Tesi di laurea di Stefano Fait

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BOLOGNA SCIENZE POLITICHE Indirizzo politico sociale

TESI DI LAUREA IN STORIA E CIVILTA’ PRECOLOMBIANE DELL’AMERICA

IL MITO DELL’ORIGINE DEGLI INCA SECONDO OLIVA: UN’INDAGINE COMPARATIVA DELLE RADICI CULTURALI DEL MODELLO SOCIALE INCAICO

Candidato:

Relatore:

STEFANO FAIT

LAURA LAURENCICH MINELLI

Cinque parole chiave: Inca, comparazione, processi spaziali e temporali, cosmologia, strutturalismo.

Sessione III Anno Accademico 1998 - 1999


INTRODUZIONE Una lettura acritica delle cronache spagnole può indurre a credere che esista una singola e veridica versione della storia incaica e nel contempo invitare a considerare come discrepanze le sostanziali differenze che esistono tra le cronache. In buona sostanza l’indagine delle fonti etnostoriche si risolve spesso in una storiografia impegnata a risolvere queste stesse discrepanze scegliendo arbitrariamente una relazione piuttosto che un’altra senza peraltro interrogarsi sulle ragioni che condussero i diversi cronisti ad una interpretazione fondamentalmente differente della storia incaica. Eppure, nel quadro dell’interpretazione scientifica del fenomeno socio-culturale incaico, se non si ritiene opportuno avvalersi del metodo comparativo, questa viene spesso proposta come una soluzione convincente. Questo è il motivo per cui tra gli esperti della civiltà incaica si notano approcci completamente diversi rispetto alla questione dell’origine del Tawantinsuyu. Così alcuni ricercatori suggeriscono che la formazione delle prime alleanze nella regione del Cuzco e l’iniziale espansione degli Inca risultarono primariamente dalla manipolazione delle relazioni istituzionalizzate di interscambio piuttosto che dalle conquiste militari. Altri tendono invece a sottolineare l’importanza delle lotte tra i potentati, dei conflitti regionali tra popolazioni limitrofe, o delle norme tradizionali sulla trasmissione del potere; altri ancora, infine, preferiscono porre l’accento sul fattore economico e quindi identificano nel controllo delle risorse idriche e nel sistema della redistribuzione la ragione prima dello sviluppo di questa società complessa. Io ho aderito in parte al filone strutturalista della Scuola di Leida trovando particolarmente interessante, entro certi limiti, la visione della società incaica proposta da Rainer Tom Zuidema, laddove quest’ultima è intesa come una sovrapposizione di quattro principali configurazioni: una duale, una tripartita, una quadripartita ed una concentrico-radiale. I saggi del suddetto studioso, per la verità molto complessi, analizzano queste configurazioni nelle loro relazioni reciproche, opzione che ho preferito tralasciare non trovandola del tutto convincente e per non rischiare di produrre una mera ricostruzione delle posizioni strutturaliste in merito alla formazione delle società complesse. Ho inteso piuttosto assumere ogni configurazione come un elemento a sé stante della struttura sociale incaica, per confrontarlo poi con elementi affini presenti in altre culture. Questa mia scelta è dettata dalla precisa convinzione che solo in questo modo è possibile superare l’impasse nel quale attualmente versa la ricerca scientifica andinista, arenatasi sulle secche della comparazione delle fonti cronachistiche ed archivistiche peruviane. In altre parole il carattere sperimentale della presente indagine è riscontrabile nel tentativo di superare la dicotomia metodologica strutturalismo/funzionalismo, attualmente dominante nello studio 1


della società incaica, proponendo una terza via, assolutamente non antitetica, ma anzi complementare, quella dell’antropologia simbolica. Non è, questa, una opzione del tutto nuova nell’ambito della ricerca andinista, e non è certo un caso che il Congresso Internazionale degli Americanisti, tenutosi a Quito nel 1997, abbia offerto un’ampia panoramica sui risultati conseguiti dall’analisi iconografica e cosmologica dell’arte e della tradizione mitica inca, confrontata con i dati etnologici raccolti proprio da Zuidema. La stessa professoressa Laurencich-Minelli è attualmente impegnata nello studio dell’iconografia andina con l’intento di stabilire se effettivamente sia da rigettare il consolidato preconcetto sulla mancanza della scrittura nel Perù precolombiano. Pare infatti che esistano diversi indizi che suggeriscono come i criteri e le tematiche decorative peruviane celassero un codice tanto complesso e preciso da poter essere considerato un vero e proprio sistema di scrittura. Ma l’aspetto che ha stimolato la mia curiosità è la precisa corrispondenza esistente tra i temi iconografici e l’organizzazione sociale degli Inca, come se società e cultura parlassero uno stesso linguaggio simbolico ed esoterico (si veda il capitolo 3). Questo fenomeno non fu certamente un unicum nella storia umana, basti pensare ad esempio alla corrispondenza tra i più arcaici ideogrammi cinesi e logogrammi pre-cuneiformi mesopotamici e le rispettive cosmologie. Ciò che trovo stimolante è che la relatività prossimità temporale del fenomeno incaico ci ha permesso di ottenere delle informazioni dirette a dispetto dell’assenza di una forma di scrittura manifesta. In questo modo, e proprio grazie alla comparazione con altri casi consimili, mi è stato possibile evidenziare almeno a grandi linee quale fosse il patrimonio concettuale che informava la scrittura iconografica degli Inca e, aspetto da me privilegiato, la loro struttura sociale. L’obiettivo del presente lavoro è quindi quello di integrare dal punto di vista socioantropologico gli studi che negli ultimi anni sono stati fatti vertere principalmente sulle implicazioni artistiche, religiose, etnografiche ed archeologiche che emergono dall’interpretazione della simbologia iconografica andina. In buona sostanza ritengo che sia proprio l’esigenza di una ricerca scientifica interdisciplinare a pretendere che il ciclo d’indagini non si blocchi ricorsivamente in una limitata sfera culturale (come l’iconografia andina, appunto) ma trovi nuovi sbocchi e nuove fonti nella comparazione cosmologica. P.E. de Josselin de Jong1 affermava che the structure is often made clear by a comparative procedure. Elements which are inexplicable in a single culture, because they do not appear to be related to other elements, may be quite comprehensible in another culture, where they are elements in a system. By comparing several cultures within the relevant «field of ethnological study» the anthropologist may arrive at a cultural pattern which he holds to be valid for the entire field of study. 1

Citato da De Ruijter in The Leiden Tradition in Structural Anthropology, (a cura di De Ridder-Karremans, 1987: 89).

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In questo senso il compito dell’antropologo è certamente anche quello di esplorare una massa di dati cercando di collegarli allo scopo di recuperare il passato, pur se a mio avviso è piuttosto infondata la pretesa, che è tipica della scuola di Leida, di giungere a definire modelli mentali comuni all’intera umanità nel corso del suo sviluppo storico. La domanda che dovremmo piuttosto porci è se la formazione culturale di un antropologo possa consentirgli di conseguire questo obiettivo o se invece il risultato non sia quello di un accumulo di indagini mirate ad approfondire un ristretto campo di indagini perdendo di vista il quadro globale. Questa stessa è la domanda che si pongono Laura Laurencich Minelli e Carmen Arellano Hoffmann nell’introduzione agli Actas del Congreso Internacional des Americanistas (Quito, 1997: 5): …la investigación inka en general tiene solamente un alcance regional. Se advierte la falta de una visión global y por lo tanto de una historia general y actualizada sobre el imperio 2. Questo per insistere, se ancora è necessario farlo, sull’opportunità di promuovere un metodo di ricerca interdisciplinare che coinvolga la sociologia, l’antropologia culturale e l’archeologia, oltre alle altre discipline scientifiche della cui insostituibile assistenza si avvale già da tempo l’archeologia 3. Con tutto ciò, l’antropologo non deve fidarsi completamente né del sistema che elabora a partire dai documenti scritti o dalle analogie etnografiche, né in quello che si fonda sulle vestigia archeologiche. La disciplina sociologica si inserisce in questo quadro, in quanto ritengo indispensabile che ad essa venga affidato l’ulteriore compito di coordinare le scoperte delle altre scienze dell’uomo, in modo da porre in risalto ciò che queste non hanno pienamente rilevato. La sociologia - o forse a questo punto dovremmo parlare di antropologia socio-culturale - può dunque tornare sommamente utile anche nello studio di una società quasi annichilita dalla storia come quella incaica, potendosi distinguere dalle altre discipline “sorelle” grazie all’impiego delle metodiche quanti-qualitative, in grado, da sole, di esplorare delle zone d’ombra della conoscenza scientifica, in una prospettiva dichiaratamente comparativa.

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Arellano critica gli stessi etnostorici (ibidem: 18): Estos ya no buscan en esta fase crear marcos teóricos que puedan aplicarse a nivel global de imperio, partiendo de lo particular a lo general, al contrario, es el momento en que se advierte que el interés por lo regional predomina. Este interés por lo regional no llega a desembocar en el estudio de una zona o de una etnia ya sea de carácter diacrónico o sincrónico…[…]. “El análisis temático se reduce al nivel de una sola etnia y tampoco agota el tema.

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Sempre Arellano (ibidem: 19): Únicamente un estudio interdisciplinario puede ayudar a ampliar los conocimientos que tenemos hasta ahora sobre los inkas en la sierra central.

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1. UN METODO SPERIMENTALE? ZUIDEMA, GEERTZ, ELIADE E LA COSMOLOGIA ANDINA Il Tawantinsuyu venne alla luce nel Perù del XV secolo. Questa formazione politica sconvolse gli equilibri sociali pre-esistenti, ma non cancellò le millenarie consuetudini dei popoli della sierra e della costa. Il Sapa Inca regnante ed i suoi predecessori, anche se defunti, divennero i proprietario fondiari di tutte le terre conquistate, sostituendosi così alla comunità locale, ma il principio della reciprocità, universalmente condiviso nell’antico Perù, fu impiegato per rinsaldare dei vincoli tra suddito ed impero, che per loro natura non potevano svilupparsi in un breve lasso di tempo. Il funzionamento di questi nuovi rapporti di produzione richiese la formazione di istituzioni e di strati sociali nuovi, ossia di una burocrazia di stato incaricata di controllare e di sorvegliare i nuovi modi di produzione ed i nuovi rapporti sociali; fu forse questa, assieme all’idea imperiale, l’unica vera innovazione introdotta dagli Inca in una sfera culturale per molti versi quasi immutabile. Robert Cresswell4 nota che, prima dell’inglobamento nell’impero, il modo di produzione di moltissime tribù andine si fondava sull’ayllu, ossia su di una comunità di villaggio locale in cui risiedeva un gruppo di parentela fondato sul lignaggio5. Ma quando queste caddero sotto la dominazione inca, in molti casi esse subirono una trasformazione profonda perdendo gran parte delle proprietà comunitarie fondiarie e delle greggi in favore dell’Inca e della nobiltà o della “chiesa” di Cuzco, e venendo costrette a prestare servizio di corvée su quelle stesse terre che erano state loro espropriate. Il modo di produzione dominante mantenne una parte degli antichi rapporti comunitari asservendoli al suo modo di produzione. Inoltre l’espansione dell’impero costrinse l’élite ad introdurre delle modifiche strutturali nell’assetto della società incaica e panandina, e questo avvenne soprattutto negli ultimi 50 anni, prima dell’arrivo degli Spagnoli, quando nell’amministrazione imperiale i legami personali e parentali basati sul principio della reciprocità, ormai fortemente indeboliti, vennero soppiantati da rapporti di dipendenza diretta nei confronti dell’Inca di chiaro stampo politico-ideologico6.

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Robert Cresswell “Elementi di etnologia” (1991: 218-219)

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Cresswell (ibidem: 218): “La proprietà del suolo era comunitaria e la terra veniva periodicamente redistribuita tra le singole famiglie, senza che queste potessero trasformare questo diritto d’uso in diritto d’alienazione, dunque in una qualsiasi forma di proprietà privata, separata dalla proprietà comune”.

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Marica Roda (1994: 136-137): “Con l’affermarsi del Tahuantinsuyu, le aumentate esigenze delle élites e le necessità di funzionamento dell’apparato favorirono la formazione di personale stabilmente e continuativamente impiegato nella produzione delle risorse economiche dello stato, per dare alle entrate quella consitenza ed affidabilità che la sola prestazione temporanea di lavoro dei tributari non poteva garantire. Yana ed accla sono le principali figure che compaiono nel mutato panorama sociale, e le prestazioni da loor fornite allo stato costituiscono una novità nel mondo andino. […]. Infine le trasformazioni della prestazione rotativa etnica (mit’a) per garantire la continuità e l’ampliamento delle entrate dello stato, modificò in maniera determinante la condizione di parte degli individui sottoposti al turno di lavoro contributivo”.

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A mio modo di vedere è davvero arduo analizzare macro realtà culturali complesse ed eterogenee, come quella incaica, nei termini dell’analisi ecologica dei sistemi proposta dai materialisti culturali: siamo infatti in presenza di entità variegate ed iper-complesse, strutturate in centinaia di etnie, spesso sensibilmente diverse l’una rispetto all’altra, e nessun calcolo probabilistico o programma di simulazione potrebbe determinare gli indirizzi di evoluzione (nell’accezione moderna del termine, ossia non lineare) di questi ultimi. Il caso della Cina degli Shang costituisce la miglior prova dell’impossibilità di ridurre la ricerca antropologica allo studio dei processi economici: Infatti, “se si considera in generale la situazione economico-sociale della Cina arcaica, è possibile rilevare un dato di notevole importanza storica: l’emergere delle prime formazioni statali non si accompagnò ad un adeguato progresso tecnologico nella produzione agricola. Gli attrezzi usati dai coltivatori non sembrano molto diversi da quelli dell’epoca neolitica…Il bronzo solo raramente veniva utilizzato per la fabbricazione di utensili; esso era destinato quasi esclusivamente alla produzione di armi e di oggetti rituali” (Sabattini–Santangelo, 1986: 85). D’altra parte la stessa obiezione al materialismo culturale ed ai modelli economici deterministi nasce studiando il caso dei Tlingit e dei Kwakiutl i quali, pur essendo inseriti in una rete commerciale estesissima, e pur avendo accumulato ricchezze tali da indurli a consumarle ritualmente nel potlatch, non svilupparono mai uno forma di organizzazione statale. I Kachin della Birmania sono ancora più significativi nel quadro di una modellizzazione non deterministica. Studiati da Leach – uno strutturalista che mai aderì completamente al programma lévi-straussiano – essi mostrano di non avere una forma di organizzazione definita, finendo per oscillare ciclicamente tra due forme antitetiche, una egalitaria (gumlao), ed una gerarchica (gumsa), entrambe cronicamente instabili. Considero quindi inadeguata l’ottica dell’approccio ecologico neo-materialista, quando tenta di standardizzare in senso nomologico i processi che possono condurre un’etnia a costituirsi in istituzione statuale. I fattori culturali sono stati storicamente altrettanto decisivi di quelli ambientali nel condizionare l’evoluzione delle regole e dei principi di convivenza dell’umanità e della loro strutturazione in istituzioni più o meno complesse. Con ciò intendo dire che un corretto accostamento alla questione della formazione della civiltà incaica esige la necessità del ricorso a molteplici punti di vista: quello funzionale, quello strutturale, quello storico, quello simbolico e quello ecologico. Pur essendo ben consapevole di ciò, ma essendo altrettanto consapevole del fatto che una ricerca approfondita deve giocoforza sacrificare diversi aspetti di una problematica per non rischiare di perdere di vista l’obiettivo prefissato, ho scelto di approfondire in particolar modo l’ottica simbolica e quella strutturalista, che a mio modo di vedere sono quelle che in futuro sapranno fornire il maggior numero di risposte agli interrogativi sollevati da questo fenomeno.

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Tuttavia io non mi sento propriamente strutturalista. Non credo basti raggiungere la struttura inconscia soggiacente ad ogni istituzione o usanza per ottenere un criterio d’interpretazione universale e necessario. Ritengo piuttosto che popoli diversi abbiano individuato criteri affini applicandoli però a contesti differenti e secondo modalità differenti. Mentre lo strutturalismo è anti-storico, io non ripudio assolutamente la storia, anzi, la ritengo un fattore decisivo nella formazione delle credenze e delle istituzioni. Ad esempio, quando Lévi-Strauss afferma che i modelli coscienti tramite i quali una società rappresenta sé stessa sono uno schermo, una maschera che cela la struttura inconscia che informa quella stessa società7, mi trova completamente in disaccordo, essendo io invece convinto che questi modelli hanno un’evoluzione storica che li legittima, forzando l’”incoscio collettivo”8. In Lévi-Strauss il modello non serve per idealtipizzare un fenomeno sociale rendendolo più facile da interpretare, bensì per formarlo: la realtà viene ad essere il modello di un modello e non è neppure necessario che vi sia corrispondenza tra modello e realtà. Così, se per Marx gli uomini fanno la storia senza esserne coscienti, per Lèvi-Strauss le categorie del pensiero umano fanno la storia senza che l’individuo ne sia consapevole. Questo è puro e semplice formalismo, ed una ricerca seria non può essere formalistica. Sarebbe d’altronde assurdo credere che le differenze strutturali tra le popolazioni amazzoniche non abbiano avuto un’origine storica ed ecologica. D’altronde è lo stesso Lévi-Strauss a confermare questa ovvietà indagando l’ipotetico processo storico che ha prodotto l’”anomalo” assetto societario degli Sherenté (L-S, 1974)9. Mi risulta ancora più aliena la convinzione lévi-straussiana secondo la quale sia l’inconscio dell’osservatore sia quello dell’osservato possano trovare un punto di contatto in questa soggiacente astratta struttura di relazioni logico-matematiche che può essere analizzata per modelli, codici e regole combinatorie. Sia chiaro che non nego l’importanza di identificare i fatti sociali con i messaggi, semplicemente rifiuto di credere che esistano strutture inconscie tanto elaborate da impedire a qualunque lettore non versato nello strutturalismo di comprenderne la natura. Se, infatti osservatore ed osservato possono trovare un minimo comun denominatore, non vedo perché un saggio strutturalista eccellente come quello di Zuidema debba risultare tanto ostico non solo per il nativo osservato ma persino per antropologi di vasta esperienza. Purtroppo il grave limite di Zuidema, che rimane comunque uno dei massimi esponenti della ricerca 7

Il suffit d’atteindre la structure inconsciente, sous-jacente à chaque institution ou à chaque coutume, pour obtenir un principe d’interprétation valide pour d’autres institutions et d’autres coutumes (L-S, 1974: 28)

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In Structuralisme ou ethnologie (1973: 68) Raoul e Laura Makarius hanno brillantemente esposto le maggiori critiche allo strutturalismo lévi-straussiano, critiche che condivido appieno: parcellisation de l’espace et du temps, nivellement des valeurs, travail morcelé, répétitif et permutable, banalisation des êtres et des œuvres, compression de l’initiative, réduction de la réussite aux effets d’une combinatoire d’éléments en nombre fini, caractère abstrait et général des relations, absence de participation, isolement et non-communication des unités individuelles, rigidité des écarts différentiells, exclusion des affects, perte de sense du langage, décollage progressif du plan du réel, dénaturation de la culture par l’informatique, suprématie de l’échange sur l’usage, ecc.

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Tuttavia, in un altro suo scritto The future of kinship studies, citato in Makarius 1973, nota 7: 111), l’antropologo francese afferma che le modèle ne peut davantage tenir compte des conditions démographiques, que la définition que donne le physicien des cristaux ne tient compte des conditions locales de chaleur, de pression et de l’intrusion des corps étrangers.

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andinista moderna, è sempre stato quello di voler modellare la realtà studiata in modo da adattarla a propri paradigmi strutturalisti. Francamente alcune delle sue conclusioni sull’organizzazione del Cuzco, come quelle che chiamano in causa le classi di età delle sacerdotesse del sole ordinandole secondo la classificazione quadripartita del Tawantinsuyu, non solo non convincono minimamente, ma non sembrano neppure essere sostenute da alcuna prova solida. Di qui la mia predilezione per la prospettiva interpretativa di Geertz secondo il quale l’antropologo è chiamato ad individuare l’autorappresentazione della società che studia, cioè l’interpretazione di sé che ogni società effettua e custodisce nella forma di credenze e costumi. Compito che non implica la benché minima sistematizzazione a-temporale ed a-spaziale, dato che, in un certo senso, prevede l’applicazione del circolo ermeneutico così ben conosciuto dai sociologi contemporanei. Altro non si tratterebbe che di coniugare il significato dell’azione sociale fornito dall’osservato con il significato della medesima azione che l’osservatore ha prodotto sulla base di teorie antropologiche e di ipotesi pregresse ma non per questo stabili ed immutabili. E’ interessante notare come, tra gli autori classici che mantengono un ruolo fondamentale nell’ambito dell’antropologia religiosa, Geertz abbia citato Durkheim, Weber, Freud e Malinowski, aggiungendo che il loro pensiero deve solo essere un punto di partenza, perché “per andare oltre dobbiamo porli in un contesto del pensiero contemporaneo molto più ampio di quello che essi da soli abbracciano. I rischi di questa procedura sono ovvi: eclettismo arbitrario, teorizzazione superficiale e pura confusione mentale. Io però non riesco a vedere nessun’altra via d’uscita…”10. La soluzione prospettata da Geertz è quella dell’antropologia interpretativa che cerca di percepire il punto di vista dei nativi provando a pensare come loro e rientra nel grande dibattito che veda da un lato gli antropologi “etici”, come Marvin Harris o Rainer Tom Zuidema, che sono approdati al funzionalismo, allo strutturalismo o al materialismo culturale ed applicano una logica processuale e sistemica di stampo descrittivo e quelli “emici”, come Geertz, appunto, che, ispirandosi in parte alla metodologia weberiana, fanno riferimento ai concetti di verstehen e di einfühlen e ad una logica marcatamente empatica, che però eviti di entrare in un’eccessiva sintonia con l’informatore. In buona sostanza la proposta geertziana è quella di provare a comprendere la natura di un’idea, di un concetto, di un pensiero indigeno, senza per forza doversi trasformare in quell’indigeno per mezzo dell’immaginazione, ma semplicemente “ricercando ed analizzando le forme simboliche – parole, immagini, istituzioni, comportamenti – nei termini in cui, in ciascun luogo, le persone realmente rappresentano se stesse a se stesse ed agli altri” 11. Il fine di questo approccio, almeno per quel che concerne l’antropologia simbolico-religiosa, è quello di formulare un’analisi teorica dell’azione simbolica all’altezza di quella della quale disponiamo per l’azione sociale e psicologica. 10

C.Geertz, 1987: 140

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Geertz, 1988: 75.

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Come si vede siamo ben lontani dalle teorizzazioni astratte di un Lévi-Strauss o di un’Eliade, che pure si sono attivamente occupati di simbologia e cosmologia. Tuttavia, come avrò modo di dimostrare, non si può non affrontare la tematica sul corretto modo di interpretare l’arte, la religione e la Weltanschauung che le informa, perché l’antropologo comprende una cultura anche dall’analisi testuale di canti, litanie, saghe mitologiche e narrazioni varie e dalla simbologia che incontra quando osserva i manufatti, le sculture e quando ascolta quegli stessi canti e leggende. E questo non avviene mai attraverso i formalismi aprioristici nei quali troppo spesso sprofonda lo strutturalismo più radicale, come non può avvenire se si considerano solo le variazioni sintattiche di una leggenda, o le trasformazioni strutturali di un mito, o la ripetitività iconografica di un tokapu incaico. Una volta affrontato il pensiero lévi-straussiano di Tristes Tropiques o di La Pensée Sauvage, con la sua tenace convinzione che i costumi dei popoli possano essere raggruppati in sistemi finiti che comprovano la mancanza di creatività dell’individuo, il quale si limita a scegliere tra un numero determinato di combinazioni di idee precostituite, con la sua cruda analogia tra la tabella degli elementi chimici e le “famiglie” di costumi comuni all’intera umanità, con la sua coerente ma terribile dichiarazione che il compito dell’antropologo altro non è che individuare quali famiglie, quali costumi e quali combinazioni siano state adottate dal popolo osservato, non si può non sentire che si è sull’orlo di una scelta di campo definitiva. Si può da un lato abbracciare lo strutturalismo ed applicarne i precetti ovunque e comunque, come nel caso di Zuidema, oppure si può rifiutarlo, e continuare a pensare che l’antropologia nacque per osservare e capire i fatti sociali, non per stabilirli a priori e poi motivarli sulla base di una tabella preconfezionata. Eppure, la “sperimentalità” della mia ricerca si evidenzia propriamente nella mia scelta di non scegliere. In altre parole, dopo aver valutato attentamente l’approccio di Geertz e averlo confrontato con quello di Zuidema, Mauss e Lévi-Strauss, ho creduto di poter mediare tra due posizioni che, all’apparenza, ma forse anche nella sostanza, sono inconciliabili. Zuidema ha grandi meriti, tra cui quello di aver colto acutamente alcuni tra i più fondamentali concetti che animavano la cosmologia e l’esistenza dei popoli andini, e non si può dichiarare semplicemente che le sue conclusioni non sono degne di considerazione perché generate da uno studioso del XX secolo, quindi incapace di immedesimarsi nella cultura del tempo. Nondimeno non è meno errato l’atteggiamento di chi, fidando nei dogmi strutturalisti, crede di poter sintetizzare la storia, la società e la cultura di un popolo in una matrice buona per tutte le stagioni (e la critica è rivolta ancora a Zuidema e Duviols). Il giusto mezzo, che io ho cercato di identificare e perseguire nel corso della mia ricerca, sarebbe quello di accettare il fatto che l’umanità ha effettivamente un innata propensione alla classificazione e sistematizzazione del proprio eco-sistema che deriverebbe da un’altrettanto innata tendenza a temere il disordine e la pura anarchia, ma che allo stesso tempo è dotato di quella 8


caratteristica che lo differenzia dagli animali e dai processori (almeno quelli attuali), ossia la creatività, che gli permette di trovare un numero tendente all’infinito di modi di categorizzare la realtà e se stessa. Facendo riferimento alla annosa questione sull’origine delle organizzazioni dualiste, uno dei temi che ho trattato nel terzo capitolo, è da dire che dall’inizio del secolo essa è stata spiegata come frutto di processi sociali strutturanti (Durkheim e Mauss), come frutto di processi storici espansivi (diffusionismo), o come frutto di strutture cognitive analoghe (Lévi-Strauss). Credo che a questo proposito Eliade abbia saputo cogliere nel segno quando ha affermato 12 che understanding the function of polarities in the religious life and thought of archaic and traditional societies demands a hermeneutical effort, not a demystification. Dunque, anche uno storico delle religioni come Eliade, che rifiuta di abbinare mitologia e codici comunicazionali ritenendo che le azioni individuali siano “libere creazioni dello spirito”, trova che sia fondamentale interpretare un’azione sociale prima di definirla. Nel medesimo saggio egli si sforza poi di dimostrare, con l’ausilio di alcuni classici casi di organizzazioni sociali dualiste amerindiane, come non sia una dicotomica forma mentis a determinare le relazioni sociali e le espressioni artistiche, ma la tensione verso l’armonizzazione della binarietà, la ricerca dell’unione dei contrari, dell’equilibrio tra i poli antagonisti, assolutamente complementari. Naturale corollario a questa impostazione è la convinzione che non vi sia un universo destrutturato da strutturare ma piuttosto un universo strutturato da unificare, che non tutti i popoli della terra condividano questo genere di Weltanschauung e Lebensanschauung, e che comunque, considerato che spesso accade che la polarizzazione sia presente a livello mitologico e non liturgico ed organizzativo o vice versa, it suffices to recall briefly the different types of antagonism and polarity attested in the area to realize their character as “spiritual creations” (ibidem: 158). Concretamente, i segni che noi individuiamo nelle manifestazioni artistiche di un popolo, figurative o letterarie che siano, non hanno semplicemente un valore estetico più o meno accentuato ma celano quasi sempre un messaggio che deve essere interpretato, persino nell’assenza di intento informativo (infatti si comunica anche con l’immobilità o con un atteggiamento distruttivo). Coerentemente con queste presupposizioni Geertz sostiene che “questi segni e simboli, questi veicoli del significato, svolgono un ruolo nella vita di una società, o in qualche parte di una società, ed è questo che li fa vivere” (1988: 150). Per questo ho scelto di produrre uno studio di socio-antropologia simbolica sugli Inca. Attualmente, la professoressa Laurencich-Minelli, relatrice della mia tesi, sta portando avanti un’approfondita analisi dell’iconografia andina che dovrebbe, nelle intenzioni, aiutarci a comprendere quegli angoli bui dell’ideologia e delle tradizioni incaiche che nessuna cronaca, per quanto sia stata sviscerata e confrontata con altre, ha saputo illuminare. Io, nel mio piccolo, ho ritenuto che la analisi 12

Eliade, 1969: 132.

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iconografica sopracitata, e le indagini più propriamente socio-antropologiche condotte da Zuidema, Duviols e Rostworowski hanno già fornito materiale sufficiente per rivedere le teorie correnti in merito alla civiltà inca, che valuto come un fenomeno sociale e storico emblematico, tanto rappresentativo da poter offrire spunti per lo studio di altre realtà culturali. Solo non credo che l’impostazione geertziana di un’indagine che dal particolare giunga al generale sia di per sé stessa sufficiente a descrivere una società come quella incaica, che ormai appartiene alla storia. Bisogna comunque affidarsi in una certa qual misura al comparativismo, strutturalista o religioso, senza per questo ricercare degli universali culturali che nella prospettiva dello strutturalismo francese furono investiti di una funzione quasi coercitiva. Remotti (1993: 16) mi ha fornito il quadro concettuale e metodologico di riferimento suggerendo l’impiego in antropologia delle “reti di connessione”, caratterizzate da: 1. Pluralità di punti tra cui si possono stabilire connessioni; 2. Pluralità di modi di connessione; 3. Provvisorietà dei percorsi ipotizzati; 4. Provvisorietà dei confini della rete; 5. Assenza di un asse centrale (o via maestra), se non come ipotesi di percorso provvisoria e revocabile; 6. Riconoscimento della scelta dei percorsi e delle modalità di connessione; 7. Revocabilità della scelta e possibilità di percorsi alternativi; 8. Affermazione del senso delle possibilità. Sempre per quanto riguarda l’opzione comparativista, non nego di essere sensibile alle critiche di Vittorio Lanternari, secondo il quale (1983: 544) “…chi sottovaluta essenziali difformità e distinzioni, a vantaggio di un malinteso universalismo unificatore pseudo-scientifico finisce con l’attribuire una empirica e fittizia unità a ciò che storicamente13 non è unificabile. […] Comparabile secondo noi è ciò che appartiene a livelli culturali relativamente omogenei. In secondo luogo erra, a nostro avviso, chi – per converso – finisce col tendere eccessivamente la corda delle distinzioni, a scapito della comparazione. Una tendenza siffatta…finisce col negare la storia stessa”. Ma d’altra parte i miei ampi riferimenti ad Eliade e a Lévi-Strauss non sono intesi a sostenere la validità euristica delle forme simboliche di un indirizzo archetipico à la Cassirer, perché non condivido quel tipo di ricerche fondate sul concetto di psichismo collettivo,di logica trascendentale e di unità psichica dell’inconscio umano14. Il mio intento è invece quello di far rilevare come le analogie tra i casi presi in 13 14

Corsivi dell’autore En réalité, la convergence qui existe entre civilizations, qui n’ont entre elles ni relations historiques ni rapports géographiques ou chronologiques, est troublante. […]. …d’où proviennent les analogies que l’on constate dans la démarche de cultures qui n’ont pas eu de contact entre elles? […]. N’est - ce pas, au - delà même des lois de l’espèce et de l’évolution, à la notion d’archétype, telle que l’a définie C.G. Jung, qu’il faut recourir pour expliquer ces parentés entre les fonctions de l’art considéré comme viatique et talisman permettant d’accéder à une vie éternelle? Ne touche-t-on pas là aux traits essentiels de l’homme, à ce qui le caractérise

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esame, se effettivamente sussistono, potrebbero invece essere più facilmente spiegate ipotizzando che un concorso di fattori ecologico-culturali si sia innestato in un sostrato di credenze e tradizioni molto arcaiche, introdotte in America attraverso le migrazioni beringiane, generando etnemi, istituzioni e concezioni cosmologiche analoghe ma assolutamente non identiche. Perciò il fatto che i miei riferimenti metodologici e teorici sono studiosi apparentemente incompatibili come Zuidema, Eliade e Geertz si spiega con la mia convinzione che gli antropologi ed i sociologi promotori di un metodo che sappia coniugare descrizione ed empatia, micro e macro, quantità e qualità, abbiano individuato il giusto cammino che le scienze umane dovranno per forza seguire, se vorranno davvero comprendere i fenomeni che sceglieranno di studiare; come si nota, infatti, tra gli studiosi dai quali ho tratto ispirazione non compaiono né Durkheim, né Harris, né LéviStrauss, né tantomeno Parsons o Luhmann, tutti autori ben distanti dal modello del ricercatore interdisciplinare che non assume preconcettualmente una posizione deterministica che stabilisce essere valida e necessaria per poi attenervisi anche contro l’evidenza dei fatti. Quanto a Weber, non serve notare quanto Geertz debba al sociologo tedesco per la formulazione della sua metodologia interpretativa. Naturalmente l’accusa rivolta a questo genere di studi è quella di essere eclettiche, e l’obiezione che generalmente si muove all’eclettismo tipico ad esempio di un Boas - tanto per fare il nome di uno dei grandi dell’antropologia - è che esso è un brillante modo per celare la confusione e l’accettazione di teorie contradditorie. Così in certi casi si ritiene che un insieme di fattori costituiscano la variabile indipendente, mentre in altri casi, un altro insieme di fattori ne prende il posto. Tuttavia a queste severe critiche si può replicare affermando che il determinismo storico può servire a descrivere un fenomeno culturale, ma non a comprenderlo; in tal senso la presente ricerca, che vorrebbe essere più emica di quel che è lecito attendersi da un indagine condotta a tavolino, mal si concilia con questo tipo di paradigmi assoluti, tanto perniciosi se applicati allo studio di realtà altamente complesse come quelle delle manifestazioni della cultura umana. Per ciò che concerne i pregi ed i difetti dell’antropologia simbolica, Tambiah (1995) è assolutamente nel giusto quando afferma che se si aderisce ad un modello di interpretazione cosmologica – il quale tende a spiegare le strutture sociali in funzione di un’ontologia cosmologica che le informa – si conclude ignorando altri importanti aspetti della complessa problematica delle forme di organizzazione statali. Tambiah (ibidem: 258-259) giudica che «una spiegazione cosmologica ha il grosso limite di essere statica e di non riuscire a spiegare né le variazioni all’interno delle strutture impiegate da certe società e da certe comunità, né i cambiamenti dinamici delle strutture stesse nel corso del tempo». La principale obiezione mossa dall’autore è che in questi casi non si può pretendere di distinguere in modo chiaro tra dimensione cosmologica e dimensione religiosa, politica par-delà toutes les différences de races, de moeurs et de croyances? (Stierling, 1983: 98 - 99).

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ed economica. Nel mio piccolo ritengo che queste validissime osservazioni possano essere aggirate se prendiamo in considerazione la differenza tra modelli rappresentazionali e modelli operativi. Con la prima espressione indichiamo un modello che corrisponde al «modo in cui gli individui pensano che le cose stiano» (Fabietti, 1999: 169)15, mentre nel secondo caso abbiamo un modello che riflette «il modo in cui gli individui agiscono sul piano pratico in risposta a determinate situazioni» (ibidem). Come si vede questi due modelli non possono essere confusi, né è lecito assumere che uno sia più fedele alla realtà dell’altro. Entrambi devono essere presi in esame, perché entrambi concorrono a definire un fenomeno in un’ottica adduttiva, che prevede che i risultati dell’uno vengano confrontati con quelli dell’altro. In tal modo si giunge a conclusioni che si possono rivelare utili al ricercatore, per capire se i suoi presupposti teorici sono confermati o disconfermati. Fabietti conferma che «non si può escludere che gli individui possiedano consapevolmente più modelli d’azione utilizzabili in contesti differenti. Ai modelli d’azione degli individui oggetto dell’osservazione si accompagnano naturalmente i modelli rappresentazionali dell’antropologo, che vengono definiti «esplicativi» e che indagano i modelli di cui sopra cercando di interpretare e quindi spiegare i dati raccolti. Questi modelli si basano su una premessa di ordine generale, che indirizza il lavoro dell’antropologo, il quale non deve «ricostruire la struttura operazionale di una sola società (anche se poi questo può essere il mestiere della sua vita)», ma deve piuttosto «costruire il modello che spiegherà quella struttura per poi collegarla ad altre» (ibidem). Questo modello dovrà essere oggettivo, ma non necessariamente vincolato a relazioni causali e produttive, visto che «ciò che è rappresentazionale può essere altrettanto oggettivo di fenomeni ritenuti tali nel campo della sfera naturale» (ibidem). Inoltre, a differenza dei modelli operativi, che non sono quasi mai espliciti, i modelli rappresentazionali sono più facilmente percepibili e conoscibili. In caso di controversie tra osservatore ed osservato – evento non raro se pensiamo alla frequente discrepanza tra norma e comportamento – il modello rappresentazionale viene automaticamente assunto da quest’ultimo come «la verità». Questo stesso modello dovrà anche essere politetico, ossia dovrà tener conto del fatto che le due realtà a confronto potranno mostrare numerosi aspetti contrapposti e persino idiosincratici ma dovranno essere confrontate comunque nel loro complesso e non per mezzo di categorie monotetiche (es. matrimonio, totemismo, sistema economico, ecc.). Le reti di significato che nascono da queste comparazioni di differenze e somiglianze saranno per loro natura provvisorie, d’indirizzo, passibili di mutazioni anche drastiche una volta che l’accumulo di informazioni le abbia rese inadeguate. In altre parole, se si rigetta l’impostazione formalista dello strutturalismo a-storico più inveterato, è giocoforza assumere che non è la realtà ad essere adattata al modello – né nel caso dell’osservatore, né nel caso

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Il caso dei Winnebago, studiati da Paul Radin, è esemplare in tal senso: una parte della popolazione riteneva che il villaggio fosse organizzato diametralmente, mentre l’altra parte era convinta che la divisione fosse in senso concentrico

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dell’osservato – ma è questo che muta progressivamente al fine di risultare sempre un valido strumento della realtà cangiante. Il punto è che l’impostazione del presente studio non può in alcun modo assumere i tratti di un’indagine globale, che comprenda anche modelli rappresentazionali di altro genere, perché risulterebbe dispersiva, né può permettersi di affidarsi a eventuali modelli operativi, visto che questa possibilità si è dissolta con la scomparsa degli Inca. La mia infelice condizione di ricercatore è quella di non poter facilmente accedere alle fonti originarie di intepretazione della realtà che sto studiando. Il «significato indigeno», inteso come punto di vista del nativo, mi è pressoché precluso a causa della distanza temporale che mi separa dalla sua sorgente e che mi relega nella condizione di antropologo «a tavolino». Questa semplice constatazione introduce una nuova problematica: è lecito effettuare una ricerca comparativa sulla base di una quantità di informazioni che certamente non raggiungerà mai un livello di saturazione? Spesso lo stesso metodo comparativo è posto sotto accusa 16 ma essa resta uno dei fondamenti della ricerca antropologica, in quanto rimane pur sempre uno dei migliori strumenti per la comprensione delle specificità sociali e culturali: «mettere a fronte istituzioni e tratti culturali; confrontare usanze e modi di pensare; affiancare costumi e classificare per tipi, riti, miti, sistemi terminologici di parentela, idee della persona e del cosmo, schemi cognitivi e tecniche di fabbricazione di determinati strumenti. Tutto per l’antropologia può essere comparato. Il suo progetto è vasto come il mondo e si estende orizzontalmente nello spazio come verticalmente nel tempo» (Fabietti, op.cit. 189). Gli strumenti cardine del metodo comparativo sono i modelli comparati, che fondamentalmente nascono come «rappresentazioni che gli antropologi costruiscono dei loro oggetti» (ibidem: 195). Ora è chiaro che una modello comparato, derivando da una rappresentazione cognitiva, può essere più o meno convincente di un altro, più o meno verosimile, ma per decretarne la validità bisogna metterlo alla prova, ossia bisogna effettuare una comparazione tra questo modello ed un altro di diverso genere. L’esito di questo confronto ci permette di capire quale modello ci garantirà una visione migliore del fenomeno, ossia una spiegazione più attendibile. Così Remotti (1986: 392) riguardo all’antropologia culturale sottolinea che “essa si distingue dalle altre scienze sociali ed umane non in quanto seleziona e fa propri un qualche oggetto o un qualche tipo di società, bensì in quanto consiste nella produzione e ri-produzione degli strumenti che consentono di transitare 16

Murdock (citato da Harris: 831): «La Benedict sosteneva non solo che le culture vanno considerate nel contesto delle situazioni affrontate dalle società che le vivono, ma anche che vanno considerate nella loro interezza. Per lei ogni cultura è una configurazione senza pari e può essere compresa soltanto nella sua totalità. La Benedict ha lasciato capire abbastanza chiaramente, seppur implicitamente, che l’enucleazione di elementi da paragonare con quelli di altre culture è illegittima. Un elemento non ha significato se non nel suo contesto; isolato è privo di significato. A mio parere queste sono sciocchezze. Le funzioni specifiche, naturalmente, si possono scoprire soltanto nel loro contesto, ma in antropologia come in qualsiasi altra scienza si può arrivare a leggi o proposizioni scientifiche soltanto enucleando e confrontando caratteri osservabili in molti fenomeni che si manifestano in natura».

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teoricamente da una società ad un’altra, di interpretare una cultura mediante categorie e prospettive alla cui elaborazione contribuiscono le analisi di altre culture”17. Quel che davvero mi preme di far rilevare è che questi modelli teorici sono espunti dalla realtà empirica ma rimangono delle elaborazioni teorico-concettuali. Il modello comparativo non deve coincidere con nessuna realtà empirica, ma allo stesso tempo non pretende di chiarirla in modo esaustivo: è solo uno tra i molti strumenti che l’antropologia può utilizzare nella sua analisi 18. Nel nostro caso, a ben guardare, tenuto conto dell’impossibilità di rivolgersi direttamente alla fonte delle nostre conoscenze, rimane forse l’unico criterio che ci consenta di semplificare le realtà assunte come termini di comparazione. Ma è questa semplificazione che non deve essere intesa in forma assoluta, perché, se comparare significa ricercare dei rapporti di somiglianza che consentano di individuare una logica che altrimenti ci sfuggirebbe, questo non implica in alcun modo che la logica che informa uno dei processi sia la medesima che informa gli altri. La comparazione mostra dei possibili nessi semantici e logici che ulteriori ricerche, applicando altre tecniche, potranno confermare oppure no 19. Lévi-Strauss, ma non solo lui, si scaglierebbe con veemenza contro queste scelte di metodo; a suo avviso la comparazione pecca di miopia, perché cercando di individuare delle analogie, perde completamente di vista le enormi differenze che esistono tra le due società considerate. La comparazione sarebbe infatti mossa esclusivamente dalla personale curiosità di un autore (ed è esattamente il mio caso), mentre l’antropologo francese compara perché parte dal presupposto fondamentale che non esistono delle strutture analoghe a due a due, in quanto tutte le strutture appartengono alla stessa classe di fenomeni, allo stesso sistema e devono quindi per forza essere confrontate per ricavarne il codice comune che le regola. Tutti i sistemi sono parti di un fenomeno unitario e la ricerca di analogie particolari è fatalmente legata all’arbitrio soggettivo: così il vero obiettivo dell’antropologo dev’essere quello di comparare per definire le differenze tra un sistema e l’altro e coglierne così la natura intrinseca, la raison sous le voile. Nel caso delle strutture della parentela: «al di là della straordinaria complessità e varietà dei sistemi di parentela esistenti nelle società primitive, certe relazioni e certe strutture permangono costanti, sia pure sotto forme o incarnazioni diverse. Si tratta d’una permanenza che pare davvero esprimere l’esistenza di una sorta di segreta razionalità nelle cose» (Moravia, 1969: 179). 17

corsivo dell’autore

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Remotti (393): “Se i modelli della Nuova Guinea aiutano a riorganizzare i modelli teorici africanistici, sollecitando a puntare lo sguardo su aspetti prima trascurati o addirittura non visti, e se gli studi degli stati primitivi africani possono a loro volta cotribuire a definire con maggiore profondità e precisione certe problematiche della storia europea…” allora, aggiungo io, è lecito applicare modelli comparativi al confronto tra l’antica Cina e la civiltà incaica.

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Remotti (1986: 326): “L’antropologia culturale tende a distinguersi dall’etnologia in senso stretto per il fatto di fissare in minor misura il proprio obiettivo sulle singole società concrete, per un respiro teorico forse più vasto e comunque per progetti intellettuali più ambiziosi e rischiosi; ma non può prescinderne…Si potrebbe sostenere che quanto più l’oggetto è a portata di mano, vicino, quotidiano, ovvio, tanto più la capacità comparativa deve essere ampia, e ciò allo scopo di sottrarre l’oggetto alla banalità e farne emergere i significati antropologici” .

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Personalmente, pur avendo apprezzato moltissimo le prime opere di Lévi-Strauss, ritengo che quest’autore abbia finito per eccedere nella sua quasi spietata opera di sistematizzazione di mitemi ed etnemi, perdendo di vista almeno in parte quella che è la migliore qualità dell’umanità, ossia la creatività. Il funzionalismo dal canto suo non ha mai apprezzato il metodo comparativo, per una questione epistemologica di fondo che è la medesima che in sociologia viene etichettata come dicotomia tra metodi qualitativi e metodi quantitativi. Malinowski sosteneva che la comparazione ha una sua utilità solamente nella misura in cui può servire a studiare le modalità di reazione di una società alle insidie del suo ambiente; inoltre il funzionalismo era fortemente legato all’idea di sincronicità: non aveva senso studiare i processi storici che avevano condotto una società a sostanzializzarsi in una certa maniera, ciò che contava veramente era la società nella sua forma presente e nelle sue funzioni attuali, pur se contingenti. Ma la storia agisce nel contempo sull’osservato e sull’osservatore (e sulle sue tecniche ed ipotesi di sfondo). Remotti stesso (ibidem: 387) dichiara che dalla ricerca antropologica ci si deve attendere “non già la conferma di uno schema precedentemente costruito, ma – al contrario – una sua modifica o trasformazione più o meno profonda20. A che servirebbe una ricerca etnografica presso una tribù dell’Amazzonia o in un paese della Calabria, nella quale non si facesse altro che applicare schemi, strumenti concettuali, prospettive teoriche di cui il ricercatore si è impadronito durante la sua formazione?”. In questo ambito s’inserisce il discorso sull’assoluta necessità di un approccio interdisciplinare e comparativo a questo tipo di problematiche. Come efficacemente pone in rilievo Remotti (ibidem), lo studio approfondito, completo ed assiduo dei Banande crea solo una “Banandologia” e nulla più. Allo stesso modo un’indagine che scomponga i tratti culturali incaici, per metterli in relazione esclusivamente con quelli delle culture limitrofe, non offre molti spunti incisivi. Di qui la mia scelta di indagare in un’ottica comparativa sia le fonti cronachistiche sia le relazioni e gli studi dei ricercatori del nostro tempo, al fine di far emergere quei nessi, talora celati, che, soli, possono offrire spunti significativi ed innovativi. In definitiva, più che di metodo sperimentale, sarebbe forse più opportuno parlare di applicazione di quelle strategie investigative tipiche delle scienze sociali moderne, che hanno nella poliedricità, nella policontestualità, nell’interdisciplinarietà e nella ricorsività i loro tratti caratterizzanti; strategie che non si limitano a prendere atto dell’esistenza di paradigmi e macchie cieche anche nella ricerca scientifica, ma che operano attivamente per ovviare a queste deficienze proponendo punti di vista diversi ed ipotesi aperte alla verifica interattiva ed all’eventuale successiva modifica. 20

Corsivo dell’autore

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2. L’ORIGINE

DELLE

«CULTURE

SUPERIORI»

AMERICANE

NEL

PENSIERO RINASCIMENTALE E LA TEORIA MONO GENETISTA SUL POPOLAMENTO DEL NUOVO MONDO 2.1 IL PROBLEMA DELL’AFFIDABILITA’ DELLE FONTI Per quel che concerne le fonti cronachistiche, Adolph Bandelier, un insigne archeologo che esplorò l’America centrale e meridionale nel corso degli ultimi anni del secolo scorso e del primo decennio del nostro secolo, riassunse, in un interessantissimo ed esaustivo articolo 21 apparso nel 1905, le diverse tradizioni peruviane, che menzionavano una qualche sorta di leggendario sbarco di stranieri sulle coste sudamericane. Egli segnalava che l’origine delle genti che avevano popolato il Nuovo Mondo era stato forse il primo dei problemi che si erano trovati ad affrontare gli Europei in seguito alla scoperte delle Americhe. Come vedremo oltre, in genere la posizione prevalente fu quella monogenetista, che tendeva a prediligere un’interpretazione elastica delle Bibbia. In essa i nativi sarebbero stati i discendenti dei popoli protagonisti delle migrazioni conseguenti al crollo della Torre di Babele o, più raramente, delle tribù d’Israele scomparse in seguito alla deportazione in terra di Babilonia in un periodo successivo. Ora, Bandelier fa notare che per gli Spagnoli del tempo della conquista fu molto facile interpretare le leggende locali come prove storiche a sostegno di questa assunzione. Egli stesso mette in guardia il ricercatore che intenda impegnarsi nella disamina delle suddette leggende: All I desire to call attention to is the danger of early Indian lore having been colored by those who gathered it, so as support a favorite theory. Such coloring is a serious obstacle to the critical use of aboriginal American lore supposed to embody historical information22. Esiste comunque un altro interrogativo, non meno pressante, che nasce ancora una volta dall’esigenza di rifarsi al materiale raccolto dai cronisti europei, che giunsero nel Nuovo Mondo pochi anni dopo l’arrivo dei conquistadores: può un ricercatore attuale cogliere l’essenza di quelle culture, o non rischia piuttosto di fraintenderne i tratti e di finire per applicare schemi d’analisi contemporanei a delle realtà del tutto estranee ad essi? Secondo Margaret S.Archer (1997: 317) per comprendere realtà diverse, temporalmente e spazialmente, necessitiamo del “principio di umanità” che presuppone uno schema di relazioni tra credenze, desideri e mondo il più simile possibile al nostro. Per parte sua Luciano Gallino (Gallino, 1993: 664) esprime una posizione chiara e netta che credo possa dirimere la questione in modo definitivo: “L’obiezione talvolta mossa ai lavori di storiografia dei sociologi è di forzare in uno schema categoriale derivato in prevalenza dall’analisi delle società contemporanee, gli 21

American Anthropologist, 7, 1905

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ibidem: 251

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eventi di società del passato. Obiezioni simili tradiscono la ricaduta in uno storicismo di pretto stampo diltheyano, per il quale soltanto le categorie dei soggetti degli eventi studiati sono valide per comprendere il passato. Di fatto, gran parte della storiografia e della sociologia post-storicistiche hanno da tempo minato alla base l’ipotesi che coloro che partecipavano agli eventi si trovino in condizioni di privilegio per spiegare o per comprendere o interpretare gli eventi stessi, elaborando una serie di concetti strutturali la cui funzione preminente è di porre il contemporaneo in condizione di spiegare eventi del passato assai meglio di quanto non abbiano potuto fare coloro che parteciparono ad essi”. Dunque non è solamente giusto servirsene, bensì doveroso, opportuno, sempre però con un attento spirito critico. Intendo perciò avvalermi della vasta mole di informazioni raccolte dai cronisti della “Conquista”, a dispetto del fatto che questi raramente citano le fonti dalle quali ricavano le loro informazioni e della parziale inaffidabilità di narrazioni percepite ed interpretate attraverso il paradigma europeo e per di più trascritte in spagnolo e dunque probabilmente adattate alle esigenze lessicali di questa lingua. D’altra parte non possiamo neppure dirci certi che una interpretazione fedele dei racconti indigeni avrebbe un valore euristico maggiore: l’antropologia moderna ha da tempo posto in rilievo come la definizione che la fonte dà della sua realtà socio-culturale è generalmente inficiata da un processo cognitivo di autorappresentazione ideale. Potremmo cioè dire che solo la collaborazione tra ricercatore ed oggetto della ricerca può condurre ad un quadro abbastanza fedele della realtà empirica. E’ perciò chiaro che questa prerequisito è del tutto assente nel nostro caso: i cronisti non erano ricercatori preparati, non erano pronti a liberarsi di preconcetti e schemi acquisiti in Europa e nell’ambiente esasperatamente cattolicizzato del Perù, invaso dai coloni iberici e dai missionari di vari ordini religiosi. Alcuni di questi missionari erano però meticci, come è il caso di Garcilaso de la Vega e di Blas Valera, o nativi veri e propri, come è il caso di Juan Santacruz Pachakuti Yamqui, oppure erano animati da uno spirito diverso rispetto ai loro fratelli di fede; spirito che li rendeva più aperti nei confronti della cultura locale, tanto da spingerli a dedicare la propria esistenza alla raccolta del maggior numero di informazioni reperibili, al fine di salvare una cultura che non solo rispettavano, ma che addirittura avevano finito per ammirare ed idealizzare. Questo è infatti l’altro rischio che si corre quando si analizzano le cronache della Conquista non propriamente allineate con le direttive della Compagni del Gesù: ci dobbiamo confrontare con il frutto della cosiddetta ideologia indigenista, la cui affidabilità è inficiata dal proprio schierarsi apertamente a fianco dei nativi e delle loro lotte per una condizione più giusta e dignitosa. Uno di questi missionari indigenisti fu Giovanni Antonio Oliva, dei cui scritti mi sono avvalso per impostare la ricerca. A dire il vero fino al momento della scoperta del cosiddetto “Manoscritto di Napoli” non era per nulla chiara la sua appartenenza a quel movimento clandestino cresciuto all’interno dell’ordine gesuita di cui 17


parlerò più diffusamente nei paragraf 2.6 e 2.17. Ora però è stato appurato che la sua frequentazione di questi ambienti fu assidua e costruttiva e proprio questa famigliarità lo condusse a ricercare fonti inconsuete e certamente inaccettabili agli occhi delle maggiori autorità ecclesiastiche come gli ultimi discendenti di qualche famiglia di quipucamayoc, oratori inca ai quali veniva affidato il compito di custodire la storia del loro popolo. I brani che presenterò più oltre sono, almeno a suo dire, il frutto di una serie di “interviste” condotte dallo stesso Oliva nel Perù settentrionale. Vedremo in seguito come il contenuto mostri delle evidenti analogie con le cronache di altri missionari impegnati in quella stessa regione, analogie tanto lampanti da spingerci a chiederci se debbano essere ritenute prove a sostegno delle veridicità della cronaca olivana o se invece ci si trovi di fronte ad un vero e proprio plagio ai danni dei confratelli che erano stati colà inviati in precedenza. 2.2 LE TRADIZIONI INDIGENE Adolph Bandelier23 ha inteso raggruppare in tre grandi gruppi le molteplici tradizioni riguardanti l’arrivo di stranieri nel Sudamerica precedentemente allo sbarco degli Spagnoli: -

La prima famiglia comprende quelle narrazioni che accennano alla comparsa di strani individui o gruppi di individui quando il continente era già stato popolato da tempo;

-

La seconda annovera invece quelle che fanno menzione di antichi insediamenti americani costituiti da genti provenienti da regioni oltreoceano;

-

Nella terza famiglia troviamo le leggende che narrano di sbarchi avvenuti sulle costa nordoccidentale dell’America meridionale;

