Stefano Graziani
Under the Volcano and Other Stories Testi di Anselm Franke Rene Gabri Arturo Carlo Quintavalle Gianluigi Ricuperati
Galleria Mazzoli, Modena
CULTO DEI MORTI, LO SPIRITO DEI PAPPAGALLI E L’ANIMA Anselm Franke Under the Volcano è di per se un’altra storia. Una diversa storia della fotografia come prassi moderna della costruzione delle immagini. Iniziamo dai pappagalli e dalla scimmia, imbalsamati e ricreati in un’immagine. La fotografia di queste immagini duplica ulteriormente l’immagine – ne imita il divenire superando la linea verso la non-vita. C’è qualcosa di sottilmente imprevisto o inappropriato che riguarda l’immediatezza di tale duplicazione – immagine di un’immagine –, che rende le fotografie alla stregua di una parodia. Questa dimensione caricaturale viene resa visibile da una terza duplicazione, quella che riguarda “noi” come spettatori, in quanto non possiamo che seguire la compulsione al gioco delle differenze e delle identità, questo significa che non possiamo esplorare un’immagine se non in quanto specchio, e indagarla incessantemente come differenza. Ma cosa torna al nostro sguardo? Il doppio, la morte non-morta! Una parodia del controllo attraverso la morte, questa forma ordinaria fin dai tempi dell’ossessione egizia per le mummie e da quella greca per le immagini di pietra. La morte che serve a separare qualcosa dal continuum della vita. Quel desiderio di trascenderla dominando il continuum della vita e domando la morte. Ma ecco che prende nuovamente vita come famigerato spettro del doppio, l’identico ma diverso. Questo non riguarda solo il doppio in quanto specchio che è divenuto autonomo. Pappagalli e scimmia non si comportano come dovrebbero una volta morti. Questo riguarda la vita delle copie. Pappagalli e scimmia ci temono sicuramente come umani ma non se ne preoccupano poi così tanto perché ci sono molte altre copie di cui occuparsi! Nuovamente, come con il doppio, dobbiamo confrontarci con una superstizione, quella per cui la fotografia, in quanto essa stessa superstizione, riguardi l’idea che, in primo luogo, qualcuno riesca a possedere l’anima di un altro, la quale può in un secondo momento, essere a sua volta sottratta. Si tratta di una credenza che nasce dal presupposto che ci credano gli altri, nel momento in cui si viene a costruire su una fantasia molto particolare, quella del diavolo che ruba le anime. L’aspetto che conta è l’equazione anima=immagine; questa equazione ha bisogno di essere pensata come un vero ma produttivo paradosso, proprio perché valida nel suo contrario: immagine≠anima. Questo significa che non è quasi mai quello che è. Questa forma di mimesis risulta meno famigliare nella storia conosciuta dell’immagine in Occidente. E’ stata trovata per esorcizzare la magia della mimesis delle immagini nel tentativo di spingerla il più vicino possibile alla verità. L’immagine nella modernità, secondo questo punto di vista, è il luogo della schizofrenia: tutto o niente, o verità totale o completa illusione e menzogna. Somiglianza perfezionata: una “vera” immagine, un significante, identità. Ma rimane uno scarto, sempre fuorviante, una scintilla nel dubbio che può incendiarla interamente assieme alla sua incontrollabile ambiguità, sebbene rimanga sempre capace di confondere verità e falsità,invertendo l’ordine della formula.Immagine=anima=immagine≠anima, che a sua volta corriponde a immagine=verità=immagine≠illusione/falsità. Questo è naturalmente uno scenario religioso che diviene il canovaccio su cui si sviluppa il dramma materiale. Comunque, in questo caso non dovrebbe riguardare noi, ma piuttosto la fotografia stessa come un prodotto di questo paradosso. Per arrivare a questo, dobbiamo reintrodurre nelle immagini le persone – il terzo momento della sequenza degli specchi. La suddetta formula ha a che fare, per esempio, con il problema della fisiognomica, della lettura del paesaggio come volto dell’anima, in quanto presenza e non come rappresentazione, inconciliabile, per esempio, con l’idea che vuole si giudichi un libro dalla copertina. Questo riguarda maggiormente la relazione tra le immagini, tra il sè e l’anima. Siamo portati a credere che il sè possieda la sua anima quando possiede la sua stessa immagine. Ma come è mai possibile? Possiamo porre ingenuamente questa domanda? Non è forse il phantasma del controllo che nega all’immagine il suo diritto ad esistere? Non è forse un’immagine ciò che sta sempre nel mezzo, e mai solo da una parte? Non hanno una volontà autonoma?
L’auto-possessione del sè della modernità, nega se stessa seppure negando l’immagine nel tentativo di possederla. E questa auto-negazione è esattamente il motivo per cui il sè è moralmente obbligato a conoscersi in prima istanza: per dar luogo a una trasformazione. Un nodo paradossale, proprio come la relazione tra interiorità ed esteriorità, immagine e anima, dove i termini dipendono l’uno dall’altro elidendosi a vicenda: la costituzione del sè nella negazione dalla quale il sè si apre alla trasformazione – vale a dire la teorizzazione di Foucault delle tecnologie cristiane del sè. Il soggetto moderno, scrive Foucault, non è un prodotto primario della secolarizzazione bensì della cristianizzazione in profondità. Quest’ultima rende il sè una questione di fede, piuttosto che una laica esperienza della relazionalità. L’anima deve divenire il sè proprio, e una volta che questo viene acquisito come principio della verità soggettiva, l’anima stessa, in quanto concetto religioso, potrebbe essere abbandonata senza nemmeno toccare il nucleo sacro a cui fa riferimento, il sè. Desiderandolo fortemente, ancor più obbligato a trasformarsi, il soggetto moderno è forzato in un’unità che lo contiene fin dal momento in cui cerca la sua reale trasformazione. Non può permettere che la sua anima sia altro da sè, e deve conoscerne tutti gli aspetti, ma questa unità e conoscenza manca di una base empirica e si pone fuori dal contatto con la realtà non meno di quanto le immagini facciano col mondo, quindi, deve necessariamente essere un atto di fede. Le fotografie della scimmia e dei pappagalli beffano questa relazione con le immagini, il loro doppio legame, sono inquiete, sebbene tutte parlino della morte. Ma questa morte è un phantasma, le immagini non operano mai su qualcosa che non sia un continuum della vita, e se il phantasma non pone confini attraverso sentenze e dogmi, le anime non staranno nel luogo a loro ascritto, ma migreranno, si divideranno e infine si ricongiungeranno oltre i limiti del tempo e dello spazio. Le anime migratorie, comunque, non furono mai care ai pastori di chiesa e agli ingegneri della soggettività moderna a cui esse stesse avevano dato autorizzazione a esistere. In ogni caso, in che modo queste anime migrano? Naturalmente, divenendo copie attraverso le immagini. L’immagine della scimmia e del pappagallo, gli animali in grado di imitare, sono immagini di anime in viaggio. Sembrano attrarre molte altre anime semplicemente attraverso la loro capacità mimica, che è accresciuta esponenzialmente in quanto riconosciute come copia mimetica, nella quale vivono una vita inquieta. Parlare del continuum della vita trova la sua giustificazione nella più sorprendente economia mimetica; tanto la mimesis viene soppressa, durante la trasformazione di una cosa in un’altra, quanto più emergerà da qualche altra parte. Addirittura il prezzo da pagare sarà duplicato. Questo è quello che ci chiedono le immagini e così facendo, invocano la capitalizzazione. Perché così come il mondo è stato assoggettato al principio dell’identità e sempre di più le persone e le cose sono state appuntate con degli spilli come le farfalle in una griglia tassonomica attraverso dei concetti, il razionale della nuova razionalità venne a essere l’irrazionale del principio astratto di scambio, nel quale il prezzo è sempre raddoppiato; in sé una parodia carnevalesca del discorso della verità che ne fissa la regola. Questo è il motivo per cui i pirati nei primi eroici tempi del capitalismo e nello scontro coloniale fecero dei pappagalli le loro mascotte preferite. Il loro “primitivismo”, comunque, fu più moderno tra quelli che seguirono, perché l’ultima cosa da “scoprire” nuovamente era allo stesso tempo la più ovvia, vale a dire che il controllo delle copie era controllo della trasformazione e che questo era origine del potere che ogni mago avrebbe cercato. I grandi stregoni dell’immagine nel moderno ventesimo secolo scoprirono nuovamente che cosa un pirata, grazie al suo pappagallo, era sicuro di mettere in pratica, cioè che l’uno può essere contemporaneamente molti, e come questo molteplice potesse non essere contenuto. L’identità dei pirati è una farsa dell’identità, un mostro, che conferma la regola per cui il bando delle copie porta solo al loro ritorno con volti e mezzi più possenti, grandi e orribili, proprio come l’inconscio. L’immagine totemica, invisa ai mostri di una mimesis simultaneamente repressa e liberata, prodotta dalla moderna economia della stessa (basti pensare all’invasione delle copie-mostro che popolano l’immaginario del cinema), è una scelta ecologica. Io sono me stesso e pappagallo allo stesso tempo. Appartengo al presente come al passato. E’ questa “magia” di una non-mostruosa non-identità che in prima istanza rende “funzionanti” le immagini tecnicamente riproducibili. Questa è effettivamente una concezione differente dell’anima, che presuppone l’“anima”come il mezzo dei mezzi, in maniera abbastanza semplice sebbene miracolosa, un dispositivo viaggiante. Le anime non solo viaggiano orizzontalmente – cioè tra umani e da umani ad animali – ma anche verticalmente attraverso le generazioni e la
linea che separa la vita dalla non-vita. L’anima non è quasi mai morta, piuttosto ha esperienza di stati di indifferenza nei quali è completamente negativa, in modo da essere simile: non a qualcosa, solo simile ed è da questo potere di negatività (dall’essere-negativo) che sgorga la differenziazione della vita. Questo rende, in primo luogo, il viaggio molto importante, una necessità ecologica (come quella dei culti della fertilità che erano additati dall’Inquisizione come i voli delle streghe verso Satana), distante dai viaggi allucinatori nei percorsi di trasformazione dei giorni moderni, come nella catarsi delirante di Cuore di tenebra (Joseph Conrad, Heart of Darkness, 1902). E’ sorprendente come le immagini si comportino da anime, ancora una volta, senza mai essere identiche. Ciò che emerge nella loro differenza è storia, in cui risiedono tutte le differenze. Sullo sfondo descritto qua sopra, considero le immagini dei pappagalli e della scimmia come immagini dell’anima, che indirizzano niente meno che la relazione tra anime e immagini all’interno e attraverso il medium della fotografia. Naturalmente non sono identiche, non sono anime e non hanno nemmeno una relazione di verità di rappresentazione o significante con le anime. Ma questo è il punto, è nella differenza tra anima e immagine che l’altra storia della fotografia, o altra storia della mimesis si confronta. Questo mi porta al prossimo tipo di fotografia presente in Under the Volcano, il gufo di notte. E’ il padrone delle tenebre, di quell’essere negativo, essere simile. Il suo è un viaggio, un volo notturno attraverso le forme. Il gioco della costruzione delle immagini sta qui nel fatto che di notte non vediamo niente, che è il motivo per cui le cose possono cambiare forma, e le anime possono migrare e viaggiare da un vascello all’altro senza essere pietrificate da un raggio di luce o dallo sguardo di Medusa. Ma ora nemmeno questo è vero, naturalmente vediamo abbastanza, e per quanto possibile sempre di più, nel momento in cui ci abbandoniamo alla compulsione di differenziare. In queste immagini notturne può essere scorta un’altra storia del mimetico, che interroga la “primitivistica” tavola razionale di non-identità presentata sopra. Questa è la storia di quello che Walter Benjamin ha chiamato somiglianze immateriali. Non vuol dire che tutte le mimesi, tutti i viaggi dell’anima sopracitati siano esclusivamente immateriali, se comprendiamo che questa è la forma contraria dell’astrazione, alla quale personalmente non credo. Ma il punto per Benjamin è che il linguaggio stesso deriva dall’esperire somiglianze immateriali, soprattutto in quei segnali mimetici che vengono dalle stelle, sempre a metà tra astrazione e forma morfologica. Le immagini delle stelle aprono ancora un altro universo all’interno dell’altra storia: le meccaniche e gli organi delle immagini nella profondità mimetica dello spazio. E non ultimo il pappagallo, imita linguaggi estinti. Quello che queste immagini fanno è superare l’intimità della fotografia con la morte. La fotografia era così in confidenza con la morte perché il milieu in cui era nata non la percepiva come nuovo sistema di trasporto delle anime viaggianti – o piuttosto, lo avrebbe potuto fare solo usando il termine fantasma. Non meno importante, le immagini fotografiche viaggiano attraverso spazio e tempo proprio come dei fantasmi! Ma questo irreale spazio di morte ha svelato coloro che credevano più nell’immagine che nei loro propri phantasma, ma i fantasmi qui, sono un tipo di fantasia a buon mercato, con cui non si può andare veramente lontano. Il giardino della morte cessa di essere tale solo quando non è più contenuto o controllato da una nebbia di forme grossolane. Quello che resta è il continuum della vita, sia in forma orizzontale che verticale. Quindi smette del tutto di riguardare la morte. Non è più la morte che ci guarda attraverso il punctum, quella sorgente mitica da cui tutti i B-movie sembrano attingere. Non morto, non morte, ma anche non essere nel senso in cui siamo arrivati a pensarlo, come un’identità presente a se stessa. Il meglio della fotografia ha una vera missione civilizzatrice, se solo questa parola non fosse stata completamente abusata. Un nuovo sistema pubblico di trasporto. Questo ci porta anche in un tempo profondo, ancora su un altro piano verticale: la profondità della geologia. I fossili sono una parodia di una forma moderna e metaforica della dittatura dello spettatore che deriva il suo potere iconico dal reprimere il proprio carattere simbolico, il suo essere una cifra, e invece ipnotizza con i mezzi della fede. Questo è il piacere che proviamo guardando i fossili, come le ossa del dinosauro e altre tracce di vita ormai estinta. Non c’è
spettacolo migliore che l’estinzione di una specie. Per il sopravvissuto ambiente sociale in cui la fotografia è nata, questo risulta ancora valido. Solo di fronte all’estinzione lo sguardo moderno può cominciare un nuovo viaggio allucinante, cioè, iniziare a concepire le somiglianze assolutamente immateriali ed immaginare non solo sintomi, ma la reale possibilità dell’altra forma: lo sguardo morfologico. Questa è l’immaginazione geologica, il suo delirio che risveglia sogni di tribù e regni inabissati, attraverso i quali, il più estremo passato e il più lontano futuro, diventano ancora una volta la stessa cosa. E’ quello che accade, come dice il fotografo, quando le immagini diventano autonome. E’ questo ciò che vogliono? Sembrano chiedere complicità nella creazione di mondi. La loro è soprattutto un’abilità ad attraversare il piano verticale, dai sedimenti più profondi alle forme più complesse. Proprio come lo scimpanzè e il pappagallo – qualcuno dice che siano gli unici nello spettro mimetico con i quali il processo di mimesis non fa passi indietro nella scala della vita, da organico a inorganico al pietrificato, forma geologica. Questo significa anche che tutte le copie sconfitte possono rialzarsi o, come ha annunciato Abel Gance per il suo medium, il cinema riporterà tutte le anime nuovamente in vita.
