GIGANTI, SUPEREROI E SUPERUOMINI: LA NATURA UMANA TRA MITOLOGIA E POLITICA Primo Carnera (1906-1967) non fu il più grande pugile italiano della storia, ma fu quasi certamente il più colossale, specialmente in rapporto a quella che era l’altezza media della popolazione italiana in quel periodo. Queste sue proporzioni anomale fecero sorgere il sospetto che Carnera fosse congenitamente tarato, tanto che, negli anni Trenta, il capo gruppo degli ufficiali medici della Federazione Pugilistica Italiana, Filiberto Ferri, ritenne doveroso dissolvere ogni incertezza in merito alla salute fisica e mentale del campione: il friulano è un’eccezione alla regola del gigantismo, un fenomeno poiché egli non è solo normale, anzi normalissimo in tutti i suoi organi, ed in tutte le sue funzioni, ma la perfezione di questi organi e del loro funzionamento supera la media comune. […]. I giganti che possono vantare questa proporzione, questa armonia fisica, sono rarissimi; ed ecco perché Carnera, prima ancora di essere dichiarato un campione del pugilato, deve essere ritenuto un “meraviglioso campione della razza umana 1 Prendendo spunto da questo dibattito sulla normalità/devianza del corpo di Carnera, il presente saggio si propone di esplorare il rapporto tra ragguardevoli proporzioni fisiche e filosofia antropologica e di mostrare come, storicamente, la politica del corpo umano abbia servito importanti finalità emancipatrici e/o disciplinanti, a seconda degli umori e delle aspirazioni delle categorie sociali che si sono trovate ad essere culturalmente egemoni in un dato periodo. GIGANTI E GIGANTISMO E’ possibile che le figure del titano e del gigante siano in qualche modo legate ad una patologia endocrino-metabolica chiamata acromegalia (dal greco akron, “estremità”, e mega, “grande”) che colpisce cinque o sei persone su centomila, indistintamente uomini e donne. L’acromegalia, o gigantismo o iperpituitarismo, fu descritta per la prima volta nel 1885 dal medico francese Pierre Marie dell’ospedale parigino della Salpetrière, che collaborava con il celebre neurologo Jean-Martin Charcot e raccolse le sue annotazioni ed osservazioni in un articolo scientifico intitolato “Hypertrophe singulière non congénitale des extrémités supérieures, inférieures et cephalique”, pubblicato nella Révue Médicale Française. L’acromegalia è provocata da una produzione incontrollata di ormoni della crescita che influenzano principalmente lo sviluppo degli arti e delle ossa del volto. Questo è generalmente dovuto al malfunzionamento dell’ipofisi che a sua volta può essere indotto dalla presenza su detta ghiandola di un tumore benigno (adenoma) che influisce sulla concentrazione di IGF-1, il fattore di crescita insulino-simile di tipo 1. Oltre a gravi dolori alle articolazioni, se non trattata appropriatamente, questa malattia può ridurre di circa dieci anni l’aspettativa di vita e aumenta sensibilmente il rischio di infarto, forme tumorali, embolia, diabete e complicazioni neurologiche e sensoriali, dovute alla prossimità del nervo ottico all’ipofisi. Posto che l’obiettivo principale della terapia è quello di riportare i livelli di secrezione ormonale ad un tasso normale, il primo intervento riguarda la asportazione 1
chirurgica della maggior parte del tumore. In seguito la radioterapia e l’assunzione di farmaci possono contribuire a neutralizzare gli effetti della parte restante del tumore e normalizzare i processi metabolici. Un’ipotesi alternativa, e piuttosto affascinante, è quella offerta da uno scenario in cui i primi ominidi, la cui statura era indubbiamente ridotta, possano aver realmente incontrato dei primati di dimensioni ragguardevoli ed esserne rimasti talmente impressionati da generare saghe e leggende che hanno per protagonisti giganti antropoidi più o meno ben disposti nei loro confronti. Le più recenti scoperte dei paleoantropologi sembrano effettivamente confermare che questo fantomatico incontro potrebbe aver avuto luogo in Cina, diverse centinaia di migliaia di anni or sono, tra i primi ominidi (Homo Erectus) ed il cosiddetto Gigantopithecus blacki, una sorta di King Kong antelitteram. Fu nel 1935 che G.H.R. von Koenigswald (1902-1982) scoprì decine di denti fossilizzati in una drogheria di Hong Kong, dove erano macinati assieme alle ossa per scopi terapeutici. I pochi resti che ci sono pervenuti, cioè a dire alcune centinaia di denti e tre mandibole, provengono principalmente dalle regioni cinesi meridionali di Guangxi e Sichuan e dal Viet Nam e fanno pensare ad una creatura di circa tre metri di altezza e del peso di forse 500 chilogrammi, ossia quasi il doppio del più grande primate attualmente esistente. Stando alla conformazione dei denti e del materiale inorganico rimasto sulla loro superficie (fitoliti), si è ipotizzato con un certo margine di sicurezza che il gigantopiteco si nutrisse di bamboo e frutta e sarebbe quindi vissuto nelle foreste tropicali che ricoprivano i monti circostanti a quelle valli in cui risiedevano i primi ominidi. Di qui, forse, la frequente associazione del gigante “buono” – in quanto non carnivoro – con la foresta e la montagna. Il gigantopiteco si sarebbe comunque estinto molto prima della comparsa dell’uomo moderno. Ignoriamo le ragioni della sua estinzione, ma