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LE BOTTEGHE STORICHE DI MILANO
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Sotto al naso. Come i baffi e la bocca. Come il collo, il busto e i piedi. Come molte cose che non osserviamo mai, ma che vediamo sempre. La rivista è questo. Fatti, cose e luoghi che vediamo ogni giorno ma a cui non diamo peso, a cui non prestiamo attenzione. La nostra missione è quella di farvi (ri)scoprire e apprezzare la realtà che ci circonda. In una città come Milano le botteghe storiche sono sempre sotto al nostro naso. Ce ne sono centinaia e alcune di queste hanno delle meravigliose storie da raccontare. Sono parte della città e in molte di queste si respira quell’aria da vecchia Milano che va di gran moda negli ultimi anni. Sono le sacerdotesse della qualità, del produrre bene. Sono il cuore della città della Madunina. Sono le custodi dello spirito di Milano.
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Macelleria Sirtori
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Legatoria Conti Borbone
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Antica Barbieria Colla
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Liuteria Guerrini
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Cappelleria Mutinelli
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Gioielleria Cusi
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Libreria Bocca
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Bar Storici
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Ditta Guenzati
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Ottica Aspesi
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Pasticceria Marchesi
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Sartoria Ferramini
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Drogheria Grossi
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Cartoleria Tipografia Bonvini
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Macelleria Sirtori La qualità non è una alternativa ma una scelta
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Signor Walter
Al civico 27 di via Paolo Sarpi nel cuore di Chinatown c’è una delle realtà commerciali più interessanti del quartiere: la macelleria Sirtori. Fin dalla sua apertura nel 1931 la macelleria è sempre stata sia sinonimo di qualità che punto di riferimento per il quartiere.
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“La macelleria quindi non si sente minacciata dagli iper e supermercati che costellano il quartiere e l’intera città, ma al contrario si pone come una sana alternativa ad essi.”
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Ci accoglie il signor Walter, l’attuale titolare dell’attività, cresciuto fra queste mura piene di cimeli. Attraverso la sua vetrina il signor Walter e prima ancora suo padre hanno osservato e vissuto in prima persona l’evoluzione della Chinatown milanese. Il quartiere nel dopoguerra presentava una variegata offerta di negozi alimentari, tra i quali si contavano ben dodici macellerie. Ora la situazione è molto differente: l’unica macelleria sopravvissuta è la Sirtori, mentre le altre sono fallite oppure sono state acquisite da proprietari cinesi. Secondo il signor Walter i negozi cinesi negli ultimi anni stanno vivendo ciò che la macelleria e altre attività italiane hanno vissuto nel dopoguerra, come per esempio l’apertura durante i giorni festivi.
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NASO Nelle pagine precedenti: la vetrina della Macelleria Sirtori e di altri negozi di via Paolo Sarpi.
La macelleria Sirtori ha fatto della genuinità dei prodotti da loro venduti il proprio biglietto da visita. Il bancone a vista mostra infatti una grande varietà sia di tagli che di tipologie di carne biologiche che provengono perlopiù dalle Cascine Orsine. Difatto parte della clientela, oltre ad essere molto eterogenea, sceglie la macelleria di via Sarpi proprio per l’alta qualità della merce venduta. Stando alle parole del proprietario il prodotto da lui venduto è nettamente superiore a quello commercializzato dalla grande distribuzione dal momento che questa tralascia il fattore gusto. La macelleria quindi non si sente minacciata dagli iper e supermercati che costellano il quartiere e l’intera città, ma al contrario si pone come una sana alternativa ad essi. Un’altra figura emblematica della macelleria è la signora Silvia, moglie di Walter, che coi suoi modi gentili dona spesso qualche consiglio di cottura o mette nel sacchetto dei clienti qualche ricetta.
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Il Signor Walter che prepara il taglio di carne per l’arrosto.
Ravioli cinesi Ingredienti: 150 gr di suino (carne macinata) 50 gr di gamberetti (sgusciati) 100 gr di cavolo cinese 1 carota 1/2 di porro qualche filo di erba cipollina 1 grattugiata di zenzero (fresco o secco) 2 cucchiai di salsa di soia
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Iniziare preparando la pasta per i ravioli. Disponete la farina a fontana in una ciotola e aggiungete un pizzico di sale poi aggiungete l’acqua. Lavorate l’impasto fino ad ottenere un panetto sodo. Avvolgete nella pellicola e fate riposare un’ora. Nel frattempo preparate il ripieno. Lavate e tagliate a pezzetti il porro, la verza e la carota. Mettete tutto in un mixer e tritate finemente. Mettete le verdure tritate in una ciotola con la carne macinata poi aggiungete lo zenzero tritato e la salsa di soia.
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13 Preparazione del ripieno del Rou Jia Mo.
Nel 2015 nel locale a fianco alla macelleria ha aperto una ravioleria cinese molto particolare. La sua peculiarità è quella di essere nata dall’incontro fra la signora Silvia e la moglie di Hujian, giovane cinese dal forte spirito imprenditoriale. La Ravioleria Sarpi unisce così la tradizione culinaria cinese e l’alta qualità delle carni della macelleria. In questo modo due culture apparentemente così differenti come quella italiana e quella cinese dialogano e si mescolano fino a ricreare, oltre agli ormai famosissimi ravioli, prelibatezze dello street food cinese, come le Jian Bing, le crepes cinesi salate, o il Rou Jia Mo, panino con carne di maiale stufata, o come il Baozi, panino cotto al vapore ripieno di manzo e spezie. Le carni utilizzate nella minuscola Ravioleria provengono dalle Cascine Orsine e vengono accuratamente selezionate dalla macelleria Sirtori.
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Legatoria Conti Borbone Vestire la cultura
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Signor Gianluca Girando in mezzo agli scaffali colmi di volumi, pelli, carte e addentrandosi fin dentro all’affascinante laboratorio della legatoria Conti Borbone, ci si può avvicinare ai segreti di un’arte “minore”, certo, ma pur sempre un’arte, come amano precisare i proprietari.
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Quando nasce questa legatoria? Questa attività è nata a fine Ottocento, nel 1873 per l’esattezza. In tutti questi anni abbiamo attraversato non pochi momenti di crisi. Pensi solo alle due guerre, a chi interessava far rilegare dei libri? Come avete superato questi momenti? Non te lo saprei dire perché io personalmente non c’ero. Però ricordo che mio padre mi raccontava di certe commesse pubbliche durante la guerra, che hanno aiutato la nostra attività. La crisi è arrivata dopo i primi due anni di guerra, quando le persone non riuscivano più a resistere. Probabilmente ci avevano salvato degli accordi presi da mio nonno con la casa editrice Vallardi verso la fine degli anni ‘20. Mia nonna infatti gestiva il reparto di cartonato della Vallardi ad Appiano Gentile, mentre mio nonno stava qui nel laboratorio. Questo rapporto penso sia andato avanti anche durante la guerra, per cui riuscivano a sopravvivere, senza contare che all’epoca i privati avevano un effetto importante sulla nostra attività. E invece adesso come sopravvivete? Stiamo rischiando di chiudere. Non ce la facciamo più, abbiamo un affitto che non riusciamo più a sostenere.
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La legatoria è sempre stata qui in Corso Magenta? No, nel 1873 non c’era nemmeno questa casa. L’azienda è stata fondata da Domenico Conti Borbone, che dopo anni di formazione con Vittorio Villa, maestro legatore dell’epoca, corona il sogno di mettersi in proprio e apre una bottega di legatoria in via Ratti, l’attuale via Cesare Cantù, nel cuore di Milano. Dopo breve tempo, a causa del riassetto urbani-
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stico di fine secolo, si trasferisce, poco distante, in via Santa Maria alla Porta. Nel 1919 la bottega si sposta in corso Magenta 31 con ingresso su via Terraggio, proprio qui dove ancora oggi si aprono le sette grandi vetrine di questa antica legatoria. Mio nonno ha avuto l’idea di allargare l’azienda per offrire il concetto della legatura del libro bello, del vestire la cultura ad un’utenza più popolare. Siamo
qui dal 1919 e purtroppo non so fino a quando riusciremo a starci. Adesso vorremmo tenere qui solo la presa clienti e spostare il laboratorio fuori, anche se dispiace lasciare uno spazio con questa storia. Stiamo già adocchiando un magazzino grande, dove poter tenere anche dei corsi che qui purtroppo non possiamo fare, per mancanza di spazio.
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È sempre stata un’attività a conduzione familiare? Sì, lo è stata. La custode dei segreti artistici e manuali dell’arte di Domenico, è stata la nipote Giuseppina, ovvero mia nonna. In questo venne presto aiutata dal marito Isacco Marchesi, erede della dinastia dei pasticceri di corso Magenta. Complice del loro incontro fu certo la vicinanza della Conti Borbone alla celeberrima pasticceria dove, tra
un caffè e un pasticcino, fiorì l’amore. Mio nonno, ragazzo del ‘99, venne chiamato per andare in guerra. Durante questi anni conobbe Gabriele d’Annunzio, del quale conserviamo una dedica appesa alla parete. Ma mio nonno prima di partire, promise a mia nonna che se fosse tornato vivo, l’avrebbe sposata e così è stato.
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Che rapporto avete con Milano? Credete che come città possa aiutarvi? A Milano e nel settore abbiamo un nome. Mio fratello Angelo, il più giovane, ci ha fatto capire l’importanza del web e dei social per farci pubblicità. Ho provato con i bandi del Comune, per farmi conoscere o per ottenere qualcosa. Ad esempio qui di fronte c’è una casa del Comune o il Cinema Orchidea, chiuso ormai da anni, dove potremmo trasferire il laboratorio e magari tenere anche dei corsi, ma non c’è stato niente da fare. Il problema è che se chiudiamo noi a Milano non ci rimarebbe più nessuno e sarebbe veramente un peccato.