Ad esempio, nel caso della cronaca di padre de la Calancha 24 veniamo a sapere che uomini bianchi e barbuti, dopo essere sbarcati sulle coste brasiliane ed aver attraversato l’Amazzonia, erano giunti sul Titicaca predicando alla maniera di missionari. Là uno di loro era stato ucciso mentre l’altro aveva proseguito il suo cammino fino ad arrivare sulle coste del Pacifico, dove era scomparso. In Colombia, presso i Muisca ed i Chibcha, incontriamo Bochica, predicatore dalla lunga barba, scalzo e vestito con una specie di tunica. Questa categoria di leggende in genere fa riferimento alla figura di Wiracocha, una specie di semidio predicatore, che fu presto adottato come prova decisiva dai promotori della tesi secondo cui il Nuovo Mondo era già stato visitato dagli apostoli di Cristo, come ad esempio San Tommaso, o da discepoli non ben definiti in un periodo posteriore. Nel secondo caso invece abbiamo ad esempio le relazioni dei frati agostiniani sulla regione di Huamachuco, elaborate tra il 1552 ed il 1561, che hanno registrato la credenza locale nell’esistenza in un remoto passato di insediamenti di stranieri che si sarebbero in parte estinti con il passare del tempo ed in parte sarebbero 23

American Anthropologist, 7, 1905

24

“Corónica moralizada del Orden de San Agustin en el Peru”, vol.1, 1638, cap. II, III, IV e X

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emigrati senza più fare ritorno. Secondo Cieza de Leon, come si evince dalla sua Cronica del Perú, un capo indigeno un giorno si diresse vero il Titicaca e trovò en la isla mayor que tiene aquel palude gentes blancas y que tenian barbas, con los cuales peleó de tal manera que los pudo matar á todos25. Lo stesso Oliva riferisce che un numero imprecisato di stranieri sbarcarono lungo la costa del Venezuela, nei pressi di Caracas, per poi spingersi nell’interno, fino a raggiungere Santa Elena nell’Ecuador e poi per mezzo di una lunga navigazione costiera, nel Perù meridionale ed in Cile. E’ importante notare che mentre nella Historia del Perù Oliva propone la tesi che questi stranieri provenissero dall’Atlantico, nel documento di Napoli la prospettiva cambia e gli stranieri vengono identificati anche con dei Tartari sbarcati direttamente in Messico e poi in Perù dopo aver attraversato il Pacifico. Ad ogni modo, come rileva anche Bandelier (op.cit.), le sue fonti sono sempre di seconda mano e sono persistentemente inficiate dalla sue personali convinzioni sul popolamento del Nuovo Mondo26. Lo stesso discorso vale per Montesinos che nella sua “Memorias antiguas historiales y politicas del Perú” narra l’arrivo sulle coste peruviane in seguito al diluvio di popoli provenienti dal Cile, dalle Ande e dai mari del sud. Ma il cronista che forse più di tutti si lasciò prendere la mano dai preconcetti occidentali fu Miguel Cabello de Balboa, secondo il quale i Cileni che vivevano in Patagonia erano i discendenti dei Nayres, ossia dei pirati marittimi provenienti dalla costa di Malabar, in India27. 2.3 IL “CASO OLIVA” E LA RICERCA ETNOSTORICA DI R.T. ZUIDEMA La ricerca prende le mosse dalle cronache di un gesuita italiano vissuto tra il XVI ed il XVII secolo, Giovanni Anello Oliva, che, operando nell’ambito dell’evangelizzazione del Perù, non acquisì la fama di altri predicatori e cronisti della Conquista, ma si rivela ugualmente fondamentale grazie allo zelo che lo contraddistingue e che lo induce ad impegnarsi febbrilmente nella raccolta di una grande mole di informazioni talora assolutamente originali sulle culture locali e sulle opere dei suoi confratelli. Oliva, a suo modo, si propose di portare avanti un’inchiesta sociale e storica di vastissima portata, intendendo presentare ai suoi superiori del materiale inedito che desse lustro alla sua figura e contemporaneamente risollevasse indirettamente le sorti dei nativi, che certo non godevano di grande 25

Bandelier, ibidem

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Parts of his material, so far as based on local tales, may contain a nucleus of primitive Indian recollection, but it is manifestly woven into a general story highly colored by European ideas (Bandelier, op.cit.: 255)

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Essi fueron el origen y cepa de los Yndios de Chile, de quien tambien descienden los Chiriguanaes (ó mejor diciendo) Chiliganaes; de estos fueron fabricadas aquellas fortalezas estrañas que en Ayavira, y Tiaguanaco (y en otras partes de este pedazo de mundo) se an visto. […]. Se metieron en a tierra austral, y de allijamas se tuvo nueva y noticia de ellos. La entrada que ellos añide en la nuestras Yndias es congetura por la s razones que los Yndios antiguos dan para tenerla por las antiguas tradiciones de sus mayores que les decian que de acia aquella parte del Mundo avian venido estos pestilentes tiranos, y la misma razon dan los de Chile señalando su venida de acia el estrecho aquien llamamos Magallanes (Da Bandelier, ibidem, nota 19)

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stima in seno alle alte cariche ecclesiatiche e laiche, fatta eccezione per pochi personaggi di notevole caratura. I dati che questa sorta di antropologo italiano ante-litteram ci ha trasmesso sono però inficiati da due grossi limiti congeniti ad ogni ricerca condotta dagli Europei del primo periodo seguente alla conquista: il primo è l’incapacità di mettere da parte preconcetti e criteri tipici della cultura e della mentalità europea; il secondo è l’assoluta assenza di definizione precisa delle fonti, se escludiamo il richiamo ad un fantomatico quipucamayoc, il cui nome e la cui pretesa discendenza gettano comunque grosse ombre sulla sua attendibilità. Tuttavia Oliva ha un grande pregio, quello di aver fornito una versione dell’origine della civiltà inca che risulta totalmente diversa rispetto a quella che venne fornita ai cronisti stabilitisi a Cuzco e che sembra invece essere stata influenzata da alcune credenze che tradizionalmente si ascrivono ai popoli della costa peruviana settentrionale. In pratica, mentre la stragrande maggioranza dei colleghi si trova concorde nell’affermare che gli Inca provenivano dalla zona del Titicaca o comunque da una regione non troppo distante dal Cuzco, Oliva, incurante di andare contro la versione ufficiale e pressoché universalmente accettata, sostiene che i dati in suo possesso testimoniano come questo popolo non fosse nativo del Nuovo Mondo ma provenisse dalla Tartaria, al Cina di allora. E’ chiaro che, nel riprendere le sue teorizzazioni, io non intendo da recredito ad un’ipotesi di tal genere, che del resto è screditata dai dati archeologici ed antropologici, ma è d’altronde anche chiaro che Oliva fu solamente il portavoce di un movimento gesuita clandestino che cercava di tutelare la dignità dei nativi in qualunque modo possibile, anche avvalendosi di tradizioni arbitrariamente modificate. Ciò dovrebbe indurci ad ignorare le ricerche del Nostro, se non fosse che queste credenze esistevano nel nord del paese, più precisamente tra i Chimù, ed esisteva anche una tradizione incaica che collegava la genesi del mondo al cammino “demiurgico” di una specie di antenato totemico peruviano divinizzato, tale Apu Kon Tikse Wiracocha (o Koniraya Wiracocha), il quale, supremo artefice dell’universo, non si negò una lunga peregrinazione attraverso le terre da lui create, con la relativa assegnazione ad ogni popolo del suo proprio territorio di stanziamento e luogo di culto. Come segnala Mario Marchiori 28, “il fatto che in questo mito si parli di luoghi che furono incorporati nell’impero incaico relativamente tardi lascia supporre che questa versione sia il risultato dell’incorporazione, operata dagli Inca stessi per consolidare il loro impero, di miti originariamente locali”. Ad ogni modo, comunque si voglia interpretare il significato delle tradizioni mitologiche peruviane, non si può minimamente negare che nessuna leggenda sull’origine degli Inca può essere assunta come riferimento storico accettabile. D’altra parte seppure è corretto assumere che le cronache spagnole presentino delle rappresentazioni mitiche del passato che non possono essere intese in senso letterario come fa Zuidema29, è al contrario assolutamente ingiustificabile la pretesa dello stesso Zuidema di stabilire cosa sia realistico o cosa sia mitico tra i dati espunti dalle medesime cronache. Se 28

Marchiori, 1999: 175

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infatti la replica potrebbe essere che mentre le informazioni sulla struttura sociale e sui rapporti di potere in campo economico e politico furono osservati direttamente dai missionari, la storia incaica ci può essere svelata solo dallo studio dei reperti archeologici; ma allora io mi chiedo come ci si possa dire certi che i gesuiti non abbiano visto ciò che avrebbero voluto vedere, o ciò che gli Inca stessi intendevano mostrare loro, o ciò che i loro parametri di lettura e comprensione della realtà concedevano loro di vedere; ed un altro interrogativo che rivolgo a Zuidema ed a Duviols è quello di come possano pretendere di delineare una società sulla base dell’arbitraria assunzione di validità di un brano di una cronaca spagnola dopo aver affermato che queste stesse cronache non possono dirci nulla di veridico a proposito della storia degli Inca. Le cronache vanno dunque bene per la società ma non per la storia? Oppure dovremmo forse concludere più cautamente che sarebbe meglio evitare di definire alcunché senza prima aver istituito dei paragoni non tanto tra cronaca e cronaca, ma tra dati estrapolati dalle cronache in questione ed altri dati, anche non inerenti alla regione peruviana, che ci vengono forniti dall’archeologia e dall’antropologia. Allo stesso tempo sembra ragionevole che gli studi strutturalisti nel campo dell’andinistica – che nonostante gli evidenti limiti considero fondamentali – siano destinati un giorno a trarre grande giovamento nel loro sviluppo e nelle loro conclusioni da altre fonti d’ispirazione quali l’analisi iconografica e l’antropologia simbolica. Non è d’altronde per nulla casuale che la mia relatrice si stia occupando proprio dello studio dell’iconografia incaica e preincaica e che il presente lavoro cerchi di presentare una mediazione tra antropologia strutturalista, antropologia interpretativa ed antropologia simbolica à la Eliade. La ragion d’essere di questo secondo capitolo è quindi quella di dimostrare che il clima culturale e dottrinario del periodo ha pesantemente influenzato i cronisti della prima fase d’”ispanizzazione” della futura America Latina. Così si è resa necessaria una ricerca su più ampia scala, che ha spaziato dai confratelli di Oliva agli studiosi europei del tempo e che ha rilevato come le teorie di Oliva non fossero affatto isolate, ma anzi mostrassero evidenti i sintomi del dibattito che si era scatenato in Europa all’indomani della scoperta del Nuovo Mondo e dell’umanità che lo popolava. Da dove provenivano queste genti? Erano figli del demonio o avevano ricevuto in una qualche misura il messaggio evangelico? Potevano essere considerati di pari dignità rispetto ai conquistatori europei? Oliva si mantenne sempre ai margini di questo dibattito, cercando per tutta la vita una risposta originale a questi quesiti. Fino al 1989, gli studiosi che si occupavano dell’analisi dell’allora unica opera di Oliva pervenutaci, l’”Historia del Peru”, potevano affermare senza tema di smentita che, a differenza dei cronisti che lo avevano preceduto, il gesuita napoletano, pur manifestando una chiara tendenza al monogenetismo di stampo acostiano, non s’interrogava minimamente sull’origine dei 29

I would consider the whole of Inca history up to the time of the Spanish conquest, and even to a certain extent beyond, as mythological. Inca «history», then, integrated religious, calendrical, ritual and remembered facts into one ideological system, which was hierarchical in terms of space and time. This Incaic hierarchical ideology should not be confused with the Western linear conception of history imposed by the Spanish (citato in Bauer, 1992: 39).

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nativi americani. Ciò è testimoniato dal fatto che ad essa Oliva abbia dedicato poche righe all’interno di una ricerca paradossalmente molto approfondita e dichiaratamente intesa a chiarire diversi aspetti della civiltà incaica. All’apparente scarso interesse che Oliva dimostrava nei confronti delle origini incaiche, faceva d’altra parte da contraltare la grande profusione di aneddoti e dettagli più o meno significativi e credibili, almeno ai nostri occhi, dedicati alle vicende che avevano condotto quel popolo a diventare la potenza egemone del Sudamerica fino all’arrivo di Pizarro. L’unica spiegazione possibile di questo contrasto era da ricercarsi nell’esiguità delle fonti preincaiche locali. In effetti gli Inca si erano impegnati con intenso fervore in una sistematica opera di distruzione di tutto ciò che avrebbe potuto far sospettare ai sudditi dell’Impero che prima del suo avvento erano esistite culture per certi aspetti anche più brillanti di quella incaica. Si poteva dunque ipotizzare che Oliva si fosse trovato di fronte ad una sorta di “muro di gomma” che gli aveva impedito di trovare una risposta che non fosse vaga ed insufficiente. Questa presupposizione potrebbe essere venuta meno recentemente (1989), grazie alla scoperta in una collezione privata di Napoli del cosiddetto “Manoscritto di Napoli”, raccolta di scritti segreti di alcuni gesuiti, tra i quali appunto Oliva, che dimostrano come all’interno dell’Ordine esistessero delle correnti di pensiero in contrasto con la politica filo-spagnola del Padre Generale Aquaviva e che furono costrette alla clandestinità dal rigore di quest’ultimo. La spregiudicatezza di Oliva emerge ora prepotentemente, tutelata dalla segretezza assoluta nella quale era tenuta questa raccolta di cronache. Il Nostro sostiene di avvalersi della narrazione di un sapiente inca di autorità indiscussa (a suo parere), il quale si dice sicuro che il suo popolo non fosse americano, provenendo da oltre l’oceano, dalla Tartaria. Aggiungeva poi che, una volta sbarcati in America, i suoi antenati scoprirono che le nuove terre erano già abitate non solo dagli autoctoni, costruttori di piramidi o selvaggi che fossero, ma anche da altre genti immigrate da occidente, dal mare del nord. Si può notare così che, forse volutamente, nel supposto racconto del quipucamayoc trovano conferma ambedue le principali teorie sul popolamento del Nuovo Mondo: quella che privilegiava la via marittima dall’Estremo Oriente (non specificatamente dalla Cina) e quella che insisteva sulla facile traversata che congiungeva l’Islanda alla Groenlandia ed al Nordamerica. Dal canto suo Giovanni Anello Oliva è certamente un cronista “sui generis”; giunto in Perù piuttosto tardi rispetto agli altri cronisti, rivela subito la sua forte passione per lo studio delle culture locali e per le ricerche d’archivio. I dati che egli raccoglie, sempre di seconda mano, come si è detto, vengono da lui comparati con le affermazioni di altri cronisti come Cieza, Acosta, Garcilaso ed Antonio de Herrera. Egli tuttavia sostiene di essersi avvalso della collaborazione di un quipucamayoc di Cochabamba, ossia un vero e proprio storico del Tawantinsuyu, tale “Catari”, il cui nome è però un termine aymará che significa “serpente velenoso”; ciò ci induce a pensare che questo supposto 22


quipucamayoc, non essendo di stirpe quechua, ben difficilmente poteva essere al corrente della vera storia degli Inca. D’altra parte sembra che abbia avuto accesso alle carte di uno dei cronisti più misteriosi e più degni di fede, il padre gesuita Blas Valera, che forse lo coinvolse nel grande progetto utopistico, portato avanti da un movimento indigenista nato in seno all’Ordine gesuita e di cui parleremo nel dettaglio più avanti. 2.4 ”HISTORIA ET RUDIMENTA LINGUAE PIRUANORUM”: UN’ORIGINE ASIATICA DEGLI INCA? Una decina di anni fa è stata rivelata l’esistenza di un documento gesuita che era conservato nell’archivio Miccinelli di Napoli. Costituito da dodici fogli redatti da due gesuiti italiani che erano stati inviati a predicare in Perù – Giovanni Antonio Cumis e Giovanni Anello Oliva – e da un gesuita dissidente meticcio – Blas Valera –, ha rivelato fin dall’inizio il suo scottante contenuto. Se infatti da un lato rivelava vicende sconcertanti riguardo alla storia inca, come la non autoctonicità di quel popolo e la vergognosa eliminazione dell’ultimo Inca tramite avvelenamento, d’altro canto sconvolgeva le teorie correnti circa l’assenza di un sistema di comunicazione non numerico tra gli Inca. La professoressa Laurencich Minelli ha provveduto ad indagare quest’ultima tematica mentre io ho ritenuto di poter impiegare le informazioni ricavabili dalla relazione di Oliva in merito all’origine degli Inca proprio per evidenziare come le fonti etnostoriche debbano essere utilizzate con somma cautela. Ecco qui di seguito il testo di Giovanni Anello Oliva: Ora, in rispetto alla tradizione c’è di famigliare a noi che gl’Inca parlano di un originario Diluvio, infra le varie leggende, che portò i Piruani a Caracas. La storia del Diluvio è similare alla nostra, ma quello che è stupido, a mio parere, è che i Capi vogliono far credere ad una loro origine divina, e mentono. Infatti, il Quipucamayoc Chauarurac mi mostrò uno di cotesti quipos colorato con differenti simboli colorati e mi lesse quello che vi era annodato, insomma era scritto co’ nodi. E vale a dire che, incirca 10 secoli prima di quest’anno Domini, un gruppo di esploratori e saggi coraggiosi della grande Tartaria si spinsero verso il Meridione Occidentale. Essi incontrarono nel vasto Mare del Sud, o sia Pacifico, numerose Insule che ne’ quipos erano denominate Tucaninapac, Sputo di Fuoco. Ivi si acconciarono con le popolazioni indigene pacifiche delle Insule e, succedendosi le generazioni, giunsero al Continente. Ivi, trovando le Terre occupate da Popoli costruttori di grandi piramidi, discesero nel XIII secolo ancora verso il Sud, ove si scontrarono con le bellicose genti delle coste, le quali deponevano le armi solo allorché scendevano dalle Alteterre Huomini di statura 23


dissimile, e vale a dire cioè circa due volte la loro, di Incarnado bianco, chiome folte ed il viso ricoperto di barba color dell’oro. Di qui è nata l’ingenua favola dei Giganti e della origine divina del Popolo Inca. Orbene, sì fatta gente bianca havea toccato il Continente all’incirca un secolo prima, come narra il kipu regale, della tribù di Tartaria, ma perseguendo una via marina differente, e vale a dire dall’altro mare, Popoli del Nord. Allorquando quelli della Tartaria affrontarono la gente bianca mostraron forza superiore al punto che la sterminaron quasi tutta. I superstiti si rimisero alla clemenza dei vincitori, i quali così agirono sempre con tutte le Popolazioni, le quali riconoscevano la loro superiorità. L’intelligentia di questo Popolo dell’Antico Continente, lo spinse a fondere sangue e cultura, al fine d’innalzare una nuova Stirpe su quelle Terre ove fu fondata la città di Tumbez. Havvenne però che, datosi le differenti razze pervenute ivi che per lingua vi fosse un danno sì come havvenne per la biblica Babele; se per la razza non fu così, per la ragione che piacque ai Capi di Tartaria, sì come occorre pe’l vin bruno mescelarlo con acqua pura, di unire la loro razza giallo bruna con i superstiti di bianco incarnado. E fu così che i futuri sovrani Inca eran dissimili per la pelle dal vulgo. In rispetto alla lingua, molto saggio risulta l’Inca Capac Yupanqui che impose la lingua quicchua ai Popoli dell’Impero. Di certo la Lingua Regale era quella di Tartaria. Ciò che fa ridere è che gli Inca non intendono far conoscere questa storia, mentre io trovo che è preferibile alla favola dell’origine divina. [...]. Nei quipos, com’io stesso lessi, una volta decifrata la chiave, era narrato che agli antichi Padri provenienti dalla grande Tartaria era nota la grafia e che ad essi s’ispirarono per i loro nodi verticali. Il testo successivo è invece la sintesi dei primi capitoli dell’opera fondamentale di Oliva, della quale non entrarono a far parte le informazioni di cui sopra, per ovvie ragioni di opportunità; infatti Oliva, in quanto italiano, non era propriamente ben visto dai gesuiti spagnoli che “dettavano legge” in Perù, e la pubblicazione di rivelazioni così sconvolgenti lo avrebbero reso terribilmente inviso, decretandone l’allontanamento dal Perù, luogo al quale il Nostro era ormai legato da forti sentimenti oltre che dall’obiettivo autoimpostosi di fare luce sulle radici culturali incaiche. Se da un lato questo documento, doveva servire a testimoniare nelle alte sfere gesuite che il Nostro era animato dall’intento di evangelizzare i nativi in accordo con i precetti ignaziani, rimane il fatto che nei capitoli in questione Oliva non si rassegna alla prospettiva di allinearsi totalmente alle posizioni ufficiali della Compagnia del Gesù Chiesa l’origine della più splendida civiltà del Sudamerica preispanico. La sensazione è che la seconda parte del testo sia strumentale al passaggio della prima attraverso le maglie della censura gesuita.

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2.5 “HISTORIA DEL PERU’ Y VARONES INSIGNES EN SANTITAD”: UN’ORIGINE NORTEÑA DEGLI INCA? In quest’opera di Giovanni Anello Oliva ritroviamo alcuni dei motivi già presenti nel documento di cui sopra: in forma più vaga per quel che riguarda la provenienza degli Inca, più dettagliata e più “fantasiosa” - se possibile - nel delineare la loro storia anteriormente alla presa del potere di Manco Capac. Manco è l’Adamo incaico nelle versioni ufficiali, il primo uomo che civilizza le lande circostanti il Titicaca e genera, assieme a Mama Ocllo, la stirpe dei futuri dominatori delle Ande. In questa versione assolutamente unica nel suo genere si scopre che la coppia primigenia non era figlia del Sole e della Luna, ma discendeva da Tumbe, un cacicco che guidava gli Inca al momento del loro arrivo in America, susseguente al Diluvio. Dapprincipio Oliva riferisce di non essere riuscito a individuare nessuna notizia sull’origine degli Inca, finchè non entrò in possesso di alcuni documenti regalatigli dal dottor Bartolomeo Cervantes, canonico della Santa Chiesa di Charcas, che erano stati redatti registrando i racconti di Catari, uno degli ultimi quipucamayoc. Ecco l’incipit ed il riassunto dei primi paragrafi: Digo que despues del diluuio general que ubo en el mundo y del qual tuuieron notiçia los Indios y tienen memoria del hasta el dia de oy llamandole Pachakuti. Los primeros que passaron a habitar esta tierra, (aora fuese por la mar por tempestad desecha como quieren algunos, aora por tierra como ventilan y defienden otros en especial el P.e Joseph de Acosta, aora saliesen de Africa, de Europa, o fuesen de la naçion hebrea, lo qual contradiçe el mismo Acosta a quien me remito, pues en cosa tan inçierta podra cada uno seguir la opinion que mas le contentare) aportaron a Caracas, donde poblaron y hiçieron alto; y de donde despues el tiempo adelante se fueron estendiendo en las demas tierras y prouinçias de Peru. Certuni si fermarono presso capo Sampu, l’odierno capo Sant’Elena, e vennero governati da un tale Tumbe o Tumba, che fece prosperare la nazione. In seguito, non essendo soddisfatto dell’estensione dei suoi domini inviò un’armata in cerca di nuove terre con l’ordine di tornare all’inizio dell’anno. Cosa che non avvenne. Oliva rileva che si riteneva che essi avessero popolato il Chile, il Perù ed il Brasile; ad ogni modo essi vennero dati per dispersi ed il re morì poco dopo. I successori, i suoi due figli, iniziarono a contendersi il trono finchè il maggiore e più saggio, Quitumbe, decise di emigrare con una parte della popolazione e fondò Tumbez, in onore del padre. Questa sua spedizione non comprendeva però la moglie incinta il cui figlio, Guayanay, cioè “rondine” (wayánay) in quechua, doveva divenire il reale capostipite degli Inca. Dalla nuova capitale del suo regno Quitumbe

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...despachò esploradores, estos llegaron al cabo de muchos dias por la costa de la mar a Rimac que es el paraje donde al presente esta fundada la ciudad de Lima...de donde se volvieron y dieron por relaçion la mucha e buena tierra que auian descubierto, aparejadas para nueuas poblaçiones pero que non auian hallado rastro de la gente que buscaban y que auia despachado su Padre Tumbe Nel frattempo il fratello minore, Otoya, conduceva un‘esistenza all’insegna del vizio e del dispotismo, minacciato dalle congiure, ma anche da una stirpe di giganti delle montagne, che riuscirono a farlo prigioniero per poi tiranneggiare ancor più ferocemente i suoi ex - sudditi. Ay tradiçion que estos gigantes llegaron alli por la mar en balsas y que eran tan grandes, y desproporçionados que tenian tanto uno dellos de la rodilla abajo, como un hombre ordinario en todo el cuerpo, y que hicieron unos posos hondissimos en peña viua que oy dia se ven con agua muy fresca y dulçe en la punta de Sancta Elena que es obra de gran admiraçion... [...]. estos gitantes serian semejantes y de la misma casta de los otros que aportaron en la nueua España y en el distrito de Hascala. Oliva poi spiega che la popolazione fu liberata da questa minaccia da un giovane di prodigiosa bellezza che, apparendo in cielo, li eliminò con il fuoco. Nel frattempo Quitumbe, essendo venuto a conoscenza della calamità, decide saggiamente di allontanarsi dal continente e, dopo aver fatto costruire delle zattere, si rifugia con la sua gente sull’isola di Puna, che si trova proprio di fronte a Guayaquil, quindi ancora nel territorio dell’odierno Ecuador. Ma il clima di quest’isola è troppo secco per il sostentamento di un popolo ed i nuovi coloni devono presto abbandonarla per tornare nell’Ecuador continentale. Y desde allì algunos de sus compañeros y vasallos passaron a las partes del Sur en contorno de los Charcas e del Cuzco. Pero Quitumbe como era hombre de buen entendimiento vino hasta Rimac juzgando que faltandole el riego del çielo para sus sementeras no le faltaria de la tierra en aquel rio: y assi en aquel paraje las hiço de regadio, y edificò un sumptuoso y costoso templo a Pachacamac, donde le hiço muchos sacrificios, cuyas reliquias duran hasta el dia di oy çerca de la çiudad de Lima. Fatalmente Quitumbe muore poco dopo ed è sepolto sulle montagne, secondo gli usi della sua gente. Il figlio secondogenito che lascia a governare il popolo, Thome, è però crudele e sanguinario: egli fa conoscere la guerra alle popolazioni locali ed inventa nuove armi per soggiogarli ferocemente. Nel frattempo la moglie di Quitumbe decide che il marito l’ha abbandonata e, spinta dalla rabbia, decide di sacrificare il figlio, che viene tuttavia salvato in modo rocambolesco da un’aquila che lo trasporta su di un’isola deserta. Oliva sorride nel sentire questa strana storia e commenta che molto più verosimile è che il giovane abbia subodorato i propositi vendicativi della madre e sia fuggito per evitarne la collera. Il destino di Guayanay è però segnato; infatti, una volta che ha stabilito di lasciare quell’isola per tornarsene sul continente, viene rapito da un popolo di “selvaggi” coperti di pelli che 26


navigano su canoe. Il capo lo rinchiude in una capanna, pensando di sacrificarlo alla prima occasione. Ma la figlia del capo se ne innamora e lo aiuta a fuggire in cambio della promessa di sposarla. Così i due innamorati terminano i loro giorni sull’isola dalla quale Guayanay era partito e che non fu scoperta dai continentali fino a che Thome, il figlio di Quitumbe, che regnava sulle terre che si estendevano da Quito fino a Lima, non promulgò un decreto che prevedeva la pena di morte per gli adulteri. Purtroppo per lui uno dei figli si era macchiato di questa colpa a sua insaputa e, sapendo che il padre non l’avrebbe perdonato, fuggì in canoa, incappando in una tempesta che lo condusse, guarda caso, sull’isola di Guayanay. Sorprendentemente, il figlio di Guayanay, chiamato Atau, termine che in Quechua indica la buona sorte in guerra e nelle imprese in genere30, non sapeva dell’esistenza di un continente. Quando ne viene informato dal cugino (entrambi non sapevano di essere parenti), esprime al figlio Manco, come sua volontà testamentaria, il desiderio che lui ed il popolo che abita l’isola e che, ancor più sorprendentemente, è già tanto numeroso che l’isola non lo può più sostentare, costruiscano delle zattere e si dirigano alla volta del continente, realizzando un sogno che la vecchiaia gli impedisce di concretizzare. Alla morte del padre Manco parte con la sua gente ...pusieron por obra su viage y para ello hiçieron, canoas, barcos y otros baxeles conforme la industria de aquellos tiempos y acabados con todos los mantenimientos y muebles que tenian se embarcaron çerca de doçientas personas hombres y mugeres, y muchachos y sin saber paradero de la nauegaçion se entregaron a las olas y a lo que la fortuna quisiesse disponer dellos. Diuidieronse en tres esquadras con pacto y conçierto que de donde quiera fuesen a pasar se auisassen unos a otros y que jamas en occasion alguna fuesse contrarios. Las dos que fueron a la vuelta de Chile y al estrecho, nunca en mucho a〉os se supo dellos y Manco con la gente que le siguio aporto acia la costa de Rimac. Sfortunatamente il giorno dopo in mare ci fu una grande tempesta ed in terra si susseguivano le scosse di terremoto, così decisero di spingersi più sud. Vinieronse costeando contra la corriente y fuerça de los vientos y al cabo de muchos dias aportaron a Ica y entonces llamaron a aquella tierra y costas Rimac que quiere deçir que habla, por que los temblores de la mar y tierra y ruido que haçian pareçia que hablaba y aora se llama corruptamente Lima. Come si può notare si è creata una grandissima confusione: Manco sbarca a Rimac, e si dovrebbe supporre che fosse la regione del rio Rimac, dove Quitumbe aveva eretto il tempio di Pachacamac; ma in seguito si scopre che per Oliva si tratta della zona di Ica, distante 250 km in direzione sud. Ivi giunti stabilirono che non avrebbero mai ritentato la sorte navigando nell’oceano e si mossero immediatamente verso l’interno, superando valli, monti e fiumi fino a giungere 30

Jesus Lara, 1971

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sull’altopiano del Collao, dove si fermarono sulle rive del Titicaca. Fu allora che Manco Capac prese in mano la situazione ordinando alla sua gente di sparpagliarsi per avvertire gli indigeni che il figlio del sole era giunto tra loro per governarli secondo le leggi del padre. Esta pues fue la astuçia y sagaçidad grande que tuuo Manco Capac para començar a entablar y estableçer su reinado y monarquia, haçer creer a aquella gente barbara y gentil como el era hijo del Sol y de la Luna y en effecto le valio y se le logro la traça por que apartandose de la gente con esta orden el tomo la costa de mano izquierda y lo mas ocultamente que pudo al cabo de muchos dias padeçiendo no pocos trabajos y mucha hambre, sustentandose de unas yerbas que llaman Chucan y pilli; fue a dar a un puerto que llaman Mamaota legua y media del Cuzco, donde estan tres cueuas, metiose en la de medio que llaman Capactoto que quiere deçir ventana real... In seguito si constata che l’espediente di Manco funzionerà a meraviglia: gli emissari preparano la popolazione all’arrivo del figlio del Sole, il quale effettivamente appare su di una collina, vestito di oro e risplendente come un astro, convincendo le masse della sua natura divina e dando così inizio al regno degli Inca.

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2.6 I “GESUITI ANOMALI”: GIOVANNI ANELLO OLIVA, GIOVANNI ANTONIO CUMIS, ILLANES E VALERA In entrambi i suoi testi Oliva ha il merito di aver dato voce alla tradizione incaica norteña, da sempre ignorata in favore di quella istituzionale di Cuzco. Inoltre in trent’anni di permanenza in Perù doveva aver acquisito una conoscenza quantomeno discreta della lingua quechua, il che lo rende degno della massima attenzione. D’altra parte è anche vero che il suo carattere lo spinse a prendere posizioni nette e contrastanti rispetto alla volontà delle alte gerarchie ecclesiastiche. A tutti gli effetti le sue opere sono solo in parte didascaliche e divulgative. Sappiamo – e lo vedremo meglio in seguito - che Oliva fece parte di un ristretto ed abbastanza misterioso circolo di gesuiti, dediti allo studio delle culture locali nell’intento di rendere loro giustizia. Lo conferma il giudizio di un esperto dell’opera di Oliva, ossia Carlos Galvez Peña, il quale, nell’edizione del 1998 dell’opera di Oliva in questione, scrive Hay en el fondo de su obra la convicción en la dignidad humana de los indios, creencia medular che lo había llevado a seguir a otro humanista de su Orden, el P. José de Acosta, una figura centrale nel contesto della cronachistica gesuita, quest’ultimo. Sappiamo che alcune sue dichiarazioni dovevano guadagnarli la furiosa ostilità di alcuni potenti gesuiti spagnoli, molto preoccupati a causa della “cattiva” influenza dei gesuiti italiani in Perù. Carlos Galvez Peña (op.cit. XXV, nota 13) osserva che en la obra del P.Vargas, “Biblioteca peruana”, se hace referencia a un documento especialmente revelador de este clima agitado y nada “fraternal” en el que vivió Oliva. Si tratta di un memoriale nel quale se refiere con particular énfasis a los italianos que no vienen…como misioneros, sino a ocupar puestos de gobierno. E’ in particolar modo sul tema della valutazione della dignità umana degli indigeni americani che si consuma la frattura fra i gesuiti italiani e umanisti (gesuiti e non) spagnoli. Nessuno stato o signoria italiano aveva il benché minimo interesse nelle Americhe, a causa della posizione geografica della nostra penisola, che si trovava separata dall’Atlantico proprio da quelle potenze coloniali iberiche che si sarebbero divise la futura America Latina. Il papato invece si trovava impegnato nell’organizzazione del piano di evangelizzazione delle nuove terre. La creazione della Compagnia del Gesù (1534) venne così approvata da papa Paolo III (1540) ed incaricata di fare opera di proselitismo in Estremo Oriente e nel Nuovo Mondo. E’ importante distinguere, almeno per quel che riguarda il caso Oliva, tra gesuiti italiani e gesuiti iberici, perché sappiamo che all’inizio del XVII secolo si formarono due fazioni gesuite divise proprio dalla provenienza dei propri simpatizzanti. Da una parte troviamo i gesuiti italiani, spesso poco ortodossi, come è il caso di Oliva e Cumis appunto, ma anche di Matteo Ricci e Martino Martini in Cina, e dall’altra soprattutto quelli spagnoli. In verità 29


non esistevano confini netti, ma solo dei poli di attrazione contrapposti, che riproducevano nel contesto gesuita il dissidio tra latifondisti e missioni, specialmente in Messico, scaturito fin dall’inizio della colonizzazione a causa di una diversa visione dei vinti. Da una parte erano schierati i coloni, fautori delle encomiendas, cioè di una forma di schiavitù legittimata dalla necessità di condurre gli indigeni sulla retta via. Già nel 1511, il frate Antonio de Montesinos si rivolge in una predica ai coloni con queste parole: “Questi, non sono uomini? Non hanno anime razionali? Non siete obbligati ad amarli come voi stessi?”. La giustificazione di questo sistema di asservimento veniva ricercata nel pensiero tommasiano, che aveva distinto due tipi di dominio, uno “reale”, che consisteva nel “governare uomini liberi e sudditi per il loro bene e utilità”, e l’altro “dispotico”, che “è come da signore a servo”. Il licenziato Gregorio applica questo secondo modello agli indios, che ritiene giusto, dal momento che “si applica verso coloro che per natura sono servi e barbari, quelli che mancano di giudizio e di comprendonio, come sono questi indios, che secondo l’opinione di tutti, sono come animali che parlano”. L’encomienda diviene dunque un “mezzo molto più conveniente (della libertà) per ricevere la fede e continuare a perseverare in essa”. L’aspetto più sgradevole di questa disputa fu che un sotterfugio per ottenere manodopera gratuita si trasformò in un pregiudizio duro a morire anche per gli stessi ecclesiastici, molti dei quali conclusero che non valeva la pena di sprecare delle energie per degli esseri che non erano del tutto umani, quindi non adatti ad accogliere il messaggio e tantomeno i sacramenti. Così, mentre negli ambienti coloniali colti dilagano concezioni poligeniste del popolamento del mondo, che sanciscono come gli Indios non fossero discendenti di Adamo, ma di altro ceppo umano, e quindi non avessero la medesima dignità, oltre che le stesse potenzialità, degli Europei, dall’altra parte della barricata si sviluppa un acceso dibattito monogenista. Questo, come abbiamo visto, cercava di dare una risposta al quesito posto dall’esistenza di culture evolute in zone così distanti dal mondo civile e che allo stesso tempo sperimentava nuove forme di inculturazione degli indigeni tramite le “reducciones”, soprattutto ad opera dei missionari italiani che non erano invischiati negli interessi economici dei coloni. In questo periodo si consuma anche la frattura tra gesuiti italiani ed umanisti italiani. Abbiamo dunque constatato che all’interno dell’ordine gesuita esistevano delle correnti di pensiero che si distaccavano, talora in maniera drammatica, da quello che doveva essere l’indirizzo ufficiale, stabilito dalle alte gerarchie dell’ordine stesso. Così non fu certo un caso se il manoscritto di Napoli fu redatto da gesuiti non propriamente “in linea”, come Giovanni Anello Oliva, Giovanni Antonio Cumis e Pedro de Illanes. I primi due gesuiti subirono spesso la reazione dei loro superiori a causa di atteggiamenti non sempre idonei ai loro incarichi; così a Cumis fu impedito il trasferimento in Cina, mentre ad Oliva non fu concessa la pubblicazione della sua prima opera (Varones…). Pedro de Illanes operò in un periodo posteriore, quando l’Ordine cominciava già a risentire delle pressioni 30


politiche dei regni cristiani, sempre più insofferenti verso le continue intromissioni dei gesuiti nei loro affari interni; si può dunque dire che i superiori avevano problemi ben più gravi del perseguimento di missionari recalcitranti. Eppure Illanes esprime opinioni del tutto affini a quelle dei gesuiti che redassero il manoscritto. In un passo del documento di Napoli, in cui Illanes s’interroga sull’identità degli autori del manoscritto sulle origini degli Inca e del loro sistema di scrittura, leggiamo: “Chiunque egli sia (pensava vi fosse stato un solo autore), ha scritto una pagina di storia veramente drammatica: è poco, senza dubbio, ciò che resta dell’antica Gerusalemme sulla quale passarono, violenti e devastatori, i Conquistadores. Dio ne abbia misericordia…”. Dunque per Illanes, nel 1737, era ancora del tutto naturale l’ereticissima associazione tra il Tawantisuyu e la “Città di Dio” agostiniana. Infine abbiamo Blas Valera, del quale Giovanni Antonio Cumis dice che “per l’intero popolo dei Piruani, essendo egli meticcio, fu non solo guida spirituale, ma soprattutto loro difensore…il quale ebbe molti fastidi dai suoi stessi confratelli, per il fatto che s’era schierato contro le torture della queshua che gli Spagnoli praticavano per estorcere l’oro…non voleva che alcuni di essi (i sacerdoti cristiani), falsamente col nome di Gesù Cristo sulla bocca, accusassero di idolatria il popolo…in quanto la religione da esso professata era molto simile a quella Cattolica”. Lo stesso Oliva dichiara che “tutte le religioni hanno fondamenta comuni” e, parlando dei quipu, “molti preti, datosi che in essi si celavano fondamenta d’una Religione non dissimile dalla Nostra, finsero con l’ipocrisia ch’eran esse corde idolatre e pure le brugiarono, altrimenti si vanificava l’opera di Evangelizzazione”. In un importante brano, dedicato alla figura di Huayna Capac, undicesimo Inca, Oliva esprime la sua convinzione che il vangelo sia stato in qualche modo percepito dagli indigeni anche prima dell’arrivo dei missionari. E’ il fol.74v. nel quale si apprende che l’Inca si era permesso di non piegare la testa di fronte al padre Inti, il Sole, motivando questa sua condotta sacrilega con un ragionamento tanto arguto, che era stato in grado di convincere il Gran Sacerdote. Oliva ne “riporta” le parole: …yo como soy vuestro Rey y Señor Universal, ¿avría por ventura alguno de vosotros tan [atrevido] que por su gusto me mandasse levantar de mi assiento y [hacer] un largo camino? Respondióle el saçerdote, ¿Quién avría tan desatinado como esto? Replicó el Inca, ¿y avría algunos de mis vassallos, por mas rico e poderoso que fuesse que no me obedeçiesse, si yo le mandasse yr por la posta de aquí a Chile? Dixo el saçerdote: no Inca…. In seguito a questa risposta l’Inca convinse che stando così le cose solo un essere più potente poteva costringere il Sole a seguire costantemente la traiettoria celeste ad esso assegnata, di qui l’inutilità di mostrare devozione verso un servo. Oliva commenta queste conclusioni dell’Inca affermando che, se i missionari fossero giunti a quel tempo, sarebbero certamente riusciti a convertirlo alla vera fede, dato che il seme era stato già gettato dalla divina provvidenza. Il miraggio di una comunità umana unita da una stessa credenza pervadeva dunque questi confratelli, fino al punto da far loro intravedere la possibilità che le sue 31


fondamenta fossero già state in qualche modo gettate prima dell’arrivo dei Conquistadores. Questo per merito delle riflessioni di alcuni individui particolarmente ispirati, o per una predicazione diretta da parte di cristiani (nestoriani o persino apostoli) spintisi fin laggiù secoli addietro. 2.7 LE PRINCIPALI FONTI DI OLIVA CIRCA L’ORIGINE DEI PERUVIANI: CAMPANELLA E DE LA CALANCHA Tommaso Campanella, pur se monogenista, in accordo con le Sacre Scritture, è fautore della tesi della progressiva corruzione della stirpe noachica approdata in America e quindi della giustezza della punizione degli Indios da parte degli Spagnoli che, umiliandoli, divengono strumenti della volontà provvidenziale. Campanella sostiene che le Sacre Scritture menzionano il Nuovo Mondo con Mosé, che sostiene che i figli di Javan raggiunsero le isole, con Cristo, che dice di voler raccogliere con sé anche “le altre pecore, che non sono di quest’ovile”, ed infine con Esdra che, ispirato dall’Altissimo, parla dello stretto che si deve oltrepassare per regnare sopra il vasto mare. Nella prospettiva monogenetista che dominava gli ambienti ecclesiatici del tempo, intensamente impegnati a replicare alle teorie poligenetiste “libertine”, era naturale che le Americhe non potessero essere intese come un mondo assolutamente estraneo a quello biblico-cristiano. Ciò avrebbe significato abdicare dalla missione suprema del suo completo inglobamento realizzato con l’evangelizzazione e con la costituzione di una monarchia universale cattolica. Di conseguenza per Campanella l’unica famiglia umana, che ha come capostipite Adamo, fu distrutta da Dio con il diluvio universale che separò, come testimonia Platone, il Vecchio dal Nuovo Mondo. Questo fu ripopolato da Noé, che provvide a mandarvi “colonie […] per la China ed il Giappone, ed empì di abitatori tutto il paese sin a Baccalaos e tutto il Perù”. Questi discendenti non ebbero la possibilità di ricevere la parola di Cristo, e per questo continuarono a peccare. Calancha dal canto suo sosteneva l’ipotesi tartara, perché anche lui non era rimasto indenne dalla “fascinazione” europea verso questo popolo: pertanto si può affermare che è altamente probabile che Oliva e Calancha abbiano tratto dalla stessa fonte gli spunti più significativi. Gliozzi (ibidem, 400) nota che “l’ipotesi di una loro derivazione (degli indios, nota mia) dai Tartari intende garantire, da un lato, la loro convertibilità (derivante dalla loro natura di gentili) e, dall’altro, la necessità di sottometterli ad un dominio politico (cioè alla legislazione regia) che corregga la loro originaria barbarie”. Calancha, sempre citato da Gliozzi (nota 96) nota che se anche “i Tartari hanno molte cerimonie dei Giudei” (giacché infatti “si circoncidono, osservano le tre Pasque, e le loro famiglie, che essi chiamano orde, hanno nomi ebrei, [come] Dan, Nephtali, Zabulon”) queste le appresero non dalle dieci tribù, ma da ebrei con cui vennero in contatto seicento anni dopo Cristo, mentre “il Perù fu 32


popolato più di duemila anni prima”. La caratteristica principale di Oliva sembra dunque essere quella di piegare le fonti ai propri scopi in questo grande disegno, che cerca di conciliare tutte le teorie espresse in merito alla cultura locale da autori laici e confessionali con l’autoriflessione degli indigeni e con il paradigma fideistico del clero indigenista. 2.8 ALTRE POSSIBILI FONTI: ÑAYMLAP E TACAYNAMO Sappiamo che nel Perù settentrionale circolavano insistentemente leggende riguardanti gli antenati degli indigeni, descritti localmente come genti venute da oltreoceano a colonizzare le coste 31. La “Historia del Reino de Quito en la América Meridional” (1841) di Juan De Velasco, ripresa da Stornaiolo (1975: 15) conferma che tra i Cara dell’Ecuador si tramandava il ricordo di uomini giunti a bordo di zattere e che avevano fondato la capitale dei Cara, Caráquez, ossia la città dei Cara. Da notare che nel Manoscritto di Napoli si parla proprio della città di Caracas, quale luogo di approdo dei “Tartari”, approdatavi in seguito al Diluvio. Le vicende di queste genti antenate dei Cara, si sovrappongono non certo per caso con quelle dei suddetti “Tartari” quando veniamo a sapere che la dispersione di questi nuovi coloni conduce alla formazione di un nuovo centro, Sumpa, governato dal sovrano Tumbe, i cui due figli, Quitumbe ed Otoya, saranno protagonisti delle medesime vicende trascritte da Oliva nell’opera “Historia del Perù”. E’ del tutto possibile che Oliva abbia subito il fascino di queste leggende ed in particolar modo del loro primo estensore, il padre gesuita Miguel Cabello de Valboa, malagueño di nascita e giunto in America a partire dal 1556, noto per la precisione delle sue cronache, redatte dopo aver minuziosamente esplorato gli altipiani e la foresta vergine dell’Ecuador e del Perù settentrionale, ma anche per essersi formato una pervicace convinzione riguardo all’origine dei nativi. Von Hagen (1987: 117) annota che “frate Juan de Orozcomán, un erudito francescano che in molti suoi scritti aveva già avanzato ipotesi sulle “origini”, così rispose a Cabello, avido di sapere: gli indiani erano Ebrei; essi discendevano “da Noè attraverso Sem ed attraverso Ofir pronipote di Noè”. Padre Cabello adottò questa tesi. Mentre era a Quito, aveva persino eseguito una mappa, ora perduta, per rappresentare queste migrazioni; egli si lanciò a dimostrare per mezzo dell’indagine che quegli indiani discendenti da Ofir avevano raggiunto il Sudamerica passando per le isole sparpagliate nel Pacifico, tra l’India e le due Americhe. Si può quindi supporre che Oliva altro non fece che

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Da “Saeculum Weltgeschichte” (p.377): ...es bestand in Ekuador eine Erinnerung, daß bei der Punta de Santa Elena in alter Zeit, wie zuerst 1544 durch Spanier aufgezeichnet wurde, aus dem Westen Flöße mit Segeln ankamen, deren Besatzung sich am Strand ansiedelte, dort Steinbrunnen baute, Fische fing und die Indianer durch Frauenraub und Kannibalismus belästigte, bis ein Feuer vom Himmel sie verbrannte. Von einigen Unwahrscheinlichkeiten abgesehen - ihrem angeblich riesenhaften Wuchs, Fellkleidung und dem Gebrauch von Flößen statt Booten - könnte das auf Schiffbrüchige von den Tuamotu - Inseln deuten, in deren Heimat man brunnenartige Pflanzgruben im Korallenkalk anlegt und die hervorragende Fischer sind.

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adottare questa ipotesi ed inserirla nella sua Historia et rudimenti... E’ quindi interessante leggere le cronache di Valboa, per constatare come vi siano delle analogie particolarmente interessanti. Kauffmann-Doig (1993: 365): “Secondo il cronista Miguel Cabello Valboa (ms. 1586, cap.17), la storia dei governanti di Lambayeque fino all’epoca Chimú è la seguente: “Dicono gli abitanti di Lambayeque (e con essi concordano tutti gli altri popoli di questa valle) che in tempi così antichi che non sanno enumerare gli anni, venne dalla parte estrema di questo Piru, con una grande flotta di zattere un...uomo di grande valore e prestigio chiamato Ñaymlap e con sé portava molte concubine....Portò con sé molte persone che, come capo militare e sovrano, lo seguivano...”. Questo signore Ñaymlap con tutto il suo seguito approdò e prese possesso della terra alla foce di un fiume ed avendo lì abbandonato le loro imbarcazioni si addentrarono nel territorio desiderosi di fermarvisi. Avendo camminato per circa mezza lega, fabbricarono alcuni palazzi a modo loro che chiamarono Chot ed in questi palazzi invocarono con barbara devozione un Idolo che avevano portato con loro che imitava nel viso il loro stesso condottiero, questo era scolpito in una pietra verde ed era chiamato Yampallec. Avendo questa gente vissuto molti anni in pace ed in quiete ed avendo il loro Signore e condottiero avuto molti figli, venne il tempo della sua morte, e affinché i suoi sudditi non capissero che la morte aveva potere su di lui, lo seppellirono occultamente nello stesso palazzo in cui aveva vissuto e diffusero per tutto il palazzo la notizia che egli, per il suo stesso potere, aveva preso ali ed era volato via. Fu così grande il dolore che provarono a causa della sua essenza quelli che lo avevano seguito quand’era arrivato che, sebbene avessero avuto un gran numero di figli e nipoti e fossero assai entusiasti nella nuova e fertile terra, abbandonarono ogni cosa ed esuli, e senza guida, senza sapere dove, si misero a cercarlo per ogni luogo ed in tal modo rimasero in quella regione solo quelli che erano nati in essa, e non erano pochi... ”. Kauffmann Doig ha riportato nella sua opera una versione molto più tarda della stessa leggenda, raccolta da M.Ruviños y Andrade (Ms.1782), duecento anni dopo Cabello Valboa del quale non conosceva lo scritto, che ora ripropongo reputandola una importante conferma della veridicità della prima versione: “Avendo alcuni Regoli, o cacicchi indi che erano signori di certi regni in alcune isole, combattuto lunghe guerre fra loro ed essendo stato battuto uno di loro dal suo avversario in una battaglia campale, fuggendo per salvare la vita fece salire su alcune zattere (che essi usavano) tutta la sua reale famiglia ed i servi più stimati assieme alle ricchezze che poté salvare da quella guerra e, abbandonandosi nelle mani della provvidenza e al capriccio delle acque, giunsero dopo innumerevoli traversie nelle quali pensavano fosse inevitabile il naufragio, sulla sponda del mare, alla foce di questo fiume di Lambayeque che entra in mare a due leghe di distanza”. Più oltre la leggenda prosegue come nella prima versione.

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Testimonianze di natura linguistica, citate da Ruviños, confermano che il progenitore (totemico) di Ñaymlap era l’uccello “Ñaymlap” che egli interpreta come “gallina d’acqua”, essendo guañayn il nome quechua del cormorano. Vorrei ricordare come il nonno di Manco Capac nel racconto narrato ad Oliva si chiamava giustappunto “Guayanay”: sembra dunque lecito poter affermare che il padre di Ñaymlap, possibile leggendario primo re di Lambayeque, possa essere idealmente identificato con Quitumbe. Ed infine una seconda leggenda molto affine, diffusa tra i Chimù al momento della conquista. Kauffmann Doig (ibidem): “I Chimú della valle di Moche, dove era situato il loro centro di potere, ricordavano le loro origini mitiche all’arrivo degli Spagnoli e le narrarono ad un cronista anonimo dei primi anni del secolo XVII. Si tratta della leggenda di Tacaynamo che giunse alla valle di Moche e fondò una dinastia di governanti; partendo da Moche questi sottomisero gli abitanti delle vallate vicine, da Tumbes a Pativilca, giungendo fino a Lima dove furono attaccati dagli abitanti della vallata e vinti a Maranga”. Ecco alcuni passi della cronaca: “Non si sa da dove fosse venuto”; “...fece intendere che era un gran Signore...”. Venne “in una zattera di legni”; “era stato inviato a governare questa terra...dall’altra parte del mare”. E’ noto che in Polinesia ed in Africa esiste una analoga contrapposizione tra il “popolo reale”, ossia i nativi, “figli della terra”, e l’élite dominante, la quale proviene dal cielo, o da al di là del mare; quindi non è per forza necessario chiamare in causa un’antica migrazione per spiegare questi mitemi. 2.9 JOSE’ DE ACOSTA ED IL DIBATTITO SULLE ORIGINI SINO-TARTARICHE DEI NATIVI AMERICANI Francesco Guicciardini (“Storia d’Italia”) così commentava la scoperta del Nuovo Mondo: “Né solo ha questa navigazione confuso molte cose affermate dagli scrittori delle cose terrene, ma dato, oltre a ciò, qualche ansietà agl’interpreti della Scrittura sacra, soliti ad interpretare che quel versicolo del salmo, che contiene che in tutta la terra uscì il suono loro, e nei confini del mondo le parole loro, significasse che la fede di Cristo fosse per la bocca degli Apostoli penetrata per tutto il mondo: interpretazione aliena dalla verità, perché, non apparendo notizia alcuna di queste terre, né trovandosi segno o reliquia alcuna della nostra fede, è indegno di essere creduto, o che la fede di Cristo vi sia stata innanzi a questi tempi, o che questa parte sì vasta del mondo sia mai più stata scoperta, o trovata da uomini del nostro emisferio”. In effetti due furono le principali reazioni degli interpreti delle Scritture di fronte a questa discrepanza: o esse si riferivano ai confini del mondo anticamente conosciuto, oppure qualche apostolo doveva per forza esservi arrivato.

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José de Acosta era un padre gesuita dalla lunga esperienza in terra peruviana che, nel 1590, diede alle stampe un’opera fondamentale per la conoscenza delle cultura e della società inca, l’”Historia natural y moral de las Indias”. In quest’opera erano contenute anche delle importanti riflessioni concernenti la possibile origine dei nativi americani. Giuliano Gliozzi, nel suo splendido studio sulle prime, ingenue teorie europee che tentarono di conciliare la tradizione biblica con la realtà dell’uomo americano (1973: 372 – 375), si sofferma attentamente su questa figura che, a suo dire, decretò con le sue considerazioni “un radicale mutamento di impostazione”. Egli infatti cercò una spiegazione razionale del tragitto dei primi popolatori dell’America in grado di tutelare il presupposto monogenetista edenico d’impostazione biblica di fronte agli attacchi della critica poligenetica libertina. Con questo obiettivo in mente Acosta respinge la derivazione degli Americani dagli Ebrei, dai Cananei, da Atlantide e da Ofir, introducendo nel dibattito la più semplice e la più vera delle ipotesi, quella della migrazione terrestre dall’Asia alle Americhe. 2.10

L’APPROCCIO “SINOGENETICO” PORTOGHESE E DI GEORG HORN Il Portogallo, fin dal XVI secolo, aveva iniziato, prima nazione europea, ad intrattenere fitte

relazioni commerciali con la Cina. Era quindi in una posizione privilegiata rispetto alla Spagna, alla quale ultima il trattato di Tordesillas aveva affidato l’egemonia su tutte le terre ad occidente del Brasile e ad oriente dell’Indocina (del parallelo che venne assunto come linea di confine tra le due aree di influenza). Non è difficile capire che in quel paese potesse godere di forti simpatie l’ipotesi che la civiltà cinese potesse essere all’origine delle conquiste culturali di Messico e Perù: questo avrebbe permesso ai Portoghesi di poter accampare diritti di commercio con delle colonie cinesi d’oltreoceano, seppure misconosciute dalla presunta madrepatria. Sempre il Gliozzi sintetizza nel suo voluminoso studio le opinioni degli “esperti” lusofoni (nota 57 di pag.387): “Già nel 1555 Antonio Galvão riferisce che i cinesi sostengono di essere stati i primi navigatori del mondo, e di essere giunti anche in “Nuova Spagna, Perù, Brasile, Antille, ed altre terre congiunte a queste”, popolando queste regioni, “come si manifesta nella conformazione e nei costumi degli uomini e delle donne: occhi piccoli, narici larghe, ed altre proporzioni che constatiamo”. L’opinione dei cinesi – che giungerebbero a chiamare l’America “terre della Cina” – appare a Galvão verosimile, perché la Scizia – di cui la Cina fa parte – fu la prima terra popolata dopo il diluvio, ed è giusto che da essa provengano “i più antichi popolatori, e navigatori”. La stessa tradizione è ripresa, nel 1600, dal gesuita portoghese João Lucena, al quale l’ipotesi sino-genetica appare del tutto verosimile, se solo si tien conto dell’”antichità della gente, e regno della Cina. Nel 1625 ancora un portoghese, Seraphim de Freitas, ripete che, essendo

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anticamente “la Cina padona del commercio e della navigazione di entrambe le Indie”, non stupisce che da essa abbiano potuto trarre “i costumi e l’origine gli indi occidentali”. Il tedesco Georg Horn (De originibus americanis libri quatuor, 1652), professore di storia, geografia e diritto pubblico all’università di Harderwyk, è forse la figura più curiosa ed originale. Per il suddetto studioso32 il Nordamerica fu popolato dagli Sciti, ossia dagli Unni, dai Turchi, dai Tartari e dagli Alani che giunsero colà in parte proveniendo da occidente, attraverso la Groenlandia, in parte dall’oriente, attraverso lo stretto di Anian. Tartare sono le popolazioni brasiliane: lo sta a dimostrare la loro “immane barbarie”, che li accomuna solo agli Sciti “nomadi ed antropofagi” e che si manifesta in molti tratti quali la poligamia, “il mangiare i nemici, l’infiggere le teste degli uccisi su lunghe pertiche, il dipingersi, il cacciare continuamente, il mutare sede alla maniera dei nomadi”. Ma in Messico ed in Perù si osserva una cultura superiore che non può essersi originata dalla barbarie scitica. Da chi potrebbero aver tratto “quel modo di vivere composito, gli artifici, le costruzioni, l’ordine civile, la scrittura, i libri, il grande ingegno adatto a qualunque applicazione” se non dalle fulgide civiltà dell’Asia?33. Horn elenca le analogie tra le civiltà dell’Estremo Oriente e quelle americane: identici sono “i riti funebri, l’uso di sigilli regi per gli atti di governo, l’esistenza di un consiglio di dodici senatori a fianco del monarca”, ma anche “le vestigia della Trinità, del battesimo, della santa cena, della penitenza, della circoncisione, delle mitre episcopali, della croce”. Tutto ciò non fu opera del diavolo mistificatore, ma dei Cinesi, i quali a loro volta erano stati influenzati dai Nestoriani.

