La Gola n°1 Ottobre 1982

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Mensile del cibo e delle tecniche di vita materiale Ottobre 1982 Anno 1 • Numero 1 Lire 3.000

Edizioni Cooperativa Intrapresa Via Caposile 2 20137 Milano Telefono (02) 5457267

Marcel Detienne: La coscienza gastrologica Francesco Leonetti: Il cibo Paolo Volponi: All'Albergo del Sole Manlio Brusatin: Segreti alimentari Alberto Capatti: Whisky e tè nel giallo anni Trenta Anna Malerba: D ’Arrigo, la fera alla ghiotta Giuseppe Scaraffia: La cena d’ Brummell <23^ Vincenzo Tanara: "Je an:Pierre Vernant: Emilio Faccioli: La purezza del porco Documento: «I vini d’Italia giudicati da Papa Paolo II (Farnese) e dal suo bottigliere Sante Lancerio» forcina Philippe Chalmin: Sul mercato internazionale delle materie prime Rubriche: Passim, Doc., Vedi Index: Il riciclaggio della fame Gian Paolo Fabris: Nuove tendenze in Italia Antonio Piccinardi: I vini nuovi dell’anno Francesco Spagnolli: Tecniche del vinificare Antonio Porta: Verso il cavolo nero Ornella Volta: Il cibo di Erik Satie Filippo Ravizza, Luigi Veronelli: «Il Gastronomo» (1956-1962) e la gola Leonetta Bentivoglio: Le donne doviziose di Fellini (intervista) . Pranzo del 1 ottobre 1982 Antonio Attisani: Passariano, cucina e società in parole Renata Pisu: Un menu da «Neve di primavera» di Y. Mishima Valéry Larbaud:


Luoghi freschi dove si lavora il latte, da Bartolomeo Scappi, Opera dell’arte del cucinare, Venezia 1622.

Sommario

Ottobre 1982

Marcel Detienne La coscienza gastrologica Ap 301.5 pagina 3 Francesco Leonetti Il cibo problema Tf 001.2 pagina 4 Paolo Volponi All’Albergo del Sole C 853.91 pagina 5 Manlio Brusatin Segreti alimentari T 854.91 pagina 6 Alberto Capotti Whisky e tè nel giallo anni Trenta L 813.5 pagina 7 Anna Malerba D ’Arrigo, la fera alla ghiotta L 854.91 pagina 8 Giuseppe Scaraffìa La cena di Brunirne 11 L 854.91 pagina 9 Vincenzo Tanara Il testam ento del porco L 853.5 pagina 10

Emilio Faccioli La purezza del porco C 854.91 pagina 10 Jean-Pierre Vemant Il cibo di Omero St 292.08 pagina 11 Passim Libri e riviste pagina 13 Documento «1 vini d ’Italia giudicati da Papa Paolo III (Farnese) e dal suo bottigliere Sante Lancerio». Glossa di Gianni-Emilio Simonetti St 945.06 pagina 15 Philippe Chalmin Sul mercato intemazionale delle materie prime E 658.16 pagina 19 Index Il riciclaggio della fame E 029.4 pagina 20 Gian Paolo Fabris Nuove tendenze in Italia C 390.1 pagina 21 Doc. Documentazione sui problemi alimentari pagina 22

Antonio Piccinardi I vini nuovi dell’anno T 663.2 pagina 23 Francesco Spagnoili Tecniche del vinificare T 663.2 pagina 24 Antonio Porta Verso il cavolo nero T 854.91 pagina 25 Ornella Volta II cibo di Erik Satie Ar 780.07 pagina 26 Happening culinaire pagina 26 Filippo Ravizza, Luigi Veronelli • «Il Gastronomo» (1956-1962) e la gola C 854.91 pagina 26 Pranzo dell’1 ottobre 1982 C 394 pagina 27 Leonetto Bentivoglio Le donne doviziose di Fellini (intervista) Ar 791.430 92 pagina 29 Valéry Larbaud «Europa» (poesia) L 841.9 pagina 29

Vedi Luoghi, cose, eventi pagina 30 Renata Pisu Un menù da «Neve di primavera» di Yukio Mishima L 895.6 pagina 31 Antonio Attisani Passariano, cucina e società in parole v C 301.5 pagina 31

La sigla alfa-numerica che compare nel sommario dopo ogni titolo va letta così: la lettera rimanda agli argomenti come qui di seguito classificati, il numero corrisponde alla classificazione deci­ male Dewey:

Edizioni Intrapresa Cooperativa di promozione culturale Redazione e amministrazione: ^ Mensile del cibo e delle tecniche di vita Via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 5457267 materiale Coordinamento editoriale: Giovanni Alibrandi Comitato di direzione: Antonio Attisani, Nanni Balestrini. Composizione: Francesco Leonetti, Gaudia Monti. GDB fotocomposizione, Antonio Porta, Gianni Sassi, Marco Via Tagliamento 4, Milano, Maria Sigiani, Gianni-Emilio Simonetti Telefono 5392546 Stampa: Rotografica s.r.l. Redazione: Vincenzo Bonazza, Patrizia Brambil­ Via Massimo Gorki, la, Amelia Catto, Marco Leva, Bruno San Giuliano Milanese Distribuzione: Trombetti (grafico) Messaggerie Periodici Hanno collaborato a questo numero: Anna Bartolini, Laura Bersano, Gu­ Abbonamento: annuo L. 30.000 glielmo Bilancioni, Franco Bucci, An­ estero L. 36.000 (posta ordinaria) tonio Caronia, Maurizio Ferraris, L. 45.000 (posta aerea). Ambrogio Gagliolo, Corrado Gianno- Inviare l’importo a: Intrapresa ne, Alberto Guenzi, Roberto Malfat­ Cooperativa di promozione culturale to, Massimo Montanari, Francesca Via Caposile 2, 20137 Milano Pasini, Carlo Romano, Giancarlo Ro- Telefono (02!) 5457267 versi, Elsa Rollwagen, Vitti Turiello. Conto Corrente Postale n. 15431208 Autorizzazione del tribunale Arturo Zampagliene di Milano n. 380 del 9/10/1982 Art directors: Direttore responsabile: Massimo Dolcini, Gianni Sassi Antonio Attisani Pubbliche relazioni: Marco Pesatori Consulenti: Marta Alessandri, Bruno Bezza, Car­ lo Bozzoni, Maria Vittoria Carloni, Paolo Carta, Ivan Dragoni, Ambrogio Gagliolo, Marinella Guatterini, Ro­ Tutti i diritti di proprietà letteraria e mano Montroni, Oddone Pattini, An­ artistica riservati alla Cooperativa In­ trapresa. tonio Piccinardi

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a prima etnografia delle ri­ cerche di Erodoto presta una grande attenzione ai rapporti con la nutrizione e alle svariatissime cose che passano at­ traverso la bocca, le mascelle, la voracità del ventre. Per esempio, gli Egizi, che a quel che si dice so­ no i più antichi abitanti della terra, sacrificano vittime animali ma ne bruciano la maggior parte, dopo averla farcita di miele, di fichi, di aromi, perché serva, pensano, co­ me nutrimento agli dei. Quanto al­ la testa, è tagliata e gettata nel fiu­ me o venduta ai Greci, se c’è un mercato lì vicino o se, per caso, mercanti greci risiedono nel paese. Gli Egizi provano orrore a toccar­ li, mentre in Grecia i capri sacrifi­ cali approvvigionano i mercati, che non distano mai troppo dai santuari. Erodoto dice di più: né un egi­ zio né un’egizia accetterebbero di baciare un greco sulla bocca, e neppure di servirsi delle brocche o delle stoviglie di uno di quei man­ giatori di teste. Altri, ancor più in­ transigenti, si spingono sino a ri­ fiutarsi di assaggiare una carne ta­ gliata con una lama greca. E il Ge­ nesi narra di come gli Ebrei abbia­ no imparato a loro spese quanto gli Egizi aborrissero dividere la mensa con degli stranieri: Giusep­ pe e i suoi fratelli, venuti in Egitto a comprar grano, furono accurata­ mente serviti a parte, e mangiaro­ no da soli.

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Oggi mangiamo la cucina degli altri. Ma dopo aver mangiato gli altri Una così grande avversione per ciò che vien mangiato dagli altri passa attraverso la bocca, l’orifizio del corpo che bacia, succhia, ma­ stica, morde o lacera, ma che la­ scia anche passare gli anatemi o le parole ingiuriose per vomitare l’al­ tro, dai gusti tanto ripugnanti. Dimmi come mangi, come ti com­ porti a tavola, e ti dirò chi sei. Co­ me dicono i filosofi, ne va di una materia e di una sostanza, ma che non sono troppo lontane dalla sus­ sistenza di ognuno di noi. Rousseau, Jean-Jacques, era piuttosto incline ai latticini e ai pranzi al sacco, la cui semplicità gli pareva latrice di non violenza sociale. E la sua dieta, in armonia con il discorso del Contratto socia­ le, lo induce a denunciare per pri­ mo, ma rievocando i Pitagorici di Plutarco, il furore cannibalesco dell’uomo occidentale: «È nelle capitali che si riesce a vendere me­ glio il sangue umano». E i ricchi, che sfruttano i poveri mentre fan­ no crollare la propria tavola sotto il peso di carni e intingoli, sono «simili a quei lupi famelici che, do­ po aver gustato per una volta la carne umana, rifiutano qualsiasi altro cibo, e non vogliono divorare altro che uomini». «Come si pos­ sono avere idee egualitarie, se si è carnivori?», si chiede Rousseau con la stessa angoscia di Porfirio o di un discepolo di Pitagora. Ma si è dovuto aspettare LéviStrauss e i suoi Mitologica perché l’antropologia scoprisse quanto le maniere a tavola parlino di noi e degli altri; quanto le pratiche ali­ mentari e i sistemi di nutrizione costituiscano una specie di linguag­ gio attraverso il quale una società traduce le proprie inclinazioni fon­ damentali o rivela le proprie se­ grete contraddizioni. La cucina di Pitagora ci insegna per qual motivo i Pitagorici, setta filosofico-religiosa, non mangino fave, in quanto ciò equivarrebbe a divorare le teste dei propri genito­ ri, mentre consumare cotolette di agnello non è mangiare carne, la quale si concentra tutta nei bovini. La cucina di Mosè, a sua volta, ci mostra come un popolo «che si tie­ ne da parte e non è numerato tra le nazioni» vegli implacabilmente sulla integrità di quanto è bene mangiare, cioè puro, senza pecche e senza tare. Oggi, dopo le diete di Rousseau o di Marcel Proust, pare sia giunto il momento di analizzare con un’ottica antropologica le scelte e i valori che consentono l’invenzione delle Buone maniere a tavola nella società francese tra La Reynière, Bocuse e La nouvelle cuisine.

