Alcune osservazioni paleoantropologiche sullo sviluppo dell’apprendimento umano

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“Alcune osservazioni paleoantropologiche sullo sviluppo dell’apprendimento umano”. In: Gianni Sembianti, Un cervello per vivere domani, Edizioni UCT. La scheda che segue non ha la pretesa di spiegare l’origine della specie umana e della sua cultura. Numerosi specialisti molto meglio preparati di me si sono cimentati in quest’impresa, ma hanno prodotto quasi esclusivamente speculazioni che non sono state suffragate dall’evidenza dei fatti. I dati scientifici sono ancora insufficienti e che c’è ben poco di chiaramente definito riguardo all’evoluzione umana. Questo tema va dunque affrontato con umiltà, limitandosi a presentare una serie di congetture più o meno plausibili, che diano spazio solo a generalizzazioni tenui e provvisorie, nello spirito dell’affermazione del paleontologo americano Stephen Jay Gould che la ricerca condotta in questi anni può solo rafforzare il nostro agnosticismo in merito alla natura umana. Ci sono solo due conclusioni inequivocabili: la prima è che tutti i nostri predecessori si adattarono con successo al loro ambiente, altrimenti non saremmo qui a parlarne; la seconda è che non si può disegnare una linea retta che parta da un qualche antico ominide per arrivare a noi. Il nostro “albero genealogico” sembra avere così tante radici, rami e polloni che forse sarebbe meglio chiamarlo “cespuglio evolutivo”. Noi possiamo vedere solo alcuni tasselli del puzzle che lo raffigura: basti pensare che le tesi di quei paleontologi che cercano di semplificare il quadro delle nostre origini – riducendo il numero di radici e rami – sono generalmente tanto convincenti quanto quelle dei loro colleghi che invece optano per una maggiore diversificazione. Che uno cerchi la semplicità o che uno cerchi la complessità, può star sicuro che la troverà. D’altronde già Charles Darwin aveva saggiamente sottolineato il fatto che le specie non sono entità reali, esistenti in natura, in quanto l’immensa variabilità morfologica e tipologica dei viventi genera una molteplicità di definizioni e distinzioni che sono suscettibili di continue fluttuazioni dovute ad alterazioni del quadro teorico di riferimento. Così, ad esempio, sarebbe estremamente arduo stabilire dove finisca l’Homo habilis, risalente a due milioni di anni fa, e cominci l’Homo erectus, per certi versi un tipo intermedio tra le scimmie e gli uomini moderni. Allo stesso modo non sapremmo dire dove si esaurisca il percorso evolutivo di Erectus e prenda avvio il “nostro”, quello dell’Homo sapiens, data anche la presenza di un terzo incomodo, l’Homo heidelbergensis, che mescola tratti arcaici ed attributi moderni. Lo stesso Homo sapiens è solo una categoria assunta convenzionalmente, e dunque arbitrariamente, per definire un’area situata lungo un gradiente che conduce fino a noi. E’ assai improbabile che si sia mai verificata una variazione nella frequenza allelica – cioè un’alterazione di una porzione di cromosoma – di tale portata da poterci permettere di dire: bene, è lì che tutto ebbe inizio! Queste tassonomie sono perciò di origine culturale, non biologica, ed andranno incontro presumibilmente ad importanti modifiche con l’estendersi della conoscenza scientifica sul nostro passato. Inoltre, l’utilizzo di criteri come l’auto-controllo, l’auto-coscienza, la percezione del tempo, la capacità di interazione, la curiosità e le funzioni neocorticali – quelle funzioni cerebrali che sovrintendono alle interazioni sociali complesse – per distinguere gli umani dai presunti “protoumani” o “pseudo-umani” implicherebbe il declassamento di persone mentalmente disabili o senili al rango di sub-specie. E’ bene rimarcare che


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