NARRARE a cura di Francesco Festuccia
Nicola Perchiazzi
Gocce di pioggia a Jericoacoara Rouge et Noir - Via Crucis e Tantra Nero
Ad Annamaria Daniele e Gaja che colorano i miei giorni
Un libro che non abbia Dio, o l’assenza di Dio, come protagonista clandestino, è privo d’interesse. Nicolás Gómez Dávila
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L’INCONTRO
È dolce la stagione della raccolta, quando il guardiano è lontano. Plutarco
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«Ma quanto sei strana!» Il bronzeo addetto alla piscina irruppe da chissà quale anfratto, fiondandosi tra le sdraio e gli ombrelloni strapazzati dalla pioggia con la sfrontatezza di chi vuol battere sul tempo un sole paonazzo e pieno di voglie tanto improvvise quanto prevedibili. Poi il bay-watch prestato alla terraferma cambiò di colpo marcia e, ciondolando – caracollando – tra le pozzanghere, guadagnò il bordo-vasca col piglio di chi getta l’amo per adescare uno squalo. L’occhio umido (non solo di pioggia) prese a dardeggiare il fluttuante contorno sinuoso che dava un senso all’asettico rettangolo d’acqua, col fermo proposito di colpire il bersaglio mobile al primo colpo. «Solo la pioggia o la luna riescono a fare il miracolo. Solo loro riescono a farti tuffare…» Offuscando le parole-esca e mettendo a tacere gli ultimi vagiti meteo, il sorriso (invocato) di lei fece capolino tra le increspature e il cloro, complice e promettente. Nessun indizio, niente che facesse preludere all’epilogo politicamente scorretto. Non la gimcana di labbra sulla pelle che il bagnino aveva messo in conto tra i sogni nel cassetto (insieme a qualche tuffo con la bella naiade), ma solo una risposta da brivido blu: «Ho il cuore pieno di ceneri e di scorza di limone. Andrò solo dentro me stessa. Mi troverai sempre là…» Scagliato il dardo al curaro sul san Sebastiano di turno (il bagnino), paga dell’effetto sorpresa, la bionda ondina riguadagnò il bordopiscina. Salì come da videoclip la scaletta cromata, schioccò un solare ‘ciao!’ da trailer al gallo cedrone dall’ala spezzata e, sfioratane l’epidermide bronzea (di colpo sbiancata), gli lasciò – sapore di sale – il 7
chimerico assaggio di quel suo tatuaggio sfarfalleggiante sulla pelle bagnata. Gaia era fatta così: non solo tattoo ma anche taboo. Una vita esaltata da brevi ma intensi deliri, la magia di lunghi silenzi bruscamente interrotti da taglienti ossimori, paradossi, voli pindarici, esternazioni frappant. E se qualcuno (non pochi) sostava, rapito, davanti a quest’opera d’arte (e non da tre soldi…) – un taglio di Fontana sulla tela bianca della vita – veniva immancabilmente colpito da un’inattesa sindrome di Stendhal. Gaia o dell’avventura dell’esistenza, un ossimoro vivente più che un paradosso. Tutto questo si sarebbe potuto dire – a posteriori – di Gaia (anche il nome). Ma ormai il fugace biondo oggetto del desiderio era fuori campo e a Lorenzo – il terzo silenzioso incomodo (convitato di pietra, nel vero senso del termine) – non rimase che rituffarsi nelle pagine appena lambite da una di quelle piogge lampo settembrine che il Gargano riservava ai suoi ultimi ospiti. Il turbine (anche sensoriale) era ormai passato, senza lasciare – così il buon Lorenzo pensava – tracce: lui di Gaia conosceva – e gl’importava – solo la Scienza… Al riparo, raccogliticcio, di uno dei pochi ombrelloni rimasti aperti, l’unico ‘abitato’, Lorenzo riprese la lettura, subito abortita: a braccetto col sole, ritornato master & commander del cielo, come un hobbit da pagina sei sbucò, impertinente, l’ossimoro, questo ‘carneade’ apparentemente fuori luogo in quel villaggio-vacanze così poco manzoniano (e neppure tanto tolkieniano). Queste paginette sfiorate dal pianto celeste erano la sua ultima conquista (libresca) – il tempo degli amori per Il Signore degli Anelli sembrava appartenere a un altro eone – e a Lorenzo non sembrò affatto un caso che il buon Raimon Panikkar – il teologo di frontiera (non solo Paul Tillich) cui stava facendo il filo tra un tuffo e l’altro – esordisse con quello strano termine, così calzante nell’occasione, per la bella del villaggio. Sì, ossimoro, oxymoron, questo stravagante matrimonio tra la bella oxys (affilata, appuntita e penetrante) e la bestia moros (ottusa, senza punta, molle, sciocca, folle…). Armonia fra i contrari, coincidenza 8
degli opposti. Palintropia, concordia discors, polemos eracliteo, processo e stasi. In attesa della palingenesi. E tale, almeno da quel fugace mix di figura, situazione ed insinuante esternazione, gli era subito parsa la ragazza: affilata-spuntita nella sua follia penetrante, un punteruolo nella stupidità altrui. Insomma, la punta che perfora ciò che è molle… In quel momento Lorenzo comprese anche come fosse facile passare da L’esperienza di Dio (il libro dell’ossimoro) all’esperienza di Gaia (dall’esperienza del cielo a quella della terra…). E così, rapito da questi volteggi della fantasia, ormai solo sul campo – il prato più o meno all’inglese che delimitava la piscina – e sospinto da chissà quale daimon, non trovò di meglio che tuffarsi nell’acqua solitaria ma ancora pulsante di vita: se al bagnino – ormai svanito nel nulla – la ragazza aveva prodotto l’effetto di uno shock termico, per lui, semplice e involontario spettatore del duetto, fu invece una salutare botta di vita (fosse stato Tinto Brass, sarebbe subito passato alla ‘botta d’allegria’…). Anestetizzato da questa sua sobria ebbrezza – l’ossimoro qui è d’obbligo – Lorenzo cominciò a nuotare, ora a stile libero, ora a rana, addirittura a farfalla, se non proprio a delfino (memore del luogo), incurante dell’acqua gelida, indifferente. Bracciata dopo bracciata, il suo corpo da algido (soprattutto nei sentimenti) prese a intiepidirsi, sciogliersi, rigenerarsi, mentre, accompagnati da ribollii e sfrigolii, risalivano a galla i sedimenti della misteriosa presenza di Gaia e l’eco delle sue parole sibilline. Così incomprensibili e disarmanti per il bagnino, ma così significative e pregnanti per lui: che c’entrava quel barbaglio di contro-cultura nella garganica Pugnochiuso delle vacanze politically correct? Che ci azzeccava? Chi era quella ragazza così out? Una neo-esistenzialista post-histoire in vacanza single? Cascami di New Age tra barlumi di Next Age? Scampoli del Grande Fratello? Una velina in uscita libera? Una sciampista, una stagista, una staffista? Una veltroniana free-lance? (con un Veltroni ormai infeltrito…). Infin che ’l veltro verrà… Il cervello di Lorenzo fumava nell’acqua diaccia. Fatto è che le sue ‘vasche’ furono più piacevoli del solito. Rilassanti, da training autogeno, quasi ipnotiche. Da ipnosi regressiva: ripercorse a grandi balzi la sua varia quotidianità, dai picchi (rari) del9
le esperienze delle vette – era da poco scivolato giù dalla ‘piramide’ di Maslow e vedeva tutto nero – alle depressioni (varie) della banalità del suo Sitz im Leben, il suo ambiente vitale. Come un film a ritroso – di quelli che si dice veda chi è in punto di morte, quando la corda d’argento sta per essere tranciata –, davanti a lui cominciarono a scorrere veloci i fotogrammi delle tappe più significative della sua vita (e lui non era nel cast: la riflessione di Woody Allen gli calzava a pennello – ma c’era un buco nei fantasmini di Lorenzo…). E così, tra un flash-back e l’altro, cominciò a togliersi le scaglie di dosso: in fin dei conti, non era poi tanto meno stravagante della sfarfalleggiante fanciulla! È vero, il ruolo sociale, i condizionamenti ambientali e i chiaroscuri del carattere ne avevano spesso frenato la libera espressione, ne ostruivano il libero sgorgare, ma non amava forse, anch’egli (alla faccia dei suoi invisibili ‘cinquanta’), il bagno sotto la pioggia? Non gigzagava, anche lui – malgré gli anta (ma solo quando i cascami di tempo libero glielo consentivano) –, tra Mtv e zingarate? Il sapere è una farfalla notturna… In ogni caso – e qui le sue bracciate cominciarono a perdere colpi –, più della ragassa in sé (che pur valeva una messa), ciò che intrigava il nostro era la sua personalità essenziale, messa a nudo da quell’esternazione fuori dal coro della banalità quotidiana. Un coming out (o un outing? – in fondo era stato il bagnino a ‘costringerla’ a rivelarsi) davvero inaspettato quello dell’ospite (non certo scema) del villaggio (Lorenzo, essendone un habitué, si riteneva quasi il padrone di casa). E poi… quell’uscita di scena, cui difficilmente avrebbe fatto seguito un secondo atto. Conclusione: la ragazza era piuttosto in alto nelle sfere… Sì, la frase… Un lampo tra gli emisferi cerebrali (il fulmine lampeggiante della creazione: Madonna… come gli piaceva questa frase puro stile Qabbalah!) e l’appartamento vuoto s’illuminò, riempiendosi di presenza. Lorenzo era rientrato da pochi minuti nel residence – così sprofondato nei suoi pensieri da lasciare intonse le persiane, malgrado il saloncino-cucinino reclamasse impaziente un po’ di luce – ed 10
