Storia dell'elettricità

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Storia dell’elettricità

Breve storia dell’elettricità dall’ambra degli antichi greci ai pannelli fotovoltaici


Autore: Enrico Halupca Editing: Sintesi srl Photo credits: Sintesi srl, Enrico Halupca Editore: SSO – Svet slovenskih organizacij / Confederazione Organizzazioni Slovene Project manager: Ivo Corva © SSO – Trieste, 2020 La presente pubblicazione è reperibile in formato elettronico all’indirizzo: www.lightingsolutions.org Pubblicazione finanziata nell’ambito del Programma di Cooperazione Interreg V-A ItaliaSlovenia 2014-2020, finanziato dal Fondo europeo di sviluppo regionale. Il contenuto della presente pubblicazione non rispecchia necessariamente le posizioni ufficiali dell’Unione europea. La responsabilità del contenuto della presente pubblicazione appartiene all’editore SSO.


Storia dell’elettricità Breve storia dell’elettricità dall’ambra degli antichi greci ai pannelli fotovoltaici



Una risorsa insostituibile

Fenomeni appariscenti e macroscopici quali il fulmine nel cielo notturno che improvvisamente illumina lo spazio circostante prima di esser seguito dal suo sinistro boato o al contrario, assolutamente microscopici e silenziosi come l’attrazione di piccoli frammenti di paglia su una bacchetta d’ambra che può passare inosservata per millenni, sono tutti riconducibili a un’unica forza di base che permea l’universo, l’elettricità. L’elettricità è oggi sfruttata dalla nostra tecnologia più avanzata per far funzionare il nostro mondo in vari contesti. Come potremmo lavorare negli uffici, nelle università, nei nostri avanzati centri di ricerca, senza l’elettricità che fornisce energia a tutte le apparecchiature che ci servono per scrivere, comunicare, archiviare le informazioni utili? Difficilmente potremmo fare a meno dell’inseparabile smartphone, che ci portiamo appresso senza spegnerlo mai facendo affidamento sulla durata delle pile ricaricabili al litio. Senza l’elettricità tutta l’industria si fermerebbe all’istante. L’emergenza Covid-19 del 2020 ha dimostrato che durante il lock-down con la chiusura forzata delle attività lavorative, il consumo di energia elettrica è sceso solo di un 9% a livello globale, molto meno di quanto tutti si aspettavano. Il motivo è che anche il tempo libero, che nelle nostre società Una risorsa insostituibile

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si consuma per gran parte dopo il calar del sole, sarebbe veramente difficile da gestire a lume di candela. L’illuminazione degli ambienti interni ed esterni è elettrica, affidata oggi a una tecnologia led a basso consumo che sta progressivamente rimpiazzando le lampadine pochissimo efficienti da un punto di vista energetico. La mobilità con la sostituzione del motore elettrico al carburante fossile sta adeguandosi a rispettare sempre più il Green Deal, il nuovo corso energetico intrapreso dall’Europa per evitare il surriscaldamento ambientale, sulla scia delle decisioni internazionali per la salvaguardia del clima (Protocollo di Kyoto, Accordo di Parigi) in preparazione del Summit di Glasgow che si terrà nel 2021. Senza paura di essere smentiti si può dire che l’elettricità è diventata in assoluto la risorsa energetica principale della nostra civiltà contemporanea. Una componente insostituibile del nostro mondo altamente tecnologizzato. Un bene primario come, per esempio, l’ acqua lo è da sempre per il nostro sistema biologico. Di tutte e due non potremmo farne a meno. Sono risorse fondamentali e insostituibili. Oggi più che mai ci si è accorti che quando questo tipo di risorse scarseggia per mala-distribuzione si generano squilibri sociali di grande portata a livello planetario. In un mondo globalizzato e interdipendente come il nostro, saper usare bene di queste risorse diventa dunque un “must” fondamentale per il nostro comune futuro. Un uso consapevole dell’energia elettrica è di fondamentale importanza non solo per la sfera economica di una nazione, ma anche per il benessere condiviso in termini di minore

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inquinamento del pianeta, riduzione del surriscaldamento globale, ripristino del clima verso valori naturali di variabilità. Ma cos’è l’elettricità? A pensarci bene per il senso comune, anche se sono passate più o meno 10 generazioni di uomini - 220 anni - da quando Alessandro Volta inventò la pila elettrica, questa energia invisibile è ancora percepita dalla maggioranza di noi un po’ misteriosa. Certo dai manuali di fisica, dopo le scoperte di inizio ’900, troviamo spiegazioni dettagliatissime di cosa sia: “L’elettricità è una delle proprietà fondamentali della natura e si manifesta attraverso attrazioni o repulsioni tra corpi e deriva dalle proprietà atomiche della materia”, “i corpi dotati di questa proprietà si dicono elettricamente carichi” e “i responsabili di questa carica sono delle particelle che fanno parte degli atomi della materia, gli elettroni, che portano una carica negativa…” ecc. (TuttoFisica, De Agostini, 2019)

Molti di noi, pur conoscendo questi concetti elementari di fisica, si saranno comunque posti alcune domande più o meno complicate, anche ingenue per certi versi, senza sapere poi se la soluzione creduta come probabilmente giusta fosse effettivamente quella esatta. Facciamo qualche esempio con una serie di quesiti che mi sono posto io personalmente: Perché c’è una “elettricità statica” ed esiste una “corrente

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continua”. Che cos’è un fulmine e che bisogno c’era che Benjamin Franklin rischiasse di rimanere fulminato facendo volare un aquilone? Perché un grande genio come Nikola Tesla pensò per primo di trasportare l’elettricità ad alta tensione e per giunta progettò le prime dinamo a “corrente alternata” invece che “continua”? E come fa la corrente “alternata” che oggi abbiamo nelle nostre case ad accendere una lampadina in continuità? O azionare un motore elettrico in un’unica direzione, se il flusso di elettroni presente nel circuito si sposta velocissimamente tra i due poli, per l’esattezza con la frequenza di 50 alternanze al secondo qui in Europa? E perché il pannello fotovoltaico è connesso ad un’intuizione di Einstein precedente la Teoria della Relatività? E il led, come mai ha tardato tanto per essere adottato come fonte di illuminazione? Sono solo alcuni esempi tra i tanti che si potrebbero fare. Ecco dunque la necessità di conoscere un po’ di storia di alcuni elementi base, anche attraverso questa mia semplificata “Breve storia dell’elettricità”, che permetterà di orientarsi nella soluzione delle “FAQ” (frequently asked questions) che i più curiosi di noi si pongono. Non troverete qui certamente un puntuale manuale didattico con le risposte preconfezionate, ma un racconto del percorso storico che ha portato, passo dopo passo, intuizione dopo intuizione, attraverso il lavoro indefesso delle menti più geniali, alla straordinaria trasformazione tecnologica che stiamo vivendo. Buona lettura! L’autore - Trieste, ottobre 2020

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1 Attrazioni inspiegabili

Petrus Peregrinus

LA SCOPERTA DEI FENOMENI ELETTRICI E MAGNETICI


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a tecnologia che sfrutta l’energia elettrica si è diffusa relativamente tardi nel nostro mondo. Appena nel ’900, in un lasso di tempo molto breve, assolutamente “fuori scala” se paragonato allo sviluppo di altre soluzioni tecnologiche impiegate dall’uomo nel corso della sua storia plurimillenaria. Pensiamo per esempio alla trazione con forza animale, in uso da 5000-6000 anni fin dagli albori delle civiltà di cui abbiamo conoscenza archeologica, oppure alla forza idraulica, conosciuta e impiegata già in epoca romana, ma mai adeguatamente sfruttata e di cui si perse addirittura memoria fino quasi all’anno Mille, quando con l’avvento dei mulini idraulici si diffuse capillarmente in tutta Europa, per poi scomparire e questa volta definitivamente, appena nel secondo dopoguerra. Soppiantati dai grandi mulini a vapore già nell’800, poi da quelli a combustione interna ed elettrici. Affinché si facesse un uso capillare dell’elettricità come succede nel mondo a noi contemporaneo, bisognava essere in grado di scoprire le leggi universali che la regolano, valide dappertutto, in ogni parte dell’universo conosciuto. Per fare questo bisognava staccarsi dal sapere tradizionale e trovare la chiave di lettura più adatta per tradurre in concetti e formule matematiche quei fenomeni che la natura celava da sempre ben prima che qualcuno se ne interessasse. Grandi menti di uomini dotati di una capacità di osservazione e di analisi al di fuori del comune, riuscirono in questa impresa meravigliosa. Nell’arco di 3 secoli, grossomodo dall’inizio del 1600 all’inizio del 1900, parallelamente al costituirsi in Europa di comunità scientifiche che posero le basi del nostro

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attuale sapere, vennero elaborati i concetti fondamentali di un edificio teorico su cui, mattone dopo mattone, la parte teorica fece da supporto ad una nuova tecnologia alimentata dall’energia elettrica e fiorirono le apparecchiature per sfruttarla senza pericolo a vantaggio di tutta l’umanità. Fin dagli albori della civiltà occidentale, ci si accorse dall’osservazione della Natura, di alcuni fenomeni curiosi, apparentemente inspiegabili. L’attrazione del ferro da parte di alcune rocce fu senza dubbio uno di questi fenomeni che andava spiegato perché sembrava un’eccezione alle normali regole del senso comune. Una leggenda narrata da Plinio il Vecchio riferisce che in Grecia, molti secoli fa, fu un umile pastore di nome Magnes, ad accorgersi di questa anomalia. Abituato a percorrere ripidi sentieri solitari per portare al pascolo il suo gregge, un giorno decise di attrezzarsi con un bastone a cui aveva applicato un puntale di ferro e con dei sandali le cui suole, rinforzate con dei chiodi di ferro avrebbero avuto più presa e non si sarebbero consumate tanto presto su quei sentieri sassosi. Giunto però su un tratto di strada dove affioravano delle rocce nere lucenti, notò che il bastone veniva attratto da quelle strane rocce e per quanto si sforzasse di camminare più velocemente, la fatica aumentava. I suoi sandali inspiegabilmente, invece di facilitarlo nel percorso, lo rallentavano. Una forza misteriosa tratteneva i suoi passi e una volta che si era fermato, a stento riusciva a staccare i piedi dal suolo. Magnes pensò che quella roccia nera e lucente racchiudesse una maledizione degli dei degli inferi, e preso dal panico, abbandonò quel tratto di sentiero, lasciando anche i suoi sandali attaccati su quel suolo infido. Da allora la roccia nera su cui si era avventurato

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Magnes prese il nome di magnetite e tutti i corpi solidi con proprietà analoghe, “magneti”. I filosofi greci, osservando le meraviglie della natura, scoprirono altri fenomeni di attrazione molto particolari non riconducibili alle proprietà dei magneti: negli scritti di Aristotele viene riportata la notizia che già nel VI secolo avanti Cristo ai tempi di Talete di Mileto (640 a.C. – 548 a.C.), ci si era accorti di un altro fenomeno curioso: strofinando con una mano asciutta un oggetto di ambra gialla e avvicinandolo velocemente a delle pagliuzze di paglia, queste ne venivano attratte e alcune di esse ne erano inspiegabilmente respinte subito dopo. Perché? Tale proprietà che oggi conosciamo come elettricità statica, dovuta al veloce cambio di carica elettrica positiva e negativa sollecitata dallo sfregamento, era in realtà molto diversa strutturalmente da quelle dei campi magnetici permanenti presenti nel magnete, ma per distinguere tra i due fenomeni che sembravano accomunati da un’unica forza attrattiva e capire la differenza tra fenomeni elettrici e fenomeni

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magnetici ci volle molto tempo. Bisogna arrivare al nostro alto Medioevo. Le proprietà degli oggetti magnetizzati che, se liberi di ruotare si orientano spontaneamente, erano già note in Cina nel I secolo d. C. I marinai cinesi usavano come bussola uno strumento a forma di cucchiaio (si-nan-shao) che libero di ruotare su una piastra di bronzo, puntava il manico verso il Sud. In occidente prese piede tra i marinai l’uso di un semplice ago magnetizzato che messo in equilibrio su un’asse verticale, in assenza di attriti puntava verso Nord. A farne menzione per la prima volta è il canonico inglese Alexander Neckam (St Albans 1157- Kempsei 1217). Nel 1190, nel suo De utensilibus consiglia vivamente di portare sempre a bordo questo meraviglioso strumento tanto semplice quanto indispensabile per trovare la direzione cui puntare in mare aperto anche se le condizioni di visibilità sono proibitive a causa delle condizioni metereologiche: Se uno desidera che la sua barca sia ben provvista di tutte le cose, allora deve avere anche un ago montato su un dardo. L’ago oscillerà e girerà finché sarà diretto verso Nord. (De utensilibus, 1190 ca)

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Ma a trattare dell’argomento per la prima volta in modo sistematico fu un personaggio dalle capacità osservative eccezionali, formatosi in ambienti alchimistici francesi. Il suo nome era Pierre de Maricourt, ma universalmente noto, dopo i suoi viaggi in terrasanta, col nome di Petrus Peregrinus (XIII sec. d. C.) Della sua vita sappiamo poco. Che fosse un alchimista alla ricerca delle leggi che regolano la trasmutazione dei metalli può sembrare strano alla nostra sensibilità moderna, ma in quel periodo che stiamo parlando la distinzione tra scientifico, parascientifico, non ha molto senso come distinzione in quanto il metodo scientifico occidentale doveva ancora nascere nella tradizione di studi occidentale, nel campo della filosofia naturale. Ne parla con grande ammirazione un altro famoso alchimista del XIII secolo, Roger Bacon (Ruggero Bacone in italiano), indicando le qualità fuori dal comune di quell’uomo che lui considerava suo maestro d’arte e spirituale: “Ciò che altri cercano a tentoni, come pipistrelli nel crepuscolo della sera, quest’uomo (Petrus Peregrinus) lo contempla in pieno splendore, perché è un maestro negli esperimenti. Conosce per esperienza la scienze naturali, in medicina e in alchimia, in cose celesti e terrestri. Sa tutto della fusione dei metalli, lavora l’oro e l’argento, e gli altri metalli, e tutti i minerali... è esperto di armi e di cose militari, e ha esaminato tutti gli aspetti dell’agricoltura e della misurazione dei campi… Egli segue la conoscenza per sé stessa, e non tiene in conto gli onori e le ricchezze, anche se potrebbe arricchirsi benissimo, se volesse, con la sua conoscenza. (Opus maius, 1267)

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Petrus Peregrinus l’8 agosto del 1269, mentre si trovava in Puglia con le truppe di Carlo d’Angiò I che stringevano d’assedio la città di Nocera, forse annoiato dallo stallo delle operazioni, si concesse una pausa meditativa, scrivendo una lettera a un suo amico d’infanzia, un soldato di nome Sigier, rimasto in Francia nel paesino di Foucacourt. Nell’Epistola cominciò a narrare dei prodigi di una pietra magnetica, e di come in essa stranamente gli opposti non si respingano come i nemici negli assedi, ma attraendosi si uniscono a formare una cosa sola. La sua lettera, ricca di molte altre curiose osservazioni non si limita a menzionarle come fossero un mero elenco di fatti curiosi, ma organizza tali osservazioni ordinandole in successione, creando per la prima volta una teoria, sulla base anche di piccoli esperimenti creati ad hoc per vederne gli effetti. Scrive di fatto il primo trattato sul magnetismo, inteso proprio come un capitolo di scienza sperimentale, aprendo la strada alle ricerche successive. La sua Epistola sul Magnete, al di là di rimanere un fatto privato tra due amici di lunga data, conobbe una grande fortuna ed ebbe una diffusione su vasta scala – almeno per i parametri dell’epoca – che Petrus Peregrinus non poteva minimamente immaginare. Venne infatti inserita in una specie di collana di libri di scuola medievali, nel Secretum Philosophorum, diffusasi nell’ambiente dotto dell’Inghilterra del Trecento e approdò anche sul continente nel 1520 tradotta e ristampata in tedesco dall’editore Gasser ad Augusta, tramandandosi poi ulteriormente attraverso altre traduzioni più o meno accurate a circa dieci generazioni di studenti. A menzionare l’Epistola di Petrus Peregrinus troviamo anche un dotto inglese, amante della sperimentazione e della ricerca della verità sui

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fenomeni naturali: William Gilbert, un altro gigante per la storia del magnetismo e personaggio chiave per il prosieguo del nostro racconto sulla storia dell’elettricità.

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William Gilbert

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L’ “EFFLUVIUM ELECTRICUS” DI GILBERT

Fluida come acqua


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i deve allo studioso inglese William Gilbert (Colchester, 24 maggio 1544 – Londra, 30 novembre 1603) l’invenzione della parola “elettricità”. Nel suo famosissimo libro “De Magnete”, stampato a Londra nel 1600, introdusse infatti per la prima volta nella storia la parola “elettricità”. Lo fece attraverso l’aggettivo “electricus”, passato poi dal latino nel vocabolario inglese “electric”, una parola che evidentemente gli venne in mente mutuandola direttamente dal termine greco élektron, l’ambra gialla, che tanta popolarità ebbe nell’antichità quando si doveva parlare di questo tipo di fenomeni naturali. Nonostante scrivesse in latino come la maggior parte degli eruditi del suo tempo, per creare il nuovo termine si ispirò all’antico greco. Se avesse infatti scelto il termine latino succinum con cui per tutto il medioevo si definiva l’ambra gialla, anziché il termine greco élektron, oggi parleremo di “forza succinea” oppure di “potenziale succineo”, anziché di “forza elettrica” e “potenziale elettrico”. Ma il rispetto per la tradizione e l’autorevolezza antica ebbe evidentemente la meglio nello scegliere la radice del vocabolo che è rimasto universalmente d’uso corrente in tutte le lingue del mondo. Fu lui dunque, in un certo senso, il padre che scelse il nome di battesimo dell’energia naturale che ha assunto tanta importanza nella società contemporanea. William Gilbert, spentosi a 59 anni a Londra durante l’epidemia di peste del 1603, fu il classico gigante su cui molti altri pensatori e scienziati montarono sulle spalle per avanzare nei loro studi.

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A sua volta Gilbert aveva sfruttato le osservazioni plurisecolari della tradizione classica tramandati dai monaci amanuensi che con infinita pazienza e dedizione per secoli copiarono le opere di Aristotele e Plinio il Vecchio, e altri importanti filosofi greci, traducendole in latino medievale e salvandole dall’oblio. Nel suo trattato vi fu certamente anche una certa influenza del sapere alchimistico, che concorse ad affrontare il problema di spiegare i fenomeni magnetici da un lato inedito, certamente sconosciuto ai pensatori greci. Ma dal raffronto di questi due saperi scaturì un nuovo modo per comprendere il fenomeno. L’idea geniale di Gilbert fu di costruire una piccola sfera di magnetite non più grande di un’albicocca che simulava su piccola scala ciò che succedeva in forma più macroscopica sulla Terra. Spostando infatti un ago di ferro magnetizzato a pochi centimetri dalla sfera magnetizzata, poteva osservare il reale comportamento di una bussola come se si spostasse per chilometri sulla superficie terrestre. Gilbert, descrisse questo suo geniale artifizio tecnico col nome di “Terrella”, cioè “piccola terra”, un modello che gli permise di postulare l’esistenza di un campo magnetico terrestre. La scoperta di Gilbert del campo magnetico terrestre che fa puntare le bussole in un’unica direzione sfatava una volta per tutte l’erronea convinzione che fosse la stella polare ad attrarre, in forza di una sua misteriosa virtù naturale, gli aghi magnetici verso nord.