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“Qui a Milano sei abbandonato a te stesso.�
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La situazione che sta vivendo lei è la stessa di altri suoi colleghi? La situazione è completamente differente. Ad esempio i miei colleghi parigini sono aiutati dal dipartimento e dalla corporazione di mestiere dei rilegatori e riescono a cavarsela pur mantenendo una dimensione familiare. Qui a Milano sei abbandonato a te stesso. Ci sono bandi europei, ma c’è una burocrazia tale che ti massacra. L’unica soluzione è quella di mantenere una presa clienti storica qui in questo studio e spostare tutto il resto in modo da mantenere questa sede come scuola di mestiere. Una scuola che ha portato prestigio alla città: abbiamo servito i Papi e i reali. Ci occupiamo di tutto, dalla legatura più semplice del vocabolario a quelle più complesse. La nostra è un’arte che si tramanda di generazione in generazione. Io stesso ho imparato dagli operai anziani che lavoravano qui. Quanto può costare un libro che vendete qui? Un oggetto che potete trovare nel nostro laboratorio potrebbe anche costare intorno ai 1600 euro, perchè viene tirato interamente a mano con gli angoli formati da quattro fregi che si realizzano con apposite rotelle. Questo invece è un libro firme a cui abbiamo incastonato le madreperle e queste sono tutte rotelle stampate a mano. È un laboratorio di stampa, siamo anche stati insigniti dell’Ambrogino d’Oro a suo tempo, quando c’era ancora mio papà. Abbiamo tre tipi di strumenti per imprimere a caldo sulle copertine, sui libri o anche per stampare sui tavoli. Vengono da noi i restauratori, ci portano i tavoli antichi, noi li rivestiamo di pelle e poi li stampiamo.
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Antica Barbieria Colla L’artigiano dell’eleganza fra tradizione e modernità
Signora Francesca A Milano esiste una realtà commerciale che iniziò a muovere i primi passi nel 1904, quando i tram andavano a cavalli e le automobili erano poche e rare. Questa realtà è l’Antica Barbieria Colla di via Morone. In più di cento anni di attività ha vissuto due guerre, diversi momenti di crisi e tensione e tre gestioni.
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Parte dei prodotti utilizzati durante i trattamenti estetici.
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La Barbieria fu aperta da Dino Colla che rese quasi sacro il rito della barba e del taglio a Milano. Originariamente la Barbieria aveva sede in Via Verdi, ma nel 1943 dovette chiudere a causa dei bombardamenti che colpirono piazza della Scala e le zone limitrofe.
Un anno dopo riaprÏ in via Morone, dove ancora oggi dopo oltre settant’anni ha ancora sede. La vicinanza con il tempio milanese della musica ha fatto passare sotto le esperte mani del signor Colla prima e di Bompieri oggi molte chiome e baffi celebri.
Infatti ancora oggi la maggior parte degli attori e musicisti della Scala passano dall’Antica Barbieria per un ritocco prima di calcare il magico palco.
Entrando dentro al salone si fa un viaggio indietro nel tempo. L’interno della Barbieria è rimasto tale a quello originario. Il cliente, appena ci mette piede dentro, viene colpito dalla quantità di specchi, sopra i quali sono incorniciate fotografie di celebri personaggi del mondo milanese. Le esperte mani di Colla e di Bompieri hanno curato i capelli, le barbe e i baffi di molti milanesi di ieri e di oggi. Dal mitico Enzo Jannacci al direttore d’orchestra Riccardo Chailly passando per il sindaco Giuseppe Sala. La clientela comprende anche anziani del quartiere e molti giovani, che spinti dal padre o dal nonno scelgono i trattamenti tradizionali tramandati dal signor Colla. I giovani in particolare, amano questi trattamenti e grazie al passaparola hanno reso l’Antica Barbieria uno dei saloni più alla moda della città. 32
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All’Antica Barbieria i servizi di rasatura, taglio e manicure vengono eseguiti secondo tradizione con estrema cura. Va infatti ricordato che il signor Bompieri utilizza solamente prodotti di alta qualità le cui formule sono ideate da lui stesso. Questo è uno degli esempi per cui l’Antica Barbieria è antica nel nome ma non nella forma. Infatti questi prodotti sono in vendita sia presso il salone di via Morone che sullo shop online, aperto da pochi anni. Lo scopo di questa brillante iniziativa è quello di rendere alla portata di tutti il know-how accumulato dall’Antica Barbieria
Colla. In questo modo ha creato dei prodotti professionali che i clienti possono utilizzare anche fuori dal salone. La linea Colla comprende dopobarba, lozioni, saponi ad hoc e colonie per la cura maschile. Tutte le creazioni sono accompagnate da un packaging dal sapore vintage curato dalla figlia del signor Bompieri. Si deve proprio a lei il successo dell’Antica Barbieria fra i giovani. Per tutti gli uomini milanesi la Barbieria Colla è sinonimo di eleganza e ricercatezza, tanto da chiamare il signor Bompieri “l’artigiano dell’eleganza”.
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Per tutti gli uomini milanesi la Barbieria Colla è sinonimo di eleganza e ricercatezza, tanto da chiamare il signor Bompieri “l’artigiano dell’eleganza”.
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Liuteria Guerrini Dove il legno diventa musica
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Signora Livia Abbiamo aperto nel 1964 e siamo sempre stati qui al civico 63 di via Procaccini. Siamo in assoluto gli unici liutai qui a Milano. I miei clienti sono soprattutto musicisti professionisti provenienti da tutto il mondo, oltre agli studenti del conservatorio, perchĂŠ si deve poter arrivare sia al piccolo che al grande musicista.
Tutti gli strumenti in negozio sono stati costruiti da mio marito. Non siamo commercianti, noi siamo artigiani. Quando chiudo io, chiuderà il negozio e la tradizione liutaia a Milano. Ho tre figli, di cui uno ha sempre lavorato con il padre, ma adesso si occupa di restauri e con i musicisti classici non vuole più averne a che fare. Purtroppo questa è un’arte che si sta perdendo. Io mi sono sposata a ventiquattro anni, perciò è da circa sessant’anni che lavoro in questo campo e sono qui fissa in negozio da quando è morto mio marito quattordici anni fa. Mio marito dormiva pochissimo, si alzava alle due di notte e andava in studio a lavorare. Tutte le notti così, fino all’ultimo. Il suo divertimento era il suo stesso lavoro, ha sempre vissuto per questo.
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L’artista dovrebbe essere innanzitutto umile, sono gli altri che devono dire quanto tu vali, non sei tu stesso. I miei clienti, che io chiamo i miei ragazzi, sanno che la cosa più bella che possono dirmi quando entrano qui è “Livia, lo sgabello l’abbiamo lasciato a casa”. Tutti gli artisti dovrebbero essere così, tutto ciò che riflette l’arte dovrebbe essere intrisa di umiltà, perché è l’umiltà che fa bello l’uomo e che fa bella l’arte che quello crea.
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“Non siamo commercianti, noi siamo artigiani.”
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Mio marito apparteneva alla famosa stirpe di costruttori Guerrini di Castelfidardo e dopo essersi messo in proprio divenne membro della rinomata Associazione dei Liutai e Archettai Cremonesi e con i suoi strumenti partecipò a numerosi concorsi ed esposizioni guadagnando ottimi consensi da parte del pubblico. Lo conobbi quando andai a comprare uno strumento per un mio allievo, in quanto concertista e insegnante. Purtroppo
ora suono solo per quello che posso. Quando ho un concerto da fare, il tempo per studiare devo trovarlo, almeno tre ore al giorno. Il troppo studiare mi ha provocato la distonia degli arti superiori. Studiavo fino a dieci ore al giorno, saltavo anche i pasti. Finché non raggiungevo quello che dicevo io, non potevo smettere. Cominciai circa vent’anni fa, mi scappavano le mani, dopo troppe ore di studio sulle stesse partiture che
hanno causato l’usura dei tendini. Non sono l’unica, ce ne sono tanti come me, infatti l’hanno chiamata la distonia focale dei musicisti. Avevo una velocità spaventosa nelle mani, ma alla fine ho dovuto cambiare programma per riuscire a fare ancora qualche concerto. Se punto il dito su una riga, va a finire sulla riga sbagliata. La mia distonia però non mi impedisce di mandare avanti il negozio.
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Qui tutto gira attorno alla qualità e oggi chi viene da me sa che qui trova uno strumento che dura nel tempo. A Cremona è da decenni che importano gli strumenti semilavorati dalla Cina con legname non stagionato. Per fare strumenti come i nostri ci vuole una stagionatura di almeno dieci o quindici anni. Siamo stati i primi ormai tanti anni fa ad aprire un laboratorio specializzato in strumenti ad arco e oggi siamo conosciuti in tutto il mondo. Abbiamo anche un magazzino di legname pregiato, a differenza dei negozianti di Cremona, al quale mio marito ha dedicato anni di vita. Stava cinque o sei mesi 42
in segheria in Brianza quando abbattevano gli aceri rossi, che sono quelli di risonanza. Sceglieva i tronchi e li segnava, partiva tutte le mattine e tornava a casa la sera. Adesso ne ho ancora un terzo da vendere, ma è difficile trovare acquirenti interessati. Spesso arrivano qui degli studenti con violini a cui si aprono le casse o il fondo, perchÊ realizzati con un legno non adatto, magari stagionato da solo un anno. Oltre agli anni di stagionatura del legno, uno strumento deve essere suonato con frequenza, non deve stare fermo. Se uno strumento sta fermo, si chiude.