eccolo, all’improvviso, assalito, quasi scaraventato a terra, dalla certezza di poter trovare la fonte delle arcane parole della ragazza. E di quella sua stimmung così intrigante, di quell’atmosfera così rarefatta. Ma che radeva il suolo. Atterrato, non senza qualche scossone, sul letto, iniziò, guidato da mano invisibile (e dalla provvidenziale lampada sul comodino), a scartabellare fremente i libri (non c’erano solo Panikkar e Maslow, anema e core) che accompagnavano pazienti le sue ore monastiche nel villaggio-vacanza – Lorenzo si trovava da solo, né era in cerca di compagnia –, puntando infine diritto su un libricino nero, un po’ sgualcito e dall’aria démodé. Si soffermò ancora una volta – era da trent’anni che lo faceva – sulla copertina ‘vissuta’, retrò nel design ma dal messaggio ancora attuale. La scritta – La politica dell’esperienza – campeggiava in giallo su un fondo nero costellato da immagini smozzicate: mani, braccia, gambe, piedi, un occhio, un orecchio, un ventre… (l’assemblaggio, seppur sessantottino, occhieggiava a Hieronymus Bosch). E poi, scorrendo all’impazzata la densa copertina, quasi come sottotitolo: “Esiste per caso qualcosa come un uomo normale? Imparate a conoscere la vostra pazzia, le vostre nevrosi, e le camicie di forza che la società v’impone!” E non era finito… Ancora: “Noi che siamo ancora vivi per metà e abitiamo nel cuore alterato di un capitalismo decrepito, possiamo fare di meglio che riflettere lo sfacelo che è fuori e dentro di noi, e che cantare le nostre tristi canzoni di sconfitta?” Ne era ormai certo (lo sentiva nello spirito, la ‘cantaride’ dell’anima): lo sconosciuto oggetto del desiderio non poteva aver attinto che dal libretto underground di Ronald D. Laing – strizzacervelli fuori rotta – che portava sempre con sé, quasi un Così parlò Zarathustra da viaggio (per lo spirito, e non solo, ci pensava la Bibbia pocket); ma anche, più prosaicamente, un vademecum di frasi a effetto da snocciolare in circoli radical-chic e dintorni (Lorenzo era un po’ à la page un po’ vintage, mai retrò). E così, dopo un attimo di sospensione, un tentativo di retromarcia, scavalcate le prime pagine del ‘breviario’, che conosceva ormai a memoria, imboccò a tavoletta la scorciatoia verso l’epilogo, lì dove i dialoghi da épater le bourgeois si facevano più frequenti e intensi. 11
Tra un “Cristo mi perdona se Lo crocifiggo?” e “nel mio vagabondare d’un tratto m’imbattei in una delle mie molte fanciullezze conservate nell’oblio, per questo momento in cui più ce n’era bisogno”, finalmente si scontrò, a pagina 188, con la frase fatidica. Crash, ecco dove l’aveva scovata, la scippatrice radical-chic! Fatta chiarezza dentro di sé, momentaneamente soddisfatto, rabbonito, placato, Lorenzo si sentì blandire dalla voglia di abbandonare il campo di battaglia e andarsene in giro per il villaggio. Il luogo meritava, la carne reclamava, lo spirito scalpitava. Aveva smesso di piovere da un paio d’ore: lame di luce tagliavano, tra i residui delle pozzanghere, le aree pavimentate sottostanti alla terrazza, sfrigolii e luccichii s’insinuavano tra l’erba bagnata. Affacciatosi con aria imbambolata – aveva finalmente aperto le persiane –, intorpidito dalla mancata, consueta, siesta pomeridiana, d’incanto i sensi rattrappiti si sciolsero, cosa per lui inconsueta, davanti al panorama, che pur frequentava da oltre un decennio. Il prato, la piscina, i cespugli, il mare, il cielo, ogni cosa gli parve nuova, viva, vivace. Ancora a torso nudo e costume al cloro, risparmiato dai morsi della fame (mangiava solo per sfizio o dovere sociale, pur non disdegnando le abbuffate conviviali), ricaricatosi e rivivificatosi Lorenzo si fiondò di colpo verso la porta (non aprire quella porta…), quasi alla ricerca di un qualcosa d’indefinito che riuscisse a lenire quel suo bisogno interiore. L’ineffabile voleva esprimersi, la sua dynamis interiore (sprigionata dal suo daimon – il suo angelo) premeva con insistenza sulla ‘corazza’, chiedendo solo di ‘scatenarsi’: l’animale era pronto a entrare nel palcoscenico. Un fugace scalpitio, rimbalzante gommoso tra i gradini della breve ma ripida scala, e poi uno sfrigolio metallico di passi frettolosi sulla stradina sottostante gli fecero da apripista. Catturato dalla foga di uscire, in apnea tra mille pensieri e bolle blu (tendenti al rosa: la malinconia stava svaporando), non se ne curò affatto – era poco curioso, piuttosto superficiale e todo modo distratto – e aprì senza fretta, e apparentemente senza frutto, la porta, poco interessato a scoprire chi avesse deflorato la quiete, non solo pomeridiana ma anche domenicale, del residence. Tutt’intorno, verginale, il silenzio. 12
Sounds of silence. Solo qualche timido, malcelato, clandestino sonoro approccio da parte di sons et lumières: un inizio di petting ai fianchi delle ore sul viale del tramonto. La piscina vuota, l’appartamento di fianco altrettanto. La sua riottosità verso i dettagli – la mente di Lorenzo era più sintetica che analitica – non gl’impedì, tuttavia, di soffermarsi su di un particolare su cui aveva glissato al rientro dal fatale buen ritiro in piscina (non per nonchalance, o perché ‘fatto’ dalla musica ‘suicida’ dei Joy Division – dead men walking sul suo sempre vivo walkman –, ma in quanto il ‘particolare’ era assente: di questo era certo): vergati sulla parete sinistra del pianerottolo, appena sopra al campanello, campeggiavano, dramatically, tre numeri – un vistoso 666 e due più minuscoli 13 e 18. Questione di attimi: la parete, fattasi improvvisamente concava, occupò tutta la sua visuale e lo circondò. Comprimendolo, quasi soffocandolo nella stretta delle sue spire, bloccando ogni suo tentativo di fuga dal residence. Frastornato e impedito nei movimenti, la stringente sensazione di un black-out totale – in sincronia col calare a ghigliottina della notte più tetra che la magica Pugnochiuso dai venerei chiarori di luna tra brillii di stelle avesse mai conosciuto – Lorenzo si ‘spense’ anche lui, afflosciandosi devitalizzato sull’esiguo pianerottolo, contraendosi more and more, fino a diventare un puntino nero. Polvere, pulviscolo, pula al vento…
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La Ferrari nera – l’auto, non Lolo, la bionda airbag XXX, simil-dea ancestrale, cult di feticisti e affini (una sorta di Pamela Anderson oversize… se si può) – sostava impettita all’ingresso della villa. Guardiana del viale, custode della piscina ormai sgombra di presenze, serafico angelo biondo dalla spada fiammeggiante. A farle compagnia un drappello di altri pezzi da novanta (mila euro, o giù di lì, all inclusive): Jaguar, BMW, Mercedes, Porsche. Sola, appartata, la Lamborghini Diablo del padrone di casa. Gialla come la tonalità dominante dei fiori del giardino retrostante, l’hortus conclusus reso anonimo, malgré tout, dall’incombente oscurità della notte in cammino. Notte fonda, night in progress, alberi dalle mille fronde: dalla garganica Foresta Umbra alla fiera Umbria. Tredici le vetture ‘gargoyle’ parcheggiate nel Sunset boulevard, sopravvissute al forzato sgombero post-party (e se pure qualcuno avesse detto post-partum, di certo non avrebbe toppato: il parto della festa e, soprattutto, il successivo stop fuori programma – dopo il ‘rap’ iniziale – erano stati alquanto travagliati): civettuole cabrio d’annata o di ultima generazione, frammiste a seriose berline intabarrate, delle quali un paio vintage, paludate in rigida tenuta invernale, non si sa se in ritardo o in anticipo sui tempi. Settembre agli sgoccioli (anche qualche acquazzone) aveva vergato, sia pure di malavoglia, l’effimero passaggio di stagione all’autunno ancora di là da venire. Per poi rialzarsi intontito, caracollare ubriaco di sole e stravizi, rinfrancarsi grazie a una provvidenziale onda anomala e rimettersi, ancor su di giri, sul giusto binario. La stella, la più luminosa, argentina, fredda, si era staccata dall’azzurro del quadro astrale: solo il tempo di sgranchirsi le cinque punte dopo tanta sosta forzata (in attesa del ‘tantra’), per poi prendere al vo14