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Mangiare: tra il sacro e il profano Nel sistema indiano delle caste, con una gerarchia che non può es­ sere smossa ria rivoluzioni indu­ strian o sociali, il cuoco è un per­ sonaggio centrale, in qualità di «cuocitore». Perché il cibo, di per sé, non è un agente di inquina­ mento ma, come scrive Louis Dumont, purezza o impurezza pro­ vengono da chi lo prepara o lo ser­ ve. Gli alimenti sottoposti a cottura passano dal mondo naturale alla vita sociale; e, attraverso il fuoco alimentare, partecipano della fa­ miglia, della casta e della sottoca­ sta che li ha cucinati. Dunque, un sistema molto diverso dalla imma­ gine abituale che abbiamo della cucina indiana delle nostre città: in alto, il Bramino e la vacca, en­ trambi puri, e dall’altro capo, l’In­ toccabile e il bestiame morto. Il peso del religioso è ancor più pressante nell’antica Israele: per-

vece (dove la cucina coincide, tut­ tavia, con il sacrificio e dove man­ giare carne equivale a versare ri­ tualmente il sangue di un animale domestico), il cuoco, che svolge la funzione di macellaio e di sacrifi­ cante, diventa ben presto un pro­ fessionista del taglio, un esperto della griglia e degli stufati, un per­ sonaggio vólto radicalmente verso una storia culturale in cui hanno libero sfogo l’invenzione e la fan­ tasia umana. E se certi rappresen­ tanti della professione evocano con humor il carattere sacro e in­ violabile delle loro funzioni presso l’altare, altri spiegano con il menù come l’arte culinaria, ed essa sol­ tanto, abbia tratto gli uomini dalla selvatichezza, posto fine alla con­ fusione del cannibalismo, e con­ dotto gli umani alla vita civile e associata. Eroe culturale, il cuoco tesse l’elogio della propria intelligenza prometeica, sviluppa le infinite ri­

versata reca nuovi sapori, ignoti modi di cucina. Sino al momento in cui, sul punto di congedarci da questo «cuciniere» autodidatta, ci congratuliamo con lui calorosa­ mente, lodando la sua intelligenza gastrologica, appresa durante le navigazioni in alto mare. D ’improvviso, con voce indi­ gnata, il cuoco ci tronca la frase, e ci indica energeticamente col dito una biblioteca sistemata vicino alla cassa: «Io, un autodidatta! Ho im­ parato tutto sui libri, la mia cucina è autentica». E noi, allora, trovia­ mo, vicino all’edizione delle opere di La Reynière, i prodotti della più raffinata letteratura culinaria: po­ co distante da Bocuse, che sosti­ tuisce in modo assai decoroso Ca­ rême, l’ultima cucina francese e milanese, nelle sue più recenti conquiste semiotiche: l’anatra alla Baudrillard, ovviamente la cele­ bre zuppa al Pistou del professor Greimas, e anche l’ultimissiçno * ri-

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E ora, dice Detienne, di posare uno sguardo interessato sulle scelte e i valori che permettono Vinvenzione delle manières de table. Dall'antichità greca a oggi il rapporto cucina-società è cambiatoy ma Vantropologia moderna ha fatto ancora poco per comprenderne la portata

La coscienza gastrologica Marcel Detienne

ché il cibo dell’uomo rispetti i di­ segni del Creatore, deve essere passato al vaglio di tutti i divieti enumerati nel Deuteronomio e nel Levitico. La tavola, come il letto, deve se­ parare radicalmente l’ebreo dal non ebreo: con gli esclusi dall’Al­ leanza non vi devono essere né matrimoni né pranzi in comune. Sistema da cui il Palestinese fon­ datore del cristianesimo si affran­ ca radicalmente, imponendo a Pie­ tro, nella visione di Jaffa (Atti, X), di mangiare d’ora innanzi tutti i ci­ bi e di dividerli con i non ebrei. Strana visione alimentare di una tovaglia colma di tutti i viventi del­ la terra, delle acque e dei cieli, buoni da uccidere e da mangiare. Momento storico per l’avvenire della cucina e per la nostra imma­ gine degli altri e delle loro maniere a tavola. In un paese come la Grecia, in-

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appartamento, sino all’ultimo re­ spiro detta al discepolo Plumerey gli ultimi due volumi dell’A ri de la cuisine au X lXèm e siècle. È ben vero che il cuoco moderno, da La Chapelle in poi e con la scoperta delle «salse madri», è una specie di chimico che elabora sul potager,. il^grande tom o a dieci o venti Riochi, la teoria delle nuove unità gustative. M a, dai tempi di Plato­ ne, la gente di cucina ha già i suoi classici,* in questa biblioteca Mithaikos, il famoso autore di La cucina siciliana, questo Fidia della tavola, tiene il primo posto insieme all’il­ lustre Archestrato e alla sua Ga­ strologia, il celebre almanacco dei golosi. Trima ciie la grammatica e rem dizione invadessero la cucina, di­ venendo la routine delle Questioni di tavola, i cuochi contribuirono efficacemente alla scienza medica. E molti trattati della collezione ip­ pocratica, che fanno riferimento alla dietetica, enumerano alimenti e ricette, spiegano l’importanza dei gradi di cottura e sviluppano una teoria della potenza degli atti culinari. Tra i libri di cucina e le opere di farmacopea intercorrono strette relazioni; e, nei ricettari, le formule per la preparazione delle medicine sono analoghe a quelle per la preparazione delle bevande e dei mosti. In tutta la tradizione greca, i regimi alimentari sono al­ l’origine dell’arte medica. La me­ dicina riconosce la propria origine nelle proprietà degli alimenti: in greco, una stessa parola, chymos, designa i sapori degli alimenti e gli umori del corpo. Sino alla metà del secolo XVII, i consigli medici si mescolano alle raccomandazioni ghiotte. Lo dico­ no gli stessi titoli delle opere: Le Trésor de santé ou Mesnage de la vie humaine (1607) o Le Portrait de la Santé (1606). Non dobbiamo quindi stupirci se oggi la gastrono­ mia dotta è perfettamente in linea con gli imperativi della più pura dietetica.

Quando «la scienza della gola» fa ritorno alla natura Per determinare le proprietà de­ gù alimenti, come del resto per le medicine, giova ricorrere al giudi­ zio del palazzo. Un buon medico deve saper gustare quanto un buon cuoco. E Aristotele, severis­ simo come si conviene a un filoso­ fo nei confronti di qualsiasi forma di intemperanza, fa eccezione per coloro il cui mestiere, tutto legato La scrittura è un modo di cottura al discernimento, consiste nel sen­ Nelle librerie di ogni grande cit­ tire gli odori e nell’apprezzare il Il cuoco illetterato tà, il settore Cucina è tra i meglio condimento dei cibi. Sorpresa etnografica. Dalle par­ avviati. È un genere letterario che Ma in ogni sapore vi è una qua­ ti di Bocca di Magra un amico, fi­ ha tra le proprie caratteristiche so­ lità tattile la cui potenza sensibile ne gourmet, mi fa scoprire in capo ciologiche più sicure il fatto di nu­ rischia di tralignare nella voluttà. al mondo un cuoco straordinario. trire il lettore: una letteratura due Forse che denunciare Inspirazione Le sue trovate nell’arte del lavora­ volte alimentare. Ma, di fatto, si che il pensiero edonistico di Epi­ re il pesce in polpette, antipasti, tratta della scrittura nella sua fun­ curo avrebbe trovato nella gastro­ soufflés, combinazioni varie, riem­ zione inventiva, la più interessante logia di Archestrato nod era un piono una tavola immensa per cui antropologicamente. luogo comune tra gli avversari del­ noi, tra tante libagioni, ipotizzia­ Il cuoco Carême scrive tutto ciò l’epicureismo? Tanto più che A r­ mo lo strano destino di Dedalo, che cuoce, e la sua morte è quella chestrato, celebre cuoco-scrittore, portato sui mari, che ad ogni attra­ del Grande che, in un miserabile si raddoppiava nel gran viaggiato­ re, che moltiplicava gli spostamen­ ti per assaporare ovunque cibi e bevande: goloso, avido di provare voluttà tanto rare da far legittimamente supporre che non differisse­ ro dai piaceri promessi dal celebre Trattato delle posizioni della mi­ steriosa Philenis (di cui i filologi, attendono con impazienza qualche lacerto papirologico che ne con­ tenga dei frammenti). La scienza della gola non è for­ se, dopo Platone e il Gorgia, con­ siderata un’arte della parvenza, un sapere illusorio e fallace, nefasto quanto la cosmesi? E se noi sem­ briamo dar ragione alla severità del filosofo, reclamando oggi il ri­ torno a una natura più naturale di quella di Rousseau con i suoi pranzi al sacco, è che ci troviamo in una cultura nutrita di tutti gli artefici del nostro sapere, sapere degli altri regimi alimentari, dove si mescolano, di conseguenza, i principi yoga sul nutrirsi del soffio vitale, le promesse di Lunga Vita degù alimenti macrobiotici, e le raffinatezze estreme della Cina rda p a A senza maoismo. Oggi il cuoco, so­ prattutto se vegetariano, deve es­ Alcuni coltelli previsti da Bartolomei Scappi sere innanzitutto un semiologo... sorse della sua abilità e inventiva; e dalla «scienza della gola» nasco­ no, insieme, i piaceri della tavola e le forme di sensibilità che sapori e profumi risvegliano nei viventi che, finalmente, hanno abbando­ nato la vita animale e ferina. In Grecia, il cuoco è un Grande che reclama un posto nel pantheon e ha diritto di cittadinanza tra i lette­ rati, ed essi lo accolgono come uno dei loro.

sotto alla Fabbri, cotto a fuoco lento tra i fornelli dello chef Eco e le casseruole nella École des Hau­ tes Études en Sciences sociales. H nostro cuoco illetterato era un dotto lettore. Avrei dovuto so­ spettarlo, tanto più che la mia gui­ da in quelle terre sconosciute non ignorava nulla circa le affinità elet­ tive tra il Coltello e lo Stilo.