non sembra azzardato stabilire un parallelo tra la sorte del panda e quella del gigantopiteco. I GIGANTI NELLA MITOLOGIA La mitologia e le leggende di tutto il mondo sono molto spesso arricchite da un motivo ricorrente, quello di creature di fattezze umane ma di dimensioni e forza colossali: i giganti. La figura del gigante è onnipresente nella mitologia greca, in quella indiana, in quella cinese, in quella indo-europea ed in quelle dei nativi americani e dei popoli africani. La sua diffusione è così capillare da meritare una trattazione scientifica specifica che, duole dirlo, pare avere avuto ben pochi illustri precedenti. Una delle caratteristiche più salienti del gigante mitologico sembra essere la sua natura di “relitto dell’evoluzione”, il lascito di un’era precedente a quella in cui gli umani acquisirono le tecniche e le conoscenze che li distanziarono gradualmente dal mondo animale e dalla Natura stessa. Le leggende contemporanee riguardanti Bigfoot, Sasquatch e lo Yeti, altro non sarebbero che l’ennesima riproposizione di questo stesso motivo 2
inconscio il cui radicamento è tale da mortificare la logica più elementare: se davvero esistessero esseri antropoidi “giganti” in numero sufficiente da costituire una popolazione in grado di auto-perpetuarsi, essi avrebbero dovuto lasciare numerosi ed inequivocabili segni della loro presenza, oltre a modificare in maniera sostanziale il loro habitat. Lo Yeti in particolare, che viene spesso descritto come l’erede evolutivo del gigantopiteco, sembra testimoniare un’esigenza inestinguibile nell’immaginario degli esseri umani di fabbricare esseri fantastici per soddisfare bisogni profondi e placare paure inconsce (mitopoiesi). D’altronde lo stesso termine “Yeti” deriva dal tibetano yehthe che mostra una curiosa assonanza con la parola jötunn (pl. jötnar, jätti in finlandese) che, nella mitologia nordica, stava ad indicare una stirpe di giganti antropofagi che dimoravano in caverne, foreste e montagne. Come i gigantes (γίγαντες) ed i titani della mitologia greca, essi erano in perenne lotta contro le divinità empiree – in greco gigantomachia (Γιγαντομαχία) e titanomachia. Ymir fu il primo gigante, un essere cosmico che venne ucciso da Odino, Vili e Ve e successivamente sezionato per creare il mondo con le varie parti del suo corpo: dal sangue provennero l’acqua ed il mare, dalle ossa la terra, dalla testa fu ricavato il cielo, dal suo cervello le nuvole. Il tema della dissezione di un gigante, di un titano o di un semidio, che riemerge nella mitologia mesopotamica (con Tiamat e Dumuzi) ed in quella greca (con Dioniso) sembra in qualche modo illustrare il momento in cui le selvagge forze della natura vennero addomesticate dall’uomo o dagli dèi a suo beneficio, ossia il trionfo della cultura sulla natura e dell’agricoltura sulla caccia. Il gigante sarebbe dunque il “doppio” selvaggio e talora deforme (il Doppelgänger) dell’eroe civilizzatore. Tuttavia, a ben guardare, i giganti mitologici sembrano essere tutt’altro che sprovveduti ed immorali. Essi spesso prevalgono sugli dèi stessi grazie al loro ingegno, alla loro tenacia ed alla loro saggezza, accumulata nel corso dei secoli. Nel folklore europeo ed extra-europeo i giganti erano gli artefici delle civiltà megalitiche che avevano preceduto di millenni l’arrivo dei Romani o degli Spagnoli in Sudamerica. Nella Bibbia (Genesi 6,4) si narra che all’inizio dei tempi i giganti convivevano con gli esseri umani. Golia era forse un discendente di questi giganti primordiali. La tradizione post-biblica tramanda che Nimrod, il Grande Cacciatore e primo re di Babilonia, fosse stato anch’egli un gigante. Nimrod, che nei testi pre-biblici della Mesopotamia veniva chiamato Gilgamesh, re di Uruk, è il protagonista di una delle più affascinanti ed intriganti saghe che illustrano il rapporto ambivalente tra umani e giganti, – l’Epopea di Gilgamesh, appunto, il più antico poema epico – che fu elaborato da uno dei popoli più civili dell’antichità, i Sumeri. Come necessaria premessa, bisogna tener conto del fatto che una buona parte di questa saga ci è giunta nella sua versione babilonese, quando il sumerico era già una lingua morta e le interpretazioni dei testi erano piuttosto arbitrarie. Interpretazioni discordanti testimoniano però che la figura del gigante poteva essere al tempo stesso descritta in termini positivi – come il custode di un dono divino – o del tutto negativi – come il capriccioso e dispotico mediatore tra cielo e terra, allo stesso modo in cui le forze della natura potevano essere generose o spietate. La saga narra che Gilgamesh, oppresso dalle preoccupazioni di un sovrano che ha a cuore le sorti dei suoi sudditi, decide di partire alla volta del Paese dei Cedri per uccidere il suo guardiano, il gigante Khubaba, o Humbaba, che è ritenuto responsabile 3