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Nel suo trattato De magnete enunciò per primo altri concetti chiave che verranno utilizzati successivamente dagli studiosi che seguiranno. Come, ad esempio, l’idea che nel mondo vi siano delle polarità positive e negative, e il concetto di energia elettrica concepita come un fluido (effluvium) simile per comportamento all’acqua, ma assolutamente invisibile. Si accorse anche di un altro fatto fondamentale. L’attrazione di piccoli oggetti che si poteva notare sfregando un bastoncino d’ambra, era differente dall’attrazione di piccoli oggetti di ferro da parte di un magnete. Gilbert capì per primo che l’elettricità statica era qualcosa di diverso dal magnetismo. Nell’Europa del 1600 con gli studi sul magnetismo si cominciarono dunque a costruire le basi concettuali per lo studio scientifico dell’elettricità, una ricerca che dapprima in sordina, poi sempre più velocemente avanzò nel 1700, per fiorire decisamente con passi da gigante nel corso dell’800 in una sequela di innovazioni concettuali senza precedenti. Un altro passo fondamentale da fare per capire cosa fosse l’effluvium elettrico dalle caratteristiche così potenti e strepitose, fu quello di poter riprodurre con esso degli esperimenti in laboratorio. Ma per fare questo era necessario poterne disporre a volontà, producendo artificialmente questa forza invisibile per poterne far uso nei laboratori al momento opportuno e in maniera controllata. Nasceranno così, nella seconda metà del 1600 i primi rudimentali generatori di elettricità statica.

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3 Macchine di scintille

Francis Hauksbee

GLOBI ROTANTI E ARCAICI ELETTROGENERATORI


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ella seconda metà del 1600, il primo congegno capace di produrre grandi quantità di elettricità statica si deve al fisico tedesco Otto von Guericke (Magdeburgo, 20 novembre 1602 – Amburgo, 21 maggio 1686). Oggigiorno questo geniale scienziato prussiano è ricordato soprattutto per le sue innovazioni sul concetto di vuoto (vacuum), che lo portarono già a suo tempo a una eccezionale fama universale. Nel 1650 ideò la prima pompa pneumatica per la creazione del vuoto. Famosissimo fu l’esperimento, che tutti conosciamo dai libri di storia, dei cosiddetti “emisferi di Magdeburgo”, in cui nemmeno la forza di una quadriglia di cavalli poteva staccare una coppia di semisfere forgiate a coppa se al loro interno veniva creato un vuoto spinto. Con la stessa passione ed ingegno si dedicò anche allo studio dei fenomeni elettrici che potevano produrre effetti anche a distanza. Ciò stava particolarmente a cuore a von Guericke perché con i risultati positivi ottenuti in questo campo allora ancora del tutto sconosciuto, riuscì a convalidare una sua tesi generale su cui aveva lavorato per anni: nel vuoto potevano agire forze esterne. Nel suo Experimenta Nova del 1672 descrisse un ingegnoso congegno che costruì per creare elettricità statica. Riempendo con la polvere di zolfo uno stampo di metallo, e riscaldandolo sul fuoco, si poteva ottenere una sfera di zolfo abbastanza grande e di non troppo peso a cui poteva venire inserito un tubo di metallo sull’asse verticale, in modo da avere un supporto adatto a creare una rotazione della sfera. Se si tratteneva il tubo e si faceva ruotare su se stesso il

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globo, si poteva frizionarne la superficie con un panno in modo continuo, caricando potentemente lo zolfo di elettricità statica in pochissimo tempo. La carica elettrica così ottenuta poteva generare degli evidenti e spettacolari effetti a distanza.

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La sfera di zolfo caricata di elettricità statica poteva infatti attrarre a sé dei piccoli oggetti e respingerli subito dopo facendoli levitare nell’aria o, addirittura generare scintille visibili anche in ambienti non completamente oscurati. Von Guericke si accorse anche che a volte questi oggetti, una volta attratti venivano respinti immediatamente nella direzione opposta, confermando in questo le osservazioni del gesuita italiano Niccolò Cabeo (Ferrara, 1586 – Genova, 1650) che descrisse questo strano fenomeno già nel 1629. Il “globo sulfureo” di von Guericke suggerì anche al suo inventore, un po’ come successe a Gilbert con la sua “Terrella”, di concepirlo mentalmente come un modello in scala per spiegare alcune anomalie nei moti dei pianeti, attribuendone una causa elettrica di attrazione e repulsione nel vuoto. (La legge di gravitazione universale di Isaac Newton, 16421726, doveva infatti ancora essere formulata 15 anni dopo). Anche se al nostro tempo la sfera di von Guericke ci possa far sorridere per la sua estremamente semplice e quasi disarmante fattura, al punto che qualcuno è incerto se si possa parlare di una “macchina elettrica” vera e propria, il dispositivo ebbe una risonanza vastissima. Era infatti il primo generatore elettrostatico abbastanza semplice da realizzare, che metteva a disposizione di studiosi e appassionati di fenomeni elettrici, quello strano “effluvium” elettrico capace di generare quei fenomeni a distanza così spettacolari: attrazioni di piccoli oggetti e scintille luminose. Il generatore di von Guericke, venne perfezionato negli anni seguenti utilizzando altri materiali “elettrizzabili”, come il vetro ad esempio, che con l’aiuto di pulegge motrici poteva reggere rotazioni più durature nel tempo, senza consumarsi

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o sfregolarsi in mille pezzi tra le mani dello sperimentatore. Tra queste primissime macchine elettriche, molto celebre fu quella molto performante messa a punto da Francis Hauksbee (Colchester, 1660 – Londra, 1713), il genialissimo assistente di laboratorio di Isaac Newton. Agli inizi del ’700, fu lui a usare per primo il vetro come materiale elettrizzabile e ad accorgersi di un nuovo fenomeno elettrico che nessuno aveva mai prima notato prima di lui. Se nelle ampolle rotanti di vetro che si caricavano con elettricità statica venivano introdotti dei vapori di mercurio, al loro interno si generava uno strano fenomeno molto spettacolare. Avvicinando la mano all’ampolla e sfiorando la superficie, si poteva osservare una debole luminosità color blu che come per magia seguiva il movimento della mano.

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All’epoca – siamo nel 1703 – si ignoravano le proprietà luminescenti dei gas ionizzati, fenomeno elettrico che sta alla base del funzionamento delle lampade al neon e delle lampadine a basso consumo prima dell’avvento dell’illuminazione a led. L’effetto era talmente curioso che venne sfruttato da illusionisti e ciarlatani per le loro fantastiche esibizioni con una creatività tale da sorprendere anche oggi. Con il generatore elettrico di Hauksbee, molto più potente della sfera di zolfo di von Guericke, si potevano creare delle situazioni “elettrizzanti” molto spettacolari. Per esempio vi fu chi su una tavola imbandita riusciva a dar fuoco a una coppa di cognac semplicemente avvicinando un dito al centro del bicchiere, oppure sorprendeva le persone con una l’esibizione di una “beatificazione elettrica”, vale a dire facendo comparire attorno a chi si prestava a far da cavia, un’aura luminescente molto simile alle aureole dei santi e beati raffigurati da secoli nell’arte sacra con questo attributo distintivo.

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Pieter van Musschenbroeck

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IL PRIMO CONDENSATORE ELETTRICO

Una bottiglia da shock


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a capacità di produrre elettricità statica con i globi rotanti già alla fine del ’600 e agli inizi del ’700, permetteva di produrre una debole luminescenza e scintille visibili anche alla luce del giorno. È naturale che l’uso di questi congegni si diffondesse anche nei salotti bene allo scopo di provocare meraviglia e divertimento degli astanti. Ma la potenza della macchina si sa, a volte può giocare brutti scherzi, soprattutto quando non si sa esattamente cosa si fa, perché – come sta scritto anche nella Bibbia: “Lo zelo senza riflessione non è cosa buona, e chi va a passi frettolosi inciampa.” (Libro dei Proverbi, 19,2)

Fu proprio con uno di questi globi rotanti potenziato che nel 1746 a Leida, una cittadina dell’Olanda meridionale, successe un incidente davvero insolito che avrebbe potuto anche concludersi molto tragicamente. Pieter van Musschenbroeck (Leida, 14 marzo 1692 – Leida, 19 settembre 1761), un fisico olandese all’epoca molto conosciuto in patria, aveva costruito un piccolo laboratorio casalingo per condurre esperimenti su quell’“effluvium” misterioso che oggi definiamo come elettricità statica. Procuratosi un generatore di von Guericke, aveva in mente di elettrizzare una bottiglia piena per metà d’acqua per vederne gli effetti. Cosa sarebbe successo nell’acqua trasparente se la si elettrizzava con un tempo di carica prolungato? Era possibile trattenere quel fluido misterioso nella bottiglia come fosse un liquido invisibile?

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Si poteva generare una scintilla luminosa sommersa? E l’acqua elettrizzata nella bottiglia si sarebbe debolmente illuminata come succede negli addomi luminescenti delle lucciole? Per rispondere a queste domande, Musschenbroek aveva collegato una sottile catenina di ferro a un generatore di corrente e fatto in modo che per metà della sua lunghezza il metallo pescasse nell’acqua della bottiglia trasparente. Nell’esperimento si fece assistere da un suo giovane aiutante, certo Alexander Cuneus, che aveva il compito di reggere la bottiglia e portarla velocemente al suo maestro nel caso avesse notato qualche cambiamento nell’acqua. Ma non si vedeva proprio nulla. Nonostante passassero i minuti e il globo continuasse a caricare, l’acqua era sempre trasparente. Van Musschenbroek si ostinò a strofinare a pieno ritmo il generatore di corrente per parecchi minuti. Quando alla fine si stancò senza poter notare nulla di visibile, chiese al suo aiutante di porgergli la bottiglia per controllare gli effetti. Fu così che Cuneus tenendo in mano la bottiglia toccò inavvertitamente la catenina di ferro con l’altra mano: la scarica – quasi un milione di volt – investì con estrema violenza il povero assistente di van Musschenbroek, lasciandolo tramortito a terra. Senza poter ancora comprendere tutte le dinamiche messe in moto dalla sua bottiglia elettrica, Pietr van Musschenbroek provò allora a testare sulla sua pelle l’effetto di quello shock elettrico. Ma l’esperienza fu talmente dolorosa e traumatica che il ricercatore “non avrebbe mai più riprovato a prendere

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un’altra scossa”, per nessuna ragione al mondo, “nemmeno se gli avessero regalato il Regno di Francia!” L’accumulatore di elettricità statica a base d’acqua messa a punto nel 1746 da Musschenbroek, e indipendentemente anche da Ewald Jurgen Georg van Kleist (Wicewo, 10 giugno 1700 – Koszalin, 10 dicembre 1748), addirittura un anno prima con una miscela di alcool, venne chiamato “Bottiglia di Leida” in onore della città dei Paesi Bassi da dove scaturì questa geniale invenzione. Quell’oggetto misterioso capace di produrre scariche elettriche così potenti divenne molto popolare per tutto il XVIII secolo e venne usata sia per esperimenti scientifici che per spettacoli di intrattenimento nei salotti bene dell’epoca. La Bottiglia di Leida fu il primo esempio di un dispositivo molto utile che oggi chiamiamo “condensatore” (capacitor in inglese).

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I condensatori oggigiorno sono divenuti una parte fondamentale della componentistica elettronica e per la loro proprietà di caricare e scaricare tensioni sono usati per filtrare il “rumore” di molti circuiti interni nelle moderne apparecchiature, come anche per proteggere gli stessi circuiti dal sovraccarico. Ma come funziona una bottiglia di Leida? Com’è possibile che si possano generare scariche da shock da restare tramortiti? La scienza alla fine del Settecento non era ancora in grado di rispondere a queste domande perché non era ancora ben noto il concetto di carica elettrica con cui oggi spieghiamo facilmente il comportamento di questo dispositivo. Se, usando un generatore, facciamo passare della corrente nella catenina metallica immersa nell’acqua di una bottiglia di Leida, facciamo sì che le cariche di polo positivo vadano a riempire il conduttore interno. Dato che le cariche elettriche di segno opposto si attraggono, mentre quelle di segno uguale si respingono, il conduttore interno allontanerà le cariche di segno uguale presenti nell’armatura esterna della bottiglia, che andando progressivamente a scaricarsi a terra, provocheranno una differenza di potenziale tra interno ed esterno, tanto più potente quanto più avremmo insistito nel “caricare” la bottiglia. Se allora mettiamo a contatto l’armatura esterna con quella interna, magari solo tenendo in mano la bottiglia con una mano e facendo contatto con i piedi a terra, toccando la catenina con l’altra mano, il rapido passaggio del flusso di cariche da una parte all’altra ristabilirà l’equilibrio iniziale eliminando la differenza di potenziale.

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Le cariche che dalla bottiglia si scaricano a terra in modo rapidissimo, generano ovviamente una scossa proporzionale alla quantità di corrente che abbiamo immesso nella bottiglia. Anche se la pericolosità è proporzionale alla differenza di potenziale e si può facilmente controllare, la prudenza nel maneggiare una bottiglia di Leida dunque non è mai troppa ed è meglio non esagerare nella carica per evitare esperienze dolorose!

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Stephen Gray

5 MATERIALI “CONDUTTORI” E SOSTANZE “ISOLANTI”

Tubi d’acqua e isole protette


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el 1729, l’inglese Stephen Gray (1667-1736) scoprì una proprietà importantissima dei materiali caricati elettricamente. La carica, o “virtù elettrica” come preferiva chiamarla Gray, si può trasferire per contatto da un corpo all’altro. Vale a dire che un corpo carico messo a contatto con uno scarico, trasferisce su di esso le proprietà di attrazione o di repulsione. Ci doveva dunque essere un flusso di particelle (“effluvia of electrics”) responsabile del movimento. E le scintille che si sprigionavano dall’oggetto elettrificato era provocato – secondo Gray – da un secondo flusso che le disperdeva nell’ambiente circostante. Facendo delle prove di trasmissione di questi “effluvia” Gray scoprì che alcuni materiali potevano condurre questa virtù agilmente, come fosse acqua libera di scorrere in un tubo abbastanza grande. Mentre altri materiali opponevano una certa resistenza al passaggio, come se ci fosse una diga a trattenere quel flusso elettrico, o addirittura lo poteva fermare del tutto. Gray si immaginò mentalmente questa situazione come un ristagno d’acqua, e i materiali di questo tipo come “isole” separate dall’acqua dell’ambiente circostante. Chiamò dunque questi materiali “insulated”, isolati, o con termine ancora in uso oggi “ISOLANTI”. Mentre i materiali che portavano avanti il flusso di corrente elettrica vennero definiti “CONDUTTORI”, dall’inglese “conductor”. Stephen Gray per la prima volta nella storia aveva individuato una proprietà fondamentale della materia presente in natura aprendo la strada a nuove investigazioni per la comprensione del fenomeno elettrico.

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Celeberrimo e molto spettacolare fu un suo esperimento con cui portò all’evidenza dei suoi contemporanei le proprietà isolanti o conduttive dei materiali. Usando delle corde di seta – un materiale isolante – appese dei supporti di legno a un traliccio, facendo adagiare su di essi un aiutante.

L’uomo veniva poi messo a contatto con un generatore di corrente statica che lo immergeva nell’effluvium elettrico come fosse su un’isola in virtù delle corde di seta che lo “isolavano” da terra senza far disperdere in altre direzioni il flusso elettrico. Ecco allora che, così elettrificato, l’aiutante del tutto protetto da qualsiasi scarica, era capace con una mano di attrarre a

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sé, dei frammenti di foglia d’oro, come fosse una bacchetta d’ambra appena strofinata con un panno elettrostatico. Con un gesto che – a dire il vero – ancora oggi suscita meraviglia e ad osservarlo conserva quasi il sapore del magico.

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Vetrosa o resinosa? Questo è il problema

Charles Francois de Cisternay du Fay

LA PRIMA TEORIA SCIENTIFICA SULL’ELETTRICITÀ


L’

idea del flusso di virtù elettrica che poteva essere condotto da alcuni materiali con più facilità rispetto ad altri, venne ripresa dal francese Charles Francois de Cisternay du Fay (Parigi, 14 settembre 1698 – Parigi, 16 luglio 1739). Du Fay s’era accorto che non aveva tanto senso parlare di “sostanze elettriche” e “sostanze non elettriche”, secondo la classificazione iniziata a suo tempo da Gilbert e poi ripresa da molti altri studiosi. Si doveva indagare piuttosto sulle proprietà di attrazione e di repulsione delle stesse sostanze o materiali in determinati contesti. Studiando questi fenomeni cominciò a lavorare su superfici isolate. Notò che delle lamine molto sottili di metallo una volta caricate con elettricità statica, possono respingersi tra di loro. Si accorse anche che si poteva ottenere l’effetto opposto, vale a dire che le stesse lamine fatte dello stesso materiale, potevano anche attrarsi invece che respingersi. Se una lamina sottile veniva caricata frizionando una sfera di vetro con un panno di seta, veniva accostata a una lamina caricata con un pezzo d’ambra strofinato con un panno di lana, le due lamine tendevano ad attrarsi tra di loro piuttosto che respingersi. Dunque il materiale da cui erano composte le lamine non c’entrava affatto col fenomeno di attrazione o di repulsione, ma era piuttosto dovuto al tipo di fluido elettrico che le aveva imbevute. Du Fay propose di spiegare queste sue osservazioni in questo modo: in natura ci devono essere due tipi di fluidi elettrici, uno vetroso proveniente dal vetro strofinato con seta e

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un’altro resinoso, generato dall’ambra strofinata con lana. I due fluidi hanno evidentemente proprietà opposte e se vengono a contatto l’un l’altro tenderanno a neutralizzarsi a vicenda. Per la prima volta veniva proposta una spiegazione scientifica dell’elettricità. Sebbene questa teoria dei flussi vetroso e resinoso possa sembrare assolutamente datata, ed è oggi relegata a pura curiosità storica, ebbe una notevole importanza per gli studi successivi. Essa infatti fu la base da cui partire per ulteriori investigazioni e nuove scoperte. Poteva venire testata con esperimenti in laboratorio pensati ad hoc, per tentare di approvarla o di smentirla, ed ebbe il merito di accendere il dibattito scientifico sulla natura dell’elettricità per quasi un secolo.

Sarà l’americano Benjamin Franklin a demolirne le basi, proponendo la sua teoria alternativa di un “flusso elettrico

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unico”, non distinto in due qualità come proposto dalla scuola francese di Du Fay, ma provocato dal movimento di piccolissime e invisibili “cariche positive” e “cariche negative”. Ma di questo ne parliamo nel capitolo seguente.