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Da qui sono passati i più bei nomi della nostra musica classica e leggera. Gaber, il Quartetto Cetra, i Pooh, i Camaleonti erano tutti di casa qui da noi. Il Quartetto Cetra arrivava sempre alle undici di sera, quando noi avevamo giù la saracinesca. Perché questo è un lavoro che non ha orario. Quante volte lavoro di domenica. Una volta sono venuti qui a Milano quattro musicisti da Vienna, hanno provato gli strumenti da mezzogiorno e se ne sono andati a mezzanotte. Essendo musicista, non mi dà alcun fastidio. Ciò che mi dà fastidio è quando il musicista sa che non deve far perdere tempo alla persona con la quale sta trattando lo strumento. Perché il tuo tempo è prezioso, ma anche il mio. O ti piace o non ti piace. Provalo tutto il giorno, però che abbia un risultato positivo. Il musicista dovrebbe suonare, non dovrebbe fare l’esperto o giudicare lo strumento dell’altro.
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Cappelleria Mutinelli
Dove l’artigianato vince sul fast fashion
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Signor Matteo
Corso Buenos Aires è uno dei punti di riferimento della fast fashion milanese, le grandi catene di abbigliamento si alternano ai due lati della strada, in alcuni casi addirittura ripetendosi più volte dall’inizio del corso. In un angolo della trafficata via si trova la bottega storica Mutinelli, famosa cappelleria nata nel 1888. Il suo concetto estetico contrasta non poco con le vetrine dei negozi sul lato opposto della strada, ma l’anima di tradizione e attenzione ai dettagli si respira sin da fuori al negozio.
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All’interno l’attuale proprietario, sempre della famiglia Mutinelli, ci accoglie tra una innumerevole quantità di cappelli, che mostra con particolare maestria ai clienti che si sono susseguiti durante l’intervista. La prima richiesta che pongo al signor Matteo, vista l’eterogeneità delle persone che popolano l’importante corso al di fuori della vetrina, riguarda la clientela tipo del negozio.
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Da chi è composta maggiormente la clientela? La clientela è eterogenea, favorita sicuramente dalla posizione. Ora in Italia per avere successo anche in campi più di nicchia la posizione è molto importante: o hai un’attività che funziona e che va di moda oppure è un disastro. Prima accanto al negozio si trovava l’Alitalia, quindi eravamo beneficiati da questa posizione di passaggio, ora allo stesso modo le grandi catene richiamano turisti e milanesi.
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Parlando di grande distribuzione, voi come bottega storica vi sentite minacciati? Non userei il termine “minacciati”. Le cappellerie hanno passato una crisi economica dopo l’altra, sono dei dinosauri, quelle che sono rimaste hanno gli anticorpi. La prima crisi del cappello è degli anni ‘50, prima di quella c’erano undici cappellerie solo in corso Buenos Aires. La nostra fortuna è che la grande distribuzione non sa trattare il cappello, sia nella lavorazione che nella rivendita; bisogna conoscerlo, saperlo spiegare e le grandi catene non possono permettersi questo aspetto assistenzial-pedagogico che invece noi offriamo. Da quello che capiamo il prodotto che vendete è tanto di nicchia quanto popolare. Crede che il vostro essendo un negozio mono prodotto sia svantaggiato? No, al contrario! Vendo solo cappelli, è vero, ed ora come ora potrebbe sembrare una strategia di marketing poco azzeccata. Ma affidandosi ad un’alta qualità e alla sbalorditiva varietà di possibilità, credo che sia un vantaggio poter entrare qui e uscire solo con un cappello, ci permette di essere riconosciuti, e di avere un nome che si ricorda.
Un cliente che prova cappelli all’interno del negozio.
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“Le cappellerie sono dei dinosauri, quelle che sono rimaste hanno gli anticorpi.�
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Vediamo che possedete più marchi di copricapi. Vi affidate solo a grandi firme o cercate di andare incontro alle esigenze della clientela? Il nostro è un prodotto solo italiano, che ora è sinonimo di qualità, essendo la produzione italiana la migliore del mondo. Il cappello è un prodotto nato quando è nato l’abbigliamento. Molti paesi si sono specializzati nella produzione di copricapi: americani, inglesi, francesi. Con il passare del tempo la loro produzione è calata, oppure si è trasferita in paesi in cui la manodopera costa di meno, costituendo un crollo notevole nella qualità del prodotto. Essendo l’Italia una realtà ancora viva, si possono trovare piccole aziende o firme importanti che lavorano ancora il cappello, permettendo di avere un mercato a parte, riconosciuto e cercato anche all’estero, con prezzi accessibili a tutti.
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Giuseppe Borsalino, chiamato “u siur Pipen”, nasce ad Alessandria nel 1834. Dopo un’esperienza come garzone e poi apprendista nella sua città, lavora per circa sette anni nel cappellificio Berteil in Rue du Temple a Parigi, ottenendo la qualifica di Maestro Cappellaio. A un anno dal rientro in Italia, Giuseppe apre il suo primo laboratorio in un cortile di via Schiavina ad Alessandria insieme al fratello Lazzaro. È l’inizio di una storia che vivrà grandi successi e immense soddisfazioni. Il 20 dicembre Teresio Usuelli, ultimo erede della famiglia Borsalino, lascia l’azienda cedendo la carica di presidente a Vittorio Vaccarino. Nei primi anni ‘90 la Borsalino viene acquistata da un gruppo di imprenditori di Asti, il cui ingresso segna l’inizio di un nuovo slancio per l’azienda, soprattutto nel campo che da sempre aveva costituito il suo punto di forza: l’export.
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Vendete anche cappelli con il marchio Mutinelli. Il negozio ha sempre prodotto anche cappelli a vostro marchio? Noi nasciamo come cappelleria, non esisteva il prodotto in serie e il cappello andava prodotto su misura. Prima il negozio aveva un laboratorio che produceva su misura i cappelli, poi ci siamo affidati alla produzione seriale e ora utilizziamo modelli e tessuti scelti da noi. Abbiamo affiancato la produzione con altri marchi, diventando anche rivenditori, e ora manteniamo le due possibilità, anche se la nostra produzione si è ridotta, specializzandosi nei modelli più venduti. A proposito dei prodotti più venduti, qual è il vostro rapporto con la moda? Ora come ora rimane un prodotto di nicchia ricercato sia per arricchire un look, sia per un uso prettamente protettivo. Essendo oramai la moda espressione personale dell’uomo, il cappello deve potersi adattare a tutti gli stili. È per questo che se prima ci si affidava ad un numero ristretto di forme e grandi quantità, ora la quantità è diminuita, ma la varietà delle forme e dei materiali fa del cappello la sua arma vincente per stare sempre al passo coi tempi.
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Riusciamo a fare qualche domanda a proposito di quest’ultimo argomento anche ad un cliente, che da turista è entrato in questa piccola realtà con le idee molto chiare. Abbiamo notato che ha comprato un cappello, si è fatto ispirare da qualche moda o dal suo gusto personale? Utilizzo cappelli più che per moda, per necessità. Ho la pelle molto sensibile e devo utilizzare una protezione dal Sole altrimenti è la fine. Però essendo per me una necessità cerco sempre di utilizzare prodotti di qualità, che possano riflettere anche il mio stile personale. Ha trovato queste caratteristiche solo qui o anche altri negozi che le offrono un servizio simile? Sono una persona che ama viaggiare e comprare prodotti artigianali del territorio, raramente trovo tanta professionalità nella fattura della merce e nella loro vendita. Forse solo a Firenze ho trovato una simile attenzione ai particolari.
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La selezione naturale ha estinto le cappellerie, ma sicuramente la cappelleria Mutinelli “ha molti anticorpi”. Il loro rapporto con la clientela fa di loro una realtà milanese tradizionale da far invidia a molte catene di moda di successo. Sono concentrati sulle priorità del cliente e sulla sua soddisfazione, ricercando nella qualità la cifra stilistica per cavalcare la modernità.
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Gioielleria Cusi Il salotto della sobrietà milanese sfida il tempo con pezzi unici
Signora Floriana La bottega Cusi si presenta come una delle più prestigiose gioiellerie della zona, ma ha una peculiarità che la distingue da tutte le altre: l’unicità dei prodotti. A differenza di altri negozi, Cusi non è un rivenditore, ma possiede solo articoli progettati e realizzati da loro. Nasce nel 1886 ad opera di Annibale Cusi, bisnonno dell’attuale proprietario, che ora porta avanti la tradizione di famiglia insieme alla moglie, mente creativa e progettista della bottega, e alla figlia.
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I prodotti unici che troviamo all’interno sono progettati dalla titolare che fin da subito mette in chiaro la sua posizione. Il loro punto di partenza è il cliente, e quindi progettare un gioiello che segua il gusto del pubblico, maggiormente milanese. Concetto totalmente diverso dalla grande distribuzione che offre un articolo fatto e finito, che attraverso la pubblicità incontra il gusto del cliente. Le richieste sono di artigianato, la clientela prima era fondamentalmente dell’alta società che richiedeva un prodotto unico e di fattura molto costosa. Ora i tempi sono cambiati e la bottega si è aperta anche alle richieste dei più giovani, che cercano un prodotto non troppo costoso e che possa soddisfare le loro esigenze. Come dice la titolare “i giovani stanno riscoprendo il gusto del bello e dell’unico, ricercando un gioiello che sia proprio come lo desiderano”.
L’attuale proprietario e la figlia mentre serve una cliente. 64
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NASO La signora Floriana mostra la riproduzione del gioiello accostato alla fotografia dell’originale.
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Per spiegare meglio cosa intende per gusto milanese, la signora Floriana utilizza un esempio molto chiaro. Durante l’Esposizione universale del 2015 a Milano, la gioielleria ha deciso di riprodurre un disegno del fondatore, ritrovato negli archivi. Si tratta di un collier a colletto “Maria Stuarda” composto da 15000 diamanti e perle in pieno stile Ghirlanda, che vinse il Gran Premio per le Arti Applicate.