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Gliozzi (ibidem, 502) “I Messicani, i Peruviani, i Cileni, e altre popolazioni più civili se ve ne sono, non trassero le loro origini da altri che gli abitanti del Catai, i Cinesi e gli Indiani orientali. […]. La presenza di Giapponesi, Coreani, “Cataini” e Cinesi” in molte regioni americane è documentata in maniera esplicita dalle affinità linguistiche ivi riscontrabili; ma ancor meglio è confermata dalle tradizioni locali del Perù e del Messico che narrano la storia di quei popoli. I Peruviani attribuiscono l’origine della loro civiltà a Manco Capac, il primo Inca che venne, quattro secoli prima della scoperta di Colombo, a civilizzare una gente incolta. Dagli indigeni, questo personaggio è considerato figlio del Sole, inviato dal cielo: ma – osserva Horn – non è questa un’allegoria di “uomini semplici” per significare che egli venne “per caso da una regione più colta”? e tutta la storia non è un ricordo confuso dell’arrivo in Perù di un intero popolo – cioè dei cinesi – dato che “nessuno potrebbe dubitare che (Manco Capac e la consorte, nota mia) sarebbero stati divorati dai barbari se fossero stati soli ed inermi”? Per parte loro i Messicani, che sono la gente più civile e più recente di tutte quelle che ebbe l’America, fanno risalire la loro origine a trecento anni addietro, e ciò coincide – sempre secondo Horn – con l’epoca in cui una spedizione di Cinesi, sconfitti dai Tartari, abbandonò l’Asia per raggiungere, con una lunga navigazione, terre più occidentali, cioè appunto le terre americane”

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2.11

L’APPROCCIO

“TARTAROGENETICO”

DI

TORNIELLI,

DE

LA CALANCHA E

BREREWOOD Tornielli, un barnabita italiano, ed Antonio de la Calancha, un agostiniano spagnolo, si propongono come due tra i più audaci detrattori della tesi giudeogenetica, secondo la quale il Nuovo Mondo era stato popolato dalle tribù perdute d’Israele. Tornielli è il primo a chiarire che la Tartaria, regione dalla quale partirono le genti che colonizzarono le Americhe, non ebbe mai nulla a che vedere con le 10 tribù disperse, essendo i Tartari discendenti delle stirpi giapetiche, cioè in ultima istanza di uno dei figli di Noé, Jafet. Calancha pose l’accento su alcuni passi della Bibbia, nei quali Dio prometteva a Jafet che i suoi discendenti si sarebbero estesi in tutto il mondo, senza limitazioni di terra. L’agostiniano fa notare come gli indios cileni abbiano gli stessi usi e costumi dei Tartari. Fu in Inghilterra che questo approccio trovò maggior seguito. L’astronomo – matematico Edward Brerewood (1614) sosteneva testualmente (Gliozzi, ibidem: 404) “l’origine degli americani dai Tartari piuttosto che da qualunque altra popolazione delle regioni asiatiche”. Ciò era dimostrabile grazie alla prossimità del Nuovo Mondo rispetto alle terre dei Tartari ma anche per il fatto che “in America non si riscontra alcun indizio delle arti e dell’industria della Cina o dell’India o del Catai o di altra regione cinese compresa nei confini asiatici; ma al contrario nella crassa ignoranza delle lettere e delle arti, nelle varie forme di idolatria, nei costumi incivili ed in molte caratteristiche di barbarie (gli americani) ricordano gli antichi e rudi Tartari più di ogni altra popolazione dell’universo”. 2.12

PERCHE’ I TARTARI? L’IMPATTO DELLA CULTURA EUROPEA CON IL CELESTE

IMPERO E CON I NOMADI DELLA STEPPA Paul Rivet (1973:3): “John Ranking, in un libro pubblicato nel 1829, fa intervenire i Tartari o Mongoli: verso il 1330, Kublai-Khan avrebbe tentato la conquista del Giappone, e la sua flotta, dispersa dalla tempesta, sarebbe venuta ad arenarsi sulla costa dell'America del Sud dove i naufraghi avrebbero fondato l'impero del Perù. Prima di Ranking, Hornius e Jean Laet avevano sostenuto una simile tesi”. E’ chiaro che dobbiamo chiederci il motivo della permanenza di questa credenza nel corso dei secoli. A partire dalle prime esplorazioni portate a termine in Estremo Oriente dai mercanti arabi e soprattutto dai frati francescani (XIV secolo), cominciò a giungere in Occidente un consistente flusso di informazioni sulla cultura cinese e su quella tartara. Tali informazioni erano piuttosto attendibili, almeno in raffronto a quelle offerte dai missionari attivi in India, i quali, non conoscendo il sanscrito, 38


interpretarono ciò che videro secondo i paradigmi culturali europei. Inoltre la presenza della stampa in Cina, inventata secoli prima che in Europa, permise la proliferazione di testi cronachistici, occasione più unica che rara per rispondere adeguatamente alla sete di conoscenza dell’esotico, che affliggeva i circoli culturali europei. La Cina mostrava di soddisfare tutti i prerequisiti per una proficua attività di predicazione: istituzioni stabili, dibattito culturale vivace, stampa, alto grado di ricezione, indussero l’Ordine dei Gesuiti ad inviare laggiù i suoi missionari più capaci, che a loro volta seppero trasmettere all’Occidente un quadro della cultura orientale davvero fedele alla realtà. Questi gesuiti non si limitarono a raccogliere informazioni sui costumi e le credenze, ma pubblicarono anche saggi che sintetizzavano le conquiste scientifiche cinesi, generando in Europa uno spontaneo senso di ammirazione per quel popolo così lontano eppure così evoluto34. E’ fondamentale capire che il medesimo abbaglio colpì quei gesuiti che entrarono in contatto con le “alte” culture americane; è curioso come in entrambi i casi si sia giunti fino a postulare l’avvenuta opera di predicazione in queste regioni da parte di missionari giunti in precedenza o addirittura apostoli spintisi in Oriente fin dagli albori del Cristianesimo. Così i Nestoriani, la cui eresia raggiunse il culmine della sua propagazione intorno al VII-VIII secolo d.C., nell’immaginario di alcuni uomini di chiesa non si erano fermati in Cina, ma si erano imbarcati giungendo in Messico, dove Lopez de Gomara (Historia de las Indias) aveva riferito della presenza di croci erette sopra tombe indigene nella penisola dello Yucatan. Lo stesso Gomara notava che “alcuni arguiscono che molti spagnoli si recarono in questa terra al tempo della distruzione della Spagna da parte dei mori, sotto il regno del re Roderico”. Quanto ai Tartari, all’inizio della loro incredibile parabola storica, erano stati considerati alla stregua degli Unni e dei Magiari, cioè come “epidemie”, che bisognava stroncare prima che queste distruggessero la civiltà occidentale. Quando ci si accorse che le loro erano qualcosa di più che semplici scorrerie, ma erano campagne militari organizzate che tra l’altro cagionavano gravissimi danni ai regni islamici, allora il punto di vista cambiò. I Francescani testimoniarono che i Tartari, dopo aver abbattuto i regni che incontravano nella loro inarrestabile marcia, dimostravano un’incredibile capacità di assimilarne i costumi, il che li rendeva particolarmente sensibili alla 34

Pietro Rossi e Carlo Augusto Viano (“Storia della Filosofia”, pag.246) spiegano che “i gesuiti in Cina ritenevano anzitutto che alcuni principi fondamentali delle credenze religiose cristiane potessero essere raggiunti con l’uso della semplice ragione naturale, anche senza l’aiuto della rivelazione. Non era pensabile che i sapienti della Cina antica, così evidentemente forniti delle più eccelse doti intellettuali, avessero ignorato del tutto quei principi. Contribuiva a rafforzare questa convinzione un’analogia corrente, istituita tra i filosofi pagani dell’Antichità ed i sapienti cinesi. Gli uni e gli altri dovevano essersi spinti nella ricerca della verità tanto avanti quanto era consentito dal lume naturale della ragione, restando ad essi sconosciuti solo i misteri rivelati. Inoltre, l’interdipendenza tra precetti morali e principi religiosi era da considerare come un’evidenza da non porre in discussione. L’ateismo avrebbe provocato la inevitabile caduta nei vizi più aberranti, mentre il popolo cinese, gentile, rispettoso e, almeno in apparenza, ossequioso nei confronti di precetti morali non poteva certo coniugare non poteva certo coniugare questo lodevole comportamento con la professione di dottrine atee. Di conseguenza, i missionari cercarono di nascondere, a se stessi prima che agli altri, gli elementi che contrastavano con questa immagine idilliaca e pretesero di riscontrare nella cultura cinese ipotetiche analogie con i principi cristiani”.

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predicazione del Verbo. Inoltre si diffuse la notizia che i regni cristiani di Armenia erano stati preservati dalla tolleranza dei mongoli, che invece si scagliavano con ferocia contro i musulmani e furono quindi inviate diverse ambascerie cristiane alla corte tartara. Si stabilirono rapporti diplomatici stabili e la simpatia dell’Europa verso queste genti crebbe al punto da creare la leggenda che il successore di Gengis Khan, Kubilai Khan, si fosse convertito al cristianesimo (è vero invece che sua madre era nestoriana). Le relazioni sulla civiltà dei Tartari proliferarono fino ad essere raccolte nelle “Tartariche”, che divennero dei veri compendi di cultura tartara (e cinese, indirettamente). Nel Duecento, uno storico armeno di nome Kiracos, asseriva che i Tartari non erano nemici della Chiesa ma la veneravano molto come molto erano devoti alla croce, essendo animati da sentimenti più che amichevoli. Aitone, priore a Poitiers, si spinse fino a impetrare alla Chiesa di richiedere i loro servigi, perché infatti, grazie all’aiuto dei Tartari, la Terra Santa e l’Egitto sarebbero tornati in mano cristiana. In seguito il regno dei Tartari rimase circondato da un’aura di mistero che certo non giovò all’obiettività degli esploratori europei che cercarono di raggiungerlo lungo i percorsi più disparati. E’ questo il caso di Ferrer Maldonado, il quale guidò nel 1588 una spedizione navale spagnola che attraversò l’Oceano Pacifico, giungendo in prossimità dello Stretto di Bering. Ecco le parole dello stesso Maldonado: “Así, segun buena cosmografía, nos pareció ser tierra de tártaros o del Catai, y que á pocas leguas de aquella costa estaría la gran ciudad de Cambalú, metropoli del gran Tártaro”35. E’ così in parte definito il clima ideologico nel quale si sviluppano e teorie sul popolamento del Nuovo Mondo; e pure se Oliva fu un protagonista mancato di questo dibattito, a causa del suo ruolo marginale all’interno della gerarchia dell’Ordine, d’altra parte è anche vero che non possiamo negare che ciò che scrive deve per forza essere stato influenzato dalle ipotesi altrui visto che, come sappiamo, fu un grande compilatore prima che un innovatore. 2.13

L’UTOPIA RINASCIMENTALE DELLA SOCIETA’ IDEALE PUO’ AVER INFLUENZATO I

CRONISTI DELLA CONQUISTA? Bisogna affrontare ora un’importantissima problematica: è possibile che Oliva e gli altri cronisti siano stati influenzati a tal punto dal contesto culturale nel quale erano stati educati in vista della sua futura attività di predicazione da non essere più in grado di osservare la realtà in modo obiettivo? Dare una risposta a questo interrogativo significa sostenere che sia o meno possibile effettuare una comparazione tra i sistemi sociali asiatici descritti dagli antropologi e quelli andini, descritti da cronisti per lo più inesperti ed incompetenti. Lo spunto mi è venuto scoprendo che non pochi studiosi contemporanei si sono detti convinti del fatto che il modello di società ideale, che emerge nell’opera “Utopia” di Tommaso Moro, 35

Ferdinando Rosselli, 1991: 54.

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derivasse dalle relazioni dei predicatori inviati in Perù. In seguito ho constatato che l’Italia meridionale del tempo era un ricettacolo di pensatori umanisti, profondamente legati all’idea di un mondo ideale, in cui teologia, filosofia, politica, giurisprudenza ed economia concorressero per assicurare all’umanità una nuova età dell’oro, libera da guerre, carestie, epidemie e sperequazioni. Mi sono dedicato ad una sommaria lettura delle tre grandi opere utopiste che s’ispirarono alla Repubblica di Platone, ossia Utopia di Thomas More, New Atlantis di Francis Bacon e la Città del Sole di Tommaso Campanella ed ho scovato delle ineccepibili correlazioni, non solo a livello concettuale ma persino a livello narrativo (come ad esempio l’incipit baconiano con il viaggio marittimo tra Perù e Cina ed approdo in un regno ideale localizzato tra le isole dei mari del sud). Dal canto suo Giuliano Gliozzi mi ha fornito prove del carattere del tutto secolare (giuridico ed economico) del dibattito secentesco sul popolamento del Nuovo Mondo, che non può non aver influenzato Oliva. Uno degli obiettivi che mi sono posto è stato quello di capire in quale misura la descrizione della società incaica effettuata dai cronisti europei sia stata influenzata dalle teorie pregresse in merito alla società ideale, che tanto erano in voga durante il Rinascimento. Non è un tema originale, già nel 1966 Tom Zuidema36 dichiarava che it is a historian, Sverker Arnoldsson in his book “Los monumentos históricos de America” (1956), who indicates to what great extent European ideas about history have influenced the chronicles when writing their versions about Inca history. Another historian, Åke Wedin, comes in his “La cronología de la Historia Incaica. El estudio critico” (1963) to the conclusion that we cannot say anything with certainty on the history of the Inca conquests and that it is not archaeologists that have to recur to the historians but the historians to the archaeologists. 2.14

L’UMANESIMO CIVILE E LA SUA INFLUENZA NEGLI AMBIENTI ECCLESIASTICI Quello strepitoso frutto dell’elaborazione culturale umana che fu l’Umanesimo, nacque come

risposta al generale disincanto che colpì gli ambienti europei colti di fronte all’evidente inettitudine dimostrata da principi, signori ed alti prelati nel governare le sorti degli stati e dei popoli europei. Emblematica in tal senso è l’osservazione di un letterato italiano, Poggio Bracciolini, il quale, intorno alla metà del XV secolo, dichiarava che: “non ho mai letto, né ho mai visto, né mai ho sentito che uno Stato, o principi, o possenti abbiano prestato obbedienza alle vostre leggi; anzi, che venissero loro imposte delle leggi. Giacché vediamo che gli Stati sono pervenuti al massimo della potenza grazie alla violenza, ed i regni si sono avvalsi non delle leggi, ma della forza…nemica delle leggi”. D’altra parte la corruzione della Chiesa stava aggiungendo livelli francamente insopportabili, seminando quella diffusa insofferenza verso il clero romano, che sarebbe presto sfociata nella riforma protestante e nello scisma della chiesa anglicana. In questi frangenti l’invenzione della stampa (un 36

American Anthropologist, 1968, LXVIII, 231

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secolo prima) aveva permesso a docenti, studenti universitari o semplici uomini di cultura di riappropriarsi dei testi sacri e di quelli classici, nonché di quegli studi neoplatonici, risalenti ai primi secoli dopo la nascita di Cristo. Tali testi erano stati compilati per rispondere alla diffusione del Cristianesimo, ma vennero invece ritenuti essere ben più antichi, risalenti agli albori del pensiero filosofico umano, babilonese ed egizio, divenendo così dei veri e propri “manuali del perfetto umanista”. Gli esiti furono dirompenti, come possiamo dedurre ammirando le conclusioni tratte da Erasmo da Rotterdam, uno degli umanisti di punta nell’Europa Rinascimentale. Erasmo non ritenne fosse valido quel limite posto dalla Chiesa alla filologia, quando affermava che l’interpretazione dei testi tradizionali era stata stabilita una volta per tutte dalla scolastica. Se infatti Dio vuole comunicare con l’uomo, deve per forza farlo nelle forme che quest’ultimo è in grado d’intendere, quindi è doveroso affinare quelle tecniche di indagine euristica e filologica che, sole, possono permettere di investigare il messaggio reale trasmesso dalla Provvidenza. Ne deriva l’inoppugnabile anelito verso il libero arbitrio, che tanto influì sullo sviluppo del metodo scientifico. D’altro canto l’insegnamento del Cristo era valido nel suo contesto, mentre deve essere riadattato di volta in volta tenendo conto dell’epoca, del luogo e dell’ambito culturale. Se la natura umana deve essere progressivamente realizzata, allora lo stesso mondo deve essere trasformato in accordo con la natura dell’uomo, questo ha come logica conseguenza una concezione unitaria ed armonica dell’apparato istituzionale che dovrà governare un mondo in cui la parola di Cristo avrà trovato finalmente il suo compimento. Lggi adeguate divengono così la massima garanzia per il benessere ed il progresso dell’umanità. Per Coluccio Salutati i principi della giurisprudenza “hanno radici non nelle cose esteriori, ma risiedono in noi, sono naturalmente insiti nelle nostre menti con tale certezza che non possono rimanerci ignoti”. A me interessa approfondire proprio questo aspetto del pensiero umanista, cioè la persistente tensione verso un nuovo ordine mondiale nutrito di valori e norme comuni. E’ ancora Erasmo ad introdurci in questo fertile terreno, con la sua opera dal titolo Institutio principis christiani, pubblicata nel 1516, nella quale l’umanista olandese inquadrava il suo contributo al dibattito sulla miglior forma di governo in una cornice platonista, prescrivendo, quale garanzia di stabilità per qualunque Stato, un regime di sovrani-filosofi, ai quali il potere è assegnato in custodia dalla divinità, non certo come proprietà ereditabile. Un altro aspetto di questa concezione, che ci avvicina ad altre culture ed altre epoche (la Cina in particolare, ma anche il Tawantisuyu), è quella di chiaro stampo organicistico, secondo cui il re è per lo Stato come il cuore per il corpo, in un perfetto accordo che dissemina armonia nella comunità. Il monarca illuminato diviene così immagine di Dio

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sulla terra, destinato a sacrificare passioni e diletti, così come Cristo sacrificò la sua persona per la salvezza dell’umanità37. 2.15

LA RELIGIONE UNIVERSALE Non possiamo pensare di introdurre le opere più rappresentative dell’umanesimo civile senza

prima indagare, anche se sommariamente, il concetto di “religione universale”. In un periodo della storia umana ferito dalla pratica delle indulgenze e dalla corruzione dilagante nell’ambito ecclesiastico, si diffonde inesorabilmente un anelito verso il rinnovamento spirituale della cristianità, che era già stato anticipato dall’esperienza di Gioacchino da Fiore, e che viene ora ricercato in maniera ancor più decisa dall’Accademia platonica di Marsilio Ficino, la quale si propone di depurare la fede cristiana grazie al recupero dei classici. Gli umanisti, confrontandosi con la scolastica, si trovarono così a dover conciliare cultura classica e precetti cristiani, un compito apparentemente arduo, che venne però completamente assolto grazie all’intuizione fondamentale che tutti i sistemi filosofici altro non sono che manifestazioni storiche di un’unica religione, patrimonio dell’umanità. I classici si erano molto avvicinati alla verità, e ciò li rendeva degni di assurgere a modello di virtù. Il libero arbitrio, poi, come abbiamo appena visto, sanciva la possibilità concreta di autoredenzione per l’individuo. Si rese così necessario – ed è Pico della Mirandola ad incaricarsi di investigare questa via - accorpare le diverse nozioni in un unico sapere universale, in grado di ignorare le barriere culturali ed ideologiche, fondendo le concezioni gnostiche platoniste con quelle cabalistiche ebraiche e sufi, che, questa era la convinzione diffusa, derivavano da un’unica radice. Il cammino della salvezza dell’uomo formava un continuum, che procedeva da Ermete Trismegisto, considerato erroneamente una specie di antichissima incarnazione del dio egizio Thot, e da Mosè, custode di queste primigenie conoscenze in seno alla comunità ebraica, passando per Platone, Gesù Cristo e la Scolastica. 37

E’ forse possibile elencare gli aspetti comuni di ogni concezione di stato ideale nata nell’impostazione dell’umanismo civile, o almeno questo è il parere di Giuseppe Scalici in “La “Città del Sole” di Campanella ed il pensiero utopistico tra Cinquecento e Seicento” (pag.21-22):

1. Riferimento ad una Legge, naturale e razionale insieme, presente in tutti gli uomini ed in tutte le epoche storiche…; 2. Auspici di pacificazione universale fra i popoli e di concordia all’interno delle singole realtà politiche; 3. Ideale di tolleranza e comprensione, al di là di fanatismi e volontà di dominio espressa in termini di potenza politica fine a sé stessa; 4. Struttura organica e gerarchica dello Stato; 5. Ruolo privilegiato attribuito ai valori della filosofia, della cultura, della scienza delle sue concrete applicazioni; 6. Pianificazioni attente intorno al problema della famiglia e della proprietà privata; 7. Descrizione di luoghi esotici, isolati, lontani dalla civiltà europea; 8. Professione di una religiosità naturale e razionale, spesso non legata ad una particolare confessione o ad un definito e preciso apparato dogmatico; 9. Attenta e meticolosa regolamentazione dall’alto della vita quotidiana dei singoli individui fin negli aspetti più minuti.

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L’umanesimo rinascimentale rappresentava l’acme di questo percorso di illuminazione sapienziale progressiva, in quanto era giunto all’autoriflessione ed alla dimostrazione logica dell’avvenuta elevazione spirituale dell’uomo. Questo è uno dei messaggi che Giordano Bruno lanciò al mondo, ma certamente il meno dirompente, ne lo Spaccio de la Bestia Trionfante (1584). Nella deposizione di fronte al tribunale dell’inquisizione di un nobile veneziano, Giovanni Mocenigo, che aveva ospitato Giordano Bruno, troviamo gli elementi cardine della mentalità bruniana; il testimone affermò che Bruno sosteneva che il mondo del tempo fosse ormai giunto al capolinea perché vi regnava la corruzione e l’ignoranza, ai quali vizi non sfuggiva nemmeno la chiesa cattolica; secondo Bruno il mondo avrebbe presto assistito alla sua riforma generale, perché quel clima era ormai insopportabile. Per Bruno il divino si è manifestato variamente a seconda delle epoche, quindi la religione pagana non è una superstizione da estirpare, anzi: “Conoscevano que’savi dio essere nelle cose, e la divinità, latente nella natura, oprandosi e scintillando diversamente in diversi suggetti, e per diverse forme fisiche, con certi ordini, venir a far partecipi di sé, dico de l’essere, della vita ed intelletto. […]. Non adoravano Giove, come lui fusse la divinità, ma adoravano la divinità, come fusse in Giove (Bruno riteneva che Giove fosse stato un re di Creta); perché vedendo un uomo in cui era eccellente la maestà, la giustizia, la magnanimità, intendevano in lui esser dio magnanimo, giusto e benigno”. Anche quello di Bruno è un accorato appello, ma profetizzante: “La Giustizia sostituirà il governo iniquo, le leggi saranno intese nel senso della protezione dei più deboli, il sapere utile alla comunità umana sostituirà quello dei pedanti, la sincerità si imporrà sulla frode, la magia sull’impostura” (Scalici: 94). L’idea di una religione universale trovò conferma e nuova linfa proprio in seguito alle informazioni che giunsero in Europa, provenendo dalle nuove colonie spagnole d’oltreoceano. Le considerevoli somiglianze tra i culti locali e la religione cristiana fecero supporre un’origine ebraica dei nativi o, secondo altri autori, una passata cristianizzazione degli stessi da parte di apostoli itineranti o predicatori audaci. Gli autori che possono essere compresi in questa corrente di pensiero sono: López de Gómara, Torquemada, Gregorio García, Ramos Gavilán, Bartolomé de las Casas, Mendieta, Bernardino de Sahagún e Diego Durán. Le analogie riscontrate riguardavano i concetti di essere supremo creatore e salvatore, di morte e resurrezione dello stesso dio, di verginità della madre del dio, di apocalisse; inoltre i missionari incontrarono il simbolo della croce, onnipresente e parimenti sacro, la pratica della confessione, del battesimo, della comunione e del matrimonio. Tutti questi usi comuni alla tradizione cattolica non potevano non sorprendere i Maestri della Chiesa, ma soprattutto quei cronisti che vivevano in prima persona, giorno dopo giorno, un’esperienza fatale, come quella di scoprire che le proprie credenze non erano monopolio della «superiore» cultura europea. Taluni parlarono di influssi demoniaci, che tentavano di ingannare i predicatori e di condurre gli indigeni 44


sulla strada del male, altri ritennero invece che queste somiglianza fossero il retaggio di precedenti predicazioni e contatti con la religione cristiana o con quella ebraica. Sta di fatto che le relazioni trasmesse in Europa seppero stimolare un dibattito di vaste proporzioni, non solo sulle origini degli autoctoni, ma anche sul loro futuro e sul futuro dell’umanità in generale. Nelle culture americane si vide talora la manifestazione di un superiore progetto divino, che doveva essere messo in opera dai missionari stessi, quello di una comunità ideale fondata sui principi cristiani e sull’organizzazione «collettivistica», che era stata così egregiamente creata nel Tawantinsuyu. 2.16

LE UTOPIE UMANISTICHE (1516) Thomas More, nel 1516, elaborò il concetto di nazione ideale, chiamandola Utopia e

localizzandola in una regione immaginaria del pianeta, al di fuori del tempo. Utopia si trovava sull’isola omonima, separata dal continente da un istmo, tagliato appositamente dal primo sovrano civile dei suoi abitanti, Utopo. Le sue vicende vengono idealmente narrate all’autore da un marinaio portoghese, che l’ha incrociata casualmente durante le sue traversate oceaniche. Ecco le caratteristiche principali di questa società virtuale: •

E’ una “repubblica” retta da un principe elettivo;

E’ regolata da poche, chiare leggi;

Non esistono distinzioni di ceto e classe tranne che nel caso dei sapienti, i quali si dedicano esclusivamente alla conoscenza ed alla sua trasmissione;

La vita dello Stato si svolge nella più piena armonia, “secondo natura”;

Il singolo è intimamente legato alla collettività;

Il lavoro non è mai gravoso, essendo alternato a periodi di riposo e studio;

E’ ammessa la schiavitù per chi attenta all’armonia dello stato;

Non esiste la proprietà privata;

Si ammettono molteplici credenze religiose, ma esiste un culto che le unifica accorpandone gli aspetti più generali;

I sacerdoti sono i custodi della moralità pubblica.

Un passo, in particolare, mostrerà come nella formulazione di questo modello di società ideale, sia altamente probabile che Thomas Moore si sia rifatto alle cronache della Conquista; il marinaio protoghese descrive i paramenti sacri dei sacerdoti locali: …the priest’s vestments are parti-colored, and both the work and the colors are wonderful. They are made of no rich materials…but are composed of the plumes of several birds, laid together with so much art and so neatly, that the true value of them is far beyond the costliest materials. They say that in the ordering and placing those 45


plumes some dark mysteries are represented, which pass down among their priests in a secret tradition concerning them; and that they are as hierogliphics, putting them in mind of the blessings that they have received from God…. Questo medesimo modello di società ideale viene ripreso nel 1602 da Tommaso Campanella con la sua “Città del Sole”, uno stato immaginario, localizzato a Taprobane, l’antico nome dell’isola di Sri Lanka, che viene descritto da un navigatore genovese ad un Cavaliere Ospitalario. La struttura della “Città del Sole” è un’immagine dell’Universo, sorgendo su di un colle diviso in sette gironi, ognuno dei quali corrisponde ai pianeti allora conosciuti. Il tempio più importante custodisce un altare sovrastato da un mappamondo che riproduce il cielo e da un altro che rappresenta invece la terra, entrambi affiancati da sette lampade, una per pianeta. L’obiettivo della Città del Sole è quello di operare in armonia con le leggi cosmiche, i cui principi sono recepibili grazie alle osservazioni astronomiche ed alle divinazioni astrologiche. Per poter ottenere questo risultato è necessario che ciascun cittadino faccia la sua parte, cooperando in nome dell’armonia dello Stato, ed è perciò che i cittadini vengono allevati fin da piccoli nel rispetto dello spirito comunitario, attraverso l’uso di immagini dipinte sulle cinte murarie. Non esiste la proprietà privata e neppure l’istituzione della vita familiare ,che è sostituita dalla comunità nel suo complesso, guidata da sacerdoti a dire il vero un po’ dispotici, sempre attenti a reprimere gli istinti più incivili, inducendo i cittadini a seguire una condotta lineare e morigerata. Viene davvero da chiedersi se sia stato poi questo gran male il fallimento del suo tentativo di realizzare quest’utopia (Calabria, 1599), troppo simile alle bieche confraternite dei predicatori statunitensi per essere condivisibile. Rimane la sensazione che un unico progetto animasse queste dichiarazioni di principi ed intenti. Con Bacone, infatti, incontriamo la terza utopia civile, denominata Nuova Atlantide (1627): We sailed from Peru, where we had continued by the space of one whole year, for China and Japan, by the South sea, taking with us victuals for twelve months. Così prende l’avvio l’opera del grande filosofo inglese, uno dei massimi pensatori della Storia. I viaggiatori immaginari narrano in prima persona le loro avventure nella terra di Bensalem, che un tempo era stata floridissima, commerciando con tutto il modo, fino a quando la stessa grande inondazione che aveva distrutto Atlantide non l’aveva isolata. Anche questa regione virtuale del mondo era governata da sapienti, raccolti in un circolo scientifico denominato “Casa di Salomone”, i quali, periodicamente, inviavano degli esploratori nel mondo a raccogliere informazioni su eventuali nuove scoperte. L’idea di fondo di Bacone era in effetti quella di trasformare le università in veri e propri laboratori scientifici e non in semplici pensatoi, sterili nella loro contemplazione del passato. Infatti, solo la scienza avrebbe saputo porre fine ai contrasti tra i popoli. E’ evidente che qui ci troviamo in una fase di passaggio: Bacone è uno dei padri del metodo scientifico, suggerendo che la conoscenza esatta è perseguibile solo per piccoli passi, sempre controllati dall’esperienza. E’, la sua, 46


l’ultima opera utopistica di un certo rilievo, nel contesto rinascimentale e la sua stessa impostazione sembra testimoniarlo, così distante com’è dai fini prettamente politici e civili di quelle che la precedettero. Qui infatti si conclude la mia disamina di questo aspetto dell’umanesimo civile e prende il via il confronto con le altre realtà. 2.17

LE RADICI IDEOLOGICHE UMANISTICHE DEL MOVIMENTO INDIGENISTA Laurencich Minelli (1996a: 59) afferma che Blas Valera (1545-1618), amico di Oliva, nonché

suo mentore, era “una sorta di capo spirituale di un movimento indigenista, difensore degli indios, della loro cultura e religione che, per lui e per i due gesuiti italiani, era simile alla cristiana, per cui gli indios dell’impero degli Inca non potevano essere tacciati di idolatria. Questo atteggiamento di Cumis e Oliva verso la religione degli Inca, che di primo acchito può sorprendere, rientra invece in una particolare apertura verso la cultura indigena che era accolta dalla Compagnia del Gesù in quanto, il comprendere la religione preesistente, facilitava l’evangelizzazione. Apertura che però nei due italiani era accentuata dai principi di una religione universale a cui si potevano ricondurre tutte le religioni e che si riconosce nel pensiero filosofico di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella”. E’, questa, un’asserzione importante, che andrò subito ad esaminare ed approfondire. Come abbiamo visto, l’umanesimo non può essere inteso senza fare riferimento a questa profonda fede nella possibilità di addivenire ad un culto universale, che sapesse unificare le genti, le dottrine, i sapienti, le nazioni. Tutto sta nel capire quanto questa tensione potesse essere riuscita ad infiltrarsi negli ambienti gesuiti. Con il Concilio di Trento, la riforma della Chiesa condusse alla nascita di una nuova filosofia scolastica, la Seconda Scolastica, appunto. In quanto risposta dottrinale all’umanesimo laico, essa non poteva non accoglierne alcune posizioni. Verso la fine del XVI secolo - inizi del XVII, quando i pensatori gesuiti finirono per prevalere sugli agostiniani e domenicani, questa corrente di pensiero cominciò ad accostarsi in misura sempre maggiore alle tesi umaniste. La pubblicazione della più importante opera del “maestro spirituale” della scolastica di marca gesuita, Luis de Molina, che titolava

Concordia

liberi

arbitrii

cum

gratiae

donis,

divina

praescientia,

providentia,

praedestinatione et reprobatione, scatenò un vero e proprio putiferio in seno alla scolastica. Accentua infatti i toni del dibattito interno e testimonia la volontà di cambiamento che montava in seno all’ordine, certamente influenzato dai suoi contatti con culture estranee ma considerate quantomeno non troppo inferiori a quella europea (la Cina in particolare, ma anche il Perù). Molina diede indirettamente un grande impulso ai movimenti indigenisti, americani accettando in toto la dottrina erasmiana del libero arbitrio, soprattutto nelle sue implicazioni pedagogiche; egli infatti si chiedeva come sarebbe stata concepibile la possibilità dell’educabilità umana, una volta che si fosse 47


radicalmente negato il libero arbitrio. A quel punto i popoli pagani sarebbero stati privi di quella divina ispirazione che li avrebbe condotti ad abbracciare la vera fede, ma i fatti andavano contro questa interpretazione troppo semplicistica: esistevano civiltà complesse e culturalmente brillanti anche al di fuori dell’Europa e queste dovevano per forza essere già predisposte all’accoglimento del Verbo. Anche Molina finiva per accettare la storicizzazione delle manifestazioni del dogma, che si esprimeva con diversa chiarezza a seconda dell’epoca e dei contesti culturali, dando quindi implicitamente il suo benestare a quei missionari che, giusto in quel periodo, praticavano nuove forme di predicazione, assolutamente poco ortodosse. Anche più importante, ai miei occhi, fu il ruolo del cardinal Bellarmino che, nelle sue Controversiae promuoveva l’idea di un papato internazionale in seno ad una Chiesa universale, con potestas indirecta sugli altri Stati ed organizzata in modo tale da prefigurare platonicamente le gerarchie celesti (indirizzo di pensiero, quest’ultimo, che si riscontra anche in Cina). L’istituzione gesuita delle reducciones è frutto di queste prese di posizione gesuite. Le reducciones furono delle comunità di lavoro e preghiera, che non avevano alcun riscontro nel Vecchio Mondo. I missionari si sentivano diretti successori degli apostoli di Cristo. Non fu dunque per caso se 12 furono i primi francescani che si recarono in Messico. I missionari degli ordini mendicanti subirono intensamente l’influenza di Erasmo da Rotterdam e non tentavano solo di convertire i pagani, ma speravano anche che dalle nuove comunità cristiane sarebbe scaturito un generale rinnovamento della Chiesa. Queste speranze sembravano aver trovato risposta nella semplicità e naturalezza della vita dei nativi, a loro modo di vedere così simili ai primi cristiani. Secondo R. Konetzke questa visione degli indigeni come gente eletta fu inserita in uno schema storico, nel quale la Chiesa apostolica si era estinta con l’imperatore Costantino e doveva risorgere nel Nuovo Mondo. Là sarebbe stato realizzato quel tanto anelato ritorno alla povertà ed all’umiltà apostolica, preludio alla rinascita della cristianità38. E’ inoltre significativo che già nell’Utopia di Tommaso Moro si affacciasse l’ideale di un’impresa missionaria e colonizzatrice. Fu così che il primo vescovo del Messico, il padre francescano Juan de Zumárraga, portò con sé in Messico una copia dell’Utopia. Il mito del “buon selvaggio” nacque quindi fin dal principio, come dimostra la Storia d’Italia di Francesco Guicciardini, il nostro maggiore storico cinquecentesco, quando descrive gli indigeni incontrati dagli Spagnoli nel Nuovo Mondo: “…semplicissimi di costumi, e contenti di quel che produce la benignità della natura, non sono tormentati né da avarizia né da ambizione: ma 38

Paolo Collo (“L’utopia e la guerra”: l’esperimento dei gesuiti in Paraguay”, pag.26) riferisce che a Michoacan, in Messico, il vescovo Vasco de Quiroga fondò a proprie spese dei villaggi con l’intento di creare dei centri di lavoro e di insegnamento, “tentando, al tempo stesso, di formare un tipo di cristiani “come quelli della Chiesa primitiva”. L’utopia cristiana, per Vasco de Quiroga – lettore, tra l’altro, dell’”Utopia” di Tommaso Moro – è attuabile in quanto gli indios sono come “una cera molto duttile”, privi delle passioni corruttrici degli Europei, docili e disponibili all’evangelizzazione”.

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infelicissime (le isole sulle quali questi abitavano, nota mia) perché, non avendo gli uomini né certa religione né notizia di lettere, non perizia di artificii, non armi, non arte di guerra, non scienza, non esperienza alcuna delle cose, sono quasi, non altrimenti che animali mansueti, facilissima preda di chiunque gli assalta”. Riconsiderando a posteriori tutto il capitolo appena conclusosi, possiamo rispondere affermativamente all’interrogativo che verteva sulla possibilità che le informazioni che noi traiamo dalle cronache della conquista siano state pesantemente condizionate da certe teorie in voga in quel periodo. Quando ci si misura con le cronache secentesche è assolutamente fondamentale rassegnarsi all’idea che è arduo, ma non impossibile, discernere ciò che è davvero valido da ciò che non lo è e tenerne conto, cum grano salis, quando le si prendono in esame per interpretare dei fenomeni culturali complessi che senza il loro apporto sarebbero inaffrontabili. E’ questa l’opinione di un archeologo peruanista di primo piano come Rogger Ravines (op.cit.: 45): “basterebbe chiedersi quale sarebbe l’immagine della civilizzazione inca se non fossimo in possesso della testimonianza dei cronisti del XVI secolo? In assenza di qualsiasi documento scritto, dispone l’archeologo di un qualche elemento che gli permetta di conoscere intimamente una cultura?”. Eppure ciò non implica che questo genere di ricerche, che deve fare riferimento a delle fonti non pienamente affidabili, sia da considerare di minore importanza. Di qui l’assoluta necessità di un approccio comparativista: sta all’accortezza del ricercatore avvicinarsi all’argomento con cautela e munito di un bagaglio di nozioni etnografiche provenienti da molteplici fonti, che gli permettano di valutare se talune affermazioni trasmesseci dai cronisti, e che a prima vista possono sembrare “assurde”, non trovino riscontro altrove e siano quindi da considerare con maggiore attenzione. Questo è lo spirito con il quale mi sono dedicato alla disamina del caso incaico che, pur se indagato in modo approfondito da studiosi di grandissimo spessore, sembra ancora mantenere delle zone d’ombra che, a mio modo di vedere, solo un’analisi comparativa potrà un giorno sperare di rischiarare.

3 LA MODERNA INTERPRETAZIONE DELLE STRUTTURE SOCIALI INCAICHE IN UNA PROSPETTIVA COMPARATIVISTA 3.1 L’ICONOGRAFIA ANDINA E LA SUA RELAZIONE CON LA STRUTTURA SOCIALE DEL TAWANTINSUYU E’ opinione di Laurencich-Minelli (1996a) che gli ideogrammi che apparivano sui tocapu (un tipo di arazzi incaici portati sopra le vesti regali, a mo’ di poncho), e che furono riprodotti dal cronista Guamam Poma de Ayala nel suo Nueva Corónica y Buen Gobierno, oltre che sui recipienti sacri, i

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kero, rappresentassero un codice impiegato dall’élite per comunicare dei concetti esoterici legati alle credenze andine sull‘ordine cosmico. Nella tabella che segue (1996a: 100-101) la studiosa italiana ha provveduto a riproporre quella parte di simbologia ricorrente nell’iconografia incaica riprodotta da Guamam Poma con l’aggiunta della spiegazione fornita da Oliva per ogni simbolo come ci è pervenuta grazie al Manoscritto di Napoli. La scottante problematica che Laurencich-Minelli si trova ad affrontare è quella di capire se questa sorta di dizionario esoterico in forma iconografica sia stata una brillante invenzione del periodo successivo alla conquista, o se invece si tratta di un codice originale tenuto nascosto alla maggior parte degli europei, considerati indegni di comparteciparvi. Lei stessa assicura che “las pesquisas que estoy realizando demuestran que, muchos de los ideaogramas utilizados por Blas Valera, se hallan en textiles y adornos que, incluso, se remontan al Horizonte Wari. Podemos, entonces, lanzar la hipótesis de trabajo que la escritura ideografíca existía desde el Horizonte Wari con ideogramas parecidos”39. A prescindere da questo genere di ricerche che terranno sicuramente impegnati decine di ricercatori per numerosi anni a venire, noi siamo in grado di confrontare le interpretazioni offerte da Oliva con i dati etno-antropologici raccolti sul campo ed estrapolati dalle cronache della conquista. Innanzitutto, rileggendo la tabella in questione, salta agli occhi la presenza di numeri arabi, assolutamente ignoti nel contesto americano almeno fino all’arrivo degli Europei. Se la prima sensazione potrebbe essere quella di ritenere questa interpretazione come artefatta ed arbitraria, bisogna però anche segnalare che l’utilizzo della numerazione araba non corrisponde all’inserimento di concetti tipici del pensiero cristiano o comunque europeo, come sarebbe lecito attendersi nel caso in cui ci si trovasse di fronte ad uno strumento di propaganda del movimento promotore dell’idea di una religione universale. Ma anche se noi escludiamo i simboli numerici e consideriamo esclusivamente gli ideogrammi che trovano riscontro nei tokapu che ci sono pervenuti più o meno intatti, risulta evidente che la simbologia tratta principalmente di concetti connessi ai processi spaziali e temporali che ogni cultura mette in atto nell’intento di cosmizzare il suo ecosistema, distinguendosi, come uomo portatore della civiltà, dalla natura selvaggia e da ciò che è alter da sé. I richiami alle opposizioni duali di cielo e terra, luna e sole, sole estivo ed invernale; alla quadripartizione, che diede poi il nome all’impero degli Inca (tawa = quattro, ntin = unione, suyu = parti); alla croce, ossia all’unione dei quattro punti cardinali nel centro, o palo cosmico, legame tra divino e umano; agli antenati che, come vedremo, giocarvano un ruolo fondamentale nelle società precolombiane; alle stelle, spesso viste come matrici celesti del creato e proprio per questo disegnate 39

“Una contribución a la etnohistoria del Perú: el documento Historia et Rudimenta Linguae Piruanorum” in “Tawantinsuyu” (atti del congresso internazionale degli Americanisti, volume 5, 1998: 110).

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con otto raggi, essendo l’8 il numero associato agli antenati, ecc., sono tutti motivi ordinatori del cosmo e quindi della società inca. Laurencich-Minelli, segnalava ad esempio come nel tocapu del primo Inca, Manco Capac, fossero “rappresentati l’ideogramma del Sole orante, quello delle stelle, la Terra Viva e la luna crescente e calante: cioè si ha la sintesi della nascita di Manco Capac e dell’orazione che lui, il Sole in terra, rivolge a Pachacamac”. Questa stretta relazione tra iconografia, mitologia e cosmizzazione del presente (processi spaziali ritualizzati), non è un caso isolato. In Australia, ad esempio, la sopravvivenza della comunità del presente è affidata ad una corretta riproduzione dell’ordine modellato dagli Antenati totemici 40, i cui simboli designatori devono essere fedelmente riproposti sia nelle pitture sul suolo, sia negli scudi dipinti, nel corso delle cerimonie “replicative” che si svolgono nel pmara kutata, il luogo sacro che un tempo aveva assistito alle imprese del progenitore-eroe culturale41. Geertz sintetizzava questa funzione del simbolo affermando che “i simboli sacri servono a sintetizzare l’ethos di un popolo – il tono, il carattere e la qualità della sua vita, il suo stile ed il suo sentimento morale ed estetico – nonchè la sua visione del mondo – l’immagine che ha di come sono effettivamente le cose, le sue idee più comprensive di ordine” 42. Si tratta della famosa distinzione lévistraussiana tra ordre conçu e ordre vécu che permette alla comunità di accordare le proprie azioni ad un ordine cosmico prefigurato e contemporaneamente di sorreggere la fede in quest’ordine cosmico mostrando come la sua validità è suggellata dalla natura armoniosa di questo stesso rapporto. La manipolazione del modello simbolico della realtà implica quindi una parallela manipolazione della realtà e vice versa. In altre parole “l’importanza della religione risiede nella sua capacità di funzionare…come una fonte di concezioni generali e tuttavia peculiari circa il mondo, l’io ed i rapporti tra l’io ed il mondo e come fonte di disposizioni «mentali» radicate, e non meno specifiche: da queste disposizioni culturali derivano a loro volta le sue funzioni sociali e quelle psicologiche” (Geertz, ibidem: 180). Geertz arriva a considerare l’ipotesi che senza modelli simbolici l’uomo non sarebbe semplicemente regredito alla condizione di primate, ma sarebbe divenuto “una specie di mostro informe” privo di senso direzionale, di saldi riferimenti, della capacità di autocontrollo, completamente in preda alle sue emozioni e pulsioni. L’esistenza stessa dell’uomo sarebbe dunque 40

“Le comunità aborigene dell’Australia centrale erano quindi composte da uomini e donne per i quali l’intero paesaggio in cui vivevano rappresentava l’opera di esseri soprannaturali che si erano reincarnati nelle loro persone ed in quelle dei progenitori, vivi o morti che fossero, dei loro parenti e dei loro amici. In siffatte comunità, la vita di ciascuna persona era di grande importanza e valore. I canti sacri che un uomo elevava ed i riti totemici che celebrava, si credeva avessero il potere di conservare l’universo circostante e di promuovere la vita delle pinate e degli animali che procuravano il cibo a tutta la comunità. In altre parole, un’importante funzione dell’uomo, temporalmente finito, era quella di assistere i processi di conservazione di un mondo che era cominciato nell’Eternità e che continuava a procedere, senza alcun cambiamento, verso l’etenità” (T.G.H. Strehlow, 1997: 92).

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“L’uomo non si limita a scegliere la cultura al posto dello stato selvaggio: dato che dipende dalla cultura, questa diventa per lui natura. Gli animali si adattano al mondo circostante grazie agli istinti; l’uomo, cui questi istinti mancano, deve invece adattarsi alla cultura come ad un universo simbolico, che rende abitabile il mondo “reale” mediandolo appunto simbolicamente” (Assmann, 1992: 105)

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C.Geertz, 1987: 140

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garantita da simboli e modelli nei confronti dei quali si è venuta sviluppando una tale forma di dipendenza che il privarsene equivarrebbe alla morte psichica, al caos assoluto43. Questo è d’altronde ciò che nella mitologia degli Achilpa accadde agli Antenati Totemici, i quali, avendo involontariamente rotto il bastone sacro che fungeva da axis mundi guidandoli nelle loro peregrinazioni, piombarono in uno stato catalettico che li condusse alla morte per consunzione. Il commento di Mircea Eliade a questo proposito era il seguente: “on rencontre rarement un aveu aussi pathétique du sentiment que l’homme ne peut vivre sans un «centre sacré» lui permettent à la fois de «cosmiciser» l’espace et de communiquer avec l’univers transhumain du ciel. Tant qu’ils avaient leur kauwa-auwa, les Ancêtres achilpas n’étaient jamais perdu dans le «chaos» qui les entourait” (Eliade, 1972: 62). In pratica si vuole dire che l’uomo è in grado di adattarsi a tutto quello che la sua immaginazione può affrontare, eccezion fatta per il caos. Nel momento in cui un fenomeno misterioso, ossia non classificabile e comprensibile per analogie, irrompe nell’equilibrio cognitivo dell’individuo, spazzando via paradigmi e schemi di lettura della realtà circostante, non è più possibile registrare all’istante le proprie categorie concettuali; la conseguenza immediata è il sopravvenire di stati di ansia e di stress, come fu il caso dei nativi americani all’apparire dei conquistadores, inizialmente divinizzati non tanto per le loro qualità intrinseche, certo non molto sviluppate, ma per poterli affrontare concettualmente. In altri casi questo processo risulta del tutto inattuabile e la tribù può arrivare alla prostrazione psicologica ed alla scelta di lasciarsi morire, senza provvedere alla procreazione di una nuova generazione di membri di una comunità ormai condannata all’estinzione. Geertz ha definito brillantemente la relazione tra credenze e comportamento in una società tribale (ma ciò vale anche nelle grandi città del mondo “evoluto”) descrivendo la sua esperienza personale di contatto con informatori animisti: “pareva che usassero costantemente le loro credenze per «spiegare» i fenomeni, o, meglio, per convincersi che i fenomeni erano spiegabili entro lo schema accettato delle cose, perché di solito avevano un attaccamento minimo per le ipotesi che essi sessi avanzavano circa la possessione di un’anima particolare, lo squilibrio emotivo, l’infrazione dei abù o l’incantesimo, ed erano anche troppo pronti ad abbandonarle per altre dello stesso genere, che li colpivano come più plausibili in determinate circostanze. Quello che non erano disposti a fare era di abbandonarle senza avanzare nessun’altra ipotesi: lasciare gli eventi a loro stessi” (ibidem: 153). Insomma, a mandare in crisi l’uomo è tutto ciò che va al di là della conoscenza routinaria, che sfugge a dei canoni predefiniti ed accreditati; per questo i simboli cultuali intervengono allo scopo di fornire una garanzia di intellegibilità e di ordine ed armonia cosmici in grado di sedare le pulsioni più difficilmente controllabili, quelle inquietudini che minano alla base la pacifica convivenza di una comunità. Al rituale viene assegnata la funzione di fondere il mondo reale, pericoloso nella sua 43

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imprevedibilità, con quello immaginato, cercando di superare la dicotomia evideziata da Lévi-Strauss tra il mondo che si esperisce e quello che ci si rappresenta. Se la religione serve per rendere il reale “più reale” di sé stesso, vincendo discordanze e discrepanze tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è a dispetto della volontà e delle necessità dell’individuo e del gruppo di cui fa parte, al rituale è affidato il compito di mettere in pratica le teorizzazioni delle religione, verificandole e giustificandole. Nel rituale il mondo vissuto e quello conosciuto si fondono in un unico medesimo mondo attraverso una durkheimiana plasmazione della coscienza spirituale di un popolo. Perciò, come postula lo stesso Geertz, quando l’indio bororo, afferma di essere un parrocchetto, non intende fare riferimento ad una rappresentazione mitica o metafisica, ma vuole solo esprimere il semplice concetto che, appartenendo lui ad un gruppo che ha per totem il parrocchetto, la sua “parrocchetticità” si riflette nel suo comportamento, che segue fedelemente i precetti e le norme prescrittive ad essa ascritte: “noi parrocchetti dobbiamo servire i ranghi, non dobbiamo sposarci tra noi, o mangiare i parrocchetti di questo mondo e così via, perché fare altrimenti è agire contro il senso dell’universo intero” (ibidem: 178); quello stesso senso dell’ordine cosmico che aveva indotto gli Inca ad identificare, ma non a scambiare, il Sapa Inca e la sua consorte rispettivamente con il sole e con la luna. Dunque si tratta semplicemente di capire come queste rappresentazioni più reali del reale possano essere ritenute valide e ragionevoli, oltre che moralmente e ritualmente praticabili. Come afferma l’antropologo statunitense “lo studio antropologico della religione è pertanto un’operazione in due fasi: dapprima un’analisi del sistema di significati incarnati nei simboli che formano la religione vera e propria, e quindi il collegamento di questo sistema ai processi socioculturali e psicologici” (Ibidem: 182). Per questo la seconda parte della mia ricerca si occupa di indagare i processi spaziali del mondo inca in una prospettiva comparativista, allo scopo di individuare un eventuale denominatore semantico comune. 3.2 I PROCESSI SPAZIALI NEL PENSIERO COSMOLOGICO ANTICO Il pensiero cosmologico antico era innanzitutto caratterizzato dalla contrapposizione tra territorio abitato ed ambiente, tra il cosmo ordinato, il vero e proprio Mondo, ed il caos esterno, ostile e pericoloso. Eliade (1965: 28) definisce efficacemente questa dicotomia, mediante il binomio cosmizzato/non cosmizzato; il territorio cosmizzato è il territorio nel quale dimora la propria gente e che, in quanto occupato, è stato preventivamente consacrato – in un certo senso “bonificato” – per renderlo adatto alla colonizzazione successiva44. Riferendosi a queste operazioni di consacrazione 44

Scarduelli nell’isola di Nias, in Indonesia (1986: 46): “Nella rappresentazione indigena il mondo che si stende al di fuori della palizzata difensiva è uno spazio minaccioso e pieno di insidie costituito da spiriti maligni o perlomeno infidi e nemici in agguato...”.