della miseria della città di Uruk e la cui descrizione rispecchia quella che poteva essere la metamorfosi simbolica dell’attività vulcanica: Enlil lo ha designato quale settuplice terrore ai mortali […] il suo ruggito è come uragano, la sua bocca è fuoco, il suo alito è morte Assieme al suo scudiero/luogotenente Enkidu, l’Uomo Selvaggio, una sorta di aitante Sancho Panza che era stato precedentemente strappato alla vita delle foreste e dirozzato, Gilgamesh riesce ad uccidere il gigante decapitandolo. Tuttavia il sovrano degli dèi sumerici, Enlil, è tutt’altro che lieto di questo omicidio e, per rappresaglia, invia sulla terra i sette terrori di Khubaba, diretti predecessori delle piaghe d’Egitto. Khubaba riappare anche in un brano successivo, quando Gilgamesh decide che è di nuovo tempo di raggiungere il Monte dei Cedri perché: nella mia città si muore, il cuore è oppresso; i miei cittadini muoiono, il cuore è prostrato; io son salito sulle mura della mia città ed ho visto i cadaveri trasportati dalle acque del fiume; ed io, pure io sarò così? Certo, pure io! L’uomo, per quanto alto egli sia, non può raggiungere il cielo… Dopo un lungo viaggio, Gilgamesh incontra di nuovo Khubaba, ma questa volta tenta di forzargli la mano offrendogli in dono una sorella come concubina, oltre a vesti e pietre preziose. Lo scambio riesce, ma ancora una volta l’Eroe se ne deve tornare ad Uruk a mani vuote: Oh Gilgamesh, tu sei stato destinato alla regalità; alla vita eterna non sei stato destinato… Non ti abbattere, non essere depresso. Emettendo giudizio su chi tra gli uomini ha commesso il male, Emettendo giudizio su chi ti ha fatto male sciogliendo le tue leggi È stato dato a te il potere di stabilire la luce e l’oscurità del genere umano. Khubaba o Humbaba veniva talvolta raffigurato come un gigante monocolo, il che richiama alla mente un altro gigante leggendario, il ciclope (κύκλωπες) Polifemo, figlio di Poseidone, incontrato da Ulisse nell’Odissea di Omero. I ciclopi, abili metallurghi, vivevano in una terra lontana, o alternativamente nel Tartaro, separati dal mondo degli umani, e la loro ostilità nei confronti dei rari visitatori era ben nota. Visto il curioso nesso tra metallurgia e ciclopi/titani che si può riscontrare anche al di fuori del mondo mediterraneo, ad esempio in Cina, India, Africa e Sudamerica, si è ipotizzato che essi fossero la trasfigurazione di confraternite e corporazioni di fabbri che tramandavano le loro preziose tecniche solo agli adepti. Questo potrebbe spiegare l’onnipresenza del motivo del giovane guerriero che per poter assumere il ruolo e le prerogative di eroe e di sovrano deve innanzitutto sconfiggere e decapitare un gigante. Si veda, ad esempio, l’episodio di Davide e Golia, ma anche, idealmente, la vittoria di Joe Louis su Primo Carnera che proietterà Lewis nell’empireo degli eroi afro-americani. 4
Ma quel che è interessante notare è che questo gigante, che incarna tutto quello che un sovrano deve poter esorcizzare e tenere sotto controllo – mancanza di autocontrollo, lussuria, voracità, barbarismo, irrazionalità, alterità – è spesso lui stesso un sovrano, o comunque un semidio investito di un compito cruciale per l’esistenza del mondo. E’ come se il suo sacrificio rituale fosse indispensabile per garantire che il cosmo non esaurisca il suo processo di rigenerazione ciclica. Così, Humbaba è sì un mostro con un occhio solo, il cui volto è un intestino, incarnazione di tutto ciò che è incivile e selvaggio – ma anche fonte di premonizioni, si pensi alla lettura delle interiora –, nonché l’origine di ogni malanno che affligge la città di Uruk, ma egli è anche, e prima di tutto, il guardiano del fiume dei morti, e per ucciderlo gli eroi umani dovranno abbattere l’albero più alto del Paese dei Cedri, un chiaro riferimento all’albero o pilastro cosmico che congiunge il mondo dei vivi e l’Aldilà ed un indizio che ci conduce alla simbologia e ritualità sciamanica. Perciò è lecito supporre che i giganti e gli stessi orchi fossero inizialmente figure mitologiche di tutt’altra natura, veri e propri mediatori tra natura e cultura, umano e trascendente, e non necessariamente ostili agli esseri umani. Questo è quello che si può dedurre da un confronto tra leggende più antiche e leggende più recenti nelle quali figurano gli Oni, i giganteschi demoni giapponesi. Come i titani ed i giganti, questi oni non erano inizialmente malvagi. Al contrario, essi si premuravano di intercedere in favore degli uomini presso gli dèi e di proteggere le dimore umane dagli agenti del male. Fu solo con l’avvento del buddismo e la susseguente campagna di stigmatizzazione del folklore tradizionale e delle relative credenze che essi si trasformarono in esseri malevoli, guardiani dell’inferno, sadici e brutali torturatori. Ecco perché durante certe celebrazioni la gente si protegge gettando semi di soia nel cortile e gridando nel contempo “Oni wa soto! Fuku wa uchi!” (“Fuori i demoni! Dentro la buona sorte!”). Questo ci deve insegnare che per ogni motivo mitologico esiste un possibile uso politico. SUPERUOMINI E SUPEREROI NELLA MODERNITA’ E POSTMODERNITA’ La funzione dell’eroe nella mitologia e nell’arte è quella di permettere allo spettatore e fruitore di gettare le basi per un’immedesimazione spontanea, metalinguistica, che consenta la “rimitologizzazione” o “rimagificazione” di una società secolarizzata e desacralizzata. Certi archetipi della produzione letteraria, cinematografica, fumettistica e di cinema d’animazione s’inseriscono proprio in questo solco. Mentre in passato il “consumo” del mito nella sua forma più articolata e pregna di simbologie e rimandi era spesso limitata ad un’élite, al giorno d’oggi la società di massa ha imposto una radicale revisione dei tratti salienti dell’eroe e del supereroe. Non più virtualmente onnipotente, il supereroe dei tempi moderni deve mostrare le sue debolezze, paure ed incertezze per poter realmente attivare il processo di identificazione da parte dell’uomo comune, assillato da ansie, frustrazioni ed ambizioni di riscatto dalla mediocrità via via differite. 5