CULT OF THE DEAD, THE SPIRIT OF PARROTS AND THE SOUL Anselm Franke Under the Volcano is itself the ‘other story’. A different story of photography as the modern modality of image-making. Lets begin with the parrots and the monkey. Stuffed and recreated in an image. The photo of those “images” doubles the image once more – it mimics the becoming an-image-by-crossing-the-line-to-non-life.There is something slightly odd or inappropriate about the directness of that duplication – image of an image –, which renders the photos almost a parody. This comical dimension is brought to the fore by a third doubling, the one which concerns “us”, as viewers, since we cannot but follow the compulsion to play that game of difference versus identity, and that means, we cannot but explore a picture as a mirror, as well as probe in the face of pictures the compulsion to become different. But what looks back at us from those pictures? The double, the undead death! A parody of control-through-death, that customary form since the egyptians’ obsession with mummies and the greeks’ obsession with images of stone. The death it takes to separate something from the continuum of life. That longing for transcending death by mastering the continuum of life, mastering death. But here it comes to life again as that notorious specter of the double, the self-same but different. But this is not only about the double as a mirror that has become autonomous. Parrots and monkey do not quite behave as they should once dead. This is about the life of copies. And parrot and monkey surely scare about us humans, but also they don’t care too much. Because there are so many other copies they care about! Again, like with the double, we need to dwell with a superstition, this time the one that has it that photography as a form of modern magic is stealing the soul. The real superstition in that superstition may well be about the idea that one possesses one’s soul in the first place, and that it can consequently be stolen. It is a belief of those that believe that others should believe in it, while it is manufactured on a very particular phantasy, namely of the devil who does ‘steal’ souls. What is important, however, is the equation image=soul. That equation needs to be though as a real, but productive paradox, since also the opposite holds true: image≠soul. That means it is never quite what it is. This form of mimesis is less familiar in the familiar story of the image in the West. It has sought to exorcise the magic of mimesis from pictures by way of pushing it as close as possible to ‘truth’. The image in modernity, seen from this point of view, is the site of schizophrenia: all or nothing, either totally truth or totally illusion and lie. Perfected likeness: a ‘true’ image, a signifier, identity. But a rest remains, an always-deceptive rest, a spark of doubt which can alight the whole image and its always overpowering ambiguity, thus always capable of turning truth and lie around, shifting to the other side of the formula. Image=soul=image≠soul, corresponding to image=truth=image≠illusion/lie. This is of course a religious scenario scripting a worldly drama. However, the drama should not concern us here, but how photography itself is a product of this paradox. But for that, we need to think into the pictures people again – the third step in the serie of mirroring. The formula above has to do, for instance, with the problem of physiognomics, of reading into the landscape of faces the soul, as presence, not as representation, irreconcilable with the doctrine, for instance, that has it that we shall not judge books by the cover. But it has to do even more with the relation between image, self and the soul. The self is in possession of its soul when it is in possession of its own image, we are proune to believe. But how is that ever possible, we may naively ask? Is it not a phantasma of control that denies the image its very right to exist? Isn’t an image always that which is in-between, never just on one side? Do they not have a will of their own? The self-possessing self of modernity, in thus denying the image by wanting to possess it, denies itself. And that self-denial is exactly why a self is morally obliged to know of itself in the first place: so it can transform itself. A paradoxical knot, just as the relation between interiority and
exteriority in the relation between image and soul, where one depends on the other but are mutually exclusive. The constitution of the self in the denial by which the self is opened to transformation – that is the formula Foucault gave to Christian technologies of the self. The modern subject, Foucault says, is a product not primarily of a secularization but of a christianization-in-depth. That in-depth-christianization makes the soul itself a matter of believe, rather then a worldly experience of relationality. The soul had to become the self-same, and once the self-same was established as the principle of the subject’s truth, the soul itself as a religious concept could be abandoned, without ever touching the religious core of its remainder, the self. Longing for, even obliged to transform itself, the modern subject is forced into a unity that withholds it from the very transformation it seeks. It cannot let its soul be other then itself, and it has to know all about it, but that unity and knowledge lack empirical base and puts itself out of touch with the reality not least of what images do in the world, therefore, it must necessary be an act of belief. The photos of the monkey and parrots mock this relation to images, this double bind.They are restless images, although all of them speaks of death. But that death is a phantasma, images never operate on anything but a continuum of life, and if the phantasma doesn’t introduce borders by means of decrete and dogma, souls do not stay at their ascribed place, they migrate and split, and come together again beyond the borders of time and space. Migratory souls, however, weren’t much to the liking of the shepherds of the church and the engineers of modern subjectivity that they authorized. How do those souls travel anyway? Of course, by means of copies, through images. The image of the monkey and parrot, the mimicking animals, are images of traveling souls. They seem to attract so many other souls simply by means of their mimetic prowess, which has exponentially grown by them being fixed in a mimetic copy, inside which they live on a restless life. To speak of a continuum of life is only justified by that most surprising mimetic economy; that if you suppress mimesis, by means of which one thing becomes something else, it will raise somewhere else. The price even need to be payed double. That is what these images ask from us. In so doing, they invoke capitalization. Because as the world was subjected to the identity principle and increasingly people and things got pinned down with concepts as little needles at their places like butterflies in a taxonomic grid, the rationale of the new rationality was the irrationality of the abstract exchange principle, in which one always has to pay double as well, and which in itself already makes a carnivalistic mockery of the truth-discourse that anchors its rule. This is perhaps why pirates in the those heroic early days of capitalism and the colonial encounter made parrots into their preferred mascot. Their ‘primitivism’, however, was more modern then any that followed, because the latter needed to ‘discover’ again what was all the time the most obvious, that the control of copies was control over transformation, and that this was the source of a power that every magician would seek. The great sorcerers of the image in the modern 20th century thus discovered again what a pirate, by means of his parrot, was sure to practice, namely that one can be many at once, and that this multiplicity can impossibly ever contained.The pirates identity is a mockery of identity, a monster, confirming the rule that the banishment of copies only leads to them firing back with greater, mightier, more horrible faces and means, just like the unconscious. The totemistic image, contrary to the monsters of a simultaneously repressed-and-unleashed mimesis produced by the modern economy of mimesis (one needs to think only of the invasion of monster-copies that populate the imaginary of cinema), is an ecological choice. “I” am myself and a parrot at the same time. I am present and yet I am also of the past. It is this “magic” of a non-monstreous non-identity that is what makes technologically reproduced images “work” in the first place. This, to be sure, is a different conception of the soul, one that knows “the soul” a the medium of mediums, quite simply and however miraculous, a traveling device. Not only do souls travel horizontally – that is, between humans and humans or animals –, but vertically as well, across generations, and across the line that separates life from non-life. The soul is never quite “dead”, rather, it experiences states of indifference in which it is wholly negative, that is, in the manner of being-similar: not similar-to-anything,-just-similar and it is from that power of negativity (from being-negative) that the differentiation of life springs of. That makes travel so important in the first place, an ecological necessity (like with the fertility cults that were branded as witch-flights to Satan by the inquisition), rather different from the travel-as-tripping in modern day transformative journeys, such as the delirious catharsis in Heart of Darkness.
It is surpising how much images behave like souls, and yet, they are never identical. What emerges in their difference is history, that is, not less then all differences. On the background sketched out above, I suggest the pictures of the parrots and the monkey are pictures of souls, which address nothing less then the relation between souls and images in and through the medium of photography. Of course they are not identical, they are not souls, nor do they have a truthful representational or signifying relation to souls. But that is the point. It is in the difference between “soul” and “image” that the other story of photography, that other history of mimesis dwells. Which brings me to the next “type” of photograph in Under the Volcano, the owl at night. The owl is the master of darkness, of that being-negative, being similar. Hers is a trip, a night-flight through forms. The pun of making images of that is of course that at night we see nothing, which is why things can change form, and souls can migrate and travel from one vessel to another without being frozen in a cone of light or petrified by Medusa’s gaze. But then, that is also not true, and of course we see quite a lot, and possibly always more, as we give in to the compulsion to differentiate. In those night pictures may yet be found another story of the mimetic, which questions the ‘primitivistic’ counterrationale of non-identity presented above. This is the story of what Walter Benjamin has referred to as non-sensuous similarities. This is not to say that all mimesis, all soul-travel mentioned before is but exclusively sensuous, if we understand that this is the opposite from abstraction, which I am not to believe. But Benjamin’s point is that language itself is derived from sensing non-sensuous similarities, above all those mimetic signals that derive from the stars, always between abstraction and morphological form.The pictures of stars, then, open yet another universe within the other story, the mechanics and organs of images in the mimetic depth of space. And the parrot, not last, mimics extinct languages. What those pictures do is to outdo photography’s intimacy with death. Photography was so intimate with death because the milieu it was born into could not see it as new transportation system for traveling souls – or, rather, it could do so only in terms of the ghost. Not least, photographic images travel to time and space just like ghosts! But that unreal death-space, discovered those that believed in the image more then into their own phantasma, and the ghosts there, are a cheap kind of fantasy, with which one cannot travel far.The garden of death ceases to be just that when it is no longer contained and controlled by a fog of cheap forms. What is left is the continuum of life in both horizontal and vertical form. So this ceases to be about death at all. It is no longer the dead that look to us through the punctum, that mythical source from which all B-movies seem to offspring. Not dead, not death, but also not being in the sense we have come to think about it, as an identity present to itself. The best of photography has a truly civilizing mission, if that word would not have been so utterly abused. A new public transportation system. This also takes us into deep time, on yet another vertical plane: the depth of geology.They too are a mockery of a form of metaphoric modern spectatorship which derives its iconic power from repressing its own metaphoric character, its own being as a cipher, and instead hypnotizes by means of believe. That is the pleasure we have in looking at fossils, such as the bones of dinosaurs, and other traces of extinct life. There isn’t a greater spectacle then the extinction of a kind. For the undead milieu photography was born into, this holds still true. Only in the face of extinction can the modern gaze start to tripping again, that is, begin to conceive of non-sensuous similarities at all, and imagine not merely of symptoms, but the very possibility of the other form, the morphological gaze. That is the geological imagination, the geological delirium, which dreams up tribes, sunken kingdoms, through which the furthest past and the farest future become once again one and the same. This is what happens, as the photographer says, when images become autonomous. Is that also what they want? They seem to ask for complicity in the creation of worlds. Theirs is above all an ability to cross the vertical plane, from the lowest sediments to the most complex form. Just like the ape and the parrot – someone said that they are the only one’s in the mimetic spectrum with whom the process of mimesis does not “take a step backwards” on the ladder of life, from organic to inorganic, to petrified, geological form. That means, also, that all the defeated copies can rise up again, or, as Abel Gance announced for his medium, film, that it will bring all those souls back to life.