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Eliade parla di vera e propria “presa di possesso” dello Spazio, un’appropriazione che non avviene in modo spontaneo e naturale in quanto necessita di una serie di rituali che devono riprodurre in forma simbolica la creazione del mondo da parte della divinità 45. Così ad esempio in Giappone una zona viene sacralizzata stendendo una fune sacra, chiamata shimenawa, tolta la quale la medesima area riacquista il suo carattere profano. Come suggeriva J. Rykwert (Remotti, 1993: 46), “la cultura umana in quanto tale è taglio, incisione, differenziazione più o meno profonda. E questa operazione riguarda sia i luoghi, sia i corpi, sia i manufatti, sia le idee”. Per Remotti la cultura si autodifferenzia dalla natura scavando un fossato attorno a sé ed affermando la propria esistenza ed essenza proprio tramite questa operazione. Così i membri di una società segreta dei Tiwi, cacciatori-raccoglitori australiani, quando si dispongono in circolo per iniziare il rituale, con i piedi provvedono a spingere la terra verso l’esterno, in modo da distinguere interno ed esterno, tra società segreta ed ambiente circostante. Ora, considerato che in diverse culture il sole era considerato la divinità suprema che presiedeva a questo rito – esempio ne sia il dio Agni al quale in India veniva innalzato un altare quale segno dell’avvenuta fondazione della città – non sembra azzardato ipotizzare che spesse volte la presa di possesso di un territorio poteva coincidere con l’erezione di uno gnomone con le funzioni di asse cosmico di raccordo tra la divinità ed i devoti 46. Questo fu infatti il caso di una città sacra come Gerusalemme, ma anche delle capitali cinesi e, ça va sans dire, della capitale del Tawantinsuyu, Cuzco, l’”Ombelico del Mondo”47. La mistica politica dei Cinesi ha sempre sostenuto il principio che nella Capitale di un perfetto sovrano, a mezzogiorno della mezza estate, lo gnomone non deve fare ombra 48: “Tale virtù risplende nell’ordinamento della città signorile. Questa è stata fondata da un Antenato. Dall’alto di una cresta egli ha dapprima osservato i versanti soleggiati o oscuri, il corso dei fiumi, la posizione delle montagne; ha scelto il posto, che in generale si trova, come per i villaggi, su un’altura. Poi l’antenato

Anche la zona adibita alle colture non è ritenuta completamente sacralizzata: “Per quanto parzialmente coltivato (dato che i campi di riso si alternano a tratti di foresta) e quindi segnato dalla presenza umana, il territorio non viene concettualizzato come spazio abitato ma come dominio del “non umano” ed in quanto tale contrapposto al villaggio, identificato con lo spazio umano…Il mondo, inteso come universo delle relazioni umane, termina alle soglie dell’abitato”. 45

Eliade (ibidem: 30): Un territoire inconnu, étranger, inoccupé (ce qui veut dire souvent: inoccupé par le “nôtres”) participe encore à la modalité fluide et larvaire du “Chaos”. En l’occupant et sourtout en s’installant, l’homme le transforme symboliquement en Cosmos par une répétition rituelle de la cosmogonie. Ce qui doit devenir “notre monde” doit être préalablement “créé”, et tout création a un modèle exemplaire: la Création de l’Univers par les dieux.

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ancora oggi alcuni popoli primitivi utilizzano uno gnomone di circa 240 centimetri di lunghezza per determinare i solstizi e programmare le attività agricole in loro funzione.

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Nell’Irlanda celtica si narra che il territorio fosse diviso in un regno centrale incluso in quattro regni cardinalmente dislocati e che una pietra gigantesca si ergeva al centro dell’isola e veniva chiamata “pietra delle porzioni” (ailna-meeran) perché designava il luogo della convergenza dei confini dei quattro regni. Il re della zona centrale, che pure faceva parte dei 4 regni, era ritenuto il signore dell’isola.

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Granet, 1994: 41

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ha osservato le ombre e determinato l’orientamento corretto della città 49. Infine, dopo aver consultato le sorti, all’inizio dell’inverno, quando la costellazione Ting è al suo punto più alto al crepuscolo della sera, si è dato inizio ai lavori, cominciando dai contrafforti”. Incontriamo la medesima credenza tra i Tucano orientali della Colombia, secondo i quali, appena dopo la creazione dell’universo, il Padre Sole inviò a popolare la terra il suo rappresentante, chiamato il Progenitore. Questi vagò per molto tempo alla ricerca del luogo in cui il suo lungo bastone sarebbe rimasto eretto senza produrre ombra; fu lì che apparvero gli antenati dei Tucano. Egli dovette spostarsi lungamente con la sua canoa poiché quando infilava il bastone sulle rive dei fiumi, esso rimaneva obliquo. Poi giunse all’equatore ed il bastone rimase diritto: it was there where the First People were created and took possession of the land and eventually acquired the principal institutions of their spreading society50. Un ottimo contributo sulle credenze indiane è offerto da Mircea Eliade (1975: 27): “In India, prima di porre una sola pietra…l’astrologo indica il punto delle fondamenta che si trova al di sopra del serpente che sostiene il mondo. Il mastro muratore intaglia un palo nel legno di un albero khadira e lo pianta nel suolo, al centro di una noce di cocco, esattamente nel punto designato, per ben fissare la testa del serpente. Una pietra di base (padmaçilâ) è posta sopra al palo; la pietra angolare si trova così esattamente al “centro del mondo”. In Perù le cose non vanno diversamente. La scelta del luogo in cui nascerà la futura capitale, Cuzco viene effettuata dalla coppia mitica Manco Capac e Mama Occlo sul colle chiamato Huanacauri, dove essi riuscirono a conficcare nel suolo una barra d’oro 51, segno evidente del favore del dio sole Inti. Ma anche l’Australia annovera uno gnomone cosmogonico ed è proprio qui che andremo a cercare il senso intimo di questi rituali. L’etnologo australiano M. Howitt (Mauss, op.cit.: 65), che studiò la tribù aborigena dei Wotjoballuk, osservò che l’indigeno interrogato, per poter descrivere l’organizzazione della tribù, dovette impiegare un bastone piegato in direzione est, in quanto il sole era la principale divinità totemica dei nativi e le altre erano determinate in sua funzione. Anche in questo caso la società era divisa in due moieties, Krokitch e Gamutch, l’una posta al di sopra della linea congiungente l’est con l’ovest e l’altra posta al di sotto. Eliade (1965: 31) annota che presso una tribù del popolo degli Arunta australiani, gli Acilpa, l’Essere divino Numbakula, nel Tempo del Sogno, ha “cosmizzato” il loro futuro territorio: du tronc 49

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Granet (1953: 267): ce mythe veut rendre compte du fait que la capitale qui doit être au centre du monde, est, cependant, placée dans une situation telle qu’à midi, au solstice d’été, le gnomon y donne tout de même une ombre. Si le monde n’avait pas été détraqué, le gnomon ne devrait donner aucune ombre à la place qui est celle du Chef. G. Reichel-Dolmatoff (1987: 4) Cioè a dire uno gnomone. Aveni (in Walker 1997: 425) nota a proposito dei Desana che “essi suddividono l’anno in due stagioni di piogge ed in due stagioni di siccità e stimano il punto centrale del loro calendario in base al luogo in cui il bastone dello sciamano, tenuto verticale, non proietterà alcuna ombra”

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d’un gommier, Numbakula a façonné le poteau sacré (kauwa-auwa) et, après l’avoir joint avec du sang, y a grimpé et a disparu dans le Ciel. Questo bastone rappresenta l’axis mundi che troviamo anche presso i Buriati, laddove gli sciamani utilizzano il palo che sostiene la tenda per “arrampicarsi in cielo”. Ma in questo caso l’analogia con la narrazione di Garcilaso è davvero notevole, infatti: …les Achilpa le transportent avec eux et choisissent la direction à suivre d’après son inclinaison. Quest’azione permette loro di spostarsi senza mai perdere il contatto con il dio. Nel caso in cui questo bastone si spezzi, c’est la catastrophe…la fin du Monde, la regression dans le Chaos (ibidem). Una volta perduta la comunicazione con il cielo, l’esistenza sulla terra non è più possibile, e gli Achilpa si lasciano morire52. Eliade53 osserva accortamente che il palo sacro in questione, fungendo da axis mundi, e costituendo quindi il vero e proprio centro del mondo, luogo di congiunzione degli assi cardinali e dei livelli cosmici superiori e sotterranei, conferisce una struttura allo spazio amorfo che lo circonda. Così, lo gnomone leur permetteait de délimiter les terres inconnues dans lesquelles ils se disposaient à s’aventurer. E’ comunque bene cercare di comprendere la reale funzione dello gnomone. Infatti, assunto come dato acquisito che non stiamo parlando di semplici superstizioni prive di qualunque valore conoscitivo, non resta che indagare l’etema in questione in modo più dettagliato. Innanzitutto bisogna introdurre la teoria di un archeologo statunitense, Stephen H.Lekson 54, il quale ha individuato una notevole correlazione tra i più importanti siti degli Anasazi, dislocati in una vastissima area che va dal Colorado allo stato messicano di Chihuahua. In pratica i siti anasazi di Azec Ruins, di Chaco Canyon, di Salomon Ruins e di Casas Grandes, occupati in momenti diversi della storia di questo popolo alla continua ricerca di terre ospitali, si trovano sullo stesso meridiano, il 108 ad ovest di Greenwich, nonostante che le distanze tra i diversi luoghi arrivino a misurare centinaia di chilometri. Giuliano Romano si chiede giustamente “in che modo queste antiche genti sono riuscite a mantenere per distanze così molto lunghe l’esatto orientamento? Come hanno potuto muoversi in latitudine e non in longitudine?”. La risposta che lo studioso italiano suggerisce è legata all’uso dello gnomone verticale: dopo aver piantato uno gnomone nel terreno, si doveva disegnare una circonferenza il cui centro coincideva con il punto in cui lo gnomone si era conficcato. Al mattino si doveva segnare il punto (A) in cui l’ombra dello gnomone intersecava la suddetta circonferenza e lo stesso bisognava fare al pomeriggio (punto B). La perpendicolare al segmento AB era il meridiano 52

In Cina, analogamente «The Apocryphal Changes» describes in several passages the disasters that may be expected if, because of miscalculation, the gnomon’s shadow, when measured on the presumed solstice day, proves to be either longer of shorter than empirical past experience has shown it should be properly be on that day. In the first passage, for example, we learn that if, on the alleged Winter Solstice day, the shadow is of the proper lenght, this means that the coming year will enjoy abundant crops and good social stability. If, however, the shadow is too short, the result will then be droughts and moon eclipses. […]. …at the Winter Solstice, “the (Three) Lords, (Nine) Ministers, Grandees and lesser officials are correct in their ideas, (the shadow of) the yin-yang gnomon will accord (in lenght) with the proper measure (Bodde, 1975: 174).

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Eliade, 1972: 62

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G. Romano, 1998: 174-176

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cercato. Altrimenti, più rozzamente, era anche sufficiente determinare la direzione dell’ombra più corta proiettata dallo gnomone nel corso della giornata. In buona sostanza il metodo che gli Anasazi potrebbero aver impiegato è assai probabilmente quello che gli altri sopracitati popoli dell’antichità trovarono particolarmente valido. Eliade aggiunge che pali cosmici di questo genere s’incontravano anche presso i Celti ed i Germani, ed in India, dove assumeva il nome di skambha, ma compare anche presso i Kwakiutl della Columbia Britannica, che lo identificano con la Via Lattea (fenomeno riscontrabile anche in Siberia) e i Nad’a dell’Indonesia. D’altronde Gerusalemme e Babilonia si configurano come dei veri e propri ombelichi del mondo, “montagne cosmiche” in tutto e per tutto identiche a Cuzco nella loro funzione di luogo d’incontro tra i tre piani cosmici, quello celeste, quello terrestre e quello sotterraneo. In Messico la capitale degli Aztechi, Tenochtitlan, era parimenti concepita come una cittadella fortificata che sosteneva il cielo, mentre Teotihuacan, la cui configurazione armonica era stata ottenuta alterando alcuni elementi del paesaggio e deviando un fiume, era ordinata intorno all’incrocio delle due arterie principali, il Viale dei Morti ed la Via Est-Ovest, che la dividevano in quattro grandi quartieri. La conclusione è semplice: l’umanità pre-moderna desiderò sempre vivere al centro del mondo e provvide a far sì che la città capitale, la reggia del sovrano ed il principale santuario si trovassero sempre nel luogo in cui era possibile entrare in contatto con gli dèi. Per parte sua Cuzco rivela il suo carattere sacrale non solo nell’operazione di fondazione, ma anche nell’organizzazione urbanistica; la sua divisione in quartieri (4 appunto) raggruppati in due metà corrisponde all’imago mundi universalemente adottata: la division du village en quatre secteurs, qui implique d’ailleurs un partage parallèle de la communauté, correspond à la division de l’Univers en quatre horizons (Eliade, ibidem: 42). Questo motivo non è infatti certamente di dominio esclusivo dell’Estremo Oriente e delle Americhe. Jean Hani (Ries, 1997: 52) lo incontra nella città romana, la cui fondazione avveniva sotto la supervisione di un aruspice che tracciava nell’aria una croce, ossia l’incrocio tra il cardo ed il decumano, che doveva rappresentare un «templum» virtuale intorno al quale sarebbe nato il tempio e la città reale. La capitale dei Khmer, Angkor Thom, era una città quadrata divisa da due grandi assi viari incrociati perpendicolarmente e cardinalmente, nel cui punto d’incrocio sorgeva il tempio di Bayon, riproduzione terrena della montagna cosmica Meru, ossia di una delle possibili rappresentazionei dell’axis mundi55. Tornando ad occuparci della questione dei processi spaziali antichi, è da dire che in Asia ed in Perù il mondo che, come si è visto in precedenza, era diviso secondo le quattro direzioni, e la cui pianta formava quindi una croce statica, era soggetto all’azione dell’imperatore, il quale era tenuto a 55

In the Shang conception of the world, there were five cardinal directions: north, south, east, west, and the “central Shang”, the last being wherever the king and his court resided (K. C. Chang, 1976: 51)

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trasformarla in una croce in movimento (uncinata), cioè in mutamento positivo, circolando lungo stazioni che si trovavano all’interno della Casa del Calendario. Ebbene, anche in Perù esisteva il simbolo della swastika56; anche in Perù la Capitale, immagine del mondo, era ordinata secondo quattro direzioni non cardinali, quindi in una croce in movimento; anche in Perù, infine, questi 4 poli erano la meta dei delegati inviati dall’Imperatore per trasportare via con loro il male. Laurencich Minelli (1989: 64-65) descrivendo la pianta di Cuzco: “Gli assi della città, anche se normalmente sono tracciati tenendo conto delle direzioni astronomiche fondamentali, in realtà formano con esse un angolo di 45 gradi” 57. Questa croce indica “il più riposto principio del moto rotatorio e quindi del trascorrere del tempo. Si tratta di una simbologia molto diffusa, già presente nelle note svastiche solari della preistoria eusoasiatica” (ibidem). Tuttavia sembra che si possa affermare che la questione sia anche più complessa. In India ed in Cina le svastiche ebbero un ruolo determinante anche nella edificazione delle città dalle quali si sarebbe irradiato il potere “taumaturgico” del sovrano. Il principio cosmico della croce inclinata in forma di X, infatti, riproduce un rapporto fondamentale del pensiero cinese, quello tra Yin ed Yang, che cardinalmente si riflette in une corrélation essentielle, à savoir: la liasion de l’est et du sud (Yang), de l’ouest et du nord (Yin) (Granet, 1953: 270). Questo binomio non è però omogeneo, in quanto la prima coppia è ciclicamente meno importante della seconda 58, il che già ci dovrebbe aver fatto rammentare la distinzione tra una Hanan-Cuzco nord-occidentale ed una Hurin-Cuzco sudorientale. D’altronde Zuidema (1971: 236) aveva ampiamente dimostrato che il rapporto tra Hurin ed Hanan Cuzco non era così lineare come si era sempre creduto: «una seconda singolarità è che i palazzi degli imperatori di Hanan-Cuzco erano situati oltre il vero centro della città, e che i palazzi degli imperatori di Hurin-Cuzco…erano situati nel vero centro. La posizione dei più importanti luoghi sacri di Cuzco prova che il rapporto tra il territorio di Hurin-Cuzco e quello di Hanan-Cuzco era considerato simile a quello tra il centro e la periferia. Soltanto il tempio del Sole, situato a HurinCuzco, aveva una funzione importante nella vita religiosa degli Inca a Cuzco». Bisogna altresì segnalare che Manco Capac fu un sovrano mitico e nel contempo anche un sacerdote e lo dimostrò conficcando il palo cosmico nel terreno di fondazione della futura Cuzco: come tale apparteneva ad Hurin Cuzco; la linguistica corrobora questa affermazione, infatti il verbo 56

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Cattabiani (299) osserva che già Sesti, ne “Le dimore del Cielo” del 1987, ha sostenuto che “se si disegnano sullo stesso foglio le sette stelle [dell’Orsa Maggiore] nelle quattro posizioni stagionali e si traccia la croce che passa dalla stella polare, si ottiene una svastica perfetta, simbolo ricorrente in molte culture”. Non si sottovaluti questa annotazione di Cattabiani: in Cina le profezie erano spesso effettuate facendo ruotare su una mappa divinatoria la riproduzione dell’Orsa maggiore. Questa sorta di “freccia” che doveva indicare il responso oracolare ruotava intorno ad un perno posto al centro della mappa che a sua volta rappresentava il perno del cielo, ossia la Stella Polare. Non è difficile vedere in questa rotazione una delle possibili origini della swastika rotante. Anche per i Maya i quattro angoli del mondo erano NE, NO, SE e SO In effetti le Monde a une structure, une morphologie qui dépent de la structure sociale. Il a aussi une physiologie dont la loi essentielle est un principe de roulement, à savoir l’alternance rythmique et cyclique du Yin et du Yang. […]. Il y a des moments où le Yang commande, des moments où le Yin commande. […]…il y a des ères de civilisation, il y a des phases physiologiques de l’Univers où il convient d’être gaucher et d’autres phases où il convient d’être droitier (Granet, 1953: 272).

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quechua kapay indica l’atto del misurare a palmi (kapa = palmo, mano estesa e misura) e lo stesso concetto è espresso dall’aymarà con il verbo capatha (capa = palmo); dunque capac significa “colui che misura coi palmi”. Questa operazione “misteriosa“ è chiara se confrontata con l’annotazione di Lewis (Sullivan, 1998: 453): “Anche gli astronomi aztechi “utilizzavano le mani a mo’ di sestante per misurare i movimenti astrali”, secondo quanto riferisce Léon-Portilla, che traduce l’appellativo azteco assegnato agli astronomi, i-ne-ma-taca-choliz con “egli misura con la sua mano il corso delle stelle”… il fatto ancora più evidente che il maitl, o misura manuale, era un’unità di misura nahua”59. La Rostworowski (1983: 131) suppone che Ayar Auca, il condottiero che nella mitologia incaica giunge a Cuzco prima di tutti, per liberare la regione dagli eventuali pericoli, dovesse il suo nome al suo incarico militare – infatti «aukay» in quechua è il soldato – e che perciò stesso dovesse essere ritenuto il signore di Hanan Cuzco. In pratica il capo religioso, signore del tempo, conviveva con il capo politico-militare, signore dello spazio, assicurando l’interazione tra le due dimensioni cosmiche. Questo tipo di modello duale basato sul completamento reciproco delle funzioni è attestato a Tikopia dalle ricerche di Raymond Firth, in alcune tribù dravidiche dell’India meridionale da quelle di Beck, tra i Keresana da Lange e tra i Bororo da Lévi-Strauss. 3.2 LE QUATTRO RAPPRESENTAZIONI DELLA STRUTTURA SOCIALE INCAICA In una tesi di dottorato di stampo strutturalista, che ormai risale ad alcune decine di anni fa, R.T. Zuidema propose un nuovo modo di interpretare l’organizzazione sociale del Cuzco, che veniva intesa come una sovrapposizione di quattro principali configurazioni: una duale o bipartita assiale, una tripartita concentrica, una quadripartita cardinale ed una radiale. Il suo saggio, per la verità molto complesso, analizza queste configurazioni nelle loro relazioni reciproche, che definisce rappresentazioni, scelta questa che mi è però preclusa dalla preventiva adesione al metodo comparativo, per sua natura generalizzante e non così mirato. Intendo infatti piuttosto assumere ogni configurazione come un elemento a sé stante della struttura sociale incaica, per confrontarlo poi con elementi affini presenti in altre culture. Le rappresentazioni da me proposte sono così quelle comunemente accettate dagli studiosi che si occupano dell’indagine delle istituzioni incaiche60. La prima è individuata nella divisione in due moieties, Hanan ed Hurin, della capitale e molto probabilmente delle altre città dell’impero; la seconda nella distinzione fra tre gruppi sociali separati, endogamici o esogamici a seconda dell’appartenenza più o meno diretta all’etnia incaica; la terza nella ripartizione della capitale e dell’impero nel suo complesso in quattro grandi distretti (suyus); la quarta 59

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Tra i quali Urton, Rostworowski, Duviols, Roda, Turner ed Ossio

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nella distribuzione a raggiera dei ceques, ossia di linee immaginarie dall’altissimo valore religioso e spirituale che univano i vari centri politico-religiosi dell’impero alla periferia. Zuidema ha il grande merito di aver confrontato questo tipo di organizzazione con quella di una tribù amazzonica del Mato Grosso, i Bororo, dimostrando che esiste un patrimonio culturale comune, che informa buona parte delle società tribali sudamericane e che contribuì al modellamento della configurazione statale di una società complessa come quella incaica. Egli non ha però ritenuto opportuno approfondire questa indagine ed ha proseguito gli studi comparativi delle cronache. Ciò nonostante mi pare che una prospettiva più generale possa essere altrettanto interessante e gravida di risultati. Per questo ho indagato altre società americane e del Vecchio Mondo alla ricerca di queste quattro rappresentazioni; il fine è quello di indagare quali ragioni abbiano spinto popoli spesso culturalmente molto diversi a scegliere di dotarsi di strutture sociali ed istituzionali sostanzialmente analoghe. 3.3 LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE: IL DUALISMO Spesso l’organizzazione sociale rispecchia la configurazione sacrale del villaggio o della città santa. Così ai villaggi bipartiti delle culture agricole indigene americane corrispondono rituali dalle cerimonie bipartite. Secondo Åke Hultkrantz (Henri Charles-Puech, 1992: 238-240) vi è un legame stretto tra il passaggio dall’economia di caccia all’economia rurale e la nascita della struttura sociale bipartita; infatti «la maggior parte delle popolazioni di cacciatori e di raccoglitori delle due Americhe non conosce questa dicotomia sacra». Inoltre, «numerosi etnologi hanno sottolineato come questo sistema bipartito sia spesso legato all’esogamia e come probabilmente costituisca una sovrastruttura o una rifondazione dell’organizzazione di clan». Dunque forse non è casuale che gli Inca, popolo di agricoltori che migravano solamente per cercare dei territori più fertili o forse perché scacciati da altri popoli più potenti, avessero assunto una configurazione bipartita esogamica. Per Hultkrantz questa bipartizione ha quasi sempre un carattere sacrale, che si riproduce sulla base delle credenze mitologiche da un lato, e sulle funzioni rituali dall'altro. La somiglianza con il modello inca si fa più forte quando leggiamo che «il più delle volte si parla delle metà Cielo e Terra, di «lassù in alto» e di «quaggiù in basso», oppure si attribuiscono alle due metà nomi di uccelli e di animali terrestri (o acquatici) come succede presso i Winnebago e nel sistema delle fratrie degli Indiani del nord-ovest. Fra gli Irochesi e gli Omaha, nonché fra gli Inca, le metà implicano un aspetto sessuale: la metà Terra, fra gli Omaha, è considerata femminile e la metà Cielo maschile» 61. 61

Van der Kroef (Am.Anthr. 1954, LVI: 861, nota 5): Substantially the same traces of symbolic dualism, reflecting in many cases a double unilateral (or parallel) social system and involving the ritualistic confrontation of heaven and earth, upper word and underworld, male and female, as well as the cultic role of the trickster hero, have been found to exist in many societies outside Indonesia, including the Kwakiutl, of northwest America, the Trobriand of Melanesia, and India and western Asia.

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Infine è da dire che il dualismo assolve l’ulteriore funzione di distinguere le due metà in ragione delle opposte e complementari mansioni religiose e belliche 62: in buona sostanza quando la comunità si trova in uno stato di belligeranza, le funzioni di governo vengono affidate al capo della metà investita dei compiti difensivi ed offensivi. A ben guardare notiamo che il modello ordinatore della società inca non differisce quasi per nulla rispetto a quello di molte delle altre società indigene americane dedite all’agricoltura; gli elementi in comune sono infatti numerosi e significativi: •

bipartizione esogamica matrilineare;

bipartizione in metà alta (celeste maschile) e metà bassa (terrestre femminile);

bipartizione in metà guerriera e metà «sacra»;

organizzazione in lignaggi estesi panaca associati a simboli totemici di uccelli;

Non è quindi da escludere che gli Inca compartecipassero profondamente a quel sostrato culturale comune alle Americhe, che risale al tempo delle grandi migrazioni che le popolarono. Con l’espressione di “organizzazione duale” Lévi-Strauss (1974) intendeva definire un sistema fondato sul principio della reciprocità63, nel quale i membri di una comunità sono divisi in due parti, spesso esogamiche e matrilineari, legate da rapporti al tempo stesso di rivalità e di cooperazione ed accompagnate da una gestione duale dei poteri da parte di un capo civile e di uno religioso 64. La bipartizione può a sua volta tradursi in una quadripartizione, quando la prima divisione viene intersecata da un’ulteriore divisione parallela o perpendicolare alla precedente ed inoltre può comprendere dei clan, dei lignaggi esogamici e delle classi matrimoniali. Nell’ambito mitologico la bipartizione trova riscontro nel mito delle origini, che assegna a due eroi culturali, talora gemelli o comunque fratelli, il merito di aver fondato la comunità, mentre nella concezione dell’universo alla bipartizione del gruppo sociale corrisponde quella del resto dell’universo non cosmizzato degli esseri e delle cose dell’universo, distinti ed aggregati per accoppiamento di opposti: Rosso e Bianco, Chiaro e Scuro, Giorno e Notte, Nord e Sud, Est ed Ovest, Cielo e Terra. Nel caso Inca abbiamo:

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membri della comunità divisi in due parti rivali e cooperative;

metà esogamiche;

Tra i Baduj di Giava occidentale (Geise, citato da van der Kroef, in American Anthropologist 1954, LVI, 847): The dualism which belongs to the essential nature of Baduj society, functions [the same way] as in countless other societies with a two fold division: it separates the entire society in two halves, which need each other. The unique element in division of this Baduj society is, that the one half, the division which comprises the inner Badujs, is the holy, the sacred part, and the other is the non-holy, the profane one. The first division is the dominating one; the second the one that serves; the first leads, the second follows.

63 64

Per Métraux la cooperazione non è sempre una delle funzioni predominanti del modello dualista. Riferendosi alle moieties degli Uro-Chipaya di Carangas (Titicaca) egli annota che en dehors des fêtes ou des assemblées réunies pour discuter des intérêts généraux de la tribu, les deux saya s’ignorent et si leur existence se poursuit sur un plan parallèle, elle ne se confond que rarement (A. Métraux, Les Indiens Uro-Chipaya de Carangas, Journal de la société des Américanistes, XXVII, 1935).

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le metà comprendono dei clan;

discendenza matrilineare;

due eroi culturali, fratelli;

bipartizione del cosmo;

opposizione cardinale dello Spazio e distinzione tra metà celeste e metà terrestre;

dicotomia di poteri tra un capo religioso ed un capo militare.

Ad ogni modo per Rainer Tom Zuidema è possibile che la divisione tra Hanan ed Hurin Cuzco corrispondesse alla distinzione tra un ceppo facente riferimento al sole, invasore, ed uno facente riferimento alla luna, nativo e sottomesso dal primo65. Il processo dualistico di alternanza verticale appare anche in altre società, come in quella figiana dove fortissimo è il senso dell’alternanza generazionale 66, ma anche in Australia e nell’antica Cina. Per parte sua, ne Les structures élémentaires de la parentè, Lévi-Strauss osserva che il principio delle generazioni alternate ha ormai assunto una tale importanza nell'interpretazione di fenomeni altrimenti oscuri, che ovunque si trovi un abbozzo, o una traccia, di opposizione tra generazioni consecutive e di identificazione tra generazioni lontane è opportuno fare riferimento al suddetto modello. 3.4 LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE IN SUDAMERICA Nella sua prima opera, una tesi di dottorato appunto, R.T.Zuidema mise subito in luce quali sarebbero stati i suoi successivi indirizzi di ricerca (1970: 31-32). Nella parte introduttiva egli chiarisce che il suo intento è quello di mostrare come le forme di organizzazione adottate nella società incaica fossero strettamente collegate ad analoghe forme di organizzazioni tipiche delle società tribali dell’Amazzonia brasiliana. Questa tesi fu spesso aspramente criticata, ma odiernamente le ricerche di studiosi quali Pierre Duviols e di María Rostworowski stanno dimostrando che Zuidema non si era ingannato. L’analisi di Zuidema prende le mosse dalle indagini condotte sul campo da Lévi-Strauss. Esse avevano indotto il grande antropologo francese a ritenere che si dovesse distinguere tra le teorie che un popolo può avere della sua organizzazione sociale ed il reale funzionamento della stessa. Zuidema da parte sua si chiede se sia la forma di organizzazione a determinare i processi sociali e se invece le 65

Nella mappa del Tawantinsuyu di Guamam Poma de Ayala Chinchasuyu ed Antisuyu (Hanan) sono a destra nella parte alta della mappa, mentre Collasuyu e Cuntisuyu sono a sinistra nella parte bassa. Quando il Sapa Inca riuniva i quattro consiglieri dei quattro dipartimenti i primi due si dovevano porre alla sua destra, con il consigliere del Chinchasuyu più vicino all’Inca del collega di Hanan, mentre gli altri due si ponevano alla sinistra, con quello di Cuntisuyu un po’ arretrato.

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In the part of Fiji where I work this generational alternation s tied in with a moiety system in which a person belongs to the opposite moiety to his or her father (therefore being the same moiety as father’s father), and from leach we know of the Highland Burma kind of Gumsa/Gumlau alternation cycles that require several generations to complete (Adrian Tanner: @listserv.acsu.buffalo.edu, 12 jan 1998)

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rappresentazioni cognitive si modellassero sulle forme di organizzazione esistenti. Per trovare una risposta a questo interrogativo, egli confronta il caso Inca con quello dei Bororo, una popolazione amazzonica del Mato Grosso, che ha diramazioni anche in Bolivia, quindi non troppo distanti da Tiwanaku, la mitica culla della civiltà incaica. Il problema principale, a suo avviso, è che la descrizione dell’organizzazione del Cuzco proposta dagli Inca ai cronisti non rispecchia i reali rapporti di potere, che si possono ricavare dallo studio dell’urbanistica: le dimore ed i templi più importanti della capitale, edificati al suo centro, non appartenevano alla metà Hanan della città, quella che deteneva il potere, ma a quella Hurin che secondo lui, conviveva con gli Hanan in un rapporto corrispondente a quello tra conquistati e conquistatori. Perciò Zuidema riprende le ricerche di LéviStrauss sull’organizzazione spaziale del villaggio Bororo. Il villaggio bororo è organizzato circolarmente in due semicerchi, uno chiamato Cera, l’altro Tugaré 67. Queste due metà intrecciano rapporti esogamici, matrilocali e matrilineari. Zuidema commenta (ibidem: 238): “come si è dedotto nei capitoli precedenti, anche a Cuzco esistevano metà esogamiche matrilocali e matrilineari ed è quindi probabile che si possa dare una spiegazione simile al fatto che il Tempio del Sole fosse posto ad Hurin-Cuzco…I ceque di Cuzco possono ben venir paragonati ai sentieri che vanno dalla casa degli uomini68 alle case familiari dei Bororo”. Dunque, secondo lo studioso olandese, l’opposizione tra le due metà era connessa a quella tra capi politici e sacerdoti: “come in un villaggio bororo, sia i capi che i sacerdoti potevano considerarsi al centro rispetto alla metà dell’altra parte”. Questa ultima affermazione è corroborata dalle osservazioni di Radin, citato da Lévi-Strauss (1974: 148), e che si riferiscono ad un villaggio tipo dei Winnebago, una popolazione della regione dei Grandi Laghi nordamericani che mostra in modo evidente come lo spazio sia un prodotto socio-culturale e come la sua percezione non sia statica, ma possa mutare a seconda del punto di vista dell’osservatore. Paul Radin aveva infatti rilevato come la concezione della distribuzione spaziale delle capanne di un villaggio winnebago a struttura bipartita esogamica non era un riferimento assoluto per tutti i membri del villaggio. Per alcuni il villaggio era diviso in due metà diametrali, per altri era sì organizzato dualmente ma in una configurazione concentrica. Per Lèvi-Strauss questo bias era dovuto alla compresenza di due ordinamenti ideali, proiettati dalle strutture mentali degli abitanti del villaggio: uno concentrico che rappresentava l’opposizione tra sacro e profano, ed uno diametrale che distingueva integrando le due metà esogamiche del gruppo 69. A questo stesso proposito è da notare 67

Tra l’altro non è di secondaria importanza che l’asimmetria nell’importanza relativa di una delle due metà non sia stabile ma oscilli alternativamente come sembra essere stato il caso di Hanan ed Hurin Cusco, con la seconda che, pur vantando numerosi Sapa Inca, al momento della conquista si trovava in un ruolo subordinato rispetto ad Hanan.

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posta al centro del villaggio bororo proprio come il Coricancha era posto al centro di Cuzco, anche se c’è da dire che non tutti i ceque partivano da lì. Ad ogni modo i bakugetou (sentiero del cortile) erano 13 e quindi potrebbero avere avuto anche presso i Bororo una relazione con il moto apparente del sole nel corso dell’anno.

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Radin note un curieux désaccord entre les personnes âgées qui lui servent d’informateurs. En majorité, elles décrivent un village de plan circulaire, où les deux moitiés sont séparées par un diamètre théorique N.-O. – S.-E. Pourtant, plusieurs contestent énergiquement cette distribution du village et en reproduisent une autre, où les huttes des chefs de moitiés sont au centre, et non

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che a Cuzco si sovrapponeva un’organizzazione bipartita asimmetrica (Hanan-Hurin 70) ad una organizzazione tripartita concentrica (Collana, Payan, Cayao) che nasceva dalla distinzione tra un’élite di pura appartenenza inca (Collana), uno strato sociale costituto dai popoli sottomessi (Payan) ed uno strato sociale misto nato dall’unione tra i primi due ordini e costituito dagli assistenti e servi dell’élite, di appartenenza inca o meno (Cayao)71. Per Lévi-Strauss questa complessa concezione dello spazio potrebbe essere spiegata ipotizzando che, anche in un tipo di struttura sociale simmetrica come l’organizzazione dualista, la relazione tra le metà non è mai simmetrica come in un rapporto di reciprocità perfetto. “Struttura diametrale” e “struttura concentrica”, come le definisce lui, potrebbero dunque essere due modi di descrivere una realtà troppo complessa per essere formalizzata in un unico modello. Infatti Zuidema (ibidem: 238), commenta: “…le descrizioni fatte degli Inca della loro organizzazione sociale, espresse in termini mitologici e storici, davano talvolta l’impressione di un’opposizione diametrica della metà e talvolta di una struttura sociale concentrica”. Marazzi (1990: 175) ha impiegato il termine “sintopia” per definire il processo di elaborazione culturale dello spazio volendo intendere che “nello stesso luogo, sullo stesso territorio, coesistono e si stratificano aree di significato autonome”. Presso i Cayapò del Paranà brasiliano sud-orientale (Terence Turner in Sullivan, 1997: 256-260) possiamo notare che il villaggio è distinto in due metà simmetriche a livello topografico ma asimmetriche a livello qualitativo-rituale. Una di queste è chiamata “alta” e giace ad occidente, laddove si ritiene che il sole sia alla sommità del suo percorso e l’altra “bassa” e si estende ad oriente, “la radice del cielo”, dove il sole spunta. La concezione bipartita asimmetrica è parimenti accompagnata da un ordinamento concentrico, che distingue ciò che sta fuori, lo spazio naturale, ossia il terreno al di là del cerchio delle case, da ciò che sta dentro, lo spazio sociale, ossia le case allineate lungo i due semicerchi e le due case degli uomini al centro del cerchio. Questo spazio naturale ha “gradi di socialità” decrescente man mano che ci si allontana dal villaggio: “secondo questa concezione, la società cayapò, rappresentata dall’unità autonoma di ogni singolo villaggio, costituisce il punto centrale e focale dello spazio-tempo cosmico. I suoi confini esterni sono rappresentati dalla barriera circolare del cielo, caduto sulla terra quando, nel passato mitico, un tapiro rosicchiò fino a distruggerli gli alberi giganteschi su cui poggiava” (ibidem: 259). plus à la périphérie. Selon notre auteur, il semble infin que le première disposition ait été toujours décrite par des informateurs de la moitieé d’en haut, et la seconde par des informateurs de la moitié d’en bas (L-S, 1974: 148-149) 70

Hanan significa alto ed Hurin basso ma anche presso i Bororo una delle due metà si chiamava “alta” e l’altra “bassa” e si cercava di costruire il villaggio su di un leggero pendio in modo che la metà orientale stesse più in alto di quella occidentale. L’asimmetria presso gli Inca è ben corredata dai dati desunti dalle cronache del XVII secolo ed in particolare dalla constatazione che nelle battaglie rituali tra le due metà era prescritto che Hanan al termine sarebbe dovuta risultare trionfante

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Roda (1994: 79): «Gli abitanti di Cuzco erano accorpati in tre gruppi, denominati collana, payan e cayao ed erano sistemati nella città secondo una struttura concentrica. Il primo occupava il centro della città, il secondo il rimanente spazio urbano, l’ultimo l’esterno. Essi, che erano intesi sia come gruppi parentali sia come classi matrimoniali, rappresentavano simbolicamente, nell’ordine, i conquistatori inca, gli abitanti originari, gli estranei ai primi due»

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In Indonesia l’opposizione tra centrale e periferico, o interno ed esterno, è stata rilevata a Giava tra i Baduj interni, considerati superiori e sacri, ed i Baduj esterni, inferiori e profani. Come si vede sono davvero notevoli le analogie con la divisione di Cuzco tra Hurin, esponenti della casta sacerdotale, che abitavano al centro, e Hanan, esponenti della “casta” militare, che però si erano imposti, forse al tempo dell’Inca Pachakuti, grande condottiero e guerriero al quale erano invisi i sacerdoti, assumendo una posizione preminente all’interno dell’organizzazione cuzqueña ed imperiale72. Tra questi popoli Inca abbiamo una struttura concentrica e mobile, che si sovrappone ad una struttura diametrale e fissa, rapporto che Lèvi-Strauss spiega postulando che il passaggio da ques’ultima struttura alla prima avviene quando ai due poli simmetrici che organizzano il villaggio viene aggiunto un terzo fattore, quello dell’ambiente circostante. Queste tribù, definite primitive, dimostrano invece di possedere una struttura sociale particolarmente complessa che media tra un dualismo interno – le due metà esogamiche o meno – ed una tripartizione esterna – centro e periferia cosmizzati vs ambiente non cosmizzato – che finisce per tradursi in un sistema radiale che irraggia la civiltà attorno al centro sacrale. 3.4.1

I BORORO ED IL CONFRONTO CON IL TAWANTINSUYU Ritengo opportuno approfondire la tematica della configurazione della società bororo. I Bororo abitano la regione del Mato Grosso attraversata dal rio Vermelho, dal Rio das Garças e

dal São Lourenço ma alcune tribù vivono nche più ad ovest, in Bolivia. La pianta del villaggio che fu studiata dal missionario salesiano veneto Antonio Colbacchini, una delle principali fonti delle ricerche di Lévi-Strauss e quindi di Zuidema era effettivamente circolare e bipartita. Il cerchio era formato dalle abitazioni di 14 clan73 divisi in due metà separate da un fiume 74, quella degli ecerae (“i deboli”) a nord e quella dei tugarege (“i forti”) a sud75, ordinati in 4 gruppi di tre clan ciascuno (per intenderci 72

Questo dato non è comunque da assumere acriticamente. Il confronto con altre realtà etniche come quella dei Terêre ci insegna che a idéia geral que os próprios Terêna fazem dessa superioridade (quando alegam que os sukirikionó são melhores – fato che os próprios xumonó evitam discutir) não fica expressa na organização social, onde as metades só funcionam como “classes matrimoniais”. […]. A sentida mas irrealizada supremacia de uma metade sôbre a outra deve ser entendida como un reflexo da vida ceremonial como o è também o estereótipo tribal sôbre a natuyreza briguenta dos xumonó.

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A dire il vero il numero delle capanne varia: per Albisetti esse erano 14, per Lévi- Strauss erano 12. Renate Brigitte Viertler, nel suo saggio dal titolo A comida dos espiritos Bope e o seu significado para a cosmologia dos Bororo orientais segnala invece che Os oito clãs Bororo aglomeram–se em duas metades matrilineares exógamas, a saber: a dos ECERAE, correspondendo aos clãs BAADOJEBAGE CEBEGIWUGE (os chefes construtores-de-aldeia de baixo), KIE (os antas), BOKODORI (os tatus-canastras) e BAADOJEBAGE COBUGIWUGE (os chefes construtores-de aldeia de cima) cujas choupanas se encontram num semicírculo setentrional separado por um eixo leste-oeste de outro, meridional, ocupado pelas choupanas da metade TUGAREGE, representada pelos clãs PAIWOE (os bugios). APIBOREGE (os donos da palmeira acuri), AROROE (os larvas) e IWAGUDUDOGE (os gralhas).

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come a Cusco lo erano le due metà Hanan ed Hurin e come in Australia lo era il campo delle tribù che avevano assunto l’organizzazione in moieties (Spencer-Gillen, 1969: 96).

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A Cuzco il rapporto era invertito: Hanan (i dominanti) a nord ed Hurin (i dominati) a sud; ma è probabile che l’inversione sia avvenuta con il nono imperatore mentre prima lo schema poteva essere quello bororo

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posti all’incirca come le ore in un orologio), più i due clan meridionale e settentrionale (ad ore 3 ed a ore 9 nell’orologio di cui sopra76), che costituivano assieme agli altri la tripartizione orientata da est e da ovest in direzione del centro. Infatti all’est corrispondevano i Cobugiuge (“quelli che stanno in alto”), al centro i Boiadaddauge ed i Baimannageggeu (entrambi “quelli che stanno al centro”, ma i primi nella parte settentrionale del villaggio ed i secondi in quella meridionale) ed infine i Cebegiuge (“quelli che stanno in basso”) ad occidente. Al centro di questo sistema v’era la casa degli uomini, orientata da est ad ovest e chiamata Baimannageggeu che, sempre secondo Colbacchini, potrebbe significare “capanna sopra cui (stanno) i fratelli maggiori”. Ulteriori distinzioni dicotomiche esistevano tra i clan di una stessa metà, quella meridionale dei tugarege, ma che erano topograficamente opposti. Così il primo partendo da est era il clan paiwe rosso, opposto al settimo, posto in prossimità dell’ovest, che era il clan paiwe nero, il terzo era il clan aorore rosso opposto al sesto che era un aorore nero, il quarto era un iwaguddudoge rosso, opposto all’adiacente quinto, iwaguddudoge nero. Il secondo rimaneva escluso dall’accoppiamento strutturale per opposizioni, ma era legato ai clan ecerae. Questa suddivisione non appare nella metà settentrionale. Un ulteriore fonte di complessità deriva dall’estensione dei villaggi che, se raggiunge un buon numero di ordini di capanne disposte in cerchi concentrici, definisce un ulteriore denominazione bipartita, che questa volta accomuna i clan distinguendoli solo per la posizione esterna (kurireuge, i maggiori) o interna (kugurireuge), unite al centro, ossia alla Casa degli Uomini, da 13 sentieri rituali a raggiera. Giunge quindi il momento di comparare il modello incaico con quello bororo sulla base dello schema proposto da Lévi-Strauss, per definire le peculiarità delle società duali e che ho delineato nel paragrafo precedente con l’aggiunta di altri tratti comuni solo ai due modelli in esame:

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L’immagine dell’orologio non è certo casuale: come si vedrà nel prossimo capitolo Cuzco e la regione circostante formavano un immenso calendario circolare ordinato su 14 punti di rilevazione del corso del sole, 14 come i clan sistemati in un cerchio (calendariale?) nel caso del villaggio bororo.

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INCA BORORO Membri della comunità divisi in due parti membri della comunità divisi in due parti rivali e cooperative Metà esogamiche Le metà comprendono dei clan Discendenza matrilineare molto probabile Due eroi culturali gemelli Bipartizione del cosmo opposizione cardinale dello spazio

rivali e cooperative metà esogamiche le metà comprendono dei clan discendenza matrilineare accertata due eroi culturali gemelli bipartizione del cosmo e opposizione cardinale dello spazio

distinzione tra metà celeste e metà terrestre

e

distinzione tra metà celeste e metà terrestre Il sole e la luna, le massime divinità bororo,

Dicotomia di poteri tra un capo religioso ed sono considerati ecerae (corrispondente alla un capo militare

metà Hurin di Cuzco), ma non v’è distinzione

tra autorità militare ed autorità religiosa Tripartizione ulteriore dei clan Tripartizione ulteriore dei clan Quadripartizione del cosmo e del sistema Quadripartizioe del cosmo e del sistema sociale sociale Sistema dei ceque disposti a raggiera Sentieri rituali disposti a raggiera Possibile successione alternata (mia proposta Possibile successione alternata77 di lettura del sistema incaico) 3.4.2

I CANELLA: IL DUALISMO STAGIONALE Questo popolo abita la regione brasiliana del Sertão ed appartiene linguisticamente alla famiglia

Ge. Dal punto di vista dell’organizzazione spaziale, i villaggi canella sono ordinati secondo una pianta radiale, marcata dai sentieri, che partono da ogni casa posta sul cerchio esterno dello spazio sociale sacralizzato, per convogliarsi nel punto centrale di questo stesso spazio. Inoltre tra i Canella abbiamo un villaggio diviso in due metà matrilinee e matrilocali 78, alle quali si appartiene per nascita, che si chiamano Ko’i-kateye e Hara’-kateye79. Questa divisione non è certo casuale ed è molto importante 77

78

Testimoniata a livello mitico dal fatto che per una parte il sole era nonno e per l’altra era padre e, a livello pratico, dal fatto che i discendenti ecerae hanno padri tugarege e nonni ecerae The seasonal moieties are thus characterized by:

a) Their nonexagamous character; b) Linkage with a dichotomy of the universe; c) Different principles of affiliation for males and females; d) The possibility of a shift in membership; e) A principle of reciprocity determining names and membership (Lowie in Julian H. Steward, 1963: 495)

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Ko’i significa est e hara’ significa ovest

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comprenderne la natura per poter interpretare meglio il “caso Cuzco”; infatti durante la stagione delle piogge (marcata dalla comparsa e scomparsa nel cielo delle Pleaidi) questa dicotomia perde valore e ne interviene un’altra, non esogama, che distingue due metà differenti ma identiche, Ka’ ed Atu’k, che continuano ad indicare l’est e l’ovest, e sono ancora associate rispettivamente al Sole, al giorno, al rosso ed alla Luna, alla notte ed al nero, ma che non comprendono le medesime persone 80. L’appartenenza ad una metà nel corso della stagione piovosa dipende dall’insieme dei nomi assegnati dal gruppo all’individuo, che nel caso dei ragazzi sono stabiliti da un parente materno, e nel caso delle ragazze dipendono invece dalla decisione di una parente paterna. I capi si avvicendano al mutare delle stagioni81 quindi, considerata la latitudine, due volte all’anno come a Cuzco. Sempre come a Cuzco le due metà lottano tra loro durante la stagione delle piogge, ma sempre una vince, come per indicare che la dicotomia deve sempre risolversi in una prevalenza di una parte sull’altra, al fine di mantenere l’armonia universale82. Nella stagione secca invece queste stesse metà perdono valore e sono sostituite dalle prime, con due nuovi capi distinti, ma ancora rimane una divisione triadica di ogni metà che ricorda da vicino quella incaica tra Collana, Payan e Cayao. Per quel che concerne il principio dell’alternanza delle moieties, sappiamo che in molte società esso è strutturalmente intrinseco alla loro costituzione ed in taluni casi la vita sociale è soggetta a mutamenti regolari, sia stagionali, e quindi orizzontali, cioè uniformi in tutta la comunità, sia orizzontali, cioè legati alle classi d’età. Ne “Le variazioni stagionali degli Eschimesi” Marcel Mauss analizzava il modo in cui gli Inuit si erano dotati di economie separate e contrastanti a seconda che ci si trovasse in estate o in inverno, dunque un modello orizzontale. Questa stessa distinzione era stata poi estesa anche alla vita sociale cosichhé ne era nato un sistema di alternazioni tra estate ed inverno nel quale gli Inuit riconoscevano il valore del gruppo solo in inverno e per ciò stesso rafforzavano i vincoli morali, giuridici e religiosi, mentre in estate, di contro, la vita sociale era languida e depressa. Tuttavia Mauss notava che queste differenziazioni non dipendevano da alcuna necessità funzionale. Questo stesso aspetto che è evidente anche in Cina, dove la polarizzazione yin-yang, che si manifesta già nelle realizzazioni artistiche di epoca shang, mostra la tensione verso una coincidentia oppositorum, una congiunzione che risulta evidente nell’iconografia che mostra gufi con occhi solari

80

Ecco la suddivisione simbolica riportata da Nimuendaju e Lowie in “American Anthropologist”, N.S., 39, 1937):

KaAtu’kEastWestSunMoonDayNightDry SeasonRainy SeasonFireFirewoodEarthWaterRedBlackRed plants and animalsBlack plants and animalsMaizeSweet potatoManiocCucurbit 81 82

Gaion -Zardi, 1979. Nuccio D’Anna (1999: 38): “In coincidenza della crisi annuale che comporta la lotta tra il lato luminoso e quello oscuro del cosmo, si sviluppavano battaglie fra opposte fazioni o fra campioni rivali, che in realtà erano veri e propri rituali di rinnovamento annuale, ordalie che comportavano sempre la vittoria dell’eroe Bianco su quello Nero”

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ed emblemi della luce adornati con simboli della notte e dell’oscurità, in modo da rappresentare la ciclicità del processo di alternanza tra le due manifestazioni cosmiche complementari. 3.4.3

I CUBEO: L’HERENCIA PARTIDA I Cubeo vivono lungo il corso dello Uaupes e di alcuni suoi affluenti, dunque molto vicini alla

Ceja de Selva, punto di incontro tra indios dell’Amazzonia e popolazioni andine. Anch’essi sono organizzati in due fratrie esogame, con matrimonio preferenziale tra cugini incrociati, delle quali una si chiama Hahanana83 e l’altra Corería; ma è un altro aspetto della loro organizzazione sociale quello che ci interessa. La persona che ha diretto e partecipato alla costruzione di una grande casa che spesso costituisce l’intero villaggio ospitando numerose famiglie al suo interno diviene automaticamente il capo del villaggio (tecnicamente viene definito “big man”), fenomeno che è attestato anche nel Messico contemporaneo, nello stato di Oaxaca. Ora noi sappiamo che quando Ayar Mango giunse a Cuzco fece costruire il Coricancha, la casa del sole, degli astri e degli dèi ove abitarono i primi Inca, gli Hurin. Egli divenne effettivamente il capo supremo di questa popolazione di nomadi temporanei, che avevano deciso di tornare a vivere come contadini stanziali, e venne chiamato Manco Capac, dove il sostantivo capac indica proprio il titolo di capo supremo ed è forse un nome rituale postumo, sul tipo di quelli cinesi del sistema zhao mu, oppure è un nome-titolo come quello che i sovrani maya assumevano al momento dell’ascesa al trono. Ma c’è da notare un’altra rilevante somiglianza con gli Inca, che si manifesta in seguito alla morte di uno di questi capi cubeo. Infatti l’abitazione da esso costruita e governata non può essere distrutta, ma non può neppure più essere abitata, perché a tutti gli effetti il capo, benché morto, è ancora presente, e rimane padrone della casa in questione. Così il nuovo capo sovrintenderà alla costruzione di una nuova casa prossima alla prima, mentre quest’ultima verrà custodita per conto del defunto capo dalla sua vedova84. Vediamo ora di confrontare questi dati etnografici con quelli etnostorici incaici, che sono stati raccolti dai cronisti della conquista. In Perù le panaca, ossia i lignaggi reali di Cuzco, erano formate dai discendenti di entrambi i sessi di un Inca regnante, fatta eccezione per quello tra i suoi eredi, che sarebbe salito al potere e che avrebbe formato a sua volta una panaca di cui sarebbe stato il capostipite85. Questi membri della panaca erano tenuti a conservare ed onorare la mummia ed il 83

Termine molto simile all’Hanan quechua che indicava una delle due metà esogamiche di Cuzco

84

Francesco Remotti ha rilevato un costume analogo nel periodo dei regni africani precoloniali: “con la morte del sovrano crollano anche le strutture dello Stato. Questo stesso legame impedisce che il successore possa rioccupare la vecchia capitale, installarsi nello stesso sito da cui regnava il predecessore. Il legame con il luogo del potere da parte di chi lo detiene è strettamente individuale e, come tale, irripetibile. Non vi può essere sovrapponibilità spaziale tra due o più capitali, due o più luoghi del potere; e questa irripetibilità determina la molteplicità e la mobilità delle capitali, cioè il fatto che la capitale pr ricostituirsi deve mutare di luogo, cercare un altro sito” (Remotti, 1993: 53).

85

Marica Roda (1994: 67): “La stratificazione dell’etnia, diventata élite politica, è riassunta in due diversi tipi di ayllu: gli ayllu “custodias” ed i panaca. L’esistenza di entrambi, osservata ancora dagli spagnoli dopo il loro insediamento, affonda le proprie

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ricordo delle imprese del defunto capostipite, con culti e celebrazioni di lignaggio e pubblici. Le mummie erano proprietarie di vasti appezzamenti di terreno – fenomeno che accomuna gli Inca ai Chimú della costa settentrionale del Perù – e ciò ebbe forse delle conseguenze determinanti nella formazione dell’impero, o almeno questa è l’opinione di G. W. Conrad e A. A. Demarest (Roda, 1994: 71, nota 50): “i re defunti [ovvero le loro panaca] controllavano la enorme maggioranza delle risorse agricole basilari del Tawantinsuyu, terra e manodopera, ed in particolare il densamente popolato distretto della capitale. Il resto dell’Impero aveva cominciato a dipendere in eccesso dalla coltivazione delle terre marginali”. I due studiosi si spingono fino a postulare che l’espansione del Tawantinsuyu fosse collegata con la necessità di reperire terre coltivabili, per ovviare all’espropriazione attuata in funzione degli appannaggi86. Ma questa vera e propria competizione per il potere tra gli antenati dei vari lignaggi divenne progressivamente un peso troppo oneroso per la regalità incaica. Se inizialmente la presenza delle mummie poteva essere ritenuta positiva, perché di per se legittimava il potere costituito, con il passare del tempo l’incremento nel numero delle mummie, dei servitori delle mummie (con i loro intrighi di corte) e degli appannaggi ad esse dovuti rese insostenibile la prosecuzione di questo costume. In pratica le istituzioni, che avevano gettato le basi dell’esperienza imperiale, si trasformarono da fattore di stimolo in un morbo, che cominciò a divorare le istituzioni a partire dal centro stesso dello stato, fino al punto che Huascar fu costretto a minacciare di spogliare le mummie dei loro diritti tradizionali e per questo perse l’appoggio dei cortigiani, che lo tradirono in favore del suo rivale, Atahuallpa. Il quadro è reso vieppiù complesso da certi ulteriori elementi individuati da Zuidema. Secondo l’antropologo olandese infatti il dato delle cinque generazioni di undici re non è un dato storico ma canonico: “La conseguenza era che le mummie dei re precedenti di entrambe le parti imperiali venivano escluse dal Tempio, perdendo così ogni importanza sociale e storica per i vivi. Non erano le mummie in sé ad essere importanti ma la loro posizione nel sistema, posizione tenuta costante. Altre mummie andavano ad occupare quelle posizioni quando si succedevano le generazioni” (W.Sullivan, 1998: 153). Questo stesso sistema di assegnazione ai defunti di una rilevantissima funzione sociale è noto anche agli antropologi che si occupano delle culture dell’Estremo Oriente. In Cina e Giappone, origini nel mito. I panaca, cinque appartenenti alla metà inferiore della città e sei a quella superiore, radunavano i membri dei lignaggi reali mentre i gli altri dieci ayllu raggruppavano i discendenti di coloro che avrebbero accompagnato Manco Capac durante la migrazione originaria”. 86

Un rey chimú no perdía sus derechos de propiedad, tan severamente defendidos, al morir. Al contrario, tales derechos quedaban garantizados a perpetuidad por una institción che ha sido designada “herencia partida”. Con esta expresión indicamos una modalidad de legado basada en dos dicotomías: cargo estatal frente a riqueza personal y herederos principales frente a herederos secundarios. […]. En el caso de la dinastia chimú el heredero principal de un emperador era uno de sus hijos. Ese hijo era elegido sucesor del trono, y asumía los derechos y deberes de la dirección del imperio tras la muerte del padre. Sin embargo, no heredaba ciertas partidas de las propriedades de su padre, que se confiaban a los otros descendientes del emperador difunto. Este colectivo de herederos secundarios administraba los bienes de su antepasado en nombre de éste, utilizándolos para cuidar de su momia y mantener su culto. Los descendientes de un rey muerto seguían, en efecto, al servicio de su corte (Conrad-Demarest, 1988: 116117).