Coevo allo stile ghirlanda era il gusto liberty, che però non era molto utilizzato dal fondatore di Cusi: nelle centinaia di disegni ritrovati solo due sposavano questo stile. Ciò fa pensare che i due modi di intendere il gioiello fossero strettamente legati ad una classe sociale di riferimento. Il liberty è lo stile dei borghesi che non avendo una cultura del bello e del classico si affidano a forme nuove, lo stile ghirlanda in-
vece è proprio dell’aristocrazia, e quindi della classe di riferimento milanese della bottega Cusi al tempo della sua fondazione. Il gusto di riferimento della bottega Cusi è cambiato dall’inizio del Novecento, però mantiene l’idea iniziale di soddisfare la classicità milanese, la sobrietà delle forme, la semplicità in modo che l’eleganza e la pregiatezza dei materiali possano essere al massimo valorizzate.
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Il negozio presenta un’esposizione variegata di articoli, dai gioielli in argento o placcati in oro, ai collier incastonati di diamanti. L’idea è quella di poter offrire al pubblico oggetti artigianali, dai più semplici a quelli più costosi, utilizzando sempre materiali pregiati. Le pietre utilizzate non sono mai di bigiotteria, ma sono gemme minerali. Per proporre questo tipo di prodotto la progettazione ad opera della titolare è tesa a produrre un articolo unico, andando incontro ai gusti del cliente. Lei infatti si rifiuta di copiare grandi marchi in quanto significherebbe snaturare l’essenza originaria della bottega. Preferisce far trasparire sempre la propria personalità e quella del cliente all’interno del gioiello, creando un risultato tanto classico quanto al passo coi tempi. La ricerca di prodotti e forme nuove è all’ordine del giorno, tanto che il proprietario essendo presidente del Collegio Italiano Gemmologi spesso tiene delle conferenze di settore in modo che si possa sia informare che istruire le altre realtà italiane come loro.
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69 Disegni d’archivio e gioielli prodotti.
“I giovani stanno riscoprendo il gusto del bello e dell’unico, ricercando un gioiello che sia proprio come lo desiderano”
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Uno dei prodotti di punta della bottega storica è la creazione di gioielli a partire da pietre preziose, talvolta messe a disposizione dal cliente. Come i pendenti in Opale, una pietra dalle sfumature iridescenti, che la titolare decide di lasciare alle forme originali, creando forme fluide e organiche che ricordano gocce d’acqua o vele di navi al vento. La maestria che si mostra in questi oggetti, come ci ricorda la loro progettista, non è tanto nel materiale prezioso, ma nella progettazione di un gioiello che sia tutt’uno con la pietra e che possa sobriamente valorizzarla.
Parallelamente a queste opere, la bottega si è specializzata nel rifacimento di gioielli dei disegni del fondatore della bottega con un gusto contemporaneo. Le tecniche suggerite dai disegni sono diverse da quelle attuali, e l’ingegno e la particolarità sono tese a riprodurre una lavorazione a mano, con tecniche moderne, senza però svalorizzare il gioiello. Un esempio di questo procedimento sono i bracciali in platino e oro. Prevedono una lavorazione a mano di ogni maglia che compone la catenina, che ora non è più possibile fare, ma che tramite sperimentazioni ad opera dei laboratori affiliati con la bottega si è riusciti a replicare abbassando i costi e creando un prodotto moderno e classico al contempo.
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Nella vetrina troviamo articoli mediamente costosi, con la speranza di istruire il passante al gusto del bello. Ma all’interno si trova una realtà viva e vitale, che non ha paura della concorrenza dei grandi marchi e della grande distribuzione. Sono sicuri di quello che offrono, della loro manifattura, puntano in alto sperando che questo atteggiamento possa essere ripagato da un pubblico giovane con un ritrovato senso del gusto.
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Libreria Bocca Ogni libro è una magia
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Signor Giorgio A pochi metri dal cuore di Milano si trova la più antica libreria d’Italia, un luogo colorato d’arte e ricco di cultura. Aperta nel 1775 ha attraversato ben due secoli di storia, è sopravvissuta a guerre e ha superato ostacoli e difficoltà.
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Come e quando nasce questa libreria? Questa libreria nasce a Torino nel 1775 coi fratelli Giovanni Antonio Sebastiano e Secondo Bocca come stamperia, stampando gli editi per casa Savoia. Dall’apertura della casa editrice all’apertura delle librerie intercorre un periodo di circa trent’anni. La prima libreria compare a Milano nei primi anni del 1800, precisamente nel 1802, data di cui abbiamo trovato un atto di vendita nell’Archivio di Stato di Milano. Quindi a Torino nasce la stamperia, mentre a Milano apre un primo punto vendita. Da indagini recentissime, analizzando un libro di storia della tipografia italiana, abbiamo trovato delle fonti di un secondo Bocca già attivo intorno al 1750. Quindi in realtà rispetto al 1775 esposto nella nostra insegna, è molto probabile una retrodatazione di circa venticinque anni. Adesso stiamo approfondendo appunto queste indagini. Abbiamo trovato anche fonti scritte che provano l’esistenza di altre realtà rispetto a quella di Milano, altre botteghe in Italia, precisamente a Firenze e Roma, e di una attiva a Parigi. Quelle di Firenze e Parigi hanno aperto e chiuso nell’Ottocento, mentre quella di Roma ha chiuso in tempi recenti, alla fine degli anni Novanta. Quest’ultima, che si trovava in Piazza di Spagna, era un’attività già indipendente e venne anche ricordata nelle memorie di Giorgio de Chirico come una delle sue librerie preferite di Roma.
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Lei ha qualche relazione con la famiglia Bocca? No, nessuna. La gestione di questa libreria a Milano ha avuto come proprietari i Bocca fino all’inizio del Novecento. In seguito è stata gestita da altre quattro famiglie: i Dumolard, i Calabi che, per scappare a causa delle leggi razziali, l’hanno ceduta ai Mauri e infine i Lodetti. Noi siamo la quinta famiglia nella gestione di questa storica attività. La famiglia Bocca, che aveva dato origine alle librerie, ha chiuso l’attività di editoria a metà Novecento, intorno al 1956. L’ultimo catalogo di vendita delle edizioni Bocca è appunto del 1952. Poi c’è stata una chiusura semplicissima, non fallimentare, con una conseguente dispersione del magazzino dei libri sul mercato. Quando era di proprietà della famiglia Mauri ha mantenuto il nome Bocca, ma era una libreria generica. Quando invece è passata a mio padre nel 1978, è diventata una libreria specializzata in libri d’arte. Poi questa specializzazione l’abbiamo proseguita io e i miei fratelli ed è migliorata negli anni, infatti oggi rappresenta un unicum nel settore perché vendiamo tutte edizioni d’arte prevalentemente monografiche di artisti antichi e moderni e cataloghi italiani e internazionali.
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Da chi è composta la vostra clientela? La nostra clientela è composta prevalentemente da addetti ai lavori, quindi studiosi, mercanti, galleristi e appassionati. Ultimamente è una clientela composta anche da gente di passaggio. Prevalentemente i nostri clienti oggi come oggi sono stranieri, infatti abbiamo libri in diverse lingue come inglese, francese e tedesco.
A Milano la libreria Bocca è sempre stata qui in Galleria? No, la libreria Bocca arriva in Galleria nel 1930. Essendo la galleria del 1864, inaugurata nel 1865, prima la libreria era in Corsia dei Servi, ovvero l’attuale Corso Vittorio Emanuele. In una fotografia storica d’archivio, si può vedere da un lato della strada la libreria Bocca e dall’altro la Hoepli, che poi si trasferisce in via Hoepli e compra l’intero palazzo. La Bocca invece si trasferisce qui in Galleria proprio in questo spazio nel 1930, dove precedentemente si trovava un’altra libreria.
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In questa posizione con Feltrinelli, Mondadori e Rizzoli così vicine, come vi sentite? Paradossalmente lavoravamo meglio prima quando c’erano altre tre librerie qui, perché la Galleria era un punto di ritrovo anche per chi voleva comprare i libri. Ad esempio quando proprio qui davanti si trovava la libreria Duomo, con tre vetrine su tre piani, si lavorava di più. Chi doveva comprare un libro avendo sette o otto punti vendita e quindi veniva comunque in Galleria. Adesso quel cliente si è perso. In Galleria ci siamo ancora noi con la nostra specializzazione, quindi chi viene, viene proprio per noi. E ormai Rizzoli e Feltrinelli attirano, ma non più di tanto perché si è più comodi ad andare in altre sedi in cui ti puoi fermare davanti con la macchina, mentre qua devi prendere i mezzi. Sentiamo la mancanza di altre librerie, poiché attiravano più gente. Ad esempio con la libreria di fronte, io facevo anche cambio merce. Ai miei clienti abituati a venire qui perché appassionati di libri d’arte, spesso procuravo loro anche dei romanzi. Avveniva una sorta di scambio, perché era una libreria comunque grande, ma gestita in autonomia, non una grossa catena come Feltrinelli o Rizzoli, con cui uno scambio del genere sarebbe impossibile. Infatti con loro, nonostante ci conosciamo, non abbiamo cambi. Quindi a me la mancanza di piccole realtà, librerie indipendenti, gestite in autonomia come potrebbe essere questa, crea anche dei problemi nella gestione. Anni fa infatti avevo dei clienti che venivano qua e compravano solo romanzi, perché io li rifornivo rapidamente andando di fronte. Adesso questo tipo di cliente l’ho perso.
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Come vivete il momento?