lo il treno in corsa e contrassegnare con precisione certosina tempi e luoghi. Tutto era ormai pronto per l’ora X… Stop alle danze. No more dance, no more chance. Gli ultimi ospiti del ballo in maschera – rigorosamente alla Eyes Wide Shut, dati i trascorsi, e i presenti, goderecci, degli anfitrioni (due stimati professionisti del gotha locale, lui belloccio, lei ‘bellucci’, anche per gli umbri natali) – avevano iniziato a lasciare alla spicciolata l’ombrosa dimora settecentesca. Loro degenerati da anni (ma per alcuni erano stati sufficienti pochi mesi) di black magic sex, lei – l’altezzosa magione – rigenerata dal tocco ‘gnostico’ degli stessi padroni di casa (architetti di professione, guru per vocazione). L’orologio da parete (uno dei pochi pezzi d’antiquariato, per il resto furoreggiava il moderno, dal Bauhaus al dernier cri) aveva da poco, solennemente, battuto i fatidici tre colpi: la seduta – distesi, all’impiedi, in ogni posizione imposta dal tantrico corretto – era stata sciolta in anticipo. Sold-out. Previo congruo preavviso, tra il malcelato malumore degli astanti. Non era tempo di rave party, sia pure chic (e choc – alla histoire d’O), né di ravanate varie (e avariate). In altre occasioni – sempre, fatalmente, di venerdì – l’allegra brigata avrebbe volentieri tirato tardi (anche a naso) fino all’aurora, night and day, di bricolage in bricolage, ma quel nascente tre settembre era sotto un astro diverso, più argentino che mai. A far da ‘lampada sul sentiero’ all’alba dorata, con la sua luce fiera… Ed era proprio questo il motivo per cui i due luciferi ‘alfieri’, Dario – Sigfrido per gli adepti – e Jenna (una Gianna finita nella Geenna per amore), erano insolitamente impazienti. Quasi spazientiti, malgré l’aplomb british (ma il fuoco latino covava sotto la cenere). Toccava loro, al duo oscarwilde-dannunziano, e giusto quella notte, fare scacco matto: dare al ‘cerchio’ la ‘botta’ – la ‘buona notizia’, l’annunzio che tutti da tempo si aspettavano, il proclama che avrebbe spianato la strada verso l’Avvento. Per poi divulgarlo – quale buon vento! – a tutti gli altri ‘kreis’ (così erano stati denominati, in omaggio a Stefan George – il gay-bardo dell’individualismo aristocratico, il gattopardesco vate della ‘parola creativa’, lo ierofante orfico della poesia ‘dorica’, e altro ancora –, i circoli esoterico-ariani della ‘Fratellanza e Sororità Infera’). 15
Breaking news: Sieg Heil, per Sigfrido e Jenna, decadenti nazisatan al di fuori degli schemi (e degli orari, quanto mai elastici, di studio), era finalmente giunto il momento fatale. Fatato. Catapultato, tutto d’un fiato, sul collo (e sul colle). Via col vento e… vai con la fase di decollo: tutti in pista, pronti a tirare. I tempi stringevano, il ‘bambino’, da tempo svezzato, era ormai bell’e cresciuto e, con i rivali pronti allo sgambetto, non era più lecito aspettare. E poi, data e luogo della missione erano usciti dall’urna. Funeraria. E insieme a loro, ancor più attesi, i nomi dei due prescelti. Il Gran Consiglio dei Tredici, il vertice supremo della piramide mondiale della fratel-sorellanza, sapientemente illuminato dalla Luce Infera, aveva partorito, dopo lungo travaglio, il piano finale, quello operativo, e l’aveva dato in adozione al ‘capitolo’ di competenza; questo, a sua volta, l’aveva concesso in affido al ‘kreis’ capitanato dall’ineffabile duo Sigfrido-Jenna. I due, come tutte le altre sizigie – le ‘coppie divine’ – del circuito ‘iniziatico’, erano in fremente attesa (ma ‘nazismo’ ed esoterismo erano solo per approssimazione: loro erano più… ‘dentro’). Era finalmente giunto, agognato da tempo, il momento giusto per la manifestazione dei ‘figli della luce infera’. La cicogna (nera) si era levata in volo col suo fardello. Ben coperto, incartato. Finalmente si giocava a carte scoperte… Heil-lu(st)-ja: non ci sarebbe stato scacco alla Regina, ma scaccomatto al Re! La buona notizia urgeva, buttava fuoco, le uova erano schiuse – un bebè, anzi due, per Babel –, la missione del Dragone e della Donna Scarlatta sarebbe partita, senza indugio, il lunedì successivo. Quindi, pochi preliminari, niente docce o sieste pre-aurorali (d’altronde, nelle tre ore e passa di baldoria appena smaltite era circolato poco alcol e strisciata poca coca. E poi, niente scritti… solo orali). Senza contare che la facoltà (e facilità) di ‘ripresa’ della ‘congrega’ locale – i diciotto della ‘cupola’ sopravvissuti ai baccanali (nove lui e nove lei: anche qui le pari opportunità) – era a prova d’incendio, ben temprata dall’ormai decennale attività del ‘pentacolo’ locale del ‘circuito infero’, il kreis autodenominatosi ‘Fratelli e Sorelle del Sole Nero’. Sgombrata l’aula (ma la splendida tela di Alma Tadema – una sua copia? – “le rose di Eliogabalo”, che fermava nel tempo un momen16
to di stand-by in un’orgia nell’antica Roma, era ancora lì, seppur sbronza), smaltiti i soliti rituali ormai consolidati – qui nella versione ‘sintetica’, data la necessità di abbreviare i tempi –, si passò all’‘opera’. I due ‘magistri’ e i bricconi della conviviale combriccola, indossate, come d’uopo, le tuniche d’ordinanza della congrega (nere, bordate di rosso e bianco), si assisero a gambe incrociate intorno al ‘testimone’ – una stella a cinque punte in marmo nero, con inscritta al centro una rossa croce uncinata sinistrogira (quella nazista, del ‘sole nero’, per intenderci) – che frangeva l’armonica cromia del pavimento in seminato alla veneziana. Il maxitappeto persiano – lascito dei genitori, di nobile quanto decaduto lignaggio –, che in altri momenti avrebbe celato l’imbarazzante simbolica sizigia, giaceva mestamente arrotolato in fondo al salone, stralunato e stranito compagno di stanza di un acquatico David Hockney a tutta parete. Dall’ariano (un tempo, ormai remoto) arcano Iran, già in pieno terremoto (ora solo scosse d’assestamento?), alle falde del Kilimangiaro. Sotto lo sguardo cupido di un’iperrealistica Lolo Ferrari desnuda in cornice – stile Tamara de Lempicka, ma fecondata da Botero: il giusto tocco radical-kitsch all’ambiente – i diciotto dell’Apocalisse (il tempo – il Kairòs – era maturo) attesero che il silenzio sacrale e magico ponesse i sigilli al salone tutto stucchi veneziani, specchi e trompe l’oeil. Al tremulo baluginio delle torce, accese per l’occasione (sia per l’annuncio – il kérygma – sia per il lubrico party kubrikiano), gli ‘illuminati’, a faretti spenti, fecero i rituali tre minuti di silenzio: il cosiddetto ‘rappel’, il richiamo all’ordine, a se stessi e al Portatore di Luce. Subito dopo, mentre gli altri sedici ‘galleggiavano’ ancora in stand-by (come nella tela ottocentesca), quasi flottando sul pavimento (erano in stato di lucida trance – qui l’ossimoro è d’uopo), l’ineffabile duo Yin e Yang dal rasoterra passò alla stazione eretta. Poi, con fare ieratico, fendendo le sacre tavole del silenzio magico, Sigfrido e Jenna declamarono a voce stentorea il verdetto, scarno quanto inappellabile. Tomás, il giovane bronzeo assistente di studio (nonché famulus) di Dario-Sigfrido, e Galatea (più prosaicamente, Mary – o, misticamente, Myriam –, quarantenne pittrice acquarellosa, ora life coach di grido, di bellezza a dir poco inquietante) si alzarono di scatto. In17
creduli, si guardarono intorno imbambolati e, senza trattenere in alcun modo l’emozione ribollente, diedero fiato alle trombe, rompendo il muro di ghiaccio (bollente) tra le belle statuine. Prima abbracciandosi piangendo, poi levando, raggianti, le braccia al cielo, tra gli applausi scroscianti dei due banditori e degli altri accoliti della banda (banditi, sbandati, bombati, bamboccioni, boh‌).
