescita. Non è riuscito a coinvolgere altri perché la montagna non attira. Corrado fa parte di un circolo culturale nato nell’ambito della parrocchia che fa attività di animazione. Si tratta di un gruppo di coetanei. Nella fase progettuale e organizzativa delle attività c’è pochissima partecipazione, nella fase “operativa” ottengono maggiori consensi. La globalizzazione fa sì che ci sia poca differenza fra qui e Milano. La differenza fra “città” e “paese” è di tipo ambientale, contestuale. I giovani comunque riconoscono di non avere ancora approfondito il fenomeno della globalizzazione, specialmente per quanto riguarda l’impatto sulla differenza di mentalità che loro ravvisano tra città e paese. Nel paese sono ancora importanti le tradizioni che accomunano. I giovani sanno cogliere bene la differenza fra compagni di classe, con cui avere rapporti di cameratismo, ma anche piuttosto superficiali, e amici. Con molti compagni non si può parlare di cose importanti. Per esempio, non è facile affrontare temi politici. Secondo Alina, invece, è importante avere una coscienza politica.
I giovani ribadiscono che la “contrapposizione” paese/città è solo una chiave di lettura e non un modo per dare un giudizio di valore e stabilire gerarchie. Quanto a quello che direbbero i ragazzi di città sulla differenza di mentalità paese/città, la risposta è stata netta e immediata: «direbbero che noi siamo fuori moda». Riguardo alla domanda se conti più la provenienza o il metodo educativo della famiglia, i giovani non si sono espressi. Per quanto riguarda l’invito a candidarsi negli organi collegiali della scuola, gli studenti ritengono che non serve a niente perché verrebbero eletti sempre “quegli altri”. Sul modo di usare la parola “idolo” da parte dei giovani oggi, gli studenti hanno ammesso che erano consapevoli di usare quel termine dandogli un significato particolare.
Comunicare oggi: testi, ipertesti e immagini (Appunti di Giuliano Albrizio per la riunione del gruppo SOS Scuola del 21 dicembre 2005)
Come comunichiamo oggi? Come riusciamo a dialogare con il nostro prossimo? Come riusciamo a trasmettere notizie, informazioni, pensieri ed emozioni? Lo facciamo con i mezzi più disparati. Se ai nostri nonni sembrava già una cosa assurda l’invenzione del telefono, cosa direbbero oggi di fronte alla nostra contemporanea babele dagli infiniti input? Rimarrebbero inebetiti, come minimo. È innegabile: se ci siamo uniformati, alfabetizzati e (quasi) acculturati così velocemente, dobbiamo ringraziare soprattutto i vari media che, partiti in sordina con la semplice emissione di onde radio qualche decennio fa, attualmente hanno raggiunto livelli incredibili. La televisione, prima di ogni altro “canale”, entra prepotentemente nelle nostre case con i suoi toni alti e ammalianti. Ma anche altri mezzi legati comunque al mondo della tecnologia - come Internet e la telefonia ci stanno “formando” e addestrando con le loro nuove forme di linguaggio. L'improvvisa accelerazione prodotta da una sempre più acuta fame di notizie, di comunicazione, di interscambiabilità di emozioni, ci sta inscatolando in mondo che cominciamo a capire sempre meno. Stretti - ad esempio - dal dogma dei 160 caratteri previsti per l’invio di un SMS dobbiamo alienare il nostro modo di scrivere per far entrare delle frasi di senso compiuto in uno spazio tanto angusto. E così, via libera alle abbreviazioni, alle invenzioni lessicali, all’ardito uso di parole ridotte all’osso. Volete qualche esempio? Eccone alcuni davvero abominevoli: 1) la riscoperta della lettera K riscontrabile in parole tipo: “perkè”, “ke”, “anke”, ecc. e in tutti gli idiomi nei quali è possibile sostituire la sillaba “che”; 2) l’avvento della X che da antico simbolo del pareggio calcistico è stata promossa al rango di degna sostituta (addirittura) di tre lettere: “sxo” (spero), “xò” (però), “x” (per);
3) l’adozione della numerologia e della matematica con introduzione dei caratteri d’invenzione araba nel pieno di parole e frasi: “6 bravo” (sei), “br1” (Bruno), “3mendo” (tre). E poi il segno “+” (più) per gli usi + svariati (appunto...); 4) la definitiva rinuncia a quegli inutili orpelli denominati “vocali”: “m” (mi), “t” (ti), “cm” (come), “sn” (sono), “cn” (con); 5) la “codicefiscalizzazione” di alcune parole ritenute evidentemente troppo lunghe da pronunciare: “cmq” (comunque), “qst” (questo), e l’immancabile “tvb” (ti voglio bene); 6) l’approdo finale ad autentiche brutture, riassumibili - tanto per fare un unico esempio - nell’apocalittico xkè (perché); Tutto questo, come è logico immaginare, ha prodotto delle storture anche nella tradizionale scrittura con la biro. E non è più tanto strano, ormai, trovare nei compiti in classe dei ragazzi lo stesso “slang da cellulare” utilizzato per comporre i messaggini. Così la tecnologia ci obbliga ad adottare nuove strategie di comunicazione, nuovi linguaggi più funzionali, legati - magari - più al suono onomatopeico della parola che non alla sua versione scritta. L’uso degli SMS - con le varie invenzioni linguistiche - però qualche risultato positivo riesce a produrlo. Magari non aiuterà ad eliminare definitivamente il problema dell’analfabetismo ma, se non altro, consente a tutte quelle persone che mai si sarebbero avvicinate al mondo della scrittura a tentare l’utilizzo di questo mezzo per comunicare. Ovviamente anche le e-mail (che rispetto agli SMS offrono uno spazio, per la composizione di messaggi e scritti, praticamente infinito ed una stesura più agevole grazie all’impiego della comoda tastiera del computer) sono un ottimo mezzo di comunicazione. Qui l’unica licenza artistica usata nella creazione di un messaggio è rappresentata dagli onnipresenti emoticon. Questi sono delle semplici faccine ottenute utilizzando i comuni segni di punteggiatura – che accompagnano lo scritto e che solitamente rivelano lo stato d’umore del mittente. :-) faccina allegra :-( faccina triste
;) occhiolino :O stupore :P sberleffo Un terzo modo utilizzato per comunicare con nuovi linguaggi è la chat: ovvero il chiacchiericcio on-line fra utenti che si incontrano in stanze virtuali per dialogare sui temi più disparati. Nella chat spesso “nascosti” dietro nomignoli o pseudonimi (i nickname) gli utenti si esprimono con brevi messaggi ricchi di emoticon e di abbreviazioni in stile SMS, esagerando magari con infiniti puntini sospensivi o abusando di punti esclamativi. Nella chat il dialogo avviene in tempi brevissimi. Chi comunica sa che deve mantenere la discussione sempre viva se vuole evitare di essere tagliato fuori dalla community. La tecnologia dunque, come e forse più degli altri mezzi di comunicazione/informazione, incide sul nostro modo di interagire con gli altri. L'homo videns - riprendendo una azzeccata definizione di Giovanni Sartori - non è più solo il telespettatore, ma anche chi trascorre molte ore durante il giorno di fronte al monitor di un computer. E chi sono questi “forzati” del PC? Chi sono queste vittime consenzienti dei calcolatori? Sono persone che lavorano, persone che studiano o che ricercano informazioni (su Internet). Un discorso a parte poi va fatto per quella grande percentuale di giovani che