UNA CONDIZIONE IN CUI TUTTE LE VOLTE SONO COME LA PRIMA VOLTA Una conversazione tra Rene Gabri (GDR) e Stefano Graziani (SG) Venezia, Gennaio/Marzo 2009 GDR: Nelle nostre precedenti conversazioni, siamo sempre partiti dalla fine e abbiamo guardato avanti. Invece di parlare del lavoro che era stato completato, abbiamo parlato del lavoro che era in preparazione. Questa è una strategia che mi piace, dal momento che rende esplicito il fatto che ogni ricerca in qualche modo pone delle direzioni per il lavoro successivo. Dopo aver detto questo, penso che per cominciare la nostra conversazione possiamo provare con il più semplice inizio possibile per un’intervista d’artista, cioè partire parlando del titolo di questa serie di fotografie e di come ci sei arrivato. SG: Si, sono d’accordo, partiamo dall’inizio e mettiamo l’ordine sottosopra; a questo punto del progetto un’idea possibile per il titolo è Under the Volcano and Other Stories, è un titolo che credo racconti più di quello che sembra. Posso comiciare dicendo che ci sono delle tracce del vulcano in questa serie di fotografie, ma il libro, e più in generale il progetto, non hanno relazioni formali o geografiche dirette con il vulcano. Per me, essere ai piedi del vulcano significa alludere ad una condizione che non ha nulla a che vedere con il luogo in cui ti trovi in uno specifico momento. Ci sono poche fotografie del vulcano perché non ho saputo fare a meno di comprenderle nella serie, sono fotografie di nebbia, fumose, piene di rocce e di zolfo. Qualsiasi cosa le fotografie ci mostrino, sono interessato a pensare ad una condizione che è umana; prossima all’essere in relazione con una presenza costante.Vorrei anche pensare a queste fotografie come una sovrapposizione di visioni e sogni, quindi sono storie che non hanno un inizio o una fine precise, ci sono, in quanto conseguenze di altre condizioni. GDR: Stai pensando a delle condizioni specifiche o si tratta di qualcosa di più generale? SG: Il primo tentativo è chiaramente quello di fuggire dalla geografia, ma non direi di essere interessato alla condizione della fuga. La costruzione del lavoro è stata abbastanza lunga, ha compreso molti momenti, cose, pensieri e condizioni. Sono interessato all’atto di sincronizzazione, a come, di fronte a così tante possibilità possiamo portare tutto ad una condizione di sincronia, o a come simultaneamente possiamo trovarci in uno stato opposto di non-sincronia. GDR: Nella nostra ultima intervista, ti abbiamo lasciato al centro della terra, in una caverna oscura. La tua nuova serie sembra sia iniziata li. Ora ci troviamo assieme a te ai piedi di un vulcano, con altre storie. Parli di una fuga dalla geografia, e continuiamo a trovarti in luoghi che sono normalmente associati con le caratteristiche fisiche del nostro pianeta; puoi spiegare questa asincronia? SG: Si, il titolo e i pensieri che questo può provocare possono sembrare molto vicini ad un’indagine geografica, ma credo che guardando le fotografie si possano prendere direzioni molto diverse. Penso anche che qualsiasi cosa tu percepisca come una forma di sincronia sia un modo per generare domande. Quindi a volte uso oggetti familiari, ma per defamiliarizzarli o dargli un significato diverso. Penso che sia questo il punto dove sincronia e asincronia si sovrappongano, e la sovrapposizione è tra la relazione interna tra le fotografie e la complessità dell’intera sequenza nei confronti dello spettatore, o del lettore…c’è un lavoro al quale penso spesso, che è Der Lauf der Dinge (1987)1, mi piace vedere la consequenzialità e di considerarlo ancora un esempio di quanto imprevedibili possano essere alcune condizioni. GDR: So che non sei interessato a sottolineare la condizione di fuga, ma sono interessato a quest’idea di fuga dalla geografia. Mi piace immaginare un fotografo che portandosi dietro la sua camera inizia a correre, via da quello che potrebbe essere letto come documentazione del mondo, via dal paesaggio, fuori da questi enunciati. Il nostro fotografo, prima di lasciare il paesaggio arriva a due condizioni estreme. Estreme in termini geografici, ma anche estreme in relazione al mondo della sensazione e della percezione. Una grotta. Un Vulcano. Se non ci servono come allusioni geografiche, quale funzione ricoprono in questa serie di fotografie? SG: Forse quello che chiamavo punto debole è proprio questo timore della geografia, l’unico lavoro sul campo è infatti quello che ho fatto nelle grotte e sul vulcano. Queste sono delle parziali allusioni al viaggio di Jules Verne2, che inizia
in Islanda e si conclude a Stromboli. Tutto quello che sta tra questi estremi è ciò che abbiamo chiamato asincronia, il de-locato e l’intoccabile, è il ricordo di un’autocritica della fotografia, il momento del suo distacco concettuale dal reportage, il momento di consapevolezza del linguaggio diventato autonomo.Tutto il resto del lavoro è stato fatto in uno studio, in uno spazio controllato. Penso in questo possa risiedere la distanza dal genere geografico o documentario al quale stai alludendo. GDR: Fermiamoci qui, torniamo all’inizio di questa conversazione e proviamo ad immaginarne un altro. Abbiamo cominciato la nostra precedente intervista con la premessa di una forma di continuità che esiste tra i diversi lavori. Voglio problematizzare questa posizione dal momento che trovo in questa nuova serie di fotografie uno sforzo per rompere con il passato. In che modo diresti questo lavoro sia discontinuo in relazione alla tua precedente serie? SG: Non ci sono nomi e non c’è una vera relazione con alcun personaggio, come lo è stato Carlo Linneo nel mio lavoro precedente3. Non c’è necessità di mostrare alcun oggetto rappresentato. Ho viaggiato solo in poche occasioni per fare le fotografie. Ma attraverso questo lavoro mi sono interessato molto di più al mito. Citando l’introduzione scritta da Cesare Pavese nella prima edizione de I Dialoghi con Leucò4 del 1947, “Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso”. GDR: Pensi che questa collezione di immagini possa offrire in qualche modo una via di uscita a ciò che Axel, nel romanzo di Jules Verne chiama “nebbia atmosferica”? SG: Mi piace la suggestione della nebbia atmosferica, è come guardarsi attorno con una luce diversa, che può offrire nuove visioni e può rendere nuove cose visibili, nuove strade che potremmo non aver mai intrapreso o visto, questa nebbia può essere un’amnesia temporanea, una condizione in cui tutte le volte sono come la prima volta, dove le cose appaiono e possono essere inaspettate. Mi piace pensare l’intero lavoro come una fantasmagoria, che si sviluppa attraverso apparizioni, un’ampia serie di idee e concetti che ho trovato e qualche volta esplorato. All’inizio sono partito da alcune idee di Darwin, che ha considerato il corallo come possibile diagramma per la sua teoria dell’evoluzione. Mostro la nascita del corallo nella fotografia del dipinto di Giorgio Vasari, Perseo e Andromeda5, dove Perseo innamorato uccide il drago per liberare Andromeda. Il dipinto mostra la testa sanguinante di Medusa, il sangue, toccando alcune piante marine sul bagnasciuga le trasforma in coralli. Una struttura a corallo è qualcosa che ci concede molte derive, permette di partire senza sapere precisamente in quale direzione si stia andando. Penso di aver fatto questo, ho trovato molti pretesti, e testi, che mi hanno permesso di usare alcune fotografie. Ho incluso nel lavoro alcune fotografie di pappagalli imbalsamati, ho iniziato a pensarci perché sono animali parlanti, questa è un’allusione all’incontro di Alexander Von Humboldt in Sud America con dei pappagalli che ripetevano parole che non avevano nulla in comune con la lingua delle persone con cui vivevano. Sebbene la questione di Alexander Von Humboldt era come questo potesse essere accaduto e come trascrivere i fonemi ripetuti, questi mi fanno pensare all’ultima possibilità di pensare o ascoltare qualcosa che andrà perduto per sempre, una condizione che ci mette di fronte ad un linguaggio morto. Alcune fotografie sono più chiaramente in relazione reciproca, un esempio è la fotografia del busto in gesso di una scimmia; immagino che questa scimmia stia pensando e guardando delle costellazioni nel buio del cielo. Questo è lo stesso cielo dove vola il gufo, mi interessa richiamare la sua presenza, è uno Strix, sarà vicino alle fotografie delle stelle, Strix6 è il nome dalla quale deriva l’etimologia della parola strega, è un uccello rapace notturno, ci parla della notte e della magia, il mondo occulto e invisibile che la fotografia non potrebbe mostrare. Alcune fotografie sono punti di transizione, ad esempio potrei dire alcune cose sulle fotografie dei fossili e degli strumenti preistorici. Per me i fossili sono un modo per pensare all’origine e al Diluvio, sono tracce di pietra, appigli verso il passato, sono il deposito più solido che rimane nel setaccio. Rappresentano un’allusione all’origine del culto dei morti, un possibile momento di origine dello spirito e dell’anima. C’è qualcosa in quest’ultimo punto dove risiede quello che penso possa rappresentare la direzione verso cui vorrei dirigere presto la mia attenzione. GDR: Gilles Deleuze, nel suo libro su Francis Bacon, Logica della sensazione7, sviluppa un discorso molto interessante sulla relazione tra pittura e fotografia. Ad un certo punto basandosi sulle stesse affermazioni di Bacon dichiara che la fotografia non è una figurazione di qualcosa che qualcuno vede, ma è ciò che l’“uomo moderno” vede. Il lavoro dell’artista diventa un atto di sottrazione, un prelevamento da tutti i cliché, tutti i modi predeterminati di percepire ed accedere al mondo. Qui, in questa serie di fotografie (che allude a diversi generi che includono il
paesaggio, il ritratto e la natura morta) ritorniamo nella “nebbia atmosferica” in cui Axel, nel romanzo di Jules Verne si ritrova, tentando di fuggirne. Ma questa nebbia è un rifugio temporaneo dalla logica dominante e condivisa sulla distribuzione del nostro mondo sensibile. Ci rimanda secondo percorsi diversi alla nebbia dell’evento, dalla quale possiamo trovare diversi percorsi non intrapresi. Spetta ad ognuno di noi trovare quello che chiami sincronia, quello che potrei semplicemente chiamare via d’uscita. Se posso tornare sul tuo utilizzo della parola condizione vorrei citare l’introduzione al libro di Hannah Arendt, La condizione umana, scritta da Margaret Canovan, nella quale scrive: Le considerazioni di Hannah Arendt sulla condizione umana ci ricordano che gli esseri umani sono creature che compiono azioni nel senso di iniziare delle cose ed innescare da queste una serie di contrattempi. Questo è qualcosa che continuiamo a fare, sia che ne comprendiamo le implicazioni o meno, con il risultato che sia il mondo sia lo stesso pianeta terra sono stati devastati dalle nostre catastrofi auto inflitte8. Ad esempio il corallo ci mostra una concettualizzazione completamente differente di diagramma rizomatico che Darwin ha considerato per la sua teoria dell’evoluzione e che ha più tardi abbandonato per un modello ad albero con presumibili caratteristiche divinamente attribuibili. Le immagini della cartografia lunare, che sono il risultato di una sovrapposizione di fotografie e disegni rappresentano un momento di incontro e simbiosi, nel quale l’uomo non è sopraffatto dalla tecnologia, ma soltanto aiutato da questa nel costruire la rappresentazione del mondo e la presentazione delle immagini al mondo. Un momento in cui non si poteva fare a meno dell’immaginazione e dell’intervento tattile dell’uomo. Siamo riportati all’interno della caverna, siamo nuovamente prigionieri incatenati di Platone, forzati ad attribuire forma alle ombre che vediamo, forzati a ripensare al momento in cui siamo liberati dalle catene ed emergiamo dalla grotta per capire che le ombre non sono la realtà. In questa serie di fotografie siamo sfidati a riscoprire, tra i relitti dell’investigazione scientifica, i resti che attestano il tentativo di costruire una conclusione realistica del mondo, un momento di dubbio, di meraviglia, di fantasmi, sogni, e strani accadimenti. Questi artefatti di ricerca e pensiero, tolti dal loro contesto, sono piazzati nuovamente nell’aperto, uno spazio indeterminato costituito da forme, le quali ci appaiono come ombre di quello che sono stati – un mondo per come è. Un mondo nel quale forme e sensazioni non possono essere facilmente separate, ma certamente agiscono l’una sull’altra, si incontrano al loro limite, al tempo di forzarci ad attraversare “la misura del linguaggio”, a pensare, nominare, trovare una vocazione che risponda al nostro essere chiamati, fuori dalla caverna, qui, verso l’aperto, l’essere-nel-mondo. Note
Peter Fischli, David Weiss, Der Lauf Der Dinge (The way things go), T&C film ag, Zurich, 1987, 30 min. Jules Verne, Viaggio al centro della terra, Mondadori, Milano, 2005. 3 Stefano Graziani, Taxonomies, a+m bookstore edizioni, Milano, 2006. 4 Cesare Pavese, I dialoghi con Leucò, Einaudi, prima edizione, Torino, 1947. 5 La fotografia del dipinto di Giorgio Vasari, Perseo e Andromeda, olio su lavagna, Museo di Palazzo Vecchio, Studiolo di Francesco I, Firenze. 6 “Strigx; strige, barbagianni che per alcuni vuolsi etimologicamente collegato a stridere e secondo i più tiene a una radice STAR, col senso di emettere gridi, dalla quale pare discenda il nome di diversi uccelli.” Manlio Cortelazzo, Paolo Zolli, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli, Bologna, 1999. 7 Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata, 1995. 8 Hannah Arendt, The human condition, University of Chicago Press, Chicago, 1958, p. 8. 1 2
A CONDITION IN WHICH EVERY TIME IS LIKE THE FIRST TIME A conversation between Rene Gabri (GDR) and Stefano Graziani (SG) Venice, January/March 2009 GDR: In our previous conversations, we had constantly been starting at the rear and looking ahead. Instead of speaking about the work that had been completed, talking about the work to come. I like this strategy, since it renders explicit the fact that each work or research in some way sets a course for the next work. Having said this, I thought that as a beginning for this conversation, we could try the simplest of artist interview genres, which is to begin by talking about the title for this series and how you arrived to it? SG: Yes, I agree. Let’s start from the beginning and turn the order right side up. At this point of the project, a possible idea for a title is Under the Volcano and Other Stories. It’s a title which tells more than it appears to. Well, to start, there is a trace of the volcano in the series of photographs, but the book and the project in general have no formal or geographic relation to it. For me, “under the volcano” evokes a condition that has nothing to do with the place you find yourself in at any specific moment. There are a few pictures pertaining to the volcano, which I could not avoid inserting. They are foggy, smoky and full of rocks and sulphur. But whatever subjects the photographs represent, I’m interested in the human condition – something close to being in relation to a constant presence which always remains. I would also like to think of these photographs as a series of overlapping dreams and visions. So the stories don’t have a precise beginning or ending. They exist as a consequence of some other conditions. GDR: Are you thinking of a specific set of conditions or something more general? SG: The first attempt is clearly to escape from geography, but I wouldn’t say that I’m interested in the condition of escaping from something. The development of the work has been rather long, involving many moments, things, thoughts and conditions. I’m interested in the act of synchronizing, and in how when faced with so many possibilities we synchronize them, or how we find ourselves simultaneously in a state of non-synchrony with them. GDR: In our last interview, we left you in the center of the world, inside a dark cave. And your new series seems to have started there. And now we find ourselves with you at the foot of a volcano with other stories.You talk about an escape from geography, yet we keep finding you in locations which are normally associated with wonder and interest in the physical features of this earth. Can you explain this asynchrony? SG: Yes.The title and the thoughts it provokes may seem very closely related to geographical survey studies, but I think that one can be lead by the photographs in many different directions. I also believe that whatever one perceives as a kind of asynchrony is a means of generating questions. So I sometimes use familiar things, but I try to de-familiarize them or give them a different meaning. I guess it is here where synchrony and asynchrony overlap, and this overlapping occurs through the inner connection amongst the photographs and the complexity of the whole sequence with relation to the spectator, or the reader… There’s one piece I always think about – Der Lauf der Dinge1, I like to read consequentiality in it and yet I keep it as an example of how unpredictable some conditions can be. GDR: I know you are not interested in foregrounding the condition of escape, but I am interested in this idea of escaping geography. I like the image of a photographer who packs up his old camera and begins to run, away from what could be read as documenting the world, away from the landscape, out of the frame. And our photographer, before leaving this landscape arrives at two extreme situations. Extreme in geographical terms, but also extreme in the relation to the world of sensation and perception. A cave. A volcano. If they do not serve as geographical referents, what function do they serve in this series of photos? SG: Maybe what I was calling the weak point is precisely this fear of geography. In fact, the only field work I’ve done is in caves and at the foot of the volcano. The cave and the volcano are partial allusions to Jules Verne’s journey2, which started in Iceland and ended in Stromboli. Everything that lies in between these two extremes is what we’ve called asynchrony. It is the unlocatable and untouchable part. It is a reminder of a self-critique of photography – the moment of the conceptual separation from reportage, the moment of awareness of the language becoming autonomous.