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È come se fosse una navigazione a vista: siamo su una nave e dobbiamo cercare di ovviare la zavorra immaginaria, cioè i costi, e vivere a vista. Questa libreria è viva, vitale, puntiamo ancora sul libro, ci crediamo ancora e compriamo tante copie di libri, anche di edizioni molto pregiate. Il nostro cliente non è il cliente abituale, perché qui si possono trovare anche libri da dieci euro, però la maggior parte di essi non è che sia costosa, ma sono proprio degli strumenti di lavoro e quindi diventa un acquisto particolare. Perciò ha bisogno del cliente di nicchia, non di quello di passaggio. Poi può arrivare l’appassionato, l’amatore che vede un bel libro e lo compra anche se costa, però è molto più difficile. Il nostro cliente è uno su un milione: deve avere talmente tante caratteristiche che non si fermano all’aspetto economico. È una questione di interesse, di passione, di desiderio in quel momento e tutte devono essere insieme in quel determinato istante, quando uno entra da quella porta. Se manca una di quelle non fai la vendita. Ogni libro è una magia. Una magia che non ho solo io, perchè i miei libri potenzialmente ce li hanno tutti perchè sono comunque edizioni tra le cento e le mille copie,
quindi in cento potrebbero averli. L’unicum è il posto, lo spazio, la posizione, la storia della libreria, il fascino degli arredi, la stratificazione degli anni. La magia è l’ambiente. Se non ti “becco” qui, non ti “becco” da nessun’altra parte. Quindi negli ultimi anni io gioco proprio su questo, sul luogo. Ho cambiato l’impianto elettrico, ho cambiato la vetrina recentemente e questo pavimento l’ho fatto tre mesi fa. Continuo a creare quella magia che solo qua dentro riesco a creare. Però se tu qua dentro non vieni, è difficile; è un canto della sirena, deve attirare. Se c’è un progetto allora c’è potenzialità e possibilità. Infatti abbiamo delle partnership, delle sinergie di lavoro, in cui ognuno dà quello che può dare gratuitamente e si creano delle cose bellissime. C’è un progetto, c’è un’idea e ci sono aziende che sono disposte a mettere insieme ognuno le proprie forze per la cultura, creando degli eventi bellissimi. Poi vai al nocciolo della questione e l’evento non è costato e crea invece lavoro e movimento.
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“Siamo su una nave e dobbiamo cercare di ovviare la zavorra immaginaria, cioè i costi, e vivere a vista.”
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In questo momento entra un potenziale cliente: “Buongiorno, è una libreria di?” “Arte, solo arte.” “Solo arte… e una libreria tipo Feltrinelli?” “Proprio qua sotto c’è Feltrinelli, dopo il Biffi ci sono le scale. Oppure in fondo alla Galleria c’è Rizzoli.” “Grazie!” “Prego, si figuri!” Questo è il cliente medio. Poi ci dicono che siamo sempre pieni, quando invece sono le guide turistiche che ormai vengono dentro a far vedere il posto, a visitare, a guardare. E anche questo fa parte del commercio, meglio che venga vista e che lasci un bel ricordo, così poi magari tornano e vedono qualcosa che gli interessa.
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Abbiamo visto che gestisce il negozio insieme a sua sorella. Come credete di portare avanti la bottega? La gestione è familiare, si litiga per qualsiasi cosa, ma questo è normale e fa parte anche della vita di questa libreria. Continuare e cercare di andare avanti sempre in un mare di problemi, come tutte le realtà. Da un po’ di anni la libreria punta molto sul brand, perché è il futuro soprattutto in una posizione così. Fosse stata in un’altra posizione avrei puntato su altre cose. Poi ci sono tante idee, adesso è partita quest’ultima sul “Profumo di libri” di cui ho già fatto realizzare dei campioni. Ma anche qui cerco uno sponsor per la distribuzione. Se tu hai un buon prodotto, ma alla fine non riesci a comunicarlo alla gente è finita. Sto cercando di convincere un potenziale partner in modo tale da avere una potenziale distribuzione del prodotto molto più ampia di quella che potrebbe essere la mia. Quindi c’è già l’idea, c’è già il progetto, c’è già il prodotto, serve una produzione più ampia. Esci anche con la cosa giusta, ma esci male, è meglio non uscire. Le idee non mancano. Quindi siete legati al passato ma con lo sguardo sul futuro? Siamo molto legati al passato, ma come vedi lo porto molto avanti. Questa luce l’ho inserita cinque mesi fa, come una parte della vetrina e questo pezzo di pavimento in legno che tutti mi chiedono se è originale dell’epoca. Tutti interventi recentissimi che in questo contesto stanno bene. Anche dietro al bancone abbiamo aggiunto circa un anno fa una storia per immagini della libreria con le piantine delle sedi di dov’era la libreria Bocca a Firenze, Roma, Parigi e Milano. Continuiamo a stratificare e rinnovarci.
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Bar storici Il loro mito, la loro ragione di vita
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Negli anni Ottanta i giornalisti definivano la città come Milano da bere. Quest’espressione è ormai tramontata, ma Milano resta ancora la capitale italiana di uno dei riti più italiani che ci siano: l’aperitivo. Oltre a questa particolarità, Milano presenta alcune realtà storiche legate al mondo dei bar. Il Bar Jamaica, il Camparino in Galleria e il Bar Magenta sono alcuni di questi.
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Bar Jamaica Situato nel cuore del quartiere di Brera a pochissimi metri dall’Accademia, è da sempre il ritrovo degli artisti e degli intellettuali della scena milanese. Famoso in tutto il mondo per le frequentazioni di intellettuali del calibro di Giuseppe Ungaretti, artisti come Piero Manzoni e Lucio Fontana e fotografi come Mario Dondero e Uliano Lucas.
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A sinistra: una delle cartomanti in Brera. A destra: l’insegna del Bar Jamaica.
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Il bancone del Jamaica ha visto anche personaggi politici molto importanti per la storia italiana dell’ultimo secolo. Infatti proprio al Jamaica Benito Mussolini era solito bere il caffè quando militava ancora nel Partito Socialista. Qualche decennio più tardi, sull’onda della Milano da bere, un assiduo frequentatore fu un altro socialista: Bettino Craxi. Oggi il bar viene considerato quasi come un tempio dell’arte dal momento che si susseguono mostre e presentazioni artistiche.
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NASO Una delle opere artistiche esposte all’interno del bar.
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Camparino Altra storia e altre frequentazioni per il Camparino in Galleria. Nato nel 1867 come bottiglieria su geniale intuizione di Gaspare Campari. Inizialmente aveva sede all’angolo opposto a dove ha sede oggi, dove attualmente c’è Motta. Nel 1915 il figlio Davide, primo cittadino milanese a nascere in Galleria, decise di aprire il bar Campari e così si trasferì nella sede odierna. La sua clientela è particolarmente eterogenea. Vista la posizione molti turisti lo scelgono per una pausa con vista su piazza Duomo, ma molti volti noti sono stati visti dal meraviglioso bancone. Da Vittorio de Sica ai fratelli De Filippo passando per i tenori della vicina Scala. Inoltre il Camparino ha anche un suo giro di habitué milanesi.
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Il Bitter Campari è un liquore alcolico ottenuto dall’infusione di erbe amare, piante aromatiche e frutta in alcol e acqua. Molti hanno provato a indovinare il numero di ingredienti: alcuni dicono siano 20 o 60, e altri ancora ritengono che gli ingredienti siano 80. Ad oggi, alcol e acqua sono gli unici ingredienti conosciuti di questa speciale e segreta ricetta. Il colore rosso vibrante, l’aroma intenso e il distintivo gusto amaro lo rendono estremamente versatile, e la base di alcuni dei piÚ famosi cocktail al mondo.
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Bar Magenta Il Bar Magenta fin dal 1907 è senza ombra di dubbio sinonimo di aperitivo, che si dice sia nato qui, e soprattutto di milanesità. Da quell’anno si sono susseguite dodici gestioni differenti. Oggi il Bar Magenta viene ricordato come una delle culle delle rivolte del ‘68 a causa della sua vicinanza con una delle università più coinvolte: la Cattolica. Viene tuttora frequentato da studenti e gente di tutte le età. È segnalato anche su molte guide turistiche ed è perciò una delle mete predilette dai turisti, dal momento che si trova in prossimità di Santa Maria delle Grazie.
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I bar perciò non vivono momenti di crisi, ma al contrario continuano a tener testa ai cambiamenti della città. Per certi versi si può quasi dire che queste tre differenti realtà siano accomunate dalla tradizione e dal mito che si sono costruite nei decenni passati. È questo che le mantiene in vita.
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Ditta Guenzati Il cuore milanese che batte british
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Signor Luigi Fondata nel 1768 a due passi dal Duomo, la Ditta Guenzati rappresenta il negozio più antico di Milano e una delle prime imprese su territorio nazionale ad essere stata insignita del titolo di “bottega storica”. Specializzata in tessuti, abbigliamento e accessori anglosassoni da due secoli e mezzo, è stata votata come Luogo del Cuore da tantissimi italiani.
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Questo è il primo negozio, o forse dovremmo chiamarla ditta, di Milano? Esattamente, siamo il negozio più antico dell’intera città. Nell’insegna venne chiamata ditta e non semplicemente negozio perché a fine Settecento si usava chiamare così le aziende. Qua vicino c’era un certo Pedraglio, che a suo tempo era stato un dipendente della Guenzati e poi ha aperto proprio con il nome di Ditta Pedraglio. Probabilmente era una moda del tempo. Lei è un discendente della famiglia Guenzati? No, non ho nessun legame. La particolarità di questo negozio è che nel corso del tempo è stato gestito da tre nuclei familiari diversi. Hanno iniziato i Guenzati nel 1768, poi è stato ceduto alla famiglia Comegno e in seguito ai Ragno insieme ai Moretti, che poi si sono ritirati e quindi oggi è in mano solo alla famiglia Ragno. La continuità c’è stata per il semplice motivo che questa azienda non è mai stata venduta, ma è sempre stata ceduta gratuitamente ai commessi più meritevoli. La merce di scambio era gratis, ma bisognava mantenere il nome negli anni, che poi sono diventati secoli.