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Ecce Bombo. Lorenzo, ripresosi dopo un tempo indefinito – uno stillicidio di gocce di eternità –, riguadagnò, ancora intontito e intorpidito, l’appartamento (la porta era rimasta aperta), catapultandosi sul più vicino dei due letti singoli, graditi ospiti del soggiorno tuttofare. Abbandonatosi a corpo morto, il torso madido di sudore freddo, le tempie sul punto di esplodere, lasciò che le ‘tossine’ evaporassero, disinquinandolo e passando il testimone a più sane energie: mani invisibili, calde, esperte, vellicarono tutto il suo corpo, partendo dai piedi – francamente belli per essere quelli di un esemplare maschio – per terminare dietro alla nuca, riconsegnandolo franco posta alla vita. Passato, dopo il massaggio eterico (meglio di quello ‘etnico’), dal letto alla sdraio sul terrazzino, Lorenzo si tolse il burka dalla mente – sempre intasata da pensieri e fantasie di grana grossa e fine – lasciandola libera di svuotarsi: cosa che avvenne con una fluidità quanto mai rara per lui. Guardò quindi fisso davanti a sé, ma senza mettere a fuoco nulla, facendosi solo pervadere da tutte le sensazioni, impressioni, o altro (non sapeva come definirle), che il momento magico offriva in gran copia. Il pomeriggio era ormai agli sgoccioli: l’orizzonte, che aveva appena preso a flirtare con gli ultimi bagliori del tramonto, non appena vide – sgamò – il sole inabissarsi, più fremente del solito, nel voglioso ventre della baia, lasciò la preda e tentò nuovi approcci con la veniente notte, che immaginava ben più carica di promesse, scomparendo poi, impunemente, tra le sue impudiche braccia. Dall’altra parte della baia, l’hotel ‘Il Faro’, spettatore silenzioso della tresca tra cielo e terra, svestitosi pudicamente del suo sfolgorante biancore meridiano, riprese coraggio, riaffiorando come mitica Avalon dal pugno(chiuso) roccioso. Le luminescenze, sempre più vi19
vide, delle camere dell’albergo facevano da pendant e contrappunto ai timidi luccichii che balenavano, sornioni, tra i tornanti dell’incombente promontorio, rinvigorendosi man mano che i chiaroscuri serali trapassavano nelle tonalità più notturne, fino al nero assoluto. Timidi brillii del Satya Yuga, metallici ultimi rintocchi del Kali Yuga. Les jeux sont fait: faits divers, crêpes suzette, crepuscolo degli Dèi… Il corpo fluorescente era lì, unica presenza umana a mitigare l’horror vacui del paesaggio notturno. In posizione vitruviana – ma alla mente di Lorenzo, più versato nel moderno e post, fece capolino il modulor di Le Corbusier –, macchiava di bianco opalescente il verde smeraldo della piscina. Piatta come il luogo (Portopiatto). La postura, immobile ma non da rigor mortis, ricordava a Lorenzo quella del curatore del Louvre, il suo cadavere ancora caldo (il Codice da Vinci era fresco di lettura: era Lorenzo a essere in ritardo…): in studiata chiave simbolica, inno al femminino sacro (Dan Brown pontificat). La pelle tra l’opale e il perlaceo, i capelli corvini, il volto porcellanato. Tutt’intorno (in entrambi i casi e i siti): silenzio tombale, ieratico, terribile et tremendum… Anche i residui cicalecci e gli sfrigolii dell’acqua clorata erano stati ingoiati dalla vorace bocca della notte garganica, stranamente scippata delle sue stelle, ma animata da magici, lisergici, rossastri lucori. Lorenzo si sfregò gli occhi, incurante delle lenti night and day (senza le quali la piscina, pur ben in vista dal terrazzino, sarebbe rimasta ingloriosamente vuota). A soccorrerlo, ancor più, la sua immaginazione, sempre fervida e gravida, pronta a dare spazio all’intuizione, al discernimento, al sesto senso. Esternamente diaccio, un calore tempestato da tremiti cominciò a pervaderlo e a battere ogni suo recesso. C’è qualcosa di nuovo sotto il sole. Anzi d’antico. Sole pascoliano e luna leopardiana. Notte da poeta, eppur striata di noir. Strisce di polvere d’argento nella piscina. Stephen King nicchiava (Nietzsche pure – forse ridacchiava). Scosso da improvvisi, montanti, fremiti, Lorenzo distolse lo sguardo dal corpo flottante nell’acqua – quasi levitante – e, chiusi gli 20
occhi, si fece sommergere dallo tsunami sensoriale. Che ben presto lasciò il posto – non prima di aver portato sconquasso a ogni sua fibra interna – a una pervadente, avvolgente, sensazione cosmica. Esperienza delle vette su un piatto terrazzino… Il sentimento oceanico confluiva a rivoli (l’ossimoro!) in ogni sua canalizzazione interna, vera o presunta, creandone ex nihilo delle nuove, dei fiumi, dei laghi, persino un mare interno. Si sentì solo e (re) nudo davanti al divino, al numinoso, al ganz andere – all’‘interamente altro’. Ebbe in pugno la notte (cosmica, e di PugnochiusoPortopiatto), che, sfregata da mani umane, s’illuminò all’improvviso d’immenso, invasa da un eritema celeste di stelle filanti. Che, cadendo su di lui, e intorno a lui, cominciarono a tracciare il sulcus primigenius. Del luogo, del sito, della sua anima. Un senso di timore e tremore lo pervase, mentre un fiotto di parole e suoni in una lingua nuova scaturivano dai vicoli della nuova città di cui Lorenzo era l’unico abitante. Lorenzo audioslave. Gli piaceva la musica gospel, battere i chiodi col martello e parlare in lingue. Non era la prima volta che sconfinava in lande straniere. Ma se, da quando era sceso dalla torre (di Babele), si esprimeva nel linguaggio degli angeli ogniqualvolta s’intratteneva a tu per Tu con Dio (introdotto in questi misteri dall’esprit pentecostale), ora, affacciato al garganico verone, si confrontava con una piscina gorgonica, pulsante di morte (o vita). Sì, vita… Un calcio alla morte, una veronica sul campo dell’existenz minimum. Crollo delle barriere: dagl’inferi al terzo cielo, e poi di nuovo giù, ma a metà strada, sulla terra, nell’acqua. Acqua e Spirito: il vento della Ruah (femminile), dello Pneuma (neutro), dello Spirito (maschile), cominciò a soffiare sull’Abisso. Tre in uno. Nella piscina l’acqua, prima piatta, era increspata da piccole, imprevedibili onde. Nessun alito di vento a Portopiatto, nessun rumore, nessun corpo sulle verdi acque… Good times, bad times. Lorenzo, sovraccarico, quasi ubriaco, di sensazioni sempre più hard (nel senso di: pienezza, interazione olistica di corpo-anima-spirito: quasi un intasamento dei sensi), si afflosciò nuovamente, dolcemente – soft – sulla sdraio (aveva passato 21
le ultime ore sul terrazzino, apparentemente senza concludere granché): un timido assaggio di solare notte cosmica (riecco l’ossimoro!) gratificò la raggiunta quiete del suo animo, e di tutti i suoi sensi, prendendo il posto della sua precedente, pervadente, inquietudine. Dandogli, per la prima volta dal suo arrivo (era il secondo giorno), un senso d’invadente calma, di piacere quasi fisico, di atarassia, aponia, anarchia… Calma talora smossa da residui sfrigolii di un’ancora fresca agonia rattrappita, raggelata, ma sempre più scossa da nuovi brividi di giubilo, gioia, gaiezza: pochi, brevi, parziali. Sentiva nella ghianda dell’anima che c’era something new in the air. Qualcosa di nuovo stava per accadere: su di sé, intorno a sé, dentro di sé, sentiva good vibrations. Sentì vibrare il nucleo, il cuore, l’antro sotterraneo che si celava dentro: un desiderio violento lo pervase, come magma pronto a eruttare che la crosta esterna comprimeva, tratteneva, faceva muraglia tutt’intorno. Bramose voglie in cerca di un significato, aneliti vulcanici, ma spesso degradati a basic instincts senza profondità vitale. Nondimeno, dal mondo del sogno – il Tjukurrpa aborigeno in cui spesso si rifugiava, e da sempre (già nel ventre materno – così gli sussurrava l’Io subliminale) – più di una volta era riuscito a tirar fuori il ‘nucleo immaginale immanente’ (frase a effetto esplosa da Lorenzo in una delle conferenze amatoriali del suo periodo rosa), cioè la qualità ‘numinosa’ che lo sottendeva. In pratica, aveva dato corpo (nel vero senso del termine) ai voli della sua immaginazione: quel bisogno di creatività, di fuga dal mondo, di fantasie da realizzare, che può creare sia il gigante sia il mostro. Ma Lorenzo non era riuscito a essere né l’uno né l’altro; se non a sprazzi o, nel migliore dei casi, in maniera discontinua, frammentata. Arenato, frenato, appesantito dall’io sociale che non lasciava correre il suo io reale (il suo ‘Sé’, la sua essenza). Eppure la voce tiranna – Krishnamurti dixit – gridava… E come strillava! Munch… Sussurri e grida. Un urlo sul ponte. Ginsberg… che urlo! “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa…” Anche Lorenzo arrancava, ma senza strillare. Non più nero di rabbia. Solo frenato. Senza remi, con molte remore. Ramingo. Freni interni ed esterni. Per rompere i quali, e catapultarsi nella vi22
