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ABSTRACT
Il “Collettivo Malelingue” nasce con l’intento di sviluppare un progetto grafico che diventa una “propaganda sociale” esteticamente ispirata ai metodi comunicativi dei movimenti totalitari. In questo caso però, il messaggio sarà per lo più costruttivo con l’intento di creare un cortocircuito che punti a straniare il fruitore e a farlo riflettere. Per farlo passeremo attraverso uno studio storico, che faccia chiarezza su come lo strumento manifesto sia stato utilizzato dai regimi totalitari del passato, ed uno metodologico, basato sui principi della “teoria della percezione gestaltica”. tesi congiunta: Eugenio Bertozzi Stella Gori
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INTRO
Nel descrivere come il manifesto sia stato utilizzato nel passare dei decenni come potente strumento comunicativo, non possiamo che ricorrere ad una metodologia cronologica, che affronti la questione dalla sua nascita attraverso la sua massima diffusione, all’interno delle campagne di propaganda dei regimi totalitari, fino ad oggi. C’è anche da considerare però, sin dalla partenza, che ci sia una certa compatibilità stilistica delle diverse esperienze nelle diverse epoche attorno al globo. Infatti, seppur fosse (e sia tutt’ora) utilizzata dagli esponenti più
avversi tra loro per ideologia politica o tipo di prodotto, quest’arma di comunicazione risulta avere dei caratteri stilistici uniformi ovunque sia sfruttata. Questa uniformità è particolarmente spiccata per quanto riguarda le campagne socio-politiche propagandistiche dei grandi totalitarismi della storia quali quello bolscevico di LeninStalin in Russia, quello nazionalsocialista di Hitler in Germania, quello socialista di Mao in Cina, quello fascista di Mussolini in Italia (che ci interessano particolarmente in quanto prese a modello per sviluppare la 8
maggior parte dello stile comunicativo Malelingue). Questa tipologia strettamente politica di manifesto d’altronde, costituiva, al tempo, uno dei pochi mezzi di comunicazione di massa, dato che radio e tv non avevano ancora l’importanza che poi acquistarono con il passare dei decenni, e che l’analfabetizzazione non rendeva possibile a tutti la comprensione dei giornali. Questo è il periodo su cui concentreremo i nostri approfondimenti, dato che può essere considerato per quantità di produzione e diffusione, il “periodo d’oro” del Manifesto.
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CAPITOLO PRIMO
IL MANIFESTO ARTISTICO DELL’800 A CURA DI EUGENIO BERTOZZI
NASCITA E DIFFUSIONE: Il manifesto francese Nato nel periodo della rivoluzione francese, il manifesto era stato pensato con il fine di divulgare nel più breve tempo possibile notizie ed annunci alle masse. I personaggi più significanti che sono coinvolti nella nascita del manifesto moderno sono per ragioni abbastanza diverse, Jules Chéret ed Henri Lautrec. Il primo si dedicò infatti alla produzione di affiches pubblicitarie che saranno fondamentali
per l’evoluzione tecnica del manifesto, mentre il secondo, sarà essenziale nel costruire quel legame indissolubile tra arte e creazione pubblicitaria e tra quest’ultima e la società di cui fa le veci. Inoltre, con la diffusione della produzione industriale a cui si arrivò nel corso del XIX secolo, incrementò notevolmente la gamma degli oggetti di consumo di massa il chè a sua volta comportò la necessità di utilizzare il manifesto 10
a livello più ampio, con la consegueza che in poco tempo divenne lo strumento fondamentale di comunicazione commerciale nelle strade delle città. Avvicinandosi alla fine del XIX secolo, il manifesto tipico composto per lo più da ampie descrizioni verbali passò all’universo delle immagini, le quali assunsero un ruolo più rilevante ed autonomo, e che risultavano più impattanti e comprensibili alle masse.
JULES CHERET (1836 -1932) L’impegno di Jules Chéret nel campo della grafica e del manifesto, in particolare, ha origini lontane. Figlio di un tipografo, iniziò la sua attività come apprendista presso un litografo parigino e tra il 1859 e il 1866 compì un viaggio di studio e poi un lungo soggiorno a Londra per approfondire la conoscenza dei procedimenti tecnici di stampa litografica a colori. Qui conobbe Eugène Rimmel, un produttore di profumi, che divenne poi suo mecenate e gli consentì di visitare l’Italia e gli altri Paesi del Mediterraneo. E’ in questo rapporto di mecenatismo tra l’imprenditore e il grafico, che va a sostituirsi a quello classico tra uomo di stato e pittore di corte, che notiamo un altro segno dei tempi che stanno maturando: l’arte e l’economia si avvicinano e ne traggono reciproco vantaggio. Nel 1866, Chéret tornò definitivamente a Parigi. Utilizzando macchinari di fabbricazione inglese, vi aprì un proprio stabilimento da cui avrà il via una produzione sterminata di manifesti di grande formato. Nel suo lavoro la tecnica delle macchine di stampa inglesi, figlie della rivoluzione industriale, sposa la creatività della pittura francese e soprattutto le istanze rivoluzionarie dell’impressionismo. Negli anni a venire, una clientela vastissima, composta da cabaret, teatri d’opera,
caffè - concerto, circhi e parchi di divertimento, gallerie d’arte, ma anche giornali, grandi magazzini, e ditte commerciali, affiderà al pioniere del manifesto pubblicitario moderno una produzione di affiches che al termine della carriera comporrà un catalogo di 1069 opere. Non di minor dimensioni sarà la sua produzione grafica minore, composta da copertine per libri, programmi teatrali, spartiti e riviste. Nelle sue opere, la scritta, considerata sinora come elemento estraneo all’immagine, viene ora ripensata in funzione di quest’ultima, che nel frattempo ha abbandonato la monocromia e il rigore delle illustrazioni precedenti, per assumere uno straordinario dinamismo e un fortissimo impatto, grazie a un utilizzo spregiudicato del colore e del movimento. Il testo perde in parte il proprio valore didascalico e descritt vo per assumere un maggior rilievo decorativo ed estetico. La descrizione del prodotto o dell’evento reclamizzato si riduce, fino a scomparire, in molti casi, mentre viene amplificato l’effetto di attrazione dell’illustrazione, mediante scritte dinamiche e colorate. Un’altra, fondamentale intuizione di Chéret consiste nell’associazione del prodotto da pubblicizzare con la rappresentazione della donna, che ben presto caratterizzerà la maggior parte della sua produzione. La figura femminile, dai tratti post - impressionisti e spesso rappresentata in movimento, ha lo scopo di 11
far convergere l’attenzione dell’osservatore, attratto anche dalla vivace scelta cromatica. E’ interessante notare, in relazione all’utilizzo della figura femminile nell’opera di Chéret, come l’attenzione verso la donna nella comunicazione pubblicitaria, oggi sicuramente abusata forse per scarsità di idee - non sia affatto cosa recente, ma, anzi, risalga agli albori della réclame moderna. Naturalmente la lezione di Chéret non rimase lettera morta, ma fu imitata, assimilata e perfezionata da numerosi artisti, tanto in Francia quanto nel resto d’Europa e in America, i quali contribuirono all’affermarsi di una cartellonistica accattivante e comprensibile a tutti. Naturalmente l’importanza di Chéret non risiede esclusivamente nel suo carattere di precursore della grafica pubblicitaria a colori e nella sua elevata produzione, che configura una vera e propria industria dell’arte. A lui va ascritta, infatti,anche l’invenzione e la realizzazione di cartelloni di grande formato e soprattutto l’utilizzo di uno stile basato su un nuovo rapporto tra immagine e testo. In Francia, come si è già avuto occasione di accennare, gli sviluppi più importanti dell’arte del manifesto si verificarono, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, con le innovazioni introdotte, sia nella forma che nel contenuto, dai pittori francesi Pierre Bonnard, Théophile Steinlene ed Henri de Toulouse.
le sue raffigurazioni di animali, specialmente di gatti. In questi manifesti, caratterizzati dalla figura stilizzata e bidimensionale di un gatto e realizzata in soli tre colori, però, il modello orientale, anche grazie all’insegnamento di maestri del calibro di Toulouse - Lautrec, rinuncia finalmente a citare i soggetti propri delle stampe giapponesi, limitandosi a riprenderne chiaramente le modalità compositive.
HENRI DE TOLOUSE LAUTREC (1864-1901)
ALEXANDER STEINLEIN (1859-1923) L’opera di Théophile Alexandre Steinlen, invece, pittore e grafico di origine svizzera (naturalizzato Francese), risulta particolarmente importante per i successivi sviluppi della grafica pubblicitaria, laquale risentirà, del periodo, del crescente influsso dell’arte giapponese. Si dedicò alla litografia, giungendo alla notorietà
con l’ affiche per “France - Champagne”. Nel 1892 si legò al gruppo dei “nabis”. Collaborò con disegni e litografie alla Revue Blanche e pubblicò una serie di litografie su aspetti della vita parigina. Trasferitosi a Parigi nel 1880, entrò a far parte dell’ambiente artistico di Montmartre, diventando famoso come disegnatore della vita dei proletari e dei sobborghi parigini. Illustrò anche numerose opere letterarie. Celebri 12
Come già accennato in precedenza, la figura di Toulouse - Lautrec riveste un carattere fondamentale nella storia del manifesto pubblicitario moderno. Innanzitutto a livello tecnico. Egli, abbandonate le tecniche impressioniste, ampiamente utilizzate nella sua pittura, per la realizzazione dei suoi manifesti attinge a piene mani dallo stile grafico giapponese, pur rimanendone costantemente lontano dai soggetti tipici. I suoi cartelloni sono composti da larghe campiture di colore piatto e contrastante che pongono in straordinario rilievo la figura massiccia del soggetto, mentre i volitivi tratti del volto sono appena accennati. Un secondo elemento fondamentale della cartellonistica di Toulouse - Lautrec è l’uso spregiudicato
dell’inquadratura, che deriva, attraverso la mediazione dell’amico Degas, dalla fotografia. Quella del rifiuto del punto di vista statico e, invece, dell’adozione del taglio fotografico che riprende momenti comuni, sarà una costante della produzione pubblicitaria di Toulouse Lautrec e testimonia la sua capacità di tradurre nelle sue opere non solo l’evoluzione della società, ma anche di rifletterne, implicitamente, le evoluzioni tecniche. Ad esmpio, ritroviamo questa metodologia nell’affrontare la fase di progettazione cartellonistica, in “Moulin Rouge: la Goulue”, manifesto realizzato nel 1891, con il doppio intento di celebrare le ballerine del locale e di fungere da manifesto pubblicitario. L’opera, di straordinaria modernità, è costruita su tre piani paralleli: in primo piano il profilo monocromo, enfatizzato fino ad apparire caricaturale, del proprietario del locale, il quale sembra presentare compiaciuto la sua vedetta. Il ricorso all’enfatizzazione caricaturale, tanto nella pittura, quanto nella grafica, costituisce un’ulteriore importante cifra stilistica di Toulouse Lautrec; In secondo piano una ballerina di can can, al centro della composizione, risalta grazie al dinamismo della sua danza e al colore bianco delle sue vesti che spicca sulle altre tonalità. Infine, in terzo piano, a fare da cornice, la nera silhouette del pubblico, ennesima citazione delle ombre cinesi.
LA TRASFORMAZIONE DI FINE SECOLO: Attraverso l'ArtNoveau Francese (1859 - 1923) La fase innovativa del manifesto, avviene con il periodo dell’Art Nouveau Francese, dove l’arte dell’immagine illustra il prodotto industriale. La diffusione di questo “stile floreale” (come veniva chiamato in Italia), iniziò ben presto ad influenzare la grafica dei manifesti e soprattutto il rapporto tra il testo e l’immagine. Il testo divenne infatti sempre più, parte integrante del disegno, fino a confondersi e mescolarsi con esso.
HENRI VAN DE VELDE (1863-1957) Esempio significativo di questa innovazione è il belga Henri Van de Velde, considerato “pietra miliare della cartellonistica pubblicitaria”. Nei suoi manifesti le figure umane sono, per la prima volta, assenti e vengono sostituite da un disegno astratto di cui è parte integrante il nome del prodotto reclamizzato. Questo manifesto, dall’immagine allusiva, pone immediatamente in risalto le profonde differenze con lo stile di Chéret e dei suoi seguaci. Mentre questi ultimi rimanevano ancora legati alla tradizione realista, i nuovi artisti tendevano verso una rappresentazione più simbolica e distaccata dalla realtà. In questo periodo 13
avviene quindi, in maniera definitiva, la fusione a cui aveva tanto lavorato Lautrec tra la pubblicità e l’arte. Nascono così dei veri propri artisti della cartellonistica anche con grande intuito commerciale nell’elaborare l’immagine del prodotto. E’ questo il periodo in cui Il manifesto viene innalzato più vicino al rango di arte, con affissioni che sembrano tanto quadri senza una cornice. Possiamo dire che la vera e propria escalation, e successiva affermazione di questo strumento di comunicazione, ebbe la sua partenza con l’inizio dell’ultimo decennio del ‘900. Questo secolo vide tra l’altro l’introduzione della stampa offsett, che rese più semplice e veloce stampare grosse tirature rispetto alla cromolitografia. E’ sempre all‘inizio del secolo che si vide anche la diffusione dello slogan ,frase d’impatto, facile da ricordare, usata nel contesto commerciale come facilmente memorizzabile e associabile al prodotto, che in seguito diverrà potente arma nelle campagne dittatoriali. In Italia lo slogan arrivò solo attorno agli anni ‘30, come diretta conseguenza dell’abbandono del testo in funzione referenziale e descrittiva. Questo era ormai sostituito dall’immagine, facilmente identificabile con il prodotto, di facile “lettura” anche agli analfabeti e, ad ogni modo, talmente d’impatto da rendere superflua ogni descrizione sotto forma di testo.
INIZIO '900: Il manifesto Liberty Italiano (1859-1923) Dal 1890 al 1910, periodo d’oro della cartellonistica Italiana, in alcuni paesi europei come la Francia e negli Stati Uniti, si organizzarono le prime esposizioni di manifesti nelle gallerie d’arte, si stamparono riviste specializzate nel settore, potendo così collezzionare, e di conseguenza preservare dalla distruzione, quei fragili fogli di carta intinti nel colore e negli slogan. Questo purtroppo non accadde
in Italia, dove la prolifera produzione di questi anni non fù accompagnata da una altrettanto consistente attività di collezione. Oltre a questa mancanza, c’è da dire anche, che in realtà i manifesti italiani passarono quasi del tutto inosservati rispetto al resto delle produzioni europee e statunitensi. Ne è la dimostrazione il primo volume stampato che ebbe come soggetto il manifesto, che raccoglieva elaborati austriaci, belgi, 14
americani, inglesi e persino giapponesi, ma che non ne citava alcuno italiano. D’altronde in Italia e Spagna, nonostante la creazione di manifesti fosse sempre più qualificata, questa non era supportata da un attività tipografica altrettanto qualificata. La storia del manifesto italiano moderno, commissionato dall’industria, si identifica con il lavoro delle Officine Grafiche Ricordi. Nell’atelier della Ricordi, costituitosi nel 1896, lavora uno
straordinario gruppo di artisti diretto da Adolfo Hohenstein. Qui, tra lavori prodotti per una clientela vastissima, nasce il sodalizio con la ditta Mele, per la quale le Officine Grafiche realizzano, per circa vent’anni, una serie di manifesti, in un clima caratterizzato dal lavoro di équipe, in cui gli artisti lavorano fianco a fianco con i tecnici riproduttori. Per i magazzini Mele furono realizzati centinaia di manifesti, che divennero un vero e proprio fenomeno di costume nei circoli ed ambienti culturali. Tra i cartellonisti delle Officine Grafiche Ricordi figurano, in quegli anni, artisti fondamentali nella storia della grafica italiana quali Cappiello Metlicovitz, Marcello Dudovich, Sacchetti, Terzi, ai quali si aggiunsero Mauzan, Nomellini, Palanti, Laskoff. Da questo gruppo di artisti saranno prodotti storici manifesti per imprese importanti come La Rinascente, Campari, Generali, ma anche teatri come la Scala di Milano. Tra questi ultimi, famosissimo è uno dei capolavori di Hohenstein, il grande manifesto per la Tosca, caratterizzato da un gioco di luci e ombre melodrammatiche e dal curioso serpentello sulla O della scritta in stile Liberty. E’ appunto il liberty a monopolizzare i manifesti, caratterizzati da soggetti allegorici e mitologici, dei primi cartellonisti italiani. Presto, tuttavia, i più avveduti tra gli artisti del cartellone pubblicitario capiscono l’esigenza di distaccarsi dallo
stile illustrativo e, forse spronati dalle esigenze dell’industria, scoprono quel gusto più moderno che caratterizza il messaggio pubblicitario.
ADOLFO HOHENSTEIN (1854 –1928) Pittore, illustratore e cartellonista russo . Giunse a Milano nel 1889 per assumere la direzione artistica delle Officine Grafiche Ricordi: sotto la sua guida l’azienda confermò la sua posizione leader nel paese sia come stamperia, sia come fucina di nuovi talenti nell’ambito della cartellonistica. Nel 1906 si trasferì in Germania, dove risiedette prima a Düsseldorf, quindi, dal 1914, a Bonn, dedicandosi esclusivamente alla pittura. Notevole fu anche la sua attività di scenografo e costumista per il Teatro alla Scala (rimase memorabile il suo contributo per la prima rappresentazione assoluta del Falstaff di Giuseppe Verdi, nel 1893).