Il supereroe postmoderno non è più un Gilgamesh che, in quanto semidio, e quindi parzialmente umano, fallisce nell’unica impresa che non avrebbe mai potuto ragionevolmente pensare di poter portare a termine con successo: la sconfitta della morte. Come i supereroi del passato, quelli del presente fungono ancora da modelli di vita e catalizzatori ritualistici, e forse persino archetipici, delle ansie e delle aspirazioni di tutti noi, ma sono anche profondamente diversi, lo specchio di una civiltà intossicata dal compito di comprendere se stessa, la direzione che ha preso ed il senso stesso del suo evolvere. In questo senso la società moderna nella sua interezza sembra soffrire di un “complesso di Gulliver” collettivo che dovrebbe compensare l’intimo disagio di sentirsi inadeguati (complesso d’inferiorità) rispetto alle grandiose aspettative che coltiviamo sin dalla più tenera età. Questo atteggiamento raggiunse l’acme proprio in coincidenza con la massima espansione imperialistica europea, che non impedì il verificarsi di una serie di crisi economiche e stagnazioni durante la seconda metà del diciannovesimo secolo. Fu allora che il termine “gigante”, troppo legato ad un mondo fiabesco ed infantile, fu dismesso a favore del concetto di superuomo, che accompagnò il pensiero umano fino al termine della Seconda Guerra Mondiale per poi svanire dietro il velo dell’indignazione postbellica. E tuttavia di giganti si trattava: di Grandi Inquisitori e Grandi Condottieri, Grandi Strateghi e Grandi Annunciatori di un mondo migliore, più autentico, più puro, più vero e più stabile. La loro ascesa fu segnata da devastazioni senza precedenti e dallo sterminio di interi popoli. La loro caduta fu altrettanto fragorosa. IL GIGANTE E L’UOMO NUOVO FASCISTA Il fascismo sviluppò fin dal principio un’antropologia del corpo e della mente sensibilmente differente rispetto a quella convenzionale e che poneva l’accento sull’intreccio di educazione fisica e morale da un lato e di igiene della stirpe dall’altro. Il principio che gli individui non sono proprietari del proprio corpo – nemo dominus membrorum suorum – fu completamente stravolto dalla dottrina fascista. Se l’individuo non era proprietario del proprio corpo, allora esso doveva per forza appartenere al corpo sociale, alla collettività, e quindi allo Stato. Il fascismo volle modificare la stirpe italica agendo sui fattori ambientali e culturali, optando quindi per una serie di misure atte ad incoraggiare le famiglie a procreare più spesso e più razionalmente. L’obiettivo dichiarato era quello di approntare un esercito sufficientemente potente da sottomettere quei popoli che osavano opporsi alla politica espansionistica del regime. L’atomizzazione degli individui, ossia la neutralizzazione della loro volontà di essere i veri artefici del proprio percorso esistenziale e delle decisioni cruciali per il futuro della nazione, fu pressoché inevitabile per milioni di persone che si erano trovati sui fronti della Grande Guerra, trattati come carne da cannone, e per coloro i quali avevano subito l’impatto della Depressione del 1929. Si era ormai diffusa la convinzione che solo un Uomo Forte, un gigante della politica e della strategia, avrebbe potuto traghettare il Paese oltre le secche degli anni Venti e Trenta. Benito Mussolini fu identificato come l’Uomo della Provvidenza ed il suo programma d’incremento della 6
spesa pubblica per la costruzione di infrastrutture, per l’ammodernamento dell’esercito, e per il salvataggio del sistema bancario colpito duramente dalla Depressione riuscirono in qualche modo a ridare fiducia alla gente, che accettò di rinunciare alle libertà ed ai diritti individuali in cambio di un sogno di grandezza e di una promessa di stabilità. La controparte non poteva che essere il gigantismo statale nell’amministrazione pubblica e l’imperialismo in politica estera. Lo studio dei rapporti tra Primo Carnera ed il fascismo deve dunque tener dei rapporti tra Primo Carnera ofia antropologica imposta dal regime alla nazione. Il corpo fascista era vittima dell’inconciliabilità di una visione fissista della Storia – l’Uomo Nuovo Fascista era sostanzialmente la riedizione in chiave moderna dell’Uomo Romano – e di un’antropologia progressista/illuminista che racchiudeva un enorme potenziale di abuso ed irregimentazione e che era fondata sulla nozione che la natura umana fosse indefinitamente plasmabile. Si riteneva perciò necessario concentrare tutti gli sforzi della nazione verso la creazione di quei presupposti che avrebbero permesso alle nuove generazioni di nascere e crescere più sane, più forti e più audaci di quelle che le avevano precedute. Poiché l’Italia era povera di risorse naturali, essa avrebbe dovuto puntare sulla massimizzazione delle risorse umane mobilitando i medici ed estendendone le prerogative. Era nel