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Siete sempre stati qui? Sempre qui, noi siamo sempre stati qui. In realtà noi siamo nati e cresciuti qua di fianco dove ora c’è Venchi, finché è esistita la casa Guenzati. Poi è stata acquisita dalle Assicurazioni Generali e negli anni ‘60 è stata demolita, quindi noi ci siamo dovuti spostare praticamente di cinque metri, perché non esisteva più la casa storica. Cosa vende la Ditta Guenzati? Quali sono i vostri prodotti più emblematici? Fin dalla sua fondazione, la Ditta Guenzati ha sempre venduto un prodotto particolare, dal sapore british: il tartan. In seguito partendo da questo è venuto tutto il resto: le cravatte, le sciarpe, gli ombrelli e tutta la moda che ne orbita attorno. In questo negozio nel Settecento e nell’Ottocento non esisteva il confezionato, tutti si compravano la stoffa e poi andavano dal sarto a farlo confezionare. Solo negli anni ‘60 con l’ultimo passaggio dai proprietari ai commessi si è pensato di ringiovanire un po’ un commercio diventato statico e sempre più decadente. Come è nata l’idea di non vendere solo un prodotto, ma un’intera esperienza “British”? Mio padre dopo un viaggio in Inghilterra rimase talmente affascinato dal costume e dalle tradizione scozzese, che da quel momento in avanti la presenza del prodotto anglosassone in Ditta Guenzati è stata più marcata. A quel punto si è voluto sviluppare l’accessorio, come cravatte, papillon, cappelli, visto che già allora il commercio dei tessuti andava un po’ scemando.
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Com’è composta la vostra clientela? Potrebbe sembrare molto particolare, però, se devo essere sincero, visto e considerato proprio la tipologia di articoli che trattiamo, ovvero articoli particolari solo per quanto riguarda la fantasia e i colori, la clientela è la più varia. La sciarpa scozzese ad esempio viene indossata da tutti. Se prima i cappelli erano per il papà o per il nonno, oggi sono diventati a tutti gli effetti un accessorio che indossa chiunque. Da quando io sono venuto a lavorare qui l’età media dei clienti è decisamente crollata perché prima si aveva a che fare con persone anziane. Questa sorta di rinnovamento, iniziato a partire dagli anni Novanta e perpetuatosi negli anni, fa capire il motivo per il quale dopo duecentocinquant’anni siamo ancora qua.
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Tutti i vostri prodotti sono “made in England” e “made in Scotland”. Come funziona l’acquisto e l’importazione delle merci? Le comprate direttamente dalle aziende o vi rivolgete ad un grossista? Mio padre acquistava le merci da un grossista che veniva qui in negozio a mostrargli il campionario. Era un passaggio che incideva molto sul prezzo di vendita. Oggi noi compriamo tutto direttamente dalle aziende che sono le stesse da cui ci serviamo da circa quarant’anni. I prodotti che abbiamo noi arrivano tutti da Gran Bretagna e Irlanda. Come state vivendo la Brexit? Potrebbe avere delle ripercussioni sulla vostra attività? Questo non ci è ancora chiaro perché non abbiamo avuto informazioni a riguardo. L’unica cosa che abbiamo notato è stato a livello bancario un cambiamento: non sono cambiati i costi, ma i modi di gestire i pagamenti. Non so se verranno introdotti dei dazi, essendo un caso così nuovo. Darà sicuramente un impulso alla Scozia per ribadire ancora il referendum sull’indipendenza del 2014 che aveva visto la vittoria del “no”, nonostante tutti i fornitori e le persone che lavorano presso le aziende che ci servono non si spiegavano come fosse potuto succedere. Oggi con il fatto che gli scozzesi vorrebbero rimanere nell’Unione Europea e invece la Gran Bretagna è uscita, nel giro di poco tempo assisteremo ad un nuovo referendum scozzese.
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Qual è il vostro articolo più forte? In questo momento i cappelli. Ma il nostro biglietto da visita rimane comunque lo scozzese che poi può essere realizzato sul kilt, sulla sciarpa, sulla cravatta, sulla mantella o sull’ombrello.
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Come vedete il vostro futuro? Oggi il nostro dispiacere vive nell’incertezza del fatto di dover andare avanti qui in questo luogo. In tanti hanno parlato, ci ha sponsorizzato il FAI, arrivando al quinto posto dei Luoghi del Cuore 2017 in tutta Italia. Successone che non si aspettava nessuno, in primis noi. Siamo molto emozionati e commossi dall’affetto della gente e dei nostri clienti. Purtroppo in questo momento non riusciamo ad investire come ci piacerebbe sulla varietà di tartan. Ad esempio, fino a dieci anni fa avevamo un catalogo che comprendeva oltre 180 tipologie di tartan. Ora ne abbiamo appena un terzo. In Scozia questo problema non si pone: le aziende produttrici continuano a seguire la tradizionale lavorazione. Per gli scozzesi il tartan non è una moda passeggera, ma un marchio di appartenenza e di famiglia. Che rapporto avete con la città di Milano? Vi sentite parte di essa o una piccola enclave al suo interno? Direi entrambe le cose, perché bisogna pensare che comunque questa impronta da noi è stata mantenuta, ma negli anni ‘70, quando è scoppiato il boom del british style a Milano, di negozi come il nostro ce n’erano tanti. Anche quelli che non vendevano il tessuto, ma la confezione, erano molto marcatamente british. Pur essendo presenti sul territorio con lo stesso prodotto, eravamo comunque decisamente diversi e oggi con la scrematura che c’è stata se ne contano davvero pochissimi.
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Negli ultimi anni il tartan è ritornato di moda. Come avete vissuto questo avvento? Vedete dei concorrenti nelle grandi catene di fast fashion? Noi acquistiamo solo tessuti di qualità molto alta, così da sapere con certezza quello che vendiamo al cliente. La gente tante volte viene da noi proprio perché raccontiamo il prodotto che vendiamo. Purtroppo oggi il concetto più diffuso è quello dell’usa e getta, con materiali che costano poco ma che durano meno. Questi negozi resistono nel momento in cui fai capire alla tua clientela di passaggio o fissa che il prodotto che portano a casa è destinato a durare, che ti dà soddisfazione, che non è l’oggetto usa e getta che oggi la globalizzazione ci vuole propinare. In questi anni si è capito il messaggio che è arrivato da una certa parte dell’industria che produce l’usa e getta e che ha fatto sparire la qualità, attraendo il cliente grazie a prezzi molto bassi. Oggi nessuno, se non ha alle spalle una tradizione come la nostra, ti racconta che cos’è il prodotto e qual è il suo valore. Non è il semplice meccanismo del prendi e vai alla cassa, ma è la dimensione della bottega in sé e del rapporto con il venditore: è questo il nostro valore aggiunto.
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Tartan Tessuto di lana e disegno scozzese usato per confezionare i kilt o altri capi di abbigliamento come gonne o soprabiti. Si presenta a grossi quadri e linee parzialmente sovrapposti, di colori vivaci e contrastanti fra loro. In origine, a ogni clan, in cui si suddividevano le maggiori famiglie scozzesi, corrispondeva un ben determinato disegno e colore.
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Ottica Aspesi Le botteghe storiche vanno salvate?
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Signor Antonio L’Ottica Aspesi nasce nel 1910 come negozio di articoli sanitari di fronte alla Ca’ Granda, il primo ospedale di Milano. Negli ultimi anni sta vivendo dei momenti di crisi anche a causa della sua posizione. La Ca’ Granda infatti dal 1923 è diventata l’Università degli Studi di Milano, la Statale. Aspesi viene segnalata dal Comune di Milano, dalla Camera di Commercio e dalla Regione Lombardia come una delle botteghe storiche milanesi più longeve.
Il signor Antonio, attuale proprietario dell’Ottica Aspesi.
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“I registri di questi enti sono pieni di botteghe che vengono definite storiche. Ma quante di queste sono ancora nelle mani della famiglia fondatrice? Forse meno della metà”. Esordisce così il signor Antonio, attuale titolare dell’ottica Aspesi, sulla questione delle botteghe storiche. Il suo pensiero ap-
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pare subito molto forte e deciso. Secondo lui infatti gli elenchi della Regione, della Camera di Commercio e del Comune sono piene di false realtà storiche. Il requisito minimo per candidarsi è l’avere più di cinquant’anni di attività alle spalle. L’Ottica di via Festa del Perdono è in tutti e tre i registri. “Sia-
mo stati selezionati da tutti e tre gli enti, senza che a me importasse di essere segnalato come realtà storica. Che cos’ha il mio negozio di storico? Ha visto due guerre e la nascita della Repubblica ma non ha vissuto sulla sua pelle nulla di rilevante in termini storici. Non siamo come la Latteria Pfund di
Dresda che è sopravvissuta ai bombardamenti del ‘45 o come la cappelleria Lock Hatters di Londra. Ha più di tre secoli ed è ancora gestita dagli eredi della famiglia”.
Quando si chiede il perché di questo astio nei confronti dei registri storici il signor Antonio ci pone davanti ad una questione socio-politica. Egli infatti ci spiega che questi registri vengono ampliati a ridosso delle elezioni. In questo modo il Comune oppure la Regione cercano di accaparrarsi dei voti. “Il Comune o la Regione o anche la Camera di Commercio ogni anno promuovo a botteghe storiche centinaia di negozi. Non fanno nient’altro, non si occupano dei nostri problemi. Siamo una realtà abbandonata da tutti”. Il signor Antonio fa un esempio a riguardo: “Vi ricordate di Fiorucci a San Babila? Ecco, Fiorucci era una realtà da salvare perché ha avuto un ruolo sociale molto importante per la città di Milano. Entrare da Fiorucci voleva dire viaggiare e visitare un museo senza fare nulla di ciò. Il mio negozio come molte altre realtà storiche non hanno portato un cambiamento così radicale, perché dovrebbero salvarci? Nel mondo del commercio non esistono dei panda da salvare. È fisiologico morire e scomparire”.