Der il suo corredo di cucina (Dall’Opera dell’Arte del cucinare, Venezia 1622).

(traduzione di Maurizio Ferraris)


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L ’indagine sul senso dell’alimentazione, nell’antropologia e nella nuova storia, conduce ad alcuni interrogativi sconcertanti.

Il cibo problema Francesco Leonetti

alimentazione, l’abitazione, l’abbigliamento cominciaJ no a essere oggetti d’indagi­ ne delle Anuales, la rivista inizia­ ta nel ’29 che con la sua ricerca modifica l’idea moderna di storia, alla fine degli anni Cinquanta. Si arriva a questo campo per conside­ rare gli effetti o i riflessi, nei con­ sumi popolari, delle fluttuazioni economiche e demografiche; e si esaminano le razioni degli equi­ paggi delle navi, dei degenti negli ospedali, dei membri delle comu­ nità religiose (e una raccolta col titolo Pour une histoire de Valimentation è uno dei Cahiers delle Anuales, 1970). Noi dobbiamo semplicemente dire che questi riferimenti sono, dunque, uno dei modi maggiori con i quali si svolge, in sede di me­ todo storico e per una nuova idea di storia globale o totale, la critica dell’evento economico-politico pubblico come centrale del proces­ so storico (prescindendo qui dalla polemica teorica verso la priorità della determinazione economica come propria del marxismo). Certo è, anzitutto, che deriva dalla scuola delle Annales ogni at­ tenzione nuova ai fenomeni dell’alimentazione e della vita materiale. A leggere la recente intervista di Jacques Le Goff (Bari, Laterza, 1982, pp. 131, lire 7.000), che è vi­ vace e ricchissima d’indicazioni, l’oggetto della storia è definito con dosatura calcolata come «lo studio della società globale all’interno della quale si tratta di analizzare gli uomini con i loro problemi di alimentazione, il loro abbiglia­ mento, il loro corpo, la loro ani­ ma». E ancora si dice: «la nuova storia, sensibile all’antropologia, è una storia di uomini che non han­ no solo delie idee ma che hanno un corpo, che si nutrono, che si vestono, che vivono biologicamen­ te e materialmente...». Si può no­ tare di passaggio che il linguaggio non è neppure menzionato; si par­ la per un verso della vita materia­ le, e per l’altro di quella simbolica. I problemi fondamentali (per millenni) La serie di argomenti teorici che ha complessivamente in questo campo, fin qui, il maggior valore di accertamento utile può essere considerato il n. 31 (1979) della ri­ vista Communications, diretta da Edgar Morin. Ne è uscita una tradu­ zione italiana con qualche giunta e col titolo, desunto da uno scritto, Atti alimentari e atti culinari, che stranamente pare titolo di rivista (a cura del Servizio editoriale del­ l’Università di Siena, Bologna, Documentazione scientifica editri­ ce, 1981, pp. 188, lire 11.000). Te­ niamolo presente per il nostro di­ scorso introduttivo sul tema, se­ guendo la linea dei suoi saggi bre­ vi. Lo studio della società selvaggia e del tribalesimo distingue oggi il momento della cottura come pro­ prio dell’alimentazione umana: ed è la sola operazione culinaria che lascia tracce archeologiche. Certo per tutto il Paleolitico l’uomo è stato principalmente vegetariano. (E se l’apporto calorico vegetale è uguale a quello della carne, come pare, o no, è questione ancora aperta presso la stessa Fao). Nello stesso tempo la caccia, col suo valore alimentare secondario o eccezionale rispetto alla raccol­ ta, va intesa come un processo di collettivizzazione: comporta infat­ ti un sistema gestuale o verbale di

comunicazione, e rinforza l’«homo sapiens» che è debole di fronte agli animali ed è piuttosto, a quan­ to pare, un cercatore di carogne, pur armato. «L’uomo è uomo perché mangia cibo cotto» scrive C. Perlès, con una variazione antropologica at­ tuale di un vecchio principio di Feuerbach, dunque... E nel pro­ cesso rivoluzionario dell’allevamento e dell’agricoltura, alla fine del Paleolitico (10.000-9.000 a.C.), per cambiamenti climatici da glaciazione e con scomparsa di branchi di animali, e altre cause, che si dà la costituzione di stock alimentari. Tale è il bestiame stes­ so; e i prodotti del latte, ora. Ne deriva la proprietà privata, come si sa, la società gerarchizzata, già dall’età del bronzo, e in essa la scrittura, e la storia, estremamen­ te breve al confronto. Dunque, primo punto essenziale: le opzioni alimentari non sono solamente ri­ sposte al bisogno, ma strutturano il gruppo umano. Nel regime onnivoro, quindi adottato, vi sono «i determinismi che legano un organismo a una nicchia alimentare di base» (S.J.C. Gaulin): secondo alcuni princìpi di scelta, con modelli eco­ logici e col «sistema di immagazzi­ namento efficace» dato dal grasso;

«un’epoca di grande confusione alimentare»: dentro la quale, egli segnala fra l’altro, diviene parossi­ stica, giustamente, una diffidenza motivata primordialmente da una componente tossica (attiva nei tu­ beri, ecc.) con forme di angoscia schizo-paranoide che si rivolge og­ gi verso i conservanti e gli additivi, i coloranti, ecc. Sotto l’aspetto della percezione e della comunicazione, altrettanto importante per una serie di motivi attualmente interessati dalla ma­ nipolazione industriale, va detto essenzialmente che la sensazione gustativa (nella papilla e con rifles­ so gusto-facciale) presenta diffe­ renze individuali di sensibilità, o quanto meno di soglia sensoriale, elevatissime: da 1 a 500 addirittu­ ra. Inoltre non è concepibile corret­ tamente l’assunzione alimentare senza tenere conto che essa è un sistema culturale di comunicazio­ ne, con strutture e abitudini che occorre studiare, tramite inchie­ ste, in un approccio comparato dei processi relativi nei vari strati so­ ciali, famiglie, tradizioni di base, cerimonie, rapporto fra l’alimen­ tazione e i pasti, ecc. (Douglas). Sembra infine esatta o giustifi­ cata la tesi del curatore C. Fischler secondo la quale il cibo è un «og­

comunica le sue virtù: ma, simul­ taneamente, l’alimento incorpora il mangiatore al cosmo». Noi possiamo dire che il cibo è il rivelatore dei rapporti di interazio­ ne fra l’uomo e l’ambiente, e inol­ tre dei concatenamenti fra il biolo­ gico e il culturale. L’interesse emergente (e rosicchiare è pur bello) Compiuti questi riferimenti ge­ neralissimi, occorre ora precisare, in una serie di rilievi iniziali che possono essere svolti in modo arti­ colato via via, che cosa rende oggi, a un certo punto della progressiva «rivoluzione industriale», il cibo un punto d’interesse emergente. Certo non si tratta più di una curiosità, di un collezionismo, so­ lamente, o di un vizio; la gastrono­ mia è dubbia, pur coi suoi clubs... Non c’è un ritorno della gola in senso stretto; né semplicemente della cultura relativa, o della lette­ ratura con quest’oggetto. Intendo dire che il gusto cibario e il suo campo, come gli altri sensi e la lo­ ro valorizzazione, sono temi inte­ ressanti: ed è culturalmente neces­ sario che siano trattati in modo da produrre un salto di consapevolez­ za nelle pratiche relative, che da secoli si trasmettono a livello puro di esercizio.

Istruzioni al trinciante per pulire il pesce, da Li tre trattati di Mattia Giegher, 1639.

e si trova «una gamma di ecologie diverse» nei selvaggi presenti an­ cora (per poco). Tuttavia, altro punto essenziale, non si è mai data una soluzione nutritiva ottimale; anzi, essa non è veramente accerta­ bile (certi gruppi con razioni trop­ po povere nella Nuova Guinea so­ pravvivono in barba alla scienza). Inoltre lo svezzamento è sempre stato disastroso con effetti di ma­ rasma. Dunque ogni adattamento è problematico, con arbitrio cultura­ le, attraverso vari stili alimentari (I. De Garine). Si può sostenere che l’uomo non ha saputo adattare la propria ali­ mentazione ai suoi scopi; e che ne è venuta una sua disfatta, non solo biologica. E su ciò che P. Aimez svolge un suo trattato di psicopa­ tologia, sia relativo ai «delinquenti alimentari» (anoressici, bulimici, tossicomani, alcolisti, e anche obe­ si) sia generalizzata, «sulle tracce dell’inconscio biologico». Le sue deduzioni sono assai discutibili, e va citato in contrario il classico te­ sto di Hilde Bruch, Patologia del comportamento alimentare (New York, 1973; trad. it., Milano, Fel­ trinelli, 1977, pp. 517, lire 12.000, una volta). Ma è valida in Aimez l’affermazione che viviamo in

getto dalle molteplici entrate», è cioè un tema di tipo, come si ten­ de a dire oggi, transdisciplinare, interessa la chimica e la mitologia, il simbolico e il biologico, ecc. ecc., e impone una circolazione fra le discipline. Fischler inoltre definisce l’atto alimentare, felicemente, come doppia incorporazione', «il man­ giatore incorpora l’alimento che, analogicamente, magicamente, gli