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ad esempio, la morte non pone termine all’azione sociale dell’individuo, che rimane in stretto contatto con il mondo dei vivi. I rituali celebrativi dei defunti, che si svolgevano e talora si svolgono ancora con particolare scrupolosità proprio in corrispondenza delle date equinoziali (in Giappone si chiamano Higan e Bon) e solstiziali (come a Cuzco), servono a rafforzare la solidarietà del gruppo ed a cosmizzare l’ambiente circostante, che diviene accessibile proprio grazie all’intermediazione degli antenati. 3.4.4

I CHIMU’: UNA SOCIETA’ SEGMENTARIA PRECOLOMBIANA? Studiosi come Zuidema, Duviols, Wachtel e Rostworowski hanno avanzato l’ipotesi che la

forma di governo più diffusa in Perù fosse quella duale, con i centri separati in due metà, governate contemporaneamente da due capi. Questo modello organizzativo, trasformatosi in modello analitico, è stato poi applicato allo studio delle più brillanti civiltà del Perù preincaico, ossia Wari e Chimù. In entrambi i casi si sostiene che queste civiltà abbiano trasmesso agli Inca gran parte della loro struttura sociale e delle modalità di gestione del potere ed ora vedremo in che misura ciò è effettivamente avvenuto. Ho preferito concentrare la mia attenzione sulla civiltà chimù per il semplice fatto che è l’unica importante civiltà peruviana pre-ispanica, oltre a quella incaica, che abbia risvegliato l’interesse dei cronisti della Conquista (leggende di Ñaymlap e di Tacaynamo). La cultura Chimù, sviluppatasi tra il XIII ed il XV secolo lungo la costa settentrionale del Perù, rappresenta l’apice delle culture del Periodo Intermedio Tardo. Se a livello artistico essi elaborarono la precedente tradizione locale moche, pare che invece l’organizzazione sociale e la pianificazione urbanistica fosseri state mutuate dalla tradizione serrana di Wari. La capitale del regno Chimor era Chan Chan, una immensa città che conteneva decine di migliaia di abitanti e si estendeva per 24,5 chilometri quadrati. Gli scavi archeologici hanno rivelato che essa era divisa in 10 recinti (o unità di élite) chiamati ciudadelas, ognuno con giardini, piazze, palazzi e cimiteri propri. Conrad, che si basa anche su di una fonte cronachistica, la Historia Anonima, e sul confronto con la realtà incaica, ha ipotizzato che ogni recinto ospitasse uno dei dieci leggendari sovrani di Chan Chan con il suo seguito e lignaggio. In pratica ogni re aveva una sua “città nella città” che rimaneva di sua proprietà alla sua morte, divenendo una sorta di monumento funebre 87. Per quanto un illustre archeologo come Izumi Shimada ed un altrettanto illustre antropologo come R.T. Zuidema considerino discutibile questa ipotesi, essa rimane l’unica spiegazione possibile per dare ragione delle dimensioni “impossibili” di 87

Alan Kolata (The urban concept of Chan Chan in Rostworowski-Moseley 1990: 132-133): Conrad goes on to suggest that the disposition of the deceased king’s estate was governed by a principle of “split inheritance”. In accordance with the disposable wealth of the king’s estate was bequathed to a corporation consisting of his other consanguineal descendants. “These secondary heirs managed their ancestor’s property in his memory…cared for his mummy and mantained his cult. The new ruler was forced to acquire his own wealth by levying additional taxes in the existing provinces of the empire or by enlarging his dominant through new conquests”.

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questa metropoli, dal momento che le altre città della storia peruviana, Cuzco compresa, non raggiunsero mai una popolazione neppure lontanamente confrontabile con quella che viene assegnata dai rilievi topografici e dai calcoli statistici alla capitale dei Chimù 88. Questo è tanto più vero se noi ci rammentiamo che i Cubeo (che non credo Conrad abbia considerato) seguivano costumi del tutto analoghi ed abitavano proprio lungo una delle principali vie di comunicazione tra Amazzonia e Perù settentrionale. Questa sensazione è rafforzata dai dati archeologici che hanno mostrato come in ogni ciudadela esistesse un tempio dedicato al culto degli antenati che conservava la mummia del re defunto89, costume che accomuna i Chimù ai Cubeo ed agli Inca90. Passando ad analizzare la struttura duale della capitale del regno di Chimor, notiamo che alla moiety occidentale di Chan Chan spettava il controllo sui territori posti a nord del fiume Moche, che costituiva dunque un asse spaziale, mentre alla metà orientale spettava il controllo su quella meridionale91. Questa è esattamente l’ordinamento della Cuzco incaica. Fino a che il regno di Chimor non cominciò ad espandersi vistosamente verso nord, il potere duale era asimmetrico, con il cacicco della metà occidentale che si trovava in una posizione subordinata rispetto a quello della metà orientale. Ma in seguito a questa forte espansione le ricchezze acquisite permesero alla metà occidentale di riequilibrare la gestione del potere, che divenne dunque simmetrica. Patricia J.Netherly (in Rostworowski-Moseley, 1990), ha proposto di analizzare la lista regale di Chimor allo stesso modo in cui fece Zuidema con quella incaica 92. Quindi la successione di sovrani non sarebbe stata così estesa come sembrerebbe in quanto una metà dei re, e precisamente quelli anonimi, sarebbero appartenuti alla metà inferiore di Chan Chan.

88

Ad ogni modo, presso i Buganda del lago Vittoria, era invalso il costume di assegnare ad ogni governatore una porzione della capitale, nella quale egli poteva usufruire di un palazzo con orti e giardini e capanne per la servitù. Remotti (in Remotti, Scarduelli, Fabietti, 1989: 145) afferma che “la disposizione di queste residenze nella capitale è oltremodo significativa per diversi aspetti, dato che essa riproduceva la dislocazioe dei distretti nell’ambito più vasto del regno. Vi è – per usare l’espressione di Thornton – un “isomorfismo” tra l’ordine delle residenze dei capi nella kibuga e quello dei distretti (ssaza) su cui comandavano; ad un distretto nella parte orientale del Buganda, per esempio, corrispondeva la residenza del capo distrettuale nel settore orientale della kibuga, e ognuno dei capi distrettuali, insieme ai capi subalterni, aveva la sua residenza sull’arteria che conduuceva al proprio distretto”. Forse potremmo quindi leggere il caso chimù anche in quest’ottica. Tuttavia sono necessarie altre informazioni per poter dare una risposta definita.

89

Michael Moseley in Rostworowski-Moseley (1990:13): the central platform cell may be best understood as the special repository for an ancestral mummy associated with construction and use of the enclosing compound.

90

Durante la época imperial de su historia, Chimor desplegó la extraña y espectacular manifestación del culto de los antepasados que caracterizaría más adelante al imperio inca, los derechos de propriedad de los reyes difuntos (Conrad-Demarest, 1988: 116).

91 92

Moseley, in Rostworowski-Moseley, 1990. La domanda che ha posto Zuidema in merito a questo confronto è contenuta in Dynastic Structures in Andean Culture (Rostworowski-Moseley: 501) ed è la seguente: Would it be possible to define a pattern of two ciudadelas, an eastern and a western one, that functioned simultaneously and that we can compare to Hanan and Hurin Cuzco, respectively? More in particular, would it be possible to compare two ciudadelas to the two royal architectural complexes in Hanan Cuzco, of which the lower one was called Hatuncancha, “the large enclosure”?

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Ecco qui di seguito la lista originale ed il modello proposto dalla Netherly: PERIODO

NOME

DEL

PRIMA ESPANSIONE PRIMA ESPANSIONE PRIMA ESPANSIONE SECONDA ESPANSIONE SECONDA ESPANSIONE SECONDA ESPANSIONE SECONDA ESPANSIONE SECONDA ESPANSIONE SECONDA ESPANSIONE SECONDA ESPANSIONE SECONDA ESPANSIONE TERZA ESPANSIONE E CONQUISTA INCAICA TERZA ESPANSIONE E CONQUISTA INCAICA TERZA ESPANSIONE E CONQUISTA INCAICA TERZA ESPANSIONE E CONQUISTA INCAICA

SOVRANO Tacaynamo Guacricaur Nanรงenpinco Anonimo Anonimo Anonimo Anonimo Anonimo Anonimo Anonimo Anonimo Minchaรงaman Chumuncaur Guamanchumu Ancocoyuch

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TACAYNAMO SOVRANI

DELLA

PRIMA META’ Guacricaur Nançenpinco Minchançaman Chumuncaur Guamanchumu Ancocoyuch

SOVRANI DELLA SECONDA META’ Anonimo Anonimo Anonimo Anonimo Anonimo Anonimo

Nel capitolo dedicato alla comparazione tra il modello di successione cinese Shang-Zhou e quello incaico si constaterà che forse questa non è l’unica possibile spiegazione dei motivi che hanno fatto sì che gli autoctoni non fossero in grado di rammentare i nomi di circa la metà dei sovrani. In sintesi, si tratterebbe di un modello di successione alternata tipico dei sistemi sociali dualisti la cui esistenza è stata riscontrata ai nostri giorni in Estremo Oriente, in Polinesia, nella Columbia Britannica ed in Messico. In sostanza la gestione del potere sarebbe appannaggio non di un solo lignaggio ma di due lignaggi paralleli i quali, nel rispetto della norma della reciprocità, si trasmetterebbero periodicamente le funzioni di governo. Sulla base dei dati etnografici sembra che esistano due varianti di questo modello. Nella prima la successione alternata si verificherebbe ad ogni generazione e quindi, dati i lignaggi A e B, la sequenza di sovrani sarebbe del tipo A,B,A,B e così via; nel secondo invece il cambio avverebbe dopo un determinato numero di generazioni, in genere 5 o 7, cosicché la sequenza si configurerebbe come A,A,A,A,A, B,B,B,B,B, A,A,A,A,A e così via. Apparentemente la tipologia di successione sembrerebbe essere quella della seconda variante e, tenendo in considerazione la maggior parte delle fonti cronachistiche, parrebbe di poter dire che anche quella incaica rientrasse nella suddetta famiglia, con le linee di parentela hurin ed hanan che si alternavano al governo per un dato numero di sovrani. Eppure qualche interrogativo rimane aperto. Purtroppo non siamo ancora in possesso di informazioni sufficienti a dare una risposta certa alla suddetta questione e proprio per questo insisto sul fatto che solo la comparazione con altri casi etnografici ci possa avvicinare alla definizione di un quadro il più possibile fedele alla realtà storica. Tuttavia sappiamo dalle ricerche etnostoriche ed archeologiche condotte da Netherly, Moseley, Kolata, Kauffmann Doig e Conrad, che la struttura clanica degli abitanti della costa era di tipo conico, con rigidi rapporti gerarchici ed un sovrano dai poteri assoluti. Nel clan conico l’importanza dell’individuo è direttamente proporzionale alla sua posizione all’interno del lignaggio: quanto minore è la sua distanza genealogica rispetto agli antenati clanici, tanto maggiore sarà il suo potere nell’ambito del governo del regno 93. 93

riferendosi alla nomenclatura inca, Zuoidema (1991: 65) afferma che los nombres de los antepasados eran antes que nada y sobre todo títulos indicativos de su distancia genealógica respectiva en relación al rey gobernante de donde concluía que esos nombres

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E’ chiaro che nel clan conico non può vigere l’esogamia, dato che essa costituisce il miglior fattore di equiparazione in una società non complessa. Al suo posto s’impone invece una prescrizione endogamica, che può giungere fino alla violazione istituzionalizzata del tabù dell’incesto – come nel caso degli Inca –, la quale sancisce la completa separazione del sovrano rispetto alla popolazione che governa, essendo quest’ultima ancora soggetta al tabù di cui sopra. Il re diviene effettivamente una figura “super partes”, la cui diversità è

sottolineata dall’etichetta regale fin nei più piccoli gesti quotidiani. In buona sostanza mentre nelle società con clan esogamici unilineari la struttura egalitaria diviene un ostacolo alla complessificazione delle strutture politiche ed economiche, ed al conseguente adattamento ideologico, nelle strutture coniche, il vertice del cono, in cui si trova l’antenato clanico, è il primo di una serie di altri vertici di coni di importanza decrescente in rapporto alla distanza dal primo ma che allo stesso tempo, rendono progressivamente sempre più anacronistica la struttura lignatica, vincolo sempre meno sopportabile dai vertici delle gerarchia, fino a tradurla in una sovrastruttura dal significato meramente folkloristico, completamente subordinata alle nuove esigenze di accumulazione dei beni di lusso e di politica espansionistica dell’élite. Questo è, molto probabilmente, il processo che si attuò a Chimor, in Cina e nel Tawantinsuyu. Più avanti esamineremo approfonditamente la struttura sociale degli Shang e degli Zhou dell’antica Cina, ma è già ora opportuno dedicare loro una certa attenzione, visto che è altamente probabile che si trattasse di società segmentarie. Negli anni Sessanta e Settanta, l’archeologo ed antropologo cinese K.C. Chang propose alcune innovative teorie a proposito dell’assetto istituzionale e della regolamentazione della parentela di queste due culture. Una di queste asseriva che it is the rule that after a few (often five) generations some members of the lineage would move away, both from the land the lineage members tilled and from the lineage hall, in which the ancestral tablets were placed. In their new locus these splinters members would establish a new lineage, with its own land and its own ancestral hall. E’ chiaro che ci troviamo al cospetto con un fenomeno corrispondente a quello incaico – ed a quello amazzonico dei Barasana testimoniato dalle indagini di Stephen Hugh-Jones (1989) – seppure organizzato in modo relativamente differente. Nel caso di società segmentarie come quella shang e quella incaica dobbiamo dunque applicare un modello evolutivo, in cui il sistema lignatico-segmentario produce delle spinte sia centrifughe sia centripete. Secondo Sahlins in questo tipo di sistemi il richiamo al lignaggio permette di realizzare crescenti livelli di integrazione politicomilitare. In pratica, la segmentazione genealogica implica un migliore controllo del territorio e la possibilità di reagire solidarmente di fronte ad un nemico comune. Sempre secondo Sahlins è più facile che questo modello di organizzazione s’imponga tra popolazioni non originarie delle terre da loro popolate perché l’esigenza di espandersi su di un territorio già colonizzato scatena il meccanismo della segmentazione aggregata su base lignatica al fine di competere con le popolazioni rivali. Non è podían ser utilizados por sus descendientes que tenían el mismo rango social que su antepasado epónimo.

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difficile leggere in questo processo la storia degli Inca 94. Ma se Sahlins ci fornisce degli ottimi strumenti d’indagine per spiegare la nascita della società inca, rimane il problema di capire come una cultura di agricoltori stanziali abbia dato vita ad uno dei più vasti imperi del mondo antico. Per questo sarà bene dedicare una certa attenzione alla cultura chimù della costa settentrionale del Perù che, secondo diversi autori, tra i quali Métraux, Demarest, Conrad e Moseley, per molti versi funse da modello per la costituzione del Tawantinsuyu95.

3.5 LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE NELLA MESOAMERICA Due ricercatori statunitensi, Frank Cancian and Mike Salovesh, esaminando due comunità del Chiapas, Zinacantan e San Bartolome de los Llanos, hanno concluso che la diffusa convinzione secondo la quale non esistevano classi sociali nelle comunità native della Mesoamerica era falsa. Esisteva invece un elevato grado di stratificazione sociale, che spesso non era rispecchiato da una qualche forma di differenziazione di ceto, a causa delle scarse risorse economiche di queste comunità. Ad ogni modo nel Chiapas incontriamo un sistema di organizzazione duale ed un insieme di regole parentelari e di successione che, a mio modo di vedere, assomigliano d’appresso a quelle cinesi dell’epoca shang, e più precisamente al modello Zhao-Mu che esamineremo molto approfonditamente più avanti e forse a quelle incaiche. Infatti remnants of an earlier moiety organization were still visible, and the terms “los de arriba” e “los de abajo” marked a prestige difference between the two halves, not their geographic position. The moieties were directly associated with named neighbourhoods, the “five barrios” occupied primarily by Indians: three barrios “arriba” and two barrios “abajo”. The moieties were said to be equal in political power, and in fact there was a tradition that in the old days an incumbent of any community-wide post would be succeeded in office by a member of the opposite moiety during the next term96. Sempre in Messico, nella città maya classica di Yaxchilán accadeva che i sovrani avessero nomi doppi dei quali una parte poteva essere “giaguaro” e l’altra “teschio di morto”: non v’erano alternative. Ecco cosa ne pensa Berthold Riese (1995: 71): es läßt sich an dieses Namegebungsmuster 94

Garcilaso (citato in Zuidema, 1991: 86): …fue en este amplio espacio (de la ciudad) en donde vivieron los incas de sangre real, divididos en aillus o clanes, aunque todos tuvieran la misma sangre y estirpe. A pesar de que todos descendían del rey Manco Cápac, cada uno se proclamaba descendiente de uno u otro rey, diciendo que éstos venían de este inca, aquéllos de aquel inca y así con todos los demás. A esto es a lo que se refieren los historiadores españoles cuando dicen confusamente que tal y cual inca fundaron una línea; y tal otro, una línea diferente, con lo cual sugieren que éstas eran estirpes diferentes. Sin embargo, todos los linajes eran de hecho los mismos, como lo muestran los indios al dar a todos ellos el nombre común de Cápac Aillu, “augusto linaje de sangre real.

95

Conrad-Demarest (1988: 116): Al parecer, las instituciones fundamentales de los chimúes eran semejantes a las de los incas del imperio, y en claridad en el caso inca: el modo en que pudieron reelaborarse las creencias y prácticas andinas tradicionales para convertirlas en una política de expansión imperial.

96

Tratto da una lettera spedita da Mike Salovesh stesso ad Anthro@listserv.acsu.buffalo.edu il 15 agosto del 1998

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die Spekulation anschließen, daß der Hochhadel Yaxchiláns in zwei miteinander konkurrierende Parteien, die der “Jaguar” und die der “Schädel”, gespalten war, die sich gelegentlich in der Herrschaft ablösten. Wenn diese Überlegung auch sehr spekulativ klingt, ist sie doch nicht ganz aus der Luft gegriffen, denn wir kennen viele indianische Gesellschaften, die in dualen Systemen organisiert sind, nach denen Namen und Ämter vergeben werden 97. Inoltre bisogna segnalare che gli stessi centri regionali del tardo Classico maya erano divisi in quartieri (4 distretti appunto) endogamici, costituiti da clan patrilineari esogamici. Ognuno di questi quartieri forniva un membro del consiglio della comunità tra i quali veniva nominato un capo, l’Hol Pop il cui mandato scadeva dopo un anno e che veniva sostituito, il giorno del capodanno maya, da un altro dei quattro consiglieri98. Gli esponenti della tradizione strutturalista di Leida non hanno certamente ignorato questa regione, ed in particolare Jan A.J. Karremans 99 ha dedicato un saggio al carattere dualista dei processi spazio-temporali di una comunità messicana dei nostri giorni, quella di Izúcar de Matamoros, nello stato di Puebla. Anche questa comunità presenta una doppia organizzazione spaziale del tipo diametrico/concentrico, essendo caratterizzata da una classica dicotomia antagonistica interno/esterno, sottolineata a livello topografico dal rio Nexapa che divide in due metà Izúcar de Matamoros alla quale si aggiunge una divisione dei quattordici barrios in due gruppi, uno orientale ed uno occidentale, nell’ambito dei quali esiste una ulteriore divisione in quattro barrios grandi settentrionali, e quattro piccoli meridionali, in una moieties, e in quattro grandi meridionali e tre piccoli settentrionali, nell’altra; divisione, questa, che influisce sulla quota ed i tempi di distribuzione dell’acqua. La quadripartizione che ne deriva è ulteriormente sanzionata dalla prescrizione endogamica per ogni quadrante e dalla elezione di un barrio rappresentante di ogni quadrante alla festa del Corpus Christi. Il dualismo invece è sancito dalla differenziazione delle chiese in ogni moiety - ognuno dei quattordici barrios ha costruito infatti una chiesa di sua spettanza, per il suo proprio patrono - tre delle quali sono dedicate a patrone, e quindi sono considerate chiese “femminili”, e sono orientate ad ovest, mentre le altre quattro, dedicate a patroni e quindi “maschili”, sono orientate ad est, in completo accordo con la tradizione precolombiana che assegnava all’occidente la natura femminile ed all’oriente quella maschile. Per quel che concerne i rapporti umani emerge che i membri della partizione centrale vivono con un complesso di superiorità nei confronti degli abitanti della fascia esterna, superiorità che trova corrispondenza nelle attività religiose, negli interessi politici, negli 97

“…questa tipologia di denominazione può essere collegata all’ipotesi che l’alta nobiltà di Yaxchilán fosse divisa in due fazioni rivali, quella del “giaguaro” e quella del “teschio di morto” che occasionalmente si avvicendavano al potere. Per quanto questa considerazione possa sembrare molto congetturale, essa nondimeno non è del tutto campata in aria, poiché ci sono note molte società indiane che sono organizzate in sistemi duali a seconda dei quali vengono assegnati i nomi e le funzioni”

98

Berthold Riese (“Die Maya”: 114-115)

99

Irrigation and Space in a Mexican Town, contenuto in de Ridder-Karremans, 1987: 224-235.

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impieghi, nel livello di educazione, nel reddito e persino nell’abbigliamento, e l’intero sistema rituale e sociale, allo stesso modo dell’ordinamento della gestione delle risorse idriche, si riproduce nella convinzione che as a rule anyone living in a certain barrio is considered a member of it, and a contribution to the successful undertaking of a common goal, either in cash or labour, is more or less expected (ibidem: 227). L’autore olandese segnala che ogni chiesa sorse originariamente sulle rovine dei templi precolombiani abbattuti dagli spagnoli ed alcuni aspetti di questa organizzazione articolata confermano la sensazione che non fosse assolutamente ignota alle società preispaniche. Lo stesso Karremans infatti rileva che l’impero azteco era organizzato in 14 caciccati e che i rispettivi caccicchi si riunivano con l’imperatore dividendosi in due file opposte di sette cacicchi l’una, il che richiama vividamente alla memoria le due file di mummie contrapposte nel sacrario degli imperatori inca. Dal canto loro i Mixe messicani offrono l’esempio più eclatante. Le comunità mixe erano divise in due metà da una linea immaginaria che attraversava la piazza centrale. Vigendo un sistema virilocale, ogni donna doveva unirsi alla metà del marito se il padre di lei apparteneva alla fazione opposta rispetto a quella del marito. Se una vedova sposava un uomo appartenente alla metà opposta a quella del marito deceduto, i suoi figli dovevano vivere con i parenti del padre a causa della prescrizione patrilineare. I più alti funzionari della comunità, il sndaco ed il giudice, dovevano appartenere a due metà opposte, e l’incarico veniva trasmesso alternativamente a membri delle due metà ogni anno100. L’idea che questa sovrapposizione di rappresentazioni fosse particolarmente diffusa nel Nuovo Mondo è ribadita dallo studio delle tradizioni nordamericane. 3.6 LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE NEL NORDAMERICA Si suole distinguere le popolazioni costiere della Columbia Britannica in due gruppi, uno settentrionale ed uno meridionale. Quello settentrionale comprende i Tlingit e gli Haida, che parlano due lingue appartenenti alla macrofamiglia Athapaska ed i Tsimshian, che parlano una lingua della famiglia dei Penutiani, mentre al gruppo meridionale appartengono i Kwakiutl, i Nootka ed i Salish. La divisione nasce dalla constatazione che mentre il gruppo settentrionale è omogeneo nella scelta di un sistema di parentela ad ascendenza matrilineare ed unilineare con matrimonio preferenziale tra cugini incrociati, quello meridionale è omogeneo nel prescrivere un sistema patrilineare bilaterale in cui si fanno risalire gli antenati ad entrambi i rami della famiglia ed un matrimonio preferenziale generico che predilige il censo all’importanza degli antenati. I gruppi settentrionali sono molto più complessi sia a livello famigliare sia a livello comunitario. Infatti tra essi incontriamo nuovamente le 100

Harold E. Driver, 1961: 302

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moieties, come tra gli Haida, che si distinguevano in “Corvi” ed “Aquile”, e che vietavano ai propri componenti di contrarre matrimonio endogamo 101; invece i Tsimshian non avevano metà ma in cambio avevano una quadripartizione matrilineare esogamica a scambio generalizzato. Anche tra i Kwakiutl esisteva una linea di successione che andava dal nonno al nipote passando per la figlia e suo marito. Come nota Lévi-Strauss (1985: 135), “fra gli Tsimshian ed i Tlingit, il nipote poteva succedere direttamente nel nome e nei titoli al nonno paterno, a dispetto del regime di discendenza matrilineare in vigore. Così le due società erano divise in metà esogamiche: divisione attuata tra i Tlingit, e di fatto tra gli Tsimshian, le cui quattro fratrie, di prestigio disuguale, tendevano a contrarre matrimoni a due a due. In questi sistemi in cui le generazioni agnatiche si alternano, è normale o almeno frequente che il nonno ed il nipote si riproducano entro la stessa metà”. Nel caso degli Haisla le moieities erano non-unilineari e non-esogame. Una linea immaginaria correva attraversoil centro del villaggio separando i membri delle due metà. Coloro i quali attraversavano questa linea venivano spogliati e percossi dai membri della fazione avversa fino a giungere a dei veri e propri scontri che coinvolgevano l’intera comunità ma che si svolgevano con armi giocattolo, avendo un carattere puramente rituale. I Pomo californiani possedevano moieties patrilineari ma agamiche, che non regolavano il matrimonio ma solo la competizione tra le due parti nel corso di prove di abilità e cerimonie pubbliche. I Pueblo erano organizzati in molteplici kiva (sorta di loggia o confraternita di carattere religioso) divise in due moieties, ognuna delle quali veniva governata da propri rappresentanti incaricati delle funzioni sacre e laiche. Infine anche i Pawnee presentavano una divisione tra nord e sud in occasione del gran consiglio nell’organizzazione del campo e delle cerimonie. Non rimane quindi che concludere che l’organizzazione duale fosse una delle scelte più diffuse tra i nativi americani che vissero prima della conquista e che questo tipo di organizzazione risultà talmente efficace nella sua funzione integratrice delle spinte centrifughe e centripete insite nella

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Die Funktionen der verschiedenen sozialen Gruppen waren genau festgelegt, im Falle der Haida waren sie wie folgt:

1. Die große konsanguine Verwandtschaftgruppe, die Matri-Moiety, regulierte, weil sie exogam war, die Heirat (“heiratsklasse”), schlichtete Stritigkeiten innerhalb der Moiety und regulierte auch den zerimoniellen Besitztausch, den Potlatch; außerdem hatte sie bestimmte, genau festgelegte Verpflichtungen gegenüber der anderen Moiety. Die häufigste Form der Ehe war wegen der Moiety-Exogamie die zwischen Kreuzvettern und –basen (Kinder des Bruders der Mutter oder – bei den Haida vorzugweise – Kinder der Schwester des Vaters), weil die beiden Ehepartner verschiedenen Moieties angehörten. 2. Die kleine konsanguine Verwandtschaftsgruppe war die Matri-Sippe oder Matrilineage, der jedes Individuum durch Geburt zeit seines Lebens angehörte. […]. Frauen und Kindervon Lineage-Mitgliedern gehörten dagegen anderen Lineages an, nahmen aber, weil sie mit ihnen zusammenwohnten, am Rande an den Angelegenheiten der Lineage teil. 3. Die erweiterte Verwandtshaftsgruppe, der vuncu-Klan, war die autonome politische Einheit und, als avunkulokale Großfamilie, die ökonomische kooperative Einheit. […]. Generell läßt sich sagen, daß der Funktionsbereich des klans auf wirtschafltichem, politischem und militärischem Gebiet lag, während die konsanguinen Gruppen sich dem religiösen Zeremoniell, der heirats- und Erbschaftsregulierung widmeten. Etwas kompliziert wurde diese Funktionsausübung dadurch, daß ein Individuum einmal als Klanmitglied, ein anderes Mal als Lineage-Mitglied agierte; denn jeder Erwachsene (und damit in der Regel Verheiratete) war ja zugleich Lineage- und Klan-Mitglied (E. Thurnher, 1972: 191-192)

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convivenza tra i membri delle varie comunità , che ancoa oggi permangono un po’ ovunque le testimonianze di questo modello sociale duale.

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3.7 LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE IN ASIA ED IN OCEANIA ED IL CONFRONTO CON IL CASO INCA L’organizzazione sociale duale a generazioni alternate che è sempre stata presa come modello per spiegare analoghi tipi di organizzazioni è quella Murngin, analizzata approfonditamente tra gli altri da antropologi del calibro di Murdoch e di Radcliffe-Brown. Questo modello di organizzazione sociale è quasi universale in Australia, e prende il nome proprio da una tribù di aborigeni australiani. Lo troviamo descritto dallo stesso Radcliffe-Brown in un articolo apparso su American Anthropologist (53, 1951: 39); esso è costituito da una divisione in due moieties endogame basate su di un’alteranza generazionale. Così Ego sarà affiancato nella sua moiety da tutti i parenti della sua generazione e da tutti quelli che appartengono alla generazione dei nonni e dei nipoti. L’opposta moiety ospiterà invece i genitori ed i figli e le norme matrimoniali, ispirate al principio endogamico, appunto, prescriveranno di conseguenza l’unione tra persone appartenenti alla stessa generazione, ossia alla medesima moiety. Si avrà quindi una divisione orizzontale dal punto di vista delle generazioni ed una verticale dal punto di vista spaziale. Una metà in genere è chiamata con il nome di un piccolo uccello rosso mentre l’altra prende il nome di un piccolo uccello nero102. Per quel che concerne invece l’isola di Nias, abbiamo un esempio di bipartizione della società e del cosmo - che non a caso assumono lo stesso nome, banua - che si ripercuote sulla distribuzione delle abitazioni e sulla disposizione generale dei villaggi. Scarduelli (1986: 49-50): “Il pantheon nias si basa sull’opposizione di due divinità: Latura Dano, il dio degli inferi, che ha la forma di un gigantesco serpente, e Lowalani, suo fratello e signore del cielo. […]. La pianta del villaggio costituisce, secondo Suzuki103, la trasposizione spaziale di questi modelli cosmologici: l’asse viario coincide con il fiume celeste, la casa del capo ne è la sorgente mentre la porta d’accesso al villaggio rappresenta la foce. La strada che attraversa l’abitato è assimilata anche al tronco dell’albero cosmico, la casa del capo alla sua cima, le altre abitazioni ai rami e la porta d’accesso alle radici”. Lowalani è identificato con il sole e la luce mentre Latura Dano è associato ai serpenti ed all’oscurità. Scarduelli (179) annota acutamente che sarebbe troppo semplicistico ridurre questa dicotomia ad una semplice opposizione binaria tra principi opposti perché “se nei villaggi del sud è Lowalani a ricevere la maggior venerazione, nella parte settentrionale di Nias viene privilegiato il rapporto con Latura Dano…In sostanza gli stessi tratti che sono attribuiti a Lowalani nella parte meridionale di Nias vengono riferiti, nel resto dell’isola, a Latura Dano”. Il villaggio di Hili Mondregeraja, nell’isola di 102 103

A.R. Radcliffe-Brown, Murngin Social Organization Si noti che P. Suzuki fu allievo di Josselin de Jong al pari di Zuidema. Egli sostenne la sua dissertazione dottorale, dal titolo The Religious System and Culture of Nias, Indonesia, il 18/2/1959, tre anni prima di Zuidema, il quale presentò il suo studio dal titolo The ceque system of Cuzco il 13/6/1962.

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Nias e come lui numerosi altri villaggi malesi, sono organizzati spazialmente secondo una concezione del cosmo che si ripete in Messico ma, come rimarca anche Lévi-Strauss, da ciò non si può minimamente inferire che si sia verificato un qualche genere di contatto tra i due emisferi. Ma forse non è solo a Teotihuacan che dobbiamo guardare per individuare delle analogie. Se infatti nella metropoli messicana è stata appurata la relazione tra il Viale dei Morti, che la divide in due parti e la Via Lattea, è anche vero che la stessa ipotesi è stata sollevata nel caso di Cuzco 104 e dei villaggi dell’isola indonesiana di Nias105. Gli Ngaju del Borneo meridionale ripropongono in modo del tutto analogo la sovrapposizione tra spazio fisico e spazio sociale. I villaggi ngaju sono divisi in moieties, delle quali una, la preminente, chiamata ngaju, si trova a monte del corso del fiume che le collega, e l’altra, chiamata ngawa, è costruita a valle. Ciò che ci interessa rilevare è che il valore rituale di questa disposizione è definito in modo evidente dal percorso del sole in cielo. Infatti the priests strike the gongs towards the four cosmic direction of the course of the sun, beginning at the place where the sun sets, then striking the gong in the direction of downriver (ngawa), then upriver (ngaju), and finally in the direction of the point where the sun rises106. Passando alla Cina, ne Les structures élémentaires de la parenté Claude Lévi-Strauss (1967: 397) afferma testualmente che dans une société si puissamment évocatrice de la Chine des anciennes dynasties, nous volulons dire l’empire Inca, avec ses rituels funéraires où les comparaisons s’imposent à chaque instant avec les cérémonies chinoises archaiques correspondantes, nous rencontrons une disposition, semble-t-il, alternée: "Aux deux côtés de l’Image du Soleil étaient les corps de leurs rois décédés, tous rangés par ordre selon leur ancienneté…”, on se sent porté à admettre l’existence d’un phénomène structural général, dont la théorie nous échappe encore, dans l’état actuel de nos connaissances sur les deux civilisations. […]….l’hypothèse des générations alternées doit être attentivement examinée, avec ses deux implications, mutuellement exclusive, de la filiation bilatérale e du marriage patrilatéral. Lévi-Strauss purtroppo non riprenderà mai più in esame questa comparazione, mentre Zuidema, che pure si basa sulle ricerche dell’antropologo francese, preferirà stabilire il termine di paragone con

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W. Sullivan (1998: 86): “Urton ritiene che, siccome i miti di Viracocha presuppongono la direzione nord-occidentale a partire da Manta, in Ecuador, il rituale dei sacrdoti incaici, che seguivano il corso del Vilcamayu – il quale corrisponde alla Via Lattea – fino alle sorgenti sul Vilcanota per poi tornare a nord-ovest verso Cuzco, rappresentavano la ripetizione del viaggio finale di Viracocha. (ibidem: 420): “”Ecco come Urton analizza puntualmente il rituale: “A quanto pare, la via seguita dai sacerdoti – sud-est di Cuzco – era molto più di un pellegrinaggio: essa equivaleva ad un viaggio lungo la Via Lattea…”.

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A Nias l’asse viario principale dei villaggi è simbolicamente associato al fiume primevo, il quale a sua volta è identificato con l’arcobaleno, la Via Lattea e l’albero cosmico (Scarduelli, op.cit.: 49).

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H. Schärer, 1963: 65-66.

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i Bororo, che hanno il grande vantaggio di essere una popolazione nativa americana, quindi con una lontanissima radice culturale condivisa con gli Inca. Il regno shang fu forse il primo regno organizzato e potente dell’Estremo Oriente. I monarchi shang governarono vaste aree dell’attuale Cina, in un periodo che va dall’inizio del II millennio a.C alla metà del II millennio a.C. Siamo quindi in una fase storica piuttosto arcaica, che in nessun modo potrebbe essere fatta corrispondere a quella precedente alla formazione del Tawantinsuyu in Perù, in quanto l’America del Sud aveva già conosciuto forme complesse di organizzazione statuale fin dai primi secoli successivi alla nascita di Cristo: mi riferisco ai regni dei Moche, a Tiwanaku, all’impero Wari ed al regno Chimù. L’indagine filologica dei testi funerari e divinatori shang e zhou ha stabilito che ad ogni sovrano deceduto veniva attribuito un nome postumo dal profondo significato rituale: infatti esso conteneva uno dei cosiddetti “tronchi celesti”, ossia uno di quei dieci caratteri che venivano impiegati nei calendari shang per indicare i giorni raggruppati in cicli di dieci (xun). E’ emerso che la denominazione rituale di questi sovrani non avveniva solo attenendosi al semplice principio che il nome del giorno del trapasso doveva essere assegnato al re defunto, ma pare che esistesse una distinzione tra due gruppi principali di “tronchi celesti”, che si alternavano secondo un criterio generazionale. In pratica sembra che il nome rituale del nipote coincidesse con quello del nonno. Così, per fare un esempio, in uno dei due gruppi i “tronchi” jia e yi ricorrevano con particolare frequenza, mentre nell’altro raggruppamento predominava il “tronco” ding. La ricerca etnografica ha dimostrato che questo costume era diffuso anche nella sfera culturale malayo-polinesiana107 e non parrebbe quindi azzardato sostenere che nell’Estremo Oriente dell’età del bronzo un sistema di parentela di questo tipo fosse diffuso in buona parte delle comunità dedite all’agricoltura. Ecco la descrizione del modello polinesiano effettuata da Williamson (1924, I: 378-379) sulla base dei suoi studi sulla società di Funafuti, nelle Ellice Islands: Funafuti…discloses a system of alternating succession to the throne… According to Turner, the kingship alternated in four or five leading families, and when one king died another was chosen by the family next in turn. Hedley was told that a system had long prevailed on the island of government by a king and subordinate chief, the latter succeeding to the supreme office on the death of the former, and being himself succeeded in the subordinate position by the later king’s son. Sollas says there were two branches of the royal family, and when one king died his successor was generally chosen from the other branch. […]. We should expect that the branch which for the time being was not ruling would be of great political importance, and a member or members of that branch might well occupy the position of “subordinate king or chief”. Thus it is possible that Tilotu 107

Kwang-Chih Chang (1980: 180): The serious student of Shang history with an open mind will profit from reading the anthropological accounts of such circulating succession system, especially those in Malaya, and in Futafuni of the Ellis Islands, Fakaofo in the Union Group, and in Rotuna in the Pacific Islands, societies that may even claim some historical affiliation with the ancient Chinese.

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belonged to branch A, and Paolau, who became his subordinate, was of branch B. Then on Paolau becoming king, Tilotu’s children became his subordinate. Tornando al sistema shang, esso era ordinato nel modo seguente: il lignaggio reale era diviso in dieci segmenti, connessi ritualmente ai dieci tronchi celesti, ad ognuno dei quali spettava una diversa tavoletta funeraria, conservata poi nel sacrario degli antenati. I dieci segmenti 108, che potremmo paragonare alle dieci panaca incaiche109, erano accorpati, come per gli Inca in due gruppi principali capeggiati dai segmenti più potenti, yi per il primo gruppo e ding per il secondo110, mentre nel Tawantinsuyu le denominazioni furono Hanan per il primo ed Hurin per il secondo. I re erano scelti all’interno di uno dei due gruppi in base alla norma dell’alternanza generazionale. Se un re apparteneva al gruppo A, il suo erede della generazione successiva doveva appartenere al gruppo B e dunque il prescelto doveva provenire da uno dei segmenti più potenti del gruppo B, essendo figlio di una donna che proveniva da uno dei segmenti più potenti del gruppo A, probabilmente da quello del sovrano stesso111. Si parla di successione di padre in figlio in senso classificatorio, perchè tutti i maschi della generazione successiva erano considerati “figli” dei maschi della generazione precedente, mentre tutti i maschi della medesima generazione erano classificati come “fratelli”, pur non essendolo in senso proprio in entrambi i casi. Anche gli Inca possedevano questo tipo di sistema classificatorio. Infatti Guamán Poma de Ayala riferiva di un sistema gerarchico di ranghi e titoli genealogici, ma in nessun caso di relazioni di discendenza reali. Come riportato da Zuidema, che si rifà al cronista Pérez Bocanegra, la linea centrale era chiamata checan ceque, “linea retta”, mentre le nove linee cognatiche, pallcarec ceque, derivavano il loro nome da pallea, con cui si intendeva una biforcazione o un ramo d’albero: “se trataba de líneas surgidas, cada una, de un hijo secundario llamado “hijo de hermana”; líneas por tanto a las que esta denominación confería un valor matrilineal” 108

My tentative hypothesis is that the royal branch of the ruling clan of the Shang, by the name of Tzu, was probably subdivided into no fewer than ten lineages. Among these ten, the yi and the ting enjoyed the highest political status and held the greatest political power. Among the others, lineages chia, wu and chi were close to yi, forming group Yi, and lineages ping, jen and kuei were close to ting, making up the Ting group. The other lineages, keng and hsin, can perhaps be described as “neutralist” (K. C. Chang, 1976: 98)

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10 grupos de personas que también emergen de Tambotoco y acompañan a Manco Capac y a sus hermanos y hermanas al Cuzco. Los cinco grupos que pertenecen a Hanan Cuzco (“Cuzco de arriba”) salen de Marastoco, la ventana de la dereche, y los otros cinco, los de Hurin Cuzco (“Cuzco de abajo”) surgen de Sutictoco, la ventana de la izquierda. Los nombres de esos 10 grupos son muy interesantes pues revelan las características de su destribución espacial en la dos mitades y las quatro divisiones o suyus del territorio que Ayar Cachi había delimitado con su honda (Zuidema, 1991: 28).

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si noti che in questo capitolo farò riferimento sia al dualismo shang sia a quello zhou. Nel primo caso i due raggruppamenti si chiamavano ji e ting, nel secondo zhao e mu.

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Kwang-chih Chang (ibidem): When the kingship stayed within the division A or B, it had to be assumed by an heir from another kan unit from within the same generation as the former king, but if it went over to the other division it had to go to an heir of the next generation. To phrase this differently: when the kingship passed over to the next generation, it had to move to the opposite division. […]. A male member of the dynastic group was eligible to become an heir if he was physically and mentally capable of assuming the assidous task of political, military and religious leadership. He had to be of the right generation: the same generation of the reigning monarch if he (the monarch) was in the same A or B division, or the next generation if he was of the opposite division. He (the heir) also had to have a mother who was a member of one of the ten kan units…the ten kan units were probably engaged in an endogamous network of some order…the status of sons as eligible heirs may have been determined in large measure by the ranking of their mother’s kan units…a patrilateral cross-cousin marriage model could fit the facts.

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(Zuidema, 1991: 45). Quando un sovrano veniva nominato da Inti, il dio sole, l’eletto determinava la nuova organizzazione genealogica dei cortigiani in sua funzione, modificando quella che questi ultimi detenevano rispetto al sovrano deceduto. Da quel momento in poi venivano chiamati auquicuna, o “figli bastardi”; “nipoti” (“sobrinos”: di fratello di madre), nel caso dei bastardi; e “nipoti” (“nietos”: di nonno matrilaterale), nel caso dei Capac Apu, i governatori. Questo dualismo era rispecchiato dalla bipartizione del cimitero reale di Xibeigang in un settore orientale ed uno occidentale, alla quale, in Perù, corrisponde la divisione in due file delle mummie degli imperatori inca. Inoltre il numero delle tombe di ciascun settore, sette in quello occidentale e quattro in quello orientale, corrisponde a quello dei sovrani appartenenti rispettivamente al gruppo ji e al gruppo ding che vi regnarono. Nell’epoca degli Zhou, la dinastia successiva, si incontra un sistema di successione del tutto analogo, che è stato indagato da alcuni tra i maggiori antropologi francesi di questo secolo: Marcel Granet, Henri Maspero112 e Claude Lévi-Strauss. Secondo questi studiosi (Lévi-Strauss: 421): «i Cinesi concepirono la parentela sotto la forma di una gerarchia di categorie e non di una serie di gradi». In poche parole, sussisteva un sistema esogamico ristretto, nel quale il matrimonio era limitato a famiglie dal cognome diverso, ma tra membri di generazioni identiche e che vedeva con orrore i matrimoni contratti tra membri di due generazioni diverse. Per questo motivo il modello cinese di classificazione dei termini di parentela, chiamato tchao mou dai due autori – corrispondente allo zhao mu del sistema di trascrizione pinyin che ho impiegato io – prevede che padri e figli figurino sempre in categorie differenti e nonni e nipoti in categorie identiche. In questo modello i due raggruppamenti a prescrizione esogamica si scambiavano le figlie, secondo il principio dell’equivalenza delle generazioni, formando un sistema fondato sul matrimonio tra tutti i cugini incrociati113 bilaterali. Il favore che la stragrande maggioranza delle società «primitive» riserva al matrimonio tra cugini incrociati è, secondo Lévi-Strauss, pari all’avversione nei confronti del matrimonio tra cugini paralleli. Lévi-Strauss riflettè a lungo su questa differenziazione e giunse alla conclusione che queste due tipologie di matrimonio sono qualitativamente diverse se noi le concepiamo nell’ottica della reciprocità e dello scambio: «il matrimonio tra cugini paralleli non consente alle famiglie contraenti uno scambio soddisfacente, in quanto risulta impossibile il rispetto del principio di reciprocità, considerato come compensazione armonica tra famiglie o clan diversi». Infatti «ogni uomo sposato pone la sua parte in una situazione debitoria nei confronti della famiglia della donna presa in moglie» (Moravia, 1969: 187), mentre l’altra parte è in una posizione creditoria. Nel caso dei cugini paralleli il 112

Les Ancêtres étaient logés comme de leur vivant, ceux des particuliers dans la maison même du chef de famille où l’angle sud-est leur était réservé, ceux des rois et des seigneurs dans des temples pareils à des maisons, où le Premier Ancêtre trônait au milieu à la place d’honneur, ayant les quatre dernières générations à sa gauche et à sa droite, tchao mou; et les offrandes qu’on leur présentait à leurs fêtes étaient des repas complets (Henri Maspero, 1952: 7)

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E’ bene chiarire che in antropologia culturale per cugini incrociati s’intendono i cugini figli di fratelli di sesso opposto, mentre per cugini paralleli s’intendono naturalmente i cugini figli di due sorelle o di due fratelli.

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quartetto formato dai due fratelli dello stesso sesso ed i due coniugi sarà in una situazione di disequilibrio, perché tre componeneti su quattro saranno dello stesso sesso ed uno di sesso diverso e perciò non saranno stati soddisfatti i diritti-obblighi reciproci. Tuttavia in generale il matrimonio preferito è quello tra cugini incrociati matrilaterali 114. Lévi-Strauss spiega che nel caso di un matrimonio tra cugini incrociati patrilaterali, se un uomo A sposa una donna B, un uomo B sposa una donna A, mentre nell’altro caso, se un uomo A sposa una donna B, un uomo B sposa una donna C e via dicendo; dunque invece di un regime a scambio ristretto avremo un regime a scambio generalizzato, che migliora l’integrazione tra le parti. Ad esempio, tra gli indiani Apinayé, sussiste un modello di scambio generalizzato nel quale il gruppo è diviso in kiyé, uniti da un sistema di unioni preferenziali tali che un uomo A sposa una donna B, un uomo B sposa una donna C, un uomo C sposa una donna D ed un uomo D sposa una donna A (Lévi-Strauss: 1969, 96)115. La regola dello scambio generalizzato chiarisce anche il sistema cinese, dato che la prescrizione dell’esogamia ordinata su quattro classi matrimoniali si estinguerebbe dopo la quinta generazione 116, al termine della quale il ciclo di scambio delle mogli sarebbe completo (da A fino a D per poi tornare ad A) visto che il clan A, che aveva ceduto una delle sue donne quattro generazioni prima, la riguadagna alla quinta generazione, come nipote della nipote della sposa ceduta inizialmente117. Tornando al sistema zhao mu, esso prevedeva che le tavolette funebri che rappresentavano i nobili defunti venissero disposte in due colonne verticali, l’una chiamata zhao, appunto, e l’altra mu ed in nessun caso nella medesima colonna si potevano incontrare le tavolette degli appartenenti a due generazioni consecutive118. 114

in questo caso il cugino sposa la cugina che è figlia del fratello di sua madre

115

We have distinguished three fundamental types of marriage exchange; these are expressed, respectively, by preferential bilateral cross-cousin marriage, marriage between sister’s son and brother’s daughter , and marriage between brother’s son and sister’s daughter. We have called the first type restricted exchange, implying the division of the group into two sections, or multiple of two, while the term generalized exchange, which includes the two remaining types, refers to the fact that marriage can take place between an unspecified number of partners. Patrilateral marriage is associated with an alternating terminology, which expresses the opposition of consecutive generations and the identification of alternating generations. A son marries in the direction opposite from his father – yet in the same direction as his father’s sister – and in the same direction of his father’s father – yet in the opposite direction from that of his father’s father’s sister: For daughters, the situation is exactly the reverse. […]. Brothers and sisters, who always follow the opposite paths in marriage, are distinguished by what F. E. Williams, in Melanesia, described as “sex affiliation”; each receives a fraction of the status of the ascendant whose matrimonial destiny he or she follows or complements, that is, the son receives the status of his mother, and the daughter that of her father – or vice versa according to the situation (LéviStrauss, Structural Anthropology: 266).

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the Eastern Chou tsu was a jural community with membership of an extended patrifamily, whose members were related by blood within five patrlineally reckoned generations descending from a particular ancestor…all indicate that the five descending generations assumed an important role in kinship categorization: those within it were members of the same tsu.

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Gli aborigeni australiani non seguono tuttavia pedissequamente il modello di scambio generalizzato. Alcuni, come gli Aranda ed i kariera, pur se organizzati in quattro o otto sotto-sezioni, non sembrano aver sentito l’”irresistibile” richiamo ad una maggiore integrazione ed hanno preferito un sistema a scambio ristretto in cui una sotto-sezione scambia le mogli sempre con una ed una sola altra sotto-sezione.

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Se consideriamo tre generazioni di coppie esogamiche che, ad ogni generazione, si uniscono tramite il matrimonio tra cugini incrociati, avremo uno schema di questo tipo (uomini con lettere minuscole e donne con lettere maiuscole in sistema matrilineare):

a1 A1< > b1 B1 A2 a2 < >B2 b2

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Esiste tuttavia un ulteriore legame, molto più importante e che risulterà decisivo nella comparazione tra sistemi di parentela cinesi ed incaici, ossia quello tra progenitore e pronipote. Infatti, stabilito che il sistema presupponeva quattro sotto-sezioni matrilineari per ogni metà esogamica patrilineare in cui era divisa la società, soltanto il figlio del figlio del figlio del figlio del figlio riproduceva, in considerazione della metà e della sotto-sezione di appartenenza, il suo antenato (padre del padre del padre del padre del padre). Così ogni ciclo si concludeva con il trisavolo. Il discendente successivo diveniva il capo del culto, sposandosi nella stessa metà e nella stessa sotto-sezione dell’antenato. La regola dell’esogamia spariva quindi dopo la quinta generazione 119. Granet nota che effettivamente antichi documenti cinesi attestano un’epoca in cui l’esogamia di clan si arrestava alla quinta generazione. Seligman, sempre citato da Lévi-Strauss (ibidem: 445), conferma questo sistema ed aggiunge che «si è portati ad attribuire qualcosa di più che un semplice valore di probabilità all’ipotesi dell’esistenza di un sistema di classi con generazioni alternate, come esiste tuttora in Australia»120. Io mi sono proposto di superare il modello di Zuidema, a mio modo di vedere troppo rigido ed univoco, cercando di offrire degli spunti che possano stimolare degli studi integrativi di quel modello. Nel suddetto modello ognuna delle quattro partizioni di Cuzco è una classe matrimoniale ed a ciascuna viene assegnato per comodità un numero romano; in più si distingue tra una parentela secondaria di Pachakuti (2), il “nono” imperatore ed una primaria (1) che corrisponderebbero alla a3 A3< >b3B3 Se io sono b3 mia madre sarà B2 in quanto il sistema è matrilineare ed io assumo il cognome della famiglia di mia madre in quanto di essa faccio parte; mio padre sarà invece a2 e la madre di mio padre A1. Questa sarà sposata con b1, il padre di mio padre, che però apparterrà alla mia famiglia e non a quella di mio padre: quindi mio nonno è più strettamente imparentato con me di quanto non lo sia mio padre. Io sarò per mio nonno (materno) il nipote in linea agnatizia ed il pronipote in linea uterina. Nel caso di una famiglia patrilineare invece io sarò il nipote uterino ed il genero di a2 che è il nipote uterino ed il genero di mio nonno; infatti lo schema si modifica nel seguente modo: a1A1< > b1B1< > a1A1 a2A2< >b2B2 < >a2A2 a3A3< >b3B3< > a3A3 dove io sono sempre b3, b2 è mio padre, b1 è mio nonno agnatizio ed è fratello di B1 sposata ad a1 e madre di a2.; mio nonno è dunque zio materno di a2 che ha sposato B2 rendendolo genero di b1, ed è diventato padre di A3 che è mia moglie (quindi sono suo genero C.V.D.) 119

Granet (1959: 309): “Les rites admettent, d’une parte, que la parenté cesse quand l’aïeul commun est plus ancien que le trisaïeul et, d’autre parte, qu’un ebranche collatérale peut se rendre indépendante de la droite lignée lorsque la tablette du trisaïeul ne reçoit plus d’offrandes particulières…Un rameau familial, détaché à la cinquième génération, prend un nom nouveau.

120

Per quel che concerne i Thai del Tonchino e della Cina meridionale, nella sua magnifica opera (1968: 178-179) Eberhard riesamina la questione del sistema zhao-mu alla luce dei dati in suo possesso per quel che concerne queste regioni meridionali mai perfettamente integrate nella sfera d’influenza della Cina imperiale: Most recently, the theory has been proposed that the Shang dynasty had had a preferred marriage system of considerable complexity. While this seems to be likely on the basis of the data, we cannot yet say whether this was a system of aristocratic marriages only for the rulers or a general system. Cross-cousins marriage is a common consequence of bipartition of society. Più oltre (342), occupandosi di sacrifici rituali, l’autore tedesco osserva che this investigation led us to the establishment of the bipartition of society whose two parts were in a kind of constant rivalry, expressed through the sacrifices mainly in the manner by which the victim was selected from one or the other group by ordeal. Rivalry was also expressed in the festivals and in the marriage systems, which provided not rarely for cross-cousin marriage.

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dicotomia Hurin/Hanan (ossia mu/zhao nella mia proposta). Questo perché per Zuidema (1971: 50), “sebbene, secondo la tradizione inca, vi fossero stati circa tredici imperatori, solo dieci sono nominati in rapporto all’organizzazione di Cuzco; di questi, cinque appartenevano a Hanan-Cuzco 121 e cinque a Hurin-Cuzco122. Seguendo la tradizione più conosciuta gl’imperatori di Hanan-Cuzco regnarono dopo i cinque di Hurin Cuzco. Tuttavia, secondo un’altra tradizione 123, la dinastia cominciò col nono imperatore, cioè il quarto di Hanan-Cuzco124. Quelli che nella prima tradizione erano i suoi predecessori, venivano presentati nella seconda come suoi contemporanei e parenti, i quali erano legati a lui da un rapporto di parentela particolare ed erano capi di particolari gruppi sociali nell’organizzazione di Cuzco. Gl’imperatori di Hanan-Cuzco erano i parenti principali e tutti gli imperatori di Hurin-Cuzco erano fratelli secondari degli imperatori di Hanan-Cuzco 125. Sembra verosimile da questa seconda tradizione che coloro che vennero prima del nono imperatore non regnarono mai su tutta Cuzco e sull’impero inca, ma erano rappresentanti di gruppi sociali coi quali essi erano collegati nell’organizzazione di Cuzco”. Questa posizione è stata oggetto di accese critiche da parte di molti esperti, ma le ricerche archivistiche ed etnostoriche della studiosa peruviana María Rostworowski e dello studioso francese Pierre Duviols sembrano confermare l’ipotesi che esistesse un doppio comando a tutti i livelli della gerarchia amministrativa imperiale.