si ferma tante ore davanti al video esclusivamente per giocare. Avvinti da una grafica sempre più dettagliata e definita, da ambienti tridimensionali dai quali è facile rimanere attratti e catturati, spendono il loro tempo divertendosi e immergendosi in una realtà fin troppo effimera e proprio per questo definita virtuale. Detto tutto questo è logico osservare che le nuove tecnologie interattive basate sul computer, costituiscono dei mezzi molto potenti che, se opportunamente usati, possono sicuramente amplificare le attività cognitive umane. È evidente dunque che – aldilà dei molteplici campi di applicazione - dovrebbero essere di primario interesse per la scuola, vale a dire per quell'istituzione che è esplicitamente dedicata a svolgere funzioni di istruzione e formazione. Due fattori sono particolarmente importanti. Innanzi tutto si tratta di tecnologie a base visiva, coinvolgenti una molteplicità di media, detti appunto per questo “multimediali”. Questo permette di sanare la frattura che esiste tra l'ambiente scolastico e le nuove generazioni, immerse fin dalla nascita in ambienti comunicativi di tipo plurimediale e soprattutto visivo. Il
secondo fattore, anche più importante del primo, è l’interattività. Questa richiede un ruolo attivo da parte di chi apprende. Che la combinazione di questi fattori produca un apprendimento più efficace, più stabile e duraturo e anche più piacevole, personale e motivante di quello tradizionale, è stato variamente provato dai molti studi sperimentali effettuati nel mondo. L’introduzione poi di un sistema “rivoluzionario” come quello degli ipertesti, testi arricchiti da elementi multimediali come immagini, suoni, animazioni, filmati, musiche e collegamenti ad altre pagine, ha senz'altro cambiato definitivamente il nostro modo di conoscere ed apprendere. Pensate solo alla praticità delle presentazioni - oramai universalmente adottate - create con degli appositi programmi dall'accesso rapido e semplice (vedi Microsoft Powerpoint e altri). Oppure pensate all’enorme sviluppo di Internet. Tutta la rete “vive” basandosi sugli ipertesti. Sono ipertesti le pagine web (denominate HTML, Hyper Text Markup Language) che consultiamo sul nostro computer e la stessa rete utilizza degli appositi protocolli di trasmissione degli ipertesti (HTTP, Hyper Text Trasfert Protocol). Dunque è questo il futuro della comunicazione: un linguaggio “arricchito” da altri elementi come quelli offerti dalla multimedialità e dalle nuove tecnologie. Un linguaggio più diretto e meno “pesante”. Se vogliamo più fantasioso e meno annoiante di quello finora adottato. Un linguaggio – in sintesi – sicuramente molto più adatto alle nuove generazioni che sembrano proprio non poter fare a meno di “vedere” prima di leggere e capire.
Giovani, istituzioni e politica per promuovere la cittadinanza attiva (Appunti di Alfio Moccia per la riunione del gruppo SOS scuola del 20 febbraio 2006)
Sottolineo innanzitutto il significato positivo e politico dell’incontro di oggi: esso non avviene a scuola, avviene in un giorno di vacanza, ha il valore di ciò che si fa in modo volontario e gratuito. Tutto ciò significa convinzione, disponibilità, partecipazione, impegno. Certo quando si parla dei giovani si rischia di semplificare eccessivamente: infatti vi sono giovani e giovani. Vi sono quelli che si drogano, spacciano, buttano i sassi al cavalcavia, stuprano o sparano e vi sono quelli che partecipano alle fiaccolate contro la ’ndrangheta o ai raduni con il Papa, che fanno volontariato e mille opere di solidarietà. Tra i giovani vi sono quelli sfaticati e superficiali e vi sono quelli seri che studiano con successo e soddisfazione di tutti. Però gli studiosi individuano delle tendenze che facciamo bene a tenere presenti. Per esempio, Vegetti Finzi sostiene che i giovani genitori rischiano di essere schiavi dei capricci del bebé che hanno deciso di far nascere. Ciò ha senz’altro delle conseguenze per la società futura. Le istituzioni che cosa sono? Sono il Comune, la scuola, l’ASL, la polizia e i carabinieri, lo Stato ma anche l’Unione Europea, l’ONU, il mercato, la famiglia, i partiti, la Chiesa. Sono enti preposti allo svolgimento di una o più funzioni, dotati di autonomia e di potere e possono essere chiamati a rispondere del proprio operato, in base a un principio di responsabilità. Ora, quale approccio hanno i giovani con le istituzioni? Le riconoscono? Ne capiscono l’importanza? Le accettano acriticamente, in modo conformistico? Le rifiutano sempre acriticamente, in modo trasgressivo? Le accettano o le rifiutano criticamente, dando prova di maturità e partecipazione attiva? Per esempio, i valori di libertà, democrazia, giustizia, uguaglianza si sono persi o sono in discussione e stanno per essere ridefiniti? I giovani sanno che questi valori non sono delle concessioni ma una conquista e riconquista continua? Ma se la libertà non è data una volta per tutte e richiede una
ridefinizione e una riaffermazione continue, la partecipazione attiva che vede ognuno protagonista con le proprie competenze e la propria creatività è una condizione indispensabile per costruire una società più umana o almeno per difendere quanto di valido i nostri padri ci hanno lasciato in eredità. Don Milani scrive: «Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: “I CARE”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori e vuol dire più o meno: “Me ne importa, mi interessa, mi sta a cuore”. È l’esatto contrario del motto fascista “Me ne frego”». E ancora: «È solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui – che sia ricco o povero importa meno – basta che parli … Ma non basta saper leggere, bisogna saper pesare le parole, saper sospettare, conoscere le conseguenze giuridiche di una firma, saper leggere speditamente, senza vergogna, davanti ai “cittadini”». Ecco che cosa serve per essere cittadini attivi, tenendo conto che oggi la società è estremamente più complessa di quella del tempo di don Milani e che il futuro ci riserva un incremento di complessità.
Sintesi del dibattito seguito alla relazione Alle sollecitazioni di Alfio Moccia, come di consueto, sono seguite varie considerazioni da parte dei presenti. Infine Alfio ci ha regalato un assaggio della sua arte canora. Riguardo all’invito a non fare di ogni erba un fascio, parlando di giovani, accanto alla Vegetti Finzi si ricorda che Bauman parla di società liquida, in cui i rapporti non sono duraturi ma occasionali come quelli che nascono e finiscono con le chat. Beck parla di società del rischio, una società in cui niente è sicuro: dal mestiere che deve essere cambiato più volte nella vita, al partner che può andarsene facilmente con un altro. E ci si chiede: la vita può essere vissuta pienamente in una precarietà estrema e nell’incertezza e nel rischio continui? Riguardo alla domanda “I giovani si interessano o no della politica?” è stato ricordato che tutto quello che noi facciamo ha una valenza politica. Politica non è solo frequentare la sezione di un partito, candidarsi alle elezioni, andare a votare, ma anche fare il proprio dovere come docenti, come studenti, come meccanici o come ferrovieri, o fare volontariato.