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“Nel mondo del commercio non esistono dei panda da salvare. È fisiologico morire e scomparire.”
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Dal punto di vista economico, l’Ottica Aspesi sta affrontando una dura crisi economica. “Non abbiamo più clienti. Noi produciamo occhiali di alta qualità. Qui non entrano i migliaia di studenti della Statale”. La clientela dell’Aspesi appare molto omogenea. Fin dagli anni ‘50, decennio di rinnovamento per questo ne-
gozio, i clienti che vi si rivolgevano erano intellettuali, spesso professori della Statale. Umberto Eco era uno dei clienti più celebri del negozio. “Si faceva fare gli occhiali solo da noi. Ma da quando è venuto a mancare non abbiamo avuto un cliente che lo sostituisca: sua figlia vive a Roma e il figlio non ha bisogno di occhiali.
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Capite perché non abbiamo clienti?”. Altro cliente degno di nota è il celebre fotografo Oliviero Toscani. “Io e Oliviero siamo amici di vecchia data. Ogni anno a Natale mi manda delle cartoline con qualche suo celebre scatto”. Parlando con il proprietario veniamo a scoprire che gli occhiali del fotografo sono uno dei
motivi grazie ai quali il negozio riesce ad andare avanti. “Gli occhiali che facciamo per Toscani costano quasi duemila euro. Questo è quello che intendevo dire prima: non vendiamo occhiali per tutte le tasche”. Per concludere la sua riflessione sulla scarsa clientela il signor Antonio ci fa l’esempio del teatro. “La clientela
è l’aspetto interessante della bottega. È un po’ come uno spettacolo teatrale che è fatto dagli spettatori, non dagli attori. Sono solo i clienti che fanno la bottega storica. Se la clientela si rinnova, in maniera consequenziale si rinnova anche l’attore. Se invece la platea inizia a svuotarsi, l’attore non ha più nulla da dare”.
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Il signor Antonio, come tutti i gestori di realtà autonome, vede nella grande distribuzione un nemico contro cui è superfluo combattere. “I tempi sono cambiati da quando mio nonno ha aperto questo negozio. Viviamo nel mondo del consumismo, corriamo dietro alle mode del momento. La grande distribuzione è stata inevitabile. Ed è inevitabile anche la fine di realtà autonome e storiche. Siamo come Davide contro il gigante Golia, ma questa volta Davide non ha con sé
nessun’arma. Non ha senso cercare di lottare contro di essa.” Perciò cosa ne sarà dell’Ottica Aspesi? Andrà avanti o chiuderà in breve tempo? “Andrà a loro. Il futuro sono loro e sono tutti questi giovani che frequentano l’universtà. Ai giovani non importa della storia, loro faranno la storia come a suo tempo la fece il negozio.” Mentre lo dice indica una delle cartoline regalo dell’amico fotografo. “Con molta probabilità chiuderà. Non ho figli, perciò non ho
eredi a cui lasciare l’attività. Io sono ormai stanco di lottare contro tutti i problemi e debiti che ho sulle spalle. Mi piacerebbe chiudere la saracinesca una volta per tutte e lasciare così il negozio, fermo nel suo tempo con quel suo arredo kitsch. Ma so bene che non andrà a finire in questa maniera romantica. Chiuderemo e al nostro posto entrerà una delle attività che vanno di più in questo quartiere universitario, magari un bar oppure un panificio”.
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Pasticceria Marchesi Un mix di professionalità e tradizione, il risultato del cambio gestione moderno
La questione affrontata più volte attraverso gli articoli precedenti è quella di una realtà milanese che sembra essere, in alcuni casi, non allo stesso passo della modernità della medesima città. Nel caso della pasticceria Marchesi, possiamo toccare con mano la tradizione portata avanti dalla bottega storica, supportata da una gestione non più a carico dello stesso negozio, ma ad opera di una multinazionale.
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Infatti il 14 marzo 2014 Prada annuncia l’acquisto dell’80% della storica pasticceria milanese Marchesi, dopo aver tentato senza successo di acquisire Cova nel 2013, che ha ceduto l’80% delle sue quote al colosso francese del lusso LVMH per 32,8 milioni di euro. Ci troviamo davanti all’ibrido commerciale per definizione. Una grande multinazionale come Prada compra una pasticceria, allo scopo di avere entrate costanti e più frequenti. Il settore alimentare rispetto a quello della moda è più incline a spese giornaliere, piuttosto che a capitali maggiori spesi meno frequentemente nelle boutique di moda. Il messaggio di Prada è chiaro: mantenere una delle eccellenze italiani più famose all’estero, quella della pasticceria, rimanendo ancorati alla tradizione, ma gestita con un’ottica aziendale.
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“ Abbiamo la fortuna di poter stabilire in fretta un rapporto di fiducia con le persone, in modo che siano spinte a tornare volentieri.�
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Il direttore della pasticceria Marchesi in corso Magenta ci conferma quanto detto prima. La grande multinazionale ha permesso alla bottega di portare avanti la tradizione pasticcera durata ormai due secoli, con il privilegio di poter essere amministrati dal gruppo Prada, senza però dover rinunciare alla qualità. Cosa è cambiato in termini di clientela dopo l’acquisto del gruppo Prada della pasticceria? In pratica nulla. Sulla carta abbiamo cambiato nome, ma siamo sempre rimasti un sinonimo di qualità nel quartiere. È vero all’inizio c’è stata diffidenza ma superato il primo scoglio, le persone si sono rese conto della bontà dei nostri prodotti e hanno continuato a comprarli. Quindi vi affidate maggiormente alla clientela del quartiere? In realtà la situazione è abbastanza variegata. Indicativamente gran parte dei nostri clienti sono lavoratori della zona, si tratta di persone di un certo livello. Vengono qui al mattino o in pausa pranzo, molto spesso con frequenza. Abbiamo la fortuna di poter stabilire in fretta un rapporto di fiducia con le persone, in modo che siano spinte a tornare volentieri. Un’altra fetta di clienti è composta dagli abitanti della zona, che comunque avevamo prima e che sono rimasti senza molti indugi. Il settore in aumento è quello turistico. Siamo stati citati in alcune guide, determinando così una clientela maggiore, soprattutto nei periodi festivi.
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Ci troviamo all’ora di punta in pasticceria e si nota che la porta di ingresso viene aperta in continuazione. I clienti entrano, consumano ed escono. Riusciamo a scambiare qualche parola con qualcuno di loro. Viene spesso qui alla Pasticceria Marchesi? Quando posso, vengo sempre. Abito in zona ma lavoro da tutt’altra parte.
È una cliente storica quindi? Sì, da quando mi sono trasferita a Milano e ho conosciuto questo piccolo tesoro. Che cosa ne pensa dell’acquisizione da parte del gruppo Prada? Ho sentito che tempo fa è stata comprata dal gruppo di Prada, e in quel momento mi sono un po’ risentita, ma provando effettivamente
che a livello dei prodotti non era cambiato nulla sono rimasta fedele. In fin dei conti anche Prada è una bottega storica, per quanto ne so, è sempre stata legata alla tradizione e alla città di Milano. Quindi se proprio doveva essere ceduta, credo che la gestione di adesso sia perfetta. Riscontrando poi che nulla è cambiato, hanno fatto la mossa giusta.
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Alcuni dati ll fatturato annuo delle aziende interessate ad acquisizioni estere e non è pari al 7% del Pil, mentre i dipendenti coinvolti oggi sono 916mila, stando ai dati Confindustria. Gli investimenti hanno raggiunto il 13% del totale Italia, la spesa in ricerca e sviluppo il 23%, l’export il 25%. L’Italia è al quarto posto in Europa come investimenti diretti esteri, con una media annua 2010-14 di 16 miliardi contro i 24 della Francia, i 32 della Spagna e i 56 della Gran Bretagna. Dieci miliardi di investimenti esteri in Italia, calcola sempre la Confindustria, generano uno 0,23% di crescita strutturale del Pil.
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Allo stesso modo una famiglia di turisti sembra aver gradito una sosta all’interno di Marchesi, ed esce dopo aver consumato con qualche prodotto da portare a casa. Conoscevate la pasticceria Marchesi o l’avete trovata in una guida? L’abbiamo trovata su due o tre guide, allora abbiamo deciso di andarci. Eravamo qui per visitare alcuni posti in zona. Questa pasticceria è famosa per avere una tradizione secolare nella città di Milano, l’avete sentita nei prodotti e nelle atmosfere? Nelle atmosfere sicuramente sì. Si respira un’aria diversa dal momento in cui varchi la porta. Personalmente ho apprezzato molto la professionalità del personale. I bar e pasticcerie adesso con i turisti si permettono di non essere sempre gentili, dal momento che si pensa che siano visitatori casuali.
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Sartoria Ferramini Tutta una vita in un museo
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Signor Antonio
La memoria contenuta tra le mura di una bottega è inestimabile. Gli anni che hanno vissuto le persone al suo interno, i prodotti venduti e l’aria che si respira rimandano a un’epoca lontana. La realtà economica italiana non può permettersi che tutte le botteghe storiche sopravvivino. Nel caso chiudano, cosa ne sarà di loro? I ricordi, l’esperienza bottegaia, la vita di un’Italia che non c’è più, che fine faranno?
Il sogno del signor Antonio Ferramini era quello di aprire un’attività a Milano per poter sostenere una vita agiata facendo ciò che sapeva fare meglio. Proviene dall’Abruzzo e all’inizio del Novecento ai bambini si insegnava a fare il calzolaio o il sarto. Lui scelse la seconda strada e adesso la sua bottega sta per chiudere dopo più di quarant’anni di attività. È giusto che finisca così un’attività tanto rappresentativa per l’Italia? Che ha costruito così tanto la sua immagine e che la rappresenta persino all’estero?