Everything has been done in a studio, in a controlled space. I think this is the basic distinction from the documentary or geographical genre you’re alluding to. GDR: Let’s press stop. Let’s go back to the start of this interview and imagine another beginning. We started our previous interviews with the premise of a kind of continuity, which exists between works. I want to problematize this position, since I find in this new series of works a kind of effort to also break with the past. In what ways would you say this new work is discontinuous to your previous series? SG: There are no names and there is no real connection to any particular person, like with Carolus Linneus in the past work3. There is no need to show any particular represented object. Only on a few occasions did I travel to take the photographs. Also, through this work, I became more interested in myth. Quoting Cesare Pavese’s introduction in the first edition of I dialoghi con Leucò4 in 1947, “He momentarily stopped believing that his totem and taboo, his savages, spirits of the vegetation, ritual murder, mythical sphere and the cult of the dead were useless peculiarities, and he wished to find in these the secret of something that everyone recalls and somewhat tiredly admires, yawning a smile”. GDR: Do you think this collection of images in some way offers us a way out of what Jules Verne’s Axel called “the atmospheric fog” we seem to find ourselves in? SG: I like this suggestion of the atmospheric fog. It’s like looking about under a different lighting condition, which can offer a new vision and make other things visible. We can see in ways that we may have never looked or even seen before.That fog can be a temporary amnesia – a condition in which every time is like the first time, where things appear and are unexpected. I like to think of the whole work as a phantasmagoria, that is, something that develops through apparitions – a wide range of ideas and concepts that I found and only I sometimes explored. In the very beginning, I was inspired by Darwin’s idea of coral as a possible diagram for his theory of evolution. I show the birth of coral in the photograph of Giorgio Vasaris’s painting Perseus and Andromeda5, where an enamoured Perseus kills the dragon in order to free Andromeda. The painting shows the bleeding head of the Medusa. The blood touches some sea plants on the shore, transforming them into coral. A coral structure is something which offers many possibilities, permitting dérives, or drifting. I guess I’ve done just that. I’ve found many pretexts and texts which allowed me to use photography. For example, I have included some photographs of embalmed parrots in the project. I started thinking about parrots because they are talking animals. It’s an allusion to Alexander Von Humboldt’s South America encounter with parrots repeating words which had nothing to do with the language used by the people they were living with. Although Alexander Von Humboldt’s question was how this could have happened and how to transcribe the repeated phonemes, it makes me think of the last possibility to think or listen to something which will soon be for ever lost – a condition that makes us face a dead language. Some of the photographs are more directly in play with one another. One example is the photograph of a plaster bust of a monkey. I imagine this monkey to be contemplating some constellations in the darkness of the sky.This is the same black sky where the owl flies. I like to recall the presence of the owl. It is a Strix and will be near the photographs of the stars. Strix is the name from which the Italian word for witch, strega, derives. It is a nocturnal predatory bird, thus it evokes night and wizards, thus the invisible and occult world photography is not supposed to be able to show. Some of the photos are transition points. As an example, I could say something about the photographs of the fossils and the prehistoric tools. For me, fossils are a way to think about the origin and of the great flood.They are stone traces and links to the past.They are the hardest deposits remaining in the sieve.They represent for me an allusion to the beginning of the cult of the dead, a possible moment of origin of the spirit and the soul. There is something here that I believe could represent the direction in which I would like to lead my attention next. GDR: In Gilles Deleuze’s book on Francis Bacon, the Logic of Sensation6, he develops a very interesting discourse on the relation between painting and photography. At one point, he builds off of Bacon’s own statement that the photograph is not a figuration of what one sees, but it is what ‘modern man’ sees. The work of the artist becomes an act of subtraction, of a withdrawal from all the clichés, all the pre-conceived modes of perceiving and accessing the world. Here, in this series of photos (which allude to different genres including landscape, portraiture, and still life) we return to “the atmospheric fog” that Jules Verne’s Axel found himself attempting to flee. But this fog acts as a temporary refuge from the prevailing logic and agreed upon distribution of our sensible
world. It returns us in different ways to the fog of the event, from which we may discover the many paths not taken. And it remains up to each of us to find what you call synchrony, and what I might simply call our way out. If I may return to your use of the word condition, I would like to cite the English introduction to Hannah Arendt’s The Human Condition, written by Margaret Canovan in which she writes: Arendt’s account of the human condition reminds us that human beings are creatures who act in the sense of starting things and setting off trains of events. This is something we go on doing whether we understand the implications or not, with the result that both the human world and the earth itself have been devastated by our self-inflicted catastrophes7. For instance, the coral stands in for a completely different conceptualization and rhizomatic diagram of evolution, which Darwin pursued and then later abandoned presumably for more divinely attributable arboreal root model. The images of lunar cartography, which are composed of a mixture of drawing and photography, stand in for a moment of encounter and symbiosis, in which man is not overcome by technology, only aided in constructing, in figuring (out), giving (image to) the world. A moment which still could not do without the imagination and tactile intervention of humans. We are brought back inside the cave, we are once again Plato’s caged prisoners, forced to ascribe forms to the shadows we see, forced to rethink the moment in which we are freed from the chains and emerge from the cave to understand that the shadows were not reality. In this series of photographs, we are challenged to rediscover within the relics of scientific investigation, within these remnants attesting to the attempt to construct a realist account of the world, a moment of doubt, of wonder, of phantasms, dreams, and strange wonders. These artifacts of thought and research, taken out of their context, are placed back into the open, an indeterminate place constituted by forms, which themselves appear to us as shadows of what they once were – a world such as it is. A world in which forms and sensation cannot be so easily separated, but indeed act upon one another, meet at their limit, at times forcing us to traverse ‘the measure of language’, to think, to name, to find a vocation befitting our being called, out of the cave, here, toward, the open, the being-in-the-world. Notes
Peter Fischli, David Weiss, Der Lauf Der Dinge (The way things go), T&C film ag, Zurich, 1987, 30 min. Jules Verne, Journey to the Center of the Earth, Penguin Classics, 2007. 3 Stefano Graziani, Taxonomies, a+m bookstore edizioni, Milano, 2006. 4 Cesare Pavese, I dialoghi con Leucò, First edition Einaudi, Turin, 1947. Translation: Dialogues with Leucò, translated by William Arrowsmith and D.S. Carne-Ross, London: Peter Owen, 1965, Ann Arbor: Eridanos Press, 1965. 5 Photograph of the painting Perseo e Andromeda, Giorgio Vasari, Museo di Palazzo Vecchio, Studiolo di Francesco I, Firenze. 6 Francis Bacon:The Logic of Sensation, by Gilles Deleuze; Translated by Daniel W. Smith, University of Minnesota Press, Minneapolis, MN, 2003. 7 Hannah Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago, 1958, p. 8. 1 2
VIAGGIO NEL MAGMA DELL’ORIGINARIO Arturo Carlo Quintavalle Ha ragione Stefano Graziani, ci siamo visti per poco tempo, neppure due ore, nel mio studio in fase di smontaggio per via di un trasloco. Io ho appena scorso le foto del libro Taxonomies1, che mi sono sembrate di grande interesse, e poi sono passato alle immagini di questa raccolta, Sotto il Vulcano, che pure mi hanno colpito. Certo, ho cominciato a chiedere spiegazioni, e sono quelle che lo stesso Graziani propone nella bella intervista di Rene Gabri pubblicata su queste stesse pagine e, indirettamente, anche nell’altra, sempre dello stesso Gabri, stampata come appendice a Taxonomies. Parlando con Graziani ho provato a suggerire qualche riferimento storico per le immagini, ma lui non mi sembrava molto persuaso; ciascuno di noi ha il proprio modo di approccio all’arte, io parto dalla tradizione delle immagini, leggo le differenze, cerco di capire i significati diversi, perchè tutti viviamo all’interno di un sistema di conoscenze, di memorie, di tracce, e queste memorie, tracce, questo sistema ci danno la chiave per leggere il presente. Ci siamo lasciati con un accordo, se io riuscivo a costruire il testo in un tempo breve e, credo fosse evidente, se a Graziani il testo fosse parso adeguato, lo si sarebbe pubblicato. Se leggerete queste pagine, saprete la fine della storia. Certo, avrei potuto fare a meno di questa introduzione ma mi è sembrata necessaria per fare capire le coincidenze, che sono molte, e le differenze, che pure vi sono, fra questo e gli altri testi qui pubblicati e che ho letto in bozze. E la chiave è forse proprio in una parola, sistema. Una parola che potrebbe dare il titolo alle due ricerche di Graziani, la prima Taxonomies, e questa ultima. Poche notizie: per ambedue le ricerche Graziani ha lavorato alcuni anni, tre per la prima, forse altrettanti per questa ultima. La prima contava in origine 120 fotografie, ma nel volume di accompagnamento della mostra se ne sono stampate solo venti; inoltre, nel catalogo, non vi sono didascalie ma, in un inserto a parte, le immagini del libro sono riprodotte in piccolo e in bianco e nero; in basso si scrive dove queste immagini sono state scattate. Dunque nel volume non vi è la numerazione delle pagine e forse, anche in questo caso, Graziani ha voluto dirci qualcosa, che ogni immagine è prima, o ultima se si preferisce, ma comunque da percepire come isolata, e insieme come parte di una serie. Nelle interviste, nelle indicazioni che Graziani propone, la parola tassonomia ritorna di frequente, è dunque il suo problema la classificazione, quella di Linneo ci dice, e del suo mito di ricostruire una flora dei climi caldi, dei tropici per esempio, nello spazio di una fredda Svezia, fidando nella acclimatazione, oltre che nelle serre; insomma Linneo voleva concentrare in pochi decenni un processo che forse la natura compie in milioni di anni. Ecco, ricordiamo questo se vogliamo capire il lavoro di Graziani. Ma restiamo al modo di fotografare prima di considerare altri precedenti, forse anche mitici, ma che devono avere fatto parte della iconologia, della tradizione di immagine che Graziani si porta dentro, lui che di storia delle immagini e della fotografia è ben consapevole, la insegna infatti alla Università di Trieste. Dunque la tecnica. Prima di tutto Graziani usa negativi di grande formato a colori e usa il metodo analogico, non quello recente, digitale; certo, mi dice che anche col digitale si possono ottenere ottimi risultati, ma lo scegliere il metodo analogico e un negativo di formato medio, 10x12, impone alcuni fatti: una macchina fotografica di qualche peso, montata su treppiede, e dunque una lunga riflessione, una lunga meditazione prima e durante, e anche dopo le riprese. Ricordo che Walker Evans, nelle sue ricerche degli anni ’30 per la Farm Security Administration americana, usava, lui solo, mentre gli altri fotografi, da Ben Shahn a Dorothea Lange scattavano sempre in pellicola 35 mm, lui solo usava lastre di medio formato per le riprese, e le usava in modo nuovo, una sola foto doveva servire a raccontare uno spazio, un mondo, quindi doveva avere una lunga durata. Da Evans nascono gli scatti di Gabriele Basilico per Datar, ma quelli, a loro volta, hanno una tradizione secolare, che va indietro fino alla Mission Héliographique del 1851, quando Baldus e Le Gray, Le Secq e gli altri documentano i monumenti di Francia per conto del governo e sulla base delle idee di Prosper Merimée e dei suoi viaggi, i monumenti del tempo romano e del romanico e del gotico, una foto al giorno, tempi lunghi, in pieno sole allora anche una mezza ora o un’ora di posa. Dunque la fotografia come lunga durata, come meditazione sui luoghi, ha una lunga storia; per questo apprezzo le scelte di Graziani, col quale, un’altra volta, penso parlerò a lungo di tecnica, e di tecnica della luce.
Ma restiamo al primo lavoro, Taxonomies, senza il quale la ricerca più recente non si spiega. Graziani ha detto che le 120 immagini scattate, e le venti pubblicate, dovrebbero convergere in una sola immagine significativa di tutta la ricerca. Il mondo, il sistema del mondo, la tassonomia, diciamo così, che si concentra in una sola figurazione. Ma restiamo a quelle fotografie che sono state riprese nello spazio degli orti botanici, o dei depositi dei musei di storia naturale dove decine di squali ed altri pesci stanno imballati in sacchi di plastica trasparente. La prima cosa che cogli è una messa a fuoco netta, persino ossessiva dei dettagli; scopri un tutto a fuoco, dal primo piano all’ultimo, e scopri dei colori molto controllati, toni verdi, toni bruni quelli dominanti, oppure, in un’altra immagine, vedi una specie di effetto nebbia, polverizzazione dell’acqua, certo quella foto contrasta molto, e volutamente, con le altre nelle quali il taglio della ripresa dello spazio, certo limitato, senza punti di riferimento, fa pensare alla esistenza di una dimensione enorme, dilatata. L’estremamente grande che si concentra nella dimensione piccola, limitata, apparentemente controllabile di un diverso racconto. La chiave per capire questo sistema di luoghi, le serre delle quali intuisce la dimensione dalle griglie delle vetrate in alto, la chiave sono alcune immagini, quella dell’Herbarium di Uppsala in Svezia e quella della Linnean Society a Londra; in tutti e due i casi il fuoco è tagliente, scaffali, libri, e, nella seconda immagine, il busto del botanico; ecco però anche, attraverso i libri, un viaggio ideale, un viaggio possibile attraverso il sapere; libri come catalogo del mondo, dello scibile, biblioteche della memoria ma anche viaggio nello spazio della stanza e degli scaffali, o delle immagini dell’atlante come a suo tempo raccontava Luigi Ghirri. Ma qui tutto è netto, tutto è a fuoco, tutto è raison. L’idea di Ghirri, che muoveva dal surrealismo e dalla ricerca concettuale, quella sua idea che una immagine sia sempre sospesa nel tempo, che dentro una immagine nulla accada se non il racconto che noi vogliamo costruire, mai dunque un racconto realistico, ha avuto in Italia e fuori una lunga storia, diciamo da Vicenzo Castella a Olivo Barbieri, da Franco Ventura allo stesso Gabriele Basilico e a molti altri ancora. Graziani è dunque certo conosce questa rivoluzione degli anni ’70 che è nata ben prima delle sue ricerche, ma, nello stesso tempo, ad essa è estraneo. E mi domando perché. In una vecchia ricerca in bianco e nero, proprio alle origini del suo lavoro, Giovanni Chiaramonte, una ricerca che si intitolava Giardini di Sicilia e che a suo tempo ho anche pubblicato, nel racconto in apparenza proponeva lo stesso tema di questo Taxonomies, un viaggio dentro lo spazio di un hortus conclusus di grande densità e ricchezza. Ma mentre Chiaramonte puntava sulla vitalità, sulla densità, sulla continua crescita del naturale, Graziani sceglie qui una direzione opposta, cerca la immagine bloccata, cerca il – fermo inquadratura – direbbe un cineasta; per lui la durata, il tempo, la esistenza sono messi fra parentesi, sospesi, resi immobili. Anche la vita, quella degli orti botanici infatti è ritagliata come da un libro di illustrazioni botaniche, e non è diversa dalle immagini degli animali impagliati che tornano come leit motiv nella seconda delle sue ricerche. Ma allora che storia ha alle spalle, quale è la iconologia, direbbe lo storico dell’arte, delle immagini della ultima indagine di Graziani, Sotto il Vulcano? In questo caso sono una ottantina di immagini, che in mostra vengono proposte in medio e a volte anche grande formato e che, nel libro, sono accostate in modo significativo. Cominciamo dal titolo: Sotto il Vulcano e Altre Storie, ma che c’entra il vulcano e quali sono le altre storie? Graziani, salvo poche immagini del vulcano, che è Vulcano, scatta foto che sono sempre di reperti, oggetti, che ormai fissati nella loro durata, non figurazioni di immagini viventi ma di bloccate, pietrificate, come le conchiglie fossili, ma anche animali imbalsamati, o ancora fotografie del cielo stellato che Graziani ritaglia in forma tonda, come viste da un antico binocolo, mentre a lui l’osservatorio le ha fornite nel consueto formato rettangolare. E poi sono immagini della luna per un atlante che doveva essere in venti volumi, uno dei quali soltanto pubblicato: le foto, scattate da Johann Nepomuk Krieger nel XIX secolo, sono state ritoccate a mano per rendere leggibili crateri – e mari –; esse sono state utilizzate dagli scienziati fino al tempo, spiega Graziani, dei nuovi telescopi. Cerchiamo dunque di capire che cosa suggerisce il narratore, e non vorrei chiamarlo fotografo. Ecco, come icona della mostra e della ricerca, vediamo un pappagallo impagliato; se uno storico dell’arte volesse interpretare il valore simbolico dell’uccello, e non importa se di questo Graziani sia consapevole, lo proporrebbe come simbolo di sensualità, di piacere, ma certo il fotografo questa idea la ha rimossa, pappagallo dunque nel segno della nature en pose, come i francesi chiamano la natura morta. Nature en pose sono le conchiglie fossili, gli animali imbalsamati, le pietre del vulcano che sta alla fine di un altro viaggio. Ma quale? Graziani muove dal romanzo di Jules Verne Viaggio al centro della terra, dall’Islanda a Stromboli. Ecco, nelle foto vediamo solo immagini delle pietraie, pomici, lave eruttate dal