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Benjamin Franklin

7 BENJAMIN FRANKLIN E L’AQUILONE NELLA BURRASCA

Colpo di fulmine a Philadelphia


U

n contributo fondamentale nell’avanzamento della ricerca sulla natura dell’elettricità lo diede uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, Benjamin Franklin (Boston, 17 gennaio 1706 – Filadelfia, 17 aprile 1790) . Franklin, affascinato dalle novità che arrivavano dall’Europa, cominciò a dedicarsi all’elettricità in età matura, dopo aver assistito a delle esibizioni con delle macchine elettriche nel 1749. Condivideva con altri studiosi del fenomeno una visione dell’elettricità concepita come un corso invisibile di forza, una specie di fluido che in certe condizioni si travasa velocemente nei corpi. Ma non era per niente convinto dalla teoria del francese Charles Francois de Cisternay du Fay che l’elettricità fosse il manifestarsi dello scontro di due flussi distinti, la cosiddetta elettricità vetrosa e quella resinosa. Sperimentando con un gruppo di amici le meraviglie prodotte da una Bottiglia di Leida, si accorse che non era l’acqua a contenere la carica elettrica, perché vuotando la bottiglia dell’acqua, con precauzione senza far scoccare la scintilla di scarica, si poteva poi ottenere lo stesso effetto. Era dunque il vetro della bottiglia che dopo esser stata caricata di elettricità si riequilibrava allo scocco della scintilla. Usando un elettroscopio, una coppia di lamine di metallo sottile capaci di attrarsi o respingersi, e isolando una bottiglia di Leida appoggiandola su un materiale isolante e collegando poi a terra alternativamente ora l’elettrodo immerso nell’acqua, ora il conduttore esterno, il flusso elettrico si invertiva, caricando “positivamente” ora l’elettrodo ora il conduttore esterno. Secondo Franklin il flusso elettrico non era da considerarsi di

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due tipi, perché se un corpo era stato caricato al di sopra della sua “quota normale” era positivo, mentre se era al di sotto di quella quota era negativo. Il flusso si riequilibrava passando dal positivo al negativo, generando la scarica. Questo tipo di ragionamento, abbinato ad un’attenta osservazione della bottiglia di Leida, venne ampliato da Franklin al fenomeno naturale dei fulmini atmosferici. Anch’essi – avendo molte proprietà in comune con il “flusso di fuoco” notato nella bottiglia – luce, colore, direzione tortuosa, rapido movimento, rumore esplosivo – erano essenzialmente fenomeni elettrici naturali. L’intuizione di Franklin fu quella di considerare le scintille elettriche della bottiglia di Leida come piccoli fulmini miniaturizzati, del tutto simili alle scariche di grandi dimensioni presenti in natura durante un temporale. Se allora la scarica della bottiglia di Leida poteva essere scaricata a terra chiudendo il circuito, allora anche i fulmini potevano essere indirizzati a scaricarsi a terra, verso un punto ben preciso che ne disperdesse l’energia a terra. Stava per nascere il parafulmine. Ma per convincere il mondo scientifico che il fulmine era nient’altro che una potentissima elettricità di origine naturale, bisognava costruire un apparato capace di dimostrarlo con evidenza. Nel 1749 Franklin ideò un perfetto esperimento probatorio: su di un’alta torre bisognava mettere un’asta appuntita di ferro lunga venti o trenta piedi ben piantata a terra che avrebbe scaricato il fulmine a terra. Se allora un uomo isolato da una pedana di legno, avesse

Colpo di fulmine a Philadelphia

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atteso il passaggio di un temporale all’interno di una garrita posta alla base dell’asta, avrebbe potuto osservare, senza venire folgorato, lo sprigionarsi dall’asta del flusso elettrico naturale sotto forma di scintille elettriche del tutto simili a piccoli fulmini in miniatura. Purtroppo a Philadelphia Franklin non riuscì a trovare un edificio abbastanza alto per provare l’esperimento. Solo 3 anni dopo, in Europa, il fisico francese Thomas Francois Dalibard (Crannes, 1703 – Parigi, 1779), sfruttando dei finanziamenti del re di Francia, riuscì a costruire una apparecchiatura adatta nella cittadina di Marly-la-Ville situata a 25 km nord da Parigi. Il 10 maggio 1752 durante un violentissimo temporale che si abbatté in quella zona, l’asta di ferro di 15 metri, predisposta secondo le indicazioni di Franklin, attirò l’energia elettrica presente nell’aria, scaricandosi su un filo di rame collegato a terra e generando il tipico crepitio e scintillamento che contraddistingue l’altissimo voltaggio. Per puro caso l’assistente di Dalibard che assistette al fenomeno non rimase folgorato, ma quel giorno, per la prima volta nella storia ci si rese conto che era possibile estrarre elettricità statica da una nube e nacque il parafulmine. In America intanto, Benjamin Franklin, per provare la sua teoria elettrica in modo indipendente da Dalibard in Europa, ideò il celebre esperimento con l’aquilone. Franklin decise di rivelare la presenza di elettricità naturale all’interno di una nube temporalesca, facendo a meno dell’asta metallica infissa al suolo, e di portare direttamente un filo conduttore al suo interno, utilizzando un aquilone da far decollare durante un violento temporale. Sperava che il

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leggero spago di canapa che tratteneva l’aquilone in virtù dell’acqua piovana che lo impregnava sarebbe diventato debolmente conduttore e avrebbe sostituito l’asta di ferro senza pericolo. Franklin, per evitare di essere investito direttamente dalla scarica del fulmine, si sarebbe inoltre protetto con un buon isolante, fasciandosi la mano che teneva lo spago dell’aquilone con un panno di seta asciutta. Per vedere il passaggio di corrente, sullo spago dell’aquilone a poca distanza dalla mano isolata, Franklin pensò di legare una chiave di ottone che fungesse da spia. Su di essa si sarebbe concentrata la forza del flusso delle cariche elettriche proveniente dalla nube, proprio come succedeva nella catenella metallica appesa nelle bottiglie di Leida. Sarebbe stato sufficiente avvicinare le nocche dell’altra mano alla chiave di ottone per far scoccare una scintilla luminosa al passaggio di corrente.

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L’esperimento con l’aquilone avvenne, secondo quanto scritto dallo stesso Franklin a Philadelphia nella mattinata del 10 giugno 1752, concludendosi con un pieno successo. A rigore di cronaca diciamo che c’è chi dubita oggi che un esperimento così critico e pericoloso sia mai avvenuto, come si legge nel libro di Tom Tucker “Bolt Of Fate” del 2003 che prova con l’evidenza di simulazioni sul campo, che l’aquilone di Franklin non riuscì mai a librarsi nell’aria, ma dal momento che la sua teoria era sostanzialmente esatta ciò ha poca importanza per l’evolversi successivo della storia dell’elettricità). Benjamin Franklin coniò diversi vocaboli per descrivere i suoi esperimenti sull’elettricità. Nel suo Experiments and Observations on Electricity possiamo leggerne alcuni che sono diventati d’uso comune: conductor (conduttore), charge (carica), discharge (scarica elettrica), armature (armatura), electrify (elettrificazione). Dimostrò con evidenza che i fenomeni elettrici sono riconducibili a un unico fluido con polarità negativa e positiva e non a due tipi di fluidi come si pensava fino a quel momento. Dimostrò anche che le cariche positive e negative, secondo quello che oggi è noto come “ principio di conservazione”, hanno sempre quantità uguali (vale a dire, per esempio, che se strofiniamo con uno straccio un oggetto, questo si caricherà con cariche positive esattamente come lo straccio si caricherà con cariche di segno opposto). La diffusione capillare dei suoi pamphlet divulgativi, non solo in America, ma soprattutto in Europa, diede un formidabile impulso alla ricerca dei comportamento dei fulmini, anche con esiti imprevisti come descritto nel capitolo seguente. Storia dell’elettricità

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8 Folgorato per la scienza Georg Wilhelm Richmann

UN FULMINE GLOBULARE CHE CAMBIÒ LA STORIA DELL’ELETTRICITÀ


I

l segreto del fulmine stava nella enorme differenza di potenziale tra “cielo” e “terra”, e come aveva attirato da sempre l’attenzione degli uomini, come una forza primigenia della natura, ora entrando con gli esperimenti di Franklin e di Dalibar nell’ambito dei fenomeni elettrici, continuò ad attirare l’interesse dei ricercatori affascinati nel catturare in qualche modo la sua potenza e carica energetica. Ma ovviamente l’ordine di grandezza di un fulmine è sempre pericoloso da gestire. Nel 1753 durante una tempesta di fulmini, il professore tedesco-baltico Georg Wilhelm Richmann (Pernau, 1711 – San Pietroburgo, 1753) volle ripetere gli esperimenti di Franklin in un suo laboratorio a San Pietroburgo. L’intento di Richmann era quello di trattenere l’elettricità atmosferica in alcune bottiglie di Leida collegate in serie in modo da poterne misurare la capacità. Data la quantità enorme di flusso elettrico proveniente dalla scarica del fulmine, Richmann ne aveva disposte parecchie decine nel suo laboratorio, ma mentre si apprestava a collegarle, successe quello che per lui e per tutti fino ad allora era un fenomeno assolutamente imprevisto ed imprevedibile. Un fulmine abbattendosi sull’antenna andò a formare una palla di fuoco che si staccò dall’asta metallica colpendo il ricercatore sulla testa. Il laboratorio venne invaso da una luce accecante e da un boato e la potente scarica elettrica, scardinando gli infissi della porta prima di sparire scaricandosi a terra trapassò Richmann dalla testa ai piedi lasciandolo senza vita sul pavimento. Quella strana palla di fuoco era un raro fulmine globulare, del plasma luminoso che può assumere varie grandezze e che

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si forma in rarissimi contesti prima di venire riassorbita al suolo. Ancora oggi non è del tutto chiaro come ciò avvenga e come tali livelli di energia possano perdurare nell’ambiente per la durata di una decina di secondi. Alcuni testimoni narrano che il pover’uomo presentava una bruciatura sulla testa e un foro di uscita su una delle scarpe. La scarica ne aveva oltrepassato tutto il corpo prima di scaricarsi a terra. Presente alla disgrazia vi era un valente incisore dell’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo, certo Sokorow, che su invito dello stesso Richmann avrebbe dovuto illustrare l’esperimento scientifico con l’asta, ma che si trovò suo malgrado a dover usare la sua arte per tramandare ai posteri l’agghiacciante scena del folgoramento. L’immagine di Sokorow, più potente di ogni discorso, suscitò un’enorme impressione e scosse non solo i salotti di mezza Europa, ma l’intera comunità scientifica mondiale che si occupava di elettricità. Era “lecito” voler catturare l’energia dei fulmini? Si aveva la conoscenza e la capacità tecnica per dominare quel fenomeno così potente? O, per il momento, era il caso di tralasciare quel tipo di sperimentazioni assolutamente ingestibili, proseguendo piuttosto su un terreno più sicuro, quello della ricerca nei laboratori per trovare il modo di produrre l’energia elettrica in modo artificiale? Si optò per la seconda direzione e come vedremo sarà un italiano, Alessandro Volta, a trovare la soluzione a quella sfida epocale. Dopo l’incidente di Richmann del 1753 si abbandonò ogni tentativo di sfruttare la potente energia naturale contenuta nei fulmini. Solo 150 anni dopo un giovane ricercatore serbo, Nikola

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Tesla, propose di sfruttare la differenza di potenziale tra atmosfera e suolo terrestre in modo controllato, attraverso delle sue rivoluzionarie invenzioni, senza però riuscire a convincere la comunità scientifica che lo ritenne un pazzo sognatore. Oggi si preferisce lasciare le cose come stanno e monitorare il fenomeno naturale a distanza a fini di sicurezza di cose e persone, attraverso i moderni centri di calcolo, ma di questo si parlerà nel prossimo capitolo.

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COME “TRIANGOLARE” 5.000.000 FULMINI AL GIORNO

Robe di Zeus


I

l dio del cielo e del tuono, nella religione degli antichi Greci era Zeus, capo di tutti gli dei. Il suo attributo regale, con cui viene spesso raffigurato, è il fulmine. In altre culture troviamo che a dominare il “fuoco del cielo” è sempre un dio: Thor per i Germanici, Teshup per gli Ittiti, Perun per gli antichi Slavi. L’uomo ne teme la potenza e non ne vuole sapere di dominarlo. Anche oggi, dopo quel famoso aquilone di Benjamin Franklin che, per così dire “ha tirato giù dall’Olimpo” il fulmine di Zeus, portandolo nell’ordine dei fenomeni elettrici, il manifestarsi improvviso di una scarica elettrica naturale così potente genera comunque un certo timore. Un fulmine con i suoi 300 milioni di volt per ogni 100 m di lunghezza può uccidere se ne veniamo colpiti direttamente, ma può produrre seri problemi anche se si scarica sui nostri impianti elettrici, provocando danni alle apparecchiature collegate alla rete elettrica e a quella digitale. La moderna capacità di calcolo dei computer permette di quantificare e seguire in tempo reale l’andamento dei temporali e le quantità di energia che si producono naturalmente. Si è calcolato, per esempio, che anche nelle giornate di tempo buono, esiste una differenza di potenziale dai 200.000 ai 500.000 volts fra la superficie della Terra e la ionosfera posta a 80 km di distanza A tale differenza di potenziale è associata una densità di corrente estremamente bassa. Circa 2 picoAmpere su metro quadrato. (2 picoAmpere corrispondono a 2 millesimi di miliardesimo di Ampere). Una quantità assolutamente trascurabile, ma che moltiplicata per l’area totale della

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superficie terrestre (5,1 x 1.000.000.000 Km quadrati) raggiunge cifre da capogiro. Questa differenza di potenziale è mantenuta dall’attività temporalesca. In ogni istante ci sono circa 2000 temporali contemporaneamente in atto in diverse aree del pianeta Terra. E in ogni secondo vengono scaricati a terra dai 30 ai 100 fulmini nuvola-Terra per un totale calcolabile con una media di 5.000.000 di fulmini al giorno. Data la pericolosità dei fulmini per il rischio di folgorazioni e anche per i danni che un sovraccarico improvviso alle reti

di distribuzione dell’energia elettrica, i fulmini sono dunque monitorati continuamente. Una rete internazionale fornisce in tempo reale la situazione a livello mondiale.

Robe di Zeus

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Alla base di questo prodigioso sistema di prevenzione vi è un’innovazione tecnologica, sviluppatasi attorno agli anni ’80: dei rilevatori di fulmini capaci di registrare le variazioni di campo elettromagnetico nelle aree monitorate. Con la strategia della triangolazione dei sensori, tramite calcoli computerizzati, le scariche elettriche di una certa intensità vengono registrate su di una mappa spaziale e tutti i dati sono immediatamente resi visibili on-line. Si creano così anche delle mappe probabilistiche basate sui dati d’archivio, essenziali per esempio per indirizzare la scelta dei siti migliori dove è meglio collocare impianti tecnologici che potrebbero subire danni nel corso del tempo. In Europa abbiamo la rete EUCLID (European Cooperation for Lighting Detection http://www.euclid.org/) con sensori distribuiti in Svizzera, Germania, Francia, Benelux, Norvegia, Svezia, Finlandia, Spagna, Portogallo, Inghilterra, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria, Slovenia, Italia. Associati ad EUCLID troviamo alcune realtà di monitoraggio distribuite capillarmente sul territorio. In Austria: ALDIS https://www.aldis.at/ attivo dal 1991. In Italia: CESI https://www.fulmini.it/ attivo dal 1994 . In Slovenia: SCALAR http://www.scalar.si/sl/ attivo dal 1998.

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10 Alla ricerca del motore della vita

Luigi Galvani

LA SCOPERTA DELL’ELETTRICITÀ BIOLOGICA


L

a tragica fine di Richmann, ucciso nel 1753 da una scarica elettrica di milioni di volt nel suo laboratorio portò una parte della comunità scientifica ad indagare sulla morte per folgorazione. L’elettricità, quel misterioso “fluido” di cui all’epoca non si conosceva ancora l’origine fisica, poteva avere degli effetti devastanti per la sopravvivenza degli organismi viventi e anche su quelli non più viventi. Questo tema, certamente un po’ “dark” per la nostra sensibilità contemporanea, era stato messo a fuoco da alcuni acuti scritti filosofici di Felice Fontana (Pomarolo, 15 aprile 1730 – Firenze, 10 marzo 1805), fisico di corte a Firenze del granduca di Toscana Pietro Leopoldo di Lorena. Fontana, un tossicologo, era divenuto molto noto all’epoca per i suoi studi di anatomia e fisiologia e aveva ispirato molte scuole di ceroplastica, tra cui quella di Firenze, nota in tutta Europa per le sue macabre riproduzioni di cadaveri sezionati. Nel suo “Ricerche filosofiche sopra la fisica animale” (1755) lo studioso trentino aveva portato all’attenzione della comunità scientifica di allora che i corpi dei morti per folgorazione erano soggetti ad una putrefazione più rapida rispetto ai morti per malattia. E quel repentino dissolversi dell’apparato fisico, inteso quasi come una macchina complicatissima – secondo Fontana – doveva esser imputato alla perdita della proprietà principale dei muscoli, vale a dire la sua propria capacità di movimento. Questo sottile passaggio speculativo, apparentemente ovvio, apriva in realtà la strada ad una connessione logica del tutto nuova. L’elettricità, o meglio quel misterioso “fluido elettrico” di cui

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cominciavano ad affacciarsi le proprietà a livello scientifico, era causa anche del movimento dei muscoli, era per così dire un “fluido vitale”, un “motore”, “il motore della vita”. Fu così che la ricerca fisica e quella fisiologica cominciano a interagire tra di loro. Nella seconda metà del Settecento nasceva la “elettrofisiologia”, un campo del tutto nuovo di indagine che in un breve arco di tempo avrebbe portato a dei risultati assolutamente sorprendenti. L’avvio ufficiale degli studi di ellettrofisiologia si fa risalire al 1791. In quell’anno il medico bolognese Luigi Galvani (Bologna, 9 settembre 1737 – Bologna, 4 dicembre 1798) diede alle stampe l’opuscolo “De viribus electricitatis in motu muscolari” (Sulle forze dell’elettricità nel movimento muscolare), frutto di anni di osservazioni e ricerche di laboratorio condotte su animali morti. Galvani per i suoi esperimenti, anche per praticità di reperimento degli organismi, usava delle rane morte a cui era stata staccata la testa e messi a nudo i nervi crurali della spina dorsale. Avvicinando a questi un semplice arco metallico, si poteva notare un fenomeno del tutto inaspettato, addirittura sconcertante per i contemporanei di Galvani, perché aveva un sapore quasi magico. Le contrazioni dei muscoli eccitati dal “fluido elettrico” innestato dal conduttore metallico facevano muovere le articolazioni delle rane sezionate con scatti improvvisi al punto che sembravano di nuovo vive. Galvani si era convinto che il movimento delle zampe di quei anfibi indicasse l’esistenza di un “fluido elettrico

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animale”, secondo l’opinione molto diffusa all’epoca negli ambienti medici che gli animali possedessero all’interno del loro corpo un sottile fluido che nell’attraversare nervi e muscoli era causa del movimento. Già in precedenza alcune speculazioni di Isaac Newton (Woolsthorpe-byColsterworth, 25 dicembre 1642 – Londra, 20 marzo 1726) avevano postulato, senza prove scientifiche, un’affinità o addirittura l’identità tra il “fluido elettrico” dei fisici e il “fluido nervoso” dei fisiologi. Un fluido animale di questo tipo agiva anche dopo la morte dell’organismo, ma era destinato a dissiparsi in breve tempo. Era in un certo senso il “motore della vita”. Galvani pensò di spiegare il fenomeno con quanto osservato nella bottiglia di Leida. Invece della scintilla provocata dalla scarica elettrica, nelle rane si aveva un movimento. Anzi, s’era convinto che i muscoli stessi fossero essenzialmente una sorta di bottiglia di Leida e i nervi fossero i conduttori della scarica generata al suo interno. L’“elettricità animale” poteva altresì aver anche origine – secondo un’altra ipotesi di Galvani – in un organo specifico

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dell’organismo, il cervello, che si caricava positivamente, diffondendo la carica positiva attraverso i nervi, mentre tutto il resto rimaneva caricato negativamente. Ecco allora che, collegando un arco metallico tra nervi e muscolo, come lui aveva fatto dissezionando le rane, l’equilibrio di potenziale veniva ripristinato. Era una ipotesi teorica che per certi versi assomigliava molto alla vecchia teoria pre-scientifica degli umori secondo cui i corpi animali sono percorsi da forze interne in un delicato equilibrio tra di loro. Ma per la prima volta gli esperimenti con le rane di Luigi Galvani spostavano improvvisamente il dibattito su quelle teorie, su un campo di prova strettamente scientifico, attraverso l’indagine diretta condotta con una metodologia di studio rigorosa e ripetibile in laboratorio. Sarà Alessandro Volta a rifare quegli esperimenti con un’ottica diversa, arrivando a conclusioni molto differenti, portandolo a indagare su un’elettricità svincolata da quella biologica, che lui definì “elettricità artificiale”. Come tutte le scoperte nel campo dell’elettricità di quegli anni, anche quella di Galvani, venne adoperata per alimentare fenomeni da baraccone molto discutibili. A cavallo del nuovo secolo XIX si moltiplicarono le esibizioni in pubblico di improbabili tentativi di “resuscitare” organismi morti, come piccoli uccelli, gatti, cani, che venivano sacrificati a puro scopo di divertimento. L’acme di queste macabre rappresentazioni lo si ebbe con la sperimentazione su cadaveri umani. Ad alzare il tiro fu il giovane nipote di Galvani Giovanni Aldini (Bologna, 10 aprile 1762 – Milano, 17 gennaio 1834).