Su questo tema è stato anche ricordato che dalla ricerca fatta con i giovani della nostra scuola in collaborazione con il dottor Greco dell’Università della Calabria risulta che i giovani sono molto distanti dalla politica e mentre i ragazzi si identificano maggiormente con le autorità prossime come il sindaco e i carabinieri, le ragazze si identificano maggiormente con istituzioni come la stampa e l’Unione Europea, segnalando così una maggiore apertura delle ragazze. Quanto alla partecipazione attiva è stato anche detto che i processi politici e sociali futuri vedranno probabilmente un indebolimento ulteriore della sovranità dello stato in favore, da una parte, di istituzioni sopranazionali come l’Unione Europea, l’ONU, le organizzazioni non governative e forse le multinazionali e, dall’altra, le istituzioni locali come la Regione, il Comune, le associazioni di cittadini, i movimenti, ecc. Ciò richiede un comportamento proattivo dei cittadini, un comportamento opposto a quello passivo cui siamo abituati, per cui tutto deve essere garantito dallo stato o dal comune, e un potenziamento del ruolo del cittadino e della sua iniziativa locale e comunitaria. Si pensi per esempio al tema della disoccupazione giovanile e alle politiche per combatterla: un tempo si diceva “lo Stato si faccia carico di costruire industrie e di offrire lavoro” oggi si dice “inventate qualcosa e vi finanziamo”, consorziatevi, fate patti territoriali, costituite cooperative o imprese. Tutto ciò non è privo di rischi, specialmente per noi calabresi abituati da secoli ad subire, ad aspettare, ad essere assistiti e privi di iniziativa. Il rischio più grosso è che il divario tra parti sviluppate e parti in ritardo del Paese o dell’Unione Europea o del mondo diventi più grande e veramente incolmabile. Insomma, va bene la cittadinanza attiva ma vanno garantite pari opportunità di partenza altrimenti agitare i valori di libertà, democrazia, uguaglianza significa fare solo demagogia.
La speranza nella società attuale (Appunti di Chiara Marra per la riunione del gruppo Sos scuola del 10 marzo 2006)
Vorrei partire dalla definizione che della parola speranza dà il vocabolario italiano. Leggiamo: «Speranza: 1. aspettazione fiduciosa di qualcosa in cui si è certi o ci si augura che consista il proprio bene, o di qualcosa che ci si augura avvenga secondo i propri desideri. 4. una delle tre virtù teologali che consiste nella sicura attesa della beatitudine eterna e dell’assistenza della grazia per conseguirla.» Del termine speranza e del corrispondente verbo sperare usiamo prevalentemente oggi solo il significato di “mi auguro che avvenga ciò che voglio”. Basti pensare ai modi di dire dei ragazzi a scuola: «Oggi spero che non mi interroghino», «Spero di essere promosso», «Speriamo che il prof. non ci sia», e così via. In alcuni casi sono speranze vane: non basta desiderare di essere promossi, bisogna anche impegnarsi; non basta augurarsi di non essere interrogati, per star bene, sarebbe meglio essere preparati; non è necessario desiderare che il prof. non venga se si è pronti ad apprendere la lezione. Raramente ci si pone la domanda se quello che speriamo corrisponda al bene per noi. Forse perché, come ci ricorda l’attuale Papa, siamo circondati dal relativismo etico e culturale, per cui è difficile stabilire cosa, in assoluto, è il bene per me. Anche gli adulti cadono nello stesso tranello: sperano di vincere al Superenalotto, sperano di incontrare una bella ragazza o un bell’uomo (e magari stanno sempre con i soliti due o tre amici), sperano di costruirsi una bella casa, magari confidando nell’aiuto dei vecchi genitori, sperano che il progresso, come per magia, risolva tutti i problemi dell’umanità. Per molti, dunque, spesso speranza è piuttosto sinonimo di desiderio. Per altri, addirittura, la speranza ha ceduto il posto alla certezza assoluta. Siamo certi che esportando la democrazia nel Medioriente ne risolveremo tutti i problemi, che poi questa certezza abbia portato
guerra, lutti, morte, sembra essere irrilevante. Così come siamo certi che la ricerca scientifica ci guarirà da tutte le malattie, ma intanto continuiamo a morire, spesso disperati. Per san Paolo (1Cor 13,13) la speranza è una virtù, così come la fede e la carità. Il catechismo ci dice che queste sono le tre virtù teologali, cioè disposizioni abituali e ferme a fare il bene, che hanno come origine, motivo e oggetto immediato Dio stesso. San Pietro, nella sua prima lettera, ci invita ad essere «sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (3,15). Quest’anno, addirittura, la Chiesa italiana ha scelto come tema del convegno ecclesiale, Testimoni di Cristo risorto, speranza del mondo. Per chi crede, dunque la speranza è una disposizione che dobbiamo impegnarci a vivere, sapendo, però che il compimento di quello che speriamo non dipende da noi o da aspetti esteriori e incontrollabili, ma dall’amore di Dio per l’uomo e dalla resurrezione di Cristo. Quale senso dare, allora, alla parola speranza? Quello di un’attesa, non fatalistica, ma fiduciosa, attiva, che ci vede “protagonisti”. Quello sì di un desiderio, ma di un desiderio concreto, realizzabile, perseguibile. Quello di una aspettativa che riponga però la fiducia in qualcuno o in qualcosa di certo, di sicuro, evitando la disperazione o la presunzione. Per un giovane, ad esempio, sperare di trovare un lavoro potrà voler dire mettersi in gioco inviando il proprio curriculum a tante aziende, partecipare ai concorsi, essere disposti a lasciare, magari per un periodo, la propria città. Per i genitori, sperare che il proprio figlio sia un bambino bravo, significherà investire tempo ed energia nella sua educazione, dedicare al figlio le proprie attenzioni e dialogare con lui, senza delegare ad altri l’importante ruolo educativo. Per gli insegnanti sperare di avere una buona classe, vorrà dire impegnarsi per offrire agli studenti un fecondo dialogo educativo e contenuti validi. Per gli studenti sperare di andar bene a scuola richiederà impegno e serietà nello studio e nelle relazioni con i compagni e con gli insegnanti.