vulcano, ma riprese da vicino, che coprono tutto lo spazio, non organizzate e articolate nello spazio come nelle opere di Richard Long. Ecco dunque una chiave possibile, il mitico viaggio al centro della terra raccontato da Verne, ma che senso avrà per Graziani tutto questo? Per capire devo fare riferimento, devo raccontare qualcosa che certo sta dentro la memoria del fotografo; sono le immagini del primo Fox Talbot ma anche di Daguerre, anzi si deve dire che attorno al 1839 o poco oltre, e prima forse, nel caso di Fox Talbot, tutti e due fotografano uno scaffale pieno di fossili, pietre e fossili di una collezione. Del resto lo stesso Arago, presentando al parlamento francese nel 1839 la scoperta di Daguerre, il dagherrotipo, elencava fra gli usi possibili della invenzione la documentazione completa dei reperti archeologici, degli edifici quindi, ma anche dei geroglifici egiziani che Napoleone coi suoi disegnatori aveva semplicemente e solo in minima parte fatto riprodurre; a questa documentazione di pietra si aggiungeva anche quella del naturale. Del resto Fox Talbot, nelle sue prime esperienze, aveva fotografato, con negativo di carta come sappiamo, e con stampa a contatto, foglie, piccole ramificazioni, insomma aveva pensato di costruire un herbarium. L’idea di una catalogazione generale nel naturale è quella che caratterizza la tradizione settecentesca e ulteriore, da Linneo a Buffon. Dunque classificazione, dunque ordine, dunque sistema delle regole. Ma è solo questo il senso della ricerca di Graziani? Penso proprio di no. Proviamo a riflettere su qualche altra sua immagine, ad esempio quella che ritorna delle patate2, immagini riprese da angolazioni diverse; Graziani dunque introduce l’immagine delle patate che sembrano evocare la ricerca di Penone e dell’Arte Povera; egli propone altri modelli nel racconto della fotografia, non tutto è pietra, non tutto è imbalsamato, anche il naturale può diventare evento, sospensione della vita, immagine bloccata. La fotografia, e lo hanno teorizzato in tanti, si pone come ogni altra forma di ricerca artistica, fuori del tempo, è un modo per estrapolare dal flusso della esistenza, quello bergsoniano dello elan vital e quindi della conoscenza, un frammento, una esperienza. Ma Roland Barthes giustamente comprendeva che la fotografia è anche e sopra tutto memoria, e rimandi, rinvii ad altre immagini, e quindi, dentro il mitico cassetto della scrivania di casa dove stanno celati i ritratti dei genitori, le vecchie foto di gite e tanti altri racconti perduti, si apre la possibilità di una evocazione nuova, di una nuova trascrizione di senso, come avrebbe detto Sollers. Ma allora come possiamo considerare questo lavoro di Graziani che è consapevolmente all’interno della tradizione delle origini della fotografia, da Daguerre a Fox Talbot e che insieme propone uno spazio della memoria diverso e bloccato, dove tutto, anche le patate, diventano forme fuori del tempo? Torniamo al punto di partenza, il fotografo, che però preferirei chiamare narratore, muove da un viaggio, quello di Jules Verne, che è anche un viaggio dentro la memoria della specie, memoria darwinianamente intesa, e insieme viaggio dentro lo spazio della propria memoria e della propria concezione del mondo. Cerco di riflettere su un’altra e ben nota concezione tassonomica di indagine sul mondo, che in apparenza non ha rapporto con questa di Graziani, penso dunque alla ricerca di August Sander Uomini del XX secolo, un progetto mai finito di documentazione e analisi della società tedesca fra le due guerre, dai militari ai contadini, dai negozianti ai borghesi; qualcosa di molto diverso dalla galleria dei ritratti di Nadar o di Disderi, sistemi egualmente senza fine, nella Parigi della seconda parte dell’800. Ma certo la idea di catalogare il mondo, di catalogare le figure, e di renderle, secondo Sander, rappresentative di intere categorie, somiglia molto a un’altra idea di catalogo, sempre nella tradizione delle immagini, che è quella di Daumier e dei suoi avvocati, delle sue famiglie borghesi, dei suoi protagonisti insomma di una Comédie Humaine per immagini. A Graziani, forse, questi ultimi riferimenti non piaceranno, eppure credo che per lui che ha dimestichezza con la vicenda delle immagini, tutto questo stia nel profondo delle sue consapevolezze; perché insomma cercare di costruire un catalogo del naturale, e dell’uomo quindi, non può non tenere conto delle tradizioni di analisi del mondo come sistema. Ma veniamo al modo di Graziani di concepire l’immagine attraverso questa partenza anch’essa mitica, si badi, dai cataloghi generali, e ancora dalla genealogia delle specie, di tutte le specie fino all’uomo, secondo Darwin, una genealogia dove ontogenesi e filogenesi coincidono. Graziani usa uno schema che non è una metafora, la figura della trasformazione delle specie secondo la forma del corallo, forma complessa, articolata imprevedibile, corallo dunque, non rizoma. Quale che sia l’impostazione che il narratore vuole dare alla sua ricerca, resta il fatto che, per proporre lo spazio del naturale e della sua memoria, Graziani deve utilizzare un non-tempo, o quello delle conchiglie fossili, o quello degli animali impagliati, o quello delle foto di stelle o nebulose lontane bloccate per sempre in uno scatto che a sua volta Graziani riproduce. Le rocce di Vulcano, che sono volutamente sfuocate come a dare loro una dimensione diversa, tracce mobili, in qualche modo viventi, di una trasformazione ignea da magma appunto a rocce, sono una delle possibili chiavi di
lettura, l’altra è naturalmente il pappagallo, leit motiv ritornante, come altri animali impagliati, nella ricerca di Graziani. Ma il pappagallo deve avere un senso. Che cosa fa il pappagallo se non ripetere, forse non comprendendolo, il linguaggio degli umani? Il pappagallo possiede una propria lingua ma ne riecheggia un’altra senza comprenderla. E che cosa vuole dire un pappagallo impagliato se non una lingua possibile ma spenta per sempre? Graziani racconta di Alexander Von Humboldt che scopre nel Sud America, in una terra lontana, un gruppo di pappagalli che recano traccia di una specie che sta estinguendosi. Per Graziani dunque il pappagallo è la dimensione di una lingua perduta, dimenticata, comunque inattingibile. Ma c’è dell’altro: il pappagallo è il simbolo di una tradizione di immagine che forse è la chiave per capire meglio il racconto delle fotografie. Intendo dire che queste forme ritagliate, isolate contro il fondo chiaro, queste immagini fuori del tempo hanno un rapporto diretto con la ricerca surrealista, direi sopra tutto quella di Max Ernst, e penso opere come L’elefante Celebes (1921), Due fanciulli minacciati dall’usignolo (1924), la serie dei Monumenti agli Uccelli, e ancora penso alle Foreste pietrificate (1927) dove il pittore propone una natura bloccata fuori del tempo, rami come rocce, animali come bloccati eventi e sospesi gesti. In fondo, e proprio dentro la tradizione della fotografia, Graziani aveva precisi antecedenti anche nelle avanguardie, ad esempio nella ricerca di Herbert Bayer alla Bauhaus, e di Florence Henri a Parigi. Anche loro, come del resto Man Ray e Moholy Nagy, hanno trasformato la durata delle forme del reale in icone, in figure bloccate, spesso ritagliate e appiattite dalla solarizzazione. Eppure il nuovo di Graziani sta altrove, nella capacità di collegare lo spazio del racconto con la dimensione sospesa, a volte violenta e crudele di un altro attore del Surrealismo, Luis Buñuel a cominciare da Un chien Andalou del 1929. In Graziani la stessa violenza, la stessa sublimata volontà di dimostrare la impossibilità di un racconto. Se volessimo restituire un percorso di Graziani, la sua capacità di costruire un racconto senza racconto, quel – fermo macchina – che ho suggerito in precedenza, forse dovremmo pensare a come spiegare questa idea di nature en pose di tutto il creato. In fondo il sogno di una eterna durata attraversa queste fotografie, non “sei polvere e ritornerai polvere” ma “sei figura, sei vivente ma durerai come pietra”. Graziani è una persona vitale e intelligente, media questa convinzione attraverso altro, la volontà di tanta Arte Povera di rappresentare il mondo fuori del tempo, anzi di dimostrare che il mondo dove viviamo è fatto di segni e la realtà del naturale ci sfugge, come in certe foreste segnate da Penone. Lo specchio del racconto di Graziani sta in queste sue scelte che sono, prima di tutto, di un linguaggio fotografico nuovo anche rispetto alle immagini notevoli e poco conosciute del primo Magritte pubblicitario, un linguaggio nuovo perché scardina uno dei principi della tradizione fotografica, la idea che foto sia documento del reale. Come alle origini della fotografia anche Graziani documenta i fossili e architetture del naturale, solo che lui le architetture le riduce a frammenti, le riconduce al magma primario sulle pendici di Vulcano; il solo naturale conoscibile sono le figurazioni bloccate dei vecchi musei di scienze naturali. Insomma il mondo, per il narratore, si conosce solo attraverso l’archeologia, tutto è fin dalle origini senza tempo e il fotografo racconta questa ossessiva angoscia di morte. Dimenticavo: Sotto il Vulcano non vuol dire alle pendici ma sotto, dentro, come a dire, fotografia come autoanalisi; o ancora Jules Verne e il magma delle origini. Fuoco e terra e aria e acqua, elementi mitici della alchimia e delle memorie primordiali dentro la fotografia. Note 1
Stefano Graziani, Taxonomies, a+m bookstore, Milano, 2006. Stefano Graziani, L’Isola, Galleria Mazzoli, Modena, 2009.
2
VOYAGE IN THE MAGMA OF ORIGINS Arturo Carlo Quintavalle Stefano Graziani is right, we met only briefly, less than two hours, at my studio where everything was being packed up for a move. I glanced through the photographs in the book Taxonomies, which looked very interesting, and then moved on to the images in this collection, Under the Volcano, which also impressed me. Of course there was time to begin to talk about explanations, the same ones Graziani supplies in the fine interview conducted by Rene Gabri, published here, and indirectly in anther interview, also with Gabri, published as an appendix to Taxonomies1. Talking with Graziani, I tried to suggest some historical references for the images, but he didn’t seem very convinced; everyone has his own approach to art, I start with the tradition of images, I look for differences, I try to understand the various meanings, because we all live inside a system of knowledge, of memories, of traces, and these memories, traces, this system offer us the key for interpretation of the present. When we parted, we agreed that if I managed to write something quickly, and if it seemed appropriate to Graziani (I think that was clear), it would be published. So if you are now reading these words, you know the end of the story. Of course I could have done without this introduction, but it seemed necessary to explain the coincidences, which are many, and the differences, that do exist, between this article and the other texts included here, which I’ve seen in the proofs. Perhaps the key to this lies in one word: system. A word that could be a title for these two projects by Graziani, first Taxonomies, and now this one. A few facts: for both these research projects, Graziani worked for several years, three for the first, perhaps just as many for its successor. The first originally included 120 photographs, but in the volume that accompanied the exhibition only 20 were printed; furthermore, in the catalogue they are not on pages but, in a separate insert, the pictures are small reproductions, in black and white; below, there are indications of where the pictures were taken. So the pages are not numbered, and perhaps (again in this case) Graziani wanted to tell us something, that every image is the first, or the last, if you will, but in any case it should be seen as something on its own, though at the same time it is part of a series. In the interviews, in the indications Graziani supplies, the word taxonomy recurs frequently, so his problem is classification, that of Linnaeus, he tells us, and of his myth of reconstructing a flora of warm climates, of the tropics, for example, in the space of cold Sweden, relying on acclimatization, as well as greenhouses; in short, Linnaeus wanted to pack a process nature might have accomplished in millions of years into just a few decades. We should remember this, if we want to understand Graziani’s work. But let’s stick with the way he takes photographs, before we consider other precedents, perhaps even mythical, but ones that must have been part of the iconology, the tradition of images Graziani carries inside him. After all, he is well aware of the history of images and photography, because he teaches it at the University of Trieste. Technique, then. First of all, Graziani uses large-format color negatives, in an analogical way, not the recent digital approach; of course, he tells me, you can get excellent results with digital photography, but the choice of analog methods and of a negative of medium format, 10x12, imposes certain constraints: a camera of a certain weight, mounted on a tripod, and therefore longer reflection, longer meditation before, during and after the shots. I recall that Walker Evans, in his research in the 1930s for the American Farm Security Administration, used – he alone, while other photographers, from Ben Shahn to Dorothea Lange, always shot 35mm – medium-sized plates for his shots, and he used them in a new way, just one shot had to suffice to narrate a space, a world, so it had to be a long process. Evans can be seen as the influence behind the shots of Gabriele Basilico for Datar, but in turn they come from a very old tradition, dating back to the Mission Héliographique of 1851, when Baldus and Le Gray, Le Secq and others documented the monuments of France for the government, and based on the ideas of Prosper Mérimée and his voyages, the monuments of Roman and Romanesque and Gothic times, one photo per day, long exposures, in full sunlight, even a half hour or an hour. So photography as a long process of meditation on places has a long history; this is why I appreciate Graziani’s choices, and on another occasion I would like to talk with him at length about technique, the technique of light. But let’s examine the first work, Taxonomies, because without it this more recent research cannot be understood. Graziani
has said that the 120 images shot, and the 20 images published, should converge in a single image that sums up the entire research. The world, the system of the world, the taxonomy, we might say, concentrated in a single figuration. We can limit the discussion to the pictures taken in botanical gardens, or in the storerooms of museums of natural history where dozens of sharks and other sea creatures are packaged in transparent plastic bags.The first thing that strikes you is a clear, even obsessive focus on details; you discover a whole, in focus, from the foreground to the deepest background, and you discover very controlled colors, dominated by green and brown tones. Or, in another image, you see a sort of fog effect, pulverized water. Certainly that photograph forms a stark contrast, and an intentional one, with the others in which the framing of the shot of the space, limited, without reference points, brings to mind an enormous, dilated dimension. The extremely large that is concentrated in the small, limited, apparently controllable dimension of a different story. The keys to understanding this system of places, the greenhouses whose size can be glimpsed thanks to the grids of the glazings at the top, are certain images, that of the Herbarium of Uppsala, in Sweden, or that of the Linnean Society in London. In both cases the focus is cutting, shelves, books, and in the second image the bust of the botanist. And also, through the books, an ideal voyage, a possible voyage toward knowledge; books as the catalogue of the world, of the knowable, libraries of memory, but also a voyage in the space of the room and the shelves, or the images of the atlas, as Luigi Ghirri has narrated. But here everything is sharp, in focus, everything is raison. The idea of Ghirri, moving from Surrealism toward conceptual research, his idea that an image is always suspended in time, that behind an image nothing happens except the story we want to construct, and therefore never a realistic story, has had a long history in and outside of Italy, let’s say from Vicenzo Castella to Olivo Barbieri, Franco Ventura to Gabriele Basilico, and many others. Graziani is certainly aware of this revolution of the 1970s that happened well before his research, but at the same time he is extraneous to it. And I wonder why. In an old project in black and white by Giovanni Chiaramonte, just at the start of his career, entitled Giardini di Sicilia, which I also published at the time, the narration apparently was based on the same theme as Taxonomies, a voyage inside the space of a hortus conclusus of great density and richness. But while Chiaramonte concentrated on the vitality, the density, the continuous growth of the natural, Graziani chooses an opposite direction, seeking a blocked image, a freeze frame, a filmmaker might say; for him, duration, exposure, time, existence are placed between parentheses, suspended, made immobile. Life, too, that of the botanical gardens, is halted and framed as in a book of botanical illustrations, it is no different than the images of stuffed animals that return as a leitmotiv in his second project. So what history, what iconology, an art historian might ask, lies behind the images of Graziani’s latest investigation, Under the Volcano? In this case there are about eighty images, shown in medium and, at times, large formats in the exhibition, and juxtaposed in a telling way in the book. Let’s begin with the title: Under the Volcano and Other Stories, but what does the volcano have to do with it, and what are the other stories? Graziani, except for a few images of a volcano, which is the island of Vulcano, takes pictures that are always finds, objects, of fixed duration by now, not depicting living images but blocked ones, petrified, like fossil seashells, but also mounted animals, or photographs of the starry sky Graziani cuts into round forms, as if seen through an antique telescope, though the observatory supplied them in the usual rectangular format. Then there are images of the moon for an atlas that was supposed to have twenty volumes, though only one was published: the photographs, taken by Johann Nepomuk Krieger in the 19th century, were retouched by hand to make the craters and seas legible, and were used by scientists until the advent of the new telescopes, Graziani explains. Let’s try to understand what the narrator – I’d rather not call him the photographer, here – is suggesting. As an icon of the exhibition and the research, we see a stuffed parrot. If an art historian were to interpret the symbolic value of the bird – and it doesn’t matter if Graziani is aware of it or not – he would suggest that it is a symbol of sensuality, of pleasure, though the photographer has undoubtedly repressed this idea, so we see the parrot in the guise of nature en pose, as the French call a still life. Nature en pose can also apply to fossil seashells, mounted animals, the stones of the volcano at the end of another journey. But which? Graziani moves from the novel by Jules Verne Journey to the Center of the Earth, from Iceland to Stromboli. In the photographs we see only images of heaps of stones, pumice, lava emitted by the volcano, but shot up close, covering the whole space, not organized and assembled in space, as in the works of Richard Long. So we have a possible key, the legendary voyage to the center of the earth narrated by Verne. But what meaning does all this have for Graziani?