ta, aveva cercato – pensando che fosse lì il problema – d’integrare il puer con il senex (quest’ultimo, in lui, pressoché assente), affinché si riconciliassero e passeggiassero insieme. Ma il fanciullo aveva avuto sempre la meglio… Aveva, infine (passo decisivo), compreso che il suo malessere esistenziale derivava da un bisogno inespresso di esplorare le contrade del mondo dello spirito, le città invisibili: un mal-essere che solo un rivolgimento completo del suo essere, una metànoia, avrebbe potuto dissolvere. Siamo tutti assassini e prostitute… Addio viaggi dell’anima: l’effetto della provocazione della ragazza fu tale da richiamarlo precipitosamente alla realtà (empirica). Malgrado lo stordimento imprevisto che lo aveva assalito, e pervaso, nei lunghi momenti trascorsi nell’empireo sul terrazzino del residence – non era infatti più uscito – tra meditazioni (poche) e sospensioni del pensiero (molte). Come se quella famosa ‘corda d’argento’, che tanto lo intrigava (l’aveva trovata, non solo sui libri di esoterismo che ogni tanto compulsava, ma anche nella Bibbia, in Qohélet), l’avesse bruscamente ritratto dal mondo dei sogni – il mondo astrale. Dissoltosi il corpo della piscina (ma anche il ricordo del deliquio sul pianerottolo aveva preso la via del non ritorno: un principio di Alzheimer?), Lorenzo si sentì di nuovo lucidamente pronto ad affrontare le sue ansie – il male oscuro, sempre in penombra o dietro l’angolo – e uscirne nel giro di una settimana, come da programma a tavolino (anche se, in genere, cavalcava la tigre): fare esercizio fisico, respirare a pieni polmoni, starsene da solo (di stabilire connessioni sociali o di esporsi a contatti fisici, manco a parlarne, almeno fino a poche ore prima…), parlare con Dio (lo faceva spesso, più che altro si sintonizzava), fare qualcosa che gli piaceva (leggere), affidarsi alla musica (idem), abbandonarsi al pianto (difficile, almeno fino a pochi mesi prima), ridere più che poteva (più facile, almeno fino… ibidem). Ricaricatosi con questi pensieri positivi, Lorenzo uscì dalla sua fase rem. Ma solo per pochi attimi, poi l’ennesima ricaduta (la ragazza era ormai impressa nella sua mente): era mai possibile – my religion – che, tra tanto conclamato disimpegno e ‘velinismo’ nazional-popolare, ci fosse una fanciulla, per di più da book o casting (la passione per la 23
moda l’accompagnava da ragazzo, quando seguiva – forse l’unico – la Barzini in tivvù), che si dilettasse in letture così pregnanti? E neanche tanto fashion… (per quanto sempre attuali). Sì, letture pregnanti e imbarazzanti: i due termini, che come allegri frugoli si rincorrevano nella mente, gli piacevano proprio. Gli facevano balenare, all’inglese e all’ispanica, l’immagine di una donna incinta: in fine dei conti, la lettura non era un voler ingravidare una mente sterile? Non era gettar semi su un terreno arido e incolto? Un po’ cade lungo la strada, e gli uccelli se lo mangiano, un po’ si disperde sulla roccia, un po’ s’intrappola tra le spine, una parte cade sulla buona terra… La passione per la lettura e i suoi semi! Per loro Lorenzo, spesso, troppo spesso – umano, troppo (poco) umano –, aveva dimenticato, tralasciato, lasciato cadere, cose altrettanto o (come avrebbe di lì a poco scoperto – o ri-scoperto) più importanti: parlare d’amore, farsi titillare il cuore (e tutti i sensi) dalle sue lusinghe (lasciando pure che le sue spine lo pungessero), dare qualcosa di se stesso all’universo femminile. Che pure gli piaceva tanto: in primis, la sua unica Arianna (nel senso di unicum: amara, amarcord…). Anche il solo sorriderle al mattino. Ma spesso, troppo spesso, non era riuscito a trovare la forza, il tempo, la voglia (o chissà che altro), di parlare, di corrispondere agli amorosi sensi, d’illuminare di sole le lunghe notti d’inverno coniugale. Inverni freddi, bui, senza fine, in attesa di un September morn. E settembre era finalmente lì, pronto a offrirsi, ma nell’animo di Lorenzo l’inverno continuava ancora a mietere vittime – questa sensazione, di falcidie interiore, di una Stalingrado dell’anima, l’aveva accompagnato fino a sole ventiquattr’ore prima. E poi il (femme) fatale incontro… E la bolla nera aveva cominciato a sgonfiarsi (ma non era scoppiata). E sì che nelle ultime settimane aveva tentato, vanamente (vanitas vanitatum), di ricorrere a vari meccanismi di difesa per rendere tollerabili quei momenti così duri; ma, quanto più tentava di allontanarli, tanto più alimentava la sua nevrosi – una riprova dell’accordo tra la psicologia sufi e quella contemporanea (a Lorenzo le pile della Kultur non erano mai scariche). Aveva cercato – ma sapeva bene che il suo era solo un patetico 24
bluff (era a conoscenza di ogni cosa, o quasi) – di autoconvincersi che gl’incontri di Arianna fossero stati solo giochi innocenti, discorsi al caffè per sentirsi più grande, o per restare un po’ garçonne. Più spesso, però, aveva visualizzato i fatti nella loro nuda rude crudezza (e concretezza). E il futuro? Cul de sac. Per chiudere il cerchio, un soprassalto sufi (con un tocco di vipassana: Lorenzo era ‘ballerino’): mai anticipare, con l’immaginazione, un futuro negativo; piuttosto, vivere l’attimo. E soprattutto, mai posticipare il passato negativo! Il passato: double face. Pagine bianche, ingiallite, scritte su pergamena. Pagine e pagine. Lui, sempre perso tra le segrete dei libri. E i loro segreti (in seguito, anche Victoria’s secret). Libri ‘inchiodati’? Jamais! Books, booklets, penguin classics, livres de poche, pocket, tascabili, purché libri… (anche e-books. Ammazza… – amazon – che bibliofilo!). Li compulsava, slinguava, odorava, sniffava e poi vi ci si tuffava. Anche a occhi chiusi. Lorenzo era uno junkie, un drogato (di fogli stampati, non di cartine), un book-addicted: aveva più d’una scimmia sulla spalla (e gli facevano pure le linguacce). A proposito, pour parler: Lorenzo, il bookworm (ma anche movieworm), mai verminoso, però, fluiva in english, galleggiava in tedesco – aveva fatto uno stage nazi-runico –, dava delle belle unghiate french. E poi ogni tanto stillava, specie quando scriveva, gocce d’umor pagano dall’Olimpo e dai Sette Colli; un po’ di ‘vento divino’ dal Sinai per la par condicio e, sursum corda, sciacqui nel Gange. Vagabondaggi intellettuali, intra ed extra-moenia (ultimamente, sempre più spesso, sconfinamenti internettiani – anche se il computer non tanto se lo filava), alla ricerca di quella rara, ricercata, emozione chiamata bellezza. Così, senza un perché (la bellezza, ma anche, talvolta, le sue incursioni libresche: entrambi, incursioni barbariche). Forse un tentativo per ‘confondere’ la tristezza, quel ‘demone’ – la malinconia (tra la planet melancholia di Lars von Trier e la melancholia ermetica di Dürer) – che di tanto in tanto faceva capolino dalle sue segrete e batteva cassa. E la si leggeva sul viso. Cash. Quella tristezza che c’invade quando sperimentiamo – è George Steiner a ricordarcelo, mica uno qualsiasi – “le correlazioni fallite tra pensiero e sua realizzazione.” E lui spesso aveva toppato, anche quando era a un passo dal traguardo. 25