Stampa del XVIII secolo sulla preparazione e vendita dei salumi

C’è, insieme, dell’altro. La si­ tuazione attuale può essere defini­ ta uno sregolamento finale, nei cibi e negli usi relativi. L’atteggiamen­ to del mangiatore è quello oggi di un rosicchiamento ansioso: l’uo­ mo è simile in ciò all’altro raro on­ nivoro, il topo... (tornare indie­ tro? e a che, alle regioni?). Mentre esiste una «saggezza propria del corpo» (Cannon), e in certe pratiche alimentari e culina­ rie vi è una funzionalità inconscia, di ordine fisiologico o ecologico (secondo le ricerche di Katz), vi è nello stesso tempo una crisi di mo­ delli, oggi, di sistemi normativi e di verifiche sociali. Tale crisi, che è parte della crisi complessa, si colloca su residui ansiogeni arcai­ ci, propri dell’onnivoro, e derivan­ ti dalla fluttuazione delle risorse: in ragione di eventi completamen­ te nuovi, almeno in tale misura, oggiInfatti l’industria ha risolto ap­ parentemente tutto: non c’è care­ stia, per le popolazioni privilegia­ te, né alternanza di grasso e ma­ gro, né scelta connessa all’ambien­ te; c’è tutto proveniente da ogni paese; carne sempre, frutti e legu­ mi in continuazione, grassi e zuc­ cheri tali da rendere, decuplican-0002 jsnoqqft fisxoiaoqraoo ui

dosi, i corpi umani magazzini pronti alla carestia... Ma nello stesso tempo il progresso tecnolo­ gico presenta una diminuzione reale e immaginaria delle qualità, uno standard dei prodotti, una so­ stituzione sospetta dell’artigiana­ le, che è talora impressionante... Si può citare l’etnobotanico Jac­ ques Barrau che riferisce che nel secolo XIX erano registrate in Francia 88 specie di meloni, e ora 5. Tutto è «trattato», ormai, dal tempo dell’additivo in zucchero che è stato posto in tutti i cibi con­ fezionati, come segnale dolce e mangiabile anche se sazi, «perce­ pito subliminalmente»... Non si sa più che cosa si mangia. Intanto l’effetto del tempo di la­ voro ha dato 1’«impero dello snack»: che è, come è noto, con piatti sintetici dal già classico sand­ wich all’hamburger, un sistema alimentare frazionato, per molte­ plici assunzioni: in Usa, secondo inchiesta, in una media giornaliera di venti. I mangiatori sono solitari, o membri di un insieme casuale. Tendenzialmente infantile è la go­ losità. E soprattutto: si suppongo­ no due comportamenti fondamen­ tali nell’uno, il commensalismo e un altro più arcaico, da raccoglito­ re vegetariano, «vagabond feeding» (per adattamento alla care­ stia): raccogliendo, per così dire, e spilluzzicando o rosicchiando piz­ zerie e salatini come se fossero frutti presi dagli alberi in un’orgia di libertà... proprio perché questo gusto del prendere vagabondo, nell’attuale disgregazione del commensalismo, almeno di quel­ lo familiare, viene utilizzato dal­ le grandi strategie nutrizionali del­ l’industria. Il più consigliato dai fi­ nanzieri è oggi l’investimento nell’agro-alimentare: si dovrebbe in futuro mangiare «persuasi» dai co­ lori, o dai nomi dei panini pronti. E dunque c’è l’inganno a livello del materiale e a livello del simbo­ lico. C’è una penuria che è propria dell’abbondanza. E riappare un ti­ po di carestia, Attraverso le diffe­ renze di consumò possibile, con l’in­ flazione più o meno inarrestabile. Come, nel distacco fra ricchi e poveri, invece, è possibile ricosti­ tuire il godimento, che nell’ali­ mentazione esiste solo individual­ mente e nella piccola comunità, contro le tendenze macroistituzio­ nali? E anzi, come garantire le cel­ lule familiari? Certo il godimento è il «valore d’uso», di marxiana af­ fermazione. E il fornaio, l’erbori­ sta, l’artigiano delle pelli, che han­ no aperto da qualche anno piccole botteghe nei quartieri, sono arti­ giani residuali che rinascono, sono compagni del movimento, peniortuna ci sono... Come, dunque, sopravvivere con vantaggio? Ciò investe, assai più che un processo critico di tipo culturale linguistico, un vasto coinvolgimento. Fórse il cibo è una «forma» essenziale dell’insie­ me dei processi in>coitèo oggi. E, come tale, con lina sua deci­ sività, si colloca in uh mondo che può essere descritto in breve con le parole non di un politico, nla di un epistemologo, Prigogine, così (in una voce, «Ordine/Disordine», dell’Enciclopedia Einaudi): «oggi non si sa più con certezza se si stia andando verso una società sempre più conforme e centralizzata, do­ minata dagli strumenti di gestione di massa, o verso una proliferazio­ ne di attività decentrate: e nean­ che si sa se queste prospettive sia­ no incompatibili», noo siìtgbq Uiiovoineo iò o?ino2on


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Uno scrittore cui piace mangiare, ma che non ama spostarsi per cercare lontane mense, è andato un giorno a tavola da Franco Colombani. È stato un incontro tra due discipline e due stili che hanno in comune la sobrietà (eia complessità del sapere che le sostiene).

All*Albergo dei Sole Paolo Volponi

aleo chiude a sud la terra milanese sulla sponda de­ stra dell’Adda: un antico castelliere di pianura prossimo a un confíne e a un guado. Tenuto e trapassato da tante parti lungo la storia padana, anche nel nome, che potrebbe venirgli da un conso­ le romano che l’avesse ricomposto e munito come dalla conformazio­ ne rotonda e sporgente del suo ap­ prodo fluviale. In ogni momento e caso sempre fermo e vivo, carico di gente e di cose che si rinnovano di continuo nelle soste e nei transi­ ti. Tipico luogo di ricovero e di fuochi, attrezzato per le riparazio­ ni, le refezioni e gli scambi. Un inventario dei beni di Maleo datato 1464 riporta: «Taberna iacens in burgo loci Malei; pred. I, ubi dicitur in Girlo». Oggi quella taverna, cioè il ristorante che si impone a distinguere ancora Ma­ leo, si chiama Albergo del Sole. Il nome gli fu probabilmente dettato dalle luminose pacificazioni rina­ scimentali e giustamente è stato confermato oltre l’estinguersi del servizio di alloggio a causa della fine del guado e della novità delle vie di comunicazione della regio­ ne. Nel 1893 l’Albergo del Sole fu acquistato dal nonno dell’attuale proprietario, che si sistemava in paese e con un lavoro dopo essere stato per una quindicina d’anni in giro per il mondo come militare. Era un uomo d’iniziativa e d’espe­ rienza e sortiva da una famiglia di osti che aveva tenuto banco in vari paesi e centri della regione, di qua e di là dall’Adda e fino al Po. La gente della regione mangiava soprattutto ciò che producevano i suoi campi: minestroni di verdure, minestre di riso e rape, risotti, sa­ lumi, bolliti, formaggi, e beveva un vino rosso senza nome che gli arrivava dall’Oltrepò piacentino. Giacomo Marchesi migliorò e va­ riò quei piatti con le conoscenze di altri prodotti regioni e cucine che aveva fatto da soldato, e anche con i ricordi e le voglie di chi ave­ va visto il mondo e la bellezza del­ la sua varietà, e aveva imparato ad essere moderno e a saper guardare il futuro. Si dedicò al mestiere di albergatore e cuciniere con ogni capacità, sostenuto da una premu­ ra morale e ispirato a una solerzia proprio culturale, quale si rivela dal quaderno delle ricette che scri­ veva nitido e puntuale come un diario a lato degli esperimenti e delle innovazioni pratiche. Resta manoscritto il ricettario secolare dell’Albergo del Sole con più di cento piatti esemplari, tipici della cucina locale tradizionale, corretti dalle influenze dei tempi e delle novità di ogni tipo, riferiti per quanto possibile alle regole più raffinate della grande cucina francese.

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no studente di ingegneria a Pisa che vi fosse giunto a metà degli anni Cinquanta dai campi profondi di Maleo, sor­ tito da quella famiglia dell’Alber­ go del Sole, con il Uceo classico tutto fatto avanti e indietro in bici­ cletta da Codogno per una strada imparata in rima, doveva in quel tempo, a metà materno e a metà di crudele strappo, sentirsi contrasta­ to e costretto a una scelta. Franco Colombani tornò a casa, davanti alla cucina del Sole, ritro­ vandosi nella decisione di conti­ nuare a farla andare e di renderla capace di assecondare la sua vita. Cucinare era un’arte riconosciuta e scritta, molto vicina alla lettera­ tura e alla pohtica. Riprese il ma­ noscritto di centoventi pagine con

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tutte le ricette nella bella calligrafia del nonno e andò a cercare nel­ le biblioteche e nelle librerie anti­ quarie libri di cucina antichi e mo­ derni, sempre conservati come te­ sti fondamentali di storia e di cul­ tura. Colombani cominciò a raccogUerli, dapprima quelli di ambien­ ti prossimi al suo, Milano, Manto­ va, Venezia, e appresso qualsiasi altro che lo incuriosisse e che gli piacesse, francese come napoleta­ no. La cucina di Colombani è un’o­ perazione di cultura; non solo per la verità che esiste al mondo e cir­ cola tra la gente, ma perché è stu­ diata e istruita in ogni sua fase, sa­ pientemente portata al confronto con la natura e con i testi. Colom­ bani ha lavorato e studiato secon­ do questo principio e adesso si compiace di saper estrarre antiche ricette, per esempio dai libri dei Gonzaga, e di versarle eseguendo­ le alla lettera e assecondandole ri­ creando i modi tempi ambienti confacenti, fino alle ultime note della confezione. Egli stesso si ap­ parecchia per consumare'quella vi­ vanda, monumentale o medica­ mentosa che sia, a cibarsene e a valutarne ogni effetto, così da pe­ netrarla e conquistarla in pieno fi­ no a poter decidere di ripresentar­ la al presente e di distribuirla. rima di arrivare a Maleo e di entrare nell’Albergo del So­ le ero piuttosto indifferente verso quella novità che mi toccava e anche un poco diffidente come per una sorta di sofisticazione edo­ nistica, arrosto e fumo del privile­ gio, essenza sottile del potere, esclusiva ed elusiva. Io mangio sempre volentieri e anche molto, ogni volta più che a sazietà. Ho quasi tutti i giorni fame a mezzo­ giorno e al tramonto e spesso an­ che durante il giorno e la notte, e sempre mi rivolgo con affetto e riconoscenza ai cibi, pane, formag­ gio, legumi, pesci, uova, frutta e con maggiore concentrazione alla pastasciutta nel piatto, alle zuppe nella scodella, agli umidi nei tega­ mi. Un buon piatto è come una buona lettura o un’azione ben riu­ scita: rinforza la presenza materia­ le e possibile della libertà. Tuttavia, non sono uno che fac­ cia viaggi anche brevi per andare a mangiare e che spesso si conceda pranzi e cene nei ristoranti raffina­ ti. Mi dispiace spendere più di 15.000 lire per un pasto e almeno da tre anni a questa parte ho limi­ tato le refezioni fuori casa. Ho una concezione rurale e un poco con­ ventuale del cibo. Non spreco e non butto mai via niente di roba da mangiare. Gli sfarzi eccezionali li accetto per devozione, o li devasto con l’avidità della colpa di una trasgressione o di una sfida. Considero ancora la frutta, di qualsiasi tipo, una portata gratifi­ cante: festa, malattia, fortuna. I mandarini me li portava la befana. Non ero povero né abitavo in un luogo sperduto e di grave depres­ sione, ma la prima banana l’ho presa in mano dopo la guerra, a vent’anni. Dai miei nonni possi­ denti di campagna, i filari di uva moscatella, riservata ai pranzi illu­ stri o alle ceste di tributo o di rico­ noscenza, erano nascosti, irrag­ giungibili tra gli altri: bisognava diventare adulti e responsabili per conoscerne il posto. Così nell’Albergo del Sole, mentre mi accomodavo dopo ii primo impatto, subito grato per la verità, nella nitida, tenera umiltà dell’ambiente (il cotto del muro esterno, la dimensione docile della casa, la compostezza appena sono­