Vorrei ora soffermarmi brevemente su alcune esperienze che conosco e che mi sembra possano essere indicate come semi di speranza per la nostra terra. Dal 1981 un gruppo di volontari svolge un servizio di promozione umana tra e con i Rom di Cosenza, attraverso il doposcuola, la creazione di una biblioteca popolare, il sostegno alle famiglie e alle scuole dove sono inseriti i ragazzi rom per superare i limiti e le emarginazioni, i campi estivi di formazione Rom. Tutto questo per favorire l’accettazione della propria etnia, la loro appartenenza politico-culturale di cittadini italiani, la scoperta di energie nuove che aiutino i Rom ad assumere le sorti del proprio destino. Esiste a Cosenza, nel centro storico, da 16 anni, l’associazione San Pancrazio che opera nei campi della prevenzione scolastica, dell’animazione di strada, dell’affido familiare, dell’accoglienza, animazione ed integrazione dei disabili, dell’accoglienza di persone in difficoltà e senza fissa dimora e dell’integrazione lavorativa di soggetti svantaggiati. Attraverso queste attività l’associazione coinvolge quotidianamente centinaia di persone, cercando di percorrere insieme un cammino di radicamento nella città. Ancora, dal 1994 esiste la cooperativa sociale Delfino lavoro che, promossa dal Centro di solidarietà Il Delfino, offre possibilità di lavoro nel campo della grafica, dell’editoria e della gestione di eventi, a decine di ragazzi. Mi sembra, infine, che anche questa piccola esperienza di SOS scuola possa essere considerato un seme di speranza nella scuola, la speranza che sia possibile, proprio perché qualcuno ha iniziato, portare avanti il confronto pacato e la formazione continua con il contributo di studenti, docenti, genitori e persone diversamente interessati ai temi dell’educazione.
Sintesi del dibattito seguito alla relazione La relazione ha suscitato un vivace dibattito al quale hanno partecipato quasi tutti i presenti. È stato sottolineato come oggi il mondo non inviti alla speranza e il lavoro educativo sia sempre più difficile. Tra l’altro occorre che i giovani sappiano non solo come il mondo dovrebbe essere ma anche come è.
I giovani hanno sottolineato che per loro è importante che gli adulti, tutti gli adulti, anche i politici e gli imprenditori, non solo insegnanti e genitori, li incoraggino, perché si ha un bel dire che non bisogna lasciarsi influenzare! I giovani hanno bisogni di modelli positivi. La speranza è una virtù difficile da praticare, è più difficile della stessa fede (come qualcuno ha detto, anche il demonio crede che Dio esiste). Senza speranza, o idee, o ideologie non si può vivere. Secondo Max Weber tutte le azioni umane sono guidate da idee, ideali o ideologie. Senza speranza in qualche cosa: gli illuministi nella ragione e nelle idee, gli scienziati nel progresso tecnico-scientifico, gli imprenditori nel progresso economico, i marxisti nella lotta di classe, i cristiani nella morte e risurrezione di Gesù Cristo figlio di Dio, non c’è vita, non ci sono azioni, iniziative. Allora c’è da chiedersi in che cosa sperano gli uomini e le donne di oggi? Quali sono le fedi che muovono gli uomini di oggi? C’è una gerarchia tra ideali? Ci sono falsi ideali e pseudo-fedi che devono essere smascherati o purificati? Certamente non si può essere educatori senza speranza. Ed è stato ricordato che nella relazione di inizio dei lavori del gruppo si trova una bella definizione dell’educazione: “educare è anticipare il senso sorprendente e promettente della vita”. I giovani hanno evidenziato anche che per loro un aiuto può venire dai coetanei o dai compagni un po’ più grandi; anzi, grazie alla frequentazione assidua e alla condivisione di spazi, tempo ed interessi, è più facile che un ragazzo si confidi o chieda aiuto a un amico, che ad un adulto. Perciò è importante che anche i giovani siano responsabili nelle relazioni di amicizia con i coetanei. La speranza è, come dice Peguy, la più piccola delle tre virtù teologali, fede, speranza e carità. La speranza è un bambino che nasce, un cielo stellato, un tramonto; la speranza è meraviglia e stupore di fronte al creato. Purtroppo, come si dice, fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce, ma noi abbiamo il dovere di segnalare continuamente che c’è una foresta che cresce.
La famiglia, scuola e laboratorio di fede (Appunti di Emilia Florio per la riunione del gruppo SOS scuola del 31 marzo 2006) Mi è stato chiesto di parlare di questo tema sull’onda di un’esigenza che sembrava nata nel gruppo di affrontare, in qualche modo, l’argomento della religione o della spiritualità. Premesso che quanto dirò ha il valore di una riflessione ad alta voce e della comunicazione di un’esperienza – la mia – che, se come tale non ha la pretesa di insegnare niente a nessuno, né di essere esaustiva di tutto il grande discorso che ruota intorno a questi temi, ha però il pregio, essendo un’esperienza, di essere molto concreta ed anche circoscritta, come è bene che sia per un discorso che non vuole essere accademico o intellettuale, né general generico. Vediamo di esaminare i termini del problema: famiglia, scuola, laboratorio, fede. Fede non è scritta con la lettera maiuscola, quindi potrebbe intendersi, laicamente, come una dimensione puramente umana di fiducia nell’uomo, nella sua bontà, nella sua capacità di essere solidale. Naturalmente non escludo anche questa dimensione, ma più precisamente mi preme parlare della Fede, come esperienza di vita religiosa. Intanto precisiamo subito che spiritualità, religione, fede, non sono termini che possono essere usati come sinonimi – sono sempre più convinta che l’uso del linguaggio deve essere rigoroso e dobbiamo tutti sforzarci di adoperare le parole nella loro accezione più corretta. Spiritualità è, da un lato, tutto ciò che ha a che fare con lo spirito, quindi è l’opposto di corporeità, dall’altro una particolare sensibilità ai valori spirituali. Oggi vediamo che c’è bisogno di spiritualità: l’aumento delle sette, la ricerca di nuovi territori mentali – new age, viaggi in India, filosofie orientali – ci dicono che specialmente i giovani avvertono il richiamo dello spirito. Religione è un nome di discussa etimologia: alcuni lo legano con religere – scegliere, appartare (le cose sacre), oppure con religare – legare, con riferimento agli obblighi verso il sacro. Indica, comunque, il complesso delle credenze e degli atti che legano la vita di un individuo o di una comunità con ciò che ritiene di ordine divino. Fede è la ferma adesione dell’anima ad una verità o ad un ideale, credenza assoluta nei dogmi rivelati di una religione, virtù teologale.