Uno stop a un passo dal top. Né top gun, né top model… Ma a soccorrerlo ecco intervenire proprio lei, la ‘bellezza’, la musa da lui tanto ricercata. Senso estetico e fame di cultura: il duo che lo manteneva in vita. Con o senza mouse. A muso duro. Per il ‘trascendentalista’ Ralph Waldo Emerson (uno dei ‘suoi’ filosofi) l’intellettuale viene educato dalla natura, dai libri e dall’azione. Ma per lui la natura era un po’ troppo spoglia (onda lunga della ‘fumosa’ Ilva del suo ‘locus natalis’?) e l’azione sin troppo lenta. Rimanevano, quelli sì, i libri: robusti, pieni di rami, frondosi, carichi di frutti. Arts and crafts. Lorenzo era un lettore creativo. Ma, soprattutto, un Aphrodite’s child. Trasversale, transculturale, scultoreo (quasi: le giornate in palestra). Un esteta, un intellettuale, un pensatore… Olistico, all in one. Anche se, alla Emerson, la sua “rude forza pelasgica era tutta diretta verso il nascente senso della bellezza.” Lorenzo: bello e possibile (più spesso, possibilista. Tendeva, suo malgrado, al ma anche…). Lorenzo: a chance for a change. Innovativo, ‘esplorativo’: sempre attento ai ‘fenomeni’ della lettura, della scrittura, della religione. Lui stesso, in un certo senso, era un fenomeno. Non realizzato. Inespresso. Neppure raccomandato, né posta prioritaria e nemmeno semplice. Tanto meno fermoposta. Aveva tentato pure con la posta aerea, ma l’atterraggio era stato disastroso… Rialzatosi in volo, con le ali ammaccate, cercando di sopravvivere a passato, presente e futuro, Lorenzo, alla fonda nell’appartamentino del residence ‘I Delfini’ – una velata garçonniére per neo-scapoli autistici – diede fondo agli scampoli della serata tra letture e ricordi, cavalcando le onde (radio), zompando di programma in programma (tivvù), facendosi doccia e sciampo, meditando (non all’orientale). Ma facendo ogni cosa come se non la facesse (aveva preso san Paolo proprio alla lettera). Adda passà ‘a nuttata!: e la notte passò fulminea; lui, come un indigeno polinesiano, immerso (sonno e veglia) nel tempo del sogno. Immersione proseguita – questa volta da sveglio, con i sensi accesi – la mattinata successiva, tra la spiaggia di Pugnochiuso e quella di Portopiatto (con puntatine in piazzetta), nella vana speranza di rivedere la ragazza. I’d rather dance with you… E lui ballò da solo. 26
Cercava solo lei, sparkling champagne, bollicine di vita, effervescente, spumeggiante, frizzante fanciulla. E lui in bolla, imbrigliato, imballato, imbalsamato, imbolsito. C’era, infatti, qualcosa d’indefinibile, e di balsamico, nella pulzella (d’Orléans?) che lo attraeva, che intrigava Lorenzo – king of convenience –, che però andava ben al di là della scontata fascinazione fisica: come se una ninfa suonasse il flauto magico per richiamare (fosse pure solo a livello di feromoni) un’immensa folla e poi estrarre da essa un unico uomo, un solo bussolotto: lui. Rien va plus, la fase monastica per Lorenzo era finita, il periodo blu aveva di nuovo passato il testimone al periodo rosa. Le pale del moulin rouge avevano ripreso a girare (fino a poco prima ben altre eliche). Alla faccia della pianificata strategia di Lorenzo, appartatosi nell’hortus conclusus, non per dar libero sfogo ai sensi repressi e assopiti dai lunghi mesi trascorsi all’addiaccio nel porto delle nebbie (casa e studio), ma per tirare le somme della sua vita. Ed eventualmente, le cuoia: la depressione esistenziale, e sentimentale, si sa, può giocare brutti tiri; e Lorenzo, ultimamente, aveva avuto anche attimi borderline. Un rendiconto esistenziale in una Pugnochiuso rigiratasi, solo per lui, in una sorta di monte Athos: no sex-drug-rock‘n’roll. Era proprio quello che ci voleva… Niente donne, niente moglie, niente figli. Da solo, senza la ‘costellazione familiare’ (luci, ombre, buchi neri). Insomma, meditazione nuda e cruda (alla faccia di Ian Dury: l’aveva rivisto, infeltrito ma sempre fuori, proprio la sera prima tra una botta di tivvù e l’altra). E Pugnochiuso, la perla (nera, in sintonia con la sua saudade) del Gargano – pietra d’inciampo nell’outing esistenziale di Lorenzo –, oltre che tre settimane da raccontare, permetteva anche di purgarsi dal mondo.
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AUTOAIUTO PER IL BENESSERE
Maura Vitale
Cosa mi aspetto da te?
Autorealizzazione attraverso i figli
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INDICE
Premessa
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Quando nascono le aspettative
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Il genitore dentro di noi
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Le aspettative crescono Il bambino fuori di noi
Adolescenza e aspettative La gabbia
Le competenze genitoriali: un percorso per migliorare
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Premessa
Questo è un manuale destinato ai genitori, ma ho provato a scriverlo pensando con la testa dei “figli”. Ho provato ad immaginare che fossero loro a chiedere ad una professionista di spiegare il proprio sentire rispetto alle aspettative scagliate su di loro da parte di padri e madri e l’ho fatto con lo scopo di dare ai genitori qualche strumento per rendere funzionale e utile all’effettivo sviluppo del figlio1 il loro “aspettarsi qualcosa”. Visto dalla parte dei figli probabilmente “tutte” le aspettative dei genitori sono ritenute ingombranti e problematiche, di fatto però solo alcune aspettative e, soprattutto, solo alcune modalità di 1 Avrei voluto ogni volta usare il maschile e il femminile, figlio e figlia. Ma la lettura sarebbe risultata pesante. Proviamo a intendere con “figlio” un termine generico che vada bene per entrambi i generi e sarà mia cura specificare figlio o figlia quando le circostanze richiedano una diversa lettura in relazione all’appartenere all’uno o all’altro genere.
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vivere e gestire tali aspettative devono essere oggetto di attenzione e di supporto da parte di uno psicologo. Infatti se il contrario dell’avere aspettative ambiziose (ma anche modeste) fosse l’indifferenza e il laissez faire, cioè una totale assenza di immaginazione e di pensiero verso i propri figli, ci troveremmo in una condizione altrettanto problematica e poco funzionale alla educazione affettiva e progettuale. C’è una vasta letteratura che dimostra che i figli “pensati” dalla coppia, cioè progettati, desiderati e immaginati già in fase uterina hanno maggiori probabilità di evitare psicopatologie, come se il pensiero dei genitori verso il nascituro avesse lo stesso benefico effetto delle cure tangibili che il piccolo avrà una volta venuto al mondo. Quindi pensiero, aspettative e progetto verso un figlio possono sicuramente essere considerati, nella loro espressione più funzionale, un elemento positivo per lo sviluppo di un individuo. Analogamente, un figlio preferisce sentire la presenza di un genitore che si “aspetta” qualcosa piuttosto che un genitore indifferente alle sue azioni. Quindi il tema è quello della individuazione dei parametri di funzionalità di questo processo: 8
“avere aspettative verso il figlio/agire in funzione delle aspettative dei genitori” affinché un genitore possa correttamente mettere in atto la propria progettualità verso il figlio e quest’ultimo, trovare una sua individualità confrontandosi con le proposte genitoriali. In questo manuale mi piacerebbe spiegare in che modo e per quale ragione un genitore si trova nella condizione di sviluppare aspettative nei confronti dei figli. Vorrei aprire una finestra di consapevolezza su come “si sentono” i figli quando capiscono che il genitore si aspetta “qualcosa” da loro. Sarei felice di indicare qualche strumento per modulare e rendere funzionale questo particolare aspetto della relazione genitoriale, quello riferito al “che cosa ti aspetti da me?” sentito dal figlio e “come vorrei che tu ti comportassi” espresso, più o meno consapevolmente, dal genitore. Ovviamente senza dimenticare che alla base di questa relazione, più che in qualunque altra relazione umana, c’è l’amore.