superiore interesse della nazione che i lavoratori ed i soldati venissero incoraggiati a tenersi sempre in ottima forma: sani, vigorosi, resistenti, tenaci. La pedagogia totalitaria e l’esercizio fisico avrebbero modellato il carattere nazionale come lo scultore plasma l’argilla e prodotto una gerarchia di lavoratori fascisti preparati a svolgere specifiche funzioni all’interno dell’organismo nazionale. La rivoluzione fascista, che era al tempo stesso politica, morale ed antropologica, pretendeva che l’Italiano del futuro, l’homo novus fascista fosse, come Mussolini stesso confidò al genero conte Galeazzo Ciano, meno gentile ed allo stesso tempo più deciso, implacabile e detestabile, cioè a dire, più dominatore. Il fascista avrebbe dovuto rappresentare l’antitesi completa rispetto al cittadino liberal-democratico, malato di tutti gli scetticismi ed indebolito da tutte le demagogie, e questo richiedeva che esso diventasse anche fisicamente diverso que que que que que que que queche Primo Carnera, un pugile nato in provincia e che si era fatto strada nel mondo con umiltà ma perseveranza e che era arrivato al successo grazie alla sua forza erculea – era alto 2,04 metri per 122 chili di peso e negli Stati Uniti era soprannominato the Ambling Alp (“l’Alpe che si muove”) – e non certo grazie a dei natali privilegiati, sembrava impersonificare le virtù di cui abbisognavano l’Italia e gli Italiani. Come notò un giornalista osservando Carnera mentre girava per casa: idealmente sembra tutto intorno a lui si infragilisca, che queste pareti sieno di carta e che egli debba ad ogni momento sfondarle appena si muova. Secondo Mussolini, l’atletica e lo sport in generale non potevano venire genuinamente apprezzati dai borghesi, freddi calcolatori e nemici giurati dello sport, perché naturalmente inclini a coltivare lo sterile pacifismo e l’inetto pietismo, invece della competizione, dell’aggressività, dell’ambizione sfrenata. Questo era ancor più vero nel caso del pugilato, sport virile, brutale ed esteticamente maestoso che spingeva in alto i più adatti a trionfare nella lotta per la vita e 7
umiliava i perdenti. Dopo tutto, nel 1933, l’anno in cui Carnera vinse il titolo mondiale dei pesi massimi, Mussolini dichiarava che il pugno è un mezzo di espressione squisitamente fascista. Questi erano gli ingredienti dell’atletismo politico predicato da Mussolini, che vedeva nello sport uno strumento di redenzione del popolo italiano e di consenso di massa per il regime. Lo stesso corpo del duce, ridotto a feticcio, veniva glorificato dai suoi lacchè, entusiasti all’idea di essere partecipi del processo di fabbricazione del superuomo di massa e del suo culto. Il giornalista Adolfo Cotronei così lo descrisse: il suo torso è possente, le braccia atletiche. Sembra fatto per abbattere e per stritolare; e su questo rigoglio di muscoli e di nervi, su questa compattezza erculea si ferma la nostra immaginazione, perché noi sentiamo che nessuno può vincerlo, che nessuno può sostenerne il confronto: gigante tra i pigmei. Il suo fascino sulle folle è anche fisico. […]. Il nostro Condottiero è michelangiolesco nella figura: la forza minaccia, ma l’occhio sorride. L’intento di Mussolini era quello di infondere nello spirito degli Italiani la volontà di perseguire la via dell’arditismo sportivo, fatto di agonismo spregiudicato, temerarietà, conquista, scontro e prevaricazione. Tuttavia Mussolini si dovette ben presto rendere conto che questo programma d’indottrinamento non poteva far realmente breccia in un Paese dominato dall’individualismo familista, particolarmente ostile alle incursioni dello Stato nella sfera domestica. Così il tentativo mussoliniano di creare una coscienza di razza tra gli Italiani, un popolo abituato da secoli a considerarsi meticcio, fallì miseramente, come testimoniato dalle nobili parole di Primo Carnera, pronunciate alla fine del 1932, ossia poco prima dell’inizio della fase imperialista del fascismo: secondo me questo ostracismo [verso i neri] è profondamente ingiusto, e per di più illegale, perché dà ai pugilatori bianchi una reputazione d’invincibilità che non trova la sua conferma nei fatti. A men che non si decida di istituire dei campionati riservati ai campioni delle diverse razze – bianchi, neri, gialli, rossi – verrà fatalmente il giorno in cui ogni privilegio ed ogni divisione di razze finiranno con l’essere annullati. D’altra parte, il tener lontani i negri dalle competizioni per il titolo mondiale mi sembra il miglior sistema per esagerarne il valore… Purtroppo per Carnera, il suo primo match con un pugile di colore, il grande Joe Louis, ebbe luogo il 25 giugno 1935 e non si poté svolgere in un clima di reciproco rispetto. L’invasione fascista dell’Etiopia/Abissinia, l’ultimo grande stato africano ancora indipendente, era imminente, e Carnera finì per rappresentare l’imperialista fascista agli occhi dei bianchi ed il bianco oppressore agli occhi della comunità nera. L’incontro fu dunque avvolto da profondi simbolismi politici e morali. Ben pochi commentatori bianchi americani scommettevano su una vittoria di Carnera, ritebianchi americani scommettevano ndi non un vero banco di prova per un pugile nero, tecnicamente inferiore, e per di più fisicamente “anomalo”. Gli afro-americani avevano invece a cuore le sorti dell’Etiopia, uno dei pochi luoghi al mondo in cui i neri potevano governare se stessi. Il suo assoggettamento avrebbe rappresentato “la vittoria finale dell’uomo bianco sull’uomo nero”. Carnera cadde alla sesta ripresa ed i giornali americani bianchi descrissero l’incontro come uno scontro razziale tra due uomini: Carnera ed un tranquillo selvaggio etiope. Invece le pubblicazioni della comunità nera videro in questa vittoria un significativo 8