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Nei primi anni del nuovo secolo organizzò delle sensazionali serate londinesi in cui agli astanti sembrò di vedere ritornare in vita dei corpi umani privati della testa a cui erano stati introdotti degli elettrodi nella spina dorsale come nelle rane sezionate di Galvani. Era una fosca aberrazione della ricerca scientifica che per la prima volta, come tante altre volte dopo, avrebbe oltrepassato il limite dell’etica per una falsa ragione superiore. Ad accorgersi delle aberrazioni del Galvanismo, ci penserà un’opera della letteratura gotica, “Frankenstein, or the Modern Prometheus” (1818) di Mary Shelley, un capolavoro entrato ormai nell’immaginario collettivo.

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Alessandro Volta

11 LA PILA DI VOLTA, IL PRIMO GENERATORE STATICO

La più grande scoperta di tutti i tempi


U

n aneddoto narra che un giorno il grande scienziato Albert Einstein a un giovane giornalista che lo fermò per strada chiedendogli se la sua “Teoria della Relatività” fosse la più grande scoperta di tutti i tempi, rispose istantaneamente, un po’ seccato per l’insistenza del suo interlocutore: “No, caro signore, la scoperta più grande di tutti i tempi è stata la pila di Volta!”. La risposta di Einstein, che a vent’anni aveva visto i prodigi dell’industria tecnica nascente visitando lo stabilimento del padre a Milano, evidentemente non era stata buttata lì per caso. Fu infatti con quella serie di dischi di rame e di zinco impilati uno sull’altro a formare una colonna cilindrica, che Volta aprì di fatto una nuova epoca per l’umanità. Per studiare l’elettricità, non bisognava più affidarsi allo sfregamento di un pezzo di ambra, aspettare il capriccio del fulmine, o accontentarsi di una scintilla fugace generata da una bottiglia di Leida: con la pila si poteva produrre elettricità in modo sicuro, e soprattutto “continuo”. Dal 1800, anno in cui Volta pubblicò la scoperta della pila, la scienza aveva finalmente a disposizione uno strumento affidabile con cui si sarebbe addentrata nello studio dei fenomeni elettrici e elettromagnetici. Il generatore elettrico di Volta, estremamente semplice e facile da costruire senza richiedere particolari abilità meccaniche, aveva il vantaggio, rispetto a tutti i generatori di elettricità statica, che il flusso poteva venire potenziato mettendo in serie i dispositivi. In un certo senso la corrente elettrica di Volta assomigliava al

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flusso di un corso d’acqua stabile e regolare, che proveniva da una sorgente la cui portata aumentava con l’apporto di altre sorgenti simili. Vedremo nei capitoli successivi come questa caratteristica venisse da lì a poco sfruttata per delle scoperte tecniche eccezionali che hanno cambiato il nostro mondo.

Ma come arrivò la mente creativa dello scienziato italiano a pensare un simile congegno? Vediamolo assieme. Alessandro Volta (Como, 18 febbraio 1745 – Como, 5 marzo 1827) professore dell’Università di Pavia, fu uno dei primi ad interessarsi e ad accogliere con entusiasmo le ricerche sulla cosiddetta “elettricità animale”. Già a partire dal 1793, però, appena due anni dopo l’uscita del De viribus electricitatis, cominciò ad osteggiare le conclusioni tratte da Luigi Galvani, che presentavano ancora molti punti deboli. Com’era possibile spiegare il movimento vitale degli organismi attraverso dei corpi assolutamente morti? La contraddizione di fondo era stata avvertita anche dallo stesso Galvani, che però – a differenza di altri scienziati privi di scrupoli – aborrì sempre la pratica di sperimentare le sue teorie su animali ancora vivi, intuendo che ciò sarebbe andato contro un ordine naturale del Creato. Alessandro Volta s’era inoltre accorto di un’altra costante che privava la teoria di Galvani di validità universale: tutti gli esperimenti di Galvani erano condotti su corpi di rana in “ambienti umidi”, e implicavano la presenza di archi metallici che, evidentemente, avevano bisogno dell’umidità

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per “eccitare il fluido elettrico dal suo stato di riposo”. I muscoli elettrificati – secondo Volta – non si muovevano allora in virtù propria, ma subivano passivamente la scarica originatasi esternamente nell’arco metallico. Era il metallo, dunque, il responsabile dell’elettricità. Questa posizione di Volta ribaltava completamente il concetto di Galvani ponendosi come nuovo polo di indagine per le ricerche future. Successivamente, nel corso delle sue sperimentazioni, Volta si accorse che i muscoli delle rane morte potevano essere stimolati al movimento non solo da un arco metallico, ma anche al contatto con due piastre costituite da metalli diversi. Si convinse allora che l’elettricità proveniente dalle piastre metalliche stimolava il nervo e il nervo stimolava il muscolo, senza bisogno che il muscolo facesse parte del circuito. Se ciò era vero allora il muscolo non era assolutamente da considerarsi una piccola bottiglia di Leida. Bastavano infatti solamente i due metalli a generare quello che Volta definì “un flusso elettrico artificiale” per distinguerlo dal “flusso elettrico animale” del galvanismo. Un simpatico aneddoto vuole che questa idea di abbinare due metalli venisse dedotta da Volta, quasi per caso durante un banchetto in casa di amici. Nel provare “ad assaggiare” per curiosità i manici di una forchetta di argento e una di ferro: avrebbe avvertito una sensazione acidula, quasi un debolissimo pizzicorio. E quella strana sensazione non si verificava affatto nell’assaggiare le posate con i manici in legno. Era quella una debolissima scarica elettrica? La sua lingua - “ambiente umido” - reagiva come le rane di

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Galvani a contatto di due metalli differenti? L’intuizione originalissima di Volta lo portò a sperimentare varie coppie di metalli diversi immersi in soluzioni lievemente acidulate. Nel 1793, aiutandosi con l’elettroforo di sua invenzione (uno strumento per misurare l’intensità elettrica), arrivò a scoprire

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che la “forza elettromotrice” di una catena bimetallica dipendeva sicuramente dai due anelli estremi: se erano di metalli diversi si aveva l’effetto elettrico. Mise dunque a punto una “corona di tazze” in cui erano immerse in una soluzione acidula delle strisce bimetalliche che ad un’estremità erano di argento e dall’altra di zinco. Alternando le tazze secondo coppie di strisce ArgentoZinco in modo che nella stessa tazza fossero immersi alternativamente le estremità ora di argento, ora di zinco, si poteva formare una catena anche piuttosto lunga in cui l’effetto era amplificato. Per replicare quel moltiplicatore di intensità in un dispositivo più facilmente trasportabile che non disperdesse la soluzione acquosa nell’ambiente, Volta provò a impilare dei dischi di argento (o di rame) e di zinco separati con della carta assorbente imbevuta dalla soluzione acidula. In questo modo si otteneva una colonnina bimetallica, letteralmente una “pila” di celle connesse, senza bisogno delle tazze riempite di acido solforico. Moltiplicando le celle in una sequenza sempre uguale, si provocava un passaggio di flusso elettrico amplificato: più dischi accoppiati si collegavano tra di loro, più forte era l’intensità del flusso elettrico che veniva generato. Ma quanto potente poteva essere questo flusso? Nelle illustrazioni della sua invenzione Volta mostra 4 celle di 4 coppie collegate in serie. Ogni coppia di dischi poteva generare presumibilmente all’incirca 0,8 volt, per cui 16 coppie di dischi producevano quasi sicuramente 12.8 volt: una “tensione” simile a quella dell’impianto elettrico delle nostre moderne autovetture in Europa!

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Aumentando ancora la pila di dischi con 40 o 50 paia si poteva ottenere una scarica abbastanza potente per ottenere delle scintille “ad arco” proprio come nella bottiglia di Leida o come gli shock di una torpedine: “Il mio apparecchio o organo elettrico artificiale – ebbe a sottolineare Alessandro Volta – imita la bottiglia di Leida, anzi è anche meglio di questa, a causa dei ripetuti ‘colpi’ che può dare di continuo”.

Lo scalpore per la sua invenzione ebbe risonanza mondiale e, a differenza di Galvani che morì dimenticato da tutti, Volta ricevette onori e addirittura un vitalizio da parte di Napoleone Bonaparte, molto attento ai moderni scenari che la Scienza e la tecnologia elettrica apriva improvvisamente. Nell’ambito del Primo Congresso Elettrico che si tenne a

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Parigi nel 1881 in onore del geniale fisico-chimico italiano che scoprì la pila elettrica, si stabilì che l’unità per misurare il potenziale elettrico, fosse ufficialmente chiamata “volt”, ancora oggi universalmente accettata in tutto il mondo.

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Trasferire materia da un polo all’altro

Luigi Brugnatelli

LA MAGIA DELLA GALVANOPLASTICA


L

a possibilità di avere finalmente a disposizione un generatore di corrente continua portò molti fisici a concentrare l’attenzione su questa nuova energia che nei laboratori presentò dei fenomeni nuovi, mai prima osservati in natura. Alcuni studiosi notarono che nella pila di Volta dopo un uso prolungato accadeva uno strano e curioso fenomeno. L’elettrodo del polo negativo tendeva a ricoprirsi di un sottilissimo velo di rame. Continuando a far passare la corrente per un po’ di tempo nel circuito, lo strato di metallo si ingrossava ulteriormente, fino ad assumere la consistenza di una lamina dallo spessore di qualche frazione di millimetro, facilmente staccabile dall’elettrodo. Ad una osservazione più accurata, si poteva vedere che la lamina metallica depositatasi per “galvanizzazione” elettrica, riproduceva nei minimi particolari la superficie del polo negativo, come fosse un perfetto calco di gesso.

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Era questo un indizio del fenomeno che oggi chiamiamo “elettrolisi”, che avrebbe portato alla nascita di una tecnica formidabile ancora oggi usata in molti settori produttivi, la “galvanoplastica”. Il chimico pavese Luigi Brugnatelli (Pavia, 14 febbraio 1761 – Pavia, 24 ottobre 1818), amico personale di Alessandro Volta e scopritore del fulminato di mercurio, ancora oggi usato come un potente esplosivo, perfezionò questa tecnica nel 1805. Tramite l’elettricità si poteva infatti far depositare un velo di metallo su degli oggetti immersi in un bagno chimico (elettrolita) in cui erano stati sciolti dei sali metallici. La parte da rivestire infatti, fungendo da catodo (elettrodo negativo) di una cella elettrolitica, poteva attirare gli ioni positivi contenuti nel bagno elettrolita o parzialmente anche dal metallo dell’anodo (elettrodo positivo). Si potevano ottenere così, in modo pressoché automatico, delle perfette dorature o argentature molto più precise di quelle prodotte con la tecnica a caldo. Tramite questo processo galvanotecnico, inoltre, la quantità di metallo pregiato poteva essere limitata al minimo, con ovvi vantaggi economici. Nel 1837 il fisico russo Moritz Hermann von Jacobi (Potsdam, 9 settembre 1801 – San Pietroburgo, 10 marzo 1874) provò a impiegare questa tecnica per ottenere il rilievo di una lastra metallica lavorata a bulino. Con il metodo di Jacobi si ottennero in seguito dei notevoli perfezionamenti nell’arte della stampa. La cosiddetta “galvanotipia” infatti permise di sostituire le comuni matrici a piombo, facilmente usurabili, con delle

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matrici in metalli più duri con cui stampare libri e giornali in tirature molto più grandi, prima allora impensabili. Esempi di quest’arte si trovano esposti, per esempio, al TMS Tehniški Muzej Slovenije (Museo della Tecnica della Slovenia) di Borovnica. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento la galvanoplastica venne anche utilizzata ampiamente per creare delle riproduzioni in metallo di organismi naturali, una strana moda che dilagò velocemente in tutta Europa. Copie perfette fin nei più minuti particolari di insetti, crostacei, molluschi e pesci furono esposte nelle wunderkammer (camere delle meraviglie) dei facoltosi collezionisti che volevano stupire i loro visitatori con sensazionali novità, vagamente esotiche, dal sapore misterioso come fossero mummie o automi cristallizzati in un’immobilità forzata. Spesso queste collezioni, che restituivano gli organismi in 3D, in modo perfetto, superiore a qualsiasi preparato in formalina, furono adottate nei musei di storia naturale come preparati tassonomici per lo studio della biodiversità. Celebre, per esempio, la collezione galvanoplastica del Museo di Storia naturale di Vienna con centinaia di pezzi estremamente accurati e in perfetto stato di conservazione anche dopo 150 anni dalla loro realizzazione. Altrettanto affascinante da vedersi, anche se con una quantità minore di pezzi, quella del Museo di Storia Naturale di Trieste creata dall’autodidatta Andrea Rossovich (Trieste, 1840 – Trieste, 1896).

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13 Bollicine rivelatrici

Anthony Carlisle William Nicholson

LA SCOMPOSIZIONE ELETTROLITICA DELLE MOLECOLE


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el 1800, utilizzando la corrente continua della pila di Volta il chirurgo Anthony Carlisle (Stillington, 15 febbraio 1768 – Londra, 2 novembre 1840) assieme a William Nicholson (Londra, 13 dicembre 1753 – Bloomsbury, 21 maggio 1815) scoprirono un fatto allora assolutamente inspiegabile. Immergendo due elettrodi nell’acqua, si formavano delle bollicine di gas. Più grande era la tensione della pila, più forte era l’effetto di “effervescenza” riscontrabile nell’acqua attraversata dalla corrente elettrica. Quei gas erano diversi uno dall’altro: si trattava di idrogeno e di ossigeno. I due ricercatori inglesi notarono anche che la quantità di ossigeno che si sprigionava dall’anodo caricato positivamente, era esattamente la metà dell’idrogeno che proveniva dal catodo, ovvero l’elettrodo con cariche negative. Come mai? La soluzione a questo dilemma non era immediatamente disponibile all’epoca della scoperta, e sarebbe stata trovata molto più tardi, attraverso un modello “molecolare” della materia allora ancora sconosciuto. La più piccola parte di acqua, la “molecola” al di sotto della

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quale non si ha più acqua, è costituita da due elementi: 2 atomi di idrogeno uniti con 1 atomo di ossigeno. Sono elementi semplici, alla base di una grande varietà di sostanze composte di cui costituiscono, per così dire, i mattoni. Gli elementi base presenti in natura non sono infiniti, l’elenco della maggioranza di essi, come sappiamo, verrà compilato una sessantina d’anni dopo ad opera del russo Mendeleev nella sua famosa “Tavola periodica degli elementi”. Ma, agli inizi del 1800, quando furono scoperte le bollicine di gas che si sprigionavano dagli elettrodi collegati alla pila di Volta, la cosa più evidente che risultava era un fatto basilare: Il flusso elettrico – per qualche strano motivo – era capace di produrre degli effetti sulla materia, non solo di attrazione e repulsione, ma poteva scomporre la materia in elementi più semplici. Nasceva dunque l’elettrolisi che con termine greco significa: “rompere con l’elettricità”. Nel caso dell’acqua parliamo propriamente di “dissociazione elettrolitica” dei suoi elementi costitutivi (ossigeno e idrogeno). Era anche chiaro che la tecnica elettrolitica scoperta quasi per caso, diventava un potente mezzo di indagine per scoprire gli elementi costitutivi anche di altri composti. L’elettricità si faceva improvvisamente alleata della ricerca scientifica di base, ma anche dell’industria chimica. Nel 1813, ad esempio, il chimico inglese Humphry Davy provò a ripetere gli esperimenti e collegare una serie di batterie di pile di Volta ottenendo una tensione sufficiente per separare altri elementi chimici: cloro, sodio e potassio. Con delle “celle elettrolitiche” di grandi dimensioni si potè

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dunque ottenere grandi quantità di elementi chimici utili all’industria e fertilizzanti per l’agricoltura. Michael Faraday (Southwark, 22 settembre 1791 – Hampton Court, 25 agosto 1867), stretto collaboratore di Davy, ma conosciuto – come si vedrà nel cap. 15 – soprattutto per la scoperta dell’induzione elettromagnetica, indagò approfonditamente il fenomeno elettrolitico, riuscendo a scoprire le caratteristiche che lo regolano. Le due “Leggi universali” dell’elettrolisi di Faraday dicono che: 1. la quantità di sostanza che si scarica sugli elettrodi è proporzionale alla quantità di carica elettrica che attraversa la cella elettrolitica 2. la stessa quantità di carica elettrica che attraversa celle elettrolitiche diverse, fa scaricare quantità di ioni diverse, proporzionali ai rispettivi pesi atomici.