A questo punto vorrei parlarvi della mia esperienza di fede che coincide, per me, con la religione cattolica e di come ho cercato, insieme con mio marito, di far sì che nella nostra famiglia si percepisse e si potesse vivere un’esperienza di fede. In questo senso il tema, famiglia scuola e laboratorio di fede, mi trova molto sensibile perché certamente la famiglia può essere, ed è, scuola o non scuola di qualcosa e può diventare laboratorio, nel senso che la vita familiare ti consente di “esercitarti”, è questo il senso che do al termine laboratorio, e di “apprendere” per trasmissione o per pratica e questo è il senso che do al termine scuola. Comincio da lontano: sono nata in una famiglia cristiana cattolica in cui la religione era un elemento importante: i miei genitori frequentavano la chiesa, così come lo facevano i miei parenti. Sono stata cresciuta delle suore Canossiane (dove ho frequentato l’asilo e ho fatto la Prima Comunione), poi all’Azione Cattolica. Ho fatto diverse esperienza di gruppi e movimenti (FUCI, movimento laureati, scout, Equipe Notre Dame), ma sono rimasta sempre nell’alveo della Chiesa. Non ho avuto la classica fase di rigetto, né l’hanno avuta i miei figli. Certo un dono, questo, ma alimentato sempre da una frequenza assidua della parrocchia, dei sacramenti, una ricerca accurata di maestri, di letture, di guide spirituali. Sposandomi sapevo già che avrei voluto vicino un uomo che condividesse con me i valori cristiani e mi aiutasse a tradurli in gesti concreti e quotidiani. Da quanto sono venuta dicendo è chiaro che per me la fede non è una sovrastruttura o un abito che si indossa la domenica e si smette il lunedì, ma è un modo di concepire la vita e di viverla, cercando di aderire il più possibile all’annuncio (evangelo) di un Dio incarnato che è morto ed è risorto per amore (è questo, in estrema sintesi, il cuore della religione cristiana). Già in questo senso – per il fatto cioè che una famiglia si fonda sull’amore (tra i coniugi, tra genitori e figli, tra fratelli) – facciamo attenzione che prima non era sempre così – matrimoni di interesse, doppia morale (una per l’uomo e un’altra per la donna), assicurarsi la discendenza come principale scopo del matrimonio – in famiglia si può vivere la fede. Innanzi tutto gli sposi sono l’uno per l’altro, ed insieme per chiunque li incontri, testimoni dell’amore di Cristo per la sua Chiesa – questo è il sacramento del matrimonio – una coppia di sposi cristiani dovrebbe farci dire come è scritto negli Atti degli Apostoli delle prime comunità: «Vedi quanto si amano!» Questo amore che è dono, accoglienza, solidarietà, speranza,
progetto, cammino, viene colto dai figli, viene respirato in casa e diventa un modo naturale di entrare in contatto con il Divino. Quando noi parliamo ai ragazzi di Dio Padre, loro hanno l’esperienza del loro papà ed è attraverso questa che filtrano l’idea di Dio. Così che a seconda del padre che hanno, si fanno un’idea di Dio buono, misericordioso, lento all’ira, oppure di un Dio giudice che condanna e castiga. Trasmettere la fede non è, per la mia esperienza, fare prediche (tra l’altro si potrebbe cadere nel moralismo), o imporre comportamenti. È mettersi nell’atteggiamento di chi offre ai figli, insieme al dono della vita, anche il dono della fede. Quando mi si fa l’obiezione che non battezzo i miei figli perché devo lasciarli liberi, rispondo: ma prima di metterli al mondo, hai chiesto loro il permesso? O non scegli tu come alimentarli, come vestirli, se portarli dal pediatra? Quando i ragazzi erano piccoli venivano a Messa con me ed il papà (perché l’esempio vale più di mille precetti) e non è mai capitato che si rifiutassero o facessero storie. Naturalmente hanno imparato le preghiere da noi e sono stata anche la loro catechista – ho avuto ed ho chiara la convinzione che l’educazione dei figli, specie quella religiosa, non deve essere delegata ad alcuno, e che comunque, quando si delega, si deve vigilare perché non c’è niente di più delicato e prezioso di una coscienza che deve formarsi. Come dicevo prima, è stato importante l’esempio: i ragazzi hanno assorbito in casa alcuni punti forti dell’esperienza religiosa. Alcuni esempi: - la partecipazione alla Messa, la liturgia spiegata, la discussione a tavola sulle letture quando erano già più grandi e si andava in chiese diverse; - l’accostamento alla Bibbia: da piccoli a cena leggevo loro passi della Scrittura, era un modo per farli stare tranquilli, ma serviva anche per acquistare dimestichezza con la Parola; - l’accoglienza: la nostra casa è stata sempre aperta non solo ad ospiti, anche atei o di diversa religione, ma anche a situazioni di disagio (un vecchio zio ammalato o un bambino in affido); - la sofferenza: i nonni ammalati e poi la loro morte. I ragazzi hanno suonato e cantato ai funerali dei nonni come un gesto che esprimeva la loro e la nostra fede nella resurrezione. Da quello che ho detto qualcuno potrebbe pensare che non ci sono problemi, naturalmente non è così perché la fede non è la bacchetta magica che risolve tutto o l’anestesia che addormenta tutto. Direi anzi che per certi versi la fede ti dà occhi ancori più
profondi e più acuti per vedere il male e soffrirne, per sentire il peso della responsabilità del mondo, per capire come siamo lontani da una conversione autentica, eppure sono gli occhi della fede che ti fanno vedere il bene anche piccolo o nascosto, che ti fanno credere nell’amore provvidenziale di Dio per tutte le sue creature, che ti fanno procedere anche tra difficoltà e problemi sapendo, come dice il Salmista, che l’alba verrà e alla fine splenderà il sole.
Relazione di sintesi del lavoro di ricerca svolto dal gruppo Sos scuola per l’associazione “Famiglia aperta”: La famiglia e i giovani nella società degli idoli Pista n. 5. Per tutti, in quanto cittadini
1. Siete soddisfatti o insoddisfatti della vita nella vostra città? Per quali ragioni sì, per quali ragioni no? - La vita nella mia città ha molti aspetti positivi che non sempre, però, riescono a compensare quelli negativi. La mia città offre i servizi necessari alla vita moderna. Sono molto soddisfatta dell’università che Cosenza ospita. Gli aspetti negativi a mio avviso sono: l’inefficienza dei servizi pubblici e il poco rispetto che le persone hanno le une per le altre. - È difficile vivere in una realtà tanto bistrattata come Fuscaldo. Il senso di insoddisfazione è grande, specie se si constata a malincuore che la comunità viene sistematicamente lasciata da sola di fronte ai tanti problemi della quotidianità. Gli impianti comunali (elettrico, idrico e fognario) sono gestiti poco e male. L’opportunità di avere il mare e la montagna a pochi passi non viene colta per incentivare il turismo. - Non sono soddisfatto. La vita è organizzata secondo principi individualistici o familistici ed efficientisti. Occorrerebbe iniettare nella società e nelle istituzioni sani principi comunitari. Anche da noi assistiamo all’omologazione e al dilagare del pensiero unico: il successo economico, politico o professionale al primo posto. Da noi abbiamo avuto la modernizzazione senza sviluppo, cioè senza un processo di costruzione e di sedimentazione delle esperienze più valide, scartando quelle inadatte al nostro contesto e alla nostra storia. - Sono soddisfatta: la mia città è organizzata in modo razionale, è piacevole dal punto di vista estetico, la dislocazione e la sistemazione delle piazze, delle chiese, del verde e dell’illuminazione stanno creando un tessuto urbano sempre più caratteristico ed originale, gli edifici pubblici sono funzionali, perfettamente inseriti e ben riconoscibili. - Sarebbe da superficiali dire di essere soddisfatti o no. Sono soddisfatto per quanto riguarda la tranquillità per le strade intesa come