passo in avanti per la causa dell’emancipazione afro-americana in America ed una dimostrazione della superiorità razziale nera: una delle innumerevoli testimonianze di come un paradigma razziale possa contaminare le argomentazioni degli oppressi quanto quelle degli oppressori. Così, mentre l’esito dell’incontro veniva manipolato a fini politici negli Stati Uniti, il povero Carnera, che era stato per alcuni anni adottato dal regime come simbolo del superomismo fascista, fu abbandonato proprio quando avrebbe avuto bisogno del sostegno della sua patria. La decadenza dell’ex campione era un monito minaccioso per Mussolini: anche lui, come Carnera, avrebbe potuto un giorno essere detronizzato. Questa era una prospettiva che un regime basato sulla violenza, il mantenimento del potere a qualunque costo e la propaganda non poteva tollerare. La rimozione del gigante Carnera dalla vita pubblica italiana non ebbe comunque successo. Il campione semplice e amato, un vero e proprio gigante buono, rimase sempre nel cuore degli Italiani anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1967, 22 anni dopo la sconfitta finale del fascismo e l’esecuzione del Duce. ARNOLD SCHWARZENEGGER: L’IRRESISTIBILE ASCESA DI UN GIGANTE CONTEMPORANEO I supereroi dei giorni nostri, trasposizione moderna dei giganti mitologici, hanno mantenuto molte delle caratteristiche e delle virtù dei loro predecessori, come il coraggio e la nobiltà d’animo che li spingono a sacrificare tutto per il trionfo del Bene, senza attendersi nessun tipo di tributo o ricompensa, oltre ad una serie di poteri sovrumani come la capacità di volare, di controllare i campi elettromagnetici o l’amplificazione dei cinque sensi, che sono spesso integrati da un equipaggiamento tecnologicamente avanzatissimo. La popolarità di questi supereroi certamente dipende dall’emergere di un clima culturale favorevole, di un terreno fertile nel quale la figura del supereroe può crescere rigogliosa. La modernità, con la sua forza propulsiva e acceleratrice e la sua missione efficientistica e colonialista – dello spazio come del tempo –, rappresenta appunto l’habitat ideale del supereroe, ma anche dell’Uomo Forte in politica, l’Action Hero, il populista che mescola virilismo e decisionismo e promette realizzazioni epocali e soluzioni definitive per i problemi cronici della società contemporanea. La modernità è l’era dei grattacieli, che fondono l’eterno anelito antigravitazionale dell’umanità, proiettata verso il cielo, verso altri mondi e verso la liberazione dalla limitante morfologia umana, e l’etos gigantista e produttivista del capitalismo metropolitano. La modernità, in uno stato di necessità, è anche l’era della sospensione delle ordinarie considerazioni morali e della sospensione selettiva della coscienza critica. Man mano che, con l’avanzare del processo di globalizzazione, cresce l’importanza di ciò che è in gioco e la complessità del “gioco” stesso e delle sue regole, le persone comuni sentono l’esigenza di rivolgersi a figure in grado di assumersi immani responsabilità per poter mantenere il sistema sociale in condizioni di operare. Queste figure sono spesso avvolte da un’aura eroica e tragica al tempo stesso, come gli eroi del teatro greco. 9
A questo proposito, fu anche la grande abilità dimostrata dal Nazional Socialismo nell’iniettare nella società tedesca e nella sua coscienza rituale e mitica la giusta quantità di “magia”, “sublime” ed “epico” a garantirgli il considerevole successo elettorale che riscosse. La mitologizzazione di Hitler e del suo movimento era la miglior risposta ad una società messa in ginocchio dalla Depressione e che attendeva, consciamente o inconsciamente, una rigenerazione palingenetica. Lo stesso discorso ovviamente vale per il fascismo nell’Italia del primo dopoguerra. In entrambi i casi si trattava del tentativo di ricreare l’umanità attraverso una rivoluzione esistenziale, politica ed estetica di proporzioni colossali. Naturalmente la sospensione delle convenzioni morali comporta la disponibilità a piegare le norme legali in funzione di un nobile obiettivo. Novello sciamano, il compito del supereroe non è certo quello di ristabilire la legge, ma di impedire ai mostri, al Male, di invadere e distruggere la metropoli, la comunità, la nazione, in una parola, Cosmopolis, il simbolo dell’Ordine che trionfa sul caos della natura, o della globalizzazione corporativa, che rappresenta la più recente incarnazione del Male. In altre parole, la rievocazione del mito del gigante buono, paterno, salvifico e guida spirituale di una società confusa tocca alcune corde sensibili nella porzione adolescenziale, piccolo borghese e piuttosto paranoide ed isterica del nostro inconscio di membri della società del benessere. Molti dei