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Humphry Davy

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L’ARCO VOLTAICO DI DAVY

E luce fu


N

el 1813 in Inghilterra, nei sotterranei della sede della Royal Society si assistette ad un esperimento veramente spettacolare: Humphry Davy (Penzance, 17 dicembre 1778 – Ginevra, 29 maggio 1829) provò a collegare assieme varie centinaia di pile di Volta, con l’intento di ottenere un flusso di corrente continua molto potente. Con questa mega-pila, la prima al mondo di tali dimensioni, Davy si proponeva di generare una scintilla tra due elettrodi di carbone per produrre una specie di fulmine artificiale. L’ “arco voltaico” – come venne chiamato in seguito – tra i due elettrodi messi a breve distanza l’uno dall’altro da Humphry Davy, aveva la caratteristica di mantenersi vivo finché c’era elettricità e il suo effetto principale era quello di emettere una luce violentissima, quasi accecante. Nasceva così la lampada ad arco, il primo “device” capace di emettere luce continua generata dall’elettricità. Per la prima volta nella storia c’era la possibilità di avere a disposizione della luce azionando un tasto anziché affidarsi alla combustione del gas illuminante o del petrolio e delle candele di paraffina. Dopo il 1813, vi fu un rapido sviluppo dell’ illuminazione elettrica, affidata a lampade di questo tipo, alimentate ovviamente da pile di Volta dal momento che una rete di distribuzione elettrica doveva ancora nascere. La lampada ad arco purtroppo non poteva essere impiegata in luoghi troppo piccoli perché la sua luce bianco-azzurrina era troppo potente e mal si adattava agli ambienti domestici dove qualche anno prima – soprattutto nelle case dei ceti più agiati – aveva cominciato a diffondersi il gas illuminante proveniente dalla distillazione del carbone. Fino agli anni 80 del XIX secolo, quando si vide la comparsa delle prime

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lampadine elettriche ad incandescenza, la lampada ad arco voltaico di Humphry Davy venne dunque impiegata esclusivamente in ambienti molto grandi, come ad esempio le stazioni ferroviarie, le vie principali o i parchi pubblici di grandi città come Londra, New York, Parigi o nelle fabbriche. Fu comunque una rivoluzione epocale.

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La “chiave inglese” che sbloccò il futuro

Michael Faraday

LA SCOPERTA DELL’INDUZIONE ELETTROMAGNETICA


L

o scienziato inglese Michael Faraday (Southwark, 22 settembre 1791 – Hampton Court, 25 agosto 1867), allievo di Humphry Davy, era provvisto di un intuito e di una capacità di osservazione al di fuori del comune. Dedicò la sua vita agli studi di fisica e chimica con eccellenti scoperte e innovazioni. Ma quando rivolse la sua attenzione alla correlazione tra fenomeni elettrici e fenomeni magnetici, riuscì a scoprire e a interpretare in modo corretto il fenomeno dell’induzione elettro-magnetica, la chiave che aprì al mondo l’era dell’elettricità. La correlazione tra elettricità e magnetismo era stata notata già nel 1820 dal danese Hans Christian Ørsted (Rudkøbing 14 agosto 1777 – Copenaghen, 9 marzo 1851) avvicinando casualmente un ago di bussola a un filo elettrico, che deviava dalla sua normale rotazione verso il Nord.

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Partendo da questa semplice osservazione Faraday mise a punto nel suo laboratorio una serie di dispositivi per tentare di capire la relazione intrinseca tra elettricità e magnetismo, arrivando a scoprire qualcosa di assolutamente nuovo: se l’elettricità provoca magnetismo, anche il magnetismo genera elettricità. Per cui sarebbe stato possibile generare elettricità con un dispositivo magnetico. Faraday avvolse allora un semplice tubo di carta con una fitta spira di filo di rame e fece passare una bacchetta magnetica all’interno del tubo. All’estremità della spira collegò un elettroforo (un misuratore di carica), e notò che ad ogni passaggio del magnete all’interno del tubo, sia in una direzione che nell’altra, il dispositivo rilevava che c’era una debole corrente elettrica all’interno della spira di rame. Si era prodotta elettricità! E questa era dovuta al movimento meccanico di un magnete all’interno di una spira di rame. Nel 1831 Faraday tentò di ottimizzare quel risultato trasferendo il moto rettilineo su un disco rotante di rame che veniva fatto passare attraverso a dei parallelepipedi magnetici. Anche in questo caso il risultato fu strabiliante: si poteva produrre elettricità continua semplicemente facendo muovere con continuità un conduttore all’interno di un campo magnetico. Faraday aveva scoperto e imbrigliato il fenomeno dell’induzione magnetica. Più tardi riuscì a formulare un principio che spiega il fenomeno:

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“Se un conduttore si muove in un campo magnetico non parallelamente ad esso, si genera una forza elettromotrice indotta”. Sulla base di questo principio che collegava elegantemente elettricità e magnetismo si poteva produrre energia elettrica, ma anche ottenere l’effetto contrario. Se nella spira di rame che avvolge il magnete invece di sottrarre energia elettrica, si immette elettricità dall’esterno, allora è il magnete che si muoverà. Tramite l’elettricità prodotta per esempio da una pila, si può dunque generare un moto. Con un altro celebre apparato Faraday riuscì a dimostrare visivamente questo principio. Appese a un filo una sfera magnetica disponendola perpendicolarmente su di una vaschetta di mercurio su cui veniva applicata dell’energia elettrica: il risultato fu che la pallina cominciò a girare, come previsto, attorno al campo magnetico. Come trent’anni prima quella della pila di Volta la scoperta di Faraday era epocale: come una chiave inglese sbloccò il futuro tecnologico dell’umanità indirizzandolo verso la modernità contemporanea.

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Ernst Werner von Siemens

16 DINAMO E TRAMWAY ELETTRICI

Rotazioni energetiche efficaci


L

a realizzazione di un dispositivo elettro-meccanico efficace che producesse energia elettrica non tardò a venire: si chiamò “dinamo” (dal greco dynamis=forza). Michael Faraday, pochi giorni dopo aver sperimentato gli effetti della corrente sulla bacchetta magnetica fatta scorrere in un avvolgimento di rame, provò a rendere continuo il movimento tra magnete e spira capovolgendo la dinamica del suo apparato sperimentale. Ebbe l’idea di far scorrere non più in modo alternato un magnete all’interno di un conduttore, ma far girare con moto continuo un disco di rame all’interno di due piastre magnetiche. All’azione della manovella successe quello che Faraday aveva previsto: si produceva un flusso di corrente continua. La resa di un dispositivo di laboratorio come il disco di Faraday era però molto bassa e il disco tendeva a surriscaldarsi a causa delle correnti indotte contrastanti. Per sfruttare appieno le potenzialità della sua scoperta bisognava assolutamente trovare un sistema più efficiente che riproducesse l’effetto elettrico ad una scala maggiore senza avere dispersioni di energia sotto forma di calore. Fu questa una importantissima “sfida” tecnica che avrebbe impegnato negli anni seguenti molti altri sperimentatori. Tra i primi a realizzare una dinamo secondo i principi di Faraday, fu il francese Hippolyte Pixii (Parigi, 1808 – 1835). Nel 1832 realizzò una dinamo verticale che usava un magnete permanente fatto roteare con una manovella entro delle spire di rame. Per ovviare al problema della sua dinamo che ad ogni giro invertiva il flusso di corrente, Pixii introdusse un nuovo interessante elemento: il cosiddetto “commutatore”, un cilindro metallico diviso sull’albero, con due contatti

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metallici elastici che premevano contro di esso. Ma anche questo sistema (che definiremo come una bobina assiale bipolare rotante) era ancora debole, la corrente continuava ad avere degli sbalzi. La serie di “picchi” o impulsi di corrente, separati da momenti di “vuoto”, davano per risultato una bassa potenza media (e, come vedremo, sarà questo uno dei problemi principali del motore elettrico). La soluzione venne in mente nel 1859 a un geniale italiano: Antonio Pacinotti (Pisa, 17 giugno 1841 – Pisa, 25 marzo 1912). Sostituì la bobina assiale bipolare rotante con un anello di ferro dolce su cui erano fissate 16 bobine collegate in serie. L’avvolgimento continuo di questo “toroide multipolare” veniva collegato al commutatore in molti punti equidistanti e il commutatore diviso in molti segmenti. Ciò significava che una parte della bobina passava continuamente sui magneti. Le estremità delle bobine erano collegate a due a due ad uno dei segmenti metallici del cilindro magnetico centrale, su cui facevano contatto delle “spazzole” diametralmente opposte che raccoglievano l’energia elettrica prodotta dal movimento dell’anello attorno al magnete. Alternandosi in rapida sequenza ad ogni giro le polarità indotte nei 16 avvolgimenti, si otteneva un flusso di corrente continua abbastanza stabile. Il sistema ideato da Pacinotti aveva anche un’altra proprietà importante: era reversibile. Invece di far girare manualmente l’anello e raccogliere l’energia elettrica dalle spazzole, nel 1869 Pacinotti provò a collegare a queste una pila di Volta. L’effetto ottenuto era che il suo “anello” ruotava senza bisogno dell’azione meccanica della manovella. Fu questa la base per lo sviluppo successivo del motore elettrico a corrente continua. Purtroppo Pacinotti non ebbe la prontezza

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di brevettare il suo dispositivo e la sua geniale idea venne successivamente sfruttata da altri. Un’altra importante innovazione delle dinamo che ne aumentò la potenza e le avviò definitivamente all’utilizzo nell’industria fu quella di dotarle di elettro-magneti autoalimentati. L’idea venne indipendentemente uno dall’altro all’inglese Henry Wilde nel 1866 e a Ernst Werner von Siemens (Lenthe, 13 dicembre 1816 – Berlino, 6 dicembre 1892), l’illuminato industriale tedesco che coniugava sperimentazione a doti industriali eccezionali. Nel settembre 1866, Werner Siemens fece collegare nella sua officina un’armatura a doppia T di un generatore in serie con un elettromagnete in modo da poter esplorare gli effetti dell’auto- induzione. Quando l’armatura a doppia T venne azionata manualmente, il leggero magnetismo della Terra fu sufficiente per generare una debole elettricità per autoinduzione che andò ad aumentare rafforzandosi a pieno regime dopo poche altre rotazioni. Rispetto alle dinamo che utilizzano magneti permanenti, le dinamo Siemens potevano fare a meno di tanto materiale, riducendo il peso dell’unità motrice dell’85%. Sgravate dal peso superfluo, anche la potenza motrice per farle muovere diminuiva vistosamente, riducendosi al 35%. Il prezzo della nuova dinamo senza i magneti permanenti, a parità di potenza poteva essere ridotto addirittura del 75%. Un grande progresso, soprattutto economico, che permise all’energia elettrica di venire generata in Europa a buon mercato e utilizzata a capacità molto più elevate. A Werner von Siemens dobbiamo anche un’altra rivoluzionaria innovazione: la prima elettrificazione del

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trasporto pubblico. La “Electrischen Eisenbahn” (tramvia elettrica) progettata e realizzata da Siemens in Germania, nell’attuale quartiere di Berlino “Lichterfelde” entrò in servizio il 16 maggio 1881, 2 anni prima della versione americana di Van Depoele, belga, impiantata all’esposizione di Chicago (1883).

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Il tramway elettrico Siemens di Berlino aveva uno sviluppo di 2,5 km e poteva raggiungere la velocità di 20 km orari. Veniva alimentato da una “dinamo Siemens” di nuova generazione, con magneti autoalimentati, che era mossa da una macchina a vapore inserita in un piccolo edificio nei pressi della stazione di partenza. La linea di corrente elettrica, in questa prima linea Siemens – la prima in assoluto ad essere realizzata al mondo – correva sulle rotaie disposte a terra, ma per maggiore sicurezza, nei modelli successivi Siemens e i suoi collaboratori optarono per una connessione via cavo aereo, una soluzione poi generalmente adottata nel resto d’Europa.

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Samuel Morse

Lettere sul filo di rame

IL TELEGRAFO ELETTRICO E L’INTUIZIONE DI MORSE


L’

utilizzazione dell’energia elettrica continua permise di fare un grande salto di qualità nelle comunicazioni. Infatti, ancora per tutta la prima metà dell’Ottocento in Europa e in America si comunicava molto lentamente. Non c’erano le velocissime caselle di posta elettronica che oggigiorno sono capaci di fare il giro dei server di tutto il mondo in tempi brevissimi. Per esempio se voglio mandare una “mail” digito sul computer o sullo schermo di uno smartphone il testo da inviare e so che quel messaggio impiegherà meno di 3 secondi per arrivare a destinazione, per esempio su un server ubicato in America. Nell’epoca pre-digitale ci si affidava invece alla “lettera”, una scrittura fatta a mano su un foglio di carta. Tra una città e l’altra le “missive” erano consegnate al mittente, sempre a mano, da un servizio postale affidato a corrieri, talvolta provvisti di cavallo per garantire una consegna veloce. Celebre il servizio Pony Express, diffusosi in America dopo la scoperta dell’oro, o, per fare un esempio a noi più vicino, il servizio di posta organizzato dalla famiglia Thurn und Taxis a servizio degli Asburgo che aveva le sue stazioni per il cambio cavalli disseminate su un vastissimo territorio tra le attuali nazioni di Austria, Slovenia e Italia. Le carrozze trainate dai cavalli, o i treni e le navi trasportavano le lettere nelle varie città e da queste in tutto il suburbio circostante. Per il recapito di una comunicazione, anche urgente, erano necessari giorni, se non settimane, o addirittura mesi se l’indirizzo era oltreoceano. Lo stesso problema del tempo di percorrenza gravava su tutta l’informazione.

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I giornali ricevevano le notizie da pubblicare allo stesso modo, con gli stessi problemi di ritardo rispetto allo svolgersi degli eventi da proporre all’attenzione dei loro lettori. Per ovviare a questo grosso handicap, nei casi più urgenti, ci si organizzò con un sistema efficiente, ma non privo di rischi: i piccioni viaggiatori. Gli uccelli forniti di un istinto formidabile a ritrovare il luogo dove erano nati, erano capaci di recapitare i messaggi “via aerea”, su percorsi lunghissimi, anche di parecchie centinaia di chilometri, con una relativa celerità. Verso la fine del Settecento ci si ingegnò a inviare messaggi con dei “segnalatori” ottici avvistabili con un cannocchiale. In Francia l’inventore Claude Chappe (Brûlon, 25 dicembre 1763 – Parigi, 23 gennaio 1805) mise a punto un ingegnoso sistema di torri di avvistamento dotate di “semafori” a bandiera, che – tempo atmosferico permettendo – potevano spedire messaggi criptati attraverso un codice segreto per sfuggire da occhi indiscreti. La grande innovazione avvenne però nell’Ottocento, quando a quest’arte tecnica che proprio per la sua attinenza con le lettere manoscritte si chiamò “telegrafia” (dal greco “tele” = lontano e graphein= scrivere), fu perfezionata mediante l’elettricità. Alla base del telegrafo elettrico vi era una semplice scoperta: l’elettrocalamita o elettromagnete che permetteva di attrarre tramite elettricità degli oggetti in ferro. Il primo elettromagnete fu costruito nel 1824 dall’ingegnere britannico William Sturgeon (Whittington, 22 maggio 1783 – Prestwich, 4 dicembre 1850). Se c’era un impulso elettrico sul filo del telegrafo, la calamita attraeva il pennino intriso nell’inchiostro che lasciava una traccia su un nastro di carta.

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Ma come scrivere le lettere con un sistema di questo tipo che non poteva riprodurre dei caratteri alfabetici, ma rilasciava solamente delle semplici linee continue o spezzate? Per risolvere il problema di collegare una sequenza di queste tracce in un messaggio leggibile, Samuel Morse (Charlestown, 27 aprile 1791 – New York, 2 aprile 1872), un pittore americano figlio di un pastore protestante, inventò un codice di linee e punti, il cosiddetto “alfabeto Morse”, fino a pochi anni fa ancora in uso nelle telecomunicazioni. Il primo messaggio della storia delle telecomunicazioni fu inviato da Baltimora a Washington il 24 maggio 1844 alle ore 8.45, 4 parole e un punto esclamativo per un totale di 18 caratteri: What /Hath /God /Wrought ! (Che meraviglie ha creato Dio!) .-- .... . - - / .... . - - .... / --. --- -.. / .-- .-. --- ..- --. .... Era una citazione biblica tratto dal libro della Sapienza che evidentemente Morse, fervido credente, aveva scelto pensando con gratitudine alla creatività umana specchio di quella divina che in quell’istante apriva una nuova era.

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In pochi anni il sistema inventato da Morse si diffuse a macchia d’olio sia in America che in Europa, formando una ricca rete internazionale, non paragonabile ovviamente a quella internet di oggi, ma assolutamente innovativa perché era la prima a vedere la luce. Ben presto però il telegrafo Morse dovette affrontare un problema non indifferente dovuto all’uso della corrente continua. Più lungo era il filo conduttore su cui viaggiava il flusso di corrente, più incontrava resistenza e la forza dell’elettrocalamita diminuiva in proporzione, non riuscendo ad attrarre il pennino con la forza necessaria per scrivere. Il segnale Morse veniva mitigato sulle lunghe distanze fino a scomparire del tutto.

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Per ovviare a questo problema ci si ingegnò con una frammentazione della rete e successivamente ottimizzando la ricezione del segnale con nastri perforati. Nel 1908 il segnale in alfabeto Morse “tre punti, tre linee, tre punti” ovvero S.O.S. (Save Our Souls «salvate le nostre anime»), divenne uno standard nel codice radiotelegrafico marittimo di soccorso, ed è entrato oggi nell’uso comune per tutte le situazioni di emergenza.

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Thomas Alva Edison

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LA LAMPADINA DI EDISON E L’INNOVATORE FRIULANO MALIGNANI

Luce elettrica al posto del gas


A

ncora verso la seconda metà dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento nelle principali città del mondo il sistema più diffuso di illuminazione delle vie pubbliche era il lampione a gas. A Trieste per esempio pur essendo stato introdotto il gas illuminante nel 1846, si pensò di costruire nel 1901 il Gasometro di Broletto, per far fronte all’ampliamento della città. A Lubiana l’illuminazione pubblica a gas entrò in funzione nel 1861. L’illuminazione a gas risultava molto più economica – circa il 75% di costo in meno – rispetto alle candele di cera o alle lampade a petrolio, per cui anche nelle abitazioni – soprattutto dei ceti più abbienti – si consolidò l’uso di dotare le ville e alcuni spazi domestici con questo tipo di illuminazione. Da un prospetto statistico del 1869, ad esempio vediamo che in Italia le città in cui si faceva più uso di tutte del gas illuminante c’erano Milano, Torino, Trieste e Napoli e in tutte, tranne Napoli, l’uso era principalmente domestico superando quello dell’illuminazione pubblica. Con la scoperta delle lampade elettriche ad arco nel 1813, molto luminose, la potenza di illuminazione superò di gran lunga quella delle lampade a gas. Ma come ogni innovazione aveva anche dei punti deboli: se da un lato la potenza risolveva egregiamente il problema dei grandi spazi – come le stazioni ferroviarie o le vie pubbliche, dall’altro mal si adattava agli spazi piccoli, come gli ambienti domestici che necessitano di illuminazioni più contenute. Era necessario trovare un’altra soluzione: la luce elettrica doveva essere più “gentile”, meno aggressiva. Bisognava trovare il giusto equilibrio tra potenza e “colore” della luce, una questione tecnica non di poco conto, che si sarebbe ripresentata anche 150 anni dopo con i moderni tipi di illuminazione a basso consumo.