LEONETTO CAPPIELLO (1875-1942) Nei manifesti di Cappiello, composti quasi sempre di una sola figura, è possibile leggere quel sintetismo dell’idea pubblicitaria che, abbandonata la prima parentesi illustrativa va diffondendosi in tutti gli artisti del manifesto e che lo stesso Cappiello, 15
in un’intervista del 1934, descriverà con chiarezza: “la soluzione grafica deve rendere impossibile la dissociazione dell’idea dalla forma”. Trasferitosi presto in Francia, Cappiello arriverà all’apice della comunicazione visiva e analogica fra soggetto e scritte. Erede del cromatismo di Chéret, esasperato poi nei suoi lavori più maturi, non solo inventò uno stile inconfondibile, in cui evidenziava l’idea pubblicitaria, da lui definita “Arabesco - idea”, ma anche una e vera e propria formula di messaggio pubblicitario in cui l’oggetto da reclamizzare veniva personalizzato al punto da venire associato al nome del suo produttore. Seguendo tale procedimento, pertanto, l’immagine perderà definitivamente la funzione di reclamizzare il prodotto, che sarà affidata esclusivamente alla didascalia, per acquisire definitivamente la funzione di individuazione dell’immagine aziendale.
DURANTE LA PRIMA GUERRA: Il passaggio alla Propaganda Dal 1914, l’Europa fu scossa dalla guerra, la prima “mondiale” e “totale”. “Mondiale” in quanto interessò tutti i grandi stati, che impiegarono gran parte del loro denaro e risorse per la preparazione di strumenti di offesa e difesa, ed in secondo luogo “totale”, in quanto interessò uomini, donne, bambine, fù combattuta per terra, per mare ed in aria con mezzi fino ad ora pressochè inimmaginabili ai più, come aerei, sottomarini e carrarmati. Accanto a questa innovazione dei mezzi tecnologici di lotta, ci fu anche, per la prima volta in sede bellica, la comparsa della guerra psicologica che si sviluppava attraverso diversi canali, tra i quali quello che interessa a noi: il Manifesto. Durante il primo conflitto mondiale, i punti su sui si incentravano i messaggi della cartellonistica propagandistica dei regimi erano essenzialmente tre: la demonizzazione del nemico; il mantenimento di prospettive ottimistiche sulla vittoria del conflitto tramite l’unione della nazione ed il mantenimento dell’appoggio degli alleati; la mobilitazione di tutto il popolo nel periodo bellico. Quella che si rivelò più efficace su tutte all’epoca, fu l’utilizzo della demonizzazione del nemico. Infatti la resistenza psicologica delle persone “normali” alla guerra è così consistente che tutte le guerre furono fatte apparire come un conflitto di difesa contro un 16
aggressore “rude, crudele, minaccioso, pericoloso e assassino”. Insieme alla diffusione di storie atroci, i manifesti del “demone nemico” rendevano possibile etichettare in modo dispregiativo il nemico ed esprimere un giudizio di condanna senza nessuna prova di merito. Per dimostrare la somiglianza dei messaggi tra le diverse fazioni abbiamo preso in cosiderazione tre manifesti, uno inglese, uno russo ed uno tedesco, che si attaccano vicendevolmente tra loro. In america la demonizzazione del nemico tedesco fu così efficace che in 14 stati eliminarono l’ insegnamento della lingua tedesca nelle scuole pubbliche. Altro modo per ottenere quella di ottenere il consenso popolare mediante fu il ricorso a mitologico/religiose. Un esempio ci viene fornito dai manifesti inglese e russo che fanno addirittura entrambi riferimento alla figura di San Giorgio che lotta col drago. Il drago naturalmente simboleggia il nemico, pertanto ci troviamo nuovamente di fronte ad una situazione di demonizzazione ma questa volta posta sotto un punto di vista diverso che tira in ballo la religione, uno dei fattori culturali alla base della società. Il secondo messaggio per le masse era quello dell’unione del popolo, unione che avrebbe portato ad una vittoria certa. Era un messaggio certamente più costruttivo del primo, ma ciò che alla nostra analisi storica pare più che evidente è che non
parlasse della quantità di sacrifici umani che il popolo stesso avrebbe subito al fine ultimo della vittoria. Grazie all’attento uso di stratagemmistemmi, contrasti definibili impattanti ed emozionanti, descrizione positiva degli alleati e negativa dei nemici, questi manifesti puntavano a suscitare impetuosi sentimenti comuni, volti ad una comune finalità. In queste illustrazioni troviamo i colori grafici quali l’uso dei colori patrii, bandiere, della propria bandiera protetta dagli alleati, o l’operaio simbolo dell’industria bellica stretto, e protetto, a braccetto da un marinaio ed un soldato. Sono immagini che puntano a rassicurare la popolazione e rafforzare la propria impronta sull’opinione pubblica. Altro fulcro dei temi propagandistici fu quello della mobilitazione. Per mobilitazione è intesa innanzitutto la chimata alle armi di giovani e adulti. Per questo tipo di messaggio venero utilizzati ancora personaggi della mitologia o sacralità, che si rivolgevano direttamente al
destinatario del messaggio con grande enfasi. Il classico soggetto dall’indice puntato (ripresentato anche nella seconda guerra) è metafora di un modello sociale e statale che chiama tutti a raccolta, prova generale di una comunicazione rivolta all’uomo comune e capace di catturarne l’attenzione. Ma la comunicazione di questo tipo non è destinata solo ai soldati al fronte, ma anche alla popolazione femminile. La propaganda rivolta alle donne si muove su tre linee principali: donna come madre del popolo; donna sostitutrice dell’uomo-soldato nella lavorazione dei campi o nelle fabbriche; donna soldato in grado sia di preparare armi che di arruolarsi nei vari esercti. Mentre gli uomini sono al fronte (e quindi non sono più i principali destinatari dei messagi) la propaganda si concentra sulla popolazione femminile chiamata a compiere il proprio dovere , considerata fondamentale per la nazione e la vittoria finale.
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Questa è l’epoca in cui lo stato, sostituendosi alle aziende, divenne il nuovo committente dei manifesti, i quali, assieme ai giornali, costituivano il principale mezzo d’informazione. I Ministeri dei vari paesi affidarono allora il delicato compito d’informazione e persuasione ai grandi cartellonisti dell’epoca. Achille Luciano Mauzan (Italia), Théophil Alexandre Steinlen (Francia), Ludwig Hohlwein e Hans Rudi, Erdt (Germania), James Montgomery Flagg (Stati Uniti), Alfred Leete (Inghilterra). Per quanto riguarda la tecnica di stampa del manifesto, negli anni venti e trenta avvengono cambiamenti importantissimi, che influenzeranno inevitabilmente anche l’aspetto estetico dei lavori. Anche in Italia si abbandonano la litografia e la cromolitografia per passare alla stampa offset e, soprattutto, alla fotomeccanica, in cui anche i colori pieni vengono ottenuti con la sovrapposizione di più retini.
IL MANIFESTO BAUHAUS DEGLI ANNI '20 Negli Anni Venti incomincia a farsi strada nell’arte una tendenza sempre più accentuata verso il funzionale, che investirà anche il disegno dei manifesti. Di fronte ai sorprendenti successi della scienza e della tecnica, il funzionale sembra costituire il nuovo ordine ideale di bellezza. Questo orientamento è particolarmente evidente nella famosa scuola d’arte e mestieri fondata da Walter Gropius: il Bauhaus. La scuola, inaugurata a Weimar all’inizio del 1919 e nella quale, successivamente, confluiranno evidenti apporti dalle avanguardie russe, si propone lo scopo di realizzare l’unità fra le diverse attività artistiche e artigianali, quindi tra il mondo dell’arte e quello della produzione. Dei tre periodi in cui spesso vengono suddivisi gli anni del Bauhaus Origine (1919-1923), Stabilizzazione (1923-1928), 18
Disintegrazione (19281933) - ai fini dello studio della storia del manifesto, riveste particolare importanza il secondo periodo, caratterizzato dal lavoro dei grafici Herbert Bayer e Joost Schmidt. Afferma Albers, uno dei teorici del Bauhaus: “Il tempo è denaro. Viviamo e ci muoviamo velocemente… utilizziamo il telegramma… dobbiamo leggere e parlare in fretta”. Il manifesto deve essere facilmente comprensibile anche viaggiando in auto”, e nelle sue parole non possiamo non scorgere l’attualità del mondo contemporaneo. Nonostante la diffusione limitata, ad una stretta élite, dovuta all’opposizione politica, e al delicato momento storico, le ricerche iniziate presso la scuola di Gropius aprirono al manifesto pubblicitario infinite possibilità. Grandi sperimentazioni, ad esempio, avvennero nel campo del lettering, ovvero nello studio dei caratteri più appropriati al manifesto pubblicitario. Lo stesso Bayer, sulla scorta delle numerose proposte minimaliste di alfabeto bauhaus del 1919, o delle lettere universali di Tschichold di qualche anno dopo, creerà diversi caratteri e proporrà anche un alfabeto unico. Tra i suoi lavori un esempio famoso è Ausstellung europaeisches Kunstgewerbe, un manifesto di solo testo, caratterizzato dall’alternarsi di rettangoli rossi, blu e grigi. Intanto assumeva un’importanza sempre maggiore la fotografia, finora esclusa
dalla comunicazione pubblicitaria poiché giudicata meno efficace della grafica. Sono soprattutto gli studi di Moholy-Nagy a dare impulso a questo settore e, soprattutto, a dare l’avvio ad una vivace sperimentazione che influirà particolarmente nel settore del manifesto pubblicitario, creando le basi per la definitiva sostituzione del disegno con l’immagine ripresa dalla fotocamera, seppur solo dopo la Seconda Grande Guerra.
HERBERT BAYER (1900-1985) Dopo aver studiato per quattro anni al Bauhaus sotto la supervisione di Vasilij Kandinskij e László Moholy-Nagy, Gropius lo nominò direttore dei settori stampa e pubblicità. Nell’ottica di un minimalismo riduttivo, Bayer sviluppò uno stile visuale brusco, essenziale, e per la maggior parte delle pubblicazioni del Bauhaus utilizzò caratteri sans serif esclusivamente minuscoli. Nel 1928, Bayer lasciò il Bauhaus per diventare direttore artistico dell’ufficio berlinese della rivista Vogue. Dieci anni dopo, si stabilì a New York, dove si distinse per lungo tempo in quasi tutte le manifestazioni delle arti grafiche.
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CAPITOLO SECONDO
IL MANIFESTO DEI REGIMI TOTALITARI Con la comparsa di personaggi dittatoriali quali Leni e Stalin in Russia, Hitler in Germania, Mussolini in Italia, Mao in Cina il linguaggio ideale tornò ad essere quello del manifesto propagandistico, in particolare quello che si avvicinava alla fotografia a colori. D’altronde Hitler stesso parlava dell’arte come “una funzione della vita del popolo, cui vien data una forma dall’ispirazioine divina dell’artista”. La grafica, come anche l’arte, divenne 20
così, sotto il controllo attento dei ministeri dei regimi, uno strumento per inquinare la coscienza del popolo, e per inculcare nelle teste delle masse i concetti chiave di queste ideologie utopistiche. In questa seconda fase bellica di livello mondiale, vediamo la ricomparsa di diversi fattori che avevano caratterizzato la prima. Innanzitutto diversi manifesti utilizzati precedentemente vennero ripresi e riutilizzati, ma c’è da dire che anche per quanto riguarda stilemi compositivi e comunicativi, non ci furono molti cambiamenti. Quello che cambiò per la maggiore fu la quantità, che per il secondo conflitto fu nettamente maggiore. Questo sicuramente per via delle maggiori possibilità economiche dei paesi in guerra, ma anche e soprattutto per l’efficacia che era oramai già stata dimostrata da questo tipo di strumento. Con i manifesti delle campagne dei grandi regimi dittatoriali ci spingiamo però verso un messaggio molto più studiato a livello psicologico. Non solo. Le propagande di questi regimi non basavano certo la propria abilità solo sui manifesti. Le propagande di questo periodo inglobano completamente l’intera vita delle persone. Dalle radio, ai giornali, alle chiese, alle spie per strada, una strategia del terrore velata da una comunicazione che stoglieva lo sguardo dalla realtà. In merito a questo tentativo di manipolare il pensiero delle masse,
Joesef Goebbels, braccio destro di Hitler, affermò che “la propaganda vera non si svela: la migliore è quella che lavora in modo invisibile, penetrando in ogni cella della vita in modo tale che il pubblico non abbia idea della presenza e degli scopi dei propagandisti”, frase che ad oggi può risultare scontata ai più, ma che dimostra quanto fossero consapevoli gli addetti al lavoro del tempo, della qualità psicologica dei manifesti che producevano. 21
HITLER, LENIN, STALIN : Propaganda tra NAZIONALSOCIALISMO E BOLSCEVISMO n Germania la figura del capò assunse, un potere dittatoriale anche tramite campagne del terrore e azione propagandistica. La massima diffusione dei manifesti Nazisti si ebbe tra la fine degli anni ‘20 e l’inizio degli anni ‘30. Ma per quanto riguarda la propaganda di questa nazione, si deve fare riferimento, più che ad Hitler in persona, ad un altro personaggio simbolico nel percorso del manifesto: Joesef Goebbels. Hitler, che era un soggetto ricco d’ingegno e di energie, sapeva bene che la propaganda doveva essere comprensibile alle masse, e perchè lo fosse doveva fare riferimento a stilemi dell’arte popolare, facilmente assimilabile dalla popolazione. Nel Mein Kampf Hitler dichiara: “le masse hanno una capacità di percezione assai debole e limitata. Partendo da questo presupposto, ogni propaganda per essere efficace deve essere ridotta ad un minimo di concetti essenziali , che a loro volta devono essere espressi in poche formule stereotipate” “solo con una costante ripetizione si può giungere al successo nell’inculcare delle idee nella testa delle masse” - e ancora parlando di modalità di comunicazione -”una delle cose più importanti è decrivere i contrasti in bianco e nero” . 22
L’arte popolare non è mai stata realistica in nessuno paese di nessuna epoca. Il suo linguaggio è sempre stato volto alla fantasia, al grottesco, alla stilizzazione, all’espressione, al primitivismo, alla semplicità, al simbolismo ed all’iconicità; tutti fattori che ritroviamo nella campagna propagandistica nazista (ma anche nelle altre dei regimi totalitari). In questo periodo il messaggio ebbe perlo più due canali, che costituiscono in realtà due facce della stessa medaglia: quello di “appello alle masse”, di responsabilità della propaganda, e quello dello “spirito popolare” di competenza a psicologia e filosofia. Per fare un esempio di questo secondo canale, descriviamo il rapporto tra Hitler e la chiesa. Nella germania nazista avvenne una vera e propria antipropaganda attuata dal regime nei confronti della chiesa. Il Natale per esempio continuava ad essere celebrato, ma durante le messe, le letture, i canti non vi erano parole che si riferissero a Gesù e nelle stalle dei presepi non vi era segno del Bambino nella mangiatoia. Una chiesa senza Gesù e un presepe senza Bambino possono essere considerati un valido compendio della pseudoreligione totalitaria attuata da Hitler, tramite un operazione a livello psico-sociale. In Germania si arrivò a riferirsi al furher con l’appellativo di Cristo: Il Salvatore.Hitler,
inoltre, pur nutrendo una profonda avversione per il cristianesimo, più di una volta sostenne la necessità di uno studio accurato della storia della Chiesa Cattolica che, grazie alla sua straordinaria organizzazione, aveva mantenuto il potere, soggiogando le menti delle masse tramite l’istruzione, per oltre duemila anni. Persino il carattere romano fu abolito per essere sostituito da quello gotico. Per quanto riguarda i manifesti, seppur inizialmente Hitler elesse il discorso orale come strumento di dominazione delle masse, successivamente si pronunciò in favore dell’immagine all’interno del suo Mein Kampf: “maggiori prospettive possiede l’immagine in tutte le sue forme .. qui c’è ancor meno bisogno dell’intelletto: basta guardare, tutt’al più leggere brevi testi” - e ancora - ”L’immagine porta in breve tempo e quasi di colpo, chiarimenti e nozioni che lo scritto permette di ricavare solo da una noiosa lettura“. Come abbiamo già accennato, seppur le ideologie fossero tra loro opposte, il modo di comunicare dei regimi attraverso i manifesti fu sempre abbastanza uniforme, similare, sia a livello stilistico, che di linguaggio, che di messaggio. Le cartellonistiche naziste e quelle dei comunisti tedeschi per esempio venivano appese negli stessi posti e spesso era