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ra dell’insegna) mi pareva proprio di arrivare a conoscere il posto di una bontà. Mi avvicinai alla tavola lunga con tanti posti ai lati, in fila verso il camino centrale della cuci­ na. Dai miei nonni, nel comune di Frontone alle rampe del Capria, in una tavola simile ci si sedeva nor­ malmente in più di venti, secondo il gruppo dei lavoranti stagiona­ li: una o due volte nell’anno anche in sessanta-settanta, per qualche evento non del tutto straordinario. Ogni cosa che veniva servita era di casa e fatta in casa: il caffè veniva tostato nel camino e il mistrà di­ stillato davanti al fuoco con rag­ giunta di una cartina di drogheria. La cena della vigilia di Natale era l’unico pasto rituale dell’anno, che si apriva con un brodo di ceci liscio con poco olio e rosmarino; seguivano diverse portate di pe­ sce, comprato con devota larghez­ za da pescivendoli di affidamento tradizionale: dapprima la severità del baccalà e dell’aringa, compa­ natici molto noti e frequenti, poi la varietà dei roscioli e delle sogliole in graticola, della razza e della batraccola lessate,- il calore odoroso dell’anguilla allo spiedo. Potevano anche esserci, secondo l’annata, gamberi di acqua dolce presi nei torrenti vicini e salmone affumica­ to o in scatola mandato dai parenti del Canada. Indispensabile era un enorme sampietro tutto sano, visi­ tato con devozione per tutto il giorno sulla tavola in cucina per quell’impronta ben chiara del pol­ lice del santo pescatore che l’aveva tirato fuori di sua mano dal mare e convertito al mondo degli uomini. olombani mi si rivelò pre­ sto con la stessa compene­ trata sapienza e generosità di quelle convinzioni e usanze. Non mi sentivo in un poste lonta­ no e tanto prezioso da essere un punto dell’ostentazione più alta della ricchezza e del gusto. Comin­ ciavo con animo libero a notare la verità e la nobiltà del sito: vani lu­ ce attrezzi mobili stoviglie corredi dipinti alle pareti; la precisione e

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la sicurezza di ogni cosa, come di ogni rapporto e funzione. L’ultimo adattamento dei locali fu fatto nel 1960. La dimensione è rimasta la stessa, nella misura di un gruppo di uomini che cucinano e mangiano nella pubblica locanda di un centro mandamentale della Lombardia. Alcuni, forse i meno accreditati, allo stesso tavolo da­ vanti al fuoco; altri, individual­ mente o in compagnie discrete, nelle stanze e a tavoli distinti. Questi possono guardare il tempo e la campagna fuori e tener d ’oc­ chio il cortile. I mobili sono anco­ ra quelli, oppure come quelli. Co­ lombani li ha scelti e accordati uno per uno acquistandoli nei palazzi e nelle ville intorno delle vecchie casate. Ancora quelli sono i po­ sti: trentotto coperti per ogni fuo­ co, pranzo o cena. Il trentanove­ simo avventore non deve nemme­ no aspettare: non sarebbe ospitale servirlo dopo, in modo e con vi­ vande fuori dell’unità di tempo e regola. Eppure la cucina di Colombani non ripete, rigidamente sacra a se stessa: può confezionare e imban­ dire quattrocento piatti diversi tra primi, secondi, contorni, dessert, sorbetti. Fra questi spiccano le sue specialità magistrali, ma anche tut­ ti gli altri sono ciascuno di prege­ vole qualità. Colombani sceglie misura mette aggiunge controlla di persona ogni giorno ogni cosa per ogni razione, dalla materia prima di base a quella degli ingredienti complementari, dai fornelli ai reci­ pienti, dagli aromi al tempo di cot­ tura. Così ha imparato l’arte di trasformare alcuni materiali e im­ pasti in cucina originale e di stile, valida come parametro. È diventa­ to un maestro con una propria concezione dei cibi, della cucina e del mangiare secondo la linea sto­ rica della cucina italiana. Anche per merito suo la cucina italiana è ben riconoscibile nella sua vasta e fertile unità sopra i limiti e le in­ dulgenze regionali, sia sociali che materiali, nei climi e nelle econo­ mie produttive.

lla tavola del Sole si senti­ rebbe a suo agio, sereno e con buon appetito, qualsiasi italiano d’ogni regione e condizio­ ne: vi si può affidare a un’aria sua, ritrovarvi sapori buoni al massimo del timbro, gustarvi novità attese. Quella di Colombani è una cat­ tedra per un corso complementare ma non secondario di storia: da ri­ conoscere e frequentare come ta­ le. Egli deve continuare a spiegar­ la con questa coscienza, nella sua linea di sapienza e di ricerca, di analisi e di confronto delle materie prime, degli strumenti, dei consu­ mi, dei cambiamenti di produzio­ ne e di gusto. Egli è impegnato a lottare proprio culturalmente con­ tro le sofisticazioni e le adultera­ zioni dei cibi come degli artificiali modelli di suggestione e di succes­ so. Dopo averlo conosciuto e visto il suo Sole, capisco meglio la verità del cibo e della cucina e dell’im­ portanza non solo animale e mate­ riale del mangiare. Capisco di più il lavoro della cucina come opera­ zione fondamentale perché tutto non diventi «razione» o «dose» e nemmeno pasticche e bevande da masticare e succhiate tra l’una e l’altra delle inquadrature del mon­ do-rama. Ogni mattina buona io ricono­ sco il pane, la fiamma del gas, il caffè e quando non mi accade vuol dire che la cecità di un’insonnia o il riflesso di uno scontro imminen­ te mi accalcano verso la finestra a cercare nel cielo spazi provvidi e languidi, o lucidi spiragli come bi­ nari nell’aria industriale delle sette a Milano che va forte verso i grat­ tacieli del potere. Augurerei a Co­ lombani di riconoscere sempre le sue vivande e di trattarle in modo che ciascun altro possa sempre ri­ conoscerle come materiali beni della propria giornata.

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Civiltà che fabbricano segreti, civiltà che li consumano: alcune si consumano per fabbricarli, altre li fabbricano per consumarsi. Ma cosa sono i segreti alimentari? La dieta e il ricostituente sono legati insieme e sono fatti delle stesse cose secrete dai cibi.

ove si appoggia il ventre della meraviglia, quella multicolore manica a vento che si riempie di apparizioni, di stupori, di miracoli che piacciono molto al genere umano? Essa naviga come un argenteo dirigibile sopra una gola abissale più scura e profonda deH’infemo, chiamata appunto Gola del Diavo­ lo, dove si tramano imboscate, si scavano trabocchetti, si innescano trappole. La meraviglia, quell’attesa in­ quieta di qualchecosa di nuovo che sorprenda questa vita regolare, una molla che scatti nella prevedi­ bilità degli orologi politici, sembra avere la sua casa dentro a un gran­ de tronco cavo. Qui, una volta dis­ sipata la densa ragnatela di pipi­ strelli, si aprono le segrete che congiungono e raggiungono, come un lungo tubo segmentato, i luoghi impenetrabili di una reggia, si ten­ dono cannocchiali e timpani d’a­ scolto in punti molto strategici: sotto il trono (anch’esso cavo e tutt’altro che massiccio), nell’oc­ chio dell’aquila innalzata a emble­ ma di comando, dietro la pupilla del portentoso defunto mummifi­ cato, iniziatore della dinastia. Dove si espandono i castelli del­ la meraviglia, lì si aprono i formi­ cai dei segreti: i luoghi che servo­ no agli evocatori dei fatti meravi­ gliosi poggiano sopra andirivieni cunicolari e sotterranei. I passaggi segreti non hanno nulla di fastoso: sono costruiti con semplici volte in mattoni, percorsi da cammina­ menti di pietre viscide dove gli stessi operai-muratori, di salute malferma o in avanzata età, sono rimasti chiusi o spinti a pane e ac­ qua fino al punto di non più rivela­ re di essersi prestati a costruire quelle segrete, per il trionfo del ti­ ranno usufruttuario. Quando si ascolta «conosco un passaggio segreto» si pensa alla meritata fine dei tiranni e invece si tratta dell’ultima via d’uscita che hanno solo i potenti per riconqui­ stare un regno, ripartendo da un grande tronco cavo che è il punto d’arrivo del passaggio segreto dal quale noi siamo entrati per appro­ dare al castello. Per i puri il segreto non è altro che qualcosa che si spera possa es­ sere rivelato e che faccia bene co­ noscere ogni volta che un’autorità consapevole e paterna consideri maturi i tempi per svelarlo (forse per nasconderne altri): la politica, il commercio, la religione, la scienza, il sesso... Per gli impuri il segreto è una merce rara che biso­ gna saper tessere e calare con il favore dei tempi come reti nottur­ ne e panie proibite: produrre se­ greti porta a una pesca miracolosa e a un profittevole aucupio.