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La luce artificiale per interni infatti non deve essere né troppo debole né troppo forte, ma anche non troppo calda né fredda in quanto il nostro sistema visivo è calibrato per natura sullo spettro della luce solare. La prima soluzione a questo problema si ebbe nel 1878 con la lampada ad incandescenza. Il principio di funzionamento è molto semplice: un filamento di un materiale conduttore o semiconduttore al passaggio di corrente si riscalda fino all’incandescenza, irradiando luce e calore. Il motivo di questo comportamento del filamento è la “resistenza” che esso provoca nel flusso di corrente che possiamo immaginarci come un “attrito” tra elettroni e molecole del materiale di cui è fatto il filamento. Il calore però, se da un lato serve per portare ad incandescenza il filamento, dall’altro genera altri problemi. Innanzitutto rappresenta una perdita energetica del sistema. Nelle lampadine ad incandescenza gran parte dell’energia elettrica è dispersa sotto forma di calore. Il calore, essendo causato da raggi infrarossi, non visibili dall’occhio umano, è assolutamente inutile ai fini dell’illuminazione. In secondo luogo, il surriscaldamento del filamento a temperature molto elevate lo fa deteriorare molto velocemente perché il materiale di cui è composto brucia o addirittura “vaporizza” interrompendo immediatamente il passaggio di corrente elettrica. Un altro problema per la luce elettrica, come si è detto, è il “colore” della luce. Siccome la luce artificiale è tanto più bianca quanto più caldo è il filamento sottoposto al passaggio di corrente, il problema principale è trovare un filamento adatto che possa riscaldarsi ad altissima temperatura al punto di emettere una luce “gradevolmente bianca”, senza

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bruciarsi o fondere. Un equilibrio difficilissimo da trovare, visto il complicato intreccio di variabili messe in gioco. Nella seconda metà dell’Ottocento, furono fatte numerosissime prove con tanti tipi di materiali, sia metallici che organici, racchiudendo i sottilissimi fili in bulbi di vetro trasparente, principalmente per proteggerli da azioni esterne, ma anche per evitare scoppi e incendi. Nel 1878 il britannico Joseph Wilson Swan (31 ottobre 1828 – 27 maggio 1914) utilizzò dei filamenti di carbonio ricavati dalla combustione della carta, ma l’estrema fragilità del filamento e l’annerimento progressivo del bulbo di vetro nel breve giro di qualche ora rendevano la sua lampadina del tutto inutilizzabile. Nel 1879 l’americano Thomas Alva Edison (Ohio, 11 febbraio 1847 – Essex, 18 ottobre 1931), tramite il pool di collaboratori alle sue dipendenze nel laboratorio di ricerca tecnologica di Menlo Park nel New Jersey, riuscì a migliorare la lampadina a incandescenza utilizzando dei filamenti di bambù protetti da un bulbo di vetro sottovuoto elettrizzati con corrente continua a basso voltaggio (12 volt circa). Ma nonostante i progressi nella fabbricazione, la durata delle primissime lampadine Edison ad incandescenza era comunque troppo breve, stimabile nel migliore dei casi a non più di una quarantina di ore. La rapidità del deterioramento dei filamenti indusse Edison a trovare un sistema di sostituzione veloce delle sue lampadine con un attacco a vite brevettato, il cosiddetto “attacco Edison” riconoscibile dall’elegante filettatura conica e profilo a onda, divenuto oggi uno standard internazionale con la sigla E (oggi in Italia usiamo comunemente lampadine con attacco E27 o il “mignon” E14, mentre negli Stati Uniti si utilizzano

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le versioni E26, E17 ed E12). Nel 1894 dal Friuli arrivò un grande aiuto alla produzione in serie delle lampadine Edison. Arturo Malignani (Udine, 4 marzo 1865 – Udine, 15 febbraio 1939), escogitò un ingegnoso sistema “chimico fisico” per creare un vuoto spinto nei bulbi delle lampadine a incandescenza e trovò anche il sistema di produrre in serie i bulbi di vetro in modo più salutare per i lavoratori. Il sistema Malignani, ancora in uso nelle moderne industrie di lampadine in cui è necessario ottenere un vuoto spinto, faceva uso di vapori di arsenico, iodio e acido solforico che

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andavano a combinarsi con i vapori del filamento di carbonio a livello molecolare. La reazione di questi componenti era assolutamente più efficace di quello che si sarebbe potuto ottenere con una semplice pompa pneumatica. La Edison Italiana acquisì il brevetto Malignani, introducendolo nella fabbricazione di tutte le lampadine ad incandescenza immesse sul mercato internazionale. Merita qui ricordare ancora, per l’influenza che ebbe in Italia tradizionalmente povera di carbone e petrolio, l’opera di Malignani nel campo delle fonti rinnovabili. Già alla fine dell’Ottocento pensò di munire la sua città di centraline idroelettriche alimentate dalle rogge cittadine, che però erano insufficienti per le esigenze di largo consumo. Progettò dunque e fece costruire una centrale idroelettrica più potente che sfruttava l’acqua del torrente Torre imbrigliandolo in una diga a Vedronza di Lusevera. Udine, tra le prime città in Europa, per merito dell’iniziativa di Malignani, a partire dal 1908 potè disporre di un’’illuminazione pubblica e privata, e un sistema tranviario moderno alimentato da energia elettrica proprio com’era successo a a Berlino pochi anni prima per iniziativa di Siemens (vedi cap. 16).

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Georges Claude

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Altre idee luminose

INSEGNE PUBBLICITARIE AL NEON E LAMPADE A INDUZIONE


C

on la capillare diffusione della lampadina a incandescenza per la prima volta nella storia l’uomo si affrancava da secoli di illuminazione precaria che lo avevano costretto a seguire il ciclo naturale di giorno-notte nelle sue attività produttive, entrando nella Seconda Rivoluzione Industriale dell’era moderna. Il tallone d’Achille delle lampadine Edison a incandescenza era la loro bassissima efficienza, che indusse già nei primissimi anni della loro diffusione a trovare delle soluzioni che fossero più economiche dal punto di vista del consumo di elettricità. Tra le alternative più efficaci ci fu la luce al neon che utilizzava una scarica elettrica immessa da elettrodi in un tubo di gas. Venne presentata a Parigi nel 1909 dall’ingegnere chimico francese Georges Claude (Parigi, 24 settembre 1870 – 23 maggio 1960), a cui si devono anche altre importantissime innovazioni nel campo del trattamento industriale dei gas. Nel 1897 Claude scoprì per primo che il gas acetilene poteva essere trasportato in sicurezza dissolvendolo in acetone e indipendentemente dal chimico tedesco Carl von Linde, sviluppò un processo industriale per produrre aria liquefatta (1902). Durante queste ricerche Georges Claude scoprì che il passaggio della corrente elettrica in tubi di vetro dove c’era la presenza di gas inerti (come il neon appunto), produceva luce. E questa luce poteva essere notevolmente amplificata da sostanze fluorescenti spalmate sulla superficie interna dei tubi. Gli ioni liberati dal passaggio di corrente nel gas infatti, andando ad eccitare le molecole delle sostanze fluorescenti, le fanno brillare di luce bianca o, anche con colore diverso a seconda della miscela utilizzata nei rivestimenti. Dal momento poi che non c’era alcun delicato

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filamento incandescente al loro interno, i tubi sottili al neon di Claude potevano essere modellati a caldo per creare delle figure sinuose o addirittura del lettering script con una variegata tavolozza di colori di luce; una caratteristica che venne subito sfruttata dall’industria pubblicitaria per dar vita alle spettacolari insegne luminose a basso consumo che, fino all’avvento del led, hanno illuminato le città in tutte le parti del mondo, divenendo il simbolo più visibile della nuova società industrializzata e consumista. Tra i progetti che però allora non videro la luce per ottusi motivi di marketing scaturiti dalla cosiddetta “guerra delle correnti” tra Edison e Westinghouse, vi fu un’idea assolutamente innovativa che avrebbe potuto cambiare sul nascere lo sviluppo dell’illuminazione. L’idea racchiusa in un brevetto di Nikola Tesla (“System of electric lighting” brevetto US454622, giugno 1891), era la lampadina ad induzione magnetica, assolutamente più efficiente sia dal punto di vista energetico che da quello della potenza di illuminazione. Tesla sfruttò il principio fisico per cui un gas rarefatto emette luce se viene eccitato da un campo magnetico e mise a punto un dispositivo di illuminazione innovativo. Non avendo bisogno di una scarica elettrica come nelle lampadine ad arco, non utilizzando nemmeno parti consumabili come i filamenti di carbonio o di tungsteno delle lampadine a incandescenza, e nemmeno gli elettrodi delle lampadine al neon – la lampadina ad induzione magnetica di Nikola Tesla poteva funzionare con una resa costante nel tempo per periodi estremamente lunghi e consumi ridottissimi, anticipando di più di un secolo i moderni diodi ad emissione di luce indotta (LED).

Altre idee luminose

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Le lampadine a induzione magnetica sono state riscoperte dall’industria elettrica dei nostri giorni. Dal 1990 hanno iniziato ad essere commercializzate per impianti industriali di grandi dimensioni che hanno l’esigenza di illuminare grandi aree con costi ridotti di manutenzione e consumo. Le moderne lampadine a induzione magnetica possono raggiungere una durata eccezionalmente lunga di 100.000 ore di esercizio – grossomodo 25 anni d’uso – il doppio delle lampade a led e addirittura il centuplo delle lampadine a incandescenza.

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Nikola Tesla

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L’ELETTRICITÀ DI TESLA CHE CAMBIÒ IL MONDO

Una “alternativa” geniale


C

ome abbiamo visto nel capitolo precedente, Nikola Tesla nel 1891 brevettò una lampadina a induzione magnetica molto più moderna delle soluzioni fino allora adottate, ma che cominciò ad essere prodotta industrialmente appena cent’anni dopo. Altre intuizioni tecnologiche di Tesla ebbero invece fortuna immediata e sono divenute patrimonio comune dell’umanità. Due di queste, in particolare, hanno avuto il merito di imporsi dando una svolta decisiva alla situazione di stallo che si era creata a fine Ottocento, portando l’elettricità ad essere impiegata universalmente nell’industria e nelle abitazioni. Sono la “corrente alternata” e il “motore elettrico trifase”. Vediamo in questo capitolo la storia della corrente alternata e perché fu così importante. L’idea di Tesla era quella di utilizzare un tipo di corrente sostanzialmente molto diverso dalla normale corrente generata da batterie chimiche o dalle dinamo a magneti fissi. La corrente che esce da una pila di Volta o da un generatore omopolare come il disco di Faraday, è “continua” (DC, direct current) perché il flusso di elettroni segue un’unica direzione. Come un flusso d’acqua che da un bacino di altezza superiore, si travasa in un altro di altezza inferiore, così la corrente continua si muove dal polo di potenziale maggiore (positivo) verso il polo a potenziale minore (negativo). Il flusso di elettroni che si sposta da un polo all’altro, proprio come l’acqua, può essere sfruttato come energia per eseguire un lavoro. Nel mulino ad acqua, per esempio, le pale si muovono spinte dal passaggio dell’acqua, mentre in un circuito elettrico il lavoro – l’accensione di un elettrodomestico, di una lampadina, ecc… – viene fatto dal passaggio delle cariche elettriche.

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La corrente inventata da Tesla invece si comporta in modo diverso. Tramite le dinamo di sua invenzione lo scienziato serbo aveva trovato il modo di far cambiare la polarità del flusso elettrico in modo velocissimo con frequenze di decine di cicli al secondo creando una corrente “alternata” (“AC” = alternating current).

Nikola Tesla, nei suoi studi e sperimentazioni nel campo dell’elettromagnetismo, dell’induzione e della risonanza, si era accorto che con questo stratagemma, si potevano avere dei grossi vantaggi. Innanzitutto con una corrente alternata la resistenza del conduttore è minore rispetto al passaggio di corrente continua. Alla base di questo fenomeno vi è la legge di Ohm secondo cui “L’intensità di una corrente elettrica è direttamente proporzionale alla forza elettromotrice ed inversamente proporzionale alla resistenza del conduttore ( E = RI )”. Gli elettroni all’interno di un circuito, cambiando direzione molte volte in un lasso di tempo brevissimo, non lo percorrono

Una “alternativa” geniale

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nella sua lunghezza totale, ma solo in un tratto molto breve all’interno del reticolo molecolare del conduttore, trovando assolutamente meno resistenza di come se lo dovessero attraversare per tutta la sua lunghezza del filo elettrico. La cosa non è di immediata comprensione, ma possiamo aiutarci riprendendo il nostro paragone “idraulico”. Nella corrente alternata è come se un flusso di acqua fosse deviato in continuazione da destra a sinistra e da sinistra a destra all’interno di un tubo in cui siano stati introdotti dei filtri che ne rallentano il corso. Se allora intercettassimo il flusso d’acqua (introducendo per esempio un motore) in un punto intermedio del tubo, la potenza di fuoriuscita del getto sarebbe superiore a quello che si avrebbe alla fine del tubo perché in questo ultimo caso la “resistenza” al passaggio del flusso sarebbe dato dalla somma di tutti gli impedimenti incontrati lungo il percorso e non solo da una parte di essi. La corrente alternata trovando meno resistenza nel circuito, poteva portare maggiori quantità di energia a distanze considerevoli. Bastava aumentarne la tensione. Per capire questo passaggio logico bisogna elencare quali sono le caratteristiche fondamentali di una corrente elettrica: 1. TENSIONE (si misura in Volt) : è la forza elettromotrice, ovvero la spinta che gli elettroni ricevono dal generatore di corrente. 2. INTENSITÀ (si misura in Ampere): è la velocità e la quantità degli elettroni che scorrono in un circuito. 3. RESISTENZA (si misura in Ohm): è l’opposizione al passaggio degli elettroni in un conduttore. 4. POTENZA (si misura in Watt) ed è il prodotto della Tensione per l’Intensità.

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Se una linea di trasmissione deve trasportare una potenza P, elevando il voltaggio (V) la resistenza (I) sarà minore. D’altra parte la potenza dissipata nella linea di trasmissione, per la legge di Joule, è data da R (resistenza della linea) moltiplicata per il quadrato di I. Quindi a una maggiore tensione V corrispondono necessariamente minori perdite. Il sistema a corrente alternata risolveva definitivamente il problema della distribuzione. Svincolava dalla necessità di avere moltissime centrali di produzione a breve distanza uno dall’altro dai luoghi di consumo (industrie, case private, illuminazione pubblica). Le centrali a corrente alternata potevano essere costruite in luoghi assai remoti dai centri abitati e la corrente poteva tranquillamente viaggiare per lunghi chilometri a tensioni di migliaia di volt ed essere poi convertita a tensioni ridotte a 110 volt o 220 volt per l’uso domestico. C’è da dire però, che questo sistema ideato da Tesla trovò all’inizio una decisa opposizione da parte di Thomas Edison che da anni aveva scelto di utilizzare la corrente continua e nella riconversione all’“alternata” avrebbe dovuto reimpostare dalla base la sua fortuna industriale. Dopo anni di dispute, anche feroci, e colpi piuttosto bassi da parte di Edison, in quella che agli inizi del ’900 in America è nota come la “Guerra delle Correnti” alla fine il sistema che riuscì a imporsi e convinse gli investitori a rischiare i loro capitali fu quello di Tesla attraverso l’appoggio illuminato dell’industriale americano di George Westinghouse (New York, 6 ottobre 1846 – 12 marzo 1914). Come sappiamo oggi in tutte le nostre case è erogata corrente alternata. Nei moderni impianti collegati alla rete elettrica di

Una “alternativa” geniale

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corrente alternata, la frequenza della “vibrazione” tra polo negativo e polo positivo può variare da Paese a Paese. In Italia e Slovenia, come nel resto d’ Europa, dove i generatori di corrente alternata girano a 3000 giri al minuto la frequenza è di 50 hertz. Mentre in America, dove questo tipo di corrente si diffuse per prima, la frequenza è rimasta quella originale delle dinamo di Tesla a 60 hertz.

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21 “Che la forza sia con tre” Galileo Ferraris

IL CAMPO MAGNETICO ROTANTE E LA NASCITA DEL MOTORE TRIFASE


I

l motore elettrico senza dubbio è stato ed è tuttora in prima fila come dispositivo principe che ha affrancato l’uomo dalla fatica del lavoro manuale. La sua efficienza, in termini di consumi e ricavi, è superiore a qualsiasi altro tipo di motore inventato nel corso dei secoli. Nel medioevo avevamo motori senza combustibile ad esempio il mulino idraulico che sfruttava l’energia cinetica dei corsi d’acqua, o il mulino a vento che utilizzava la forza derivante dallo spostamento delle masse d’aria nell’atmosfera. Con il progredire della scienza e le scoperte nel ramo della fisica e della chimica si posero le basi per una tecnologia di un motore che ne svincolasse il funzionamento dal capriccio delle stagioni e del tempo atmosferico. Nacquero così varie soluzioni dei motori a combustibile, più o meno efficienti, più o meno complicati, che impiegavano carbone (motore a vapore), benzina (motore a scoppio), gasolio (motore diesel). Ma il principe assoluto per efficienza energetica rimane tuttora il motore elettrico a induzione, il più diffuso nelle applicazioni industriali. Alla base del suo funzionamento vi è il principio fisico scoperto e teorizzato da Michael Faraday nel 1831: ovvero l’induzione elettromagnetica secondo cui un movimento può essere prodotto facendo interagire una corrente elettrica con un campo magnetico. Il passo successivo fu quello della scoperta del campo magnetico rotante, ovvero dell’interazione virtuosa di campi magnetici al fine di produrre un movimento rotatorio di un oggetto (rotore) al passaggio di corrente alternata. L’idea venne a due ricercatori geniali che stavano lavorando all’insaputa uno dell’altro allo stesso problema teorico:

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Nikola Tesla (Smiljan, 10 luglio 1856 – New York, 7 gennaio 1943) in America e Galileo Ferraris (Livorno, 30 ottobre 1847 – Torino, 7 febbraio 1897) in Italia. Quest’ultimo scoprì il campo magnetico rotante nel 1885, presentando un suo motore elettrico funzionante con due bobine fisse ortogonali percorse da corrente alternata all’Accademia delle Scienze di Torino nel marzo 1888. Nikola Tesla invece, arrivò a concepire il campo magnetico rotante con tre componenti sfasate di 120°. Era il cosiddetto motore elettrico a induzione trifase, che produceva una forza superiore, eliminando del tutto i punti morti del moto nel rotore. Nell’ambito di quella che è stata definita la “Guerra delle Correnti” tra Westinhouse e Edison, per far colpo sull’opinione pubblica americana e promuovere la corrente alternata rispetto alla corrente continua, Tesla ideò un congegno che più di ogni dimostrazione matematica mostrava con evidenza a tutti la magia del campo magnetico rotante. Creò una versione tecnologica dell’ “uovo di Colombo” che fu presentata alla Fiera Internazionale Colombiana di Chicago in occasione del 400° anniversario della scoperta dell’America. L’uovo di Tesla, a differenza di quello con cui Cristoforo Colombo si conquistò il suo viaggio per le Americhe ammaccandolo sulla base per restare dritto nel piatto, era un uovo interamente di rame che non presentava ammaccature.