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Antonio Ferramini mostra la collezione di ditali esposta in vetrina.
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La vita della bottega è stata densa e produttiva. È sopravvissuto a guerre, a cambiamenti radicali del quartiere e della città. Al momento della sua apertura era circondato da altre realtà simili: una macelleria a lato della sua vetrina, negozi di alimentari, calzolai. Adesso è completamente cambiato. Al posto di quella macelleria ora c’è un ristorante americano che prepara hamburger. L’uni-
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ca realtà che sopravvive è il bar Magenta. Ora il signor Ferramini sta chiudendo e il suo volere è quello di lasciare tutto ciò che rimane della bottega ad un museo. Il suo pensiero ci è chiaro: “Perché tenere tutto per me?” oppure “Perché lasciarlo ai miei figli dividendolo? Ho raccolto tutto questo materiale in molti anni di lavoro, non avrebbe senso vanificare tutto ora”. Il suo lavoro, i suoi insegna-
menti saranno disponibili per tutti coloro che visiteranno il museo; ciò che non sarà più disponibile è invece la creatività della sartoria. Tutto ciò ha risentito della grande distribuzione, dell’esigenza dell’uomo di affidarsi a processi più veloci, che riescano a soddisfare in maniera immediata un desiderio che però subito dopo si manifesterà di nuovo. I processi appartenenti alla bottega non hanno nulla a
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che fare con tutto ciò. Sono più lenti, mettono al centro la qualità del prodotto, non la sua quantità. Si concentrano sui materiali migliori, su come sprecare meno e come poter utilizzare al meglio ciò che si ha disposizione.
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Un paio di forbici della vasta collezione del Signor Antonio.
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L’eredità bottegaia a cui faccio riferimento prima è anacronistico pensare possa essere ancora parte della vita dell’uomo moderno, è vero. Ma se non fosse così, come sarebbe? Una realtà come la sartoria Ferramini probabilmente non chiuderebbe, non dovrebbe cedere i suoi averi ad un museo. Forse saremmo tutti più attenti alla qualità di ciò che ci circonda, meno superficiali, meno frettolosi. E molto probabilmente saremmo tutti vestiti molto meglio.
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Drogheria Grossi Dove si trova l’introvabile
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Signor Vittorino All’incrocio fra via Carducci e corso Magenta, a pochi passi dal mitico Bar Magenta e alle spalle della Legatoria Conti Borbone si trova una delle drogherie più antiche della città: la Drogheria Grossi. Un luogo antico, con le pareti piene di cassetti di legno scuro e barattoli di caramelle sfuse.
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Il negozio risale agli anni Venti: da sempre drogheria, dell’epoca resta intatto l’arredo in stile liberty, mantenuto dagli ultimi proprietari che dal 1976 tengono viva la tradizione. Grossi è un punto di riferimento per quanto riguarda i prodotti per la casa e per i tè sfusi, di cui ne propongono più di trecento tipi. Il signor Vittorino, l’attuale proprietario, ci dice infatti “Vendiamo prodotti ormai introvabili in qualsiasi altro negozio”. Altro motivo per cui è famosa fra i milanesi è per una tradizione ormai scomparsa: le confezioni pregiate. Infatti sotto il periodo natalizio il negozio si riempie di persone alla ricerca di confezioni e prodotti molti particolari.
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“ Vendiamo prodotti ormai introvabili in qualsiasi altro negozio.�
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Entrando i profumi e gli aromi trasportano il cliente in un mondo fatto di ricordi d’infanzia. Qui infatti si vendono alcuni dei prodotti più iconici del made in Italy come le caramelle Leone, vendute sia sfuse che confezionate, i pettini e gli spazzolini Acca Kappa o il sapone Valobra. Vicino a questa merce dal forte aspetto vintage convivono prodotti più diffusi e moderni, come ad esempio i succhi di frutta oppure i tè in bustina dei marchi più distribuiti.
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La drogheria ha una clientela molto eterogenea, ma viene perlopiù frequentata dagli abitanti del quartiere Magenta, che come ci spiega il signor Vittorino, l’attuale gestore, sono molto attenti alla qualità dei prodotti. Oltre a questi, molti sono i lavoratori del quartiere che frequentano il negozio di corso Magenta. Il signor Vittorino non vede nella grande distribuzione un nemico impossibile da sconfiggere, ma anzi la considera un’evoluzione necessaria per quanto riguarda i consumi dell’uomo.
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Cartoleria Tipografia Bonvini La fenice della cancelleria 151
Signor Edoardo A pochi metri dal movimentato corso Lodi si trova la storica Cartoleria Tipografia Bonvini. L’attività aprì nel lontano 1909 grazie alla geniale intuizione di aprire un’attività commerciale di questo genere vicino ad uno degli insediamenti industriali più importanti di Milano. A poche centinaia di metri sorgeva infatti la TIBB che fu una delle prime e più assidue clienti della cartoleria.
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La cartoleria attualmente non è più nelle mani della famiglia Bonvini che nel 2011 ha dovuto chiudere l’attività per mancanza di eredi. Venne rilevata e salvata da un gruppo di amici con la passione per la cancelleria di nicchia. Incontriamo il signor Edoardo, l’uomo a capo di questo gruppo.
La prima cosa che ci racconta è la storia della nascita dell’attività datata 1909. Nota curiosa: Costante e Luigia Bonvini aprirono l’attività facendo un’approfondita indagine di mercato poiché si accorsero che mancava un’attività del genere in un quartiere industrializzato come era all’epoca.
Uno degli aspetti che rende unica la cartoleria Bonvini è il suo arredo. Tutto il mobilio interno infatti fu costruito a mano da Costante Bonvini in modo che fosse a misura sua e della sorella Luigia che aveva problemi fisici. Oggi questi mobili sono stati minuziosamente restaurati dal signor Edoardo e dai suoi collaboratori.
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Oggi la cartoleria non lavora più con le industrie, ma viene frequentata da qualche anziano del quartiere e da cultori della cancelleria alla vecchia maniera. Il signor Edoardo, l’attuale gestore, ci racconta anche dei curiosi aneddoti a tal proposito. La cartoleria è infatti inserita in molte guide straniere come Mecca della cancelleria made in Italy, una delle migliori del mondo, e negli ultimi mesi si è parlato di lei su riviste a tiratura internazionale come Monocle. La sua storia viene inoltre raccontata nella nuova Bibbia degli appassionati di cancelleria: il libro “Stationery Fever” di John Z. Komurki.
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Identikit del cliente Fra i 25 e i 40 anni Formazione nel campo del design, dell’arte o dell’architettura Innamorato dell’attività manuale Nostalgico della stilografica Appassionati di cancelleria alla vecchia maniera Curioso Attento alla qualità
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Come recita la sua insegna la Bonvini non è solo una cartoleria. L’attività tipografica era particolarmente attiva nei primi decenni. La TIBB, storica cliente, ad esempio faceva stampare dalle esperte mani di Costante e Luigia i calendari aziendali, la carta intestata e i biglietti d’auguri natalizi per i dirigenti. Da quando ha riaperto, l’attività tipografica è ritornata ai vecchi albori. Di recente hanno stampato
delle brochure per Canon e degli inviti per Gucci e Prada. Il signor Edoardo ci racconta dei workshop che regolarmente si svolgono in cartoleria e sono seguiti da molti giovani. Il gestore ci racconta anche la storia della regina del laboratorio: una Heidelberg d’epoca. I fratelli Bonvini la acquistarono di seconda mano quando decisero di aprire l’attività. Oggi è ancora in funzione.
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Oltre il laboratorio c’è una piccola ma ricca esposizione di libri di typographic e graphic design e parte dei loro pezzi più particolari: gli stock di merce dello scorso secolo. Proprio questa è una delle caratteristiche che differenzia molto la Bonvini da altre cartolerie storiche.
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Da Bonvini si trovano matite d’epoca come le Presbitero, quelle rossoblu da maestra, le Nirvana naziste, le Lyra Orlov cecoslovacche, le Koh-I-Noor, le Faber-Castell, le Caran d’Ache, le Dixon Ticonderoga, le Venus e le Templar, quelle da stenografia appuntite alle due estremità per non fare pause, quelle copiative. Oltre alle matite d’antan, la Bonvini propone gomme per cancellare molto particolari. Da quelle rotonde e
sottili a quelle che cancellano anche i caratteri a macchina. Fra tutte spicca la gomma Pirelli, prodotta negli stabilimenti milanesi di Bicocca e venduta fra gli anni ‘30 e ‘50. Tutti questi prodotti sono pezzi originali dell’epoca che hanno rivisto la luce quando la Bonvini ha gloriosamente riaperto nel 2015. Ma la cartoleria ha anche prodotti che sì, appartengono allo scorso secolo, ma che vengono ancora prodotti. Un esempio è la 602
Blackwing, dalla cui punta in grafite sono nati Bugs Bunny e la maggior parte delle opere di John Steinbeck. Oltre a questi magici prodotti il signor Edoardo ci mostra altri pezzi di stationary design come la cucitrice a pinza Zenith 458, dal meraviglioso design che le valse un Compasso d’oro e il temperamatite da tavolo El Casco. Altro prodotto di punta è il mitico ed intramontabile “taccuino preferito da Chatwin”: il Moleskine.
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Il signor Edoardo fa notare che molti di questi prodotti sono unici nel loro genere perché portano avanti dei valori e una storia che li contraddistingue. La Bonvini oltre a tutti questi prodotti dalla forte impronta storica vende anche inchiostri, pennini e stilografiche. Come direbbe l’ultimo erede Bonvini, Luigi Tambieri, la cartoleria ha cancelleria e “compagnia bela e inscì”. L’attività dopo il cambio di gestione è rinata come una fenice e ora vola ancora come quando nacque.
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