scorrevolezza del traffico, mentre sono insoddisfatto per quanto riguarda l’esistenza e la continuazione di “tradizioni” come il linguaggio tipico dialettale e lo sfruttamento di conoscenze personali per il conseguimento di un dato obiettivo. - Penso che la città di Cosenza offra numerosi servizi per la comunità anche se in alcuni casi vengono sfruttati male, poiché vengono utilizzate risorse finanziarie per la realizzazione di strutture adibite allo svolgimento di attività non molto efficienti. Uno degli aspetti positivi della città è che di sicuro, non essendo molto grande rispetto ad altre, offre moltissimi spazi verdi per lo svolgimento di attività sportive e moltissimi punti di incontro per noi giovani. - A Cosenza, e in tutto il Sud sono un po’ ridotte le possibilità di lavoro per i giovani. Vi sono molte risorse che però non vengono sfruttate come si dovrebbe. - Sono soddisfatta delle occasioni culturali che la città e l’hinterland offrono: teatri, concerti, convegni, mostre. Sono totalmente insoddisfatta della vita quotidiana che manca, a mio parere, di ogni segno di buona educazione: sporcizia nelle strade, traffico disordinato, appropriazione di suolo e spazi pubblici. Ho la sensazione che si viva in modo troppo individualistico. - Nella mia città c’è praticamente tutto o quasi… eppure, specialmente tra noi giovani si ha sempre la sensazione che manchi qualcosa. Forse questa sensazione è data dal fatto che spesso dopo la laurea molti giovani sono costretti ad emigrare o ad accontentarsi di un lavoro poco pagato o che non è quello per cui si sono preparati. 2. Cosa occorrerebbe fare per migliorare la vita cittadina? Esemplificare concretamente. - Rafforzare il rispetto verso gli altri e verso se stessi, cancellare dalla mente la concezione del vivere in modo individuale. - La gente, nel suo piccolo, potrebbe contribuire a migliorare il paese, collaborando alla pulizia delle strade, alla continua segnalazione di ciò che non funziona, all’impegno in piccole iniziative di pubblica utilità. - Occorrerebbe maggiore attenzione al bello, al vero, al bene. Occorrerebbe investire di più in educazione e meno in palazzi, automobili e centri commerciali; di più in viali alberati e parchi verdi e meno in palestre e scuole di danza; di più in musica, pittura, poesia, etica, e meno in meccanica, chimica, informatica. - Bisognerebbe aggregare maggiormente i vari quartieri con manifestazioni laiche oltre che religiose.
- Bisognerebbe migliorare la presenza di centri culturali e favorire lo svolgimento di corsi che aiutino a non adoperare più tanto il dialetto. - Bisogna dare più spazio ai giovani, favorire la vita sociale dei cittadini. - Si dovrebbero costituire associazioni o gruppi composti sia da adulti che da giovani, per poter scambiare opinioni e punti di vista culturali e politici. - Occorrerebbe sentire il paese o la città come bene comune: non sporcare le strade o altri spazi pubblici, non parcheggiare in doppia o tripla fila, non passare con il rosso, non alzare il tono di voce, non usare il cellulare in modo scriteriato. - Occorre fare appello al senso civico di ognuno di noi, attraverso il rispetto delle regole e un maggiore rispetto per gli altri. - Gli adulti dovrebbero avere maggiore rispetto nei confronti dei giovani. 3. Se avete fatto con le istituzioni locali qualche tentativo di partecipazione, contro quale ostacolo vi siete arenati? - Quando ho tentato di risolvere bonariamente e cooperando qualche problema sono stato frainteso al punto da passare per un debole o un illuso. Le istituzioni da noi, coniugano spesso l’inefficienza e l’arroganza al punto che i problemi si risolvono o con buoni avvocati o con buoni “padrini”. - Sono rappresentante di classe e l’ostacolo su cui mi sono arenato è la divisione e l’immaturità di alcuni studenti pronti a sfruttare delle proteste come occasioni per farsi un giorno in più di vacanza. - Ho collaborato con la parrocchia, ho lavorato nella scuola, spesso ho trovato che i genitori danno deleghe in bianco e questo non mi piace. Con il Comune di Rovito, come utente, ho avuto normali rapporti, avvantaggiati da relazioni personali. Non ricordo di aver avuto ostacoli nella mia partecipazione di cittadina. Ho sempre esercitato il mio diritto di voto che ritengo un bene prezioso. 4. Qual è l’istituzione più attenta e collaborativi della vostra zona? Raccontate - Nella mia zona l’istituzione più attenta alle esigenze della comunità è la parrocchia, nella quale sono cresciuta serenamente. - Per me nessuna, perché quando ho avuto bisogno delle istituzioni non ho trovato appoggio.
- Secondo la mia esperienza è la parrocchia, poiché è l’unica istituzione che offre a tutti la possibilità di inserirsi e far parte di un organismo unico nel suo genere. La parrocchia è un luogo dove riunirsi per confrontarsi e parlare dei propri problemi, ma anche un luogo di svago. - Nella mia zona c’è un’istituzione religiosa che organizza attività per gli anziani. - Nel mio paese esiste da qualche tempo un movimento giovanile che sta cercando di creare nuovi spazi di socializzazione, esistono da tantissimi anni storiche presenze come quelle dell’Azione Cattolica e del gruppo scout che operano per integrare al meglio le varie anime, giovani e meno giovani del territorio. - Sicuramente la Chiesa, istituzione durevole nel tempo, attenta ai bisogni delle persone. - L’istituzione più collaborativa mi sembra la parrocchia, anche se come luogo di incontro, confronto e crescita umana e spirituale di tutti i battezzati, rimane inerte, senza iniziativa e con poca creatività. - Penso che le istituzioni più collaborative debbano essere la Chiesa e la scuola. 5. Formulate qualche proposta pratica per avviare un qualche incontro con persone e famiglie del vostro territorio e rispondere a qualche bisogno esistente. - Si potrebbero creare gruppi di persone appartenenti a varie fasce d’età per confrontare le diverse mentalità e i cambiamenti che avvengono tra una generazione e l’altra. - Io propongo di strutturare insieme un questionario scegliendo i punti da trattare, e somministrarlo a diverse persone e famiglie del nostro territorio. Una volta raccolte le varie testimonianze, potremmo confrontarle e, a seconda dei bisogni maggiormente esistenti, stabilire dei gruppi integrati dalle persone a cui abbiamo presentato il questionario per discutere e affrontare insieme i problemi emersi dalle testimonianze. - Propongo di creare nuove istituzioni per i giovani e centri di assistenza per le persone bisognose di cure. - Proverei a creare dei circoli ricreativi nei quali dare spazio a varie attività, spaziando dal cineforum all’angolo per i giochi con le carte, dalle sale lettura alle attività teatrali o musicali. - Propongo di usare luoghi pubblici come scuola, chiesa o circoli culturali per discutere e parlare di problemi sociali. - Per risolvere, ad esempio, il problema dell’assistenza agli
anziani, basterebbe “consorziare” le famiglie, unire le forze e le competenze di accoglienza, assistenza, cura, organizzazione, animazione per risolvere il problema in modo umanamente “caldo” e spiritualmente ricco. - Ci si potrebbe incontrare per la recita del rosario oppure si potrebbe creare e/o favorire (qualcosa già esiste in paese) incontri di tipo culturale. 6. Quando si parla di “legalità” e di “educazione alla legalità”, cosa si intende? Di che cosa si vuole parlare? - A proposito di legalità mi viene in mente un insieme di regole da rispettare obbligatoriamente per una convivenza pacifica e libera degli individui, anche se non sempre è facile rispettare le regole. - Per legalità io ho un concetto di dignità umana che riconosca sempre quella degli altri e che veda nel prossimo una persona portatrice di pari diritti. Educare alla legalità spetta ai genitori e agli educatori in genere, che spesso non hanno voglia né tempo di impegnarsi in un recupero di valori perduti. - L’educazione alla legalità ha come obiettivo di insegnare i principi fondamentali della vita. - Per troppe persone il confine tra il legale e l’illegale diventa sempre più sottile specialmente in quelle situazioni ambientali in cui imperversa il degrado. - La legalità e l’educazione alla legalità fanno riferimento alla conoscenza e al rispetto delle leggi, a volte inefficaci, e delle istituzioni. In Calabria la legalità è un problema serio visto che, mancando completamente ogni esperienza collettiva di costruzione dell’identità e della democrazia, ognuno si arrabatta come può e l’illegalità, l’opportunismo, l’imbroglio, sono all’ordine del giorno. - Ho l’impressione che i vari progetti di educazione alla legalità siano un bluff, nella misura in cui sono belle teorie senza riscontri pratici. Si educa alla legalità, a mio parere, facendo piccoli gesti di “legalità”: arrivare in orario a scuola, fare il proprio dovere in ogni ambito, rispettare la fila, usare i luoghi comuni e pubblici come fossero casa propria, pagare le tasse, non chiedere raccomandazioni di vario genere, non salire sull’autobus senza biglietto, non avere atteggiamenti omertosi, conoscere e studiare la Costituzione. 7. C’è, secondo voi, un collegamento tra la felicità della vostra famiglia e la legalità pubblica?