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i sono state epoche storiche che si sono proposte di sve­ lare segreti: si pensi alle ar­ ti liberali e pittoriche del QuattroCinquecento le quali diffondevano e insegnavano i segreti per ottene­ re, per esempio, che un’immagine dipinta potesse essere vincolata al suo supporto per un tempo infini­ to: ecco il Quadro, dove i pigmenti colorati e mescolati con olio di pa­ pavero o di lino, stesi ed essiccati sopra una tavola di noce, di cipres­ so o di abete, si fissano con stabili­ tà ignorata; - oppure mescolati al bianco o al giallo d’uovo, al latte cagliato, aureolati di azzurro lapi­ slazzuli e oro zecchino ma anche (secretimi falsificationis) di succo di guado e polvere di pirite. Il Rinascimento artistico italia­ no ha prodotto una grande circola­ zione di messaggi infrangendo ser­ vitù e «secreti» tramandati di pa­

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dre in figlio, maestro e discepolo, fra una città e le sue corporazioni artigiane: le ragioni del loro vinco­ lo obbligato, sciolto il quale tutti avrebbero potuto esercitare in proprio, insegnare e far apprende­ re le tecniche materiali, diffondere i loro prodotti evitando i poteri e le proibizioni, sfuggire cioè al braccio che tutelava «il segreto» ed era più che la formula intrinse­ ca, la forza segreta per dargli un corso, per farlo funzionare. Altre epoche hanno invece pro­ dotto segreti, hanno saputo, in­ ghiottendo e accaparrando noti­ zie, renderne alcune esclusive, as­ soggettando occhi e orecchie sud­ dite e quindi braccia. Per esempio, il Medioevo ha custodito tutti i se­ greti possibili dei prodotti lavorati accanto alla loro insuperabile qua­ lità, il Seicento tutti quelli relativi alla politica e all’arte di governo dei corpi e delle coscienze, l’Otto­ cento i poteri e le forze delle mo­ nete e delle finanze rispetto ai va­ lori dei lavori e dei vapori, il No­ vecento ha fabbricato i segreti del­ le trasmissioni, delle distribuzioni, delle circolazioni, dalle notizie alle merci, facendo giungere queste a quelle, le une cioè come desiderio e pubblicità raggiungibile di que­ ste verso quelle. Civiltà che fabbri­ cano segreti, altre che li consuma­ no: alcune si consumano per fab­ bricarli, altre li fabbricano per consumarsi. l segreto (secretum) è qualcosa che «si secerne» prima di suc­ chiare. Che cosa esprima la materialità sublime e alimentare del «secretum» si può pensare: il latte, la saliva... il miele, la cera... l’ambrosia, la m anna..., di contro alle materie che invece si espello­ no come le urine, il sangue e il su­ dore, la bile e lo sperma, il muco. Mi pare intuitivo. I Libri dei secreti approdati alla società umanistica come fitti cata­ loghi di ricette per produrre stupo­ re oppure sensazioni contrarie alla normale considerazione e stima, trattano delle virtù delle pietre delle piante e degli animali, e in ciò manifestano quella somma cu­ riosità che animava sogni ed espe­ rienze di maghi, artisti e naturali­ sti della fine del Cinquecento in= sieme ad altre preoccupazioni co­ stanti che sono molta parte di quei segreti: i colori delle urine per co­ noscere il carattere e la salute dei mingenti, oppure come si poteva­ no ottenere figli maschi o figlie

femmine a piacimento dei copu­ lanti. Il «segreto dei segreti» serviva a riconoscere il carattere delle per­ sone dalla loro faccia, e questa era un’arte sommamente politica per potersi fidare dei ministri e dei condottieri, smascherando in anti­ cipo gli attentatori del potere, re­ gicidi o futuri tiranni. Quest’arte fisiognomica ha sempre destato una curiosità scientifica laddove gli esiti non apparivano per nulla scientifici ma sommamente inte­ ressati e assistenti: come ricono­ scere gli assassini, i fedifraghi, gli spergiuri, i sospetti a vantaggio dei giusti (che erano pronti a ricono­ scerli e a condannarli). La terza e immensa categoria dei segreti, si arriva finalmente a svelarlo, approdava alla confezio­ ne di sciroppi, di lavativi, di aperi­ tivi, di balsami, di essenze in realtà per evitare i medicamenti veri e

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propri oppure per avviare dolce­ mente, dopo la debilitazione di una vigorosa malattia, l’inserimen­ to nella nutrizione tradizionale che sarebbe stata altrettanto per­ niciosa. I segreti per alimentarsi bene, o per alimentarsi in modi particola­ ri, rappresentano in realtà il succo della questione e suggerivano «diete» non punitive ma da sorbire come particolari ambrosie «al po­ sto» degli alimenti normali oppure «sughi ricostituenti» o passali bro­ dosi che riunivano tutte le qualità rinfrancanti per predisporre gli or­ ganismi malati o deperiti alla rias­ sunzione delle materie alimentari solide. Diete e ricostituenti hanno nella tradizione cristiana la pro­

pria formula liberatoria nella pre­ parazione al banchetto di Cristo con il digiuno, e il fine con l’Euca­ ristia che è un classico riassunto di cibo, nota la qualità ricostituente e ritemprante della «particola» del corpo di Cristo, non blasfemicamente, consommé. e società sottoalimentate e quelle sovralimentate, co­ me le nostre, vegetano in un dilatato intervallo di diete e ricostituenti, di digiuni aperitivi e di elisir digestivi. I segreti alimentari non sono le ricette dei piatti rari, semmai la li­ sta segreta delle diete e delle vita­ mine che possono essere in sé pre­ parati artificiali o semplici cibi, i quali danno la vita che altri sem­ brano togliere, suggeriti da medici sacerdotali e da amici fidati. C’è una dieta particolare che ap­ partiene ai segreti della cultura e si trova più di altre inframmezzata ai trattati filosofici, quasi per soste­ nerne e ritemprarne la forza: la dieta pitagorica, giunta dal presu­ mibile inventore ai medici iatromeccanici che sono i veri inventori delle diete moderne, quando con­ siderano il corpo come una bilan­ cia animale, da tener sempre in equilibrio tra ogni quantità di ma­ teria espulsa o ogni quantità di materia ingerita. La dieta pitagorica facilitava la secrezione biliare senza corrodere gli intestini ed era così composta: latte e crescione (o acetosella) oppure, con qualche variante, una scodella di latte e un piccolo piatto di erbe di campo cotte, con tre o sette bocconi di pane disposti pita­ goricamente davanti al piatto e in­ ghiottiti con irregolarità a secon­ da delle buone idee che interven­ gono durante il pasto, o come un premio per quelle che sopraggiun­ gono. Il giorno di festa, che può essere un giorno qualsiasi, per una festa tutta spirituale a conclusione di un nobile pensiero finalmente matu­ rato, la dieta pitagorica può essere variata con un bicchiere di vino rosso al posto del latte. Ancora, negli improvvisi passaggi di stagio­ ne che favoriscono la stipsi e i raf­ freddori, il latte può essere porta­ to a una temperatura due volte maggiore di quella del corpo e temprato con un’oncia di miele di mirto. Nei giorni di vigilia o di digiuno, il latte doveva essere sostituito preferibilmente con quello di pe­

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Strumenti di lavoro del Confiseur da//’Encyclopédie di Diderot e D ’Alembert.

cora o di capra, ma già in epoca tardosecentesca, quando la dieta pitagorica riusciva a farsi strada a malapena tra gli inventori del cal­ colo infinitesimale (che non ces­ savano di raccomandarla ma scar­ samente di praticarla) e stava per cadere in disuso presso i filosofi, all’incirca quando si apriva una classica questione, non risolta ma fortemente dibattuta: se la ciocco­ lata fosse «di grasso» o «di magro» e se poteva rompere o no il digiu­ no quaresimale. Questo ancora era un segreto alimentare dell’in­ tellettualità illuminata che aveva scoperto la cioccolata e invidiava la saggezza dell’infanzia. La minestra di San Giorgio o di San Rocco o di San Carlo era inve­ ce un grande brodo ricostituente medioevale, rinascimentale e se­ centesco fatto di fagioli passati e fatti bollire per otto ore durante la notte, in paioli di rame, con molto burro e accompagnati da tre odori canonici: salvia, rosmarino e allo­ ro. Il brodo molto denso e cremo­ so aveva il colore del saio peniten­ ziale ed era scodellato alle primis­ sime ore del giorno, dopo la distri­ buzione della Santa Comunione, agli appestati sopravvissuti dei laz­ zaretti. Infatti i malati che gusta­ vano questa miracolosa minestra di fagioli sapevano di essere scam­ pati alla tremenda malattia della peste, per altri sfortunati rimaneva il desiderio notturno inesaudito, confuso con la speranza ricosti­ tuente del paradiso, che aveva il sapore della crema di fagioli mat­ tutina. iete e ricostituenti sono le­ gati insieme e sono fatti delle stesse cose secrete dai cibi. Si può pensare che tutta l’e­ nergia medico-salutista a scopo alimentare e l’alimentazione a sco­ po terapeutico siano in fondo basate sugli sciroppi, i balsami, le tisane, le essenze, le infusioni, i succhi, i purganti contro gli estratti, i sughi, le gelatine, le schiume, le emulsio­ ni, le colle, gli inchiostri e i veleni, ma tutti questi non sono affatto l’anima dei segreti alimentari del digiuno e della salute riacquistata, semmai le secrezioni di cose affini. L’ottimità dei secreti si riannoda a una genealogia che partecipa delle suggestioni della vita, dei suoi sapori, timori e cremori co­ me, per dire, le sete, le linfe, le gomme che i bachi, gli arbusti e gli alberi secernono per guarirsi dalle ferite e dalla solitudine. Oltre a questi originari secreti di ciò che si fila (la seta) e si piange (la linfa), oltre ai fiumi di latte e miele che restano le secrezioni ot­ time ma lontane come l’infanzia o l’età dell’oro, c’è ancora un segre­ to della terra che compensa gli al­ tri: è il sale accanto all’acqua dolce che scaturisce e si beve. Siamo ar­ rivati ai segreti alimentari originari come il sale e il sapore dell’acqua: qualchecosa che sa e altra cosa che non deve sapere.

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Cfr. sull’argomento Antonio Cocchi Del vitto pitagorico per uso della medicina Napoli 1746 Daniele Concina Memorie storiche sopra l’uso della cioccolata in tempo di digiuno Venezia, Occhi, 1748 Piero Camporesi Il pane selvaggio Bologna, il Mulino, 1980 pp. 210 lire 8.000


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Nel romanzo all'inglese domina il tè, o comunque una ipocrisia rituale che nella misura avvòlge la perversione. Con i grandi giallisti americani degli anni Trenta si inaugura una fortunata cultura alcolica: secondo la hard-boiled school la passione per la giustizia non va senza bere.