solamente la presenza della svastica o dei baffi di Hitler a determinarne la matrice politica. Le ideologie politiche sia di destra che di sinistra fecero ricorso alle categorie filosofiche fondamentali della fede e dell’ateismo, del materialismo e dell’idealismo, della ragione e dell’istinto per combattere tra loro e per combattere gli altri. Secondo la propaganda sovietica l’ideologia nazionalsocialista era una forma di pseudoreligione che avrebbe riportato lumanità agli aspetti più oscuri del medioevo. Hitler stesso era considerato un mistico che per la soluzioone dei problemi importanti si rivolgeva ad astrologi e chiromanti, e agli insegnamenti occulti orientali. A loro volta i nazisti presentavano il comunismo come una dottrina brutalmente materialista, per lo più diffusa dagli ebrei. Tutto ciò mascherava la somiglianza delle due ideologie, impedendo di afferrarne dall’esterno la sostanza reale. Anche in Russia la figura del leader di riferimento del regime venne spesso accostato alla religione. Ci si riferiva a Lenin come “il vivente eterno” o, addirittura, come “il più vivo tra i viventi”. Soprattutto dopo morto, fu oggetto di un vero e proprio culto, consapevolmente contrapposto alla religione ortodossa, che soprattutto nelle campagne era ancora molto viva, malgrado gli sforzi compiuti dal 23
regime per estirpare la fede tradizionale. Il corpo del capo bolscevico fu imbalsamato ed esposto alla contemplazione dei cittadini sovietici, come se fosse la reliquia di un santo. In un secondo tempo, vennecostruito nella Piazza Rossa, davanti al Cremino, unmausoleo a forma di cubo, nel quale la salma mum-mificata fu collocata, e che fu per vari decenni meta di pellegrinaggio da parte di singoli e di comitive. Di Lenin ed Hitler, poi, si celebravano l’aspetto fisico (la fronte alta, simbolo di intelligenza, e altre caratteristiche che in Germania si riassunsero sotto il titolo di Arianesimo), la modestia e la sobrietà di vita, e soprattutto le incomparabili doti umane e morali, tralasciando ovviamente la disponibilità all’assassinio su grande scala e la furia da cui erano pervasi, quando si scagliava contro i propri avversari o contro chi, semplicemente, aveva opinioni diverse dalle loro. Lo slogan di maggior successo nel periodo leninista russo fu quello che insisteva su un punto centrale: Lenin, in realtà, non era morto, perché il suo spirito viveva ancora e la sua opera veniva proseguita dai nuovi dirigenti del partito e dello Stato. Tuttavia, nel corso degli anni Trenta, il numero dei ritratti e delle statue di Lenin diminuì, a tutto vantaggio di quelli in cui Stalin appariva da solo o insieme al leader
bolscevico. Al contrario, tutti quei compagni e collaboratori di lenin che erano caduti in disgrazia, o addirittura erano stati processati e uccisi, scomparvero dalle fotografie e dalle ricostruzioni ufficiali della rivoluzione. Trockij, in particolare, grazie alla tecnica del fotomontaggio, fu cancellato dalle immagini che lo ritraevano vicino a Lenin. Man mano che la “rivoluzione” staliniana trasformava l’economia e la società sovietica dall’alto, la propaganda di regime fu mobilitata per celebrare i successi del regime e nasconderne i drammi. La collettivizzazione delle campagne fu accompagnata non solo da una martellante campagna ostile nei confronti dei kulaki, ma anche da un’invasione di manifesti che raffiguravano contadini gioiosi e festanti, che esortavano a entrare nei kolchoz. Al centro della scena, troviamo spesso un trattore, simbolo di quella modernizzazione e di quell’ efficienza che, invece, mancava clamorosamente alle fattorie collettive. Un altro frequente simbolo della modernizzazione nelle campagne era una giovane figura femminile, che campeggiava al centro dell’immagine e che recava sul capo un fazzoletto rosso. Dettaglio importante in quanto, mentre nel costume contadino tipico della tradizione russa il fazzoletto era allacciato 24
sotto al mento, il collo della giovane comunista che faceva propaganda per il kol-choz era libero, in quanto il copricapo era allacciato sulla nuca, secondo una modalità del tutto inedita, simbolo, appunto, della nuova esistenza che (secondo le affermazioni delregime) sarebbe di lì a poco iniziata per la classe contadina. A partire dal 1934, in URSS fu imposto a pittori e a scrittori (definiti da Stalin “ingegneri di anime”) un canone estetico ben preciso, che ricevette il nome di realismo socialista. Il primo Congresso generale degli scrittori e artisti sovietici, tenutosi a Mosca dal 17 al 31 agosto 1934, venne messo in scena secondo i principi che sarebbero diventati vincolanti per tutti i congressi e i convegni successivi. Proprio in questo congresso furono elaborati per la prima volta i concetti fondamentali del realismo
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socialista. Il congresso celebrò il culto di Stalin in un modo che non aveva precedenti. Tutti gli oratori principali gli attribuirono il ruolo di “timoniere” di tutti i settori della vita sovietica, ivi comprese l’arte e la letteratura. In apertura venne indirizzato a Stalin un saluto che, a nome di tutti i convenuti, esprimeva l’essenza reale dell’estetica totalitaria: “La parola è la nostra arma. Noi mettiamo quest’arma a disposizione dell’arsenale della lotta della classe lavoratrice. Vogliamo produrre un’arte che educhi i costruttori del socialismo e instilli nel cuore delle masse certezza e fiducia, che le renda felici e ne faccia i veri eredi della cultura mondiale”. Il messaggio terminava con le parole: «Evviva la classe operaia che ti ha generato, e il partito che ti ha istruito per la felicità dei lavoratori di tutto il mondo». I sentimenti di lealtà arrivarono al punto di attribuire alla classe
operaia e al partito solo il merito di aver generato e istruito il compagno Stalin. Così con le nuove regole imposte dal realismo socialistaromanzi, manifesti e quadri dovevano esprimere ottimismo e presentare la Russia come il “Paese più felice del mondo”, all’interno del quale ciascun lavoratore offre con gioia ed entusiasmo il suo contributo all’edificazione del socialismo. Parallelamente all’azione degli artisti, la stampa diede molto risalto a quei lavoratori che si impegnavano con ritmi da assalto nel proprio settore. La prima figura celebrata fu quella del minatore Aleksej Stachanov (da cui la definizione “stacanovista”) che il 31 agosto 1935 riuscì a
estrarre 102 tonnellate di carbone (il 10% dell’intera produzione giornaliera della miniera) in un turno di 6 ore. Personaggi di questo genere in realtà non lavoravano per passione, o attaccamento all’ideologia socialista, ma, più realisticamente, per le ricompense che lo stato forniva loro sotto forma di denaro o generi di consumo. In questa maniera però il regime acquistava punti davanti agli occhi delle masse che vedevano soggetti sconosciuti come loro divenire miti dediti al sacrificio per la felicità del mondo utopico socialista. Quando, nel 1941, la russia fu invasa dalle truppe tedesche la figura di Stalin ebbe una momentanea ascesa, tanto che anch‘egli risultò in difficoltà in più 26
di un discorso pubblico. Quando però le truppe naziste, colte dall’inverno e prive di rifornimenti, dovettero fermarsi e successivamente essere respinte, il personaggio di Stalin si rialzò subito in quanto vincente. Questi però sentì il bisogno di arricchire la sua immagine di nuovi elementi, che, in passato, quando pure era padrone incontrastato dell’ URSS, non aveva ritenuto necessari, per puntellare il suo prestigio e la sua autorità. Fino alla guerra, Stalin appare sempre vestito sobriamente, con una semplice giacca militare. Dopo la vittoria, ostenterà cappotti con mostrine, cappelli ricchi di fregi, giubbe cariche di decorazioni e addirittura una giacca bianca da
gran maresciallo (”Stalin al timone”).Per quanto riguarda gli ultimi anni della sua vita, Stalin fu considerato immortale, e parlare della sua morte prossima e/o sostituzione, poteva essere motivo di arresto in quanto prova di complotto. Una delle tante censure e strategie del terrore adoperate sulle masse dai dittatori totalitari.
JOSEPH GOEBBELS (1897-1945) Goebbels fu il braccio destro di Hitler, ed in un certo senso lo plasmò. Il Fuhrer del Reich millenario, fu in grado di avvalersi di colui che può probabilmente essere considerato come il più grande talento propagandista del secolo scorso. Responsabile del Ministero tedesco dell’Informazione, Joseph Goebbels venne definito “l’uomo che creò Hitler” in quanto fù l’uomo che si preoccupò di tutti gli aspetti comunicativi del regime del furher.Joseph Goebbels fu nominato capo dell’ufficio della propaganda del partito nazionalsocialista nel 1929, e cominciò a concentrare da allora nelle sue mani un potere smisurato. Con la nomina nel novembre del 1923 a ministro della propaganda e della guida della neonata camera della cultura, Goebbels venne ad avere l’assoluto controllo su tutti i principali mezzi di propaganda della Germania nazista. Egli fù il primo a comprendere la potenzialità nell‘unione di cultura, arte e ideologia nazista e seppur soffrisse il fatto che la sua forma fisica non corrispondesse proprio esattamente con i caratteri dell’arianesimo, fu uno straordinario oratore e il suo eccezionale talento contribuì non poco alla scalata al potere di Hitler. Quella di Goebbels fu una comunicazione unilaterale, martellante e con i paraocchi. A leggere i principi su cui si basava il suo lavoro si pensa alla 27
dittatura mediatica in atto tutt‘oggi attraverso i “nuovi dittatori commerciali” e i mass media. I principi non si distaccano molto da quelli utilizzati nel resto del mondo, e si concentrano per la maggiore su: - la semplificazione e il nemico unico: “E’ necessario adottare una sola idea, un unico simbolo. E, soprattutto, identificare l’avversario in un nemico, nell’unico responsabile di tutti i mali”; - Il metodo del contagio: riunire diversi avversari in una sola categoria o in un solo individuo; - la trasposizione secondo cui bisogna caricare sull’avversario i propri errori e difetti, rispondendo all’attacco con l’attacco. “Se non puoi negare le cattive notizie, inventane di nuove per distrarre”; - l’esagerazione e il travisamento: trasformare qualunque aneddoto, per piccolo che sia, in minaccia grave; - la volgarizzazione, in base alla quale tutta la propaganda deve essere popolare, adattando il suo livello al meno intelligente degli individui ai quali va diretta. Quanto più è grande la massa da convincere, più piccolo deve essere lo sforzo mentale da realizzare. La capacità ricettiva delle masse è limitata e la loro comprensione media scarsa, così come la loro memoria. - la così detta “orchestrazione”, con la quale la propaganda deve limitarsi a un piccolo numero di idee e ripeterle instancabilmente,
presentarle sempre sotto diverse prospettive, ma convergendo sempre sullo stesso concetto. Senza dubbi o incertezze. Da qui proviene anche la frase: “Una menzogna ripetuta all’infinito diventa la verità”; - il continuo rinnovamento: occorre emettere costantemente informazioni e argomenti nuovi a un tale ritmo che, quando l’avversario risponda, il pubblico sia già interessato ad altre cose. Le risposte dell’avversario non devono mai avere la possibilità di fermare il livello crescente delle accuse. - il principio della verosimiglianza. Costruire argomenti fittizi a partire da fonti diverse o attraverso informazioni frammentarie; - il “silenziamento”: passare sotto silenzio le domande sulle quali non ci sono argomenti e dissimulare le notizie che favoriscono l’avversario; -la “trasfusione” che, come regola generale, dice chet la propaganda opera sempre a partire da un substrato precedente, si tratti di una mitologia nazionale o un complesso di odi e pregiudizi tradizionali. Si tratta di diffondere argomenti che possano mettere le radici nelle menti delle masse; - infine, il Principio dell’unanimità, vale a dire cercare di portare la gente a credere che le opinioni espresse siano condivise da tutti, creando una falsa impressione di unanimità. Grazie a questi tecnicismi, utilizzati con astuzia dal propagandista più
importante del secolo scorso, il potere e la fama della figura del furher andarono aumentando e diffondendosi. Il senso maggiorato di drammaticità di ogni slogan e/o illustrazione, delle propagande totalitariste, evidenziano un tipo di comunicazione volta al falso. L’obiettivo era incutere un emozione, una reazione, positiva o negativa che fosse, e non descrivere come stavano i fatti realmete. In merito a questo Goebbels scrisse addirittura che “la
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propaganda non ha nulla a che fare con l’obiettività, come l’obiettività non ha nulla a che fare con la propaganda”.
ALEKSANDR MICHAJLOVIČ RODČENKO (1891-1956) Protagonista dell’ Avanguardia, pittore, grafico, creatore di manifesti di grande novità, attento alla architettura nuova e all’ arredo, designer, pioniere del fotomontaggio. Rodchenko porta avanti un “combattimento per un linguaggio fotografico che esprima i temi sovietici, gli angoli di ripresa, l’ eccitazione della scoperta del mondo con la fotografia, col reportage”; il compito che l’ artista si assegna è “mostrare gli oggetti da tutti i punti di vista e sopra tutto da quelli non usuali”. Questa idea delle riprese di scorcio, dall’ alto o dal basso e della composizione della grafica fuori delle tradizionali prospettive; la composizione dell’ immagine spesso con un vuoto al centro e il peso ai margini nasce certo dalla esperienza del collàge e del fotomontaggio, quello delle copertine dei libri e dei notevoli manifesti dell’ artista, ma anche da un dialogo con le avanguardie, quella di Man Ray e quella della Bauhaus di Moholy Nagy la cui opera e i cui testi Rodchenko conosce. L’artista russo ha voluto proporre, nella composizione grafica, prima di tutto il movimento e quindi la funzione dentro l’ immagine delle associazioni della memoria, come era richiesto dal regime pre affrontare la situazione sociale nelle sue caratteristiche dinamiche. 29
MUSSOLINI: LA PROPAGANDA DEL FASCIO In Italia, se ad inizio secolo la comunicazione pubblicitaria risentì delle influenze pittoriche degli artisti di quell’epoca, che d’altronde si cimentavano numerosi nella realizzazione di manifesti, fu il movimento futurista, teorizzato da Tommaso Marinetti nel 1919, ad intuirne le potenzialità e ad assumerla come forma artistica. Fortunato Depero, la figura, a fianco di Marinetti, che in italia riuscì maggiormente nell’intrecciare in maniera sempre più stretta ed articolata le relazioni tra artista e pubblicità, descrisse quest’ultima come: “fatalmente moderna, fatalmente audace, fatalmente pagata, fatalmente vissuta”, tipica dei tempi, l’unica in grado di marciare al passo con l’industria, la politica, la scienza, la moda, la guerra, con la sua spavalderia e ottimismo forzato. Sotto Mussolini il manifesto si fece carico
delle campagne di propaganda proprio come era successo in tutto il resto delle nazioni. Anche qui un leader dittatoriale, si era imposto come salvatore della patria, e sostituito alla figura del re, fino ad ottenere un potere “totalitario”. Le campagne propagandistiche fasciste sono del tutto simili a quelle escogitate in Russia, Germania, Cina e, come queste, si rifanno alle grafiche della prima guerra, con una maggiore intensità psicologica. L’ideologia fascista poggiava inoltre sulle medesime basi di quella nazista e, come questa esortava all’obbedienza, in questo caso al “Dux” , alla sottomissione ai fasci, alla difesa della razza, e alla demonizzazione del nemico.Le diverse componenti del razzismo fascista, insieme ad altri retaggi culturali e messaggi sfruttati abilmente dalla propaganda, sfociarono, durante la preparazione alla guerra e negli anni del conflitto, nella “razzizzazione del nemico”, nella rappresentazione 30
basata su caratteri animaleschi, brutali, grotteschi, di coloro che erano da considerare nemici, diversi, inferiori: gli ebrei in primo luogo, ma anche russi, slavi, inglesi. A scuola frasi come “Obbedire perchè dovete obbedire”, “La pace giusta è la pace Romana”, “difendere La Razza” e centinaia di altre (anche più significative) venivano inculcate nelle menti dei Balilla, i bambini educati sotto il regime fascista, sin dai primi anni di studio. Mussolini aveva preso molto seriamente il sistema scolastico tanto che i bambini italiani crescevano convinti della loro superiorità, di quella della loro patria, e di quella del loro Dux, sopra alle altre “razze inferiori”. Il razismo era insegnato nelle scuole. I bambini crescevano come piccoli soldati dediti al duce e le bambine con un ruolo gerarchico nettamente inferiore nella scala sociale, tirate su per gestire la casa e produrre prole pronta al lavoro e alla guerra.