ruoli recitati da Arnold Schwarzenegger, la cui vita, prima di intraprendere la carriera politica, è stata tanto simile a quella di Primo Carnera quanto diverse sono sata ata ata ata ata ata ata ata amenti ed obiettivi, riecheggiano i motivi dominanti di questa moderna tendenza, che ora s’interseca con le dinamiche del consumismo di massa, incline a commercializzare il divo del momento come se fosse un prodotto come qualunque altro. Per fare un esempio, Conan il Barbaro è istintivo, impulsivo, violento, amorale e privo di ideali. Vive in un mondo abbandonato dagli dèi ed in cui la legge del più forte regna sovrana. Il regista John Milius, individualista reazionario, e nel contempo militarista e nazionalista, che a più riprese nei suoi film rivendica la giustezza morale della “politica del randello” adottata dai presidenti americani più guerrafondai ed imperialisti, scelse Schwarzenegger proprio perché solo lui poteva esprimere attraverso la sua portentosa fisicità il suo intimo desiderio di recuperare i valori antimoderni – o ultramoderni? – lentamente annacquati dal politicamente corretto. Quelli, per intenderci, della Frontiera, il confronto diretto tra uomo e natura, dell’etica della sopravvivenza, la violenza che, sola, come l’alfa e l’omega della vita, può generare l’epica. D’altronde Milius stesso ha affermato di non fare film per soldi o per ambizione: io sono spinto da convinzioni quasi religiose; le stesse, probabilmente, che lo hanno indotto a diventare membro del direttivo della National Rifle Association che combatte contro le leggi per il controllo della vendita delle armi negli Stati Uniti in nome del diritto del cittadino americano a difendersi e, se il caso, a farsi giustizia da solo. Questo stesso approccio alla politica ed alla vita si rispecchia nella concezione eroica dell’esistenza che Schwarzenegger ha messo in luce a più riprese. Supereroe e gigante contemporaneo, Schwarzenegger ha rivitalizzato gli ideali del titanismo politico. Diverse sue affermazioni possono aiutarci a comprendere la sua mentalità. Sul tema dell’esistenza umana: per me la vita significa essere continuamente affamati. Il senso della vita non è 10
semplicemente esistere, ma sopravvivere, andare avanti, salire in alto, realizzare cose importanti, conquistare. Sapevo di essere un vincitore già alla fine degli anni Sessanta. Sul successo: sapevo di essere destinato a grandi cose. La gente penserà che questo modo di pensare sia immodesto. Sono d’accordo. La modestia non è un concetto che posso applicare a me stesso e spero di non doverlo mai fare. Sul potere: Il mio rapporto con il potere e l’autorità è che io sono assolutamente a favore. La gente ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro. Il novantacinque per cento della gente ha bisogno che gli si dica cosa fare e come comportarsi. Nell’ottobre del 2003, Schwarzenegger, The Last Action Hero, ha vinto le elezioni per la carica di governatore della California con il 48,6 per cento dei aricaricaricaricaricaricaricaricelettorale sintetizza perfettamente la natura dell’impegno politico di un supereroe: volevo far parte di quella piccola percentuale di persone che sono dei leader, non della grande massa che li segue. Penso che ciò sia dovuto al fatto che ho potuto vedere come i leader utilizzano il 100 per cento del loro potenziale…le persone che controllano altre persone mi hanno sempre affascinato. GIGANTI POSTMODERNI Il gigantismo (Daikaijû) è uno dei temi chiave della cultura manga e anime giapponese. Nei fumetti e nelle animazioni giapponesi le città giapponesi sono regolarmente devastate o protette da mostri giganti artificiali, alieni, mutanti, ecc. In una società postindustriale e cripto-nicihlista come quella giapponese, dove la morale non è legata ad alcuna sorgente trascendentale e l’atomizzazione dell’individuo è attivamente perseguita da rigidi codici di condotta, questi sofisticati giganti incarnano le paure inconsce e represse dei Giapponesi, assediati da una natura spesso ostile (terremoti, vulcani, tsunami, tifoni), da una società organicistica e sottilmente autoritaria che è talvolta percepita come un moloch dal quale è necessario fuggire e da un’ondata migratoria di lavoratori stranieri che si è fatta sempre più ineludibile negli ultimi dieci anni. In tutto ciò il cosmo rimane a guardare, silente e passivo, come un deus otiosus. Per molti, dunque solo le mirabolanti innovazioni della tecnologia, come i robot giganti per l’appunto, sembrano poter redimere una società dominata da una mentalità tecnocratica. Non è forse un caso che Go Nagai, il creatore di Mazinga Z, abbia dichiarato che l’idea per questa animazione di straordinario successo gli venne nel 1972 mentre era bloccato in un ingorgo a Tokyo e desiderò fortemente di poter diventare un gigante per fuggire da quella situazione claustrofobica. Questi robot giganti costituiscono una presenza quasi ossessiva nella cultura popolare giapponese e, a ben guardare, la robotizzazione della produzione industriale giapponese sembrerebbe quasi rispondere al desiderio profondamente xenofobo e etnocentrico di buona parte della società giapponese di salvaguardare la propria identità evitando contaminazioni culturali e biologiche (ghettizzazione degli immigrati). Mentre i robot delle fiction americane, figli di una cultura libertaria, si antropizzano e cercano di escludere il fattore umano dalla gestione della cosa pubblica, finendo per ribellarsi ai propri creatori e condannandosi alla distruzione finale da parte degli uomini, coalizzati contro di loro, i robot giapponesi (o robottoni), come gli Oni ed i giganti occidentali, fungono da mediatori tra il livello micro (individuo, famiglia) e 11