- Sì, c’è un legame, ma purtroppo spesso accade che le famiglie vengono a trovarsi in difficoltà perché, dopo un primo momento, vengono abbandonate dalle istituzioni. - Alcuni stimano che se in Italia non ci fosse l’evasione fiscale pagheremmo tutti meno tasse, e, quindi, gli onesti avrebbero più risorse da investire per la loro felicità. Questo è solo un esempio di come l’illegalità si ripercuota nella vita di tutte le famiglie. - Senz’altro sì in quanto essendoci una piena legalità pubblica si instaura un clima di serenità che porta le famiglie ad agire ancora di più nel modo giusto senza paura; alzando così il livello di felicità. - Certamente, perché la legalità in una comunità è importante e inoltre le famiglie vivrebbero più serenamente. - Come in passato anche oggi c’è chi cerca di esercitare il proprio potere con imponenza e chi ha solo doveri da rispettare e tutto ciò è illegale e compromette l’equilibrio di una società e di conseguenza quello delle nostre famiglie. - Sì, poiché la nostra felicità è data anche da una serena convivenza sociale. - Se la società soffre, se la società è malata la famiglia è inevitabilmente destinata a subire gli effetti di questo malessere. Ma basta poco per riconvertirsi al vivere civile: basta sforzarsi sempre di dare il buon esempio, provando a contagiare il più possibile gli altri con sane dosi di comportamento “legali”. - C’è un grande collegamento tra la felicità familiare e la legalità pubblica: innanzitutto perché il bene comune è anche il bene mio e della mia famiglia, poi perché dove c’è legalità si vive con un senso di sicurezza, di benessere, di solidarietà. Se le cose intorno a noi funzionano in un certo modo, noi siamo più ottimisti, meno conflittuali e quindi possiamo vivere meglio. In quale luogo del vostro territorio (scuola, chiesa, sezione di 8. partito o sindacato) vi trovate a parlare di questi argomenti? - Mi capita di parlare di queste cose principalmente a scuola, nel gruppo SOS scuola, ma anche in classe (anche se non con tutti i prof.) e in parrocchia. - Sicuramente nella scuola e nella chiesa e in modo particolare alle riunioni di SOS scuola. - Parlo di questi argomenti a scuola perché è il posto in cui trascorro più tempo. - Dappertutto, perché sono argomenti che sento profondamente. - Io posso parlarne liberamente e senza fraintendimenti in
famiglia, all’Equipe Notre Dame; con alcuni colleghi ed amici. Mi addolora il fatto che non se ne parli abbastanza a scuola. 9. Siete fra quanti non danno importanza alle piccole cose, come per es. gettare per terra un fazzoletto sporco in strada o in un locale pubblico? Quali sono per voi le più importanti? - Quando vedo gesti come gettare a terra un fazzoletto sporco, mi sento come se mi stessero facendo un torto personale e di conseguenza sento una grande rabbia dentro. Mi dà molto fastidio quando vado in spiaggia o nei parchi dove la gente cerca un po’ di serenità e invece mi ritrovo in una specie di discarica. - Grazie a Dio io non butto carte per terra, non fumo e, quindi, non butto cicche né diffondo veleni, non danneggio ambienti e suppellettili, non taglio gli alberi nei boschi né appicco incendi. - Il rispetto per l’ambiente, quindi il rispetto per il prossimo, dovrebbe essere uno dei valori fondanti del vivere civile. È dalle piccole cose che bisogna partire per combattere le grandi cose come l’inquinamento, la gestione dei rifiuti, il riciclo dei materiali usati e tutti quei problemi che con il passare del tempo sembrano accumularsi e minare alla salute del pianeta in cui viviamo. - Io do importanza a queste piccole cose, perché in fin dei conti se noi buttiamo un fazzoletto o mozziconi di sigaretta o altro in strada o in un luogo pubblico, danneggiamo noi stessi perché dobbiamo starci noi. - Sono tra quei pochi che fanno attenzione a rispettare l’ambiente che ci circonda, per quanto possibile cerco di non inquinare né fisicamente né moralmente la società in cui vivo. Per quanto mi riguarda la cosa più importante è essere rispettoso di tutto ciò che ci circonda. - Appartengo alla schiera di chi mette il fazzolettino sporco in tasca o in borsa fino a casa pur di non buttarlo a terra. Le piccole cose sono le più importanti perché ci educano giorno per giorno; le grandi cose, i grandi progetti, servono spesso a fornirci alibi: sono troppo grandi per noi e quindi non possiamo fare niente. Il non spreco delle risorse, il riutilizzo dei materiali (vetro, carta, plastica), la sobrietà, sono atteggiamenti e stili di vita che possiamo avere tutti e possono aiutarci a non fare del nostro mondo una pattumiera.