LA CINA SOCIALISTA DI MAO Come gli avvenimenti Italiani sono strettamente paralleli a quelli Tedeschi, anche il socialismo cinese fu diretto erede delle esperienze sovietiche. Nella variante cinese la “nuova cultura” è impegnata in una lotta mortale contro la cultura reazionaria, non c’è costruzione senza distruzione, liberazione senza limitazione, e movimento senza respirazione. Mao TseTung, leader cinese, definì questa “nuova cultura” come una “potente arma rivoluzionaria del popolo”. Con la loro mentalità abituata a sottigliezze dialettiche, i cinesi presero alla lettera le dichiarazioni dei loro capi, verso cui provavano una profonda reverenza, e i principi di Mao vennero immediatamente messi in pratica, quando e dovunque vennero espressi. In effetti la variante cinese avrebbe costituito un modello ideale di cultura totalitaria se non fosse stato “di seconda mano”. I comunisti cinesi hanno seguito le orme dell’URSS, e l’arte, la grafica e la letteratura della Cina comunista furono in realtà parti di quelle sovietiche. Lo stesso Mao affermò che “l’esperienza russa in generale, e i principi del realismo socialista in particolare, dovevano costituire il modello culturale da realizzare in Cina”. Da allora, fino ai giorni nostri, la cultura della Cina comunista ha seguito pedissequamente questa traccia, con le 31
proprie variazioni, ma riproducendo l’esperienza del Grande Fratello russo in tutto e per tutto, nonostante le profonde divergenze ideologiche tra i due paesi, che sono venute sempre più accentuandosi nell’avvicinarsi della metà degli anni ‘50. Secondo Mao l’intero comparto artistico doveva avere l’unico ruolo di occuparsi della propaganda per la lotta di classe. Ed il suo unico scopo era di instillare il concetto della lotta nella coscienza delle masse con un linguaggio che fosse universalmente comprensibile. Secondo Mao il “fronte della penna” deve affiancare “il fronte del fucile” nel formare il fronte culturale. Afferma anche che “se l’arte e la letteratura popolare accennano a declinare, allora la rivoluzione non potrà andare avanti e raggiungere la vittoria”. Hitler pensava esattamente la stessa cosa quando parlò del bisogno di un intervento decisivo nell’ambito culturale durante il periodo di evoluzione rivoluzionaria. Con “popolare” Mao non intendeva più la tradizionale espressione creativa popolare cinese, ma il linguaggio di massa della cultura uffucuale che egli voleva costruire. L’artista del manifesto “popolare” cinese, secondo Mao, doveva, una volta identificatosi con le masse ed appreso il loro linguaggio, rappresentare la vita non qual’è, nonn come “realtà oggettiva”, ma nella sua dinamica verso l’idea sociale: “la comunicazione deve
costruire una molteplicità di tipologie di immaginari tratti dalla vita quotidiana, ma, al tempo stesso, proiettare le masse nel loro progresso storico” (notare che in queste parole Mao non fa altro che parafrasare la definizione del realismo socialista promul gata da Zdanov-Stalin, con un particolare acccento sulla rappresentazione della realtà “nella sua dinamica rivoluzionaria”). Le “forze” di queste dinamica dovevano costituire il soggetto principale dell’opera propagandistica. Gli intenti principali che Mao voleva venissero espressi tramite i manifesti e le opere d’arte dell’epoca erano del tutto volti ad accrescere il suo potere dittatoriale, e lasciarlo incontrastato. Più nel particolare si impegnavano nel rinforzare l’identità e l’unità della Nazione Cinese formata da una moltitudine di popolazioni, contribuire alla costruzione del socialismo, rafforzare la dittatura democratica popolare, rafforzare il centralismo democratico, rafforzare il ruolo di Mao come guida del partito comunista e promuovere la “solidarietà” internazionale socialista. Sotto i regimi di Hitler e Stalin vennero bruciati libri e dipinti, sia apertamente in piazza , che segretamente, in base ad elenchi compilati dalla censura. Sotto entrambi questi regimi, gli autori di tali testi scomparvero silenziosamentenei campi di lavoro. In Cina, questa volta, riuscirono a fare anche peggio. Qui non solo si diede fuoco ai libri e si
sputò sui dipinti in pubblico, ma anche sulle facce dei loro autori, che vennero pestati, presi in mezzo ad ordate di Guardie Rosse e fatti marciare per le strade con orecchie d’asino. Il partito esercitava il proprio controllo sull’arte per mezzo dell’unione dei lavoratori artistici, che assegnava le committenze, stabiliva i particolari, e ne controllava l’esecuzione.
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LA FORZA DEL MANIFESTO NELLA PROPAGANDA DEI TOTALITARISMI Le caratteristiche che resero il Manifesto, lo strumento adatto alla comunicazione di tipo propagandistico, e quindi, implicitamente politico, sono molteplici. Nei tempi in cui sorsero i grandi totalitarismi che abbiamo sinora affrontato, tecnologie moderne come la televisione o internet non esistevano ancora, e anche la radio si diffuse solo a partire dagli anni ‘40, dato che i primi apparecchi alla portate delle tasche delle masse vennero commercializzati a partire dal 1937. Questo faceva si che il manifesto avesse l’esclusiva sulla pubblicità esterna, caratteristica che, insieme alla possibilità di un posizionamento strategico, permetteva una grande visibilità al pubblico. Le necessità dominanti per grafici e comunicatori, a questo punto, erano quella di catturare dell’attenzione del pubblico in primis e, in secondo luogo,la necessità di garantire uno sforzo minimo da
parte del fruitore nel recepire il messaggio. Le caratteristiche che risposero a queste due necessità furono quattro: l’impatto visivo, il simbolismo, la sinteticità e l’uso dello slogan. L’impatto visivo necessario ai manifesti di propaganda fu garantito dai grafici dell’epoca dall’utilizzo di colori forti, che creassero un contrasto accentuato, figure che si stagliassero dal fondale con prepotenza dal fondale ed uno stile illustrativo vicino al fotografico, con pochi cambi di campitura per descrivere ombre e spazio. Il simbolismo adottato da qualsiasi tipo di propaganda è invece la prima delle rimanenti tre caratteristiche che dovevano invece garantire che il messaggio dei manifesti fosse di facile lettura alle masse. Infatti, il ricorso a simboli e personaggi derivanti dalla mitologia e/o dalla religione, fù un arma vincente nella comunicazione di massa. Questo tipo di soggetti erano infatti riconoscibili alla popolazione poichè facevano già parte della 34
loro cultura iconografica. Così utilizzare S.Giorgio che combatteva e sconfiggeva il drago, in cui si personificava il nemico, era un modo di comunicare più assimilabile dalla massa, che sicuramente, in quella figura avrebbe riconosciuto quella di S.Giorgio. Il prossimo elemento è la sinteticità, che in un certo senso, è sottointesa quando si parla di “grafica”. Si può facilmente notare dall’analisi storica che abbiamo affrontato, come il momento in cui venne l’ora di comunicare messaggi chiari e forti, sotto i periodi bellici, coincida con il momento in cui si abbandonò lo stile del manifesto-quadro dell’art noveau e del liberty. Con questa nuova necessità di chiarezza era necessaria una sinteticità maggiore, capace di far intendere immediatamente il senso del messaggio. A questo fine partecipò anche l’ultimo elemento chiave: lo slogan. L’utilizzo del linguaggio associato all’immagine non è certo un invenzione fascista, nè nazista o sovietica. Questo si presenta invece ogni
volta che la domanda di un inserimento dell’arte nel vivo del tessuto sociale (o politico) si fa più esplicita e urgente. Per trasformare un contesto già carico di valori e simbolismi, ma pur sempre nell’indeterminatezza del linguaggio per immagini, lo strumento della parola scritta funziona da dispositivo inequivocabile nel portare un assiomatica certezza, un chiarimento, capace di far compier in maniera più chiara al fruitore il processo percezione-comprensione. In generale comunque, in qualunque parte del globo i sistemi totalitari, cominciarono a funzionare, qualunque fossero i principi che facessero da base ideologica al movimento, tutta la loro azione propagandistica, artistica, e letteraria si volse a raccontare la stessa favola: quella del paradiso socialista in cui non c’è più dolore o sofferenza, in cui sotto la guida di capi illuminati un popolo felice costruisce una nuova vita e punisce severamente i propri nemici.
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CAPITOLO TERZO
DAL DOPOGUERRA AD OGGI IL "CANTO DEL CIGNO" DEL MANIFESTO Negli anni immediatamente successivi alla seconda grande Guerra, il manifesto attraversa un periodo di fermento che, tuttavia, sarà anche considerato come la sua epoca finale, il suo “canto del cigno”. Si cimentano nella cartellonistica pubblicitaria, artisti di prima importanza, appartenenti a diverse correnti artistiche come Pablo Picasso, Salvador Dalí, Henri Matisse o lo statunitense Roy Lichtenstein. Anche
tra i grafici in questi decenni spiccheranno nomi di importanza storica, come quelli di Saul Steinberg e Milton Glaser. Tuttavia la storia dell’affiche pubblicitaria, intesa come immagine artistica prodotta tramite un procedimento grafico, appariva ormai, alla sua naturale conclusione. La diffusione di quelli che diverranno i nuovi massmedia come televisione, radio e successivamente internet, ma anche solo la crescente popolarità dell’immagine fotografica, ridurranno drasticamente 36
l’importanza del manifesto, e limiteranno l’intervento di artisti di diverse discipline nella cartellonistica. Il manifesto come mezzo di comunicazione pubblicitaria, naturalmente, non si estinguerà totalemtne, ma la realizzazione grafica e illustrativa sarà per maggior parte sostituita da immagini fotografiche, le quali, pur conservando la raffinatezza dei primi manifesti stampati grazie al processo litografico, meglio si adatteranno alla dinamicità e velocità della vita moderna.
SAUL STEINBERG (1914-1999) Saul Steinberg nacque in Romania nel 1914 e studiò in Italia, negli anni Trenta, al Politecnico di Milano: poi nel 1940, a causa delle leggi razziali, fu costretto a lasciare l’Italia per gli Stati Uniti, dove cominciò a lavorare per il New Yorker. Gio Ponti era stato tra i primi a incoraggiare il suo allievo Saul Steinberg dicendogli che aveva la stoffa dell’artista insieme a quella dell’architetto. Nel ‘36 Steinberg era un giovane studente fuori corso al Regio Politecnico, fuggito quattro anni prima dalla «fogna» della Romania e determinato ad assorbire quanto più poteva della cultura di quel «laboratorio della modernità» che era la Milano degli anni Trenta. Non che quel ragazzo, destinato a diventare il più grande cartoonist americano, abbia mai avuto l’intenzione di esercitare il mestiere dell’architetto. Si laureò in fretta e furia nel 1940 dando quindici dei sedici esami necessari in meno di un anno, per sfuggire alle leggi razziali e raggiungere New York con una laurea in tasca. E’ divenuto famoso nel corso dei decenni più per le numerose copertine che illustrò per il New Yorker, che per i suoi manifesti pubblicitari. Un’opera in particolare di Steinberg divennedivenne particolarmente famosa: “View of the world from the 9th avenue”. Nell’illustrazione, pubblicata dal giornale il 29 marzo 1976, Steinberg racconta
il mondo, attraverso una prospettiva dalla Nona Avenue, con un’idea “newyorkcentrica” del mondo. Se Saul Steinberg, l’ebreo di Bucarest figlio di un modesto stampatore, è ancora oggi ricordato come l’autore di «quel poster» – un’ironica veduta del mondo dalla Nona Avenue di Manhattan, con il Kansas e il Nebraska come una zattera tra il fiume Hudson e l’Oceano Pacifico, e subito oltre, sulla stessa linea, Cina, Giappone e Russia – è anche perché a Milano aveva imparato a disegnare «qualcosa di più di quello che l’occhio può vedere».
ARMANDO TESTA (1917-1992) In questo panorama un’ultima figura, tutta italiana, riesce ancora a distinguersi. E’ quella di Armando Testa, figura completa di artista e comunicatore pubblicitario, in grado di sintetizzare il linguaggio commerciale, all’insegna dell’ironia, della grafica e della fotografia. Ma anche questo personaggio, attraverso numerose campagne per le marche più importanti, approderà infine alla neonata pubblicità televisiva. Sono gli anni di Carosello, anni in cui la pubblicità era ancora uno spettacolo. Esempio culmine di questo “show” tutto pubblicitario saranno i due personaggi studiati per Lavazza: Pippo e Carmencita. Sin da subito sarà un successo 37
sorprendente che farà dei due personaggi (due pupazzi) delle vere e proprie star, mentre le due aziende entreranno prepotentemente nelle case di tutti gli italiani. Pippo e Carmencita nascono dalla stessa matita che creò numerosi cartelloni pubblicitari, ma riescono a prendere vita grazie alla televisione e per questo,con un termine estremamente attuale, potremmo già definirli personaggi multimediali. Sicuramente lo è in particolare il pupazzo Carmencita. Caduta nell’oblio dopo la fine di Carosello, tornerà a salutare gli italiani sugli schermi della televisione moderna, e dalla televisione finirà a presidiare anche l’ultimo baluardo della comunicazione che le mancava: le pagine animate del sito web Lavazza, estrema evoluzione tecnologica del manifesto.
MILTON GLASER: "First things first" Milton Glaser, è nato a New York il 26 giugno 1929 ed è uno dei più famosi e apprezzati graphic designer contemporanei. È entrato nell’immaginario collettivo grazie a quello che, forse, è il più noto dei suoi lavori, il logo “I Love New York”, nel quale la parola “love” è sostituita da un cuore, commissionatogli dallo Stato di New York. La geniale idea di associare graficamente al concetto
di amore un cuore è ormai usata da tutti, perfino dagli innamorati nei loro teneri messaggi d’amore. Glaser ha rinnovato il progetto grafico di numerose riviste, catene commerciali, ed ha ricevuto anche incarichi di grafica architettonica, come la progettazione del Ponte di Osservazione delle due Torri Gemelle del World Trade Center di New York. E’ stato un personaggio iperproduttivo e di scompiglio (entrando nell’home page del suo sito leggiamo immediatamente la citazione “less is not necessarely more”, che farebbe sobbalzare i teorici sostenitori del minimalismo grafico. Numerosissimi sono i lavori di Glaser nel campo della pubblicità affidatigli da grandi aziende di tutto il mondo: per limitarsi all’Italia, gli hanno affidato la realizzazione di manifesti pubblicitari l’Olivetti e la Campari. Per incarico dalla World Health Organization, Glaser ha disegnato nel 1987 il simbolo e i poster internazionali per la lotta contro l’AIDS. A coronazione di una cariera di designer, illustratore, disegnatore eccentrica ed esplosiva, nel 2009 Milton Glaser è stato insignito dal presidente degli USA Barrak Obama della “National Medal of Art”. 38
OLIVIERO TOSCANI (1942, MILANO) Il “caso Benetton” è uno degli esempi lampanti di come si sia evoluta la tecnica pubblicitaria e siano cambiati gli interessi sociali. Agli inizi degli anni ‘60 il tipo di comunicazione è di stampo classico, modelli pressochè identici, senza identità, che indossano i capi in vendita. Questo standard continua fino agli anni ‘80 quando un impronta di innovazione sarà introdotta da Oliviero Toscani, fotografo decisamente significativo nel settore pubblicitario. Con Toscani l’impianto dell’immagine si avvicina sempre più a quello grafico, fino a quando si arriva all’eliminazione dello sfondo, che diventa bianco, senza riferimenti prospettici o indicazioni spaziali, e i colori vengono esaltati e portati in primo piano. La metà degli anni ‘80 è il periodo in cui inizierà l’impegno politicosociale del fotografo milanese. Questi cercherà di rompere le differenze razziali, promuovere la coabitazione e l’integrazione degli opposti e aprire un dibattito su
alcuni lati considerati ipocriti o incoerenti nell’ambiente della chiesa. A questo si acoosta la scomparsa del prodotto che diventa un mero attributo. Basterà il nome del marchio, divenuto oramai famoso, a svolgere il compito di identificazione del prodotto. Questa caratteristica viene portata allo stremo quando, giunti agli anni ‘90, appariranno foto dai caratteri strettamente realistici e piene di drammaticità. Gli argomenti affrontati sono di impegno notevole: quello della guerra, della diffusione dell’aids e della morte. Il fenomeno di espansione mondiale porta la United Colors of Benetton ad incentrare la propria comunicazionie su di un substrato ideologico comune a tutti gli uomini, secondo il quale siamo per lo più tutti uguali nella sofferenza. La campagna di Toscani prosegue con degli impegni con la Croce Rossa Italiana che invita a donare i propri vestiti e a svuotare gli armadi a favore dei poveri del mondo (Luciano Benetton
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posò nudo per questa causa). In America Toscani si spinse fin dove il governo americano non voleva si spingesse: concluse infatti questo ciclo di lavori sociali con un servizio fotografico sui condannati all’ergastolo negli Stati Uniti. Questi primi piani sconvolsero il paese, il cui governo fece chiudere un gran numero (più di duecento) di negozi della catena, causando, tra l’altro, la fine della carriera di Toscani alla Benetton. Molti dei suoi lavori sono stati completamente censurati, soprattutto in Italia. La spiegazione che si è voluta dare è che il mondo non fosse ancora pronto per affrontare argomenti tanto scottanti con la leggerezza con cui si pose Toscani, ma è anche vero che a questo modo, i governi operarono una sorta di anti-propaganda della realtà, gestendo a proprio piacimento la comunicazione alle masse, e continuando a nascondere la sofferenza e le atrocità che il fotografo milanese cercò di portare alla luce.