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W hisky e tè , nel giallo anni Trenta Alberto Capatti

«Sono stato decisamente contrario all’alcool ...fino al proibizionismo». Groucho Marx el giallo di stile inglese gli occhi del lettore sono pun­ tati sull’orologio: il tempo e i riti conviviali azionano un mec­ canismo caricato per la morte. Al pomeriggio, teiere e zitelle, scones e pettegolezzi: è l’occasione in cui i risultati di lunghi appostamenti dietro una finestra, le scoperte in­ volontarie, le anonime voci posso­ no venire raccolti, messi in comu­ ne, divulgati, infondendo un aro­ ma più sottile alla tazza. La sera, invece, è l’ora di un bicchiere di porto asprigno o di un whisky con soda, deposto su un vassoio d’ar­ gento come una sentenza capitale. A ogni bevanda il lungo uso ha tolto un po’ di sapore, a ogni piat­ to un po’ di gusto: la parola e il silenzio riparano a tale perdita. Poi c’è la serata in cui tutti i no­ tabili, intorno a una tavola, con caffè e biscotti, e al centro un mah-jong, danno corso a una par­ tita. Le bevande e i dolci, serviti in quell’occasione, hanno sempre l’impasto greve, il profumo denso dell’enigma, danno qualche sollie­ vo al corpo, ne irritano le facoltà: acuiscono l’attenzione ma smorza­ no la diffidenza. Nel sorso, nel boccone c’è tanto benessere ma anche un po’ di veleno, quello del­ la voce che inframmezza i morsi, quello infuso da mano ignota. I riti alimentari inglesi sembra­ no i veri garanti dell’ordine, simu­ lano un consenso generale, tanto più inderogabile se viene insidiato da un unico folle atto di violenza. Questa concezione del crimine attorno a una tavola nasce da un’e­ tica che demonizza il corpo e ve­ nera l’abito. La delinquenza ali­ mentare di chi sgranocchia i resti, vomita i propri eccessi, succhia in­ terminabilmente lo stesso zucche­ ro, fa posto a una ipocrisia rituale che nella misura avvolge la perver­ sione, nella convivialità l’odio. Si arriverà a uccidere in nome del tè, dei pasticcini, per salvarne la tradi­ zione, per garantirne la sacra spe­ cie *; ma nessun delitto corrompe­ rà il rito, susciterà maggior scalpo­ re di una tempesta in una tazza. La morale della provincia ingle­ se è tutta sorbita e chiacchierata, si scioglie fra i succhi gastrici portan­ do, indifferentemente, ristoro e un po’ di morte. Il progetto di tale narrativa è quello di restaurare eternamente un medesimo ordine: la mitologia del quotidiano viene assunta come una visione del mon­ do, in cui trasgressione e giustizia sono individuate in singole forme, in singoli oggetti, di grande potere suggestivo. La tazza, la bottiglia, la fiala, tra i contenenti; l’infuso, l’alcool, il tossico, tra i contenuti. La banalità dell’occasione, del­ l’espediente, incrementa la porta­ ta irreale del gesto criminoso; es­ so viene sempre coperto e legitti­ mato dal cerimoniale, matura in una elucubrazione tanto nascosta quanto incredibile, che fa precipi­ tare l’ordine nella paura, l’usuale nell’orrore, senza mai alterare le apparenze. La sala da pranzo, il salotto, lo studio inglesi sono impermeabili alle novità. Una certa incompren­ sione deve crearsi nei visitatori (nei lettori) perché l’idea di crimi­ ne possa poi germinare in veste sorprendente, shoccante. La stes­

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sa candida ingegnosità di certi pre­ parati dagli effetti letali pare ga­ rantita dalla insipidezza dei bolliti, delle salse, della pasticceria serviti a tavola. siste tuttora un pregiudizio contro tale alimentazione; non stupirà notare che esso è estensibile alle impeccabili e so­ fisticate strategie omicide. La criti­ ca al «giallo classico» verrà pro­ prio dal paese di più fresca tradi­ zione culinaria, da un mondo ame­ ricano più attento all’individuo che alle consuetudini comunitarie, più all’azione che all’intenzione. Raymond Chandler sosteneva che i romanzi di Agatha Christie erano montati come degli «sbattiuova»2. Sul filo di un mede­ simo ordine di riferimento, osser­ vava che, nella hard-boiled school (etichetta ispirata a una pratica di cottura), non si centellinavano bicchieri di porto o cocktails Sin­ gapore ma, grazie soprattutto ai

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lica americana. Il proibizionismo, nel romanzo d’azione, è lo spettro che genera di riflesso una nuova morale: negli «speakeasies» (spacci clandestini) si dà fondo a una rappresentazione dell’esistenza individuale e collet­ tiva; nella figura dei «bootleggers» (trafficanti d’alcool) l’economia del profitto dà la misura della pro­ pria violenza. Ma è soprattutto in ogni bicchiere di whisky, assorbito nel corso della giornata con insi­ stenza e soddisfazione, che viene paradossalmente a forgiarsi quelì’efficace principio di compensa­ zione secondo il quale tutto il vizio viene identificato al liquido, per­ mettendo di liberare nell’indivi­ duo i valori della rettitudine, della castità, della vita solitaria. La hard-boiled school, fondata in pieno proibizionismo con la rivi­ sta Black mask, tirerà tutte le con­ seguenze, prima e dopo il 1934 (quando sono abrogate le leggi anti-alcool), dalla grande repressio­ ne alimentare: saranno proprio degli intossicati, degli etilici, a rap­ presentare con la loro passione per la giustizia la prima rigenera­ zione del popolo americano. I ta­ bù, di conseguenza, verranno spo­ stati poco più avanti, prendendo nome da quelle droghe che sono sinonimo di depravazione: l’etere, la cocaina, la morfina. n questo contesto, l’alcool as­ sume il valore di una dominan­ te politica, sostituendo presso­ ché per intero il cibo, e nel rito della degustazione permette il ma­ nifestarsi della coscienza di una li­ bertà conquistata. Nella gamma delle bottiglie si trovano registrate tutte le diseguaglianze sociali così come le diverse culture del conti­ nente americano; in quanto bene strappato all’interdetto, il liquore conferisce l’illusione di un potere clandestino. Il grande sonno di Chandler ini­ zia con l’assaporamento euforico di un cocktail per ricchi (tre quarti di champagne, un quarto di bran­ dy) offerto a Marlowe da un clien­ te, il generale Stemwood, e finisce nella delusione, nell’impossibilità di avere una donna da amare, di conferire al liquido un valore to­ talmente compensatorio: «Mentre scendevo in città mi fermai ad un bar, e bevvi un paio di doppi whi­ sky. Non mi servirono a niente. Riuscirono solo a farmi ricordare Parrucca d’argento. E non l’ho più rivista». La componente ciclotimica del­ l’intossicazione da alcool designa l’altra depressione, economica e sociale, che pesava su ogni singolo destino; allo stesso tempo, condu­ ce il detective al rimpianto e alla coscienza di una vita interamente consumata, come un flacone vuo­ to. Nel fondo di ogni bottiglia il proibizionismo, abolito, sembra riproporsi come castigo, ormai fantasmatico, all’idea stessa di pia­ cere. Ma per quanto votata, in una dimensione diacronica, al falli­ mento, la credenza nel potere rigeneratore dell’alcool mostra tutta la sua efficacia nella vita quotidia­ na, nel vissuto immediato e breve. Marlowe beve tequila nei locali messicani, assiste relitti umani di­ stesi fra bottiglie di gin, quelle a minor prezzo, poi, tornato a casa, predilige scotch, Four Roses o gin­ ger ale. La distinzione fra consu­ mo a casa, in ufficio, nei bar, al di

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racconti di Hammett, alle sue cro­ nache nere, «era stato buttato un elemento di mistero, freddo, senti­ to, come un’oliva in un Martini». Chandler, rifacendosi a un reali­ smo di stampo americano, mette­ va il dito su uno degli aspetti più indigesti della vecchia tradizione gialla: il gusto della cospirazione e del sotterfugio, che in termini di tecnica criminale si traduceva in una passione smodata per i veleni, fossero quelli, rari e irreperibili, dei primi pionieri del genere o quelli, domestici come l’arsenico per topi, dei loro successori. L’ostracismo imposto alla tazza di tè dai narratori americani degli anni Trenta nasceva, a sua volta, da una violenta repressione ali­ mentare. Philip Marlowe, Sam Spade, Nick Charles, i primi detectives più noti, sono tutti «figli del proibizionismo», sono i ribelli di una società puritana capace di imporre, durante la crisi iniziata nel ’29, quello che era stato il grande mito degli igienisti europei dell’Ottocento. L’investigatore, garante di una legge defraudata di ogni potere, è portatore egli stesso di una tra­ sgressione che ne fa la vittima e 1eroe di una società, il testimone di un processo storico, il personaggio di una letteratura militante. Alle sue spalle sta il romanzo realista europeo con i suoi «bistrots» e «assommoirs» (caricaturati nelle apparecchiature delle distillerie clandestine), davanti a lui si apre il corso di una fortunata cultura alco­

là della fine del proibizionismo, ha il valore di una oscillante demarca­ zione fra abitudine e gusto (e Mar­ lowe non berrà mai liquori dolci). Per la sua disordinata ripetitivi­ tà, per il carattere accidentale de­ gli incontri e delle pause in cui si manifesta, il bicchiere di whisky è veramente il contrario della tazza di tè inglese. Ogni singola degusta­ zione, proprio perché inessenziale alle strutture narrative ma fondamentale per l’ambientazione, im­ plica il rinvio dell’azione e rivela un continuo ripiegamento sull’e­ motività o sulla consapevolezza di un rapporto sociale effimero o im­ possibile. In Chandler si beve in fondo solo per riflesso, per rappre­ sentare all’altro l’immagine flut­ tuante del proprio piacere, oppure nell’illusione di creare delle com­ plicità di ordine fantasmatico, co­ munque irrealizzabili in quella ter­ ra e in quella città. uesta etica del rimpianto domina tutto il tempo de­ dicato all’alcool; ore mor­ te, d’attesa in automobile, durante un pedinamento; brevi incontri notturni, con una donna di cui è accertata l’incapacità d’amare; lunghi tête-à-tête solitari fra un’a­ nima e un corpo inchiodati a una coabitazione dolorosa. La novità di una bevanda rara, di un cocktail prestigioso non han­ no maggior potere di seduzione di quanto avrebbe un pacchetto di tè eccessivamente esotico e affatto sconosciuto per una zitella inglese e le sue amiche: l’aroma prezioso, il colore ambrato sono pericolosi segnali per il detective e implicano una forte disproporzione fra chi offre e chi riceve, in un mondo do­ minato solo dalla violenza e dal denaro. Anche il sapore è mera illusio­ ne; la ricerca di una nuova energia in nuove bottiglie è vana. Un sem­ plice «beveraggio», senza marca, senza qualità, senza scelta, finirà sempre per avere una trasparenza maggiore di ogni altro, un raro po­ tere di far danzare il desiderio nel flacone e di sturarlo, ritrovandose­ lo dinanzi a sé, con la propria fac­ cia e la propria immagine. E con questo rapporto speculare