To understand, I have to refer to, to narrate, something that certainly lurks in the memory of the photographer; the early image of Fox Talbot, but also of Daguerre, in fact we should mention that around 1839 or shortly thereafter in the case of Fox Talbot, both of them took pictures of a shelf full of fossils and stones, from a collection. After all, Arago himself, when he reported to parliament in 1839 on Daguerre’s discovery, the daguerreotype, listed among its possible uses that of the complete documentation of archaeological finds, of buildings then, but also of the Egyptian hieroglyphs Napoleon and his draftsmen had only been able to reproduce in a small part; to this documentation of stone, he also added documentation of nature. In his first experiences Fox Talbot had photographed, with a paper negative, as we know, and with contact printing, leaves, small branchings, attempting to construct, in short, a herbarium. The idea of a general cataloguing of nature characterizes the tradition of the 1700s and beyond, from Linnaeus to Buffon. Classification, then, order, a system of rules. But is this the only meaning of Graziani’s research? I don’t think so. Let’s try thinking about some other images, for example the recurring image of potatoes2, images taken from different angles; Graziani, then, introduces the image of potatoes that seem to evoke the research of Penone and of Arte Povera; he proposes other models in the narrative of photography, not everything is stone, not everything is mounted, the natural, too, can become event, suspension of life, blocked image. Photography – and many have theorized as much – like any other form of artistic research, places itself outside of time. It is a way to extrapolate a fragment, an experience from the flow of existence, that of Bergson, of the elan vital and therefore of knowledge. But Roland Barthes correctly understood that photography is also, and above all, memory, and reminders, links back to other images, and therefore inside the mythical desk drawer that contains portraits of parents, old snapshots of trips and many other lost stories, the possibility arises of a new evocation, a new transcription of meaning, as Sollers would have put it. But then how can we consider this work by Graziani, which is consciously inside the tradition of the origins of photography, from Daguerre to Fox Talbot, yet at the same time proposes a space of memory that is different, blocked, frozen, where everything, even a potato, becomes a form out of time? Back to the starting point. The photographer, though I prefer to call him a narrator, starts with a voyage, that of Jules Verne, which is also a voyage inside the memory of the species, in the Darwinian sense, and at the same time a voyage inside the space of personal memory, personal conception of the world. I’ll try to reflect on another well-known taxonomic conception of investigation of the world, which apparently has no relation to Graziani’s, namely the research of August Sander People of the 20th Century, a project never finished, of documentation and analysis of German society between the two world wars, from soldiers to peasants, shopkeepers to the middle classes; something very different from the portrait galleries of Nadar or Disdéri, equally endless systems, in Paris in the second half of the 1800s. Certainly the idea of cataloguing the world, of cataloguing figures, of making them – according to Sander – represent entire categories, closely resembles another idea of catalogue, also from the tradition of images, that of Daumier and his lawyers, his bourgeois families, his protagonists, in short, of a Comédie Humaine in images. Perhaps these last references will not meet with Graziani’s approval, yet I believe that for him, with his familiarity with the history of images, all this must exist in the depths of his awareness; because if you want to construct a catalogue of the natural, and therefore of man as well, you cannot avoid taking the traditions of the analysis of the world as a system into account. Let’s proceed to Graziani’s way of conceiving the image through this departure that is also mythical, we should recall, from the general catalogues, and also from the genealogy of the species, all the species up to man, according to Darwin, a genealogy where ontogeny and phylogeny coincide. Graziani uses a scheme that is not a metaphor, the figure of transformation of the species according to the form of coral, a complex, detailed, unpredictable form… coral, then, not the rhizome. Whatever approach the narrator wants to give to his research, the fact remains that to present the space of the natural and its memory Graziani has to utilize a non-time, or that of fossil seashells, that of stuffed animals, that of the photographs of stars or distant nebulae, frozen for eternity in a shot that Graziani, in turn, reproduces. The rocks of Vulcano, intentionally blurred as if to give them a different dimension, mobile traces, somehow alive, in an igneous transformation from magma to rock, are one of the possible keys of interpretation, but the other, of course, is the parrot, the recurring leitmotiv, like other mounted animals, in Graziani’s research. The parrot must have a meaning. What do parrots do? They repeat the language of humans, perhaps without understanding it.The parrot has its own language, but it echoes another, without comprehending it. So what does a stuffed parrot mean? It is a possible language, but forever silenced. Graziani tells the story of Alexander Von Humboldt, who in South America, in a distant land, finds a group
of parrots that offer evidence of existence of an extinct tribe. For Graziani, then, the parrot is the dimension of a lost tongue, forgotten or in any case inaccessible. But there is more: the parrot is the symbol of a tradition of images that, perhaps, is the key to a better understanding of the narrative of the photographs. I mean that these cut-out forms, isolated against a light background, these images out of time, have a direct relationship with Surrealist research, and above all, I’d say, with that of Max Ernst. I am thinking of works like L’Elephant Celebes (1921), Two Children Threatened by a Nightingale (1924), the series of Monuments to the Birds, and also the Petrified Forests (1927), where the painter suggests a nature blocked outside of time, branches like stones, animals as arrested events and suspended gestures. In the end, and precisely inside the tradition of photography, Graziani had precise forerunners in the avant-gardes, too, for example in the research of Herbert Bayer at the Bauhaus, and of Florence Henri in Paris. They too, like Man Ray and Moholy Nagy, transformed the duration of the forms of the real into icons, frozen figures, often cut out and flattened by solarization.What is new about Graziani lies elsewhere, in the capacity to connect the space of the narrative to the suspended, at times violent and cruel dimension of another protagonist of Surrealism, Luis Buñuel, starting with Un Chien Andalou in 1929. In Graziani we see the same violence, the same sublimated desire to demonstrate the impossibility of a narrative. If we want to trace Graziani’s path, his ability to construct a narrative without a narrative, that freeze frame I suggested above, perhaps we have to think about how to explain this idea of a nature en pose of all creation. In the end, the dream of immortality through these photographs, not “dust thou art and unto dust thou shalt return” but “thou art figure, living, but thou shalt last like stone”. Graziani is a vital, intelligent person, he mediates this conviction through other things, the desire of so much of Arte Povera to represent the world outside of time, even to demonstrate that the world in which we live is made of signs, and the reality of the natural escapes us, as in certain forests altered by Penone. The mirror of Graziani’s narrative lies in his choices, first of all that of a new photographic language, also with respect to the remarkable and little-known advertising images of the early Magritte, a new language because it disrupts one of the principles of the photographic tradition, the idea that the photograph is a document of the real. As at the origins of photography, so Graziani, too, documents fossils and architectures of the natural, but he reduces the architectures to fragments, bringing them back toward the primordial magma on the slopes of Vulcano; the only knowable nature is found in the frozen figures of the old museums of natural history. In short, for the narrator the world is known only through archaeology, everything is timeless, from its origins, and the photographer narrates this obsessive anguish of death. I almost forgot: Under the Volcano does not mean on the slopes, but below, inside, like saying photography as self-analysis; or again, Jules Verne and the magma of origins. Fire and earth and air and water, mythical elements of alchemy and of primordial memories, inside photography. Notes 1
Stefano Graziani, Taxonomies, a+m bookstore, Milano, 2006. Stefano Graziani, L’Isola, Galleria Mazzoli editore, Modena, 2009.
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TESORO SENZA NOME Gianluigi Ricuperati A Stefano Graziani, che sa trasformare le linee invisibili di oggetti lontani in linee visibili di oggetti vicini. Muoio così, cazzo, non è possibile con uno schianto e una terrificante riproposizione di situazioni sconnesse e lontane, perché lo sento, qualcuno dentro di me parla e parla, un lungo infinito crepitio radiofonico che mi ricorda in modo sconnesso e veloce, così veloce che solo un morente potrebbe comprenderlo, tutto ciò che ho attraversato. E’ così. E’ proprio come raccontano. Passa tutta la vita davanti. 1. Don Quaranta La prima volta che avevo sentito nominare Don Quaranta lui era giovanissimo, appena ordinato sacerdote. Io ero un bambino. Era stata lei, mia madre, il cattivo esempio, a parlarne. Lui, Don Quaranta, all’epoca non aveva ancora abbandonato la Chiesa Cattolica. Non era ancora spretato, per poi riavvicinarsi ma a un’altra Chiesa Cristiana. Mi avvicinavo a mia madre, mi avvicinavo con il mento sul collo e le tempie che strisciavano sulle guance, e iniziavo a prenderla in giro sui nomi di tutte le persone che conosceva. Facevo un elenco, e le schiacciavo un grosso neo protuberante, appena più piccolo di una nocciolina, sul braccio sinistro, poco sopra il gomito, poco sotto la spalla, dove molte persone si fanno i tatuaggi. A ogni nome ridevo e schiacciavo, e lei si allontanava, mi spingeva via o mi tirava uno schiaffo. Poi io tornavo su di lei, un altro nome, un altro attacco. E così via. Mi faceva ridere il suono di quei nomi. Mombaruzzo, una sua collega. Gay, un signore anziano, nostro vicino di casa, con cui parlava ogni tanto. Cardellicchio. Zenit. Trucco. Cistaro. Don Tuninetti. E il migliore di tutti, Don Quaranta. Che, diceva sempre lei con una punta di disgusto, era un prete operaio. Niente di peggio, nella luce dei primi anni ottanta, sul lettone dei miei, enumerando il vasto mondo che brillava cupo là fuori, di un prete operaio. Mia madre rideva – il conservatorismo che le agitava il sangue la tranquillizzava, nel vedere che ridevo a crepapelle, pensando a ‘prete’ e ‘operaio’: era come pensare a un cane che miagola, l’idea di un sacerdote che costruisce una Chiesa brutta e si veste con una tuta da metalmeccanico e parla male dei ricchi. Io non ricordo perché mi faceva ridere. Ma la seriosità di gruppo, la pesante cortina di mancanza di piacere che calava generalmente durante le Messe, le Sante Messe usuali, tradizionali, senza l’uncino della politica, fuori dal tempo, mi stringeva il cuore. Non le sopportavo.Volevo andarmene, volevo andare a giocare o a leggere o a fare un giro in bicicletta. Ma la seriosità di quei preti operai alle cui celebrazioni ogni tanto ci costringeva ad andare mio padre, quasi di nascosto da mia madre, o a volte coinvolgendo riluttante anche lei, beh – erano la cima della noia per me. I preti come Don Quaranta, ricordo, ce l’avevano con la Fiat. Ce l’avevano con i dirigenti. Ce l’avevano con il desiderio di spendere e il consumismo – mentre io sognavo file di regali con labbra rosa e schiocchi di baci negli spigolosi silenzi della vigilia di Natale, prima della benedizione del pane. Ce l’avevano con il desiderio di possedere qualcosa. Io stavo divinamente quando desideravo le cinquantamila lire rosa di mio nonno: quando compilavo liste di castelli lego e altri giochi: quando pensavo alla piscina di denaro di Paperone. I poveri non mi piacevano. Mi facevano pena, ma non mi sembravano per niente miei fratelli. Ma ancora, i poveri, li accettavo. Non riuscivo, letteralmente, a capire perché questo Don Quaranta, nella sua parrocchia lucida, buia, angolare, nella sua chiesa senza orpelli, senza decorazioni, senza passato, senza cornici, senza linee curve, senza riccioli d’oro, senza niente che provocasse piacere schietto, non riuscivo a capire perché Don Quaranta incitava tutti i fedeli a celebrare la Novena in Fabbrica, e raccontava della Fabbrica, e non perdeva un dettaglio del mondo intero senza collegarlo al più insulso riferimento alla Fabbrica. Poi, ovviamente, avrei compreso. Ma Don Quaranta era il nemico di mia madre, uno degli aghi della battaglia tra mia madre e mio padre, l’incarnazione bruciante di una mole di teorie e prassi e differenze e lotte che avevano definito gli anni in cui sono cresciuto. Per mia madre un credente in Santa Romana Chiesa non poteva in nessun modo volere la rivoluzione, violenta o non violenta. Per mia madre lo spirito non aveva a che fare con la Storia. Per mia madre la Storia andava bene così com’era, e non le importava poi molto, finchè non toccava i corpi dei suoi figli – e lei si prodigava per bene affinché ciò non avvenisse. Don Quaranta era l’esempio di tutto ciò che non andava tra i buoni. Era il principe dei caduti nelle file della parte giusta – dunque, l’inizio di quella sbagliata. E adesso, vent’anni dopo, qualche centinaio di milioni dopo, in vecchie lire, ero lì, convinto, abbeverato, sinceramente sorpreso dall’affetto che scaturiva dal suo Vangelo Senza Moneta.