CONCLUSIONE
L’analisi affrontata da questo studio ha permesso di rilevare come l’evoluzione del manifesto pubblicitario sia stata caratterizzata da un costante adeguamento alla società in cui si manifestava. Parallelamente risulta indiscutibile il fatto che la stessa società, le mode, la propensione al consumo e al lusso, o ad una specifica propensione ideologica siano state profondamente influenzate dal messaggio 40
veicolato attraverso i manifesti. Naturalmente lo spazio limitato di questo studio non ha permesso di sviscerare in modo completo le caratteristiche di tutti i personaggi che hanno contribuito a fare la storia della comunicazione cartellonistica, e soprattutto di quella propagandistica, ma ha affrontato l’argomento cercando di farne un quadro pressochè completo della situazione, attraverso un percorso che affrontasse
i meccanismi strategici e psicologici che regolano la ricezione del messaggio pubblicitario. Si è cercato di evidenziare, infine, come l’aspetto del manifesto sia stato influenzato non solo dalle mode estetiche, ma dalla società stessa e dall’evoluzione della tecnica. Quest’ultima è, in fin dei conti, responsabile della sostanziale perdita d’importanza del manifesto, in particolare del manifesto d’arte. Così, questa metodologia di
comunicazione che aveva mantenuto fino agli anni’60 una dimensione artigianale e autenticamente artistica molto poetica e viva, va estinguendosi, per essere sostituita dalle nuove armi comunicative della socità dei giorni nostri: più potenti, ammallianti ed accattivanti.
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INTRO
Per rendere completo lo studio sul manifesto è parsa evidente la necessità di approfondire anche il dato metodologico che sta alla base di una composizione di qualunque tipo. Il maggior contributo ci è stato dato dalla psicologia della Gestalt, nata in germania nel XX secolo, che studia l’apprendimento dell’uomo in tutte le sue dinamiche: sociale e visiva, pensiero e personalità, apprendimento, espressività e psicologia dell’arte. Proprio quest’ultima ci è servita per analizzare quali fossero gli elementi chiave di un poster “d’effetto”, quali
sono stati mantenuti nel tempo e quali sono andati abbandonati, per poterli usare a nostro vantaggio. Lo studio indaga la visione sul piano fisico (come l’immagine viene trasmessa alla retina), psicologico (quali sono gli elementi grafici che scatenano qualcosa nell’utente e perchè, a partire dalle semplici forme fino all’uso di certi colori piuttosto che altri), estetico (come disciplina filosofica specifica), ed evolutivo (come si è evoluta la percezione umana?). Non siamo sempre coscienti, anzi quasi mai, di quello che accade nel nostro occhio quando 44
incontra delle immagini e quando lo scopriamo c’è da sorprendersi di come sopravviviamo in un mondo così bombardato di immagini. Forse grazie a un principio di autoconservazione, la nostra mente “filtra” le infromazioni visive e ci rende consapevoli solo di quelle fondamentali alla immediata sopravvivenza o di quelle che ci colpiscono per qualche collegamento con il nostro subconscio. Utilizzando e anche rielaborando questi principi possiamo diventare più consapevoli e competenti rispetto al nostro lavoro.
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CAPITOLO PRIMO
PRINCIPI DELLA GESTALT A CURA DI STELLA GORI
Ogni immagine (sia essa un quadro, una foto, un poster, un paesaggio...) ha uno scheletro strutturale che la sostiene e determina i ruoli degli elementi visivi; che sia voluto o no questo non cambia perchè il nostro occhio ha bisogno di orientarsi nello spazio e lo fa classificando gli elementi che vede. Vi sono delle leggi generali che accomunano la visione di base, anche se dobbiamo essere sempre pronti a smentirle perchè, per
quanto gli studi scientifici si siano evoluti, non potranno mai realmente spiegare le dinamiche più complesse della mente umana. Rudolf Arnheim (uno dei più grandi discepoli della Gestalt) nel suo saggio “Arte e percezione visiva”, dove raccoglie tutti i principi di questa psicologia, ci insegna che “vedere qualcosa significa assegnarli il suo posto nel tutto: una collocazione nello spazio, una valutazione della sua dimensione, la 46
chiarezza, la distanza”. Ogni oggetto percepito è regolato da forze, fisiche e psicologiche, che corrispondono a qualità intrinseche dell’oggetto: queste, combinandosi, creano pesi e movimenti (effetti dinamici). Il nostro sguardo, proprio come ogni singolo atomo dell’universo, cerca l’equilibrio: questo è determinato dall’energia potenziale del sistema. La semplicità e l’ordine rendono minima, e quindi più stabile, quest’energia
potenziale. Per fare qualche esempio, maggiore è la distanza dal centro o la dimensione dell’oggetto, maggiore sarà la sua importanza, così come l’uso di un colore acceso (rosso, giallo...) sarà più d’impatto rispetto a una tonalità chiara. Anche l’isolamento di una figura rispetto al centro o l’uso di forme più semplici rispetto ad altre contribuisce a questo effetto, come la profondità spaziale, la piccolezza, la forma intrinseca più o meno regolare. Non vanno dimenticati l’interesse intrinseco dell’osservatore (timori, desideri...) e la conoscenza a priori della data immagine. Possiamo dedurre altri due principi fondamentali: il primo è che la visione è un mezzo di orientamento spaziale attivo, e il secondo è che l’importanza di un oggetto nel suo insieme è determinata dal rapporto col resto. Un punto isolato in alto a destra di una composizione, avrà sicuramente più peso che se centrato e circondato da altri punti (il centro della composizione, infatti, è sempre il punto più stabile). Inoltre è stato scoperto che l’occhio afferra solo alcune caratteristiche preminenti di un oggetto quando lo incontra, per poi completarlo con una facilità costruttiva che, grazie alla produzione di modelli interni del cervello, regola le nostre aspettative. Questo comportamento è definito “principio di economia” dagli studiosi della Gestalt: economia nel senso di ottenere il massimo dell’organizzazione
(visiva) nella struttura più semplice. Ciò è simbolo della pigrizia del nostro “corpo” che cerca sempre di fare il meno sforzo possibile per ottenere il migliore risultato: quando leggiamo, per esempio, esso deduce la parola in base alle prime lettere e al contesto, non conclude mai realmente la lettura. Ma anche quando incontriamo una forma, come quella umana, ci basterà qualche dettaglio fondamentale per capire cosa stiamo osservando, un ovale per il viso e una forma allungata per il corpo, come per distinguere un gatto da un cane basta il profilo delle orecchie. La stessa cosa vale per le immagini geometriche, possiamo intuire la sagoma di un triangolo anche solo vedendo tre vertici (se posizionati con una certa coerenza) perchè è un’immagine più coerente e semplice rispetto a immaginare elementi grafici sparsi senza un ordinamento.
La precodificazione di certe immagini nel nostro subconscio fa si che possiamo prevedere certe cose anche pur non avendole sperimentate in precedenza grazie a principi come quello di economia, di continuità e di ordine. Questa capacità è però anche legata alla cultura di un popolo: ciò significa che ogni società ha modi diversi di leggere le immagini. Se per un occidentale un immagine di un libro avrà più equilibrio sulla destra, per 47
un orientale sarà l’esatto opposto; allo stesso modo i gruppi indigeni non sono in grado di leggere un’immagine fotografica perchè non fa parte del loro “repertorio visivo”. Walter Lippmann in “Public Opinion” (1922) scrive: “Nella maggior parte dei casi noi non siamo soliti vedere e poi definire, noi prima definiamo e poi vediamo [..] siamo portati a riconoscere ciò che la nostra cultura ha già definito per noi e tendiamo a percepire ciò che abbiamo riconosciuto nella forma stereotipata per noi dalla nostra cultura”.
Unendo tempo e spazio all’equazione possiamo dire che ordini spaziali e temporali convergono nell’esperienza creando “schemi nel temo e ritmi nello spazio” (Gombrich, “Il senso dell’ordine”). Man mano che ci si muove su un’opera la mente ricorda quello che ha osservato precedentemente e deve continuamente ritornare a questo per poter apprendere ciò che osserva e poterlo immagazzinare. I percetti e le sensazioni si dileguano nella memoria mentre quello che rimane è in misura di quello che ha lasciato dentro, ossia delle tracce mnestiche. Queste persistono in simultaneità spaziale e oltre a influenzarsi reciprocamente sono anche in continuo sviluppo e aggiornamento. Ogni rappresentazione ha anche un ordine di tipo temporale che però esiste solo nella simultaneità: vi sono
noi percepiamo l’esatto opposto, e questo segue il principio di semplicità. La parte dell’osservatore nella visione di un’immagine sarà quel contributo che portiamo a ogni rappresentazione attingendo alla riserva di immagini che sono organizzate nella mente. Per questo motivo davanti a una stessa immagine soggetti diversi potrebbero estrarre informazioni del tutto indipendenti dalle intenzioni dell’autore e differenti tra loro.
elementi dominanti che subordinano tutto il resto e rendono coprensibile l’ordine dell’opera. Non è fondamentale che l’ordine di osservazione segua quello voluto dall’opera perchè questa sia compresa, sarà però fondamentale la lettura per successione in quanto l’occhio non legge in modo sicronico. Normalmente l’osservatore si concentra sui punto di maggiore interesse, mentre quello
delle fissazioni temporanee è per lo più accidentale (nella musica, per esempio, è invece indispensabile la sequenza). Il movimento di un oggetto rappresentato è determinato da quello che scatena sulla retina: il solo fissare una figura ne determina il moto. Percepiamo anche direzione e velocità di un oggetto, a seconda delle condizioni prevalenti nel campo visivo: la terra ruota attorno al sole ma 48
Possiamo quindi definire il nostro cervello solo come una pagina bianca da riempire o più come un foglio “a quadretti”? E’ stato dimostrato dagli studi sui bambini, che hanno tutti lo stesso modo di rappresentare certe forme, come può essere la casa, una persona, un animale... ed è innegabile che in parti lontanissime del mondo le civiltà abbiano riproposto le stesse forme per rappresentare il sacro, si pensi alle piramidi Egizie e quelle Maya. Quello che la Gestalt cerca di fare è trovare quegli elementi fondanti e universali della percezione per poterli studiare e usare a nostro vantaggio. Uno dei principali postulati di questa teoria filosofica e psicologica (Gestalttheorie) dice che “ogni autentica conoscenza implica una percezione che possiamo definire “gestaltica”, ossia strutturata, autonomanete configurata, non
atomistica”. Come un istinto radicato nella nostra natura e predisposto per finalità necessarie e utili, bisogna “pensare alla percezione come a un processo attivo d’impiego dell’informazione per suggerire e verificare ipotesi”( Richard Gregory, “Occhio e cervello”). Queste informazioni, una volta elaborate, divengono esperienza che sarà pesrsonale per ogni individuo ma che, al contempo, mantiene quel dettaglio di universalità (del resto le immagini sono le stesse).
Anche la cornice ha un suo ruolo non indifferente in una rappresentazione ed è strettamente legato ai principi di figura-sfondo. Una rappresentazione non potrà mai essere assolutamente piatta, nel senso che l’immagine consta di piani e uno sarà per forza sovrapposto a un altro. Nei casi in cui questa situazione non si verifichi avremo dei pattern ambigui e nel nostro occhio si creerà disordine e distrazione. Come facciamo allora a distinguere istintivamente cosa è figura e cosa è sfondo? Anche in questo caso entrano in vigore una serie di principi: la “regola della somiglianza di posizione” vuole che più linee vicine tra loro vengano raggruppate insieme creando una figura, normalmente quando le dimensioni sono ridotte rispetto al resto. Inoltre ciò che è ritenuto figura acquista più densità e più semplice è, meglio sarà
distinguibile. Questo si collega all’uso della cornice nel senso che questa aggiunge un altro livello alla composizione. La cornice nasce dalla necessità degli artisti Rinascimentali di distinguere il soggetto principale dal resto man mano che lo spazio pittorico andava ingrandendosi (affreschi su pareti molto ampie), andando così a creare un elemento di differenza. La cornice crea un distacco fisico dall’ambiente esterno e crea l’illusione che il piano su cui giace lo sfondo si estenda all’infinito; è una finestra su un mondo che non ci appartiene ma che possiamo “spiare”. Successivamente, verso fine Ottocento, si passò dagli scorci all’eliminazione totale della cornice che viene inglobata dai bordi fisici della tela, cosìcchè lo spazio pittorico tendeva a finire entro quei limiti e le composizioni erano studiate apposta. Ora siamo in un momento artistico di sperimentazione dove i queste concezioni del quadro non sono più così “strette” e limitanti: troviamo quadri che proseguono sulla parete su cui sono esposti, alcuni hanno l’immagine che prosegue sulla cornice, alcuni riprendono le cornici classiche, alcuni solo solo disegni su ogni tipo di parete (per esempio i graffiti). Nel nostro caso la cornice vuole creare un elemento di distacco tra il soggetto rappresentato e la parete su cui il manifesto è affisso, così da richiamare l’attenzione e non confondersi con 49
il paesaggio. I manifesti inoltre hanno un ordine semplice per essere più chiari possibile: figura in primo piano che dialoga con lo spettatore e claim, elementi secondari di riempimento e sfondo uniforme. Se poi la cornice può essere paragonata alla finestra nelle architetture allora noi vogliamo aprire uno scorcio su quei temi che riteniamo importanti e da non dimenticare.
COMPOSIZIONE, INTERAZIONE, ROTTURA DELLE REGOLE: CHE RUOLO HA L’ARTE? La visione si muove su tre livelli: il primo riguarda le informazioni percepite dall’occhio. Questo riguarda i principi organizzaitivi che regolano la percezione nel sistema nervoso e i suoi riflessi sulla coscienza: è l’acquisizione di immagini e la successiva archiviazione. Il secondo livello organizza
la preconfigurazione; riconosce le informazioni e le immette in reti di significato culturale in modo oggettivo. Il terzo livello elabora le informazioni come conoscenza e le inserisce in una prassi continua e finalizzata: viene così plasmandosi l’esperienza. Quest’ultimo livello è quello che viene “attaccato” dalle massicce pratiche di occultamento visivo e trasferimento di informazioni senza che 50
la nostra coscenza se ne renda realmente conto. Per questo motivo nella nostra cultura certe immagini e simboli usati nel periodo della seconda guerra mondiale sono profondamente legati a un immaginario negativo. La difficoltà del nostro progetto stava proprio nel dovere utilizzare strumenti e immaginari di questo genere e legarli a nuovi e positivi stimoli. Una donna che urla di arruolarsi nell’esercito russo diventa
un’amante che sostiene l’amore gratuito e senza tornaconto. Lo “zio Sam” che “vuole te” sprona a piantare un albero e il classico lavoratore che sostiene il paese diventa un laureato che torna a fare i lavori più umili e più duri della terra. Così via fino ad arrivare a creare un nostro “movimento” di intenti... Ogni poster è stato impostato con un’impaginazione ferma, semplice e coerente proprio come quelli delle propagande totalitarie, anche l’uso dei colori corrisponde. Si è cercato di creare un legame con il fruitore attraverso l’uso di certi elementi grafici: per esempio i soggetti presentati cercando sempre un rapporto con chi li sta osservando. Lo zio Sam ci indica, la donna urla contro di noi e lo scorcio della coppia omosessuale crea una connessione empatica con chi li osserva, come se li stesse spiando da una finestra nascosta. Per fare si che osservatore e oggetto osservato si attirino bisogna creare una dipendenza tra i due centri e fare si che si completino; centricità ed eccentricità sono alla base di questa reazione. La centricità, intesa come attitudine autocentrica dell’individuo, è molto forte in principio per poi andare a scemare e fondersi con l’eccentricità; questa dipende dall’apertura ai confini esterni e dall’influenza e integrazione con la prima. La tensione tra le due tendenze è ricerca di equilibrio e si riflette sull’esperienza umana: in questo modo il centro di
un soggetto, per esempio gli occhi, interagisce con il fruitore e crea un rapporto. Ogni forma ha poi un proprio modo di interagire con la vista per cui quelle tonde sono le privilegiate, le più semplici e le più distinguibili nell’ambiente, così da creare un centro di forza nella zona su cui influiscono. Il quadrato invece riprende la staticità e compattezza del cerchio ma presenta dei fulcri visivi che lo rendono più dinamico. Il rettangolo può essere considerato come evoluzione del quadrato; i lati più lunghi determinano la dipendenza da quella che è percepita come gravità terrestre. Se il rettangolo è posto in orizzontale questo viene percepito come asservimento e subordinazione alle leggi gravitazionali, mentre se posto in verticale esso le sfida e le supera. Essendo l’uomo soggetto a certe leggi, che lo fanno sentire succube e impotente, riflette certe necessità nel mondo che osserva. Inoltre un poster orizzontale sarebbe meno preso in considerazione di uno verticale perchè risulterebbe confuso con l’ambiente che lo circonda o percepito come paesaggio secondario.