121

primo gruppo: yi o zhao

122

secondo gruppo: ting o mu

123

quella riportata da cronisti di rilievo come Polo de Ondegardo (1571) e Acosta (1556/1590) e da un cronista “secondario” come Gutiérrez de Santa Clara

124

Ossia fu Pachakuti a fondare Cuzco e non Manco Capac e fu sempre lui ad ordinarla in due metà, ed ogni metà in cinque sezioni, ognuna delle quali assegnata ad un parente, primario (Hanan) o secondario (Hurin), secondo una discendenza determinata matrilinearmente come nella Cina shang. Manco Capac, l’antenato semi-divino, non apparteneva invece a nessuna delle due metà, sempre come nel caso cinese.

125

Questo ordinamento deriva dalle informazioni trasmesse da Gutiérrez de Santa Clara (1505/1544-48), secondo il quale le dieci panaca non sarebbero state fondate da dieci diversi Inca ma da un solo Inca e da nove suoi parenti. Per Zuidema l’Inca in questione sarebbe Pachakuti. Quattro di questi parenti appartenevano alla parentela principale (generata dall’unione endogamica del padre Viracocha con una donna collana) mentre gli altri cinque appartenevano alla parentela secondaria (nata dall’unione del padre Viracocha con una donna cayao). Ognuno dei 10 lignaggi costituiti veniva rappresentato da due capi, uno di parentela principale ed uno di parentela secondaria.

88


Confrontiamo il sistema Shang - Zhou con quello incaico nell’interpretazione di Zuidema:

FONDATORE ZHAO A 5 3 1

MU B 4 2 SECONDO FONDATORE

5 3 1

126

4 2

Si veda paragrafo 3.10

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E confrontiamolo con quello (ideale, perché gli ultimi imperatori non fecero parte del sacrario) degli imperatori inca: MANCO CAPAC127 HANAN Sinchi Roca (A) Mayta Capac (5) Inca Roca (3) Viracocha Inca (1)

HURIN Lloque Yupanqui (B) Capac Yupanqui (4) Yahuar Huacac (2) Pachakuti Yupanqui

Tupac Yupanqui (5) Huascar

Huayna Capac (4) Tisci Capac (Atahuallpa)

L’esame della tabella mostra che esiste un certo qual ordine nella successione degli imperatori incaici: si può notare infatti che nella colonna che ho chiamato Hurin si succedono generalmente imperatori che recano il nome-titolo di Yupanqui (infatti ogni imperatore mutava il nome al momento della sua intronizzazione128) mentre nella colonna Hanan i nomi-titolo di Roca (da ruka: “prudente”) e di Capac (da qhapaj:“principale, illustre, sacro”) prevalgono. L’inversione – che pone i Capac a destra e lo Yuapanqui a sinistra – che si verifica da Pachacuti in poi credo possa essere fatta derivare dalla norma dell’alternanza o da un semplice arbitrio del sovrano stesso. Questo ordine non pare essere troppo diverso da quello cinese descritto da Sabattini-Santangelo, in cui vi erano due tronchi celesti – liste di nomi di re defunti – dei quali il primo annoverava con molta maggior frequenza un nome rituale ed il secondo invece ne annoverava due. Inoltre vorrei segnalare che il successore di Manco Capac si chiamava Sinchi Roca, il cui nome è formato dal termine “sinchi”, che designa i capi militari, e che quindi si contrappone al sacerdote Ayar Mango, come effettivamente doveva accadere in un sistema di successione fondato sull’alternanza delle moieties. Ripeto ancora una volta che si deve tener presente che questo è solo un modello interpretativo e non pretende di spiegare alcunchè in modo definitivo. Comunque, proseguendo questo ragionamento, è da dire che il nome Pachakuti significa “cataclisma, rivoluzione” ed è un nome che dà da pensare, soprattutto perché tra i cronisti era noto per 127

Granet (1994: 236): “Ad ogni fondatore di Dinastia spetta un’opera di demiurgo. [...]. Quando un Capo è, come Yu (il Primo Mitico imperatore, nota mia), qualificato per regnare, si dice che il Cielo gli “apre la Via”. Con questo s’intende che il Cielo lo autorizza a restaurare le buone usanze ed un Principe o un Saggio si impegna effettivamente, per lo più viaggiando, ad edificare il Mondo con la sua Virtù. Ma nei tempi mitici, quando il Cielo gli apriva la Via, un Eroe doveva, in un senso più realistico della parola, edificare l’Universo intero. Ecco dunque come Yu, misurando la Terra degli Uomini, giunse ad adattarla alla sua vera misura. Ci viene detto che tenendo conto delle stagioni egli “aprì le 9 Province (Chan Chan?), fece comunicare i 9 Cammini (tao), arginò le 9 Paludi, livellò le 9 Montagne”. [...]. Yu distribuì le terre ed i nomi di famiglia, poi gridò: “Si prenda per guida (la mia) Virtù! Non ci si discosti dai miei cammini!”. Da segnalare inoltre che secondo Duviols Manco Capac sarebbe stato l’antenato comune ad entrambe le metà di Cuzco.

128

Kwang-chih Chang (op.cit.: 168) a proposito dei nomi dei sovrani: Each consists of two parts. The second and main part is a kan character, one of the ten celestial signs…The first, less important, part consists of a character meaning father, ancestor, great, middle or small, or a character of unknown or uncertain meaning.

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essere stato ritenuto dagli autoctoni l’iniziatore di un nuovo ciclo cosmico. Secondo i cronisti fu lui che mutò il sistema di potere di Cuzco, ricostruì Cuzco stessa, per trasformarla nella capitale di quell’impero che aveva provveduto a conquistare con alcune guerre ben condotte, ed organizzò lo stesso impero in distretti amministrativi ordinati per suyu. Analizzando la successione dinastica incaica nella prospettiva del modello Zhao-Mu con interruzione del lutto alla quinta generazione, possiamo notare che Pachakuti fu il quinto re della sua metà esogamica, ossia il primo del nuovo ciclo. Ma così facendo dovremmo considerare solo una metà esogamica. Ciononostante esisteva un altro tipo di prescrizione: infatti secondo il testo classico confuciano Li Ku gli antenati dovevano essere invocati fino alla settima generazione 129: quindi, a tutti gli effetti, Pachakuti era l’ottavo imperatore, cioè il reale sostituto di Manco Capac. Vi è una spiegazione semplice di quest’apparente discordanza tra i riti cinesi. Sabbatucci (1989: 89) afferma che «nella Cina moderna si venerano – o si veneravano; non so dire se l’uso sia sopravvissuto – gli ultimi sette antenati, ad ognuno dei quali la famiglia dedica una «tavola»; col succedersi delle generazioni si elimina la tavola dell’antenato più vecchio e se ne aggiunge una per il nuovo antenato. Perché proprio sette? Perché questo culto privato degli antenati riflette l’originario culto regale degli antenati. Infatti vi fu un tempo in cui il re, e soltanto il re, aveva un «tempio degli antenati» contenente sette sacrari, uno per ogni antenato. La rotazione generazionale concerneva quattro antenati: il trisavolo, il bisavolo, il nonno ed il padre del re; gli altri tre erano fissi, quasi figure mitiche (o comunque mitizzate): un capostipite e due antenati remoti» 130. Se si riflette su questa affermazione si comprende che con questo sistema le due metà esogamiche rimanevano accoppiate strutturalmente secondo l’ordine delle quattro sottosezioni esogamiche ai cui defunti “rappresentativi” venivano aggiunti i tre antenati mitizzati che, nel caso degli Inca, erano Manco Capac, Sinchi Roca e Lloque Yupanqui. In questo modo Pachakuti era a buon diritto l’iniziatore di un nuovo ciclo. Nell’opera dal titolo «Estructuras andinas del poder» (1988: 130) della medesima studiosa incontriamo una citazione dal cronista Cieza de León, che ci farà capire come, in accordo ai suggerimenti di Lévi-Strauss, non sia da escludere un sistema di successione alternato: «tuvieronse

129

In Estremo Oriente la regola dell’esogamia è prescritta per un numero diverso di generazioni a seconda della regione: in Indonesia le generazioni sono 3, nell’Assam sono 4 o 5, 5 nella Cina dei Shang, 5, 7, o 9 in Siberia. Un sistema analogo si ritrova presso gli Yakuti, ripartiti in clan (aga-usa), presso i quali la regola di esogamia clanica è sospesa dopo la nona generazione e presso i Kazaki, che sono divisi in uru, gruppi patrilineari, e aul, gruppi patrilocali, e che fissano alla settima generazione il limite d’esogamia dell’uru. Anche i Buriati hanno una regola consimile, con un limite di nove generazioni in linea maschile (Lévi-Strauss, 1969: 508).

130

Dans le temple ancestral royal de Tcheou, la chapelle centrale était consacrée au premier ancêtre du clan, Heou-tsi; de chaque côté, il y avait les chapelles des trois tchao et des trois mou: quatre, deux à droite et deux a gauche, étaient appelées miao, et appartenaient aux ancêtres proches qui avaient droit aux sacrifices mensuels, père, aïuel, bisaïeul, trisaïeul (chacune avec sa femme légitime), les deux autres, les plus rapprochées de celle de Heou-tsi étaient appelées t’iao, et étaient réservées aux deux ancêtres plus éloignés qui n’avaient plus droit aux sacrifices mensuels, mais seulement aux sacrifices saisonniers: c’étaient probablement les “demeures perpétuelles”, che-che, des rois Wen et Wou, les fondateurs de la dynastie; enfin, il y avait un autel, t’an, et un aire, chan, sans chapelle, sortes de lieux de culte intermédiaires destinés aux deux ancêtres à la cinquième et à la sixième génération avant qu’ils fussent remisés définitivement dans les t’iao avec leurs prédécesseurs (H. Maspero, 1969: 172-173).

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siempre por ilustres las gentes que vivían en los dos lugares de la ciudad, llamados Anancuzco y Orencuzco. Y aun algunos indios quisieron decir que el un Inca había de ser de uno destos linajes, y otro del otro ma no lo tiengo por cierto, ni que es más de lo que los orejones cuentan». Pierre Duviols, in La dinastia de los Incas: ¿Monarquia o Diarquia?131, suggeriva due possibili interpretazioni di questo passo. Nella prima egli asseriva che si poteva assumere che le fonti presupponessero un sistema di potere monarchico di tipo europeo. In quel caso il brano doveva essere letto come un riferimento a un principio de alternancia en el mando único. Più oltre però lo studioso francese aggiungeva che semejante interpretación no parece aceptable porque en ese sistema el Sapa Inca se elige sea e la mitad Hanan, sea en la mitad Hurin. Pero sabemos por todas nuestras fuentes que los incas “mayores” desde Inca Roca fueron Hanan y que nunca hubo alternancia. Tal interpretación solamente es de esperar da parte de un cronista español, por analogía con el sistema europeo, no de parte de los indígenas. Personalmente non mi è noto alcun sistema europeo di alternanza al potere, mentre invece ne sono stati accertati numerosi casi sia in Estremo Oriente, sia nel Nuovo Mondo; come detto, il confronto con l’ordine Zhao-Mu permette di capire che non si trattava di un dualismo al potere, ma di una successione alternata. D’altronde anche Zuidema non negava categoricamente questa possibilità, infatti, nel suo The Origin of the Inca Empire (1973), egli sosteneva che nel Cuzco era probabile che la dignità regale si alternasse tra le due fratrie nelle quali era divisa la capitale, oppure che vi fosse una diarchia, vale a dire due sovrani simultanei: uno nella Cuzco inferiore che si occupava di questioni religiose, e l’altro nella Cuzco superiore, con il comando militare. Tuttavia nessun cronista afferma che esistesse un duopolio di alcun genere. Quando Duviols fa riferimento a Cristobál de Molina, secondo il quale el ynga tenia señalado y nombraba una persona grave de su linaxe con quien se tratasen y definiesen todos los negocios y ese lo tratava con el ynga y entre ambos se acordava lo que avia de hazer y esta segunda persona del dicho ynga se elexia el dia que al el le alcançavan por señor porque la eleccion deste tocava a los sacerdotes del sol (Duviols, ibidem: 79) egli si dimentica di far notare che questa figura non assisteva l’Inca da sola, ma era affiancata da altri tre consiglieri, formando assieme a loro una sorta di “gabinetto” dell’imperatore. Tutti e quattro erano governatori rappresentanti dei suyus, venivano chiamati suyuyuq apu, e, secondo Martin de Murúa “erano come consiglieri di Stato dalle cui mani e prudenza dipendeva tutto il regno così per l’amministrazione ordinaria come per la guerra. Questi erano della famiglia dell’Inca […], fratelli o zii, e dopo di lui erano le persone dotate di maggiore autorità nella corte…”. Un possibile duopolio poteva essere esistito anticamente se noi ipotizziamo che la figura del Willaq Humu, una sorta di pontefice massimo inca, potesse essere il retaggio di una precedente forma di gestione condivisa del potere secolare e di quello religioso, ma anche in questo caso non abbiamo prove decisive in merito. Invece sappiamo che il Sapa Inca aveva un alter ego – chiamato wawqe – 131

Journal de la société des Américanistes, LXVI, 1979: 67-83.

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con il quale si accordava nell’amministrazione del regno. Tuttavia altro non era che un “doppio” dell’Inca, riprodotto in pietra, legno ed argento che, in cambio dell’assegnazione al Sapa Inca del potere, chiedeva in cambio un culto preferenziale. A questo idoletto era asegnato un santuario, del personale di servizio che lo accudiva e delle terre di sua proprietà. Alla morte del suo epiteto in carne ed ossa veniva conservato assieme alla sua mummia e diveniva oggetto della stessa devozione da parte dei membri della panaca che si veniva a formare in seguito alla morte dell’imperatore132. D’altra parte, proprio in Italia, Mario Polia, uno dei nostri maggiori esperti di culture peruviane, afferma testualmente che ”sembra accertata la successione alternata al trono da parte di un sovrano appartenente alla metà territoriale del Cuzco alto e di uno appartenente alla metà del Cuzco basso” (Polia, 1999: 41). Questa concezione dualistica era rispecchiata in modo evidente dalla cosmovisione degli stessi Inca, che noi possiamo apprendere grazie al diagramma di Juan Santa Cruz Pachakuti Yamqui, uno dei massimi cronisti indigeni, che ho già riprodotto in precedenza. I quattro gradi di discendenza successivi al primo – generativo – corrisponderebbero, secondo Wachtel (1977: 124) ai quattro punti cardinali più il centro, che sembra coincidesse con il dio Wiracocha. Ebbene, non è certo un caso che nel contesto dello studio dei sistemi di parentela cinesi regolati dal modello Zhao-Mu sia stata avanzata l’ipotesi che il numero di generazioni a scambio esogamo imposto dal lutto fosse di 5 perché 4 più il centro erano i punti cardinali della cosmovisione cinese. E’ quindi assai probabile che il dualismo imperante che governava il sistema incaico non sia stato interpretato correttamente. La proposta di Zuidema non è certamente errata: la Rostworowski appoggia l’idea di un duopolio asimmetrico (dove il potere di uno dei due membri è maggiore di quello dell’altro), ma non condivide la convinzione che il «secondo» fosse di stirpe reale, trattandosi più semplicemente di una sorta di «primo ministro» di alto lignaggio. E’ ancora la Cina ad offririci un interessante parallelo; sempre Kwang-chih Chang ha rilevato come durante l’epoca pre-imperiale il potere fosse distribuito secondo un modello dualistico nel quale la figura del sovrano era probabilmente bilanciata da quella di un «primo ministro», il quale fungeva da trait d’union al momento della successione133. Possiamo considerare la cultura andina come un amalgama di differenti tipi di società, ma è altrettanto possibile, in un’ottica strutturale, che noi non siamo ancora riusciti ad individuare quegli 132

E’ inoltre da aggiungere che dei nove wawqe dei quali ci è giunta notizia, quattro erano in relazione al dio del fulmine, Illap’a, tre al dio del sole, Inti, uno al dio Wiracocha e del restante non è chiara la natura. Sembra dunque che tra i vari Sapa Inca esistesse una relazione anche simbolica oltre che clanica e sarebbe interessante indagare la possibilità che quasti wawqe avessero una valenza totemica classica.

133

Granet (1968: 182): «Una stessa linea agnatizia si perpetua al potere, formando una dinastia. Tale linea possiede l’autorità suprema, ma non possiede tutta l’autorità. Il re, infatti, non può regnare che con il concorso di un ministro. Questo, in un primo momento, non è preso nel gruppo agnatizio che fornisce la dinastia regia, ma in un gruppo avversario. Il gruppo familiare che dà al sovrano la sua sposa gli fornisce pure il suo ministro»

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elementi culturali di base che ci permetterebbero di riconoscere in tutti questi tipi di società i tratti di una medesima struttura. I diagramma del cronista Perez Bocanegra (1631) e di Joan de Santacruz Pachacuti Yamqui (1613) sono particolarmente emblematici in tal senso134. Entrambi, pur occupandosi l’uno del sistema di parentela135 e l’altro del sistema religioso, riproducono il medesimo ordine:

M1 (figlio) M2 (nipote) M3 (bisnipote) M4 (trisnipote)

M0 F1 (figlia) F2 (nipote) F3 (bisnipote) F4 (trisnipote)136

Viracocha Sole Luna V.S.M V.S.S (nonno) Camac

(nonna) Mama

pacha Uomo

Cocha Donna

Perez Bocanegra delinea due lignaggi, uno patrilineare composto solo di uomini e l’altro matrilineare, costituito da sole donne137. Essi consistono di quattro generazioni138 che discendono da un antenato comune. Dato che nel sistema incaico era permesso il matrimonio di due persone

134 135

R.T.Zuidema, “A visit to God” (358-373), contenuto in Gross (1973) Per quel che concerne il sistema di parentela, nel suo «Historia del Tawantinsuyu» la Rostworowski riprende la tesi di Zuidema secondo cui il vocabolo panaca, derivante quasi certamente dal vocabolo pana che indicava la sorella del fratello, designava il gruppo di fratelli di un uomo, escludendo quindi che questa struttura di parentela potesse avere un carattere endogamo patrilineare e suggerendo invece una natura esogamica agnatizia duale, corrispondente a quella dei lignaggi cinesi di cui sopra. Ecco la divisione delle panaca secondo il cronista Garcilaso De La Vega, che rimane una delle fonti più autorevoli (Roda, 1994: 70):

HANAN CUZCOHURIN CUZCOUicaquirao panacaChima panacaAucaylli panacaRaura panacaSocaso panacaAuayni panacaHatun Ayllu o Inaca panacaUsca Mayta panacaCapac AylluApo Mayta Capac panacaTumipampa panaca

Ecco invece la suddivisione degli ayllu (ibidem: 68): HANAN CUZCOHURIN CUZCOChahuin Cuzco aylluSutic-toco aylluAraycara Cuzco-callan aylluMaras aylluTarpuntay aylluCuycusa aylluGuacaytaqui aylluMasca aylluSañoc aylluOro ayllu 136

137 138

In questo sistema W4 è considerata moglie non solo di M4 ma anche di M1, mentre M4 è detto marito di W1. M4 è detto “piccolo figlio” di C e W4 è detta “piccola figlia” di D. Zuidema: This lineage system is peculiar to the Incas and some other South American people (ibidem) Zuidema: the concept of incest prohibits marriage between the descendants of a couple up to the great-grandchildren; the greatgreat-grandchildren can marry…it is still important to know one’s ancestors up to the third generation, i.e. up to the greatgrandfather (ibidem).

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appartenenti allo stesso lignaggio solo alla quarta generazione risulta evidente l’analogia con la medesima prescrizione presente in Estremo Oriente. Quanto al modello cosmologico, sappiamo che Viracocha, il dio creatore era il padre del sole e della luna. Egli era allo stesso tempo un ente maschile e femminile e presiedeva ad entrambi i lignaggi, quello patrilineare e quello matrilineare, che lui stesso aveva provveduto a generare. Il sole e la luna erano padre e madre di Venere come Stella del Mattino, denominata “nonno”, e come Stella della Sera, o “nonna”. Venere-Stella del Mattino è padre del signore della terra, Camac Pacha, e nonno dell’uomo, mentre Venere-Stella della Sera è la madre della signora dell’oceano, Mama Cocha, e nonna materna della donna. Oltre a rapresentare il sistema di parentela e quello cosmologico, questo modello riproduceva l’ordine gerarchico della società incaica. Infatti ogni Sapa Inca, assieme ad una sua sorella (per parte materna e paterna), era il fondatore di un proprio lignaggio, e proprio per questo entrambi appartenevano ad un lignaggio che era nel contempo patrilineale e matrilineale, in quanto tutti i loro antenati avevano seguito lo stesso costume. In questo modo il re terreno era gerarchicamente l’analogo di Viracocha, il signore del cielo. La disposizione delle mummie rispecchiava pienamente questo ordine. Man mano che le generazioni si susseguivano, le mummie più vecchie perdevano di importanza, decadendo dal rango di “Viracocha” fino a venire gettate nel dimenticatoio 139, esattamente alla maniera cinese. Tuttavia questa è solo una delle possibili letture del dualismo tipico delle istituzioni sudamericane. Altri, seguendo l’impostazione strutturalista, potrebbero aggiungere che il dualismo è un paradigma tipico della mentalità peruviana, che si riflette spontaneamente nelle sue manifestazioni concrete. Altri ancora, come Duviols ad esempio, potrebbero altrettanto giustamente far notare che dans la mythologie de cette région, il n’est pas rare que l’autre, l’étranger au groupe, soit symboliquement représenté par une entité de la moitié supérieure du cosmos, c’est-à-dire céleste 140. Coerentemente con questo presupposto, nel corso delle celebrazioni tenute dagli Inca in dicembre, alla fine della stagione secca, per festeggiare la sottomissione dei popoli andini non incaici, questi ultimi venivano rappresentati dalle forze celesti della stagione secca, mentre gli Inca venivano associati al sole al nadir, il sole sotterraneo della stagione delle piogge. Ma in questo caso verrebbe da chiedersi per quale motivo Cuzco fosse governata stabilmente dalla metà superiore, che a livello simbolico era contrapposta alla natura “invernale” intrinseca all’”incaicità”. Forse perché gli Inca si erano considerati loro stessi degli stranieri a Cuzco, fino a quando, con il cambio dinastico, avevano sancito la sacralizzazione, e quindi l’appropriazione del territorio che abitavano ormai da decenni? 139 140

Zuidema (ibidem): the model was of a great importance to the calendar system of both Inca and Tiahuanaco culture. Da Le jeune homme et l’etoile ou le voyage au pays de la multiplication des grains: un mythe andin sur les dangers de l’exogamie di César Itier, apparso nel “Journal de la société des Américanistes”, 82, 1996: 167)

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Se teniamo conto di quell’insieme di tradizioni che tramandano un’origine sotterranea degli Inca e le leggiamo alla luce dei suggerimenti offerti da Yves Bonnefoy (1989: 1284), secondo il quale “l’origine in una dolina, ossia in un’antica grotta il cui tetto è crollato, secondo l’opinione generale che concorda con quella di Maurice Leehnardt, esprime un’origine esterna…le informazioni di questo tipo sono spesso definite “segrete” dai lignaggi interessati, ed in ogni caso ciò corrisponde al divieto di farvi anche una semplice allusione in pubblico. In Oceania non esiste ingiuria più grave di quella di dare a qualcuno dello straniero, perché la cosa implica il negare i suoi diritti alla terra…”. Sembra lecito inferire che gli Inca molto probabilmente avevano cercato in ogni modo di cancellare queste narrazioni, che li definivano in pratica come dei parvenu, senza però riuscirvi, come testimoniano le cronache della conquista. Di qui l’esigenza di diffondere altre credenze, nelle quali il mondo sotterraneo li aveva partoriti nel luogo più sacro delle Ande, il lago Titicaca. 3.8 LA SECONDA RAPPRESENTAZIONE: LA TRIPARTIZIONE La pianta del villaggio trobriandese di Omarakana, pubblicata da Malinowski, è a struttura concentrica con al centro lo spiazzo per le cerimonie e le feste e, lungo un cerchio esterno, le case degli abitanti. Questi due cerchi sono a loro volta divisi in tre settori, attribuiti rispettivamente al clan matrilineo del capo, ai rappresentanti dei clan congiunti al lignaggio del capo, ed infine alla popolazione della comunità, suddivisa a sua volta tra proprietari secondari e non-proprietari stranieri. Come abbiamo già visto ci troviamo al cospetto della sovrapposizione di un ordine tripartito – centro e periferia cosmizzati, ambiente non cosmizzato – sul più comune ordine duale. Seppure non siamo autorizzati a dire che l’organizzazione radiale sia nata da una concezione tripartita concentrica dello spazio sociale, è però anche vero che la capitale cinese era rappresentata nell’iconografia ufficiale come una serie di rettangoli concentrici, più spesso cinque, che racchiudevano il palazzo dell’imperatore separandolo nettamente dai confini del mondo conosciuto 141. Possiamo quindi notare che in un certo senso vi si può stabilire una diretta corrispondenza tra l’estensione dei domini e la complessificazione dell’organizzazione concentrica. Il passaggio finale è quello che conduce all’organizzazione radiale, in cui i confini sono cancellati data la vastità del territorio cosmizzato, mentre risaltano le linee a raggiera che congiungono un luogo cosmizzato all’altro e tutti questi al centro, l’ombelico del mondo.

141

Proceeding outwards from the metropolitan area, we have, in concentric rectangles, (a) the royal domains, (b) the lands of the tributary feudal princes and lords, (c) the “zone of pacification”, i.e., the marshes, where Chinese civilization was in course of adaptation, (d) the zone of allied barbarians, (e) the zone of culturless savagery Needham in Rosemont (op.cit.: 142, didascalia della fig.5)

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Ecco ora la tabella illustrativa del modello sociale incaico come è stata ricostruita da Zuidema (1971): CLASSI

LIGNAGGI

IV (Cuntisuyu / dio Viracocha / Lignaggio del padre Hurin / payan / sud) del padre del padre III (Antisuyu / dio sole Inti / Lignaggio del padre Hanan / payan / nord) del padre II (Collasuyu / dio Viracocha / Lignaggio del padre Hurin / collana / est) I (Chinchasuyu / dio Sole Inti / Lignaggio di Ego Hanan / collana / ovest) IV (teoricamente ma Pachakuti Lignaggio del figlio rivoluziona)

CAPI DI HURIN CUZCO (Cayao)

CAPI

DI

HANAN

CUZCO (Collana e Payan)142

Sinchi Roca

Inca Roca

Tarco Huaman143

Yahuar Huacac

Lloque Yuapanqui

Viracocha Inca

Mayta Capac

Pachakuti

Capac Yupanqui

Tupac Yupanqui

Una classe matrimoniale di ciascuno dei gruppi endogamici collana, payan e cayao era presente in ciascuno dei suyu. Pachakuti, in quanto Inca fondatore del nuovo ordine, apparteneva alla classe I-

Lévi – Strauss 1974

Wachtel 1977

1, ossia Chinchasuyu/Collana/Hanan, assieme ai suoi successori; Mayta Capac ed i suoi successori a quella I-2 (Chinchasuyu/Payan/Hurin) in quanto parente secondario; il padre di Pachakuti, Viracocha Inca era di classe II-1 (Collasuy/Collana/Hanan) ed il nonno, Yahuar Huacac a III-1 (Antisuyu/Collana/Hanan). Un Sapa Inca come Pachakuti, sottoposto alla prescrizione endogamica 142

143

Zuidema (op.cit.: 70): “La società inca era basata sul rapporto tra il gruppo locale endogamico, Collana, ed il mondo esterno, Cayao. […]. I discendenti di un uomo che contraeva un matrimonio esogamico continuavano ad abitare nel territorio del gruppo pur non appartenendo essi stessi al gruppo esogamico. Essi venivano considerati come un gruppo separato: Payan. […]. Il rapporto di un uomo Payan con i gruppi Collana e Cayao era determinato a livello personale dal rapporto con il padre, che era Collana, e con lo zio materno, che era Cayao. Imperatore spesso non presente nelle tradizioni locali ma citato da Polo e da Acosta

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nell’ambito della sua metà ed esogamica in quello della sua classe, figlio di una donna di I-3 (Cayao), doveva sposare una donna di classe IV-3 (Cuntisuyu/Cayao), il che storicamente avvenne con il matrimonio con Mama Anahuarque. Tutti gli imperatori che precedevano Pachakuti (IX imperatore) in senso falsamente cronologico fino al VI (Inca Roca) erano imperatori di Hanan, mentre gli altri erano imperatori di Hurin, i primi devoti al sole, i secondi a Viracocha. Zuidema, rielaborando gli scritti lasciati dal cronista Guamam Poma de Ayala alla luce delle informazioni tratte da altre fonti etnostoriche ed etnografiche144, è giunto alla conclusione che i mesi dell’anno venivano raggruppati gerarchicamente in quattro insiemi secondo la tripartizione Collana, Payan, Cayao, la stessa che ordinava la popolazione cuzqueña145. Quest’ordine gerarchico mutava in accordo con le stagioni, nel senso delle lancette di un orologio per la prima metà dell’anno ed in senso antiorario nella seconda. In altre parole i ceque delle partizioni I e II (Cinchasuyu-Hanan ed AntisuyuHanan) erano ordinati in terzetti 1, 2, 3 ai quali corrispondevano i terzetti esogamici Collana, Payan, Cayao, mentre nell’altra metà endogamica, quella meridionale Hurin (Collasuyu e Cuntisuyu), erano raggruppati in terzetti di ordine invertito, con una relazione 1-Cayao, 2-Payan e 3-Collana. L’inversione avveniva ai solstizi e veniva celebrata con le due massime celebrazioni incaiche, il Capac Inti Raymi, in concomitanza con il solstizio d’estate, e l’Inti Raymi, durante il solstizio d’inverno. Perciò i diversi segmenti imparentati della comunità erano a tutti gli effetti i custodi di determinate parti dell’anno. Nel dettaglio, all’Antisuyu, al Chinchasuyu ed al Collasuyu spettavano 9 ceques raggruppati a tre a tre secondo il criterio Collana, Payan, Cayao mentre al Cuntisuyu ne spettavano 14 raggruppati i 4 gruppi da tre (C,P,C) e due liberi. Le huaca, i santuari collegati da questi ceque, erano 328, ma 328 equivalgono non certo per caso a 12 cicli di 27 giorni e mezzo, cioè 12 mesi siderei, che rappresentano il tempo impiegato dalla luna per uscire e ritornare nella stessa costellazione dopo aver percorso tutto lo zodiaco. 328 erano anche i giorni dell’anno tropicale, cioè quelli che andavano dal 9 giugno al 2 maggio inclusi e che erano importanti perché in essi si svolgevano tutti i rituali agricoli, mentre i 37 restanti giorni erano considerati insignificanti in quanto there were no ritual concerns with the cultivated earth in terms of irrigation, plowing, planting or attending the plants in the field146. Cuzco era dunque formata da Hanan e Hurin, metà endogamiche,

144

Questo modello nacque quando Zuidema, esaminata l’organizzazione sociale di alcune comunità quechua scoprì che in una di queste, Anta, ogni ayllu era diviso in due metà, Hanansaya ed Hurinsaya, ognuno dei quali diviso in tre “sotto- ayllu”, Collana (=ricco), Hatun (=grande) e Huchun (=piccolo); nella provincia. La provincia di Collagua era invece divisa in quattro sottoprovince all’intero delle quali ogni villaggio era diviso in 3 ayllu ognuno dei quali era strutturato i 3 sotto-ayllu; si avevano perciò: Collana Collana, Collana Payan, Collana Cayao; Payana Collana, Payan Payan, Payan Cayao; Cayao Collana, Cayao Payan, Cayao Cayao.

145

In breve ad ogni complesso di una panaca e di un ayllu veniva attribuito un gruppo di ceque secondo questo criterio: alle panaca corrispondevano i ceque payan, agli ayllu i ceque cayao mentre i ceque collana erano relazionati ai Sapa Inca in quanto fondatori di una loro propria panaca 146 Richard Tom Zuidema, A quipu calendar from Ica, Peru, with a comparison to the ceque calendar from Cuzco in Aveni, 1989: 342-343

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costituite a loro volta da tre sezioni esogamiche, in un modello perfettamente identico a quello del villaggio bororo. L’organizzazione gerarchica tripartita si rispecchiava nel sistema della parentela, che prescriveva, a parere di Zuidema, un tipo di scambio che seguiva la direzione Collana-Payan-Cayao, secondo un modello di scambio asimmetrico tra cugini incrociati matrilaterali. Secondo le informazioni di Albisetti, le due metà esogamiche dei villaggi bororo non erano realmente tali: infatti ognuna delle due era suddivisa in tre sezioni - superiore, media ed inferiore - che impedivano lo scambio vicendevole delle mogli147. L’esogamia era limitata alle metà del medesimo livello. Lo stesso accade in numerose tribù dei Naga dell’Assam; un’organizzazione dualistica si interseca ad un’organizzazione tripartita, le cui tre sezioni differiscono per abbigliamento e dialetto. Una configurazione analoga caratterizzava la struttura sociale dei Terêna, un gruppo Aruák del

Lévi – Strauss 1974

Mato Grosso, studiato da Roberto Cardoso de Oliveira 148. L’antropologo brasiliano osserva che la società dei Terêre è dividida nas metades xumonó e sukirikionó ma anche organizzata allo stesso tempo en camadas ou estratos estruturados num sentido hierárquico: os naati, ou os Capitães e suas parentelas; os waherê-txane, ou a gente comum, livre, e os kauti, ou os indivíduos de diferente procedência étnica, integrados na ordem tribal como cativos. I Terêre sono quindi organizzati in 147

148

Lévi-Strauss (1974: 168) ha creduto di ravvisare in questo tipo di organizzazione triadica un ulteriore distinzione tra natura statica e dinamica del sistema sociale così conformato: Il y a donc une profonde différence entre le dualisme diamétral et le dualisme concentrique: le premier est statique, c’est un dualisme qui ne peut pas se dépasser lui-même; ses transformations n’engendrent rien d’autre qu’un dualisme semblable à celui dont on était parti. Mais le dualisme concentrique est dynamique; il porte en lui un triadisme implicite; ou, pour parler plus exactement, tout effort pour passer de la triade asymétrique à la dyade symétrique suppose le dualisme concentrique qui est dyadique comme l’un, mais asymétrique comme l’autre. La nature ternaire du dualisme concentrique ressort aussi d’une autre remarque: c’est un système qui ne se suffit pas à lui-même et qui doit toujours se référer au milieu environnant. O dualismo terêna, Revista do Museu Paulista, 1965/1966: 255-261

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classi matrimoniali, cosicché gli unici tipi di scambio possibili tra le parti è quelli di servizi rituali, mai di mogli. Anche presso i Terêre ritroviamo il motivo della organizzazione duale originatasi in seguito alla fondazione delle due parti effettuata da due gemelli, che nel mito incaico sono Ayar Mango (Manco Capac) e Mama Huaco. Per di più l’analogia viene rafforzata dal ruolo determinante ricoperto dalle Pleiadi nelle funzioni rituali. Le due metà, proprio come Hanan ed Hurin a Cuzco, attuano una cerimonia sacra e profana al tempo stesso, chiamata Oheokoti, che si svolge nel periodo in cui le Pleiadi raggiungono lo zenit e che è dedicata al culto dei morti. Un ulteriore modello di tripartizione affine a quello incaico è rilevabile inoltre tra i Tapirapé. Secondo la Rostworowski la divisione dell’esercito incaico in tre tronconi rifletteva la divisione della società incaica nei tre gruppi payan, collana, cayao; ebbene, tra i Tapirapé149 “a tripartição não se tinha manifestado durante a derrubada na qaul todos trabalhavam em completa promiscuidade, a separação mais evidente dos vuira150 se efetivou ao chegarem êles à praça triangular e se dirigirem para os três lugares bem distintos onde as mulheres haviam depositado as comidas e bebidas”. La tripartizione era gerarchica, forse per classi di età, con un vuira-guida, uno mediano ed uno minore. Tra gli Inca sussisteva la seguente tripartizione corrispondente, qui come in Asia, alla tripartizione cosmica in cielo, mondo abitato dagli uomini e sottosuolo (Rostworowski, 1988, Estr.: 147): Nome della divisione Collana Payan

Metallo Oro Argento

Cayao

Rame

Sesso/età Uomo adulto Donna Giovane uomo o fratello minore

Per quel che riguarda la sovrapposizione di un ordine quadripartito ad uno tripartito, che abbiamo già incontrato tra gli Inca, traggo da van der Kroef (Am. Anth. 1954, LVI: 860) la seguente citazione: …the general social system apparently revolves around the existence of one “center” clan, two clans associated with the upper word and two clans associated with the underworld, creating a conceptual triad with immense ramification in social structure, rituals and religious beliefs. Nel villaggio di Marind si incontrano un villaggio centrale, un villaggio posteriore ed uno anteriore. Quello posteriore è detto “il più giovane” ed è associato all’est, dove nasce il nuovo sole, 149

Herbert Baldus, “Aspectos da organização social Tapirapé: tripartição, dualidade e graus de idade” in Revista do Museu Paulista, 1967: 49-59

150

vuira o vuyra, che significa “uccelli” – notare per inciso che molti nomi di panaca incaiche erano nomi di uccelli – era il nome di ognuno dei tre gruppi in cui si dividivano gli uomini Tapirapé durante gli spostamenti., la raccolta, la caccia, ecc. Il termine è relazionabile al mito delle origini dei Tapirapé secondo cui gli antenati erano dois casais escapados tanto do dilúvio como do incêndio universal, isto è, dois homens jacu, uma mulher mutum e outra mulher periquito, portanto quatro aves (ibidem: 54)

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mentre quello anteriore è “il più vecchio” e si ricollega all’ovest, dove il sole muore. Questo è solo uno dei numerosissimi casi, in cui incontriamo una società duale, suddivisa a sua volta in tre sezioni, più o meno soggette alla prescrizione dell’endogamia. Purtroppo al momento attuale non conosciamo approfonditamente questa terza rappresentazione, la cui natura è completamente sfuggita ai cronisti della Conquista e che sopravvive odiernamente solo in pochi comunità. Sarebbe ad esempio interessante mettere in relazione la tripartizione della società incaica con la credenza in una tripartizione del cosmo tra Hanan Pacha (cielo), Kay Pacha (superficie terrestre) ed Hurin Pacha (sottosuolo), oppure cercare di capire se queste tripartizioni possano derivare dalla necessità di conciliare le polarità opposte per mezzo della creazione di un punto di mediazione, un centro che coesista con i due poli, ma ho ritenuto inopportuno stabilire delle comparazioni sistematiche per non appesantire la ricerca. 3.9 LA TERZA RAPPRESENTAZIONE: LA QUADRIPARTIZIONE La terza rappresentazione è talora una diretta conseguenza del sistema matrimoniale a scambio generalizzato che, in una società dualista, prescrive la formazione di altre due classi matrimoniali che garantiscano il passaggio delle mogli da A a D in modo indiretto, aggirando così il tabù dell’incesto. Nel caso incaico non siamo ancora autorizzati a fare riferimento a questo modello ma sembra piuttosto che il principio organizzatore fosse semplicemente quello cardinale, dove le “quattro parti unite” – il “Tawantinsuyu”, appunto - erano orientate in modo da intercettare le linee immaginarie che congiungevano i punti cardinali. Platt (Gonzalo Carvajal, Tawantinsuyu, 1998: 65) ha studiato l’etnia aymarà Macha scoprendo una serie di organizzazioni quadripartite che costituiscono il paradigma che regola le modalità di rappresentazione del cosmo e della società. La descrizione che ne dà l’autore è particolarmente somigliante alla cosmovisione incaica descritta da Pachacuti Yamqui. Tra i Macha esiste una quadruplice opposizione di accoppiamenti simbolici: quella tra metà alta e metà bassa e quella tra altopiano e valle, che non coincidono a livello fisico. Vi è inoltre una gerarchizzazione delle parti che prevede aransaya predominante su urinsaya e l’altopiano predominante sulla valle. Il concetto di yanantin riporta la quadripartizione al piano dei rapporti tra i sessi. Come afferma l’autore in questione, l’uomo e la donna necessitano di una conversione rituale, che li tramuti nella coppia che rappresenta l’unione fisica della sinistra con la destra. Analogamente al simbolo cardine del pensiero taoista, lo yanantin unisce gli elementi maschili e femminili presenti nei due sessi, generando delle coppie androgine ed efebiche. Questa concezione può essere rinvenuta nelle raffigurazioni della nobiltà inca eseguite da Guamam Poma de Ayala, nelle quali scopriamo come i copri-mammelle della

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prima Coya (l’imperatrice) fossero distinti in uno destro, del colore dell’oro e quindi solare/maschile, ed in uno sinistro, di color argento, e quindi lunare/femminile. Per quel che concerne la quadripartizione sociale incaica, come rileva Carvajal Al igual que en las matrices cuatripartitas, descritas por Platt (1978), para la etnia aymara de los macha, se observan en el Cuzco dos pares de elementos opuestos y jerarquizados. Sin embargo, la verdadera oposición la constituye Chinchasuyu y Collasuyu asociados respectivamente a lo alto y al bajo. Antisuyu y Cuntisuyu corresponden al par subsidiario o ambiguo que posibilita la unión mayor dada la heterogeneidad de sus componentes y sono considerados “no inka”. Rimanendo sulle Ande, stando alle ricerche di Alfred Métraux151, gli Uro del lago Titicaca sono parimenti divisi in due moieties, anan-saya e mana-saya152, ordinate in quattro clan: Titkana, Konko, Kama e Kuipa. Nell’Amazzonia centrale, i villaggi degli Apinayé sono disposti a cerchio e comprendono anche in questo caso due metà matrilinee, ma non esogamiche, che vivono in un rapporto di opposizione strutturale tra Sole e Luna, nord e sud, rosso e nero e talora vengono distinte in una superiore ed una inferiore. Anche presso gli Apinayé il dualismo si esprime con gare e contese, che coinvolgono le due parti al momento del cambio di stagione. All’interno di ogni metà vi sono quattro kiyé, che regolano i vincoli matrimoniali secondo un sistema di scambio delle mogli di tipo generalizzato circolare, con l’uomo della kiyé A che sposa una donna della B ed un uomo della B che sposa una donna della C e così via fino a tornare alla kiyé di partenza. Questo implica una ulteriore divisione del villaggio in quattro settori, corrispondenti ai quattro gruppi endogami, nati dal raggruppamento degli uomini appartenenti ad una kiyé ed imparentati con donne preovenienti da un’altra kiyé. Pare che un modello analogo fosse operativo a Cuzco, dove è possibile che i quartieri corrispondessero a classi matrimoniali e determinassero un sistema di scambio generalizzato analogo 153. E’ da dire però che uno di questi gruppi, quello di nord-ovest chiamato Chinchasuyu, aveva preso il potere e prevaleva sugli altri tre (Zuidema in Rostworowski-Moseley, 1990: 494). A ciò bisogna aggiungere che il capo eletto per rappresentare il villaggio in una speciale conferenza di capi apinayé doveva per forza appartenere alla metà che era stata originata dal sole, proprio come il Sapa Inca era ritenuto discendente di Inti, il dio solare incaico. La ricerca dell’integrazione tra questi due poli bipartiti è stato dunque il leitmotiv delle culture andine ma fu anche una caratteristica delle culture asiatiche. Come nota Sarah Allan154, dal punto di vista cosmologico il dualismo è insufficiente, l’est presuppone l’ovest, ma l’est e l’ovest 151

Contribution à l’ethnographie et à la linguistique des Indiens Uro d’Ancoaqui (Bolivie), contenuto nel Journal de la société des Américanistes, XXVIII, 1935.

152

i nomi uro delle due fratrie sono ti açai e xanaça.

153

Wachtel, 1977: 105

154

Allan 1991:99

102


presuppongono il nord ed il sud; infatti, as man stands upon the apparent plane of the earth, he can only achieve a sense of harmony by standing at the center of a circle or at the axis of the four directions: at this point alone there is no contrasting position. Se adesso consideriamo questa organizzazione quadripartita e la confrontiamo con l’ordine calendariale degli Zuñi, che dividono l’anno in quattro stagioni, delle quali l’inverno era associato al nord, la primavera all’ovest, l’estate al sud e l’autunno all’est, possiamo arrivare a capire come ogni suyu fosse correlato ad una stagione e come il cambio di stagione fosse segnalato dal cammino del sole lungo l’eclittica nei punti equinoziali e solstiziali155. L’evidenza del fatto che questi punti non erano disposti secondo gli assi cardinali, ma secondo l’asse NO-SE, ci permette di evidenziare che la struttura ad X rispetto agli assi cardinali della quadripartizione di Cuzco e dell’impero non era certo casuale, ma cercava di riprodurre in terra l’ordine cosmico. E’ opinione di Ibarra Grasso (1982: 272), che a questo proposito dissente dall’opinione di Zuidema, che l’anno incaico iniziasse il 2 maggio. Secondo lo studioso boliviano: •

Nel Chinchasuyu si aveva l’inizio dell’anno il 2 maggio ed esso comprendeva idealmente i mesi invernali di maggio, giugno e luglio;

Nel Cuntisuyu si aveva invece la primavera, nel corso dei mesi di agosto (17-18 agosto sole al nadir), settembre ed ottobre, con la semina del mais ed il termine della stagione coincidente con il primo passaggio del sole allo zenith di Cuzco, il 30-31 ottobre;

Il Collasuyu era la partizione estiva e si estendeva per i mesi di novembre, dicembre e gennaio;

Infine l’Antisuyu era caratterizzato dal secondo passaggio del sole allo zenith (12-13 febbraio), ossia dalla stagione autunnale dei mesi di febbraio, marzo ed aprile (25-26 aprile sole al nadir).

In Indonesia, e più precisamente a Giava ed a Bali, vediamo che l’ordinamento dualistico raggiunge livelli di complessità davvero notevoli. L’intero sistema sociale è diviso in 5 partizioni ordinate secondo le direzioni del vento (cardinali) ed il loro centro comune. Ad ogni parte corrisponde un elemento in uno schema che qui ripropongo (van der Kroef, ibidem: 854):

155

Gli Zuñi si dividono in due fratrie, una estiva ed una invernale, le cui funzioni rituali sono amministrate da due sacerdoti, uno associato al sosltizio invernale ed uno a quello estivo.

103


elementi/ordin amento Direzioni

del

1

2

3

4

Est

Sud

Ovest

Nord

Metalli

Bianco

Rosso

Giallo

Argento

Giorni

Legi

Pahing

Pon Wage Produttore di

Professioni

Contadino

Mercante

vino

Cibo,

Denaro, dio

giardino,

Gana,

acqua

montagna

vento

5 Centro Grigio

o

variopinto Kliwon

di Macellaio Re

palma Oggetti, ecc.

Alcol, cucina

Carne, fuoco

Terra, Dea Sri

In Giappone incontriamo un esempio lampante di coesistenza tra modello concentrici e modello diametrico nella comunità di Shingu, nella prefettura di Fukuoka. Anche qui l’insediamento è diviso da un asse in due metà e contemporaneamente è ulteriormente frazionato in cerchi concentrici, di importanza digradante, man mano che ci si allontana dal centro del villaggio. L’intero villaggio è orientato secondo i principi della geomanzia giapponese (hogaku), che associano ai punti cardinali, i quattro colori, blu (E), rosso (S), bianco (O) e nero (N) e le quattro costellazioni del dragone (E), della fenice (S), della tigre (O) e della tartaruga (N). Come fa notare Arne Kalland in questo modo “the concentric structure separates the community from the outside” mentre “the diametric structure seeks to control the flow of vital energy into the community” 156. Anche in Cina, luogo d’origine della massima parte delle credenze cosmologiche giapponesi, le quattro costellazioni summenzionate erano connesse alla geomanzia. Dario Sabbatucci (1989: 74) sostiene che la geomanzia aveva una funzione simile a quella ricoperta dalla pratica augurale romana: grazie ad essa si riuscivano a localizzare gli spazi destinati alle tombe ed agli edifici sacri. Essa consisteve «nella lettura di un ambiente ricavando da esso i segni più disparati che venivano poi ridotti a quattro significati di base: «tartaruga nera», «drago azzurro», «uccello rosso», «tigre bianca». Lo scopo era quello di qualificare un centro ottimale che, per essere tale, doveva avere a nord la «tartaruga nera», ad est il «drago azzurro» (Scorpio), a sud «l’uccello rosso» e ad ovest la «tigre bianca»157. Questa ripartizione del cosmo e dello stato cinese era rispecchiata da una corrispondente 156 157

Arne Kalland, “Geomancy and town planning in a Japanese community”, contenuto in “Ethnology”, XXXV, 1, winter 1996 Le ciel astrologique chinois est alors compartimenté en cinq Palais: d’une part le Palais centrale, qui comprend l’étoile polaire et les constellations circumpolaires toujours visibles, telles que la Grande Oursa, la Petite Ourse et le Dragon; d’autre part, les quatre secteurs célestes correspondant aux quatre points cardinaux et aux quatre saisons, Palais oriental symbolisé par le Dragon vert, Palais méridional symbolisé par l’Oiseau Rouge, Palais occidental symbolisé par le Tigre Blanc et Palais septentrional symbolisée par le Guerrier Sombre. Cest dans ces quatre Palais qu’évoluent grâce au mouvement diurne, les vingt-huit constellations-repères, jalonnant l’équateur céleste et associées aux provinces de l’Empire. Le palais central est la projection de la

104


quadripartizione del tempo storico e mitologico nella quale il cambio di dinastia al potere era visto come un processo naturale che si accordava armoniosamente con l’avvicendamento ciclico delle forze della natura. Così Ch’in Shih-huang, il primo imperatore, proclamava che la sua vittoria sugli Zhou corrispondeva alla vittoria del potere dell’acqua su quello del fuoco. Allo stesso modo la prima dinastia mitica, quella dei Shun, governò grazie al potere della terra, quella successiva degli Hsia, in nome del potere del legno, e quella precedente alla dinastia zhou, ossia quella shang, era guidata dal potere del metallo. Quattro, una per punto cardinale, erano state le dinastie pre-imperiali cinesi, fino a quando il governo era stato assunto dal primo imperatore, rappresentante del centro, il quindo punto cardinale, ossia il legame tra cielo, terra e ade in cui gli opposti coincidevano. 3.10

LA QUARTA RAPPRESENTAZIONE: L’ORGANIZZAZIONE RADIALE Abbiamo visto che il modello tripartito nasceva dalla sovrapposizione di una dicotomia

infrasistemica e di una dicotomia sistema/ambiente e che, in generale, era ordinato radialmente. E’ quindi naturale prevedere che quella radiale debba per forza essere un’ulteriore complessificazione della rappresentazione tripartita, nata nel momento in cui la società, ormai complessificatasi, è stata in grado di cosmizzare l’intero ambiente circostante, trovandosi con l’esigenza di mantenere uniti questi nuovi territori. Per Remotti (1993: 50), là “dove vi è soltanto reciprocità, non vi è quasi mai un forte potere politico. Là dove s’impongono fenomeni di redistribuzione, i beni tendono ad affluire invece verso un centro del potere (per esempio la corte del sovrano), modificando in tal modo la reciprocità di tipo orizzontale che caratterizza i rapporti tra i membri della società”. Questa può essere una buona sintesi del processo storico verificatosi nel Perù del XV secolo, quando la comunità incaica aggregò al principio di reciprocità – fondato sul criterio dualistico – un modello di redistribuzione radiale, di modo che l’opposizione binaria venne applicata ad una rappresentazione concentrica a raggiera, ordinata dal centro ai confini dello spazio cosmizzato per mezzo dei ceques, sorta di emissari di una società complessa. Così nell’impero incaico ogni santuario (huaca) era collegato ai centri del potere politico e spirituale da una serie di linee immaginarie (ceque) disposte come dei raggi solari158. Il Coricancha, il recinto sacro, che riproduceva la volta celeste, era il punto di origine di questo sistema di ceque che comprendeva 328 huaca e 41 ceque organizzati nel modo seguente159: capitale impériale, la résidence du souverai, de sa familie, de ses grandes fonctionnaires civils et militaires (van Xuyet, 1976: 178). 158

Questo stesso sistema a raggiera esiste ancora oggi a Socaire in Atacama ed a Jesús de Machaca in Bolivia (I. Farrington, rivista Tawantinsuy: 54). Lo stesso Farrington aggiunge che it appears that such a system was an Andean way of linking the hinterland space economically, socially and ritually into a centre (ibidem: 54).

159

David S.P. Dearnborn e Katharina J. Schreiber in Houses of the Rising Sun, contenuto in Time and Calendars in the Inca Empire di M.S. Ziolkowski e R.M. Sadowski

105


Moiety

Suyu

Direzione

Numero di

Numero

Hurin Hurin Hanan

Collasuyu Cuntisuyu Chinchasuy

Sud-est Sud-ovest Nord-ovest

9 14 9

85 80 85

Hanan

u Antisuyu

Nord-est

9

78

ceque

di

huaca

Ed associati alle panaca dei Sapa Inca nel modo seguente: Ayllu (panaca) Capac Ayllu Hatun Ayllu Vicaquirao Socsoc Panaca Aucailli Paaca Aguini Ayllu Apu Mayta Usca Mayta Chima Panaca Rawra Panaca

Sapa Inca Topa Inca Pachacuti Inca Roca Viracocha Yahuar Inca Lloque Yupanqui Capac Yupanqui Mayta Capac Manco Capac Sinchi Roca

Ceque CH-7 CH-6 CH-2 AN-1 AN-4 CO-1 CO-4 CO-7 CU-5 ?

Ceque associati160 CH-8, CH-9 CH-4, CH-5 CH-1, CH-3 AN-2, AN-3 AN-5, AN-6 CO-2, CO-3 CO-5, CO-6 CO-8, CO-9 CU-6, CU-7, CU-8 ?