“Che la forza sia con tre”

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Si teneva dritto roteando velocemente come una trottola in forza del campo magnetico rotante trifase, che Tesla aveva creato in un’intercapedine sottostante al piatto. Tra il 1887 e il 1888 Nikola Tesla depositò all’Ufficio Brevetti Americano vari progetti di motori a induzione sempre più perfezionati e performanti, brevetti che diedero l’avvio alla produzione industriale dei motori elettrici per industria e trazione e che oggi sono applicati nelle moderne versioni per automobili elettriche. 85 anni di scoperte e innovazioni per il motore elettrico trifase: 1800 – Alessandro Volta pubblica il suo pamphlet sulla pila da lui ideata capace di generare corrente continua. 1820 – Hans Christian Oersted osservando l’ago di una bussola divergere dalla sua posizione se avvicinata a un filo elettrico, scopre che la corrente elettrica può produrre campi magnetici. 1825 – William Strugeon inventa l’elettromagnete (una bobina con un nucleo di ferro se attraversata da corrente, si comporta come una calamita attraendo oggetti di ferro). 1831 – Michael Faraday scopre il fattore chiave da cui si svilupperà l’idea di un motore elettrico: l’induzione elettromagnetica. 1856 – Werner Siemens inventa un generatore di corrente continua a doppia armatura. È il primo ad adottare un avvolgimento a bobina nelle fessure, un’idea che darà una svolta nella progettazione di macchine elettriche. 1885 – Galileo Ferraris costruisce il primo motore a induzione 1887 – Nikola Tesla brevetta il primo motore a induzione a corrente alternata trifase che sarà prodotto da George Westinghouse. Storia dell’elettricità

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Antonio Meucci Alexander Graham Bell

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L’INVENZIONE DEL TELEFONO

La voce corre sul filo elettrico


L

a possibilità di trasformare l’energia elettrica in onde sonore sta alla base dell’invenzione del telefono, l’apparecchio per parlare a distanza attraverso un filo elettrico. Il precursore di questa applicazione eccezionale dell’energia elettrica nel campo delle comunicazioni può essere individuato nell’ingegnere francese Charles Bourseul (Brussels, 28 aprile 1829 – Saint Céré, 23 novembre 1912) che nel 1854, mentre era impiegato nell’amministrazione dei telegrafi francesi costruì un primo apparecchio che però non fu perfezionato in quanto non venne accolto positivamente dai finanziatori. Un altro ingegnere tedesco, impiegato nell’insegnamento, Johann Philipp Reis (Gelnhausen, 7 gennaio 1834 – Friedrichsdorf, 14 gennaio 1874) mise a punto nel 1860 una sua invenzione innovativa che chiamò “Telefono Reis”. Si trattava di una cassetta con un foro circolare su cui una membrana poteva vibrare con una punta metallica collegata ad una pila di Volta. Se la membrana era messa in oscillazione dalla voce attraverso un imbuto, le vibrazioni venivano intercettate dalla punta metallica che trasferiva quegli impulsi meccanici ad un dispositivo identico posto ad una certa distanza a cui era stata collegata un’elettrocalamita che metteva in vibrazione una punta metallica appoggiata alla membrana. In questo modo la vibrazione sonora era trasformata in segnale elettrico e il segnale elettrico ritrasformato a distanza in un segnale sonoro. Il dispositivo di Reis funzionava, ma era estremamente debole e più una curiosità da laboratorio che un telefono adatto alle comunicazioni a grandi distanze. Per arrivare ad un telefono vero e proprio ci volle l’inventiva di uno sperimentatore italiano, impiegato come tecnico negli

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allestimenti teatrali, Antonio Meucci (Firenze, 13 aprile 1808 – New York, 18 ottobre 1889). Trovandosi all’Avana per ragioni di lavoro, e occupandosi di galvanoplastica e anche di mesmerismo, trovò per caso il principio di funzionamento di quello che lui chiamò “telegrafo parlante”. Nel 1864, durante una seduta sperimentale per aiutare un suo amico a risolvere un forte mal di testa gli applicò un imbuto in bocca provvisto di una lamina elettrica che accidentalmente, al verificarsi della scarica elettrica, trasmise il suono dell’urlo di dolore del malcapitato dall’altra parte del filo dove Meucci, con un imbuto simile, aveva casualmente avvicinato l’orecchio. Applicandosi alla scoperta Meucci ideò un “telettrofono” ma tardò a depositare i disegni della nuova invenzione, cosa che gli causò la perdita della paternità dell’invenzione. Il primo a ottenere un brevetto regolare per il telefono elettrico nel marzo 1876 fu invece lo scienziato britannico naturalizzato statunitense Alexander Graham Bell (Edimburgo, 3 marzo 1847 – Beinn Bhreagh, 2 agosto 1922). All’epoca della sua scoperta era direttore di un istituto di sordomuti, e utilizzò subito la sua invenzione che poteva trasmettere la voce a distanza per tentare di alleviare il problema dell’udito ai suoi pazienti.

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La paternità della scoperta del telefono, tuttora una questione controversa, fu contestata da Meucci, che nel 1888 ottenne un riconoscimento dalla Corte suprema degli Stati Uniti. Il rivoluzionario dispositivo di Bell, come il telegrafo di Morse, funzionava benissimo su brevi distanze e un po’ meno su quelle lunghe dove rimaneva il problema della dissipazione del segnale. Tra le migliorie più efficaci del telefono elettrico per rendere la voce meno disturbata ci fu il perfezionamento del microfono che invece della lamina metallica fece uso di piastrine di carbone che al variare della pressione sulla membrana variavano la resistenza elettrica. L’idea venne a Emile Berliner (Hannover, 20 maggio 1851– Washington, 3 agosto 1929), il geniale inventore del grammofono e del disco fonografico, brevettando nel 1877 per primo un microfono a carbone, poi ceduto alla Bell Telephon Company per la vertiginosa cifra di 50.000 dollari.

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23 Onde per eliminare le distanze

Guglielmo Marconi

L’INVENZIONE DELLA RADIO


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a radio, la possibilità di comunicare trasmettere e ricevere comunicazioni in modo istantaneo, senza connessioni fisiche è un’altra conquista epocale per l’umanità. Il prodigio avvenne gradualmente a partire dal 1864, anno in cui il matematico scozzese James Clerk Maxwell (Edimburgo, 13 giugno 1831 – Cambridge, 5 novembre 1879) pubblicò il suo trattato su elettricità e magnetismo “A Dynamical Theory of the Electromagnetic Field” dove per la prima volta propose che la natura ondulatoria della luce fosse la causa dei fenomeni elettrici e magnetici e in cui si affermava l’esistenza di onde elettromagnetiche. Heinrich Rudolf Hertz (Amburgo, 22 febbraio 1857 – Bonn, 1º gennaio 1894) per primo dimostrò sperimentalmente l’esistenza delle onde elettromagnetiche previste da Maxwell con un oscillatore di sua costruzione, il dipolo hertziano (1887) che era anche in grado di trasmettere e ricevere a distanza onde radio. In suo onore, nel sistema internazionale la frequenza è misurata in hertz (1 Hertz corrisponde a 1 oscillazione al secondo). Un italiano, oggi praticamente rimasto sconosciuto, Temistocle Calecchi Onesti (Lapedona, 14 dicembre 1853 – Monterubbiano, 22 novembre 1922) inventò il coherer o coesore, un dispositivo capace di rilevare la presenza di onde eletromagnetiche irradiate a distanza in quello che allora veniva definito “etere”, ovvero lo spazio che separa un oggetto da un altro. Un altro italiano, il professore universitario bolognese Augusto Righi ( 27 agosto 1850 – 8 giugno 1920) ebbe l’idea di collegare l’oscillatore di Hertz a un rocchetto di Ruhmkorff, aumentandone la potenza. Con esso dimostrò sperimentalmente che le onde elettromagnetiche presentano

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gli stessi fenomeni (riflessione, rifrazione e polarizzazione) delle onde luminose, confermando l’identità di natura dei due tipi di radiazione. Fu maestro di Guglielmo Marconi. Nel 1895, il fisico italiano Guglielmo Marconi (Bologna, 25 aprile 1874 – Roma, 20 luglio 1937) iniziò i suoi esperimenti sulle onde elettromagnetiche con il proposito di trovare il sistema di trasmettere e ricevere dei segnali a distanza. Ebbe l’intuizione di abbinare il coherer di Temistocle Calecchi Onesti all’oscillatore amplificato di Hertz aggiungendo un’antenna trasmittente e una ricevente. L’8 dicembre 1895, dopo vari tentativi, l’apparecchio di Marconi riesce a comunicare e ricevere un segnale Morse senza fili, è la prima volta in Italia (precedentemente infatti altri sperimentatori avevano ottenuto simili risultati, come Nikola Tesla, che aveva trasmesso a 50 km di distanza all’inizio dello stesso anno in un collegamento a West Point, e il russo Aleksandr Popov aveva realizzato un ricevitore nel maggio dello stesso anno).

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Marconi perfezionò la sua radio, che all’inizio agiva su onde medie nell’ordine di poche decine di metri, con un’altra invenzione chiave l’apparecchio sintonico capace di selezionare l’onda in ricezione distinguendola dalle onde provenienti da altre sorgenti. Fu così che il 12 dicembre 1901 a un secolo dall’invenzione della pila di Volta, Marconi riuscì a trasmettere e a ricevere un’onda radio attraverso l’Oceano Atlantico. Quel giorno nasceva ufficialmente l’era delle telecomunicazioni.

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Oleg Vladimirovich Losev

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LA SCOPERTA DELL’ELETTROLUMINESCENZA NEI DIODI

Un caso dimenticato


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el 1907 nei Laboratori Marconi di Londra della Wireless Telegraph & Signal Company l’impresa fondata da Guglielmo Marconi nel 1897, un giovane assistente Henry Round (Kingswinford, 2 giugno 1881 – Bognor Regis, 17 agosto 1966) si accorse di un fatto straordinario. Mentre stava lavorando al perfezionamento delle radio a galena, i cosiddetti “cat wisker’s relevator” (rilevatori a baffo di gatto), si accorse che alcuni cristalli di silicato di alluminio (carborundum) impiegati come diodi, al passaggio di corrente elettrica producevano una debole luce. Nella rivista Electrical World n. 49 del 1907, Round descrisse così la sua scoperta: “Ho notato uno strano fenomeno.”, “Nell’applicare un potenziale di 10 volt tra 2 punti di un cristallo di carborundum, il cristallo emetteva una luce giallastra.”, “altri cristalli invece che luce giallastra emettevano una luce verde, o arancione, o blu.”,“In tutti i casi osservati la luminosità si vedeva solamente nel polo negativo, mentre nel polo positivo si aveva una scintilla blu-verde.” Aveva scoperto il fenomeno dell’elettroluminescenza per cui alcuni materiali possono emettere luce se attraversati da un fascio di elettroni, ma non riuscì a darsene una spiegazione. Chi capì invece il comportamento e le potenzialità di quella pallida luce fu, una ventina d’anni dopo, un ricercatore russo impiegato negli stabilimenti sovietici di produzione di apparecchi radio. Il suo nome era Oleg Vladimirovich Losev (Tver, 10 maggio 1903 – San Pietroburgo, 22 gennaio 1942). Osservando il comportamento di alcuni diodi nel tentativo di amplificare

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la ricezione dei segnali radio, Losev si accorse della strana luminescenza proveniente dal polo negativo del carborundum cristallino. Intuendo che si trattava di un nuovo tipo di luce, provò a mettere una goccia di benzene sulla parte luminescente del diodo, e calcolò il tempo di evaporazione. La goccia evaporava nello stesso lasso di tempo che in quella non luminescente. Era la prova che quella luce era fredda, cioè non produceva alcun calore. Inoltre al passaggio di corrente la luce del cristallo di carborundum si attivava istantaneamente per spegnersi altrettanto istantaneamente quando la corrente cessava. Losev, intravvide subito le grandi potenzialità di questa eccezionale caratteristica se fosse stata applicata alle telecomunicazioni: nel 1927 brevettò un “Relé di Luce”, un apparato che aprendosi e chiudendosi istantaneamente poteva servire per trasmettere segnali. Losev scrisse a proposito: “La mia invenzione sfrutta la luminescenza di un rivelatore al carborundum come un relé per veloci comunicazioni telegrafiche, telefoniche, trasmissione di immagini e altre applicazioni dove un punto di contatto di luce luminescente è usato come una sorgente di luce direttamente connessa a un circuito di corrente modulata”. L’intuizione di Losev anticipava di cinquant’anni la tecnologia a fibre ottiche che oggi si è diffusa per velocizzare lo scambio di dati. Nei numerosi articoli (scritti purtroppo solamente in cirillico, cosa che non favorì certamente la diffusione delle sue scoperte) il giovane ricercatore russo tentò di spiegare l’effetto

Un caso dimenticato

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della luminescenza definendolo come “l’inverso dell’effetto foto-elettrico”, ma non avendo le basi matematiche di un fisico quantistico non riuscì mai a dimostrarlo. Non ne ebbe neanche il tempo. Losev purtroppo morì prematuramente nel 1945, a soli 38 anni durante l’assedio di Leningrado, senza poter mettere a frutto le sue importanti scoperte. Ad accorgersi di lui sono stati i ricercatori americani che molti anni dopo si sono occupati di tecnologia led.

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Una innovazione da Premio Nobel

Akira Yoshino

LE BATTERIE RICARICABILI AL LITIO


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kira Yoshino (Suita, 30 gennaio 1948), ingegnere chimico nella ditta giapponese Ashahi Kasei, negli anni ’70 inizia a sperimentare delle soluzioni alternative di una batteria chimica assolutamente diversa da tutte le precedenti. In base agli studi di Michael Stanley Whittingham (Nottingham, 22 dicembre 1941) e di John Bannister Goodenough (Jena, 25 luglio 1922) trova che gli ioni di litio possono essere i migliori candidati per risolvere il problema principale delle ricaricabili: il processo di scarica e di carica per essere reversibile non deve produrre modifiche chimiche ai componenti delle batterie. La normale tecnologia degli accumulatori utilizzata fino a quel momento si basava infatti su un processo chimico di ossido-riduzione tra gli elettrodi che – proprio in virtù di tale trasformazione chimica cedeva gli elettroni dal catodo all’anodo in modo irreversibile per cui la batteria ad ogni ciclo di ricarica diventava sempre più debole. Nel caso delle ricaricabili agli ioni di litio inventate da Yoshino, non c’è una reazione “chimica” tra gli elementi che compongono anodo e catodo, ma piuttosto un processo “fisico” di spostamento degli ioni di litio da una parte all’altra, per cui la batteria si può caricare e scaricare senza che ci sia una modifica molecolare degli elettrodi. Con un’immagine semplice possiamo immaginare i due elettrodi di una pila ricaricabile come dei vasi comunicanti: due vaschette d’acqua collegate a un tubo nella parte inferiore, che a seconda dell’altezza relativa tra di esse, si svuotano e si riempiono per forza di gravità che attrae l’acqua da un recipiente all’altro. Il flusso d’acqua (cioè la corrente di elettroni nella pila) passa dalla vaschetta più in alto verso quella più bassa scaricando il contenitore più alto

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e riempiendo quello più basso, ma si riempie nuovamente se il contenitore più basso viene spostato più in alto. Nel caso dei vasi comunicanti l’energia immagazzinata che è servita per vincere la forza di gravità e spostare la vaschetta più bassa a un livello più alto è energia cinetica, mentre nel caso di una batteria ricaricabile è energia elettrica che spinge nuovamente gli elettroni al punto di partenza. Quando si applica la tensione di ricarica, gli atomi di litio nell’elettrodo positivo perdono ciascuno un elettrone trasformandosi in ioni di litio che migrano verso l’elettrodo negativo dove si riappropriano di nuovo dei loro elettroni. A questo punto la pila è carica. Quando invece la pila si scarica si ha il processo inverso: la batteria rilascia tutti gli elettroni dal polo negativo e questi, migrando verso il polo positivo generano la corrente, andando ad occupare nuovamente il polo positivo. Quando iniziò a lavorare al problema di una pila ricaricabile efficiente, il fisico giapponese Yokino sapeva che all’interno del dispositivo la carica elettrica avrebbe dovuto fluire in un modo completamente nuovo per non deteriorare gli elettrodi. Cominciò dunque ad utilizzare l’ossido di litio cobalto ((Li1-xCoO2) individuato qualche anno prima dal fisico tedesco naturalizzato statunitense John Bannister Goodenough (Jena, 25 luglio 1922), tentando di capire il modo migliore per farlo funzionare come elettrodo positivo. Quando veniva eccitato questo ossido forniva effettivamente cariche positive provenienti dagli ioni di litio. Ma Yoshino non aveva ancora un elettrodo negativo capace di assorbire e immagazzinare gli ioni di litio prodotti con l’ossido di litio cobalto. Provò dunque ad utilizzare un tipo di carbone con struttura cristallina modificata che si dimostrò molto

Una innovazione da Premio Nobel

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adatto allo scopo. Mancava ancora un ultimo ingrediente fondamentale: il giusto elettrolita che facesse da ponte tra gli elettrodi per trasportare gli ioni da uno all’altro. Tutte le batterie ricaricabili precedenti usavano essenzialmente l’acqua come base per le soluzioni elettrolitiche, ma questa aveva il grosso problema che non poteva convogliare più di 1,5 volt. Yoshino dovette dunque reinventare un elettrolita molto più performante dell’acqua acidulata, che arrivasse a superare la soglia troppo bassa del volt e mezzo, inutilizzabile per i dispositivi portatili che adoperiamo attualmente. Yoshino pensò dunque di sostituire l’acqua con un solvente organico (poliacetilene) e fu in grado quasi di triplicare la potenza, ottenendo 4 volt al posto dello scarso voltaggio precedente. Un’altra innovazione introdotta da Yoshino è stata quella di favorire lo scambio di elettroni tra anodo e catodo aumentando la superficie degli elettrodi con l’impiego di pellicole di alluminio spalmate dell’impasto ossido di litio ed elettrolita e poi avvolte su se stesse, come si fa con una rollata alla marmellata, per ottenere delle batterie cilindriche. Il problema principale da risolvere ancora, prima di mandare in produzione le nuove batterie ricaricabili, fu però quella di ovviare alla naturale instabilità del litio. Essendo un metallo molto reattivo, surriscaldandosi ad ogni ciclo di carica e scarica poteva in alcuni casi prender fuoco o addirittura esplodere. Yokino riuscì a risolvere questo problema cruciale inserendo una sottilissima pellicola di uno speciale materiale plastico dotato di micro porosità che tenesse separati i vari elementi. Se durante il processo di carica e scarica la batteria si surriscaldava eccessivamente, la pellicola dopo aver raggiunto un limite di temperatura, fondeva, otturando

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le sue porosità in modo da creare una barriera isolante. Con l’interruzione del flusso degli ioni di litio tra gli elettrodi la pila cessava di generare calore, mettendo immediatamente in sicurezza la batteria ricaricabile. La batteria ricaricabile al litio era adesso pronta per essere prodotta e immessa sul mercato mondiale. Lo fece per prima la ditta giapponese Sony nel 1980. Nel 2019 ad Akiro Yoshino è stato assegnato il Premio Nobel per la chimica assieme agli altri due ricercatori che avevano permesso di raggiungere questo stupefacente risultato: Michael Stanley Whittingham e John Bannister Goodenough. Grazie alla pila ricaricabile al litio oggi è possibile portarsi in tasca una connessione in tempo reale con tutto il mondo, aprendo delle possibilità di comunicazione e informazione illimitati: una risorsa senza precedenti per il mondo contemporaneo e una sfida per le generazioni a venire. 180 ANNI DI SCOPERTE E INNOVAZIONI PER LA BATTERIA AL LITIO 1800 – Alessandro Volta inventa il primo generatore di corrente con elettrolita acquoso: la pila 1812 – Giuseppe Zamboni realizza la prima pila a secco al biossido di manganese 1816 – William Hyde Wollaston realizza la pila a tazze 1836 – viene messa a punto la pila Daniell 1838 – viene realizzata la pila di Grove 1841 – viene realizzata la pila di Bunsen 1859 – viene realizzato da Gaston Planté il primo accumulatore (batteria piombo-acido)

Una innovazione da Premio Nobel

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1866 – Georges Leclanché inventa e brevetta il progenitore della pila a secco 1886 – Carl Gassner brevetta una pila a secco con elettrolita non più a base di acqua 1893 – viene inventata la pila Weston 1912 – Gilbert N. Lewis fabbrica la prima batteria al litio non ricaricabile 1914 – Charles Féry inventa la pila a zinco-aria 1936 – Emil Baur e H. Preis inventano una pila a combustibile a metano 1942 – Samuel Ruben realizza la batteria al mercurio 1947 – O.K. Davtyan mette a punto una pila a combustibile con elettrolita solido 1950 – Samuel Ruben inventa una pila all’ossido di argento 1950 – Lewis Urry brevetta la batteria alcalina. 1954 – Francis Thomas Bacon una pila a combustibile a idrogeno e ossigeno 1957 – inizia la commercializzazione delle pile al mercurio (Ruben-Mallory) 1970 – vengono realizzate le prime batterie al litio non ricaricabili da compagnie americane e giapponesi. 1977 – Michael Stanley Whittingham, brevetta una realizzazione sperimentale di pila ricaricabile al litio, non adatta al commercio 1979 – John Bannister Goodenough trova il processo per aumentare la densità energetica delle batterie al litio 1979 – Akiro Yoshino trova la soluzione per ottimizzare la produzione e rendere stabili le pile ricaricabili al litio 1980 – Prime batterie al litio messe in produzione dalla Sony 2019 – Il Premio Nobel per la chimica è assegnato ai tre inventori della batteria ricaricabile al litio: Michael Stanley Whittingham, John Bannister Goodenough e Akiro Yoshino Storia dell’elettricità

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26 Cristalli drogati per far luce

Nick Holonyak Jr.