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RITMO, REGOLE E ROTTURA E LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ Altro elemento fondamentale è il ritmo che riguarda le proporzioni della composizione; Ruskin disse “All beautiful lines are drawn under mathematical laws organically transgressed”. Siamo così abituati a tendere all’ordine come segno di perfezione che ci stupiamo appena viene creato un piccolo elemento di disturbo, come accade nella natura. E’ fondamentale creare delle immagini che contrappongano la regolarità, simbolo di intenzionalità e quindi di cultura, con la mescolanza casuale della natura, simbolo di imprevedibilità. Quando un pattern visivo cade nella banalità si cessa di porgli attenzione e la sua configurazione decade al di sotto della soglia della coscenza. Gombrich, a proposito di questo fenomeno, dice che “il piacere si colloca in qualche punto intermedio tra la noia e la confusione”. Per cui stesso allo modo è pericoloso eccedere con gli elementi visivi (ornamenti) perchè abbagliano la mente e richiedono uno sforzo di interpretazione troppo grande. Il saggio “Ornamento e delitto” scritto da Adolf Loos nel 1910, attacca tutte quelle pratiche che “occultano” l’oggetto stesso e, portandosi allo stremo delle sue considerazioni, dice: “L’impulso a decorare il proprio volto e tutto quanto sia a portata di mano è 52
la prima origine dell’arte figurativa. E’ il balbettio della pittura. Ogni arte è erotica.”, a cui segue “L’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’eliminazione dell’ornamento dall’oggetto d’uso”. L’interesse dell’architetto per la forma-funzione, che ritiene obsoleti e inutili tutti quegli ornamenti tipici della Secessione Viennese (questo può comprendere anche l’uso di colori che non sono propri dei materiali), lo porta a essere considerato fondatore del Razionalismo in Europa. “L’architettura non è un’arte, poiché qualsiasi cosa serva a uno scopo va esclusa dalla sfera dell’arte.” Questa citazione è tratta dallo stesso saggio ed è interessante che egli ritenga che l’arte (in senso ampio) non abbia una funzione: pare evidente, alla luce di questa idagine, che l’arte ha un suo evidente e fondamentale scopo che è quello di comunicare. Se vi è una cosa fondamentale per lo sviluppo dell’uomo nella storia, è proprio la nascita della comunicazione regolata da leggi, che è passata dai gesti e dai versi ai disegni su pareti alla parola e alla scrittura. Gillo Dorfles nel suo “Itinerario estetico” (2011) dice che “uno degli scopi precipui dell’arte è la comunicazione: un genere di comunicazione tale da permettere il verificarsi d’un tipo del tutto particolare di linguaggio, la cui semanticità sia presente anche al di fuori e al di là d’ogni istituzionalizzarsi dei suoi segni”. In un altro capitolo prosegue così: “credo fermamente che
appunto la grave crisi e la tragica scissione prodottesi dopo l’illuminismo tra l’uomo come creatura globalmente unitaria, in cui anima-spiritocorpo potevano ancora apparire indissolubili, e l’arte come necessario messaggio d’un’umanità così concepita, nonchè il successivo presentarsi -almeno sulla scena europea- d’un’umanità disgregata, introversa, alienata, e d’un’arte scissa da quelle che erano state le sue primitive ed essenziali ragioni d’essere, abbiano condotto alla situazione che oggi noi tutti viviamo e che dobbiamo -volere o no- accettare; che anzi solo accettando e analizzando potremo in futuro migliorare e superare. Sinchè l’arte fu indivisibile dalla vita sociale, religiosa, culturale -dai riti e dai miti- , finchè rispecchiò l’impostazione tecnica e scientifica della civiltà a cui apparteneva, finchè l’aritgianato fu arte e tecnica insieme, finchè la meccanizzazione non ebbe tolto “l’anima” alle cose e non tolse l’arte agli
oggetti (oggi si tenta, per dire il vero, faticosamente di restituirgliela), l’uomo non avvertì il bisogno di speculare attorno a questi due “principi” basilari, da sempre esistenti, ma adombrati da altri nomi e rientrai in altri settori, dell’umano sapere”. I due “principi” di cui parla sono arte e psicologia; si domanda se l’estetica “possa o meglio debba valersi di uno strumento psicologico”. E’ indubbia la valenza dell’arte nella storia dell’uomo, ma solo con l’avvento dell’arte “astratta” sono state riproposti quesiti per “l’urgenza, da tutti noi avvertita, di trovare una formula che soddisfacesse tanto l’interpretazione di un’arte figurale [..] quanto quella di un’arte totalmente impostata sulle immagini intime, individuali e soggettive dell’artista”. Il nocciolo di molte delle incomprensioni legate all’arte moderna sta nel fatto che l’immagine è il più delle volte del tutto illusoria. Vale a dire che, non è più realistica una fotografia rispetto a un
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bambino che cavalcando un manico di scopa si immagina a cavallo, anzi la seconda è certamente più funzionale e coerente. L’interpretazione dell’immagine fotografica richiede dei livelli di lettura molto più complessi e meno immediati dell’immaginazione libera di un bambino. Allo stesso modo pensiamo all’antica civiltà Egizia che rappresentava di profilo i suoi soggetti e con dimensioni diverse a seconda dell’importanza: non erano indubbiamente allo scuro della geometria, dell’assonometria e degli elementi prospettici. Usavano la proiezione ortogonale semplicemente perchè la preferivano, la ritenevano più immediata e adatta alle loro esigenze (a ben pensarci, è molto più semplice capire chi nelle loro rappresentazioni sia il soggetto e quanto sia importante rispetto ai nostri quadri realisti). Possiamo quindi parlare di un rapporto “intimo e addirittura indiscutibile tra situazione artistica e sociale”: qual’è allora
l’attuale arte che ci accompagna? Non possiamo che non parlare dei famosi mass media che hanno rivoluzionato in maniera tanto profonda e fondamentale la società umana: la necessità di mantenere costantemente aggiornati gli uomini ad ogni livello sociale ha portato l’informazione a espandersi attraverso canali audio, video, tattili... Siamo abituati ad essere bombardati da una quantità di immagini che, se il nostro cervello, nell’archiviarle, ce ne rendesse consapevoli, non saremmo più in grado di orientarci visivamente. Questo ha portato alla perdita, oltre che di attenzione, di capacità di giudicare ciò che è realmente bello o utile: se sta ai nuovi “creatori di forme” il compito di reistruire l’occhio del pubblico, noi ci abbiamo provato facendo un passo indietro attraverso un 54
metodo comunicativo più diretto e forse anche un po più elementare di trasmettere informazioni. “Ad ogni epoca il suo ritmo e la sua proporzione”. Se il poster nasce come mezzo di interlocuzione tra “i potenti” e il popolo, ora è utilizzato per campagne pubblicitarie e si è evoluto in altre forme. La nascita dei mass media ha completamente rivoluzionato il modo di porsi col pubblico, lo ha reso più facile e più di larga scala ma è anche stata portata agli estremi; la nascita di un ramo sociale e di pubblica utilità è stato il passo successivo. I nostri posters hanno le stesse impostazioni percettive di quelli usati in tempi precedenti ma con messaggi, immagini e colori diversi. C’è un prodotto e c’è un pubblico al quale ci si rivolge, perchè il messaggio sia recepito con efficienza bisogna conoscere bene entrambi.
Deve essere considerato il grado medio culturale, i temi che possono colpire e quindi interessare il fruitore, e il modo migliore per farli comprendere. “La comunicazione non fa altro che rispettare la realtĂ sociale. Allo stesso tempo rispettandola, la riafferma, orienta la sua evoluzione ulteriore e ne assicura la riproduzioneâ€?, Walter Lippmann.
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CAPITOLO SECONDO
LA SCIENZA E L’OCCHIO “Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace”. Questo famoso detto ha qualcosa di vero ma non totalmente, alla luce di ciò che abbiamo detto. Possiamo dire che c’è sempre una percentuale di obbiettività e una di soggettività. Ci sono dei meccanismi nervosi che si innestano davanti a un’immagine (scatenate dall’attivazione di regioni specifiche del cervello) e spiegano l’universalità di ciò che è considerato 56
“bello”. Il bravo pittore (compositore) è quindi anche psicologo o particolarmente sensibile a questi effetti che riesce a scatenare. David Hume scriveva nel saggio “Of the standard of taste” (1757) che “la bellezza delle cose esiste nella mente di colui che le contempla”. Quali sono quindi gli elementi che scatenano reazioni universali e quelli che sono legati alla soggettività? Anzitutto è necessaria un po di conoscenza di base su come l’occhio vede. La retina contiene quelle cellule nervose chiamate fotorecettori che reagiscono agli impulsi luminosi e sono a loro volta suddivisi in coni e bastonelli. Il pigmento è una sostanza contenuta in essi che assorbe alcune radiazioni luminose e stimola le cellule della retina. I bastoncelli hanno solo un tipo di pigmento mentre i coni sono di tre tipi, ognuno che reagisce a una diversa gamma di lunghezze d’onda. Le cellule gangliari sono
situate invece nello strato più interno della retina e sono collegate ai recettori e al nervo ottico che, passando per il cervello, arriva alla regione visiva della corteccia cerebrale. In questa zona le immagini provenienti dalla zona sinistra e da quella destra si intrecciano e vengono ordinate. Il punto in cui è massima l’acuità visiva si chiama fovea e concerne anche l’ingrandimento, la distinzione dei contorni e la loro precisione. Non è ancora stato scoperto quali siano le modalità in cui il cervello trasforma le informazioni visive in emozioni e stimoli. Possiamo distinguere la forma di un oggetto e rappresentarla grazie a due proprietà del sistema nervoso: quella che accentua le zone di luminosità dei bordi adiacenti a un’immagine e quella che si occupa della distinzione dei dettagli. Distinguiamo chiaro e scuro grazie all’intensità dell’impulso e grazie alle zone adiacenti di minore o maggiore intensità fisica. 57
Un classico esempio è l’osservazione di un quadrato giallo su fondo blu e uno su fondo rosso: nel primo caso il quadrato emergerà dallo sfondo, nel secondo caso ne sarà inglobato e sembrerà anche di dimensioni inferiori. Queste informazioni sono sfruttate quando, per esempio, si vuole dare rilevanza e luminosità a una zona rispetto a un’altra: basterà accostarla a un’immagine più scura; come se si vuole creare dell’ombra basterà usare dei gradienti di colore, questo darà anche più solidità alla forma. Un mezzo molto usato, come nel fumetto, nel disegno a matita e nella grafica, è l’accentuazione della linea di contorno per staccare la figura. Ogni immagine ha anche un sua distanza di osservazione: se osserviamo un paesaggio o un dipinto molto grande, per esempio, dovrà essere visto da lontano per mettere insieme gli elementi e poterli apprezzare meglio. Un problema è legato alla percezione della tridimensionalità per cui noi viviamo in una realtà che ha un rapporto con gli oggetti non realmente riproducibile attraverso le immagini. Ciò non ci impedisce comunque di decodificare le immagini perchè il nostro occhio, grazie alla memoria che accumula con l’esperienza, ricostruisce la parte mancante. L’uso della prospettiva (teorizzata da Leon Battista Alberti nel “De pictura” nel 1435) cercò di rispondere all’esigenza di una rappresentazione più
realistica della realtà ma abbiamo solo acquistato un’immaginario fittizio che non corrisponde assolutamente al vero. “La prospettiva centrale è una deformazione così violenta e così complicata della forma normale delle cose che dovette apparire come risultato finale di una lunga ricerca e in risposta a necessità culturali molto particolari”.
COLORE E LUCE Johannes Itten scrive nel 1961 quello che è uno dei saggi più completi e importanti sullo studio del colore: “Arte del colore”. Il pittore e insegnante del Bauhaus dedica un’intera vita a indagare come il colore influisca sull’occhio umano. I primi esperimenti scientifici però furono svolti dal fisico Isaac Newton nel 1676 quando dimostra che un prisma rettangolare attraversato da un raggio di sole scompone la luce in tutti i colori fondamentali. Dal rosso al viola ogni colore ha la sua lunghezza d’onda, rispettivamente più lunga per il primo e più corta per il secondo; la somma di tutte le onde da appunto il bianco, la luce, mentre la sottrazione da il nero, il vuoto. Bisogna però ricordare che le onde luminose sono incolore, è il nostro occhio che percepisce le tonalità cromatiche, una volta che vengono assorbite dagli oggetti. Di solito i colori degli oggetti si dicono sottrattivi 58
in quanto assorbono le onde luminose del colore complementare e riflettono quello voluto. I colori sottrattivi quando sommati danno come risultante il nero, al contrario di quelli additivi (onde luminose). I colori pigmento sono quelli che utilizziamo noi, la materia colorante determinabile e analizzabile dal punto di vista fisico. Il valore di un colore puo essere percepita in modo esatto solo grazie a un confronto con altri colori negativi come il nero, il bianco e il grigio. Il grigio in particolare è ideale perchè non influisce sul colore da nessun punto di vista, il bianco e il nero invece possono dare più luminosità o oscurità. Anche i colori creano equilibrio o scompenso a seconda della figura a cui sono accostati: “Armonia significa equilibrio, simmetria di forza”. L’occhio ogni volta che osserva un colore cerca automaticamente il complementare per equilibrare la visione e generare il grigio: i colori complementari sono
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quindi quelli che, una volta sommati, generano appagamento. “Ogni singolo colore stimola nell’occhio, mediante una sensazione specifica, l’aspirazione alla totalità. Per conseguire questa totalità, per appagarsi, l’occhio cerca accanto a ogni zona di colore una zona incolore, sulla quale produrre il colore richiamato dalla prima”. Influenzano l’equilibrio anche i rapporti di quantità, purezza e luminosità del colore: per equilibrare una grande quantità di viola basterà una piccola quantità di giallo. Per sapere come usare nel miglior modo i colori coi coloro complementari armonici ci serviamo del disco cromatico, inventato appunto da Itten. Questo è composto da un triangolo equilatero con ai vertici i tre colori principali: giallo (in alto), blu e rosso. Agli opposti degli angoli ci sono i complementari: rispettivamente viola, verde e arancio che sono evidenziati da un esagono creato dal
tringolo precedente. I complementari sono le somme di due colori primari: per esempio l’arancione è dato da giallo più rosso e si trova in mezzo a entrambi sul perimetro del cerchio. Comunque si ruoti questo triangolo, inscritto in un cerchio, le combinazioni di colore saranno armoniche. Rimane sempre presente una certa percentuale di soggettività per cui certe persone sono più attratte da colori freddi piuttosto che quelli caldi, da colori vivaci piuttosto che spenti e così via... Non siamo
macchine e non siamo calcoli matematici quindi la percentuale soggettiva sarà sempre presente ed è proprio quella che ci contraddistingue e ci fa provare connessioni con immagini, piuttosto che altre. Ogni colore primario ha una forma a cui si adatta meglio, che lo completa. Il rosso corrisponde al quadrato: colore simbolico della materia assegna staticità e pesantezza alla forma. Il triangolo è caratterizzato dall’acutezza degli angoli e si sposa bene col giallo, simbolo del pensiero 60
e dell’illuminatezza. Il cerchio, armonico, dinamico, morbido e uniforme si adatta invece perfettamente al blu, da sempre considerato simbolo dello spirito. Nel nostro caso ci siamo concentrati su una gamma cromatica ridotta, che richiamasse le tonalità incisive, di forte contrasto e impatto, delle propagande politiche (soprattutto quella russa e quella tedesca della seconda guerra mondiale). I rossi scuri, quasi mattone, gli azzurri-blu e i colori della terra per darre luminosità alle zone più interessate (come quelle contenenti il claim). Non ci siamo molto serviti delle ombre perchè danno un effetto più graduale e di tridimensionalità che non avrebbe funzionato a livello di impatto: abbiamo creato ombreggiature usando colori complementari. Anche nella realtà le ombre degli oggetti non sono grigie o nere ma sono del colore complementare, che sommandosi a quello principale forma il grigio, come spiegato in precedenza. I colori toccano quindi un nucleo profondo nell’uomo che fa scatenare emozioni anche molto forti: è stato dimostrato che se ci ritroviamo immersi in una stanza completamente rossa, o di una tonalità simile e molto intensa, il battito cardiaco aumenta. Si rilassa con tonalità come il verde e l’azzurro chiaro, che però se associato agli alimenti suscita disgusto e se scuro come la notte da inquietudine e turbamento. Il giallo è il colore più prossimo alla
luce ed è come “un bianco più denso e sostanzioso” (se presentato su una superficie bianca però scompare) ma la più potente sintesi di vigorosa luce e materia è data dall’arancione (via di mezzo con il rosso). Il viola è un colore molto interessante perchè ingloba la spiritualità del blu alla passione del rosso e può essere associato all’inconscio, al mistero e alla forza. Cambia completamente significato, positivo o negativo, se associato ai colori chiari o a quelli scuri, nel primo caso è amore e forza spirituale, nel secondo caso morte e solitudine. C’è una bellissima frase di Itten che credo riassuma pienamente l’amore e l’interesse che aveva questo grande studioso per il colore e la pittura: “Colore è vita, poichè un mondo senza colori sarebbe un mondo senza vita. I colori sono idee primordiali, generate dall’incolore luce originaria e dal suo contratio, l’oscurità senza tinta. Come la fiamma produce la luce, la luce genera i colori. I colori sono creature della luce e la luce è la madre dei colori. La luce, il fenomeno primo dell’universo, ci rivela nei colori lo spirito e l’anima vitale del nostro mondo”. E’ interessante riflettere sul concetto che se non ci fossimo noi a osservarli, i colori non esisterebbero. Parlando della luce Arnheim dice “A tutta prima sembrerebbe che l’illuminazione entri in giico ogni qualvolta vediamo una cosa, perchè un oggetto, a meno che la luce non vi cada sopra, rimane
invisibile. Questo, però, è il modo in cui ragionano i fisici. Gli psicologi e gli artisti possono parlare d’illuminazione solo se e quando questa parola serve ad indicare un fenomeno che è distinto direttamente dagli occhi”. Il nostro occhio percepisce schiarezza di un oggetto e ombra come delle proprietà ad esso inerente, piuttosto che come l’effetto di un riflesso. “La chiarezza che vediamo dipende, per vie intricate, dalla distribuzione della luce nella situazione globle, dai processi ottici e psicologici che hanno luogo negli occhi e nel sistema nervoso dell’osservatore, e dalla capacità fisica che ha l’oggetto di assorbire e riflettere la luce che riceve”. Quindi per percepire una chiarezza “ideale” dell’oggetto bisogna che questo sia posto in un ambiente con un’illuminazione uniforme, illuminazione intesa come “imposizione percepibile di un gradiente di luce sulla chiarezza oggettuale o il colore oggettuale del contesto”. La luce crea spazio, orientamento, ombre e delimita un’azione.