Già abbiamo incontrato un ordinamento affine nel caso dei Bororo - seppure in scala molto ridotta e senza l’assoluta certezza che ad ogni capanna clanica venisse affidato in custodia il sentiero sacro che la congiungeva al centro del villaggio - ma non sembra azzardato sostenere che questo tipo di organizzazione corrispondeva a divisioni del tempo e dello spazio, scandite da cicli stagionali. E’ questa, d’altronde, l’ipotesi di lavoro di Rainer Tom Zuidema, secondo il quale il sistema dei ceque funzionava come un enorme calendario, che doveva regolare una buona parte delle attività cerimoniali di Cuzco. Questo stesso studioso ha suggerito alcuni possibili allineamenti astronomici per determinati ceque, che dovrebbero poter evidenziare come gli Inca dividessero l’anno in quattro stagioni, scandite dai moti delle stelle nel loro sorgere eliaco e nel loro tramonto eliaco. Ecco la lista degli allineamenti proposti161: Sorgere delle Pleiadi Tramonto delle Pleaidi Sorgere di Beta Centauri Sorgere di Betelgeuse 160 161

AN-5 CH-8 CU-1 AN-6

“associati” nel senso che alcuni ceque erano “gestiti” da più d una panaca. David S.P. Dearnborn e Katharina J. Schreiber in Houses of the Rising Sun, contenuto in Time and Calendars in the Inca Empire di M.S. Ziolkowski e R.M. Sadowski)

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Tramonto di Betelgeuse Tramonto di Vega Tramonto del sole al solstizio invernale Direzione cardinale nord

CH-9 CH-6 CU-13 CH-1

La stretta relazione tra raggruppamenti sociali e disposizione spaziale fu attentamente indagata da Marcel Mauss e da Émile Durkheim (1968: 62) i quali, tra gli Omaha, notarono come “a l’intérieur du demi-cercle occupé par chaque phratrie, les clans, à leur tour, sont nettement localsés les uns parrapport aux autres…Les places qui leur sont attribueés dépendent moins de leur parenté que de leurs fonctions sociales et, par conséquent, de la nature des choses placées sous leurs dépendance et sur lesquelles est censée s’exercer leur activité”. In quanto strutturalista, era opinione di Mauss che le prime categorie logiche fossero state le categorie di classificazione sociale. Nel momento in cui gli uomini avevano iniziato a “pensarsi” in forma di gruppi, essi avevano “pensato” anche il resto del mondo non cosmizzato in forma di gruppi e categorie, fino al punto che le due classificazioni si erano confuse l’una con l’altra, sovrapponendosi e generando fratrie e clan totemici. In una recensione ad un libro di Brian S.Bauer e David Dearborn, intitolato Astronomy and Empire in the Ancient Andes: the cultural origins of Inca sky watching apparsa in American Anthropologist (99,2, June 1997: 458), Gary Urton ha affermato che although we have numerous studies of ancient Andean (Inca) astronomy and a substantial body of works concerning the history and organization of the Inca empire, to date we have no work that integrates these two bodies of research into a single study. Questa mia ricerca non può avere la presunzione di soddisfare questa esigenza, ma vorrebbe piuttosto suggerire come la ricerca scientifica, dopo aver esaurito le fonti etnostoriche dei cronisti della Conquista, dovrebbe rivolgersi all’etnografia, indagando casi diversi, magari distanti migliaia di chilometri rispetto al Perù, ma che possono in ogni caso offrire degli spunti, più o meno rilevanti, per indagare questo fenomeno culturale così prodigioso che è il Tawantinsuyu. Secondo Aveni, Urton e Zuidema, ossia tre dei i maggiori esperti di etnostronomia ed antropologia del Tawantinsuyu, il cielo era parte integrante della concezione incaica dell’ordine. Cuzco era una vera e propria mappa che suddivideva lo spazio ed il tempo, sia dal punto di vista sociale sia da quello naturale. Secondo Carlos Milla Villena162 la forma della capitale del Tawantinsuyu era quella di un lama rispecchiando in terra, sul livello cosmico Kay Pacha, il suo prototipo celeste, la costellazione nera del lama celeste chiamata Yacana, che appariva al livello cosmico superiore dell’Hanan Pacha e che non era formata da stelle, perché in Perù, oltre alle costellazioni di stelle, esistevano anche quelle “disegnate” dalla loro assenza. Questa costellazione era 162

Il suo pensiero è contenuto in Llamastronomers-eyes-and-roads: chupiñamca of Huarochirí di Claudette Kemper Columbus (Journal de la société des Américanistes”, 78, 1992: 34)

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di un’importanza suprema, perché segnalava l’inizio della stagione delle piogge, che essa stessa produceva urinando metaforicamente ed inoltre perché il sole culminava allo zenith il giorno stesso in cui questo lama siderale si trovava nella sua culminazione inferiore a mezzanotte. A dire il vero esistevano altri due lama celesti, anch’essi collegati al cambio di stagione; si trattava di Catachillay, i cui occhi, Ñawi, erano Alpha e Beta Centauri, tra le stelle più luminose dell’emisfero australe, ed il cui corpo era costituito dalla Croce del Sud. Ma anche le Pleaidi erano chiamate catachillay ed anch’esse erano oggetto di devozione in quanto marcavano il tempo della semina e del raccolto. Così l’ordine naturale celeste trovava una stretta corrispondenza nella struttura della capitale. Secondo Aveni (1997) il sistema sociale incaico era operativo nella misura in cui ogni classe sociale eseguiva lo specifico compito assegnatole, ossia quello di presentare agli dèi delle offerte votive nel luogo e nel tempo appropriati. Il luogo designato era quello del ceque, alla cui cura devozionale erano adibiti gli abitanti che vivevano nei suoi pressi, che erano tenuti a consentirgli un passaggio sicuro osservandone il percorso lungo l’eclittica, mentre il tempo era scandito dal calendario, comune a tutto l’impero163. La popolazione della valle era divisa in 12 gruppi ognuno dei quali era tenuto a celebrare uno specifico rito per uno specifico mese dell’anno ed al quale era affidata la cura di un terzetto di ceque con le rispettive huaca. Dieci di questi gruppi erano le panaca, composte dai membri di discendenza inca, mentre i restanti due erano gli ayllu degli indigeni presenti al momento dell’arrivo degli Inca ai quali erano affidati i ceque rimanenti. Le ragioni di una tale mobilitazione generale sono piuttosto semplici. Secondo Cristobál de Molina il rito della capacocha, ossia un sacrificio eccezionale che veniva dedicato al sovrano in quanto incarnazione della società inca nel suo complesso, “veniva eseguita quando l’Inca iniziava a regnare perché le huacas gli fossero propizie in pace ed in guerra, perché regnasse in pace e prosperità, godesse di buona salute e giungesse alla vecchiaia. Scopo ultimo della capacocha era quello di propiziare ogni huaca del Tawantinsuyu, nessuna esclusa, “per piccola che fosse”, in modo che l’Inca non dovesse temere la vendetta di qualche deità minore che era stata trascurata”164. Era dunque l’ossessione animistica a spingere l’intero apparato statale a collaborare periodicamente nei rituali collettivi. Questa pratica devozionale era del tutto in linea con un sistema di credenze in cui l’Inka, era la summa degli archetipi celesti. Con il termine inka, o più precisamente 163

164

W. Sullivan (1998: 91): “…gli Inca sottolineavano l’importanza del concetto di equatore celeste, chacana, stabilendo la base topografica est-ovest quale principio organizzativo fondamentale nella progettazione di Cuzco. Tale base veniva determinata osservando il sorgere dei soli equinoziali su una montagna detta Pachatusan, ossia “pilastro dello spazio-tempo”. A nord di questa base topografica, nella Cuzco hanan (superiore), viveva la fratria illustre della popolazione, destinata alla guerra ed all’impero, ed a sud della base, nella Cuzco hurin (inferiore) viveva la confraternita associata alla religione ed all’agricoltura. “Analogamente i morti della Cuzco superiore avrebbero riposato in eterno con gli dèi, a nord, accessibile al solstizio di giugno, mentre i defunti della Cuzco inferiore avrebbero attraversato il ponte del solstizio di dicembre, a sud”. Sullivan parla di “ponte” perché “chaca” significa “ponte” sia in quechua sia in aymarà. Da notare che chacana è il nome della Cintura di Orione che è connessa al culto dei morti in Egitto, presso i Maya ed in Amazzonia. Polia, op.cit.: 92

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con il concetto di inqachu, ci si riferiva a quella particolare funzione dell’imperatore, che era il suo fungere da misura del creato, fonte originaria di ogni essere. Era quindi naturale che la salvaguardia di una figura così cruciale nell’ambito del creato dovesse divenire la priorità assoluta, di qui la mobilitazione collettiva che fungeva da rito catartico contro le influenze funeste e da catalizzatore delle energie positive del cosmo. Zuidema (L. Sullivan: 226) riferisce che durante la prima notte di luna piena successiva al solstizio invernale, i nobili “danzavano uniti da una lunga fune per tutte le strade ed all’alba, formando una spirale, si avvicinavano al re seduto sul trono nella piazza 165». Infatti secondo Guamam Poma de Ayala166 “il sole «siede sul suo trono un giorno e regna da quel grado principale [del sosltizio di dicembre]. Poi siede in un altro trono in cui si ferma a regnare da quel grado [dell’altro solstizio]». Da un seggio all’altro «si sposta ogni giorno senza mai fermarsi». Durante i solstizi si ferma per oltre un giorno in quel seggio, nei giorni i cui, come dice Guamam Poma, il suo moto giornaliero diventa impercettibile”. I Luiseño californiani costituiscono un ottimo termine di paragone; infatti essi credevano che la Stella Polare fosse il capo supremo delle stelle che, come un popolo obbediente, le ruotavano attorno; “infatti durante le cerimonie sacre, i celebranti danzavano attorno al fuoco seguendo lo stesso senso del movimento circolare che le stelle fanno attorno al polo celeste” (G.Romano, 1998: 97). Questo costume e la credenza che lo ha generato, trova la sua corrispondente espressione euroasiatica nella “Danza delle Gru”. A Delos questa danza, chiamata geranos, veniva eseguita in onore di Afrodite ed i danzatori impugnavano una corda e cominciavano a ballare attorno ad un altare costruito con tante corna sinistre di toro o giovenca, girando a sinistra – nella direzione della morte – per andare all’origine della vita. Il corego si chiamava geranoulkos, ossia “colui che tira le gru” ed era zoppo, perché impersonificava il sole morente del solstizio invernale. Altrove questa stessa danza esisteva in Cina167, in Vietnam168, in Amazzonia169, nel Nordamerica170 ed in Perù171. Si è proposto che il significato della danza potesse essere connesso al moto celeste lunare in relazione a quello solare; 165

166

Granet (1953: 269) sul sovrano cinese: le Chef est un archer (tel est le nom des seigneurs chinois), et, à ce titre, il est mythologiquement un Soleil, et, spécialement, un Soleil levant. Aveni (1993: 338)

167

Granet (1959) attesta la presenza della danza della gru in Cina mentre Lévi-Strauss rileva che il mito del danzatore zoppo che ordina il cosmo esiste in Cina e tra i Bororo: A moins d’admettre que le rite de la danse boitée remonte au paléolithique et que l’Ancient et le Nouveau Monde l’aient jadis possédé en commun (ce qui résoudrait la question de son origine, mais lasserait entière celle de sa survivance), un explication structurale peut seule rendre compte de la récurrence en des régions et à des époques si diverses, mais toujours dans le mêre contexte sémantique, d’un usage dont la bizzarerie lance un défi à la spéculation.

168

La medesima tradizione esiste in Vietnam. Le Thàhn Khoi (1979: 62-63): “La decorazione dei tamburi e delle asce costituisce un documento unico sulla vita e sui costumi degli uomini che popolavano il paese negli ultimi secoli prima dell’era cristiana...Intorno al sole dai molteplici raggi che occupa il centro piano di un tamburo, si snoda, fra greggi di cervi e voli di uccelli acquatici, una precessione di personaggi vestiti in modo originale e bizzarro. Tengono in mano nacchere che ritmano i movimenti della loro danza. Sono accompagnati da suonatori di khem e di tamburi...Al di sotto del piatto, su un rigonfiamento circolare del tamburo, sono raffigurate barche con guerrieri armati di asce, di frecce e di giavellotti. Indossano tutti la spoglia di un airone o di una gru che dà loro l’apparenza di uomini - uccelli...”.

169

Probabilmente anche i Cayapó si rifacevano alle medesime credenze astronomiche quando celebravano le loro feste formando un’unica colonna danzante che si distendeva concentricamente attorno al centro del villaggio (Turner in L. Sullivan, 260)

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infatti in molte mitologie si ritiene che la luna compia due movimenti, uno grande da est ad ovest, seguendo il percorso del sole ed uno più piccolo, da ovest ad est quando, sorta ad occidente, la luna di giorno in giorno sorge sempre più verso oriente fino al plenilunio, nel quale essa sorge ad oriente. Ma mentre non ci impiega più di una notte per attraversare il cielo da est ad ovest, nel percorso inverso essa copre i 180 gradi di spostamento in circa 14 giorni, alla media di 13 gradi circa al giorno. Per questo le varie danze della gru, che siano slave, cinesi, melanesiane o boliviane 172, prevedono che i passi in una direzione siano la metà, o il doppio per numero, velocità ed ampiezza di quelli compiuti nella direzione opposta. Tuttavia il caso etnografico dei Luiseño ci indica che esistoo delle alternative più semplici. Tornando al tema della comparazione tra le cosmologie asiatiche ed americane, sappiamo che in Cina i kan, i “tronchi celesti”, che rappresentavano le unità rituali secondo le quali era suddivisa la società shang, erano anche l’unità base di computo del tempo in un sistema sessagesimale, che combinava una serie di dodici caratteri (i “rami”, chih) con la serie di dieci caratteri kan (“tronchi” appunto), in modo da ottenere un calendario che concepiva l’anno come costituito da sei cicli sessagesimali. Per Granet (Mauss-Granet, 1994: 100) “i dodici caratteri della serie corrispondono sia a dei mesi, sia a delle ore doppie, sia – in virtù del legame costante degli spazi con i tempi – a dei dodicesimi di orizzonte. Il punto iniziale è posto esattamente a Nord, al solstizio d’inverno, a mezzanotte…gli altri 11 caratteri seguono nell’ordine dlla successione dei tempi, cioè, per un 170

Nello Utah, Densmore, riproposto da Lévi Strauss (1966: 396-397), ha individuato una vera e propria danza delle gru americana: Les Ute…pratiquaient une “danse boitont le symbolisme était perdu…cette danse, exclusivement fémenine, imitait le démarche d’un individu boitant de la jambe droite et la traînant pour que’elle s’aligne sur la gauche chaque fois que celle-ci marquait un pas en avant. Les danseuses, au nombre d’une centaine, formaient deux lignes paralléles éloignées d’une dizaine de mètres, face à l’ouest où se tenaient les joueurs de tambours et derrière ceux-ci, les chanteurs. Chaque file se dirigeait vers les musiciens, puis décrivait un arc de cercle et revenait en arrière.

171

Hocquenghem (1987): En un artículo muy bello, publicado en 1943 y titulado “la Fiesta de las cruces y su relacion con antiguos ritos agrícolas”, Federico Schwab demostró la supervivencia del antiguo rito agrario en la fiesta cristiana de la “Invención de la Cruz”: “Este baile lo ejecutan dando vueltas en rueda, y los danzarines tocan al mismo tiempo la quena, grande e chillona, de broncos sones monótonos que terminan en aullidos. Los indios dan varias vueltas en circulo y luego cambian la dirección de vuelta en otro sentido. Así bailan horas largas, con la misma música y la misma figura.

172

La danza circolare degli slavi, di Evel Gasperini (p.79)

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osservatore orientato a sud (come si deve essere in Cina), andando verso Est e verso sinistra”. In Cina la configurazione della società era sostanzialmente modellata in modo tale da armonizzarsi con le trasformazioni che avvenivano nella natura a seguito del percorso annuale del sole e dell’avvicendarsi delle stagioni173. Perciò la divisione duale di Cuzco sarebbe stata il riflesso di un’orientazione riferita al sorgere ed al tramontare del sole solstiziale (ed equinoziale), stabilita dallo gnomone di Manco Capac al momento della fondazione della futura capitale del Tawantinsuyu. Noi sappiamo che il calendario incaico era luni-solare ed Aveni si spinge fino ad ipotizzare che “Hanan Cuzco ed Hurin Cuzco erano forse concepite come dualità opposte nella misurazione del tempo sia lunare sia solare, con un sistema di computo sidereo per la prima e sinodico per la seconda”. Sempre Aveni (1993: 337), a proposito dell’ordinamento Hanan/Hurin, ritiene che “nel settore più elevato (maschile e celeste) il fluire del culto rispecchiava il moto celeste in quella metà di Cuzco; mentre lo scorrere dell’acqua nel mondo

inferiore,

simboleggiato

dalla metà inferiore (femminile) fluiva nella direzione opposta”. In altre parole ad Hanan, la metà “maschile” di Cuzco, posta a destra dell’asse est-ovest, corrispondeva il sole

dell’estate

dei

tropici,

dall’equinozio di settembre a quello di marzo, mentre Hurin, collocata a sinistra

dell’asse

cardinale,

rappresentava il sole al nadir174, nell’inverno tropicale che va da marzo a settembre. Per Aveni il solstizio di giugno era riservato alla popolazione della metà superiore o settentrionale, ossia Hanan Cuzco, probabilmente perché cadeva nell’epoca dell’anno in cui il sole attraversava lentamente quella Hocquenghem 1987 173

Ciò è confermato dalle parole di E.C.Krupp (Aveni 1989: 70): These opposite but complementary ceremonies – one at the winter solstice, the other at the summer solstice; on eon the south side of the city, the other on the north – reflect the traditional Chinese concept of a word in balance between complementary principles in a dualistic cosmos. […]. At the winter solstice when the sun was weak, yang was said to be diminished and heaven was on the downside. The emperor’s sacrifice of precious materials and sanctified food on the yang side of town re-energized the celestial, male side of the cycle of undulating order. But when yin was at its ebb in the height of summer’s heat, the emperor’s efforts in the suburban yin territory on the summer solstice midwifed the rebirth of the terrestrial, female force. By forging a balnace in the cyclical pattern of nature through cosmo-magical ritual at crucial seasonal transitions, the emperor preserved the word’s pattern and cohesion. And, in doing so, he reinforced his mandate to rule. There was then a political payoff to his solstices duties.

174

Secondo Aveni gli Inca impiegavano “il sistema dei ceque ed il suo asse temporale zenit-nadir come principio di organizzazione calendariale e sociale in tutto il loro vasto impero” (Aveni: 1993: 349).

111


regione175. In quest’ottica pare del tutto naturale che l’ayllu del Sapa Inca Pachacuti, che in quanto tale era il rappresentante del sole in terra, fosse stabilito a nord-est, proprio in conformità con la posizione assunta dal sole nel periodo del solstizio invernale, come suggerito da Ibarra Grasso176. La rappresentazione dualistica si trova sovrapposta a quella radiale tra gli Sherenté dell’Amazzonia centro-orientale. Presso questo popolo Orione e le Pleiadi sono strutturalmente accoppiati, in quanto marcatori calendariali della stagione delle piogge177 e questo dualismo si rifletteva nell’accoppiamento strutturale delle due metà del villaggio, delle quali la prima era associata al sole divinizzato ed al clan prasé, della metà shiptato, mentre le Pleiadi erano connesse alla luna divinizzata ed al clan krozaké, della metà sdakran178. Nel Mato Grosso a due clan appaiati bororo corrisponde una costellazione, quella che noi chiamiamo “Corvo”, ma che tra i Bororo prende il nome di “tartaruga terrestre” (gerigigi), ossia il totem stesso dei clan paiwae della metà tugarege (quella meridionale), l’uno rivolto a est-sud-est, e l’altro ad ovest-sud-ovest. La quale associazione non deve minimamente stupire. Se infatti osservassimo il cielo il giorno dell’equinozio di primavera nel Mato Grosso potremmo vedere che la costellazione del Corvo funge da marcatore del tempo. Infatti la sua comparsa in cielo avviene in prossimità dell’eclittica (non a caso proprio in direzione est-sud-est), ossia del percorso che il sole compie nel suo moto apparente, e corrisponde alla scomparsa del sole oltre l’orizzonte ed al tramonto eliaco delle Pleiadi, proprio nel periodo fatidico in cui terminava la stagione delle piogge e veniva stabilito il contatto con il mondo dei morti. Zuidema (Aveni, 1989: 350) notava delle notevoli somiglianze tra il modello socio-calendariale inca e quello degli Achenese di Sumatra e dei Borana dell’Africa orientale. 175

176

Tilak (“Orione”, 1991: 69) riferisce a proposito dell’India che il sole primaverile ed estivo delimitava l’emisfero nord dell’equatore celeste che era consacrato ai Deva, dèi uranici, mentre l’emisfero australe era assegnato ai Pitri ed al dio della morte. Dick Edgar Ibarra Grasso, “Ciencia astronomica y sociologia incaica”: 223

177

Sempre a proposito della relazione tra Pleiadi, stagione delle piogge e fertilità dei campi, relazione che trova conferma nella Grecia antica, in India, in Polinesia e nell’America precolombiana e che nasce dalla constatazione empirica che le Pleiadi sorgevano o scomparivano oltre l’orizzonte in concomitanza con il cambio di stagione, propongo una leggenda amazzonica che ritroviamo, pressoché identica in Polinesia e nell’Indocina: Um dia, as indias foram à roça colher milho, mas encontraram poucas espigas...Lembraram, entâo, de levar uns meninos que estavam ai vadiando, para ajuda - las, e de fato, colheram muito milho...(os meninos) bem alimentados, foram à mata e pegaram uns beija - flores, amarraram um cipó no bico deles e ordenaram que voassem o mais alto possivel. As mulheres, de volta para a maloca viram o cipó e gritaram que voltassem. Desobedeceram, negaram. Como castigo por sua ingratidâo, foram todas as noites obrigados a olhar em direçâo da terra, e ver suas mâes chorando e se lamentando sem fim. E assim seus olhos se transformaram em estrêlas. Una annotazione di Lévi-Strauss (1964) a proposito di questa leggenda rileva che nelle isole Hervey esiste un mito quasi identico ma riferito alla costellazione dello Scorpione che nella regione amazzonica ed in quella guayanese sostituisce le Pleiadi come annunciatrice delle piogge di novembre e di dicembre. In conclusione è utile inserire un’osservazione di Broda-Iwaniszewski (1991: 319): Curiosamente entre las culturas agricolas y aun de cazadores nómadas dispersos en los diversos continentes del globo terrestre, se asocia la aparición y desaparición de las Pléyades con razones alimentares y de fertilidad, ya sea por la migración de los animales de presa o el inicio de actividades agrícolas; puesto che su aparición en el horizonte celeste anuncia la proximidad de la temporada de lluvias en el hemisferio norte y/o el de la sequia en el hemisferio sur. Este “rise and set phenomena were extremely important to native american astronomers” apunta A. Aveni (1980: 30-35) posiblemente porque en el pensamiento cosmogónico prevaleciente entre los grupos primarios se consideraba que el movimiento de astros y estrellas occurrido en la bóveda celeste, determinaba los fenómenos acontecidos en la Tierra. En esta forma, se consideraba que la aparición en el cielo de alguna constelación no sólo era una señal de cambio climatológico sino la causa misma de la lluvia, es decir que era un oráculo astrólogico más que un fenómeno astronómico. 178 Lévi-Strauss (1964)

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Volgiamo quindi la nostra attenzione a questa tribù africana dei Borana, il cui sistema calendariale, che sembra risalire al III secolo a.C., è luni-stellare e che nei primi sei mesi si avvale esclusivamente delle osservazioni della luna in congiunzione con sette asterismi, ritenuti di particolare importanza.

Ecco il calendario in questione: MESE Bittottessa Camsa Bufa Wacabajjii Obora Gudda Obora Dikka Birra Cikawa Sadasaa Abrasa Ammaji Gurrandala

FASE LUNI-STELLARE Triangolo (luna nuova) Pleiadi (luna nuova) Aldebaran (luna nuova) Bellatrix (luna nuova Saiph + Cintura di Orione (luna nuova) Sirio (luna nuova) Luna piena Mezza luna Quarto di luna Crescente grande Crescente medio Crescente piccolo

Ecco, io credo che anticamente, in molte parti del mondo, il computo del tempo fosse effettuato tramite calendari luni-stellari, che non necessitavano della osservazione del corso del sole. La particolarissima struttura sociale desana dovrebbe essere il retaggio di questo costume, che forse altrove venne soppiantato gradualmente dal computo del tempo solare e luni-solare, che invece incontriamo tra gli Inca (ci si ricordi dello gnomone di Ayar Mango). L’importanza di questo tipo di osservazioni astronomiche tra i nativi americani è testimoniata dagli Hare, una tribù degli Athapaska, presso i quali era oggetto di culto una trinità di padre, madre e figlio divini, che corrispondevano alle posizioni del sole allo zenith, al nadir ed in ogni punto tra essi compreso. Passando ai Desana della Colombia, essi suddividono l’anno in due stagioni di piogge ed in due stagioni di siccità e stimano il momento centrale del loro calendario allo stesso modo dei Cinesi antichi e degli Inca, ossia in base al luogo in cui il bastone dello sciamano, conficcato nel suolo, non proietta alcuna ombra. Il cielo è un coperchio orizzontale di forma esagonale formato dalle brillanti

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stelle di Procione, Polluce, Capella, Canopo e, nella nostra costellazione di Eridano, di Achernar e di τ Eridani179. Tutte queste stelle di prima grandezza sono visibili al tramonto del giorno dell’equinozio di primavera e, più che un esagono, formano un esaedro, in quanto Polluce in alto, Procione in alto ad est e τ Eridani in alto ad ovest, costituiscono la sommità del coperchio, mentre il profilo prossimo all’orizzonte è definito da Canopo a sud, Capella ad ovest ed Achernar a sud est. Nei giorni equinoziali i Desana credono che la simmetria celeste consenta ad un raggio di luce solare di cadere sulla superficie di un lago che, simile ad uno specchio, la riflette per ogni dove rendendo in tal modo fertile la terra. Secondo i dati etnologici raccolti da Stephen Hugh-Jones 180 le tribù originali erano sei ed erano organizzate secondo un modello esagonale. Sembra che ogni vertice dell’esagono, che costituiva il tetto delle capanne desana e che corrispondeva idealmente all’esagono celeste, fosse sostenuto da un pilastro di sostegno della casa, identificabile con una stella di riferimento. L’etnologia ci insegna che credenze analoghe esistono ancora oggi in Indonesia 181. Una catena montuosa identificata con le Pleiadi, che anche qui marcano le stagioni della caccia e della raccolta, o una pista che corrisponde alla Via Lattea, dividono l’esagono in due metà182. Aveni (in Walker, 1997: 425-426): “Rappresentato in una danza, un viaggio simbolico intorno alla casa rappresenta il viaggio ciclico di uomini e donne durante la vita. Ognuno dei vertici stellari simboleggia un elemento significativo lungo la strada della vita. Gli uomini, per esempio, danzano in senso orario da Capella (assegnazione del nome), a Polluce (iniziazione), a Sirio (matrimonio). Le donne si muovono in senso anti-orario, ma solo fino al loro arrivo a Sirio; successivamente invertono il loro senso di marcia e raggiungono i loro mariti. Quando tutti hanno fatto ritorno al punto di 179

Ecco la luminosità delle stelle summenzionate:

Pollux: gigante gialla di magnitudo 1.1; Procyon: mag. 0.4, ottava stella del cielo per splendore; τ Eridani: mag. 3, non molto significativa, invece Rigel, che le è piuttosto vicina, è una supergigante bianco-azzurra di magnitudo 0.1, la settima del cielo per splendore; Canopus: mag. - 0.7, supegigante bianco-gialla, seconda stella più luminosa del cielo dopo Sirio; Capella: mag. 0.1, gigante gialla, sesta stella più luminosa del cielo; Achernar: stella bianco-azzurra di mag. 0.5, la nona per splendore nel cielo; 180

Aveni in Walker, 1997: 425-426

181

Scarduelli 1986

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La concezione del cosmo dei Desana, che già così sembra di per sé particolarmente complicata, lo è ancora di più, almeno stando a quanto si evince dalla relazione di uno dei più grandi studiosi impegnati nell’Amazzonia settentrionale, Gerardo Reichel-Dolmatoff. Nella sua opera intitolata “Brain and Mind in Desana Symbolism”, l’immagine che i Desana hanno della volta celeste è quella di un gigantesco cervello, diviso in due emisferi dalla Via Lattea che viene chiamata pista del Signore degli Animali poiché le costellazioni e le stelle sono viste come animali, uomini, farfalle e fiori distribuiti nei diversi settori del cervello celeste. Al di là della Via Lattea giace lo spazio, che è un ventre cosmico formato dal famoso cristallo esagonale di cui si è parlato in precedenza. Questi elementi celesti sono concatenati e percorsi da un incessante flusso di energia solare chiamato bogá che giunge sulla terra ad ondate sincronizzate con il battito del cuore.

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partenza, le Pleaidi ed Aldebaran, si è realizzata la nuova nascita, esattamente sulla linea equinoziale183”. Un caso apparentemente analogo di associazione tra clan e configurazioni celesti è quello peruviano degli indios Collca, che affermavano di provenire dalle Pleiadi y que della manaba la virtud en que se conservaban; por lo cual la llamaban madre y tenían universalmente todos, los ayllos y familias por guaca muy principal 184 Anche gli altri popoli andini si rifacevano a credenze similari, che ponevano nel cielo le norme che regolavano l’esistenza terrena 185. William Sullivan ne offre un panorama (1998: 283-287): “Urton ha rilevato che nella moderna Misminay la nascita delle volpi sulla terra viene messa in relazione con i ritmi stagionali della Volpe Celeste. Analogamente, Urton e Zuidema hanno dimostrato che i riti inkaici per la riproduzione dei lama erano sincronizzati con le varie posizioni del Lama celeste. Più oltre (285), Sullivan cita Salomon ed Urioste: “Ma cosa significa camay? Il capitolo ventinovesimo dei miti di Huarochirì, astrologico o astronomico, offre un importante indizio: in esso la costellazione a forma di lama viene detta la camac (forma di agente del verbo camay) dei lama. Scendendo sulla terra, tale costellazione infonde grande essenza generativa alla vitalità dei lama, il che provoca il loro rigoglio. Tutte le cose hanno un loro prototipo vitale e generativo, un camac, compresi i gruppi umani: il camac di una tribù è di solito lo huaca della sua origine”186. Perciò la creazione delle stelle (corrispondente alla creazione dell’ordine temporale) e la creazione delle huaca della stirpe (corrispondente alla creazione dell’ordine sociale) erano due aspetti del medesimo processo in cui ogni ayllu promanava da una stella187. Allo stesso modo, tra i Tucano dell’Amazzonia alcune costellazioni erano repliche celesti degli animali terrestri e indicavano ai cacciatori il momento opportuno per partire per le spedizioni di caccia. 183

D’Anna (1999: 78-79): “Nei tempi più antichi i punti nodali di quest’anno come “riposo del sole” venivano calcolati non a seconda del luogo nel quale man mano si trovava l’astro, ma riferendosi al sorgere ed al tramontare delle stelle fisse. In particolare Esiodo negli Erga ci dice che l’anno del contadino veniva scandito dall’apparizione delle Pleiadi, di Orione, di Sirio, di Arturo, tutti asterismi che via via scorrono nel quadrante cosmico a segnare i momenti fondamentali dell’anno. […]. “al Bootes segue l’Orsa, così come la luna segue il sole, così come le Pleiadi seguono le Iadi, e il Cane Orione”. Come si vede, non si tratta del solito panorama del cerchio zodiacale. Ci troviamo di fronte ai punti cardini di una carta del cielo il cui sistema di riferimento poggia su costellazioni non inquadrabili nello zodiaco ed il cui sistema calendariale si sviluppa dal computo di due stagioni quali momenti differenziati di un primordiale cosmo”

184

B. Cobo, 1653, citato in Tiempo del espazio y espacio del tempo en los Andes, di Antoinette Molinié Fioravanti, apparso nel “Journal de la société des Américanistes”, 71, 1985: 101

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En la época actual los campesinos del Ande continúan guiándose por la luna y las estrellas como lo hacían en la época inca. La luna es observada para determinar la época de siembra sobre las tierras sin irrigación. En la región de Qanchis (Cusco), las campesinas usan una montera sobre la que se puede observar la división del espacio en cinco partes (cuatro suyos más el centro). La montera representa la inmensidad del espacio y al centro nuestro sistema solar también dividido en cuatro partes; la montera tiene un fondo negro sobre el que se pueden ver dos estrellas en cada división, que coincide con la representación que hace Santa Cruz Pachacuti en su dibujo al igual que Guamán Poma (El Almanaque Andino di Francisco Aliaga, in Ziolkowski e Sadowski, Time and calendars in the Inca Empire.

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Plutarco e Platone non dubitavano del fatto che il cielo custodisse le matrici dei viventi. Questo luogo poietico era dal primo chiamato “Pianura della Verità” (De defectu oraculorum), dal secondo “Iperuranio”.

187

W.Sullivan, 1998.

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In Cina fin dall’antichità ad ogni astro del cielo si attribuiva il controllo su una determinata parte della terra e nello Shih-chi si spiega che la Cina era divisa in dodici province, da ognuna delle quali si poteva osservare la relativa costellazione. Ogni costellazione era il modello per le forme sulla terra 188. L’accoppiamento strutturale tra cielo e terra non manca neppure nella regione del Tigri e dell’Eufrate: in Sumeria ad ogni punto cardinale, che segnava i confini della terra dei Sumeri, corrispondeva un astro, una costellazione o un pianeta. Nel Nordamerica andremo ad esaminare la cosmovisione degli Skidi Pawnee e le sue implicazioni nell’ambito dell’organizzazione della tribù e del villaggio. Ogni tribù skidi era composta da 13 villaggi, ognuna fornita di un proprio altare mobile, associato con una determinata stella oggetto del relativo culto e che assegnava il suo nome al villaggio di sua competenza. Quattro villaggi erano posti al centro della regione occupata dalla tribù, rappresentando i quattro quadranti cosmici in una disposizione cardinale. Il sistema era organizzato in funzione del corso celeste di Venere come Stella del Mattino e come Stella della Sera, alla quale erano connessi due ulteriori villaggi posti alle due estremità orientale ed occidentale, ciascuno con il suo relativo altare consacrato ai due aspetti di Venere. Anche questi villaggi erano divisi in due metà, in accordo alla distinzione di Venere nelle sue due manifestazioni, quella occidentale femminile, moglie di quella orientale, maschile. Conseguentemente il tempo delle cerimonie era bipartito e le cerimonie stesse erano invertite a seconda che implicassero il culto dell’una o dell’altra forma assunta da Venere. Così nel corso dell’anno si iniziava con i riti destinati alla Stella della Sera ed alla celebrazione della creazione e degli antenati mitizzati e si terminava con quelli dedicati alla Stella del Mattino ed al rinnovamento cosmico. Questo prevedeva il sacrificio di una vittima, la cui natura sacra era testimoniata dal nome che assumeva in quella fatale circostanza, ossia “quegli che appartiene alla stella dell’est”. Attorno a questi sei villaggi erano distribuiti i restanti villaggi, in modo che ognuno fosse allineato in direzione del punto in cui sorgeva una stella marcatrice del ciclo stagionale189. Anticamente, nel Vicino Oriente e nel bacino del Mediterraneo era invece il tempo che trascorreva tra l’equinozio di primavera e quello d’autunno ad essere designato come “giorno degli dèi”, mentre la seconda metà dell’anno veniva chiamata “notte degli dèi”. Per gli Sherenté amazzonici l’anno inzia a giugno, al sorgere delle Pleiadi, ed era diviso in due parti, quattro lune di stagione secca 188

La domaine impérial étant sur la terre le corrélatif du palais central (polaire) dans le ciel, les quatre régions de l’Empire correspondant aux quatre palais équatoriaux, la division duodénaire s’appliquant également à l’Equateur céleste et à l’horizon terrestre, les choses du Ciel et de la Terre sont indissolublement solidaires entre elles. Aussi la promulgation du calendrier, n’estelle pas envisagée au seul point du vue utilitaire de la computation des époques, mais surtout au point de vue religieux de l’accord du Ciel e de la Terre. Le premier devoir du Souverain est de faire connaître au peuple les conditions de cet accord, c’est-à-dire d’indiquer la limite des saisons et la situation de l’annèe céleste (astronomique). S’il manque à ce devoir, s’il néglige le calendrier, il ne résulte pas seulement des inconvénients pour son peuple; il commet à l’égard du Ciel, dont il est le vicaire, une irrévérence qui met en danger son droit divin, son Mandat céleste et qui diminue d’autant sa vertu, c’est-à-dire la puissance virtuelle de sa dynastie (L. De Saussurre, 1967: 88-89).

189

G.A.Dorsey, Traditions of the Skidi Pawnee e A.C.Fletcher, Pawnee Star Cult (in Enciclopedia delle Religioni-Vallardi: 718-719)

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da giugno a settembre e nove lune di pioggia da settembre a maggio. In Polinesia sono ancora le Pleiadi a dividere l’anno in due parti, l’una chiamata matari-i-inia, ossia “Pleiadi sopra” (l’orizzonte s’intende) e l’altra matari-i-raro, ossia “Pleiadi sotto”. Sempre in Polinesia una linea immaginaria, ossia il meridiano che passa per la Stella Polare e per la Croce del Sud, i due poli celesti, divide il cielo in due emisferi verticali. La metà orientale è chiamata ke alaula a Kane, ossia “la luminosa strada di Kane” e corrisponde all’emisfero in cui le stelle ascendono. La metà occidentale invece si chiama ke alanui maawe ula a Kanaloa, ossia “la via intensamente percorsa di Kanaloa”: Secondo Maud W. Makemson190 queste denominazioni si possono interpretare seguendo la credenza secondo la quale le stelle, salendo, entrano nel regno delle divinità superne, mentre quando scendono vanno a raggiungere le divinità degli abissi. Tutto questo per dimostrare che non è possibile prescindere dall’aspetto cosmologico, quando si analizzano le strutture sociali e le forme culturali di un popolo, per quanto esso possa essere considerato primitivo. Lo stesso Lévi-Strauss191 asserisce testualmente che pour développer l’analyse structurale de la pensée mythique, nous comprenons alors qu’il faut recourir à plusieurs types de modèles, entre lesquels le passage demeure toutefois possible, et dont les différences restent interprétables en fonction des contenus mythiques particuliers. Dans le cas qui nous occupe, le passage décisif semble se situer au niveau du code astronomique, où le constellations - caractérisées par une périodicité lente, puisque saisonnière, et structurée par le contraste qu’elle renforce entre les genres de vie ou les activités techno-économiques - font place, dans les mythes nouvellement introduits, à des corps célestes singuliers comme le soleil et la lune, dont l’alternance diurne et nocturne définit un autre type de périodicité: à la fois plus courte, et indifférent dans son principe aux changements saisonniers. Cette périodicité au sein d’une périodicité contraste, par son allure sérielle, avec l’autre périodicité qui l’englobe, tout en étant exempte de la même monotonie. L’etnoastronomia è una disciplina nata piuttosto recentemente dall’esigenza di raccogliere ed analizzare a parte quella immensa mole di tradizioni orali e scritte nata dall’eterno anelito dell’uomo verso il cielo, in particolar modo verso quello notturno. I punti luminosi della volta celeste hanno da sempre esercitato un fascino che va ben oltre il semplice piacere estetico. Una volta accortosi del fatto che alcune tra quelle luci, i pianeti, si muovevano più rapidamente di altre, mantenendo però una perfetta regolarità, e che allo stesso modo anche le luci apparentemente fisse, le stelle, modificavano quasi impercettibilmente le loro traiettorie, seguendo comunque un ordine “divino”, l’uomo si convinse che l’intero ordine cosmico trovava la sua massima espressione in quei ricorsi celesti e li calcolò, trasformandoli in leggi che dovevano determinare la vita terrena 192. Così molte delle attività di 190

American Anthropologist, 40, 1938: 373

191

L’origine des manières de table: 13

192

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società tribali e complesse, dall’elezione del sovrano alla semina, dalle celebrazioni degli antenati alla partenza delle navi di commercianti e pescatori vennero governate dal volere implacabile degli astri. Tra i Maori come tra i Maya 193, ad esempio, le congiunzioni planetarie erano impiegate per trarre pronostici sull’andamento della guerra. La congiunzione di Venere e Luna decideva le sorti di un assedio mentre una battaglia era segnata dalla posizione di Venere rispetto a Mercurio. A Tahiti se Giove e Venere tramontavano assieme ciò significava che era in corso una cospirazione ordita da un capo per eliminarne un altro. Per i Pawnee del Kansas e dell’Oklahoma invece i moti planetari imitavano i loro rapporti di parentela, così se due pianeti s’incontravano questi erano due fratelli che si rendevano visita. Come afferma più che correttamente A. Lopez Austin 194 riferendosi alle concezioni cosmologiche mesoamericane, “il cosmo venne concepito come il rigoroso meccanismo che produceva l’intervento ordinato degli dèi sul mondo. Esso aveva una composizione geometrica; comprendeva vie ben determinate per il transito degli esseri soprannaturali; i suoi processi erano ciclici e si reggeva sui principali numeri sacri e le loro combinazioni. Gran parte del simbolismo religioso, fin dalle epoche più remote, si riferisce alla struttura del cosmo ed alla circolazione delle forze soprannaturali”. La Cina offre una specie di summa sapientiae in questo ambito. Nella cosmovisione cinese (ma anche in quella dei Desana della Colombia, come abbiamo visto) l’armonia cosmica discendeva dal cielo nella natura, nella società e nulla mente dell’individuo per poi ritornare indietro alla sorgente. Per questo le osservazioni astronomiche rappresentavano un importantissimo strumento divinatorio sulle sorti dello Stato, come d’altronde accadeva a Babilonia e tra i Maya di Copán e di Palenque195. Da The king, the capital and the stars: the symbolism of authority in Aztec religion di David Carrasco (Aveni 1989) traggo la seguente schematizzazione del pensiero cosmologico antico: •

there is a cosmic order that permeates every level of reality;

this cosmic order is the divine society of the gods;

the structure and dynamics of this society can be discerned in the movement and pattened juxtaposition of the heavenly bodies;

193

194 195

Cornell (1983: 237): “Benchè i diffusionisti possano vedere nei fattori comuni in un così gran numero di cosmologie la prova del fatto che l’intera astronomia avrebbe avuto origine da una fonte comune, è più probabile che persone intelligenti nelle varie società siano giunte semplicemente a conclusioni simili prendendo l’avvio da osservazioni simili…Similmente, la comprasa spontanea ed indipendente dell’astronomia presso tanti popoli diversi fa pensare che essa sia una risposta molto naturale ed umana” “La religione della Mesoamerica”, in “Religioni dell’America precolombiana e dei popoli indigeni”, 1997: 42 Marcel Granet (1951: 51): En même temps la nature entière et sortout les astres signifient le jugement céleste: car les vices gouvernementaux retentissent d’abord dans le monde des constellations. Ils y retentissent exactement dans la région céleste qui correspond à la portion du territoire où s’excercent leurs effets. Le Ciel a ses régions, ses provinces et des groupes de constellations qui sont comme une projection astronomique des différents états seigneuriaux. Quand le suzerain à qui le Ciel a confiè “le Mandat”, c’est-à-dire “les Nombres du Calendrier céleste”, veut vérifier si, sa Vertu étant parfaite, un ordre adéquat est maintenu dans la hiérarchie féodale, il n’a qu’à inspecter la carte du Ciel.

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human society should be a microcosm of the divine society

the chief responsibility of chiefs and priests is to attune human order to the divine order. Tornando ai grandi centri andini di Tiwanaku e Cuzco, questi sorsero in zone in cui il cielo si

univa alla terra, erano cioè veri e propri “centri” dell’universo. Cuzco era il ritratto e la cosmografia dell’intero impero, oltre ad esserne il centro, almeno a livello cosmologico: dalla sua piazza principale, chiamata Huacaypata, si dipartivano le quattro strade, che suddividevano in quartieri la città e l’impero. Inoltre da essa originavano i ceque, quelle linee ideali che regolavano gli spazi adibiti al culto determinandone la posizione e la relativa importanza a seconda della distanza dalla capitale 196. Per Laurencich Minelli (1989: 67) “Cuzco è quindi un disco solare posto nel centro dell’immenso territorio incaico, dal quale il potere si irraggia secondo una studiatissima gerarchia di direzioni”. Ma proprio in questa configurazione a raggiera s’inserisce un’analisi condotta dal celebre Mircea Eliade, che nella sua opera dal titolo “Mefistofele e l’Androgine” (1971: 158-161), si occupa del concetto di “corda cosmica” nell’ambito della tradizione indiana e cinese. Per “corda cosmica” s’intende quel filo invisibile che lega ogni elemento dell’universo, garantendone l’unità e coesione. Una volta tagliate, le “corde cosmiche” non potrebbero più evitare la disintegrazione dell’universo. Ma quel che è davvero importante è investigare il ruolo del Sole. Come Cuzco, città solare, legava a sé le diverse regioni dell’universo incaico tramite i ceque, così in Asia il sole “ lega a sé i mondi per mezzo di un filo”. Nelle Çatapatha Brâhmana (VI, 7, I, 17) si legge che “Il Sole è l’anello di congiunzione, perché questi mondi sono attaccati al Sole mediante i quattro punti cardinali”. Il Sole è dunque un “Tessitore Cosmico” e non a caso viene ripetutamente paragonato ad un ragno: “Il tessitore della tela è certamente quello che brilla laggiù, poiché si muove lungo questi mondi come su una tela” (XIV, 8, 22), ed ancora: “Come un ragno emette e ritira, proprio così in questo mondo tutto trae origine dall’Imperituro” (Mundaka Upanishad, I, 1, 7). Incontriamo le stesse immagini simboliche in Polinesia dove l’eclittica celeste veniva chiamata “la strada del ragno”, mentre nelle Tuamotu gli appellativi per i pianeti contenevano la parola che indicava anche il ragno197. Ma il ”Grande Tessitore” non è estraneo al patrimonio culturale delle tribù dell’Amazzonia. Infatti, tra i Kogi colombiani, Sun is the Great Weaver between solstices on a celestial loom, spiralling back and forth between December and June; in their microcosmic vision, Sun weaves on the temple floor198.

196

M.Granet (1959: 230-231): La propagation de la Vertu central y détermie un mouvement de reflux caractérisé, pour chaque zone, par une périodicité particulière. Une qualification temporelle signale, pour chacune, le degré, qui lui est propre, d’ahérence à l’ensemble et de partecipation à la Vertu rayonnante

197

Secondo la Makemson the path of the spider refers to the spiraling motion of the sun nortward and southward during the year, i.e., to the ecliptic

198

Gerardo Reichel-Dolmatoff, 1990: 13

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Quindi il sole era appeso in cielo, proprio come lo è un ragno ai fili di seta emessi dalle sue filiere e per questo il suo cammino celeste poteva essere ancorato ad un punto sulla terra tramite uno gnomone che si configurava come un vero e proprio ormeggio199. Nel caso degli Inca, Huayna Capac, tornato trionfatore dalla campagna ecuadoriana, venne immortalato in un canto sacro le cui parole erano200: “Huahina Capac! Tu fondesti una corda d’oro; tu unisti il popolo con la fune d’oro; cielo e terra con la fune d’oro; il giorno e la notte con la fune d’oro...Huahina Capac, tu fissasti il sole!”. Laurencich Minelli spiega il senso di questa apparentemente ermetica composizione (ibidem) rifacendosi al cronista Garcilaso de la Vega: “...la fune d’oro...venne fusa in occasione delle feste per la nascita di Huascar, il cui nome era Inti Cusi Huallpa ma venne detto Huascar appunto a seguito di questa mirabile huasca, cioè una fune lunga 350 passi e grossa quanto il polso di un uomo. A seguito della Conquista, venne nascosta seppellendola nella valle dell’Orcos”. Più oltre (ibidem: 93) la studiosa chiarisce che “il canto di Huahina Capac ci presenta un aspetto storico-religioso di questo re che, estendendosi all’equatore con le sue conquiste, fissò, per così dire il Sole, cioè permise di venerarlo in un percorso quasi fisso, senza le differenze stagionali che tanto preoccupavano invece al Cuzco”201. Non è comunque solo il sole ad essere chiamato in causa nella produzione di questi reticoli sacri. Secondo gli aborigeni australiani il “loro” territorio è segnato da sentieri rituali che collegano i luoghi sacri dove nacquero o per i quali passarono gli Antenati Totemici durante il “Tempo del Sogno”, quando la creazione venne in essere, quindi in modo del tutto analogo a ciò che avveniva in Perù, dove le huacas ed i ceques determinavano il punto in cui era stato generato un ayllu o si era verificata una qualche impresa di uno dei tanti eroi civilizzatori andini. In Australia, come in Perù, questi reticoli delimitano in modo molto vago i confini dei possedimenti di un gruppo di discendenza, “come se l’effetto “radiante” di un centro si indebolisse progressivamente con l’aumento delle distanze, fino ad essere sopraffatto dall’influsso di altri centri” 202. Anche in questo caso notiamo delle fortissime analogie con le rappresentazioni radiali delle huacas e del Cuzco stesso, che emanavano ceques il cui potere “cosmizzante” terminava laddove cominciava un territorio sconosciuto e spesso ostile. Ancora più sorprendente è scoprire che in Australia l’esecuzione dei riti intichiuma, volti a 199

200 201

202

Williamson ha dedicato un intero paragrafo della sua opera ai miti polinesiani sulla legatura del sole (1933: 110): There was also a Tahitian story of Maui, imagined as having one large head and eight little ones, being engaged in buiding a marae; but finding that night would come on before he had finished it, he twined together some ropes of coconut fibre, with which he laid hold of the sun, so that it could not go down at its usual has been slower. Laurencich–Minelli, 1996a: 77. Anche Lévi-Strauss si è occupato di tematiche consimili, allargando l’obiettivo all’intera America ( L’origine des manières de table: 325-326): .le mythe du soleil pris au piège concerne l’instauration d’un certain type de périodicité...Il s’agit de périodicité saisonnière chez les Bungi, où le soleil et le héros se mettent d’accord sur la durée de l’hiver, et chez les Chipewyan où le soleil consent à allonger les jours trop courts. […]. Nous laisserons entièrement de côtè le problème que pose l’existence, en Océanie, de ce mythe raconté parfois dans les mêmes termes, et où plusieurs versions provenant de Tahiti e de l’archipel des Tuamotu adoptent la leçon du poil pubien provenant d’une femme prochaine: mère, soeur ou épouse. Remotti, Scaduelli, Fabietti (1989: 57-58).

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garantire la riproduzione dei membri di una specie totemica, prevedevano la realizzazione di pellegrinaggi misterici durante i quali i membri del clan percorrevano il reticolo sostando ad ogni stazione totemica per eseguire i relativi riti propiziatori. Questa sorta di ciclica riappropriazione rituale del territorio non si discosta in nulla dalle cerimonie che i popoli andini mettevano (e mettono ancora oggi) in opera per sancire il vincolo cultuale con la propria huaca di riferimento. Nell’opera sopracitata (1989: 66) non è stato ignorato questo parallelismo, i cui tratti salienti vengono così sintetizzati: “in entrambi i casi il territorio viene definito in relazione a dei centri simbolici (elementi del paesaggio in Australia, monoliti collocati dall’uomo nelle valli andine) 203, i quali si collegano fra loro dando vita ad un reticolo. Ogni centro è sede di attività rituali, è associato a figure ancestrali e dotato di poteri soprannaturali (di fecondazione sessuale, di incremento della fertilità, di tutela, protezione, comunicazione con il mondo degli spiriti e delle divinità); inoltre emana intorno a sé un potere radiante che costituisce la principale legittimazione dell’occupazione del territorio da parte dell’unità sociale corrispondente”. Un ulteriore confronto può essere stabilito con gli Anasazi i quali costruirono una rete di piste e strade che si irradiavano rettilinearmente dal principale centro anasazi per una lunghezza totale di 300 chilometri, raggiungendo luoghi la cui importanza era determinata esclusivamente dalla presenza di strane formazioni geologiche che erano oggetto di devozione. Rimane quindi la sensazione che questo patrimonio comune dell’umanità, al quale non fu estraneo neppure il mondo mediterraneo con le sue erme, e celtico con i suo dolmen, menhir e henge, non derivi da strutture mentali inconsce, ma costituisca invece il retaggio di un antica tradizione paleolitica legata ai riti della caccia e della raccolta. 3.11

LA QUARTA RAPPRESENTAZIONE NELL’ESTREMO ORIENTE Nella Cina antica la virtù del sovrano e l’ordine spaziale e temporale erano inscindibili. Il

monarca regnava in virtù di una sorta di “mana”, che doveva essere costantemente rinnovato, se si volevano evitare catastrofi di proporzioni cosmiche. Il rinnovamento della virtù, e quindi della prosperità del popolo, erano strettamente connessi ad un rinnovamento rituale del tempo e dello spazio, che venivano resi permeabili alla sua azione. Così, allo stesso modo in cui i ceque si dipartivano a raggiera da Cuzco per diffondere la regalità del Sapa Inca nei quattro angoli dell’impero, in Cina la virtù regale era come un’onda che si espandeva nell’universo sacralizzato, fino a lambire le terre ostili dei barbari esterni. Nel palazzo dell’imperatore e nella capitale si amministravano il tempo, lo spazio e la virtù, essendo questo il principale compito dei funzionari imperiali e del Figlio del 203

E’ doveroso precisare cheanche nelle Ande prevalevano gli elementi del paesaggio, spesso interpretati come trasfigurazione dell’antenato o dell’eroe culturale.