I DIODI LUMINOSI E IL LED BLU


I

l termine “led” è un acronimo dall’inglese Light Emitting Diode (“diodo che emette luce”). Per capire come funziona bisogna dunque rifarsi inizialmente al concetto di diodo, per poi passare a vedere, a grandi linee come questo componente elettronico, tanto utile nell’ambito delle telecomunicazioni, potè essere impiegato in un ambito tanto diverso da quello iniziale in cui venne ideato. Un diodo è un dispositivo che conduce la corrente elettrica in un’unica direzione, come fosse una valvola di non ritorno in una tubatura idraulica. Un suo uso tipico è quello di “raddrizzare” la corrente da alternata a continua, per esempio negli alimentatori degli smartphone che trasformano l’energia elettrica fornita dalla rete di distribuzione (220 volt alternata) al voltaggio adatto alla batteria (5 volt continua). Un diodo ha dunque una bassissima resistenza – idealmente tendente a zero – in una direzione e altissima resistenza, idealmente infinita, nel verso opposto. Coi diodi luminosi, il passaggio di corrente in un’unica direzione tra anodo e catodo, l’elettrodo positivo e quello negativo, non amplifica un segnale radio e non raddrizza un’onda di corrente, ma provoca l’emissione di luce visibile. L’ energia elettrica invece di rimanere imbrigliata nel circuito sotto forma di un flusso di elettroni, viene indotta a dissiparsi all’esterno sotto forma di fotoni (come previsto dalla teoria di Einstein sull’effetto fotoelettrico, che in questo caso agisce in modo speculare). Il primo led venne messo a punto nel 1962 nei laboratori della General Electric Company dal ricercatore statunitense

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Nick Holonyak Jr. (Zeigler, 3 novembre 1928). Produceva una debole luce rossa, adatta per spie di segnalazione. Era un diodo luminoso costruito con un cristallo di arseniuro di gallio, modificato artificialmente con una tecnica molecolare chiamato “drogaggio” per indurre gli elettroni a rilasciare fotoni. Nei cristalli “drogati” artificialmente vi sono due zone contigue con abbondanza di elettroni ad un’estremità e penuria degli stessi dall’altra. Le due zone sono separate da una specie di barriera elettromagnetica che si comporta come una membrana che separa due soluzioni di un liquido a diversa concentrazione. Nel momento in cui la zona con abbondanza di elettroni in circolazione viene attraversata da una corrente elettrica, gli elettroni in sovrappiù vengono spinti oltre la barriera elettromagnetica come per effetto di una pressione, e vanno a riequilibrare la zona “povera”. Durante il passaggio vi è un consumo di energia attraverso l’emissione di fotoni, la luce led appunto. In genere la barriera elettromagnetica può essere superata con un voltaggio superiore a 0,7 volt - 0,9 volt a seconda dell’elemento chimico di cui è composto il led. Il “drogaggio” del cristallo semiconduttore è dunque di fondamentale importanza per ottenere differenze di

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lunghezza d’onda e intensità variabili di luce emessa ed è il procedimento chiave per ottenere led sempre più luminosi. Dopo i lavori pionieristici della General Electric Company del 1962 vennero elaborate soluzioni via via più performanti, passando dalla luce gialla a quella verde, testando nuove metodologie e materiali semiconduttori drogati con “cocktail” molecolari via via sempre più sofisticati. Un passo fondamentale fu la scoperta negli anni ’90 degli ingredienti del cocktail per ottenere un led a luce blu, che permetteva finalmente di avere a disposizione la tripletta completa della tavolozza RGB (rosso verde blu). Con questi tre colori si può produrre luce led di qualsiasi gradazione dello spettro visibile, tra cui, fondamentale ai fini dell’illuminazione, la luce bianca. Con il led blu fu possibile dar l’avvio alla produzione industriale dei led per l’illuminazione a basso consumo e anche a quella degli schermi a colori sempre più performanti, dai piccolissimi e leggeri montati sugli smartphone ai giganteschi degli stadi di calcio. Il merito della scoperta del led blu va ai ricercatori giapponesi Isamu Akasaki, Hiroshi Amano e Shuji Nakamura, insigniti del premio Nobel per la Fisica nel 2014.

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Russel Shoemaker Ohl CELLE AL SELENIO E SANDWICH AL SILICIO

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L

a prima commercializzazione di moduli fotovoltaici si ebbe nel 1963 da parte della ditta giapponese Sharp. Da allora, molte altre industrie in Europa, America e Cina, hanno cominciato a produrre, a prezzi sempre più bassi, questi generatori di corrente elettrica che sono oggi una delle fonti rinnovabili più promettenti per ridurre le emissioni di CO2 a tutto vantaggio dell’ambiente. Il pannello fotovoltaico evidentemente è un dispositivo statico, privo di parti in movimento che disperdono energia negli attriti e che non necessita di una turbina azionata da un motore a combustione. Questa tecnologia green, ha tardato a prender piede, anche perché dalla scoperta del principio fisico su cui si basa il suo funzionamento, alla sua commercializzazione su larga scala il processo non è stato breve, grossomodo 125 anni. Vediamolo assieme a grandi linee come è avvenuto. Alla base del funzionamento di un pannello solare vi è il comportamento fisico di alcuni materiali che se esposti alla luce generano un debole flusso di corrente. Nei primi mesi del 1888 il fisico italiano Augusto Righi, ( 27 agosto 1850 – 8 giugno 1920), di cui abbiamo già parlato a proposito delle proprietà delle onde elettromagnetiche (vedi cap. 23) nel suo laboratorio all’Università di Bologna scoprì che se una lastra metallica conduttrice viene investita da una radiazione ultravioletta, si carica positivamente. Righi definì questa proprietà come “effetto fotoelettrico”, senza riuscirne a darne una spiegazione. Pochi anni dopo, nel 1839, il giovane ricercatore francese Alexandre-Edmond Becquerel (Parigi, 24 marzo 1820 – 11 maggio 1891), che si occupava di sperimentare l’effetto

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dell’elettrolisi su metalli diversi, durante alcune prove di laboratorio, notò che se la bacinella con la soluzione elettrolitica in cui erano immersi gli elettrodi metallici veniva esposta alla luce del sole, si generava una debolissima corrente elettrica e dal momento che l’effetto si accentuava con alcuni metalli e diminuiva con altri, arrivò alla conclusione, sostanzialmente esatta, che era l’esposizione del metallo alla luce solare a generare la corrente e non la soluzione elettrolitica. Chiamò questo fenomeno “fotogalvanico” o “fotovoltaico”, in onore ai due grandi fisici italiani. Il fatto però rimaneva del tutto incomprensibile anche a lui come lo era stato per Righi qualche anno prima: perché la luce generava corrente elettrica in un metallo esposto alla luce? Dare una risposta a questa domanda ai tempi di Righi e A.E. Becquerel era assolutamente impossibile. La chiave teorica dell’inspiegabile comportamento sarebbe arrivata più di sessant’anni dopo, nel 1905, con la rivoluzionaria teoria sull’effetto fotoelettrico di Albert Einstein (Ulma, 14 marzo 1879 – Princeton, 18 aprile 1955) con cui il grande genio tedesco, premio Nobel per la Fisica nel 1921 proprio per questa teoria, introdusse il concetto di fotone, la “particella di luce”. Il fisico tedesco, fin da ragazzo affascinato dalle fantastiche proprietà dei campi elettromagnetici, forse per il fatto che suo padre fin da giovane lo aveva portato con sé nella sua ditta milanese di dinamo e motori elettrici, maturò una visione assolutamente originale della fisica. La luce, la materia e anche lo spazio, sono tutti collegati tra loro, espressioni diverse di relazioni tra campi energetici (è noto che la stessa forza di gravità, per Einstein, nell’apparato teorico proposto nella “Teoria della relatività” non è da considerare una forza vera e propria, ma una conseguenza della

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curvatura dello spazio dovuta a interazione atomica). Questo approccio teorico rivoluzionario si coniugava col concetto di fisica quantistica del tedesco Max Planck pubblicato nel 1900. Einstein per spiegare come fosse possibile generare elettricità dalla luce ipotizzò dunque l’esistenza di particelle di luce prive di massa e prive di polarità che chiamò “fotoni”. Tramite calcoli matematici riuscì a dimostrare che i fotoni scontrandosi con la superficie dei metalli liberano degli elettroni di carica negativa, che spostandosi verso il polo positivo, generano un flusso di corrente elettrica. Questo dunque l’apparato teorico, ma la tecnica per sfruttare l’effetto fotoelettrico avrebbe dovuto muoversi su altri binari, sfruttando con l’osservazione diretta della natura quali materiali potevano essere i più efficienti per sfruttare l’effetto fotoelettrico ai fini pratici. Ci si accorse ben presto che i materiali semiconduttori possono assumere caratteristiche fotoelettriche superiori ai metalli (i semiconduttori nella scienza e tecnologia dei materiali, sono materiali, appartenenti alla categoria dei semimetalli, che possono assumere una resistività superiore

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a quella dei conduttori e inferiore a quella degli isolanti; la resistività dipende in modo diretto dalla temperatura). Il selenio, ad esempio è uno di questi: è il più potente materiale fotoelettrico naturale che si conosca. La sua eccezionale proprietà fotoelettrica fu scoperta per caso nel 1873 da Willoughby Smith (6 April 1828, in Great Yarmouth, 6 aprile 1828 – Eastbourne, 17 luglio 1891) un ingegnere elettrotecnico inglese che si occupava di posa di cavi telegrafici sotto la Manica. Usò delle barrette di selenio per testare la bontà delle porzioni di cavo che andavano controllate prima che tutto il cavo fosse teso. La resistività del selenio poteva simulare la trasmissione come si avesse già teso tutto il cavo sottomarino in modo da eliminare il difetto prima che il lavoro fosse portato a termine, rendendo in questo caso quasi impossibile trovare il punto esatto dove intervenire. Ma, contrariamente al previsto, il test fu vanificato perché le barre di selenio anziché opporre resistenza diventavano conduttrici di elettricità. Smith si accorse che la conducibilità aumentava di giorno e diminuiva di notte. Provò allora a riparare le barre dalla luce del sole: in questo caso le misurazioni andavano sempre a buon fine. Il selenio reagiva dunque alla luce e produceva elettricità se esposto al sole! Smith descrisse lo strano fenomeno nell’ articolo “Effects of Light on Selenium during the passage of an Electric Current” (L’effetto della luce sul Selenio durante il passaggio di una corrente elettrica) sulla rivista Nature il 20 febbraio 1873, dando lo spunto ad altri ricercatori di indagare in laboratorio sullo strano fenomeno da lui osservato per la prima volta, che gli aveva creato tanti problemi con i test dei cavi sottomarini. I risultati vennero pubblicati nel 1877 da William Grylls

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Addams e Richard Evans nel loro articolo “The action of Light on Selenium” (L’azione della luce sul selenio), pubblicato nei Proceedings of the Royal Society of London, e con l’avvallo scientifico delle proprietà eccezionali del selenio dato da una rivista scientifica così prestigiosa, i tempi erano ormai maturati per la realizzazione di una cella fotovoltaica che non tardò ad essere realizzata da lì a poco. L’idea venne all’inventore americano Charles Fritts (1850 – 1903). Nel 1879 utilizzò infatti il selenio per creare il primo pannello fotovoltaico, costituito da uno strato di selenio e uno strato d’oro. Ne montò uno – costosissimo – a sue spese sul tetto di un grattacielo di New York nel 1884, provando con successo che il suo “generatore elettrico privo di parti in movimento” funzionava davvero. Il rendimento di quel pannello fotoelettrico, il primo al mondo, era circa dell’1% rispetto al 29% dei migliori pannelli attuali. Il suo tallone di Achille ovviamente era il costo dei materiali, troppo elevato rispetto alla bassissima resa. La geniale ma costosissima invenzione di Fritts venne dunque rigettata sul nascere e dimenticata ben presto. Si rivelò però insostituibile in un contesto completamente diverso circa novant’anni dopo, la fotografia. Piccoli pannelli al selenio e foglia d’oro sono oggi comunemente impiegati nei sensori delle macchine da presa foto e video digitale. Affinché il pannello solare diventasse

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d’uso comune come generatore di corrente bisognava trovare degli altri materiali meno costosi. La ricerca durò molti anni, e alla fine si individuò nel silicio, un materiale semiconduttore che poteva avere una buona resa fotovoltaica con un trattamento di “drogaggio” molecolare (simile a quello che abbiamo descritto nel capitolo precedente per il led). Fu Russell Shoemaker Ohl (30 gennaio 1898 – 20 marzo 1987), il geniale ingegnere impiegato nei famosi Bell Labs dell’industria elettronica americana, a riuscire a mettere a punto nel 1941 una cella fotovoltaica basata sul silicio senza bisogno della foglia d’oro. Alla base di questa svolta era la scoperta, fatta tre anni prima, del funzionamento della barriera elettromagnetica, la cosiddetta giunzione P-N, nei semiconduttori “drogati” con impurità per aumentarne l’effetto, una tecnica che si impiega in tutti i tipi di diodi che si producono nell’industria elettronica. Nel pannello fotovoltaico al silicio quando la luce solare a contatto con il silicio drogato produce elettroni, questi non possono ritornare indietro nel circuito stabilizzandosi nella fascia iniziale di provenienza, ma sono “costretti” a fluire, quasi per osmosi attraverso la membrana della giunzione, in un’unica direzione, creando dunque il flusso di corrente elettrica continua del pannello solare. Nel 1955, sulla base del lavoro di R.S. Ohl, Gearl Pearson,

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Daryl Chaplin e Calun Fuller, sempre dei Laboratori Bell americani, perfezionarono una cella al silicio capace di alimentare una ricetrasmittente per l’esercito e nel 1958 sul satellite Vanguard venne installata una cella fotovoltaica che diede energia al dispositivo messo in orbita terrestre per 6 anni. Dopo il 1963, da quando la ditta giapponese Sharp cominciò la sua produzione in serie di pannelli solari al silicio, vi fu un decollo iperbolico dell’industria del fotovoltaico in tutto il mondo. America, Europa, Cina, stanno oggi facendo a gara per portare questa tecnologia a diffondersi a prezzi sempre più bassi e competitivi in vista della riconversione green intrapresa da molti Paesi per risolvere il problema del surriscaldamento globale e il cambiamento del clima.

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SOMMARIO Una risorsa insostituibile 1 1. Attrazioni inspiegabili 5

La scoperta dei fenomeni elettrici e magnetici 2. Fluida come acqua 13 L’“effluvium electricus” di Gilbert 3. Macchine di scintille 17 Globi rotanti e arcaici elettrogeneratori 4. Una bottiglia da shock 23 Il primo condensatore elettrico 5. Tubi d’acqua e isole protette 29 Materiali “conduttori” e sostanze “isolanti” 6. Vetrosa o resinosa? Questo è il problema 33 La prima teoria scientifica sull’elettricità 7. Colpo di fulmine a Philadelphia 37 Benjamin Franklin e l’aquilone nella burrasca 8. Folgorato per la scienza 43 Un fulmine globulare che cambiò la storia dell’elettricità 9. Robe di Zeus 47 Come “triangolare” 5.000.000 fulmini al giorno 10. Alla ricerca del motore della vita 51 La scoperta dell’elettricità biologica 11. La più grande scoperta di tutti i tempi 57 La pila di Volta, il primo generatore statico 12. Trasferire materia da un polo all’altro 65 La magia della galvanoplastica 13. Bollicine rivelatrici 69 La scomposizione elettrolitica delle molecole 14. E luce fu 73 L’arco voltaico di Davy 15. La “chiave inglese” che sbloccò il futuro 77 La scoperta dell’induzione elettromagnetica


16. Rotazioni energetiche efficaci 81

Dinamo e tramway elettrici 17. Lettere sul filo di rame 87 Il telegrafo elettrico e l’intuizione di Morse 18. Luce elettrica al posto del gas 93 La lampadina di Edison e l’innovatore friulano Malignani 19. Altre idee luminose 99 Insegne pubblicitarie al neon e lampade a induzione 20. Una “alternativa” geniale 103 L’elettricità di Tesla che cambiò il mondo 21. “Che la forza sia con tre” 109 Il campo magnetico rotante e la nascita del motore trifase 22. La voce corre sul filo elettrico 113 L’invenzione del telefono 23. Onde per eliminare le distanze 117 L’invenzione della radio 24. Un caso dimenticato 121 La scoperta dell’elettroluminescenza nei diodi 25. Una innovazione da Premio Nobel 125 Le batterie ricaricabili al litio 26. Cristalli drogati per far luce 131 I diodi luminosi e il led blu 27. Tutta l’elettricità alla luce del sole 135 Celle al selenio e sandwich al silicio

Storia dell’elettricità



La riduzione dei cambiamenti climatici e la conservazione delle fonti energetiche rappresentano due sfide globali, che richiedono l’attuazione di misure concrete per il risparmio dell’energia ed il miglioramento dell’efficienza energetica. L’Italia e la Slovenia si adoperano per il raggiungimento degli obiettivi prefissati nell’ambito dell’UE riguardo alla riduzione delle emissioni di gas serra ed al miglioramento dell’efficienza energetica. Il progetto LightingSolutions contribuirà a migliorare l’efficienza energetica e la gestione dell’illuminazione delle strutture pubbliche, incoraggerà una gestione più consapevole dell’energia e l’adozione di comportamenti energeticamente più corretti.

GORIŠKA LOKALNA ENERGETSKA AGENCIJA

COMUNE DI DOBERDÒ OBČINA DOBERDOB

COMUNE DI MEDEA


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