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CAPITOLO TERZO
PSICOLOGIA E APPRENDIMENTO GESTALTPSYCHOLOGIE La Gestaltpsychologie (psicologia della forma o rappresentazione) nasce all’inizio del XX secolo e indaga gli aspetti della percezione e dell’esperienza in maniera innovativa, che si oppone totalmente alle contemporanee correnti di pensiero. Nasce con Ernst March e viene teorizzata da M. Wertheimer (1880-1943), W. Köhler (1886-1941) e K. Koffka (1887-1927) per poi spostarsi con K. Lewin negli USA a causa dell’imminente guerra (1930). Trova le sue
radici filosofiche in Kant (concetto di sintesi a priori) e Brentano (“psicologia dell’atto”). Le radici psicologiche derivano invece da una risposta contraria alla psicologia di Wundt: lo psicologo è ritenuto il “padre fondatore” della disciplina grazie agli enormi contributi. Egli volle rendere “scientifica” la psicologia rifacendosi ai mezzi che studiano la chimica: scompondendo ogni fenomeno fino all’unità più semplice non rimarrà che l’elemento primo (elementarismo). Questi elementi singoli 62
potranno poi essere presi in esame e analizzati, così si potrà arrivare a studiare le funzioni elementari della mente. Il metodo da lui utilizzato è chiamato strutturalismo poichè attraverso l’uso di test e stimoli esterni indaga la struttura latente della mente. Utilizzando l’introspezione come metodologia d’indagine (basata sullo studio delle sensazioni descritte dai soggetti su cui sperimentava) influenzò profondamente gli studi psichiatrici, soprattutto quelli legati ai disturbi
mentali. Christian von Ehrenfels si oppose categoricamente (ispirato dalle teorie di Goethe e Ernst Mach) a questa linea di pensiero e può essere considerato il precursore della Gestalt in quanto ne inventò proprio il concetto fondante. Il principio fondamentale divenne quello per cui “il tutto è più della somma delle singole parti”; la qualità del tutto non è data dai singoli elementi ma dalle relazioni che intercorrono tra essi e dal loro ruolo nel tutto. Le note di una melodia esistono, hanno un loro suono e significato, ma una melodia senza le note non esisterebbe; le parti possono esistere indipendentemente dal tutto ma il tutto non ha significato se è a prescindere dalle parti che lo compongono. Inoltre la melodia ha caratteritiche differenti dalle singole note e ha delle qualità proprie talmente indipendenti da essere anche trasportabile su altri strumenti o tonalità. Allo stesso modo la mente riceve le informazioni e le rielabora per una futura applicazione ma senza di queste sarebbe inutile. Nel 1912 Max Wertheimer compie degli studi sul movimento stroboscopico: l’esperimento consisteva nell’illuminare in una stanza buia due oggetti identici, posti uno alla sinistra e uno alla destra dell’osservatore, in maniera alternata. Non si percepiranno due oggetti distinti ma solo uno che si muove rapidamente: questo dimostra la discrepanza tra il piano materiale (realtà fisica) e quello percettivo
(realtà fenomenica). In precedenza si pensava a una perfetta corrispondenza dei due piani di stimolazione e sensazione per cui, anche se riteniamo altamente improbabili, se non impossibili, dal punto di vista fisico certi movimenti, il nostro occhio li percepisce indipendentemente dalla ragione. Parliamo di dato fenomenico immediato, cioè di come la realtà si presenti all’esperienza e rimanaga distinta da quella fisica (dove l’introspezionismo indagava). La realtà fenomenica è così distinta in due ambiti: quello dell’incontrato (percepito e fisico) e quello del rappresentato (pensato e mentale) che, unendosi nel nostro sistema percettivo, creano una costruzione attiva della realtà. Questo metodo d’indagine presuppone la descrizione del dato fenomenico immediato (vissuto che si presenta alla coscienza), la formulazione di ipotesi esplicatve che verranno sottoposte a verifica sperimentale e la conclusione finale basata su variabili. Vi è un’altra critica portata avanti dai Gestaltici, vale a dire quella all’empirismo e a quelle correnti psicologiche fondate su di esso (come l’associazionismo e il comportamentismo). Il problema sta nel determinare il peso da attribuire all’esperienza passata nella formazione di dati percettivi: gli empiristi sostengono che oggetti e fenomeni sono tali all’esperienza per il 63
fatto che siamo abituati a vederli in un certo modo e rimangano sempre uguali nella memoria. Al contrario i gestaltici ritengono che non sia così fondamentale e statica l’idea formatasi dell’oggetto in se ma piuttosto il come venga rielaborata per l’organizzazione percettiva. Metzger nel 1966 trova quattro tipi di qualità globali di archiviazione che possiamo cogliere in modo immediato: qualità formali o strutturali (forma tonda, squadrata, ritmo e melodia..), qualità costitutive o materiali (caratteristiche empiriche degli oggetti come liscio, ruvido, morbido o duro), qualità espressive (emergono spontaneamente dall’osservazione di un fenomeno come triste, allegro, solo...) e infine qualità effettuali o relazionali (che riguardano il rapporto tra oggetto percepito e soggetto percipiente). Sul piano teorico la Gestalt sviluppa la teoria del campo che, ripresa dalle scienze fisiche, si riferisce a un sistema globale di forze in movimento le cui leggi dipendono esclusivamente dalle loro relazioni. Sono state individuate precise regole di interazione tra le parti che sono state definite principi di unificazione formale, tali principi sono a priori ma nascono comunque dall’osservazione di dati fenomenici a cui si rivolgono. L’ambito della percezione visiva diventa uno dei più interessanti e quello che ottiene più risultati; da qui nascono
tutti quei principi di cui Arnheim parla. Tuttavia gli ambiti di indagine sono tanti e si estendono in tutti i campi come quello del pensiero (Wertheimer, Duncker), quello della personalità (Lewin, Dembo), quello della psicologia sociale (Lewin, Asch, Heider e la nascita di una vera a propria psicoterapia o psicologia della Gestalt) quello della memoria e apprendimento, espressività e psicologia dell’arte (Arnehim e Metzger) fino a quella animale (Köhler). Proprio quest’ultimo, grazie ai suoi famosi studi sulle scimmie antropidi del 1921, dimostra come funziona l’apprendimento introducendo il concetto di Einsicht o Insight (intuire nel senso di “vedere dentro”). Prima, soprattutto in ambito nordamericano, si riteneva che i processi di apprendimento del pensiero fossero basati du tentaivi casuali come apprendere una sequenza di fatti e, dopo tentativi reiterati e casuali, risolvere il problema. Questo procedimento “per prove ed errori” (Thorndike, 1931) era
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pienamente abbracciato dai comportamentisti; l’accumulo di esperienza porta alla soluzione di problemi. Attribuendo invece “intelligenza” ai soggetti, intesa come capacità derivata da sedimentazione di processi ripetitivi ma anche e soprattutto dagli aspetti creativi e di capacità di risoluzione delle situazioni problematiche, si può dire che le azioni tendono ad una soluzione ottenuta in seguito ad una strategia non casuale. Le scimmie vengono poste davanti a un problema: raggiungere la fonte di cibo che è troppo in alto o posta dietro a ostacoli. La scimmia risolve il problema quando impiega uno strumento (come bastone e gabbia) per avvicinarlo a se o avvicinare se stessa al cibo. Quando il bastone già presente nel campo visivo della scimmia viene utilizzato, e quindi entra in relazione col soggetto, acquista un nuovo valore instaurando una ristrutturazione del campo cognitivo attraverso un atto di Einsicht. Questo mette in discussione tutti i metodi osservativi contemporanei perchè si deduce che
l’apprendimento avviene attraverso un processo di comprensione della situazione e reazione allo stimolo dato. Lewin estende il campo di indagine ai processi motivazionali e interpersonali (dinamiche di gruppo e sociali, costruzione della personalità, relazioni con l’ambiente circostante e così via...) sempre facendo uso di esperimenti e strumenti concettuali. Riprendendo la teoria del campo (da lui elaborata) e applicandola alla realtà psichica crea un sistema dinamico e comprensivo di persona e ambiente: la psicologia, secondo Lewin, deve concepire lo spazio vitale come unico, che comprenda sia ambiente che individuo, nel quale i due si modifichino e influenzino a vicenda. Per quanto concerne le dinamiche di gruppo, lo studioso lo concepisce come una totalità dinamica (Gestalt): comportamenti e problemi di un gruppo non sono riconducibili a comportamenti del singolo elemento, questo perchè i bisogni di uno non sono riducibili ai bisogni dell’altro.
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ESTETICA: TEMI E DUALISMI
“L’estetica come disciplina filosofica specifica nasce alla fine del Settecento e si configura pertanto come un fenomeno essenzialmente moderno; essa nasce come tentativo di fornire una legittimazione universale ad un ambito che, malgrado la molteplicità di tesi e precetti, non era ancora divenuto oggetto di riflessione sistematica. Questo ambito è caratterizzato dall’emergere in primo piano della soggettività con le sue manifestazioni, in particolare il sentimento individuale. L’estetica come disciplina filosofica nasce quindi come tentativo di fondare in modo critico un settore che appare, per le tematiche affrontate, votato fin dall’inizio all’accidente e all’irrazionalità e mira a dettare le condizioni di universalità e di necessità per un tipo di esperienza che, ad una prima analisi, ne è priva. L’estetica, come fenomeno moderno, si sviluppa in un’area culturale, quella di lingua tedesca, che
alla fine del Settecento offre alla cultura contributi decisivi nel campo della letteratura (Goethe, Novalis, Schiller, Hölderlin, ecc..) e della musica (Mozart, Beethoven, Schubert) e si radica in un tessuto sociale in cui si qualifica in modo molto chiaro e preciso l’esperienza sociale dell’arte.” Lo studio dell’estetica, secondo l’analisi compiuta da W. Tatarkiewicz nella sua Storia dell’estetica, si sviluppa lungo molteplici direttrici e delinea diverse forme di contrapposizione e di dualismo che sono così schematizzabili: - Studio del bello e studio dell’arte: l’estetica è stata tradizionalmente definita come lo studio del bello, ma alcuni estetologi, poiché la nozione di bello appare troppo vaga e indeterminata per poter essere adeguatamente studiata, si sono rivolti all’analisi delle arti, giungendo alla definizione dell’estetica come studio dell’arte. - Estetica oggettivistica e soggettivistica: l’estetica può essere definita come lo studio degli oggetti estetici, ma include anche lo studio delle esperienze estetiche soggettive. Questi due aspetti sono fra loro profondamente interconnessi in quanto l’indagine sul bello oggettivo e sulle opere d’arte conduce inevitabilmente ad affrontare questioni che hanno a che fare con la soggettività. Molti studiosi sono giunti alla conclusione che l’oggetto
specifico dell’estetica come disciplina filosofica non sia da individuare nel bello o nell’arte, ma nell’esperienza estetica e nell’atteggiamento estetico assunto nei confronti delle cose. - Estetica psicologica e sociologica: poiché la partecipazione dell’uomo all’arte avviene sia a livello individuale sia a livello collettivo, l’estetica sarà necessariamente analisi delle reazioni del soggetto di fronte al bello e all’arte, quindi estetica psicologica, e analisi dell’atteggiamento che gruppi più o meno ampi di persone assumono di fronte all’arte, quindi estetica sociologica. - Estetica descrittiva e normativa: in molte opere di estetica si trovano descritte le proprietà degli oggetti che consideriamo belli e le reazioni che essi suscitano nel fruitore, in altre invece vengono riportati suggerimenti e indicazioni finalizzati a creare opere d’arte valide e di autentica bellezza. L’estetica quindi può essere descrittiva o normativa. - Teoria estetica e prassi estetica: questo dualismo, che trova il suo corrispondente nella contrapposizione fra teoria e prassi, vede contrapposti da un lato l’enunciazione di principi, funzionali e parte integrante di ogni teoria dell’arte, e dall’altro la definizione di precetti, che servono invece alla prassi concreta dell’arte stessa. La teoria dell’arte si propone quindi di fornire una visione universale dell’arte e del bello, mentre nella prassi artistica concreta l’artista propone o persegue 66
una delle tante possibili concezioni dell’arte. - Fatti estetici e spiegazione estetica: l’estetica, come tutte le discipline, cerca di definire le proprietà degli oggetti che studia e si configura quindi come ricerca delle proprietà del bello e dell’arte. Essa cerca inoltre di spiegare queste proprietà, di chiarire cioè le ragioni per cui il bello agisce in un determinato modo e per cui l’arte ha adottato alcune forme invece di altre, e le spiegazioni cui perviene possono essere molto diverse: l’estetica può infatti spiegare l’azione del bello su un piano psicologico o fisiologico oppure spiegare le varie forme artistiche da un punto di vista storico o sociologico. - Estetica filosofica ed estetica delle singole arti: le più famose ed importanti teorie estetiche sono state create da filosofi, come Platone e Aristotele, Hume e Burke, Kant e Hegel, Croce e Dewey, ma numerose sono anche le teorie elaborate da artisti, come Leonardo, o
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da studiosi di architettura, come Vitruvio. Come si è già visto in precedenza, l’estetica, sia che derivi dalla riflessione di un filosofo sia che nasca dalle considerazioni di un artista, può essere aprioristica o empirica; secondo Tatarkiewicz, nell’estetica filosofica appare una tendenza più netta verso l’apriorismo e, a tale proposito, riporta le considerazioni di Fechner, che contrapponeva l’estetica filosofica, come processo che si sviluppa “dall’alto”, a quella empirica, che procede invece “dal basso”. - Estetica delle arti ed estetica della letteratura: l’estetica analizza e studia materiali che provengono da diverse arti, ciascuna delle quali possiede una propria specificità; esiste, a giudizio di Tatarkiewicz, una contrapposizione fra belle arti, che si rivolgono direttamente ai sensi del fruitore, e la poesia, che opera invece mediante segni linguistici. FONTE: http://www.filosofico.net/ introestetica.htm
CONCLUSIONE Alla luce di quanto affrontato, possiamo dire di avere una buona base teorica per interpretare un gran numero di immagini. Sicuramente si potranno capire certe scelte di impostazione visiva o stilistiche utilizzate e sarà più facile comprendere i nostri elaborati. L’uso dei colori scuri e saturi richiama le propagande totalitarie, i soggetti in primo piano vogliono “catturare” l’utente che passeggia per le vie del centro, i claim d’effetto
“urlano” i loro messaggi, le grandi dimensioni stupiscono e la cornice stacca dal fondo portando il poster su un altro piano. La coerenza nell’uso del marchio, di chiaro stampo “massonico”, e quella di impaginazione dell’immagine ci è servita per mantenere una linea coerente che rendesse chiare le produzioni delle Malelingue. Perchè l’occhio si ricordi ciò che ha osservato deve vederlo diverse volte e concentrarsi sui punti di forza dell’oggetto. Anche l’uso di certi effetti aggiunti 68
a posteriori (come la “carta rovinata”) richiama un poster logoro e “vecchio”, sempre ricollegandoci all’immaginario visivo medio. I soggetti anche sono proposti come illustrazione bidimensionale per richiamare lo stile “delle guerre”, inoltre sono grandi e imponenti come quelli che servivano per intimorire il popolo. Ma l’atto creativo dove finisce, a questo punto? Una volta immagazzinati e imparati i concetti di Gestalt basta applicarli? Questo rischia di “abbassare” forse la potenza dell’atto
creativo del pittore, del grafico, del fotografo, del compositore? Se così fosse non esisterebbero quelle opere d’arte così forti ed emozionanti che contempla tutto il mondo, l’arte non avrebbe più il suo fascino che la eleva dalle normali capacità del quotidiano. Certo se un artista, che si assume abbia una sensibilità maggiore in questo campo, unisce questi elementi teorici potrà ottenere un risultato ottimale. Non c’è dubbio che Leonardo, e tutti gli altri grandi maestri, conoscessero
perfettamente molti di questi principi di costruzione dell’immagine: è giocando con questi che si creano quegli stranianti effetti pittorici per cui la Gioconda ci rimane così miseteriosa ed enigmatica, nonostante la conosciamo a fondo. Nel suo “Itinerario Estetico”, Gillo Dorfles riflette su questi aspetti: “Il concetto platonico d’un’arte creata sulla base d’una preesistente numericità, d’un sistema proporzionale precostituito, ha trovato infiniti seguaci e sappiamo come dai pitagorici a Vitruvio, da Pacioli a Dürer, 69
da Leonardo a Mondrian si sia sempre tentato di preordinare o di ricercare a posteriori la intelaiatura armonia, lo scheletro proporzionale sul quale l’opera era stata, o sarebbe stata, costruita. E tuttavia, nella maggior parte dei casi, le proporzioni dell’opera d’arte sono - sia pur per un quid imprecisabile e spesso trascurabile, come il limma dei pitagorici - trascendenti a tale precisione numerica. Sono cioè, quasi sempre, corrispondenti a leggi matematiche “trasgredite” organicamente”.