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Capitolo primo
Quando nascono le aspettative
Un figlio conferisce identità ad una coppia. Una coppia senza un figlio spesso è una coppia destinata a fallire se non riesce a sostituire il progetto del figlio con un altro progetto. L’identità di coppia passa pertanto anche attraverso lo sperimentarsi come “mamma” e “papà” oltre che come partner. È un evento naturale, comune alla maggior parte degli esseri umani. Ma il passaggio da coppia a coppia genitoriale è un percorso tutt’altro che scevro da insidie. Ancor prima di essere concepito, il figlio ha una funzione importante di completamento della identità che il genitore desidera (più o meno consapevolmente). Quante volte abbiamo sentito dire “quando io avrò un figlio farò/dirò/… questo o quello. Gli insegnerò subito a guidare la macchina, le spiegherò subito che bisogna essere indipendenti…” Frasi apparentemente innocue e senza senso, 10
quando i figli non sono ancora nati. Che si cominciano a consolidare quando il bimbo è in pancia. E qui per la prima volta nella sua breve vita, la sua presenza è funzionale alla mamma. Qualunque donna che abbia sperimentato una gravidanza, sa quanto “l’avere il figlio in pancia” venga vissuto come la prova della identità femminile. Non solo. La presenza del figlio nella pancia “dimostra” che la donna “è brava”. Purtroppo nei drammatici casi in cui si perda il bambino, la donna oltre alla sofferenza per la perdita, prova un senso di inefficienza, avverte sempre in fondo un pensiero che recita “non sono stata capace di portare avanti la gravidanza”. Nei casi di infertilità femminile questo aspetto si esaspera e talvolta la donna mette in discussione la propria identità femminile, sentendosi dimezzata, incompleta. Le aspettative di una donna incinta non sono sempre positive, cioè non richiedono solo al figlio di crescere e di star bene, ma riflettono altre più temibili ansie della mamma: “sarà normale? avrà deformità?” Strano a dirsi, ma anche questa può essere considerata una aspettativa. O, per essere più precisi, un modo per “spostare” sul figlio una preoccupazione che nasce altrove. 11
Insomma il “figlio” è già intriso di aspettative prima ancora che si sappia se è maschio o femmina e prima ancora di emettere il primo vagito. A volte l’aspettativa è già attiva sul primo vagito “quando uscirà da qui, piangerà forte e tutti capiranno quanto vale” oppure “quando nascerà non emetterà un grido”. Spero che questi primi esempi abbiano cominciato a chiarire un aspetto importante del tema delle aspettative, quello della consapevolezza. Il genitore non sempre è consapevole di avere una aspettativa verso il figlio e non sempre sa che anche con gesti o commenti apparentemente non finalizzati ad esplicitare “cosa mi aspetto da te”, il figlio viene guidato nell’azione. Dall’altra parte il figlio, che si trova normalmente a comportarsi in un certo modo, non sa se quel comportamento deriva realmente da ciò che lui desidera o invece rispetta ciò che dai suoi genitori è ritenuto giusto. Se torniamo alla domanda chiave “che cosa ti aspetti da me?”, ecco che, sentito “con la pancia” di un figlio che sta ancora dentro la sua mamma, quello che abbiamo finora raccontato potrebbe assomigliare a qualcosa del genere: - devo svilupparmi da embrione a bambino così che voi vi sentiate mamma e papà 12
- devo evitare di avere patologie in modo che vi sentiate forti e capaci oppure devo confermare che avete dei problemi e quindi devo avere qualche problema - devo essere paziente e non piangere troppo così non disturbiamo nessuno oppure devo essere forte e spaventare tutti e appena nato gli devo far sentire quanto so urlare e sono forte.
Strano eh! Eppure se potesse parlare ce lo racconterebbe proprio così. Spesso queste cose si raccontano anni dopo nel corso di una analisi personale ed è per questo che dobbiamo prenderle in considerazione qui. Torniamo al tema della consapevolezza. Se si chiede a genitori di figli preadolescenti che cosa si aspettano loro, la maggior parte di loro risponderebbe: che stiano bene, che vadano bene a scuola, che siano ubbidienti. Analogamente, se si chiede a ragazzi in età scolare che cosa si aspettano i genitori da loro si ottengono risposte altrettanto standard: che prenda buoni voti a scuola, che si comporti bene... Apparentemente una piena congruenza no? E allora dove sta il problema? E se invece questa congruenza nascondesse proprio l’insidia di cui ci vogliamo occupare in questo manuale? 13
Ma come possiamo credere che sia semplice che un figlio, che a partire dal momento del concepimento ha suscitato aspettative sulla sua identità, riesca a diventare un uomo/donna libero/a? E soprattutto, che possibilità ha un bambino di esprimere qualcosa di diverso da ciò che i genitori gli richiedono? Ci siamo accontentati di trovare una congruenza “formale” tra ciò che i genitori si aspettano da un figlio e ciò che un figlio crede che i genitori si aspettino da lui, ma non ci siamo chiesti se il bambino ritiene queste aspettative giuste e coerenti con e per se stesso e se il genitore sa di avere messo in atto un importante processo di richiesta di comportamenti. Per la verità non ci è neanche venuto in mente di doverci porre questa domanda “perché in fondo le aspettative dei genitori sono corrette, no?” Vi sto portando a ragionare in maniera paradossale, perché ho voglia di passarvi uno strumento e non una lista di consigli e questo consiste nella capacità di analizzare alcuni fatti e alcuni fenomeni della relazione “genitore – figlio” . Vi siete mai chiesti perché l’attività psicoterapeutica si chiami analisi? Il concetto di analisi è stato preso dalla chimica: per capire di cosa sia composta una sostanza
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bisogna scomporla nei suoi elementi fondamentali. Analogamente l’analisi psicologica di eventi apparentemente ovvi, porta ad interessanti scoperte circa gli elementi che li hanno generati. E allora la domanda più coerente con il tema di questo manualetto, diventa: le aspettative del genitore possono consentire ad un figlio di essere autonomo e felice? Non vi sembra che il fatto stesso che io mi stia occupando di questo tema e che chi sta leggendo abbia già comprato “il problema” acquistando questo manuale, dimostra che un piccolo dubbio è presente nella testa di tutti noi?
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POESIA
a cura di Luca Carbonara
Renzo Piccoli
Cantar de mi amor poesie e canzoni dell’iride 4
VOLUME VERDE
I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella, che pascolano tra i gigli. CANTICO DEI CANTICI, 4, 5
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PREFAZIONE
Confesso di provare un pizzico di sana invidia verso la creatività del poeta Renzo Piccoli che, in nemmeno un quinquennio, ha prodotto più liriche di quanto io ne abbia collezionato in circa un trentennio. Che sia stato invaso dal Daimon, l’ispiratore divino, del quale parla Socrate in uno dei celebri Dialoghi Platonici? Se così fosse, mai lo abbandoni. Al massimo, gli conceda brevi pause di ristoro. Poiché la produzione artistica generale e quella poetica in particolare è come una gestazione più o meno prolungata. Che si conclude con il travaglio e il parto dell’opera. Da cui deriva un senso di gaudio infinito verso la propria creatura e di spossatezza della mente e del corpo. Dipende dalla fibra dell’artista e dalla sua indole, se è prolifico o meno. Renzo Piccoli si rivela un genitore generoso che crede nel proprio ruolo. Tralasciando la proficua produzione precedente, siamo al quartogenito della collana e alla mia quarta prefazione. Ciò non mi crea difficoltà, anzi stimola a trovare aspetti originali di questo poeta. Forse perché assai dissimili, ma accomunati dalla fede nel compito perenne dell’arte e della poesia e dalla speranza che essa mai lasci l’uomo. Sarà l’era dei robot e delle macchine pensanti. Perfette in tutto, per ciò prive di quella straordinaria imperfezione umana che è l’immaginare e il poetare. Sono venticinque liriche di varia lunghezza. Libere nella struttura del verso e delle strofe, ma per questo ancora più curate nella forma. 7
Anche in questa raccolta si rileva una sorprendente varietà di temi. Una novità, non insolita trattandosi di un canzoniere, è il riferimento a complessi o brani che hanno rivoluzionato la musica attuale. La prima lirica è intitolata Lennonmania: E se, ti diverti ad ascoltare lungo i fiumi, nelle valli i richiami di una volta sembra chiaro il senso di un irrefrenabile “Yesterday”
Il richiamo a quello che è forse il più celebre brano di John Lennon serve da traccia per creare l’atmosfera di evocazione e nel contempo di disorientamento nelle diverse realtà del mondo, come Bahia o una delle tante Chinatown. Ciò fa del poeta un cittadino del mondo che, grazie alla poesia, può proiettarsi in ogni realtà. Altro richiamo alla musica recente si trova in una delle ultime liriche Melody Blood - blues: Melody Blood ti ha tradito perché ti amava e per pagare l’affitto il lardo ed altre cose ti ha tradito più di una volta per il tuo triste amore
Renzo Piccoli affascina per la capacità di assemblare frammenti di senso in situazioni disparate, che tuttavia generano nel lettore la percezione di un quadro unitario e coerente. Come certe tele di pittori astratti o futuristi. La musicalità dei versi e delle strofe agevola l’assimilazione e il godimento della composizione. 8
Il gioco dei nonsensi e dei paradossi, che è una delle caratteristiche del nostro poeta, non si risolve in un esercizio cerebrale, ma spinge il lettore a trovare la chiave di lettura più consona al suo sentire. L’ironia alleggerisce lo sforzo di comprensione. Un esempio è la lirica Belfiore: No, non voglio allontanare uno spettro illuminato dai nonsensi e dai perché
Un altro esempio di gioco dei contrasti e di sottile ironia si ritrova nelle ultime due liriche Ordine e disordine e Avverti gli inglesi: Avverti gli inglesi che il mare non finisce! Avverti gli inglesi che un altro impero ci sarà!