quello macro (collettività, Stato). Come il lavoratore giapponese più inquadrato, devoto e acritico, essi sono eterodiretti e non possono ribellarsi, quindi non possono essere visti come una minaccia. Inoltre il Robot Gigante giapponese nasce con la riemersione carsica di una cultura nazionalista, violenta e militarista secolare che aveva subito una battuta d’arresto in seguito allo sgancio delle bombe atomiche, ma che non si è mai volatilizzata, rimanendo “in sonno” per decenni e riapparendo nell’arte, nell’intrattenimento e nel dibattito antropologico sulla unicità della cultura e della stirpe giapponese (Nihonjinron). Non pare azzardato suggerire che questo intero filone sia stato alimentato proprio dalle misure censorie imposte su film, pubblicazioni, quotidiani, pièce teatrali, ecc. dalle autorità americane che, nelle intenzioni degli occupanti, avrebbero dovuto contribuire all’estinzione del militarismo in Giappone. Persino la letteratura americana veniva censurata o bandita se offriva una prospettiva critica dei valori e dello stile di vita americano. Il gigantesco fungo atomico ci riconduce naturalmente al dominio simbolico dei colossali mostri dell’inconscio e della cinematografia catastrofista giapponese che, come le divinità giapponesi (kami), possono essere benevoli difensori del bene e della giustizia o crudelmente insensibili verso le miserie umane, se non addirittura intenzionati a distruggere i loro creatori. E’ possibile che la passione tutta giapponese per i robot giganti possa derivare indirettamente dalla presa di coscienza che lo spirito del bushido – lett. “la via del guerriero”, il codice di comportamento “cavalleresco” dei samurai – nulla ha potuto contro la poderosa tecnologia americana nell’ultimo conflitto mondiale. Lo stesso imperatore Hirohito dichiarò dopo l’armistizio che il Giappone aveva perso perché aveva colpevolmente negletto la scienza. I “robottoni” (mecha), come Majinga Z o Gundam, pilotati da eroici, indomiti e generosi piloti, attraverso una metafora integrazionista già impiegata al tempo dei piloti kamikaze, sembrano fondere le qualità della tecnologia (che spesso genera forme di simbiosi tra pilota e macchina) e le virtù dello spirito giapponese. La purezza d’intenti di questi piloti-guerrieri è garantita dalla loro giovane età. Come nel caso di innumerevoli saghe e leggende di tutto il mondo, il più importante prerequisito per l’apoteosi del giovane eroe è che egli (poiché si tratta quasi sempre di un eroe maschile) dev’essere ancora incorrotto dai compromessi e dalle ipocrisie del mondo degli adulti, al fine di trasmettere un edificante messaggio fatto di tolleranza, solidarietà, perseveranza ed autosacrificio. Alla fine l’eroe è comunque destinato a morire, proprio come nella mitologia nordica e nella tradizione dell’eroismo romantico, ma non prima di aver salvato la sua patria ed il mondo. A MO’ DI CONCLUSIONE La funzione del gigante nella mitologia, nell’epica e nella letteratura è quella di rivelare all’umanità le sue potenzialità, la possibilità di varcare i consueti limiti imposti dalla tradizione e dalla corporeità per operare nobilmente o ignominiosamente. I giganti, siano essi reali, come Carnera, o immaginari, come i titani delle leggende nordiche o i 12
robot antropomorfi giapponesi, rappresentano la proiezione e sedimentazione delle nostre indomabili angosce e drammi quotidiani e dei nostri sogni e speranze. Il gigante è colui che riesce a completare quello che noi non ci sentiamo in grado di fare. E’ colui che viola norme e tabù in nostra vece, ma quasi sempre per ristabilire un ordine più duraturo, rassicurante e più ampiamente condiviso. Il gigante, come superman, non è mai un rivoluzionario. Dotato di poteri eccezionali, egli potrebbe e dovrebbe risolvere tutti i più drammatici problemi del mondo, realizzando nel contempo quella società utopica da sempre rincorsa dall’umanità. Ma non è quasi mai questo il suo destino. In fondo i suoi contrasti con gli dèi e con gli umani sono rituali e ciclici e non mettono mai in serio pericolo i fondamenti della società. Il gigante, o il superuomo, sono perfettamente consapevoli del loro essere il parto di fantasie individuali o collettive destinate a divorarli, come Chronos intendeva fare con Zeus, nel timore di esserne sopraffatti. Questo fu anche il fato di Primo Carnera, esaltato, manipolato, sfruttato e poi abbandonato da chi aveva interesse a magnificarne le gesta e l’imponenza. Carnera però, a differenza di molti Giganti della Politica e degli Affari, seppe preservare quella vena di umanità, ragionevolezza e genuinità che rendono la sua celebrazione da parte dei posteri così doverosa e sincera.
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Carlo Borghi, “Primo Carnera, l’uomo, il pugilatore”. Milano: La Tipotecnica, 1932