Riflessioni sul testo di F. Cassano, Velocità – elogio della lentezza - Il mondo è frenetico e bisogna adattarsi. Alcune cose vanno fatte lentamente, altre velocemente. - Bisognerebbe fermare la nostra società per riflettere di più su quello che ci circonda. - La vita e la crescita ci ricordano che ogni cosa ha il suo tempo e che non si può fare tutto in fretta. - Bisogna alternare lentezza e rapidità. Da giovane ero più rapido, con gli anni ho imparato ad assaporare la lentezza. Il buono sta nel dialogo tra gli opposti - Nella mia prima esperienza lavorativa (maestra nella scuola elementare) ho imparato la lentezza e il rispetto dei tempi. Ho imparato a guardare il lavoro del contadino che semina e forse non raccoglie. Ho imparato, nel corso della mia vita, che la meditazione, ma ancor più la contemplazione, ci insegnano che dobbiamo imparare un respiro lento. Quando mi sento in preda all’ansia da “corsa” cerco di rallentare il ritmo e di “perdere” tempo. - Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno di un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni e di una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era cominciato. «Ho bisogno di altri cinque anni» disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto. [da Italo Calvino, Lezioni americane]
Verifica attività Sos scuola 2005/2006 (riunione del 26 maggio 2006)
La riunione di verifica si è svolta sulla traccia di quattro domande, rese note preventivamente ai partecipanti. 1. A quali esigenze ha cercato di dare risposta il gruppo Sos scuola? Il gruppo Sos scuola innanzitutto mi ha permesso di conoscere nuove persone. Ha cercato di dare risposta a molte esigenze e soprattutto ha cercato di farci riflettere su principi quali la fede che deve essere un punto di forza che ci permette di andare avanti nei momenti più difficili della nostra vita. Anche se con pochi incontri c’è stata la possibilità di riunirci su temi seri e importanti che ci si presentano ogni giorno su cui mi sono soffermato solo in questo gruppo. Alcuni dei temi affrontati sono stati: fede, speranza, amicizia, famiglia e società, Gli obiettivi erano chiari fin dall’inizio (vedi carta: relazioni autentiche, saperi validi, responsabilità piena), in una parola Sos scuola si è posto come luogo educativo se come educazione di intende quel particolare modo di entrare in relazione che consente ad ognuno di essere se stesso e di crescere insieme con gli altri. Sos scuola ci ha dato l’opportunità di conoscerci, parlare, ascoltare ed essere ascoltati Attraverso gli incontri del gruppo siamo riusciti a dare qualche risposta alle domande di docenti, alunni, genitori sulla scuola e sulla società. Il gruppo è stato utile per spronare in particolare i ragazzi a riflettere su varie tematiche. Ha dato l’opportunità di mettere a confronto diversi punti di vista. A me Sos scuola ha offerto la possibilità di riflettere su cose su cui di solito non ci si sofferma. Idee che fanno crescere, grazie anche al confronto tra persone di età diverse.
Abbiamo avuto l’opportunità di conoscerci e di confrontarci; è positivo sapere che non si è soli e che ci sono altri che riflettono sugli stessi temi. Avere dato vita a questa iniziativa è stato utile perché abbiamo cercato di coprire un vuoto presente nella scuola. Ci sono però risorse disponibili. La bontà dell’iniziativa è che non è obbligatoria e che non ci sono incentivi di nessun tipo e per nessuno. Esigenza di confronto con persone diverse, anche di età diverse. L’incontro con apertura e sincerità è importante. Un piccolo laboratorio di relazioni autentiche. 2. Quali attività proposte dal gruppo hanno maggiormente a rispondere a queste esigenze?
contribuito
Le uscite sono state apprezzabili come momento per stare insieme. La cosa più formativa è stato il poter discutere su tanti problemi. Fondamentale è proporre valori. I vari incontri ci hanno consentito, finalmente, di superare qualche steccato fra noi (docenti) e i genitori che spesso sono la nostra controparte. Purtroppo i genitori li abbiamo persi per strada, e questo è un peccato. Le riunioni sono state un’occasione molto valida come fonte di arricchimento. Sia gli incontri/dibattiti, sia i momenti ludici (nel senso di non impegnati intellettualmente) hanno favorito, di volta in volta, alcuni aspetti della conoscenza e dello stare insieme. Oltre alle attività già segnalate dagli altri vorrei ricordare la ricerca fatta per l’associazione “Famiglia aperta”, che non avremmo potuto fare se non ci fosse stato il gruppo, il sito internet, il bollettino che stiamo preparando. Principalmente i vari dibattiti che spesso ci hanno fatto meglio comprendere il significato di alcuni valori come la tolleranza e il rispetto per il pensiero altrui. Il tema che mi ha interessato di più è stato quello della speranza. La parte più stimolante per noi ragazzi è quella caratterizzata dalle uscite di gruppo. Il semplice ascoltare e confrontarsi in dibattiti molto costruttivi, ma anche le attività svolte all’esterno della scuola hanno contribuito
(come ad esempio la gita in località “La Fossiata”) a farmi vivere esperienze nuove fino ad allora, almeno per quanto mi riguarda mai provate. Infatti è proprio da quella esperienza che non scorderò mai lo stupore e il brivido che ho provato ammirando lo stupendo panorama davanti ai miei occhi, ma anche la solidarietà e il senso di gruppo di noi tutti, ragazzi e adulti. 3. Quali limiti o problemi hanno frenato la vita del gruppo? Problemi potrebbero essere considerati la prevalenza degli adulti rispetto ai giovani, l’estemporaneità dei temi trattati, la mancanza di partecipazione e del senso di appartenenza, evidente dal turn over. Limiti: un ascolto non sempre profondo, l’idea che si debba avere una soluzione ai problemi eventualmente posti, l’idea che se non c’è un fare, un agire visibile, la riflessione è inutile. Secondo me Sos scuola deve essere un gruppo laboratorio che studia i problemi e prova ad offrire delle soluzioni che eventualmente ciascuno applica nella sua realtà. Un piccolo ostacolo che è sorto è stato il mancato ritrovarsi dell’intero gruppo ai diversi incontri. E anche la difficoltà, in questo caso personale, di non poter dedicare molto tempo a questa attività, sempre a causa dei diversi impegni. Un limite è stato la poca visibilità all’interno della scuola (collegio dei docenti e consigli di classe). Limiti: visibilità nel contesto della scuola; allargare la partecipazione; il bollettino come strumento per farci conoscere; calendario deciso prima per poter essere più presenti. 4. Come proseguire l’attività per l’anno prossimo? Provare a organizzare la documentazione delle riunioni attraverso le immagini. Coinvolgere ragazzi che vanno male a scuola. Con una maggiore presenza dei giovani, maggiore assiduità nella presenza, riproposizione della carta e degli obiettivi. Seguendo sicuramente la scia di quest’anno e coinvolgendo anche altre persone: familiari e amici proprio per un maggior confronto. E anche trascorrendo insieme qualche giornata o serata fuori dall’ambito scolastico.
Continuando con gli incontri e incrementando il numero delle uscite di gruppo e delle persone da coinvolgere nel progetto. Si può provare ad ampliare il gruppo coinvolgendo un maggior numero di genitori, e ad inserire qualche elemento piÚ dinamico nelle varie riunioni, come visione di cortometraggi, documentari o speciali da commentare.
Finito di stampare: giugno 2006 Impaginazione a cura di Chiara Marra
Per saperne di pi첫: www.sos-scuola.it