È la strofa di chiusura della raccolta. Arduo estrarre un significato univoco da questi versi. Che importanza ha? È più agevole lanciare a briglie sciolte il pensiero e lasciarlo andare. Forse il poeta dà una stoccata alle megalomanie dell’uomo e dei popoli, qui personificati dagli inglesi. Forse è il mare della poesia che non ha confini e prefigura un impero diverso, basato sulla bellezza, più che sulla potenza economica e militare. C’è anche il senso di finitezza della storia e del suo avvicendamento. Renzo Piccoli è un maestro nel creare atmosfere trasognate e senso di levità, che solo due arti rendono al massimo livello: la poesia e la musica. O ambedue fuse in un’unica espressione. Prendiamo due frammenti di Occhio di lince: 9
Ma chissà, quando l’ultimo aquilone prende vento e volerà […] Ma, non so, capire l’innocenza la voglia di vivere e sognare con spontaneità…
Altre intense pennellate del miracolo della natura che si rinnova in Non ho visto: Ed ho visto improvvise primavere tingersi di sole sentinelle della libertà
Il poeta trasferisce al lettore il senso di liberazione e di godimento sperimentato nel passaggio dal lungo periodo invernale alla nascente primavera. Un parallelismo simbiotico tra i cambiamenti delle stagioni e le trasformazioni del vissuto. Ma è la notte il set privilegiato degli incontri, degli amori, nonché di sognanti attese. Un brano da Incontrarti, di notte: Son sinceri quei saluti tanti baci e giuramenti quel “A presto”, quei chissà… Il tuo lume resta acceso nella notte solo il grillo canta la sua libertà
In questa silloge, come in ogni raccolta poetica conosciuta, è l’amore il dominatore incontrastato, anche quando si mani10
festa nel suo opposto, l’odio. Dal catulliano Odi et amo, sappiamo quanto il passaggio dall’attrazione alla repulsione e viceversa sia frequente e naturale nelle vicissitudini di un rapporto, pure non troppo tempestoso, quale fu tra Catullo e i suoi amanti, ragazzi o donne, in special modo Lesbia. Si scorrano le strofe di Aspettami, fino all’ultima: Sui gioghi delle sere sui convogli delle ore sui freddi marciapiedi su finestre su guanciali aspettami, aspettami perché io verrò!
Difficile rendere meglio l’invocazione disperata di un innamorato in attesa. Parlando degli amori del poeta, non si può non rilevare alcune assonanze felliniane. Con il grande regista, Renzo Piccoli condivide l’humus ambientale e culturale. Le donne che ama sono indubbiamente “strane”, sospese tra magiche evocazioni e incontri reali. Si veda Ah, Barbara!: La magica atmosfera accesa intorno alla candela i tuoi anni e la tua gioia di non saperti affatto sola
Scorrendo le sillogi di Renzo Piccoli, ci si rende conto che è poeta da assimilare con il passare del tempo e grazie a riletture. Come un vino di rango che va assaporato e centellinato. Non è poeta da fast food, ammesso che vi siano poeti così. Forse narratori e creatori di sceneggiati possono scrivere in serie. 11
Il vantaggio della poesia è la persistenza dei messaggi e delle emozioni che la accompagnano. La poesia è dolore e conforto, esaltazione ed evocazione, tormento ed estasi, denuncia del male ed esortazione al bene, speranza e abisso, fede ed espiazione della colpa, ripulsa e attrazione, odio e adorazione. È amore senza limiti, né pregiudizi. Concentra tutto ciò che scaturisce dal cuore e dalle viscere, dalla ragione e dallo spirito. Fonde spontaneità e raffinato artificio. Meglio di ogni altro prodotto dell’uomo ne esprime, dall’inizio dei tempi, l’essenza e le facoltà. Si dice che la specie eletta dei vati e dei poeti è quasi estinta. Non è così. Come linfa vitale, l’ispirazione poetica scorre sottotraccia, nelle vene dell’anima. Quando meno te l’aspetti trova modo di zampillare, dando ristoro a tutti. Ciò richiede che resti pura e incontaminata da ciò che intossica l’umanità. In primo luogo, avidità e sete di potere. Per questo il poeta è come le lucciole e le farfalle che segnano il livello di salute della natura. È come le rondini che annunciano il ritorno delle stagioni. Per fortuna, la poesia è un dono che non ha bisogno di protezione, né soffre di barriere. Accompagnerà l’uomo finché sarà. Forse gli andrà oltre, per restare a disposizione di esseri non meno sensibili, più adatti alla sopravvivenza. Altrimenti non si spiegherebbe la consapevole sublime follia che è il poetare e il cantare. “Laudato sii mi Signore, e per tutte le creature”. Lode anche ai poeti, come Renzo Piccoli, che Ti danno voce. Salvatore Merra
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LENNONMANIA
Così, segui il fumo di una monital fra i palazzi, fra le scale abbandonata sui sofà nelle notti luccicanti di bagliori misteriosi
I rumori di Bahia odore acre d’osteria son fantasmi che ritornano
Mai, scegliesti tra i sospiri d’inventare altre lune coi coriandoli infantili nei versanti malfamati di un’improvvisa Chinatown
Ah sperduta e fantasiosa sfogli i petali di rosa chiedi: “Adesso dove sono?”
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E se, ti diverti ad ascoltare lungo i fiumi, nelle valli i richiami di una volta sembra chiaro il senso di un irrefrenabile “Yesterday”
Suona, suona la campana della cerimonia tua profana dolce impulso di preghiera
Per me, i tuoi fremiti son già futuro quel profumo un vezzo arcano nella patria ritrovata tra i sermoni dei saccenti che han bisogno di proclami
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EUREKA!
Miseria e nobiltà nei tuoi occhi scuri la treccia un decoro per i sabati di campagna e la nuova ardesia non pone ostacoli sui vasti porticati la finestra allegra gioca col turchino le gobbe dei due monti strascico sulle nudità
Una risposta secca ti fa ridere ancora da sotto gli occhi lucidi per febbrili compassioni tu sei sempre bella come un’imitazione dove la madonnina altera aspetta il viandante il deposito della cauzione altre spese convincenti
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Come la notte il discolo blandisce a dismisura segui il vacuo ordito e particolari abnormi il riposo dei tuoi anni le udienze le esaltazioni aleggia giù nel vortice la fiamma del destino con orbite indescrivibili a loro modo esatte
Eureka! Per elezione annunci la trovata un trasvolo a piedi pari i serramenti appesi un segno di saluto e giù nel bosco a mietere tutte le prorompenti attese ali di libellule sul filo della fonte
Perché singulta luce risplendi per qualcuno disteso sulle ottomane sulla polvere del selciato quando i cosacchi avanzano all’ordine concitato tocchi l’indifferenza di un invisibile parente come te nascosto nei margini scabrosi?
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CORRE IL TEMPO Nei sentieri della notte sogni draghi e principesse le avventure e gl’impeti quando la brezza ti sfiora
Passi davanti ai dormitori sulla pensilina della stazione parvenze giuste confortanti di straniere bionde e disinvolte dentro sacchi o a gambe nude sono angeli o viandanti? Corre il tempo con la vita tra pensieri e intraprendenze rischiara la tua mente il sottofondo della cuffia ripete in ripresa sempre il ritmo dei Duran Duran
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AHI PER SEMPRE
Quelli che ci stanno a soppesare dicono: “Guarda quei due non la smettono mai di litigare” Perché tutto fa senso e a tutto si fa caso se l’aria è bassa oppure puzza sotto il naso Quando cesseremo di mettere i guantoni forse saremo vecchi ed anzi un po’ burloni questa famiglia ingrossa ce ne accorgiamo appena il tempo delle lune si scopre a dismisura Ahi perduto amore non serve fuga o danno allaccia la corona sopra il tuo corpo scarno Ahi una pugnalata mediti il colpo basso rosso di sangue il letto si placa il gran fracasso
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Non mi dire più parole se non le pensi affatto serbiamo nel ricordo il bello che c’è stato Verdi chitarre intorno lo sguardo è maddalena oscilla in avanti il pendolo oltre la fontana chiusa Quando pervieni al culmine c’è sempre un’altra vetta sospiri e pulsi a tratti la strada percorsa è vana Chi mi troverà, chi mi raggiungerà? Per tutti grido forte sopra all’oscurità Le note scendono con ritmo placido e solenne ti sistemi l’aureola davanti lo specchio inerme
Ahi per sempre niente più mi tocca dove posso collocare questo peso che ho nel cuore?
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PICCOLA FIAMMA
Piccola fiamma, piccola fiamma cosa fai? Piccola fiamma, piccola fiamma non ti spegnerai!
La volontà, l’onore l’orgoglio di continuare e manifesti invero sotto lo spessore di incogniti adulteri quel sentimento spurio che ti fa sobbalzare E corri per i prati incontro all’avvenire lasci l’anacoreta alle sue meditazioni
Piccola fiamma, piccola fiamma non scherzi mai? Piccola fiamma, piccola fiamma ancora piangerai! 21
Se rincorri l’impossibile ti serva da paragone ogni pietà non vale dietro un vuoto simbolo le devozioni serali l’anello nello scintillante aquarium vola la tua superba ansia sopra i confini di nebulosi cieli
Piccola fiamma, piccola fiamma già lo sai! Piccola fiamma, piccola fiamma che ti perderai!
Piccola fiamma, piccola fiamma ti fermerai? Piccola fiamma, piccola fiamma là dove non sei?
Le tribù dei capofamiglia coi serti in gommapiuma conduci al prossimo giro anche se tutto scuote anche se tutto aumenta divertiti per ora prima della tormenta Ogni augurio è d’obbligo se miri più al rialzo delle sudate ampolle resta l’ultima visione 22
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