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MALELINGUE PROPAGANDA
OBIETTIVI E MEZZI Le due analisi appena affrontate, per quanto noiose e fin troppo lunghe, non sono altro che le basi sulle quali si poggia il nostro vero e proprio progetto di tesi: il “Progetto Malelingue”. Con questo progetto ci siamo dati l’obbiettivo di sensibilizzare il pubblico su alcune tematiche più o meno impegnate, a noi a cuore. Per farlo abbiamo scelto
il metodo comunicativo “propagandistico”, anchese solo su piccola scala, dato che nessuno di noi è un dittatore pieno di denaro e potere, e nel particolare uno strumento di cui riteniamo si sia persa la visione poetica: il manifesto. I poster saranno affiancati poi da stickers, che serviranno come da richiamo, da citazione, ai poster (riportando peraltro gli stessi messaggi). L’interesse precipuo sarà 72
quello grafico, sebbene siamo partiti con unocon uno studio approfonditodi ciò che sono i concetti da esprimere, che sono imprescindibili.
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PROGETTO E POETICA Con il progetto Malelingue Propaganda abbiamo voluto riutilizzare gli stilemi di grande impatto delle propagande sovietica, nazista, comunista, fascita. al fine di produrre una serie di manifesti che riportano messaggi per lo più costruttivi. In questo modo i manifesti del collettivo Malelingue puntano a generare un cortocircuito, in cui il modo di comunicare e ciò che viene veramente comunicato siano in realtà il contrasto il quale è la vera potenza dell’intera comunicazione. Nel primo approccio questi manifesti ci si presentano con uno stile compositivo ed
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illustrativo che ci rimanda anche inconsapevolmente ad un immaginario vintage, legato al passato e alla guerra. Solo quando si legge il claim si arriva a comprendere il vero significato del messaggio, si chiude il cerchio immagine - testo. Questa chiusura è tuttavia inaspettata, il che comporta uno stato di straniamento momentaneo del fruitore che si rende conto di aver dato qualcosa per scontato! E’ questo squilibrio psicologico che avvie ne nella mente per un istante, che crea l’impatto su cui si basa la memorabilità di questi manifesti.
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IDENTITA': dal logo alle scelte stilistiche Nell’elaborare il logo era essenziale mantenere caratteristiche che richiamassero ad un’impattanza, un minimalismo un simbolismo, e una linea stilistica simile a quella dei “grandi poteri”, non solo quelli dei grandi totalitarismi, ma anche massonici e/o religiosi. Sono state sfruttate essenzialmente due forme nella composizione della “cornice” del logo: il cerchio ed il quadrato. Entrambe sono figure simboliche, la prima, il crerchio, considerata la forma perfetta, quella graficamente più stabile, capace di far intendere sempre il proprio baricentro, la seconda, il quadrato, strutturalmente “indistruttibile”, anche questo di grande stabilità, come il precedente, ma più dinamico, per via dei fulcri visivi che si trovano ai suoi angoli. Ogni forma ha poi un proprio 76
modo di interagire con la vista. Quelle tonde sono le più privilegiate, le più semplici e le più distinguibili nell’ambiente, così da creare un centro di forza nella zona su cui influiscono. Quella quadrata invece infonde sicurezza e compattezza, ma anche ritmo e rigidità. Oltretutto l’intreccio dei due quadrati crea una pianta centrale ottagonale in cui si potrebbe riconoscere una struttura classica del cristianesimo. L’intreccio delle lettere “M” ed “L”, di chiaro riferimento al nome “Malelingue”, è stato elaborato dal font utilizzato anche nella maggior parte del resto del progetto comunicativo: un carattere “bacchettone”, di struttura lunga e stretta, e composizione geometrica a dir poco rigida, parallelo stilistico al font classico fascista (”Biko S”).
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Architettura della cornice
Scheletro strutturale
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Costruzione del logotipo
Positivo//Negativo//Tratto
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LINOLEOGRAFIA Anche per quello che riguarda il logo abbiamo tentato di raggiungere un estetica che richiamasse alla storicità, come se volessimo far intendere una sorta di immortalità, come se questo simbolo venisse fuori dalle stesse epoche delle Guerre, ma fosse sopravvisuto sino ad oggi. Per farlo, oltre al lavoro grafico già citato, abbiamo sfruttato una tecnologia ormai sorpassata per poterlo stampare e ripetere su ogni poster: la xilografia. Innanzitutto facciamo una precisazione: nella creazione dello stampo al posto del legno, di più diffice lavorazione, abbiamo utilizzato il linoleum, e per questo il processo, preciso a quello xilografico, prende il nome di linoleografia. Il processo linoleografico prevede la creazione totalmente manuale di uno stampo intagliato nel linoleum, materiale plastico di vasto utilizzo, riportante il disegno 80
ribaltato. Attraverso l’applicazione della tinta e la successiva pressione del un foglio sullo stampo, si ottiene un risultato sempre simile ma mai necessariamente uguale. Anche le aree piene, in questo modo, si riempiono di piccole imperfezioni, errori, creatisi durante la lavorazione del materiale, o per l’applicazione del colore non eterogenea. Questo errore, sempre mutabile, delinea nella nostra testa l’idea che quel simbolo abbia dietro a se una vita molto lunga, che, nel tempo, lo ha scolorito e rovinato. Esattamente quell’idea di “immortale” che volevamo ottenere.
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RIFERIMENTI
TEMA
STRUTTURA
Ritratto dello “Zio Sam” di James Montgomery Flagg (pubblicitario e illustratore), “I want you for U.S. army”. Prima pubblicazione il 6 luglio del 1916, vengono stampate oltre quattro milioni di copie tra il 1917 e il 1918 quando gli Stati Uniti entrano nella prima guerra mondiale. Diventanto così uno dei “poster più famosi al mondo” (dice lo stesso creatore) viene riutilizzato e riadattato secondo le varie necessità per molti anni, fino ad oggi. In realtà lo stesso Montgomery si ispira ad Alfred Leete che, nel 1914, dipinse “Lord Kitchener wants you” per l’arruolamento dei britannici contro la germania.
Vogliamo che l’abitante medio si risvegli e non rimanga assopito tra telefonia e negozi, case e centri commerciali. Sosteniamo il rapporto con la natura, con gli istinti che sono alla base della natura umana: la “gente” ha bisogno di risvegliarsi. Per questo vogliamo spronare a “piantare alberi”, perchè ormai nessuno se ne preoccupa più visto quanto siamo presi dallo sviluppo veloce in cui siamo intrappolati. Con questo non vogliamo negare quanto sia fondamentale la tecnologia, soprattutto per noi che siamo nati con essa, però ci rendiamo anche conto che si rischia di perdere i veri punti di riferimento.
Il poster si sviluppa su diversi piani: quello più importante è sicuramente quello col soggetto che indica verso chi lo osserva e serve a richiamare attenzione, oltre che a creare un legame con l’osservatore. Subito dopo viene lo slogan, che giace quasi sullo stesso piano, e completa (spiega) la figura principale. Sul retro troviamo un grande logo delle Malelingue riproposto in variante più leggera e con un pattern di alberi. Sullo sfondo infine abbiamo lo sfondo, di color rosso mattone, che richiama i muri delle case, i colori naturali, ma soprattutto il papillon dello Zio Sam e che serve da fare contrasto col blu della giacca. Blu e rosso sono abbinamenti molto usati in quanto si danno vita e luce a vicenda, funzionando quasi come complementari. Ci sono poi due elementi fissi in ogni poster, vale a dire il logo affiancato da “malelingue propaganda” e la cornice esterna bianca. Questa cornice ordina un po il tutto, crea un altro richiamo tra ogni poster e stacca dal supporto su cui sono affissi. Ultimo elemento comune a tutti i lavori è l’uso di “effetti” di invecchiamento per richiamare ai poster di un tempo; vogliamo creare sempre un collegamento/ straniamento tra l’immaginario collettivo e la nostra proposta così da scatenare il cortocircuito.
PIANTA UN ALBERO 83
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TEMA
STRUTTURA
“L’esercito delle teste chine” non ha riferimenti diretti ad altri poster, però richiama sia l’immaginario futuristico di “1984”, George Orwell, sia quello di alcuni film apocalittici in cui si immagina la vita quando l’intelligenza artificiale prende il controllo sull’uomo. Il logo di facebook dall’alto ci controlla, sa in ogni momento cosa facciamo e con chi siamo e ha pieno diritto di vendere le sue informazioni che noi gratuitamente cediamo. Orwell immaginò una realtà in cui un regime totalitario e violento prende il controllo su ogni singolo aspetto della nostra vita, dall’intimo mondo del sogno all’ambito pubblico, dall’amore al lavoro, alle amicizie. Possiamo dire che il controllo sulla privacy che immaginava Orwell, rispetto a quello acquisito dai social network e dalle tecnologie odierne, non fosse neanche minimamente potente e subdolo quanto quello odierno.
Anche in questo caso il tema di fondo è legato alle nuove generazioni che diventano dipendenti dalla tecnologia e al distacco dell’uomo dalla natura.
Una massa di uomini tutti identici e a testa bassa ci porta a riflettere su noi stessi: sono il nostro specchio. L’utilizzo di colori scuri e il nero del volto da un senso si pesantezza e oppressione. Le nuvole e i raggi servono per aumentare ulteriormente questo effetto e a dare più importanza al simbolo in alto che ci “controlla” (circondato dallo schema del logo malelingue). Il claim in basso bilancia il logo e si porta in primo piano assieme alla cornice.
ESERCITO DELLE TESTE CHINE 87
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TEMA
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Per questo poster non sono stati presi altri riferimenti, se non quelli del paesaggio che ci circonda.
Il tema scelto in questo caso è, ancora una volta, strettamente personale. In parte si ricollega a quello precedente dell’allontanarsi un po dalla dipendenza dalle tecnologie, ma soprattutto parla del futuro dei giovani italiani, tema molto scottante in questo periodo di crisi. Siamo un paese di laureati senza un lavoro che non sono disposti a tornare ai lavori più duri e umili della terra, quelli dei nostri nonni. Lamentarci è quello che ci viene meglio e non vogliamo trovare soluzioni alternative: noi vogliamo ricordare che siamo un paese nato dal duro lavoro e che, anche in una situazione complicata come quella attuale, dobbiamo essere in grado di risollevarci rimboccandoci le maniche.
L’impostazione del poster, in questo caso, è differente dalle altre. In primo piano abbiamo il claim, soggetto fondamentale, che è caratterizzato da un font personalizzato e che richiama l’uso della mano. Il tutto è accentuato dalla presenza della pala che si porta nel centro. Lo sfondo presenta una veduta sui campi coltivati che bilanciano il peso del claim mentre “laureati d’italia” viene bilanciato dal logo malelingue propaganda.
TORNIAM AI NOSTRI CAMPI 91
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L’autore del poster di riferimento è Briskin V.M. che creò poster patriottici e rivoluzionari per la propaganda russa antiimperialistica. Questo in particolare trattava il tema dell’uso della stampa come arma del proletariato: lo scopo era quello di spronare l’educazione, l’arte e le scienze.
Sempre legati al rispetto della natura vogliamo occuparci della città. Questa viene spesso dimenticata dal cittadino medio e logorata dalla nostra noncuranza: inoltre il non rispetto per la città che ci ospita è anche nei nostri confronti. Se ci lamentiamo delle sigarette sul marciapiede possiamo inanzitutto evitare di buttare le nostre, se non ci piace un parco sporco possiamo utilizzare i bidoni, e così via...
Il soggetto centrale è massiccio e d’effetto: mentre inquina gira la testa dall’altra parte e non se ne rende nanche conto. Lo sfondo blu contrasta col rosso del soggetto, che viene fatto risaltare anche dal contorno azzurro, e il tutto è equilibrato dal grigio della città che fa da sfondo al claim posto in basso. La lattina è uno dei fulcri visivi in quanto è distaccata dal resto dell’immagine e viene ulteriormente indicata dalla torre in basso. Per bilanciare ulteriormente il soggetto, che di suo si porta a destra della visione, è stato usato un pattern delle malelingue sul fondo a sinistra.
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TEMA
STRUTTURA
Alexander Rodchenko, nel 1924, usa fotografia e grafica innovativa per promuovere l’acquisto dei libri e in generale lo sviluppo culturale delle masse. Usa la bellissima Lili Brick e le fa urlare “Knigi” (libri) e, grazie all’uso di prospettive inusuali e font d’impatto, crea uno dei poster russi più famosi della storia. Nonostante il viso della donna sia dolce e allegro si percepisce il clima di violenza che governava nella russia della guerra.
L’amore è universale e deve essere gratuito e incondizionato. Non importa chi siamo e da dove veniamo o dove arriveremo, a un certo punto avremmo bisogno di qualcuno al nostro fianco, cantava Bob Marley. Vogliamo ricordarlo alla gente, visto l’aumentare di matrimoni che falliscono e l’atteggiamento di isolamento che sembra aver contagiato gran parte delle persone. L’egoismo che contrassegna la nostra generazione deve essere sradicato o ci dimenticheremo che l’uomo è un animale sociale fatto per vivere a contatto con altre persone.
Lo schema base riprende quello di Rodchenko per cui abbiamo il viso della donna in bianco e nero, inquadrato da una figura geometrica, dalla cui bocca esce il claim. Il resto del poster e vivace e presenta molti colori di contrasto che però non richiamano quelli più cupi utilizzati in origine. A differenza di quello di Rodchenko, il nostro poster è in verticale per cui il viso è stato spostato nell’angolo in alto a sinistra ed è contornato da figure circolari che hanno la particolarità di inquadrare il soggetto e dargli importanza. Il claim si sviluppa su figure angolate e impattanti per cui acquista grande valore. Per le figure rotonde sono stati usati gli azzurri, che si adattano meglio a queste strutture, mentre per i rettangoli posti a contorno del claim è stato utilizzato un magenta non molto potente. Inoltre l’uso di certe strutture (righe) in maniera regolare crea l’effetto di un pattern e trasmette dinamismo all’immagine. Lo sbilanciamento del viso a sinistra è sistemato dall’uso del logo Malelingue in alto a destra mentre “Malelingue progapanda” in basso al centro conclude l’andamento discendente del claim.
L’AMORE E’ GRATIS 99
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RIFERIMENTI
TEMA
STRUTTURA
Anche per questo poster non ci sono riferimenti inerenti ai periodi delle propagande perchè la linea di pensiero era di altro tipo, in ogni caso recentemente si parla spesso delle unioni di fatto e omosessuali per cui vengono fatte diverse pubblicità progresso.
Il tema si sviluppa da quello precedente dell’amore gratuito e incondizionato. La nostra posizione è chiara e vogliamo che chi osservi questo poster ci rifletta: se la legge è uguale per tutti e se siamo uno stato laico e democratico, perchè amare una persona dello stesso sesso dovrebbe costituire la privazione dei nostri diritti di cittadini? Dobbiamo evolverci e non rimanere bloccati alle ideologie dell’Ottocento che limitano la possibilitià di amare chiunque vogliamo.
I soggetti questa volta sono due e si incontrano creando una struttura triangolare al centro: questo effetto è sottolineato dai due diversi colori di sfondo per ogni soggetto, azzurro e rosso, che si fondono al centro e viene a ricrearsi il pattern malelingue. I due soggetti poggiano sul claim in basso che chiude l’immagine. Il triangolo è una struttura vivace e molto dinamica che rincorre anche in molti elementi naturali ed è, da sempre, carica di significati simbolici. Anche in questo caso il contorno degli elementi principali, in marrone scuro, serve a sottolinearne l’importanza.
DEMOCRAZIA ALMENO IN AMORE 103
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RIFERIMENTI
TEMA
STRUTTURA
Come ogni propaganda che si rispetti anche noi abbiamo il nostro simbolo e immaginario, per questo motivo questo poster è semplicemente autoproclamatorio. La scelta del pattern è legata a un gusto estetico nuovo estremamanete legato alla grafica e al geometrismo degli elementi.
Il tema sono le Malelingue che vogliono smuovere il cittadino faentino e far riconoscere la nostra presenza nel territorio: vogliamo infastidire, scatenare un pensiero e, perchè no, fare dell’informazione che sia esteticamente bella e pensata (al contrario di molte campagne pubblicitarie che hanno decisamente abbassato il
gusto dell’utente medio). Per pattern si intende uno schema che ricorre in maniera più o meno regolare nello spazio o nel tempo: questo può riferirsi a uno geometrico e voluto (come in grafica o architettura), a un contesto sociale o di comportamenti ripetitivi, allo schema delle macchie di un leopardo fino al movimento delle ali. Un pattern grafico per non annoiare la vista deve alternare elementi ordinati ad altri che danno dinamismo: nel nostro caso abbiamo l’estrema regolarità e rigidità del logo in se (due quadrati e un cerchio sovrapposti) che crea negli spazi vuoti dei punti più morbidi e dinamici. Il colore scelto è il giallo-dorato che viene fatto risaltare dal semplice fondo bianco, l’unica variante si presenta in basso con il richiamo Malelingue Propaganda.
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