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Cielo, che ha ricevuto in dono la regalità dalla Stella Polare. Di qui la necessità di una struttura quadrata, con porte cardinali sia per il palazzo imperiale, sia per la capitale. Il tempo è regolamentato dal sovrano nel Ming t’ang, che contiene le immagini dei corpi celesti, che devono essere assistiti nel loro percorso dall’imperatore, il quale svolge questa sua fondamentale funzione circolando per le varie stanze del suddetto tempio calendariale. Il Ming t’ang è una Casa del Calendario, nella quale si vede quasi una concentrazione dell’Universo; il suo tetto dev’essere di paglia e rotondo come il cielo. Nel corso dell’anno il sovrano circola sotto questo tetto, inaugurando di volta in volta le stagioni ed i mesi. E’ bene confrontare la struttura del Ming t’ang con quella del Coricancha. Nelle stanze del Coricancha s’incontravano le raffigurazioni del Sole, della Luna, di Venere, delle Pleiadi, del tuono dell’arcobaleno; in quelle del Ming t’ang invece erano custodite le tavolette del Sole, della Luna, della Stella Polare, dei cinque pianeti, della pioggia, delle 28 costellazioni, delle nubi, della pioggia, del vento e del tuono. Non sembra azzardato ipotizzare che vi sia un nucleo di credenze comuni che informa entrambe le concezioni dell’edificio sacro. Come nel Tawantinsuyu le varie province erano raggruppate in quattro settori, che venivano assoggettati al nuovo ordine, che s’imponeva annualmente tramite il lancio di frecce verso i quattro punti cardinali, rituale che ricorda da vicino l’uso egizio di lanciare delle frecce verso i punti cardinali al termine dell’erezione di un obelisco ben ben che rappresentava l’Albero Cosmico. La scienza politica cinese, almeno in parte condizionata dal pensiero taoista e dalla filosofia buddhista, prescriveva al sovrano un’”inerzia positiva”, che va letta nell’ottica del wu wei, cioè di un’atarassia produttiva, nella quale l’assenza di iniziativa da parte dei saggi e dei governanti è la miglior virtù, dal momento che consente alla popolazione di agire e di correggersi spontaneamente. Il perfetto sovrano era quello che lasciava che le cose seguissero il proprio corso, non intervenendo direttamente negli eventi, ma indirettamente, tramite l’emanazione della sua virtù, che prorompeva vigorosa se il capo era giusto ed in armonia con ciò che lo circondava e se la stessa capitale soddisfaceva questi requisiti. D’altronde secondo il cronista Sarmiento de Gamboa il termine «cuzco» stava proprio ad indicare l’occupazione magica di uno spazio. Analogamente in Giappone, l’astromanzia diresse l’edificazione della città sacra di Nara (VII secolo d.C.), costruita prendendo a modello la città imperiale cinese di Ch’ang-an di epoca T’ang. Essa era attraversata da un’arteria principale chiamata Suzaku che aveva origine a nord, proprio all’ingresso del palazzo imperiale e che si dirigeva in linea retta verso sud per 4.8 chilometri, dividendo la capitale in due metà, una orientale ed una occidentale, laddove questi punti cardinali erano riferiti al punto di vista dell’imperatore che, coerentemente, risiedeva a nord. A Cuzco noi sappiamo che l’arteria principale divideva cardinalmente la capitale in due metà, Hanan Cuzco ed Hurin Cuzco, con il Coricancha a fare le veci del palazzo dell’imperatore giapponese. In accordo con le prescrizioni cerimoniali cinesi il Tentei, l’imperatore, che in Giappone come in India 122


ed in Cina era identificato con la Stella Polare, doveva sedere all’entrata meridionale della sua dimora, in modo da guardare verso sud, lungo questa via. Perché questa sua visuale fosse la più ampia possibile, il palazzo reale era costruito su di una terrazza prossima al limite nord della città, che era chiamata Hokkyokudai, cioè a dire “la terrazza del polo nord celeste”. In un certo senso il palazzo imperiale era una riproduzione dell’Orsa Minore, il cui ruolo essenziale nel culto all’imperatore era ribadito dalla credenza che le anime dei sovrani morti erano destinate a dimorare proprio nel polo nord celeste. Il nesso con l’astromanzia è rafforzato dalla constatazione che la Stella Polare era rappresentata in una tomba regale della zona di Asuka, la cosiddetta Takamatsu Zuka Kofun, che si trova nella periferia meridionale di Nara, è allineata rispetto al nord celeste ed è impreziosita da una volta che reca la riproduzione di un cielo stellato, con un sole in lamine d’oro ed una luna d’argento. In questo modo il defunto poteva sentirsi veramente parte del cosmo, sensazione che doveva certo provare anche l’Inca, quando percorreva le stanze celesti del Coricancha. E’ da notare come nel suddetto sepolcro le pareti fossero bucate in più punti e come queste concavità, dipinte d’oro, fossero collegate da linee rosse, che servivano a designare la costellazione dell’Ursa Minor e numerose altre stelle che segnalavano le stazioni lunari. Così si aveva una corrispondenza diretta tra l’imperatore, l’imperatrice ed il principe e le stelle dell’Orsa Minore, con i dignitari, che invece erano rappresentati dalle stelle della costellazione di Cepheus. Infine v’erano le stelle associate ai 4 punti cardinali, ossia il Drago Azzurro (est: Virgo, Libra, Scorpio e Sagitarius), la Tartaruga Nera (nord: Sagitarius, Capricorn, Aquarius e Pegasus), la Tigre Bianca (Andromeda, Aries, Taurus e Orion) e l’Uccello Rosso del Sud (Corvus, Hydra, Cancer, Gemini). In sintesi è possibile asserire che queste costellazioni definivano lo Spazio Cosmico mentre l’Orsa Minore scandiva il Tempo Cosmico. 3.12

LA QUARTA RAPPRESENTAZIONE IN INDIA ED IN INDOCINA Nella tradizione indiana ed indocinese il monte Meru, l’axis mundi, è sovrastato dalla Stella

Polare che splende sopra di esso e di conseguenza sopra il re, che rappresenta il vero e proprio perno dell’organizzazione sociale indiana. La stessa immagine s’incontra tra i pastori – allevatori dell’Asia centrale, la yurta dei quali presenta alla sommità un foro, attraverso cui passa il fumo, ma anche lo spirito dello sciamano, che si arrampica lungo l’asse cosmico in direzione della Stella Polare, esattamente allo zenith (Eliade 1996: 391). Attorno a lui «ruotano» la regina, i principi, gli amministratori del regno ed infine il popolo, allo stesso modo in cui attorno alla Stella Polare ruotano le altre stelle. De Santillana – Von Dechend (1983: 172-173) hanno delineato con una felice sintesi questa curiosa identificazione: «Ancora più a Oriente, in India, il Bhagavata-Purana racconta di come il virtuoso principe Dhruva venne nominato stella polare. La particolare «virtù» del principe, che 123


aveva messo in allarme gli stesi dèi, merita di essere ricordata: era rimasto ritto ed immobile su una sola gamba per più di un mese. Ecco quanto gli venne annunciato: «le stelle e le loro configurazioni, nonché i pianeti, ti ruoteranno attorno». Dhruva pertanto ascende al sommo polo, «all’eccelsa sede di Visnu intorno alla quale vagano eternamente le sfere stellate, come l’asse verticale del mulino da grano intorno al quale i buoi laboriosi girano senza posa». Come la Stella Polare rimane immobile nel cielo, ordinando il cosmo secondo il principio della «causalità efficiente», così la migliore descrizione del ruolo del re è quella di “causalità inefficiente”, ossia un principio ordinatore che accomuna l’Indocina alla Cina e che tende a mantenere un ordine eterno, rifuggendo dal cambiamento. Il confronto trova il suo completamento grazie alle parole di Zuidema (in L. Sullivan, 1997: 193): «L’Inca, considerato re divino, era il principio dell’ordine, la cui posizione centrale nel tempo e nello spazio gli permetteva di trascendere le contingenze e di reggere l’universo. Sotto la continua minaccia di cataclismi ricorrenti che potevano distruggere il mondo, le popolazioni andine affidarono all’Inca il compito di domarli e di mantenere l’ordine». L’opera di Stanley J.Tambiah dal titolo “Rituali e cultura” si occupa, tra le altre cose, di dare una sistematizzazione alle strutture sociali, politiche ed economiche che l’autore ha incontrato tra le popolazioni indocinesi. Egli ritiene che il concetto di “mandala” possa offrire uno schema più che efficace per rendere appieno le loro peculiarità (1995: 251): “varie configurazioni cosmologiche di induismo tantrico e di buddismo sono state definite mandala – per esempio, il cosmo costruito sul monte Meru, al centro, circondato da oceani e da catene montuose”. Secondo l’antropologo di Harvard, la geografia politica degli stati indocinesi dei primi secoli del II millennio si fondava su un modello cosmologico tipico del buddhismo, nel quale il centro rappresentava ideologicamente la totalità e simboleggiava l’unità del tutto. Questa concezione cosmologica trovava espressione nell’architettura e nella pianta dei palazzi reali e della capitale che, in quanto tale, si erge al centro del Mondo, come il monte Meru s’innalza al centro del cosmo indiano; all’interno della capitale, il palazzo rappresenta lo stesso pilastro centrale del mondo, circondato da cerchi concentrici. Coerentemente a questa visione del cosmo, nella capitale si celebrano i principali riti cosmici annuali, riti di rigenerazione e purificazione, che sono riprodotti in scala minore e via via decrescente dai centri provinciali, divisi in vari livelli che corrispondono alla loro distanza dalla città sacra, ossia dall’Ombelico del Mondo. Anche il buddhismo formulò numerosi precetti rivolti ai governanti, affinché questi modellassero la loro azione secondo gli insegnamenti dei bodisattva 204. In Cina forse la 204

Forti ritiene che già alla fine del IV secolo d.C. il Buddhismo indiano e tibetano potessero offrire alla Cina un’esaustiva teorie politica grazie all’opera di figure di doti quali FotuCheng (232 – 348 d.C.: date tradizionali) e Kumarajiva (350 – 409 d.C.). Questa dottrina dello stato buddhista trovò larghissimo seguito tra i mercanti e la gente comune ma anche nell’élite, la quale si rendeva conto che il confucianesimo non aveva saputo evitare il crollo del modello imperiale degli Han. Inoltre il richiamo al destino universalistico del mandato celeste dei sovrani suonava molto piacevole agli orecchi dei Cinesi, convinti fin dai primordi delle loro esperienze statuali che l’Imperatore era incaricato di reggere tutte le terre conosciute in nome del Cielo.

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figura più importante è quella di Daoxuan (596 – 667 d.C.), un monaco buddhista cinese fondatore della scuola “Vinaya”, cioè “regola” (per le regole della vita monastica). Questo raffinato filosofo visse in un periodo in cui la via cinese al buddhismo, nata intorno al I secolo d.C. e particolarmente influenzata dal taoismo, si era ormai pienamente affermata, con una presenza di centinaia di migliaia di monaci e monache nel censimento del 514 d.C. Ebbene, in quei frangente venne alla luce la sua opera più importante, “Il testo illustrato del monastero Jetavana nel regno di Sravasti nell’India centrale” (Zhong Tianzhu Shewei guo Qiyuan si tujing). In esso non veniva descritto il monastero in questione – teatro delle predicazioni di Gauthama Buddha – ma una sua idealtipizzazione, sul genere della Città del Sole di Tommaso Campanella. Antonino Forte (dal catalogo della mostra Cina a Venezia, 1986: 61 - 65) ritiene che non sia mai stato abbastanza sottolineato il carattere globalistico della dottrina di questo filosofo buddhista: essa non intendeva solo indicare la giusta forma organizzativa ai monasteri cinesi e giapponesi, bensì educare i sovrani a modellare le istituzioni secondo l’ispirato disegno della sapienza di Siddharta. In pratica il testo doveva diventare una specie di manuale di organizzazione sociale: “La proposta di Daoxuan era intesa essere un invito rivolto ai detentori del potere a dimostrare che nonostante la considerevole distanza che separava la loro epoca da quella del Buddha, quando la legge era applicata in tutta la sua purezza e senza possibilità di fraintendimento, essi erano ancora vicini ad essa…”. Questi politici responsabili erano chiamati a costruire una società più giusta, nella quale si potesse vivere meglio, cioè più in sintonia con i principi del Mahayana. Il monarca ideale era visto nella figura di Cakravartin; Cakravartin era un mitologico re universale, il cui dominio aveva per limite l’orizzonte ed il cui potere era sancito dalla ruota solare cakra in rotazione vartati, che simboleggiava lo scorrere ciclico del tempo e i quattro regni in cui era diviso lo spazio. E’ legittimo chiedersi quali possano essere le affinità tra un mandala ed un sistema sociale; per dare una risposta a questo interrogativo l’autore conia un neologismo, quello di “sistema politico galattico”. Con tale espressione s’intende un modello statuale costituito da una capitale, alla quale facevano riferimento diverse città – satellite, con il potere che emanava dal centro come “da una torcia irradiante luce verso l’esterno con intensità sempre minore”. Ecco la schematizzazione del sistema politico galattico effettuata dall’autore: -

“Al centro si trovava la provincia o regione capitale, governata dal re, muang luang (muang capo o grande muang, dove per muang s’intendeva una città, una regione, una colonia, insomma uno spazio delimitato, nota mia). All’interno di questo territorio reale, il re stava nella sua “città” capitale ed ancora al suo interno si trovava il palazzo reale.

-

Nei quattro punti cardinali si trovavano i muang, ciascuno governato da un figlio del re (a loro volta succeduti dai propri figli). […]. 125


-

L’anello esterno, cioè il terzo cerchio concentrico al di là delle quattro province, era la regione dei regni indipendenti, i quali, per quanto fossero stati sottomessi, mantenevano un rapporto tributario, vale a dire un rapporto di vassallaggio, piuttosto che di controllo politico diretto”.

Come non notare la notevole somiglianza rispetto al modello di organizzazione sociale che trovò applicazione nel Tawantinsuyu ed in Cina? Paul Wheatley205 ha mostrato come la pianta della tipica città cinese era essenzialmente un tipo di mandala; allo stesso modo in cui, contemplando un mandala o sistemandosi al suo interno, è possibile orientarsi rispetto all’axis mundi, così il Ming-t’ang, il palazzo imperiale cinese, era un mandala fondato su un quadrato magico a base tre. 3.13

I PROCESSI TEMPORALI NEL PENSIERO COSMOLOGICO ANTICO I cronisti al seguito dei conquistadores, in Messico come in Perù, si stupirono nello scoprire che,

secondo i nativi, il mondo non era stato creato una sola volta, ma quattro o cinque volte, perché ciclicamente si verificavano delle immani catastrofi naturali, che eliminavano la civiltà, lasciando sopravvivere solo quei pochi individui, che avrebbero poi dovuto ripopolare la faccia della terra. Ma mentre in Grecia la credenza in una successione di età serviva per giustificare la radicata convinzione in una precedente età dell’oro, in cui l’armonia e la prosperità regnavano sovrane, nelle Americhe la sequenza acquisiva in un certo qual modo un sapore quasi evoluzionista, con l’umanità che, cataclisma dopo cataclisma, si sollevava dalla sua condizione animalesca, fino a giungere al coronamento del suo cammino evolutivo, l’impero incaico in Perù e quello azteco in Messico. Nell’ottica delle élite ciò implicava naturalmente che queste istituzioni, storicamente nate pochi decenni prima dell’arrivo degli Spagnoli, dovessero trovare una salda legittimazione in un tempo destoricizzato, quindi mitico, che collocava il capostipite della dinastia regnante in un’epoca antichissima, giustificando con la tradizione consuetudinaria una gestione del potere, che nella realtà era nelle mani di veri e propri parvenu. Nella tabella che segue si potrà così notare come i vari cronisti, nell’intento di stabilire l’origine storica dell civiltà incontrate nel Nuovo Mondo, abbiano registrato date talora parecchio discordanti e comunque del tutto inverosimili (Zuidema, 1971). CRONISTA

205

DATA D’INIZIO DELLA DINASTIA INKA

In John S. Major The five phases, magic squares and schematic cosmographies, saggio contenuto in Rosemont (op.cit.: 154)

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Guaman Poma (Blas Circa 900 d.C., ma conferma le età precedenti e descrive le Valera azioni del settimo Pachakuti, che regnò intorno alla metà del ) Vázquez de Espinosa Cabello de Valboa Sarmiento de Gamboa Montesinos

I millennio d.C. 1031 d.C. (avendo lasciato il Titicaca nel 1025) tra il 936 d.C. ed il 946 d.C. (forse il 938 d.C.) 565 d.C. L’ottavo Pachakuti regnò durante il X secolo d.C.

Eppure sarebbe errato pretendere di spiegare questo fenomeno in un’ottica occidentale, con una classe dominante costantemente impegnata a creare fittizie pagine di storia, al fine di ingannare le masse. E’ assai più probabile che presso i nativi americani la concezione del tempo fosse tanto arbitraria, quanto lo era quella dello spazio. Intendo dire che allo spazio sociale doveva per forza corrispondere un tempo sociale, con la medesima funzione di controllo delle forze implosive ed esplosive ,che potevano mettere a repentaglio la stabilità del sistema sociale. Così accanto al tempo stagionale, che era scandito dal moto degli astri e che condizionava la vita sociale, tramite i rituali legati alle attività agricole, esisteva un tempo sociale, gestito dagli antenati, che influenzava più direttamente i nuclei familiari e la cosmovisione del singolo e della collettività. Le norme della parentela erano ovviamente in parte regolate da questo tempo sociale, creato ad hoc per armonizzare tutto ciò che la natura non era in grado di controllare. Così il matrimonio tra cugini incrociati assolveva una fondamentale funzione in un sistema bilineare, perché in questo modo il nipote riproduceva il nonno e lo reincarnava a livello sociale. Ad esempio secondo Cobo206 tra gli Inca un uomo sposava la cugina materna, perché così marito e moglie discendevano ambedue dallo stesso antenato. Non si trattava assolutamente di una reintegrazione simbolica. Infatti in Cina vigeva il tabù del nome proprio per tutelare il diritto del defunto a riprendere posto nel consorzio umano207. Se condividiamo l’opinione di Granet, secondo il quale il sistema cinese patrilineare discendeva da un precedente sistema matrilineare, in cui per forza di cose il figlio non era «parente» del padre bensì del nonno materno208, e postuliamo che il rapporto privilegiato sia stato conservato anche nel nuovo ordine, capiamo anche come il nipote potesse impersonificare il nonno. Il cambio di ordine sarebbe stato motivato con il fatto che, in un regime matrilineare, il potere passa da una famiglia ad un’altra ad ogni generazione, in quanto il figlio appartiene alla famiglia della madre e non a quella del 206

Zuidema, op.cit.: 72.

207

Granet (1959: 370-371): Les rites interdisaient de prononcer le nom personnel d’un ancêtre qui recevait encore un culte. Lorsque la tablette du trisaïeul avait été transporté dans le coffre de pierre et que sa personalités’était fondue dans la masse ancestrale, son nom redevenait libre…Il n’est pas douteux que,pour les anciens Chinois, la naissance résultait d’une incarnation d’ancêtre. Après avoir reçu un culte pendant quatre générations et achevé de percourir leur carrière ancestrale, les aïeux se réincarnaient: leurs noms étaient alors libérés. S’ils servaient à nouveau, il y a des chances qu’ils fussent portés de cinq en cinq générations

208

Granet (1959: 274): Le père ne peut porter son fils dans ses bras; le fils ne peut habiter où demeura le père; dans le Temple Ancestral, père et fils sont logés, non point côte à côte, mais face à face…jamais, même quand tous deux sont morts, le fils ne mange avec son père

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padre. La regalità maschile impose quindi presto il cambio di organizzazione delle strutture della parentela209, garantendo che il potere fosse trasmesso di padre in figlio all’interno dello stesso lignaggio. Ecco spiegato perché Pachakuti, l’Inca sovversore, da giovane abbandonò la famiglia della madre, come è giusto che succeda nei sistemi bipartiti esogamici matrilineari 210, ma da adulto decise di affidare il trono a suo ,figlio in modo del tutto arbitrario. Egli compì in Perù quella rivoluzione dal sistema matrilineare a quello agnatizio, che in Cina si era verificata secoli e secoli prima, sconvolgendo così in modo definitivo il flusso del tempo sociale. Sempre a questo proposito, Sabbatucci (1989: 91) spiega che «il dinasta entra in comunicazione col padre morto mediante un pasto sacrificale a cui entrambi prendono parte; il morto è rappresentato da un suo nipote, vale a dire dal figlio del dinasta vivente; questi, quale rappresentante del dinasta morto, è occasionalmente trattato dal dinasta vivente con lo stesso rispetto con cui i figli trattano i propri padri. A questa comunicazione formale segue una vera e propria comunicazione verbale, mediante la quale il dinasta defunto «parla» al dinasta vivente per bocca del suo impersonatore, il dinasta futuro». Quindi ora sappiamo che nella concezione cinese del rapporto con i defunti il nonno «riviveva» nel nipote e questo è molto probabilmente il motivo per cui si trovavano simbolicamente nella stessa colonna. Questo processo reincarnativo simbolico non è sconosciuto al di fuori della Cina; tra gli Apapokúva-Guaraní del Brasile meridionale, ad esempio, il grande etnologo Curt Nimuendajú (1978: 66) ha individuato una credenza che per diversi aspetti può essere accostata a quella cinese: “Sucede a veces que el alma de los padres de una persona renace en los hijos de ésta. Estos niños, que así vendrían a ser abuelos de sí mismos, son llamados tuiá (viejo)”211. Questa concezione della successione vincolata ad un tempo sociale, che si riproduce costantemente grazie alla credenza nella resurrezione dei morti e che in Perù porterà il Tawantinsuyu alla rovina, ebbe basi talmente solide da impedire virtualmente qualunque cambiamento sociale e culturale, condannando i due sistemi in esame all’immobilismo più assoluto. In Cina era invalsa la convinzione che la famiglia non poteva mai estinguersi fino a che un solo componente rimaneva in vita. Infatti esistevano due famiglie, una fisica, quella dei viventi, ed una animica, quella dei morti che si alimentavano a vicenda, pur se i componenti della seconda non potevano sopravvivere per più di un 209

“Intendiamo per strutture elementari della parentela i sistemi nei quali la nomenclatura permette di determinare immediatamente la cerchia dei parenti e quella degli alleati, cioè i sistemi che prescrivono il matrimonio con un certo tipo di parenti; o, se si preferisce, i sistemi che, pur definendo tutti i membri del gruppo com eparenti, distinguono questi in due categorie: coniugi possibili e coniugi proibiti” (Lévi-Strauss, “Strutture elementari dellas Paretela”).

210

tra i Bororo, una di queste socità dualiste esogamiche e matrilineari, gli uomini, quando si sposano, lasciano il proprio clan e vanno ad abitare nel clan della moglie

211

Stephen Hugh-Jones (1979: 249) ha rilevato la stessa credenza tra i Barasana dell’Amazzonia nord-occidentale: Barasana men inherit the name of a dead patrilineal kinsman in the second ascending generation, the names being those of the He People or first ancestors. Related to this, there is an ideology of “soul recycling” such that new-born babies receive their souls from dead grandparents and are seen as being reincarnation of them.

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certo numero di generazioni. Quando un componente decedeva, egli rinasceva nell’altra famiglia ed entrambe le famiglie vivevano nello stesso luogo, una all’interno della casa nelle zone illuminate, e l’altra attorno alla casa o negli angoli bui del suo interno. Coerentemente esistevano 4 anime distinte, a seconda che fossero yin o yang, legate alla corporeità ed alle funzioni animali, o legate a quelle spirituali che costituivano l’individualità. Le anime yang si dividevano in Houen e Chen, laddove la prima era l’anima durante la vita fisica e la seconda l’anima dopo il trapasso. Per le persone comuni non v’era anima Chen ed il defunto si mescolava alla massa indistinta delle anime Kouei (anima yin). Per i nobili di seconda classe il tempo di sopravvivenza dell’anima Chen era di due generazioni, ma dovevano trascorrerne altre tre prima che questi si dovessero unire alle anime “plebee”. In questo periodo intermedio essi avevano la possibilità di tornare ad essere Chen in casi eccezionali. Solo i capostipiti erano Chen per l’eternità mentre ai sovrani erano concesse almeno 4 generazioni di condizione Chen. In pratica, il rango ricoperto all’interno dell’amministrazione statale sanciva il numero di generazioni di sopravvivenza dell’anima in una posizione privilegiata. Non era nobile chi aveva un lignaggio la cui origine si perdeva nel tempo, ma chi possedeva delle tavolette degli antenati ,che potessero testimoniare che i suoi progenitori erano stati Chen per periodi molto estesi e quindi degni di ricevere onoranze funebri per una lunga serie di generazioni 212. Perciò in capo a qualche generazione la tavoletta dell’antenato cessava di avere diritto ad uno spazio ad essa consacrato nel santuario e veniva deposta in un cofano di pietra conservato in una sala consacrata all’avo più antico. L’antenato in questione, esaurito il suo compito, non era più un genio tutelare e non veniva quindi più accudito devotamente: “la sua carriera è terminata, il suo compito di antenato è finito. Il culto che gli si è reso gli ha risparmiata per molti anni la sorte dei morti plebei” 213. Perciò ora possiamo capire i motivi che portarono alla regola del lutto, che aveva termine alla quinta generazione. Dopo la quinta generazione l’anima Chen della maggior parte dei defunti non aveva più voce in capitolo nella vita della famiglia e veniva sostituita da quelle dei defunti successivi. In effetti l’incredibile complessità del culto degli antenati è un altro elemento che ricollega la società cinese antica a quella incaica. Allo stesso modo che in Cina le mummie degli antenati venivano periodicamente riesumate in corrispondenza del locale giorno dei morti (che cadeva proprio il 2 novembre): queste erano nutrite e dissetate214, si ballava assieme a loro e le si interrogava. I defunti quindi non facevano parte di un lontano passato ma erano anzi in grado di determinare le 212

Granet (1955: 68): le culte des Ancêtres dépend-il étroitement, dans son organisation, de l’ordre établi par le système féodal.

213

Granet, 1968: 315.

214

Granet (1959: 157): Le culte principal éant le culte ancestral, l’idée qu’on a en vue est que les Ancêtres acceptent seulement d’être nourris par la cuisine de leurs descendants”. Granet (1951: 72): “La communication avec l’Ancêtre, que réalisait l’illumination produite par les observance ascétiques de la retraite, était complétée par l’effet communiel d’un repas que le fils pieux servait à son Aïieul, que celui-consommait et dont le fils mangeait les restes…Le mort avait un représentant qui mangeait et buvait pour lui: on l’identifiait au mort à tel point que, dans l’enceinte du sacrficie, u seigneur lui-même manifestait le respect le plus absolu pour ce représentant qui n’était pourtant qu’un vassal.

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scelte per il futuro. Ad esempio Molina (Rostworowski, 1988b:145) conferma che la battaglia rituale che vedeva confrontarsi gli Hanan con gli Hurin e che doveva necessariamente terminare con la vittoria dei primi, si svolgeva sotto lo sguardo critico delle mummie degli Inca delle due parti 215. In Cina esisteva una concezione della vita in un certo senso paragonabile a quella amerindiana, che coerentemente induceva a concepire ogni scelta alla luce delle scelte degli antichi; il passato rimaneva guida per il futuro e l’antenato era la via privilegiata per informarsi sugli eventi e sulle azioni che avrebbero dovuto poi informare gli eventi e le azioni del presente. L’opposizione strutturale spiriti/antenati si uniforma a quella tra spazio cosmizzato (o sociale) e spazio non cosmizzato (o naturale). Tra i Tukano dell’Amazzonia nord-occidentale ad esempio, la foce del fiume cosmico che scorre verso oriente è la patria degli spiriti degli antenati, mentre le sorgenti dello stesso fiume sono popolate dagli spiriti cannibali. In questo modello cosmologico “gli antenati rappresentano le origini presociali della società, mentre gli spiriti della foresta rappresentano una sfera che è fuori dall’attuale controllo sociale: gli antenati sono “prima” nel tempo, gli spiriti della foresta sono “oltre” lo spazio. Gli Indiani sono convinti di vivere nel centro del mondo, in mezzo a queste due opposte potenze sovranaturali” (C. Hugh-Jones, 1998: 276). La medesima stretta relazione tra tempo mitico e spazio cosmizzato, è stata rilevata da Gerardo Reichel-Dolmatoff tra i Kogi colombiani. Per questi indiani spazio e tempo sono entrambi marcati da una lunga lista di templi e di stazioni di culto, o di antichi sacerdoti, oppure di fenomeni astronomici di particolare rilevanza: The Kogi believe that certain moments in time are of a decisive importance in causing and shaping events. This conceptualisation is partly derived from their astronomical knowledge and practice in which, of course, exact time periods or precise moments of observation are all-important216. Anche l’Africa offre degli utili paralleli; nei regni precoloniali africani, dopo la morte del re e la sua decomposizione, la sua mascella veniva separata dal resto del corpo e deposta in un reliquiario posto in un tempio di forma conica, il malalo, che è la riproduzione in miniatura della dimora del sovrano, e che, a differenza di questa e della tomba regale, è oggetto di cura e manutenzione. Questo avveniva perché la mascella fungeva da trait d’union tra il sovrano, gli antenati, gli dèi e la comunità terrena, in modo del tutto analogo rispetto alle mummie imperiali inca. In questo senso è da leggere il mito sull’origine degli Inca: è un mito esplicativo della natura delle istituzioni che strutturarono il Tawantinsuyu. Gli antenati ebbero un ruolo determinante nel modellare queste istituzioni fin dai tempi della migrazione di questo popolo. Ricordiamo infatti che i primi Inca a giungere nell’area di Cuzco non erano guidati dal capo/sciamano antenato Manco Capac, 215

216

Presso i Terêre del Mato Grosso meridionale le due metà tribù si fronteggiavano in un vero e proprio pugilato ordinata secondo i rispettivi gruppi di età e di sesso (Cardoso de Oliveira, Revista do Museu Paulista, 1965/1966: 260) G. Reichel-Dolmatoff, 1990: 7

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ma da Ayar Auca, che secondo la Rostworowski potrebbe essere stato il progenitore degli Inca Hanan, visto che questo primo lignaggio si stabilì nella metà di sopra 217. Il nome Auca218 d’altronde conferma il carattere secolare-guerriero di questo capotribù. La gente di Ayar Mango (Manco Capac) si stabilì invece nella metà inferiore, nel tempio di Inticancha (Rostworowski, 1988: 35). Sembra che almeno due panaca siano state espunte dalla lista ufficiale ed una di queste si chiamava “Cusco panaca”: se pensiamo che fu Ayar Auca a battezzare “Cuzco” la futura capitale dell’impero prima di trasformarsi in pietra e divenire così un antenato/nume tutelare, non sembra azzardato ipotizzare che i componenti della panaca Cuzco fossero discendenti di Ayar Auca. Nella prospettiva occidentale questo genere di codificazione della regalità, nella vita e nella morte, è considerata irrazionale219, ma una ricerca completa non può evitare di interpretare i fatti sociali emicamente, con buona pace dei materialisti culturali e degli strutturalisti radicali. 3.14

I PROCESSI SPAZIO-TEMPORALI COME STRUMENTO DI POTERE Come sappiamo, gli Inca si erano dotati di un ingegnoso sistema di trascrizione sintetica degli

eventi e dei dati statistici legati all’amministrazioe dello stato che faceva uso di cordicelle lungo le quali erano posti dei nodi il significato dei quali derivava sia dalla loro posizione, sia dal loro colore, sia, molto probabilmente, dal modo in cui erano stati intrecciati. Quando si parla di registrazione degli avvenimenti del passato, è comunque necessario distinguere tra i concetti di memoria comunicativa e memoria culturale. La prima viene a definire l’insieme dei ricordi che fissano il passato prossimo, essendo trasmessi verbalmente dai contemporanei. E’ una memoria strettamente agganciata all’esistenza del gruppo che la genera e la riproduce fino a quando il gruppo si estingue e la memoria ne segue il destino. La memoria culturale ha invece un dominio molto più ampio, estendondosi in un passato remoto spesso mitizzato ed idealizzato. Jan Assmann220 spiega che “in essa il passato non è in grado di conservarsi in quanto tale, ma si coagula piuttosto in figure simboliche a cui viene agganciato il ricordo”. Così la forma più tipica di memoria culturale è quella del mito, in cui storia e ricordo vengono coniugati al fine di generare una serie di riferimenti storico-culturali saldi alla luce dei quali 217

218 219

220

Non furono comunque gli Inca i primi ad insediarsi nella regione del Cuzco. Secondo il cronista Santacruz Pachacuti Yamqui al momento dell’arrivo degli Inca esistevano due regni contrapposti, l’uno, quello settentrionale, governato da re Tocay Capac, e l’altro, quello meridionale, dal re Pinahua Capac. E’ opinione di Zuidema che questi due regni coincidessero con la divisione hanan/hurin della futura capitale inca. auqay significa guerriero A proposito dell’ossessione cinese verso i doveri funerari Mauss (1899: 611) scriveva: “Les exagérations de ce système sont devenues une des plaies de la civilization chinoise: car à la moindre altération matérielle qui se produit dans le voisinage du mort, le bien-être de l’âme est compromis et c’est une catastrophe pour les vivants” Assmann, 1992: 26.

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spiegare il presente. Proprio per questo la memoria culturale non si sviluppa spontaneamente, ma viene codificata, “ammaestrata”, in modo da controllarne la diffusione e le forme di diffusione, processo che avviene solitamente tramite le liturgie, le feste, le riunioni collettive che celebrano il passato per definire e consolidare il momento presente. La commemorazione dei morti è forse il passaggio più importante di questa strategia di riproduzione del passato nel presente: “attraverso il legame con i morti istituito dal ricordo, una comunità si sincera della propria identità” (ibidem: 37). E’ chiaro che le caratteristiche di questi stessi procesi mnemonici variano sensibilmente da società a società, poiché in un caso una comunità opterà per la conservazione delle istituzioni presenti e la memoria culturale servirà per sancire la continuità con il passato, mentre in altri casi la comunità preferirà vedere nel passato la prova che la tensione vero la continua trasformazione era sempre esistita nel suo passato fin dalle origini. Tuttavia sarebbe errato ritenere che questa distinzione, che coincide con il binomio lévi-straussiano tra “società fredde” e “società calde” sia una classificazione universalmente valida. Infatti, proprio gli Inca, che storicamente furono uno dei fenomeni più rivoluzionari del panorama andino, contemporaneamente, a livello culturale, mostrano un’incredibile attaccamento alle tradizioni precedenti, tanto che, allo stato attuale delle nostre conoscenze in merito, possiamo dire che le uniche vere innovazioni che seppero introdurre furono limitate alla sfera dell’architettura monumentale. Ma più in generale, il modellamento di un universo simbolico codificato ha la suprema funzione di giustificare lo status quo, di convalidare l’affidamento del governo, dell’amministrazione della giustizia e dell’esecuzione dei rituali alle istituzioni del presente. Gli Inca e i Cinesi, ma anche numerose civiltà del Vicino Oriente, formularono le loro liste regali “istoriogenetiche” – cioè che combinavano storia e cosmogonia – proprio nell’intento di misurare la distanza della preistoria mitica e fondativa del presente rispetto alla sovranità contemporanea: “i re si concepiscono come successori, governatori e figli del Dio cratore. […]. Da un punto di vista meramente formale, la differenza categoriale tra preistoria mitica e presente storico sembra in tal modo effettivamente annullata” (ibidem: 150). La regalità, la simbologia, e la cosmologia costituiscono un trittico inscindibile il cui ruolo viene espletato nella sfera temporale dalla riproposizione dei miti cosmogonici e dalla declamazione pubblica delle narrazioni delle gesta dei sovrani precedenti, e nella sfera spaziale dalle visite ed apparizioni del monarca nelle diverse province del regno, allo scopo di marcare i propri domini come un lupo marca il proprio territorio di caccia. Una volta stabilito ed istituzionalizzato l’aggancio tra regalità e credo popolare altro non rimane da fare che riproporla nelle forme sopramenzionate. Il problema è dunque quello di tradurre una pretesa in una realtà, cioè di fare in modo che il ruolo del sovrano sia effettivamente ritenuto legittimo dalla massa. Infatti, a dispetto di ciò che si 132


potrebbe pensare una volta considerato il rigido protocollo della trasmissione dei poteri governato dalla volontà degli antenati, questo processo non è del tutto implicito nell’avvicendamento generazionale dei monarchi. L’esempio di Pachacuti e Atahuallpa è molto indicativo in tal senso: entrambi accomunati dalla scelta di agire contrariamente alle decisioni del monarca legittimo, si proclamano Sapa Inca prescelti dal dio Inti, non più favorevole al monarca in carica. Risulta infatti chiaro che l’unica via per interrompere la consueta sequenza generazionale è quella di richiamarsi ad una suprema volontà divina, decisamente preminente rispetto a quella degli antenati. Bisogna perciò tener ben presente che la memoria culturale è pervasiva e coercitiva solo nella misura in cui il passato si conforma alla volontà degli dèi, che coincide spesso con la volontà di figure carismatiche. Non è difficile credere che un potente ambizioso i cui progetti sono frustrati da un certo tipo di consuetudini, sappia trovare in queste stesse consuetudini lo strumento che gli permetta di assumere il governo della comunità, o proclamando la sua discendenza diretta dal capostipite, o annunciando tramite qualche importante oracolo che l’antenato lo ha investito dei pieni poteri, oppure ancora assicurando per bocca di qualche importante sacerdote che il dio lo ha eletto in quanto maggiormente rispondente alle sue esigenze rispetto ad un altro pretendente. Per mostrare come si svolgano questi processi di legittimazione incorciata, è utile operare un confronto tra la storia inca e quella giapponese del primo periodo imperiale, quello Yamato. Nel Giappone dei primi secoli della nostra era ogni comunità era devota ad un diverso spirito (kami) che albergava spesso in grandi rocce (iwakura) o in alberi antichi e giganteschi (himorogi) o che comunque si manifestava con frequenza stagionale in prossimità di questi luoghi sacri. I kami più importanti erano quelli del sole e della luna che erano forse più numerosi di quelli legati alle varie forze naturali; esistevano inoltre i kami dei campi, delle montagne, dei corsi d’acqua, della terra, del fuoco, dell’agricoltura, della pesca, ecc. Questa pletora di divinità trovò una precisa organizzazione e funzionalità proprio con l’avvento dell’impero. Ad un dato momento, circa intorno la III secolo d.C., avvenne che i clan più potenti cominciarono ad assumere il controllo su certi specifici territori proclamando che i kami che sovrintendevano alla prosperità di quelle zone si erano dichiarati favorevoli a questa presa di potere non solo da parte dei potenti in questione, ma anche dei kami che questi “portavano” in un certo senso con sé, i quali ultimi venivano di conseguenza designati come kunitama, ossia “spiriti della provincia”. Oppure, ma questa non era la norma, poteva capitare che questi ambiziosi personaggi estendessero l’autorità di un kami locale su di una vasta area per poi diffondere la credenza che esso era l’ancestrale kami tutelare del loro clan. Trattandosi di clan segmentari, come quelli cinesi ed incaici, quando uno di questi clan si espandeva a tal punto che si rendeva necessaria la segmentazione e la separazione di uno dei suoi 133


rami, quest’ultimo portava con sé il kami del clan di origine e lo imponeva nella regione che colonizzava; a meno che il kami indigeno non fosse più potente, al che il kami invasore veniva soggiogato e finiva per estinguersi. Una volta che uno di questi clan riuscì ad assumere il potere supremo, esso si preoccupò di fare in modo che i vari kami dei clan di corte venissero gerarchizzati e che i kami più potenti e perciò pericolosi venissero incorporati nella memoria culturale del lignaggio imperiale. Infine, come ulteriore garanzia, esso adottò il kami più potente della regione del Kansai (quella che circonda l’attuale Osaka, al tempo chiamata Naniwa), il kami solare Amaterasu, come progenitore della dinastia imperiale e mostrò di operare conformandosi accuratamente alla sua volontà221. A questo proposito è interessante notare come la dea solare Amaterasu fosse il nume tutelare di una minuscola isola-santuario abitata da un centinaio di famiglie di pescatori che si trova tra l’isola di Honshu e quella di Shikoku e che si chiama Awaji; a livello economico essa era importante unicamente per il fatto che forniva la corte di sale e di pesce, il che fa ritenere che in quella fase la volontà strumentalizzatrice dei potenti dovesse ancora piegare la testa di fronte alla potenza di certe credenze popolari. Il processo di assunzione ed appropriazione delle cerimonie, dei miti e dei simboli religiosi locali da parte della corte Yamato fu graduale ed trovò la sua culminazione nella isituzione di una regalità sacrale che faceva derivare le sue origini culturali e lignatiche, e quindi la sua dignità sovrana, direttamente da Amaterasu, presto trasformata nel supremo kami del futuro Giappone. Il passaggio successivo e conclusivo fu la creazione del reticolo di stazioni sacre collegate che già abbiamo incontrato in Australia ed in Perù: the court also incorporated many local shrines, honoring nature kami, into a centralized system. Imperial messengers were dispatched to local shrines, and the shrines were presented with sacred treasure. Shinto on the local level was further systematized through the construction of permanent shrine buildings. The court had a hand in this process, too, as the sponsorship of shrine construction projects was one way of increasing imperial authority and control at local levels222. Il medesimo accorgimento era stato preso dalla corte imperiale inca, che aveva fatto in modo di raccogliere nella capitale gli idoli presenti nelle huacas più importanti – come dei veri e propri ostaggi – aveva tutelato ed alimentato il culto dei popoli costieri verso il dio Pachacamac, troppo diffuso e sentito per essere estirpato, affiancandolo al dio sole Inti, il dio trasformato nell’antenato imperiale, al pari di Amaterasu in Giappone. Poi, esistendo un terzo dio particolarmente influente nella fascia montana, ossia Kon Teksi Wiracocha, è possibile che abbia adibito l’intera metà inferiore della 221

222

In Giappone esiste un’espressione precisa per definire questa conformazione alla volontà del kami, ossia kami-nagara-no-michi, che letteralmente significa “il modo di agire in assoluto accordo con la volontà del kami”. La stretta connessione tra regalità e culto del kami è altresì confermata dal termine giapponese per “sovranità, governo, amministrazione del potere”, che è matsuri-goto, la cui radice matsuri significa “culto, adorazione”. Delmer M.Brown, 1993: 350.

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capitale al suo culto. Infine, con un’operazione notevolmente sofisticata, aveva triplicato la natura del dio sole, rendendolo compatibile con la trinità di dèi che dominavano il panorama religioso del vasto impero ed aveva trasformato i domini imperiali in uno spazio consacrato che dipendeva dal Coricancha di Cuzco, il tempio del sole e del cosmo nella sua globalità. Tuttavia, almeno secondo Laurencich-Minelli (1989: 69), “il modello assai complesso che, con alcune varianti, serviva da rappresentazione spaziale di fenomeni non rappresentabili solo spazialmente (come la successione storica degli Inca ed i rapporti sociali tra gli ayllu e tra i diversi gruppi all’interno di questi) dev’essere considerato precedente alla sua stessa applicazione parziale nella struttura della capitale; esso risale senza dubbio ad un’elaborazione teorico-mistica dei rapporti fra spazio e tempo, tra unità e molteplicità, tra opera dell’uomo e cosmo che aveva già raggiunto, prima dell’avvento degli Inca, una sua compiuta definizione mistico-teologica”. Laurencich-Minelli è tra coloro i quali stanno vagliando la possibilità che una parte degli etnemi tipici della società inca fossero una derivazione indiretta dell’esperienza statale panandina precedente, quella di Wari, e non dobbiamo dimenticarci che fin dai tempi di Bandelier era sorto il sospetto che esistessero dei forti legami culturali tra Wari ed Inca. Così non è un caso che, spinta da questa ipotesi di lavoro, ella abbia esteso il campo d’indagini iconografiche fino all’arte wari. D’altra parte bisogna anche tener conto del fatto che gli stessi Wari erano eredi culturali di Tiwanaku, ossia di una civiltà che risale già ai primi secoli della nostra era (corrisponde più o meno alla fase Yamato in Giappone ed alla fine della dinastia Han in Cina), e che questa a sua volta compartecipava ad una tradizione serrana ancestrale – quella di Chavín – che, se ci basiamo sui confronti stilistici, può essere datata al II millennio a.C. Tutto ciò per evidenziare come gli Inca non nacquero dal nulla e l’originalità non fu certo una delle loro peculiarità: essi ebbero il merito di organizzare e sistematizzare elementi culturali provenienti da una estesa porzione del Sudamerica, ma che, come abbiamo visto, l’etnografia dimostra essere diffusi un po’ in tutto il Nuovo Mondo ed in Asia. Per questo voglio concludere il paragrafo affermando che l’indirizzo “etico” di un Harris è in grado di delineare il quadro generale degli eventi, sa descrivere una realtà che si pretende non sia interpretabile emicamente dal momento che i suoi protagonisti sono defunti ormai da secoli; ma l’antropologia è una scienza fondamentale non perché pretende di essere esatta (e sarebbe arrogante anche solo sognarlo quando si ha a che fare con la cultura umana), ma perché è convinta di saper cogliere nessi logici e causali profondi e spesso non visibili attraverso le modellizzazioni sistemiche. Se noi ora rileggiamo il quadro socio-culturale cinese ed incaico in questa nuova prospettiva, siamo in grado di comprendere come un modello deterministico sia insufficiente a spiegare delle realtà complesse come le società umane. In un’analisi che si occupi delle grandi civiltà del passato, il non tener conto dei dati provenienti da società meno complesse e quindi meno adatte alle grandi 135


sistematizzazioni funzionaliste equivale quindi a condannare inevitabilmente al fallimento la propria indagine socio-antropologica.

CONCLUSIONI Lo studio comparativo che qui si conclude, in quanto dichiaratamente eclettico, potrebbe a tutta prima parere un mero collage di casi etnologici e socio-antropologici accostati l’uno all’altro per giustificare l’impiego di questo metodo misto interpretativo-strutturalista-simbologico-comparativista. Ma a ben guardare la realtà è un’altra. La metodologia in questione non è innovativa, in quanto l’antropologia è comparativa al pari della sociologia, tratta la natura, il significato ed il valore dei simboli al pari della sociologia e cerca di intepretare le culture e le società umane al pari della sociologia. Nel contesto della storia dei popoli e delle civiltà la sociologia e l’antropologia sono due discipline gemelle che, avvalendosi dei dati e delle ipotesi etnologiche ed etnografiche, dovrebbero vicendevolmente collaborare per dare quelle risposte che l’archeologia non sa e non può dare. Inoltre, a difesa della mia scelta comparativista estrema, voglio ribadire che produrre ipotesi e suggerimenti non è “peccato” nella misura in cui non si pretenda di trasformarli automaticamente in certezze aprioristiche. Io non affermo che la società inca deve essere letta alla luce dei dati cinesi ed austronesiani, che d’altronde non sono stati confermati in modo netto e definitivo, ma solo proporre un’ipotesi di lavoro futura da sottoporre ai sinologi ed agli etnologi impegnati in Oceania, perché ritengo che nel corso del secolo scorso sia stata raccolta una tale massa di informazioni che la scelta preconcetta di non confrontarli sarebbe deontologicamente scorretta e scientificamente irrazionale. Quanto alla mia ricerca, esistono almeno tre precisi fili rossi conduttori che mi hanno guidato nella sua elaborazione e stesura. Il primo, che è stato sviluppato nella seconda sezione (par. 2.1, 2.2, 2.9-2.18), è nato dall’esigenza di dimostrare che le fonti cronachistiche sulle quali ci basiamo per indagare il fenomeno incaico non possono e non devono essere assunte in modo arbitrario e parziale al fine di dimostrare le proprie ipotesi, come troppo spesso accade. In questo caso l’analisi del contesto culturale in cui vennero educati e preparati i missionari destinati alla predicazione nel Nuovo Mondo è risultata determinante per comprendere come la visione della cultura nativa che noi estrapoliamo dalle loro relazioni sia spesso inficiata dalle loro ipotesi pregresse. Di qui la necessità, segnalata a più riprese, di uno studio comparativo di più ampio raggio rispetto a quelli generalmente condotti fino ad oggi, che in genere si limitano a confrontare una cronaca con l’altra e queste con i dati etnografici raccolti in qualche valle andina. Il secondo filo conduttore può essere individuato nella tematica del rapporto che si viene a stabilire tra una comunità stanziale ed il suo territorio d’insediamento (3.1-3.12). Generalmente un 136


approccio meramente archeologico a questa problematica finisce per considerare unicamente l’aspetto ecologico senza saper cogliere la sostanziale distinzione esistente tra organizzazione territoriale ed organizzazione locale. Con la prima espressione si suole indicare il rapporto funzionale che nasce tra un gruppo e le terre che lo ospitano; in altre parole consideriamo come variabili la disponibilità di risorse, il livello e decorso delle precipitazioni, la densità demografica, il livello tecnologico e l’organizzazione del lavoro. Nel secondo caso, invece, la relazione analizzata è quella che si instaura nella sfera simbolicorituale, e che investe la sfera religiosa, normativa ed istituzionale (par. 3.1 e 3.9). Questa seconda relazione è cosmologica perchè si occupa delle modalità con le quali una comunità “legge” l’ambiente che lo circonda non dal punto di vista della sopravvivenza fisica ma da quello dell’armonizzazione tra ciò che “è” comunità, e ciò che non lo é. Nell’ambito della scuola antropologica anglosassone la distinzione è quella tra estate (“proprietà”,

ossia

area

cosmizzata

dalle

pratiche

rituali)

e range (territorio

sfruttato

economicamente). In Australia ed in Perù, l’estate veniva e talora viene ancora oggi a coincidere con il reticolo topografico disegnato dalle stazioni sacre – huacas in Perù e pmara kutata in Australia – sparse sul territorio. L’estate è dunque indissolubilmente vincolato alla sfera divina ed a quella mitica, in particolar modo alle gesta dell’eroe culturale assunto come capostipite della comunità, come è il caso di Manco Capac nel caso degli Inca (par. 2.5 e 3.9) e dei fratelli Ntjinkantja per gli Aranda australiani (par. 3.1 e 3.9). Scarduelli (1983: 182) conferma che “il diritto di «proprietà» rivendicato dal gruppo patrilineare (e riconosciuto dagli altri aborigeni) sul territorio totemico («estate») include, oltre ai diritti sulle risorse naturali, un rapporto mistico con la specie totemica (attraverso gli antenati mitici) e forme di proprietà immateriale su un patrimonio di miti, cerimonie, danze e canti”. Ho già fatto notare in precedenza come spesso accada che taluni archeologi ed antropologi sentano l’esigenza di modellizzare più articolatamentequesto rapporto tra uomo ed ambiente; talora si riterrà opportuno individuare una correlazione tra determinati aspetti dell'ecosistema. In entrambi i casi il punto cruciale sembra dunque essere l’esigenza di quantificare i condizionamenti, fisici o culturali, che hanno formato una data società. Tuttaviala sociologia moderna ha ampiamente evidenziato come le “condizioni sistemiche sono sempre («macro») contesto delle («micro») interazioni sociali, mentre le attivià sociali che coinvolgono le persone («micro») rappresenano l’ambiente in cui le «macro» caratteristiche dei sistemi si riproducono e si trasformano” (Archer, 1997: 22). L’assunto di base è che l’organizzazione societaria non riflette un ordine meccanico o organico, né presuppone che il tutto sia omologo ad una delle sue parti o ad uno dei suoi stati. I condizionamenti ambientali e cultuali esistono e la loro azione è spesso molto vigorosa ed incisiva , 137


ma ciò non toglie che tutte le forme di condizionamento esercitano i propri effetti solo sulle persone ed attraverso le persone. Perciò la trasformazione o la conservazione di una certa tipologia di rapporto tra la comunità ed il suo ambiente e tra essa e la sua immagine riflessa in quest’ultimo, è sempre una conseguenza inattesa dell’interazione tra i membri della comunità. Questi esiti inattesi, essendo condizionati dai vincoli ecologici e culturali, generano a loro volta le precondizioni misconosciute dell'’zione degli agenti futuri. Così può accadere che gruppi di potere con interessi acquisiti - come è il caso dell’élite inca, di cui ho analizzato la struttura e le strategie nel paragrafo 3.6 - pieghino le masse al proprio volere e stabiliscano dei nuovi rapporti sociali adattati ai mutati rapporti di potere, ma d’altra parte risulta evidente che questi stessi gruppi si rendono fautori di un nuovo “ordine” con regole e norme che spesso si rifanno a quelle precedenti o comunque non se ne discostano in modo radicale, pena il dissolvimento dell’ordine, pur contingente, appena conseguito. Con ciò non si vuol confermare la validità della teorie dei meccanismi sociali omeostatici, ormai del tutto superata, ma si vuole invece mostrare come i concetti sociologici di morfogenesi e di morfostasi – con i quali indichiamo quei fenomeni socio-culturali strutturali ma non insensibili all’arbitrio umano – siano particolarmente utili per delineare i processi che accompagnano la formulazione, formazione ed evoluzione di una data società. Per ciò stesso, quando notiamo delle evidenti analogie tra realtà anche molo distanti l’una rispetto all’altra, sia geograficamente sia storicamente, ed osserviamo, come spesso accade, che non ci si possono in alcun modo far derivare da condizionamenti ambinetali e culturali affini, ci dobbiamo sentire in dovere di rifiutare recisamente le spiegazioni funzionaliste e materialiste culturali, per loro natura troppo deterministiche, propendendo piuttosto per uno studio etno-storico, e quindi inevitabilmente morfogenetico, delle possibili radici ideologiche e rituali comuni, oppure per una analisi critica delle eventuali strutture mentali incosce condivise. Il terzo ed ultimo percorso d’analisi indaga i processi temporali ed il modo in cui, in diverse regioni del mondo ed in diversi periodi storici, le élite hanno strumentalizzato sia questi sia i processi spaziali al fine di consolidare il proprio potere (par. 3.13, 3.14). Qui le somiglianze individuate sono quasi certamente riconducibili a processi storici inevitabili. Ad ogni modo, nello specifico la mia ricerca ha proposto due possibili spiegazioni delle somiglianze riscontrate sulle due sponde del Pacifico 223: una etno-storica, che vede nelle migrazioni attraverso Bering lo strumento di diffusione di un imponente corpus di credenze e riti che hanno influenzato, ma non determinato, l’evoluzione socio-culturale del Nuovo Mondo; la seconda invece predilige una prospettiva strutturalista piuttosto moderata, che accetta la possiblità che popoli molto 223

Ferma restando l’assoluta necessità di assumere molteplici punti di vista e criteri di analisi, inclusi quelli caratetristici del funzionalismo e del materialismo culturale, se l’obiettivo è quello di indagare un fenomeno socio-culturale nella sua globalità.

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diversi possano concepire il mondo secondo schemi e paradigmi non dissimili perché tipici dell’umanità nel suo complesso, ma che al tempo stesso non ne accetta il carattere pervasivo e coercitivo tipico di tanta analisi strutturalista contemporanea. La terza possibile istanza sarebbe potuta essere quella diffusionista, in qualche modo erede diretta delle teorizzazioni rinascimentali europee, ma ora fondata su basi scientifiche, che presuppone un contatto ripetuto tra Asia ed Americhe anche in periodi successivi a quelli del primo popolamento, quando cioè l’Asia aveva già dato alla luce civiltà di notevole rilievo. Al momento attuale non esistono però prove certe dell’eventuale contatto e - ça va sans dire - solo le future scoperte archeologiche e gli studi genetici in corso potranno dare delle risposte più concrete.

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SOMMARIO INTRODUZIONE.................................................................................................................................1 1.UN METODO SPERIMENTALE? ZUIDEMA, GEERTZ, ELIADE E LA COSMOLOGIA ANDINA ...............................................................................................................................................4 2.L’ORIGINE DELLE «CULTURE SUPERIORI» AMERICANE NEL PENSIERO RINASCIMENTALE E LA TEORIA MONO GENETISTA SUL POPOLAMENTO DEL NUOVO MONDO...............................................................................................................................................16 2.1IL PROBLEMA DELL’AFFIDABILITA’ DELLE FONTI.............................................................................16 2.2LE TRADIZIONI INDIGENE .........................................................................................................................18 2.3IL “CASO OLIVA” E LA RICERCA ETNOSTORICA DI R.T. ZUIDEMA ................................................19 2.4 ”HISTORIA ET RUDIMENTA LINGUAE PIRUANORUM”: UN’ORIGINE ASIATICA DEGLI INCA? .....................................................................................................................................................................23 2.5“HISTORIA DEL PERU’ Y VARONES INSIGNES EN SANTITAD”: UN’ORIGINE NORTEÑA DEGLI INCA? .......................................................................................................................................................25 2.6 I “GESUITI ANOMALI”: GIOVANNI ANELLO OLIVA, GIOVANNI ANTONIO CUMIS, ILLANES E VALERA.....................................................................................................................................................29 2.7 LE PRINCIPALI FONTI DI OLIVA CIRCA L’ORIGINE DEI PERUVIANI: CAMPANELLA E DE LA CALANCHA ..............................................................................................................................................32 2.8 ALTRE POSSIBILI FONTI: ÑAYMLAP E TACAYNAMO.........................................................................33 35 2.9 JOSE’ DE ACOSTA ED IL DIBATTITO SULLE ORIGINI SINO-TARTARICHE DEI NATIVI AMERICANI..............................................................................................................................................35 2.10L’APPROCCIO “SINOGENETICO” PORTOGHESE E DI GEORG HORN..............................................36 2.11L’APPROCCIO “TARTAROGENETICO” DI TORNIELLI, DE LA CALANCHA E BREREWOOD......38 2.12PERCHE’ I TARTARI? L’IMPATTO DELLA CULTURA EUROPEA CON IL CELESTE IMPERO E CON I NOMADI DELLA STEPPA...........................................................................................................38 2.13L’UTOPIA RINASCIMENTALE DELLA SOCIETA’ IDEALE PUO’ AVER INFLUENZATO I CRONISTI DELLA CONQUISTA? ..........................................................................................................40 2.14L’UMANESIMO CIVILE E LA SUA INFLUENZA NEGLI AMBIENTI ECCLESIASTICI.....................41 2.15LA RELIGIONE UNIVERSALE....................................................................................................................43 2.16 LE UTOPIE UMANISTICHE (1516)...........................................................................................................45 2.17LE RADICI IDEOLOGICHE UMANISTICHE DEL MOVIMENTO INDIGENISTA................................47

3LA MODERNA INTERPRETAZIONE DELLE STRUTTURE SOCIALI INCAICHE IN UNA PROSPETTIVA COMPARATIVISTA .............................................................................................49 3.1L’ICONOGRAFIA ANDINA E LA SUA RELAZIONE CON LA STRUTTURA SOCIALE DEL TAWANTINSUYU.....................................................................................................................................49 3.2 I PROCESSI SPAZIALI NEL PENSIERO COSMOLOGICO ANTICO......................................................53 3.2 LE QUATTRO RAPPRESENTAZIONI DELLA STRUTTURA SOCIALE INCAICA ..............................59 3.3 LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE: IL DUALISMO..................................................................................60 3.4 LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE IN SUDAMERICA .............................................................................62

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3.4.1I BORORO ED IL CONFRONTO CON IL TAWANTINSUYU.................................................................65 3.4.2I CANELLA: IL DUALISMO STAGIONALE.............................................................................................67 3.4.3I CUBEO: L’HERENCIA PARTIDA............................................................................................................69 3.4.4I CHIMU’: UNA SOCIETA’ SEGMENTARIA PRECOLOMBIANA?......................................................71 3.5LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE NELLA MESOAMERICA...................................................................76 3.6LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE NEL NORDAMERICA........................................................................78 3.7LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE IN ASIA ED IN OCEANIA ED IL CONFRONTO CON IL CASO INCA...........................................................................................................................................................81 3.8LA SECONDA RAPPRESENTAZIONE: LA TRIPARTIZIONE...................................................................96 3.9 LA TERZA RAPPRESENTAZIONE: LA QUADRIPARTIZIONE.............................................................101 3.10 LA QUARTA RAPPRESENTAZIONE: L’ORGANIZZAZIONE RADIALE ..........................................105 3.11 LA QUARTA RAPPRESENTAZIONE NELL’ESTREMO ORIENTE ...................................................121 3.12LA QUARTA RAPPRESENTAZIONE IN INDIA ED IN INDOCINA.....................................................123 3.13I PROCESSI TEMPORALI NEL PENSIERO COSMOLOGICO ANTICO...............................................126 3.14I PROCESSI SPAZIO-TEMPORALI COME STRUMENTO DI POTERE................................................131

CONCLUSIONI................................................................................................................................136 BIBLIOGRAFIA ..............................................................................................................................140 SOMMARIO......................................................................................................................................146

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