…Ho sempre pensato di essere predestinato a vivere a lungo, non ho mai avuto paura di incidenti e rischi perché sapevo che avrei dovuto resister fino a novanta, novantacinque anni, e invece senza motivo e senza alcuna ragione mi sono trovato al volante di un’auto di un amico che colleziona auto, e ho guidato, ho guidato, poi ho sbagliato, ho sbagliato, e in questo spazio compresso succede di tutto… 2. Un uomo politico Cosa si può pensare di un uomo che quando si presenta la prima volta ti saluta con la voce ferma e sommessa, tendendo il braccio come un militare; e quando ti conosce abbastanza l’unica differenza ha a che fare proprio con quel braccio, un po’ più rilassato, più vicino alle costole, finalmente molle e mobile? Ora sto cenando con lui e altri: è seduto davanti a me: qualcuno sta finendo di raccontare una storia, lui sembra sempre disattento e parla pochissimo. Il potere, questa astrazione invadente, ha di solito entrambe le caratteristiche: silenzioso, continuamente distratto. Lui, però, pare anche spesso a disagio: è un amministratore ma non si accontenta di amministrare, non ha lampi di seduzione. Chiede vuoi l’acqua? Chiede che cosa ne pensate. Chiede mi passi le posate. Ma è chiaro che se davvero potesse farebbe come i religiosi shaker americani: si alzerebbe, appenderebbe tavoli e sedie al muro e libererebbe lo spazio conviviale per fare qualcosa di nuovo, un’idea ambiziosa, un progetto folle, un’ossessione da far calare nella realtà. Quando se ne trova di fronte uno che gli interessa risponde quanti soldi servono? Ma la simpatia, l’accordo temporaneo delle voci, l’armonia del vino e del cibo – è evidente – sono dei passatempi sbagliati. Lui passa accanto a un rimorchiatore del porto di Cagliari e tutti quelli che gli stanno intorno capiscono all’istante quanto si identifichi, volerlo o no, con il rimorchiatore. I rimorchiatori sono circondati da una consistente coltre di gomma da pneumatico, per attutire ogni eventuale contatto con lo scafo che sta faticosamente, miracolosamente, fastidiosamente conducendo a destinazione – a un qualche genere di destinazione. I nomi dei politici sono monete da suono immediato, facile, smerciabile, perché devono resistere all’uso e all’abuso, e questo forse è uno dei motivi per cui molti uomini politici importanti, prima o poi, mostrano segni di stanchezza infinita, i loro corpi assottigliati, i loro sguardi spenti nell’eco di tutte le volte che sono stati guardati, le orecchie che fischiano per le troppe volte che il nome è stato messo in circolo nell’aria. I nomi dei politici sono l’eco ripetuta n volte di una specie di santità negativa. Ora. Dovete immaginarlo su una spiaggia vuota, ventosa, in una domenica mattina di marzo. Le mani in tasca. Il passo delle persone rapide, che quando vogliono diventano anche lente. Lo sguardo attento, assorto, su ogni dettaglio, su ogni centimetro di terra: ma soprattutto su tutto ciò che di artificiale svetta sul magnifico paesaggio naturale: un cartello con scritto Area protetta: colonia di ‘fenicotteri’: proprio così, fenicotteri con le virgolette, come se non fossero proprio lì, davanti a noi, disposti in un rombo rosa. Glielo faccio notare, una piccola macchia ortografica che ha qualcosa di patetico e perdonabile: e sorride, con i livelli di irritazione mandati a quel paese, per una volta. Perché qualche ora prima, davanti al porto della sua città natale, percorrendo una sequenza di panchine di legno appena messe dall’amministrazione per suo esplicito volere, stava per togliere le lattine abbandonate con le sue mani: non capisco perché le tengono così, ma perchè non buttate le cose nel cestino. Lui, in altre parole, non lascia le punte velenose sul campo di battaglia dell’agone politico – le porta dietro senza sosta, minuto per minuto. Il peggio è altrove. Non sull’acqua, ma sulla terraferma. Ma come è possibile, come è possibile, esclama puntando le braccia contro un campo da golf sospeso sul mare. Mi fanno arrabbiare più questi che gli edifici abusivi. Ma come si fa a costruire un campo da golf qua? Poi, tornando in auto, salendo di un centinaio di metri, è chiaro come il sole che intorno al campo da golf c’è una corona di palazzacci. Ecco che la sua voce entra nella modalità più stanca e cupa: la cosa terribile è la sensazione che dopo di me torneranno a fare tutto quello che vogliono. A volte temo che sia solo questione di tempo. …Sto morendo, mi sto distaccando. Un omuncolo dentro di me legge dei resoconti di vecchie storie che non ricordavo più troppo bene, tutte squillanti, presenti a se stesse, proprio qui e ora, una selezione arbitraria, questo tratto che precede la scomparsa non è un elenco ma è un’approfondita rilettura, io ho un ripetitore, dentro, che rilegge per le mie orecchie trascrizioni che non vorrei sentire, morire è un’antologia, morire è una facoltà di scelta, così in mezzo a questa voce petulante e precisa sono felice di sentire che la mia vita è stata piena di figure incrociate per poco e per caso, ma tutte interessanti, perdinci, non so nemmeno che mestiere ho fatto, sono confuso e condannato a riascoltarmi, non è una sintesi è una disanima, una disanima di cose successe che però sembrano favole lanciate come biglie di luce verso il muro scuro… 3. Mia sorella e la casa verde Eppure c’era stato un tempo, nel confetto dell’infanzia, in cui mia sorella era tutto l’opposto di una banca: non calcolava,
non chiedeva indietro, non minacciava e non incombeva – era un angelo femminile, una dispensatrice di tempo gratuito, una narratrice di storie notturne, con letti che volavano e di case verdi. Ritornava sempre sulla storia della casa verde. La casa in cui c’è la stanza verde, con un tavolo verde, antistante a un campo da tennis fresco e verde, una villetta senza pretese con camini verdi e stoviglie verdi e tappeti a ciuffi verdi. Dentro, nel seminterrato, una botola arrugginita verde che si apre nel buio, e nel buio i piedi si posano su una sequenza di scalini verdi, alcuni più sicuri altri meno, le pareti si vedono poco ma quel che si vede è dello stesso colore che s’accampa ovunque. Le tubature sibilano e dal suono sembra che sussurrino una frase come vieni verso, acqua che si sfonda nel clangore delle caldaie e urla vieni verso. Dove è necessario andare? Verso dove? Verso il verde? Ma il verde è già dappertutto. Al termine della scala c’è una cantina. E’ tutto talmente vicino, tutto talmente prossimo, che la sensazione dominante è di finire dentro la superficie della materia, di venire verso la materia – e la materia è verde, anche se è talmente scuro che non si potrebbe dirlo con certezza oculare, solo con la furia delle mani che sanno toccare i colori nella notte. E’ certamente verde la voce che si para davanti nella cantina, mente si sbatte la testa contro questo e contro quello, e le voci si contorcono quanto e più del fluire dell’acqua nei tubi, ma parlano una lingua incomprensibile, fatta soprattutto di larghe vocali aperte e cupi tunnel di vocali chiuse. D’incanto ti senti stanco, così stanco che persino il formulare l’ordine neurale che porterebbe a muovere il dito mignolo, o spostare l’asse dello sguardo, costa una fatica immensa e inutile, perché il movimento fallisce in un lago di mancanza verde. E’ una stanchezza che conduce all’immobilità, mentre le voci continuano a rotolare e il buio a farsi percepire come verde, e in pochi secondi si avverte solo una strenua piacevole fine della volontà del corpo. Sei un sasso. Sei in una casa verde, al termine di una scalinata verde, nel verde seminterrato che poggia sulle fondamenta verdi che condividono la terra con l’erba verde e gli alberi verdi, la staccionata e persino la cassetta della posta verde. Sei un sasso, probabilmente, verde. E cosa fai, a quel punto? Cosa ti rimane da fare, cosa scegli di fare, con la mente ancora libera e ancora neutra, non ancora colorata di verde, non ancora immobile e prigioniera, cosa scegli di fare fratellino, mi diceva mia sorella a letto, la sera tardi, raccontandomi questa storia, oppure schiacciati contro un battiscopa nella camera col tetto spiovente e sicuro, laggiù, io piccolo e lei piena di parole che andavano a ritmo con lo smarrirsi degli occhi impauriti, i miei, terrorizzati e anche incapaci di fornire qualsiasi risposta. Cosa faresti? Non lo so, non lo so, non lo so. Dimmelo tu, dimmelo tu. Ma c’è una sola cosa da fare, ed è rivolgerti al Signore. E se il Signore non risponde? Il Signore risponde sempre. E se anche il Signore è verde come la casa? Questo non è possibile. Ma se fosse così, dovresti provare a chiamare forte il nome di tutti i tuoi amici. Ho passato molte stagioni infantili a chiedermi quale fosse il segreto di questa storia, fino a quando non me lo sono chiesto più, e ho anche dimenticato di parlarne con lei, che nel frattempo è diventata una di quelle che non risponderebbero mai ‘se fosse così’, soltanto ‘questo non è possibile’. …Così eccole, le molte cose che mi passano davanti agli occhi in fin di vita, in un lampo di consapevolezza millimetrica, un’accelerazione inutile ma virtuosa, l’intuizione rapidissima, raccontata da questo testimone che da del tu in prima persona, sono io che ho visto ma è lui che parla come se fosse stato lui a vedere… 4. Un editore Tanti anni fa avevo iniziato un lavoro che non avevo mai finito, la traduzione di un romanzo chiamato Let the Blood Begin to Boil, un western, per un editore che mi aveva pagato con un assegno, e non postdatato, non appena vista la prova di traduzione. Odiavo tradurre, chiaro. Ma era stato bellissimo, tre milioni di lire in anticipo su un lavoro ancora da fare e che dentro di me sapevo che non avrei fatto. Eppure lui, l’editore – un uomo mite, basso di statura, con i capelli rigidi e la faccia quadrata, senza figli, punto dovunque da una malattia di accumulazione di libri, ricco a causa di una fortuna in acciaierie terminata su di lui – mi aveva fatto credito sul mio stesso compenso. Sei mesi dopo non avevo tradotto neppure una riga, era giugno, ero in auto quando ha squillato il cellulare, era la sua redattrice che mi diceva è morto Gianni, e io ho pensato fosse un modo per punire il mio ritardo e ho messo giù. Poi ha richiamato e non ho risposto. Poi ha lasciato un messaggio in segreteria, che diceva è morto Gianni, volevo dirtelo, stamattina, a Bruxelles, mentre ordinava dei libri in una libreria. Nella libreria di cui parlava quella voce registrata ci sarei stato qualche anno dopo. Si chiamava Tropisme, come un romanzo di Nathalie Sarraute. Girando fra i volumi non avevo pensato a Gianni, all’editore, all’uomo che avevo incrociato per caso e privilegio – un uomo straordinario a tutti gli effetti. Ma non avevo visto lui, fissando il vuoto fra gli scaffali. Avevo visto i tre milioni prestati dalla sua comparsa e poi regalati dalla sua scomparsa. Erano verde lucente, simili a una collana di cavallette.
…come se questo camino davanti al quale ascolto le ultime storie non servisse a scaldare ma a bruciarmi, e forse è proprio per questo che sento questo dolore disarticolato, questo pulsare grattato d’incendio, alle gambe e alla schiena… 5. Un direttore di banca Sono seduto nel dehors di un ristorante a mangiare, con un mio amico che di mestiere fa il dirigente di banca. Della mia banca. Sto per lasciare la città ma lui non lo sa ancora. Non ho prospettive, a questo punto, ma ho una faccia in grado di tradire sicurezze. Fa freddo ma si mangia ancora fuori perché è pranzo, e il cielo limpido, e batte un sole che alza la temperatura. Pochi tavoli occupati. Lui saluta due suoi conoscenti che passano alle mie spalle. Un ragazzo e una ragazza, con la mano, un gesto nell’aria, di fretta. Io mi sfrego i palmi delle mani, sono uscito da poco e ho fatto la doccia dieci minuti prima di uscire. Da qualche tempo l’acqua calda mi fa bruciare i palmi delle mani – a dismisura, come una griglia di impulsi roventi – lungo le linee della vita. Mi giro a guardare, sono già lontani. Il ragazzo cammina a due metri, due metri e mezzo dalla ragazza, leggermente inclinato in avanti rispetto all’asse della passeggiata. Il mio amico dice con una certa ammirazione, ma in realtà definendolo maledetto, che non ha mai visto quel suo conoscente, il ragazzo, camminare a una distanza inferiore di quella. Mai meno di qualche metro, e sempre un po’ più avanti rispetto alle molte donne cui si è sempre accompagnato. Non sei quella piccola cosa preziosa che tengo vicina. …proprio qui, sulla Maserati Biturbo dell’85, sull’orlo della curva del Fruhling… 6. Una creatura bisognosa Oggi ho incontrato un amico videomaker in bicicletta, nel sole, vestito di nero, magro, con i capelli montanti e ispidi, che tristemente denunciava la mancanza di lavoro, si è trasferito qua da poco e non trova nuovi lavori, legge molto, ha detto. Appena arrivato a casa ho sentito il socio di un’agenzia di pubblicità, una bravissima persona, e li ho messi in contatto. L’aver formulato pensieri quietamente apologetici sulla mia condotta, un pat pat auto inferto, dopo questa chiamata, mi rende una persona da crocifiggere. …l’ultima cosa che ricordo insieme alla scritta su un camion che veniva dall’altra parte, sul fianco, ‘Beim Schlafengehen’ sull’orlo della fine di questo tesoro cui non ho trovato nome, iniziato 42 anni fa… 7. Verso la fine della vita terrena Non ho alcuna illuminazione e non ho nessuna chiara esposizione di come dovranno andare le cose. Ma si fa strada – sento il preciso millimetro in cui comincia – l’idea che devo consegnarmi a qualcuno. Farmi arrestare. Farmi rinchiudere. Ho speso più di centomila euro negli ultimi due anni e non sono che gli ultimi due anni. Mi viene la tentazione di chiamare mio padre. Non lo chiamerò. Lo voglio sentire. Mi deve aiutare. Non so come fare a rientrare. Devo fare la doccia ma ho le mani che pulsano ugualmente. Il Vangelo Senza Moneta è la narrazione delle vicende di Gesù Cristo e i suoi insegnamenti senza alcun cenno al denaro – senza la parabola dei talenti, senza i trenta denari, il Vangelo è interamente fatto di denaro contante. Ma secondo l’articolo Don Quaranta sostiene che il denaro è sempre e soltanto metafora, ed è dalla metafora che bisogna eliminarlo. «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Non riesco a ricordare l’ultima volta, da bambino, in cui ho pensato a Gesù come qualcosa di diverso da un nome. Così è di chi accumula tesori per sé e non è ricco davanti a Dio». Sto perdendo il gioco che mi definisce. Stanno servendo il caffè. Non ho nulla da perdere. «Maestro, che devo fare per ereditar la vita eterna?» FIN
NAMELESS TREASURE Gianluigi Ricuperati To Stefano Graziani who knows how to transform the invisible lines of far away objects into the visible lines of those nearby I’m dying like this, shit, it’s not possible. With a crash and a terrifying rehashing of disconnected and far away situations, because I feel it, someone inside me is talking and talking – an infinitely long radiophonic sputtering, which in a sudden and disconnected way, so sudden that only a dying man could understand, summons up all that which I have gone through. It’s like this. It’s exactly as they say it is. All of your life flashes before your eyes. 1. Don Quaranta The first time I heard mention of Don Quaranta he was still very young. He had just been ordained minister. I was a child. It was my mother, the rotten example, who spoke of him. Don Quaranta had not yet abandoned the Catholic Church. He hadn’t yet been depreisted, only to return, to reconcile, this time with another Christian church. I would come close to my mother. I would close in on her with my chin on her neck and my temples rubbing against her cheeks, and begin making fun of her and all of the names of the people she knew. I would make a list and squeeze a large mole, scarcely smaller than a peanut, protruding from her left arm, just above the elbow, just under the shoulder, there where many people get tattooed. For each name, I would laugh and squeeze, and she would move away, shoving me or giving me a smack. Then I would crawl back on her, another name, another assault. And so on. The sounds of those names made me laugh. Mombaruzzo – one of her colleagues. Gay – an elderly man, our neighbour with whom I would speak from time to time. Cardellicchio. Zenit.Trucco. Cistaro. Don Tuninetti. But best of all, Don Quaranta, who, she would always say with a trace of disgust, was a blue-collar priest. Nothing could be worse, in light of the early Eighties, on my parents’ bed reeling off the wide world which shone darkly outside, than a blue-collar priest. My mother would laugh – the Conservatism that stirred her blood was reassured seeing me burst into fits of laughter. Thinking of the words “priest” and “blue-collar” was like thinking of a meowing dog – the idea of a minister who builds an ugly church, wears a metal worker’s suit and speaks poorly of the rich. I can’t remember why it made me laugh. But the collective seriousness, the heavy curtain of pleasurelessness that generally precipitated over mass – the usual Holy mass, traditional, without a hint of politics, anachronistic – clenched my heart. I couldn’t stand them. I wanted to leave. I wanted to play or read or take a ride on my bike. But the seriousness of those blue-collar priests, who every once in a while obliged my father to attend celebration, virtually behind my mother’s back, or sometimes even reluctantly dragging her along, well, it was the epitome of boredom for me. Priests like Don Quaranta, I remember, had a beef with Fiat. They had a beef with managers.They had a beef with the desire to spend and to consume, while I, in the edgy silence of Christmas Eve, before the benediction of the bread, dreamt of rows of presents and kiss-smacking pink lips. They had a beef with the desire to possess. I was in heaven when I desired my grandfather’s pink fifty-thousand lira bill, when I made lists of Lego castles and other toys, when I though of Scrooge McDuck’s coin-filled swimming pool. I just didn’t like the poor. I felt sorry for them, but I didn’t feel at all that they were my brothers. But still, I accepted them. I literally just couldn’t understand why this Don Quaranta, in his polished, dark and angular parish, in his church without tinsel, without decoration, without past, without frames, without curved lines, without golden curls, without anything which could provoke pure pleasure, I couldn’t understand why Don Quaranta incited all of the faithful to celebrate the novena in the Factory and spoke of the Factory, and didn’t leave out any detail of the world without connecting it to the most insipid reference to the Factory. Later, obviously, I began to understand. But Don Quaranta was my mother’s enemy, one of the battle thorns in my parents’ sides, the burning embodiment of a mass of theories and practices and differences and struggles that defined the years in which I grew up. For my mother, a believer in the Holy Roman Church could in no way wish for a revolution, be it violent or not. For my mother, the soul had nothing to do with history. For my mother, history was fine the way it was and it didn’t count for much unless it directly touched the bodies of her children. And
she lavished over us in order for this not to occur. Don Quaranta was the example of all that was wrong amongst the good. He was the prince of the fallen in the ranks of the right file – thus, the beginning of the wrong one. And now, twenty years later, some hundreds of millions, that is, in old lira, I was there, convinced, saturated, sincerely surprised by the affection bursting forth from his Penniless Gospel. …I always believed I was predestined to live a long life. I was never afraid of accidents or risks because I knew that I would have to resist until ninety, ninety-five. Instead, for no motivation and for no reason, I found myself at the wheel of a vehicle belonging to a friend who collects cars, and I drove and I drove, then I made a mistake, I made a mistake, and within this compressed space, anything can happen… 2. A Political Man What are you supposed to think of a man who when he presents himself for the first time greets you with a steady and subdued voice, holding his arm like a military officer; and when he knows you well enough, the only difference is in that arm, a little more relaxed, closer to the ribs, and finally soft and mobile? Now I’m eating with him and others. He’s sitting in front of me: someone is finishing a story, he always seems distant and speaks little. Power. This invasive abstraction usually has both of these characteristics: it is silent and continuously distracted.Yet he often seems uncomfortable. He is a director, but he is not satisfied with directing. He has no flashes of seduction. Would you like some water? He asks. What do you think? He asks, Could you pass me the cutlery? Still it is clear that if he could, he would behave like an American Shaker: he would get up, hang the tables and chairs on the wall and free up the festive space in order to do something new, an ambitious idea, a wild project, an obsession to bring to light. When he finds himself in front of someone who interests him he asks, how much money do you need? But the companionship, the temporary concert of voices, the harmony of the wine and food, evidently, are the wrong diversions. He passes alongside a tugboat in the Cagliari port and all of those who surround him understand immediately how much he identifies, willing or not, with that tugboat.Tugboats are surrounded by a thick layer of inflated rubber in order to cushion every possible contact with the hull they laboriously, miraculously, painstakingly guide to destination – to some kind of destination. The names of politicians are tokens that ring direct, easy, sellable, because they must resist use and abuse. This perhaps is one of the reasons why many important politicians, sooner or later show signs of infinite fatigue, their bodies worn thin, their spent gazes reflect all of the times they have been looked at, their ears ring for all of the times their names have reverberated through the air. The names of politicians are the endlessly repeated echo of a kind of negative saintliness. Now.You must imagine him on an empty, windy beach, on a Sunday morning in March. His hands in his pockets. The steps of swift people, who when they wish, also become slow.The careful, thoughtful gaze upon every detail, upon every centimetre of earth: but most of all upon all that which artificially stands out in the magnificent natural landscape: a sign reading Protected area: ‘flamingo’ territory. Just like that, flamingos in quotation marks, as if they weren’t actually there, before us, arranged in a pink diamond. I make him take notice, a small orthographic stain that is somehow pathetic and forgivable. He laughs, sending his levels of irritation to hell, for once. Because a few hours earlier, facing the port of his hometown, walking past a series of wooden benches which, due to his explicit request, had recently been positioned by the administration, with his own hands he was about to collect the cans littering the ground: I don’t understand why they treat things like this, why don’t they throw these in the garbage. He, in other words, does not leave the poisonous particulars on the battlefield of the political arena – he carries them away without refrain, minute by minute. It’s worse elsewhere. Not on the water, but on the mainland. How is it possible, how is it possible, he exclaims pointing his arms at a golf course suspended over the sea. I’m angrier when I see this than when I see illegally built structures. How could anyone build a golf course here? Then, getting back in his car and ascending another hundred metres, it is as clear as day that the course is surrounded by a crown of ugly buildings. And so his voice shifts into a more tired and dark mode: the terrible thing is the feeling that after I’m gone they’ll go back to doing whatever they want. Sometimes I fear that it’s only a question of time. … I’m dying, I’m detaching myself. A tiny man inside me is reading summaries of old stories which I no longer recall, all brazen and self-referential, precisely here and now, a random selection, this stretch which precedes death is not a list but an in depth reading, I don’t have a repeater inside me rereading transcripts that my ears do not wish to here, dying is an anthology, dying is the power of choice, and so amidst this petulant and precise voice I am happy to hear that my life has been filled with figures encountered briefly
and by chance, but all interesting, holy cow, I don’t even know what profession I practiced, I’m confused and condemned to listen to myself again. It’s not a rundown, but a close examination, an examination of things which have happened but which nonetheless bear a semblance to fairytales tossed like marbles of light toward a dark wall… 3. My Sister and the Green House And yet there was a time, in the sugar-coated haven of infancy, when my sister was the complete opposite of a bank. She didn’t calculate, she didn’t ask to be paid back, she didn’t threaten and she didn’t brood – she was a feminine angel, a dispenser of free time, a narrator of nighttime stories with flying beds and green houses. And she always returned to the story of the green houses. The house with the green room, with a green table, opposite a cool green tennis court, an unpretentious detached house with green chimneys and green dishes and carpets with green tufts. Inside, in the basement, a rusty green trapdoor which you open in the dark, and in the dark, your feet follow a series of little green steps, some more stable than others, it is difficult to make out the walls but what can be seen is the same colour which settles everywhere. The tubing hisses and whispers something that sounds like come closer, the water crashes in the clangour of the boiler and screams come closer. Where must one go? Whereto? Toward the green? But the green is already everywhere. There is a cellar at the bottom of the steps. It’s all so close, so nearby, that the prevalent sensation is that of winding up within the surface of the matter, of coming toward the matter – and the matter is green, even if it is so dark that you couldn’t say it with ocular certainty, only with the haste of your hands which know how to touch colours in the night. And definitely green is the voice which appears before us in the cellar, as you bump your head against this and that, and the voices contort as much as and more than the flowing water in the tubes, but they speak an incomprehensible language, made mostly of wide open vowels or closed dark guttural tunnels. And as if by magic, you feel tired, so tired that even the effort necessary to formulate the neural order to move your pinky finger, or to shift the axis of your gaze, seems immense and difficult, because all movement fails into a lake of green absence. It is a fatigue which leads to immobility, while the voices continue to roll and the dark continues to let itself be understood as green, and in a few seconds one perceives just a strenuous pleasing cessation of the body’s will. You’re a rock.You’re a green house, at the end of a green staircase, in a green basement which rests on the green foundation, dividing the ground from the green grass and the green trees, the fence and even the post box are green.You are a rock, probably green. And at this point what do you do? What is left for you to do, what do you choose to do, with your mind still free and neutral, still not green, still not immobile and imprisoned? What do you choose to do, little brother?, my sister would ask me late in the evening, telling me this story, in bed or pressed against the baseboard in the room with the safe and sloping roof, under there I was small and she was full of words which rhythmically accompanied the bewilderment of fearful eyes, mine, terrified and incapable of providing any response. What would you do? I don’t know, I don’t know, I don’t know. You tell me, tell me. But there is only one thing that you can do. Turn to the Lord. And if the Lord doesn’t answer? Impossible. But if he didn’t, you would have to call out loudly the names of all your friends.I spent many childhood seasons asking myself what was the secret of this story, until I no longer asked myself, and I even forgot to speak about it with her, who in the meantime became someone who would never say “and imagine if it were like this”, but only ‘this isn’t possible’. …And here they are, the many things which pass before my eyes at the end of my life, in a bolt of millimetric awareness, a useless but virtuous acceleration, extremely swift intuition, told by this witness who addresses me in first person, it is I who have seen but it is he who speaks as if it were he who had seen… 4. A Publisher Many years ago I began a project with no end – the translation of a novel called Let the Blood Begin to Boil – a Western for a publisher who had paid me by cheque – and not postdated – as soon as he had see my sample translation. I hated translating, obviously, but it was great.Three million lire in advance for a job that I still had to do and which deep down inside I knew I would have never finished. And yet he, the publisher – a kind man, short in stature with bristly hair and a square face, childless, visibly afflicted by a malady for accumulating books, wealthy due to a fortune in steel landed upon him – gave me a significant amount of my total fee as an advance. Six months later, I hadn’t even translated a single line. It was June. I was in my car when my mobile rang. It was his editor informing me Gianni is dead. I thought it was his
way of punishing me for my delay, so I hung up. Then she called again and I didn’t answer. Then she left a message on my answering machine, saying Gianni is dead, I wanted to tell you, this morning in Brussels, while ordering books in a bookshop. Years later I would find myself in the same bookshop that recorded voice had spoken of. It was called Tropismes, like the novel by Natalie Sarraute. Browsing through the volumes, I didn’t think of Gianni, the publisher, of the man who I had met by chance and by privilege – an extraordinary man to all effects. Fixing my gaze on the empty spaces between the shelves, I didn’t see him. I saw the three million lire imparted to me through his appearance and then granted to me by his death. They were shiny and green, like a chain of crickets. …it’s as if this fireplace, before which I listen to the last stories, is not here to warm but to burn me, and perhaps it is precisely for this reason that I feel this disjointed pain, this burning itch pulsing through my legs and across my back… 5. A Bank Manager I’m sitting on the terrace of a restaurant eating with a friend who works as a bank manager. Of my bank. I’m about to leave the city, but he doesn’t know it yet. At this point in time I have no prospects, yet my face is capable of betraying confidence. It’s cold but we can still eat outside because it’s lunchtime, the sky is clear and a temperature raising sun beats down. Few tables are occupied. He greets acquaintances as they pass behind my shoulders. A young woman and man, with his hand – a gesture in the air, quick. I rub my palms. I had just stepped outside and ten minutes before leaving the house I had taken a shower. For some time now hot water burns my palms – disproportionately, like a scorching grill of pulsations – along my lifelines. I turn to see them, but they are already far away. The man is walking two or two and a half metres ahead of his partner, leaning slightly forward with respect to the axis of the walkway. With a touch admiration, yet defining him a jerk, my friend explains to me that he has never seen this acquaintance, this man, walking at an inferior distance, never less than a couple of metres, and always ahead of the many women with whom he is constantly accompanied.You’re not that precious thing which I hold near. …right here, in a ’85 Maserati Biturbo, on the edge of the Fruhling curve… 6. A Needy Creature Today I met a videomaker friend riding his bicycle, in the sun, dressed in black, thin, his high and wiry hair sadly decrying his lack of work. He had just moved here and couldn’t find any work. He reads a lot, he told me. As soon as I got home I spoke with a partner in an advertisement agency, a wonderful person, and I placed them in contact. Having formulated quietly apologetic thoughts on my behaviour, a self-inflicted pat on the shoulder, after this call, I am now a person fit for crucifixion. …the last thing I remember, together with the writing on a truck that was coming from the other side, reading ‘Beim Schlafengehen’, on the edge of the end of this treasure for which I haven’t yet found a name, begun 42 years ago… 7. Toward the End of Earthly Life I have no illumination and no clear explanation of how things should go. But it proceeds – I feel the precise millimetre in which it begins – the idea that I have to hand myself over to someone. Get myself arrested. Have myself locked up. I have spent more than one hundred thousand euros in the past two years, and just the last two years. I am tempted to call my father. I won’t call him. I want to hear him. He has to help me. I don’t know how to return. I’m in need of a shower but my hands are pulsing all the same. The Penniless Gospel is the narration of the episodes of the life of Jesus Christ and his teachings without any mention of money – without the parable of talents, without the thirty pieces of silver. The Gospel is entirely made of cash money. But according to Don Quaranta, money is always and only metaphor, and it is from the metaphor that it must be eliminated. “Master, tell my brother to divide the inheritance with me”. I can’t remember the last time, as a child, I thought of Jesus as something other than a name. And so goes for “Money cannot make a person righteous before God”. I’m losing the game that defines me. They are serving coffee. I have nothing to lose. “Master, what must I do to inherit eternal life?” FIN
Le fotografie sono c-print, dimensioni varie, 2008-2009 Tiratura 3 + 1 prova d’artista
Volume presentato in occasione della mostra di Stefano Graziani Under the Volcano and Other Stories presso la Galleria Mazzoli, Modena Ottobre 2009
Fotografie © Stefano Graziani www.stefanograziani.com
Testi Anselm Franke Rene Gabri Stefano Graziani Arturo Carlo Quintavalle Gianluigi Ricuperati © Gli autori
Traduzioni © Giuliana Racco (testi di R. Gabri e G. Ricuperati) © Stephen Piccolo (testo di A.C. Quintavalle)
Impaginazione Francesco Mazzoli
Pubblicato da Galleria Mazzoli Via Nazario Sauro, 62 41121 Modena, Italia +39.059.243.455 www.galleriamazzoli.com info@galleriamazzoli.com © Prima Edizione, Settembre 2009
c-prints Studio GM via Verro 43, Milano, Italy
Stampato da Ruggeri Grafiche, Modena
500 copie numerate
Vorrei ringraziare le seguenti istituzioni che hanno reso possibile questo progetto INAF Istituto Nazionale di Astrofisica Osservatorio Astronomico di Padova, sede di Asiago Osservatorio Astronomico di Trieste Museo di Storia Naturale di Trieste Servizio Musei Comunali di Firenze1 1
La fotografia del dipinto di Giorgio Vasari, Perseo e Andromeda, olio su lavagna, Museo di Palazzo Vecchio, Studiolo di Francesco I, Firenze, è stata pubblicata su questo volume su concessione del Servizio Musei Comunali di Firenze. L’immagine non può essere riprodotta o duplicata con alcun mezzo.
e le persone che, in modi e momenti differenti, mi hanno aiutato Giulia Nomis Deborah Arbulla Marina Battaglia Pino Brugellis Massimo Busetto Stefano Boeri Conrad Bohem Andrea Colla Franco Cucchi Matteo Dambros Giovanni Damiani Donatello De Mattia Cristian Diluccio Sergio Dolce Gianluca Gabrieli Franca Giordano Mario Govino Mauro Graziani Fabio Mardirossian Amedeo Martegani Emilio Mazzoli Dario Nardella Francesco Nicoletti Manuel Orazi Daniela Peraldo Andrea Pertoldeo Elena Pianea Cristina Poggi Giuliana Racco Massimo Ramella Francesca Recchia Alice Rubino Alfredo Segafredo Carolyn Smith Marc Sonego Lina Tomasella Vittorio Torbianelli Federica Verona Luca Visintini Federico Zanfi