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fra l’uomo, l’alcool e un bicchier d’acqua che termina La finestra sul vuoto: «Era notte. Andai a casa, in­ dossai i miei abiti da riposo, pre­ parai gli scacchi, mi versai un be­ veraggio e giocai un’altra partita solitaria. Durò cinquantanove mosse. Magnifici, freddi, inflessibili scacchi, quasi ossessionanti nella loro silenziosa implacabilità. «Quando la partita fu termina­ ta, ascoltai per un poco la finestra aperta e aspirai l’odore della not­ te. Poi portai il mio bicchiere in cucina, lo sciacquai, lo riempii d’acqua ghiacciata e rimasi in piedi a sorseggiarlo, davanti all’acquaio, osservando il mio viso nello specchio».3 Nel rispetto di una tradizione narrativa antica, il detective ha ri­ trovato nell’ultima pagina se stes­ so, il bevitore l’ultimo sorso (d’ac­ qua), l’America un nuovo sogno, memore delle radici più profonde del proibizionismo. La scuola dei duri crede pur sempre nella so­ brietà. Ancora qualche decennio e un cultore di Chandler, Ross Macdonald, potrà imporre un suo poli­ ziotto privato, Lew Archer, defini­ to «light social drinker», che non beve durante il lavoro, mai prima del pranzo e, fatto inusitato, non disdegna la birra. Cfr. sull’argomento Murder Ink The Mistery Reader’s Companion, perpetrato da Dilys Winn New York, Workman Pubi. Co., 1977 Murderess Ink The Better Half of thè Mistery, perpetrato da Dilys Winn New York, Workman Pubi. Co., 1979 Michel Lebrun L’Almanach du Crime 1981 Paris, Veyrier-Polar, 1980 Note (1) Agatha Christie «Dopo le ese­ quie», in Hercule Poirot. L ’ora della verità, Milano, Mondadori, 1980. (2) «La semplice arte del delitto», in Raymond Chandler, Tutto Marlowe investigatore, Milano, Mondadori, 1971, voi. II, p. 741. (3) Ibidem, voi. I, p. 641.


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La Gola • ottobre 1982

Le femminote, contrabbandiere di sale della Calabria, usano cucinare il delfino alla ghiotta. Lo fanno, pare, per ricavarne forza e vigore eccezionali, e lo servono anche ai loro uomini. Dal romanzo Horcynus Orca di Stefano D ’Arrigo una ricetta unica. M.DET1ENNE J.-P. VERNANT LA CUCINA DEL SACRIFICIO INTERRA GRECA D sacrificio cruento a scopo alimentare come luogo cruciale del mito e dell'organizzazióne sociale della polis.

WALTER BURKERT HOMO NECANS Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica: la ritualizzazione dell’aggressività e la nascita dei culti religiosi. Seconda edizione.

6 . CAIAME-GRIAULE IL MONDO DELIA PAROLA

ulla estrema costa tirrenica della Calabria, a pochi chilo­ metri dalla mitica Scilla, si possono incontrare ancora le ulti­ me rappresentanti della antica e fiera dinastia delle «bagnarote» che hanno molte e non superficiali affinità con le «femminote» di Horcynus Orca, il ponderoso ro­ manzo di Stefano D ’Arrigo, ri­ stampato ora negli Oscar Moridadori. La loro occupazione e fonte unica di guadagno è il contrabban­ do del sale: comprano il sale fran­ co in Sicilia, a Messina, e lo porta­ no, nascosto in tasche e sacchette cucite sotto le ampie sottane, fino in Calabria facendo avanti e indie­ tro fra Scilla e Cariddi. ’Ndria Cambria, il giovane ma­ rinaio di Cariddi protagonista del romanzo, durante il suo viaggio verso la Sicilia nell’ottobre 1943, arriva al paese delle femminote proprio mentre nelle case le donne stanno cucinando «la fera». Que­ sta, infatti, è un’altra cosa per la quale vanno famose le femminote «non solo per il Sahare senza paga­ re dazio e il sopraregnare sopra l’uomo, anche per il loro gusto ap­ passionato di cervella e di ventre­ sca di fera». «Fera» sono i pesci selvaggi, abitualmente considerati non com­ mestibili o poco commestibili co­ me il delfino e il verdone (tipo di squalo voracissimo), e la famosa

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Orca, gigantesco e feroce cetaceo della famiglia dei delfini, che rag­ giunge in qualche caso la lunghez­ za di 6 metri. La fera che le femmi­ note usano cucinare «alla ghiotta», però, è certamente il delfino co­ mune, cosmopolita frequentatore di mari e oceani, comunissimo nel Mediterraneo. Il fatto grave e im­ barazzante è che mangiare il delfi­ no è un po’ come mangiare il cane: il delfino ha fama di animale sim­ patico e giocoso, intelligente e amico dell’uomo. Si raccontano storie di bambini presi in groppa e salvati dal delfino, di uomini che hanno mantenuto per anni rappor­ ti di amicizia con il delfino che ve­ niva sulla spiaggia apposta per in­ contrarsi con loro, e lo scrittore­ scienziato Leo Szilard attribuisce a questi pesci doti profetiche e sag­ gezza superiore agli uomini. adesso chi se la sente di mangiare la fera? Per inco­ raggiarvi posso dire che probabilmente la forza e l’energia eccezionali delle bagnarote, e quindi delle femminote, sono do­ vute al loro cibo «forte». Per que­ sto lo servono anche ai loro mariti, perché siano all’altezza delle loro pretese erotiche. E pare proprio che tra le femminote e i loro uomi­ ni regni un accordo perfetto. Infat­ ti, dice D ’Arrigo, «ai mariti, nem­ meno a loro gli schifava la fera.

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altrimenti tenere testa a quel terribilio di femmine, perché in man­ canza di ostriche o di aragoste, avevano uno stretto bisogno di quei bocconi forti e pietrosi per addobbarsi la spina dorsale e ad­ dobbargli poi i fianchi alle loro mogli». La ricetta della fera «alla ghiot­ ta» descritta da D ’Arrigo corri­ sponde esattamente al modo in cui, in quella zona della Calabria, si cucina davvero il delfino (il del­ fino, seccato al sole, si mangia an­ che in Liguria dove curiosamente viene denominato «musciamme», come in Calabria). Sebbene non venga da tutti apprezzato come dalle femminote, questo pesce ha il vantaggio di essere fra tutti il più economico e quindi abbastanza presente sulla tavola dei calabresi più poveri. Per fare perdere alla fera l’odo­ re e il «sapore di bestino», dopo averlo lavato sarà bene lasciarlo per una intera nottata a bagno nel­ l’aceto. Va quindi tagliato a fette come fosse pesce spada o palom­ bo, salato e messo sul fuoco in un tegame di coccio con olio e un trito di cipolla e sedano abbondante. Quando comincerà a rosolare, vanno aggiunti capperi salati e oli­ ve nere, pomodori pelati e tagliati a pezzetti, peperoncino piccante. Durante la cottura, se necessario,

si può aggiungere un po’ d’acqua. A confronto con questo «pasto feroce» delle femminote, appare tanto più frugale la merenda offer­ ta a ’Ndria Cambria dalle due «femminelle» sulla spiaggia del Golfo di Santa Eufemia. D ’altra parte le due femminelle, madre e figlia, sono anch’esse molto diver­ se dalle femminote, come si può facilmente desumere dalle rispetti­ ve denominazioni. Le due donne offrono a ’Ndria Cambria pan biscotto, olive infor­ nate e fichi secchi. Da bere: ac­ qua. Questa è una merenda sem­ plice e rustica alla portata di chiunque, che consiglierei tuttavia di accompagnare con vino bianco secco al posto dell’acqua. Per fare il pan biscotto calabrese bisogna anzitutto fare il pane in casa nel modo tradizionale, usan­ do però farina integrale di grano duro. Si può aggiungere una picco­ la quantità di farina di granturco. Una volta che le forme saranno lievitate (da preferire il lievito na­ turale di pasta acida al lievito di birra), si metteranno a cuocere in un forno a legna. Quando il pane avrà raggiunto la classica doratu­ ra, si dovrà estrarre dal forno e tagliare a fette che andranno quin­ di rimesse nel forno e lasciate a seccare.

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t un pane che non ha certo un bell’aspetto, ma è di sapore molto gustoso e, per così dire, primitivo. E natural­ mente è durissimo. Dice D ’Arri­ go: «La madre stentava coi suoi denti a sminuzzare il pane duro e allora la figlia spezzettò coi denti davanti, raccogliendolo nel palmo della mano, uno di quei pezzi di pane e così sbriciolato lo passò alla madre». Non avendo a disposizio­ ne una figlia così servizievole si consiglia questo pane solo a chi ha buoni denti. Per semplificare la preparazione del pan biscotto, si può anche comprare del pane integrale di buona qualità, tagliarlo a fette e metterlo nel forno della stufa, a fuoco molto basso finché non sia secco. Non sarà proprio lo stesso, ma reggerà dignitosamente il con­ fronto con quello delle femminel­ le. Le olive infornate sono più sem­ plici da preparare. Bisogna coglie­ re le olive molto mature, cioè quando sono ben nere, quindi, do­ po averle incise una ad una come STUDIO SUL TEMA: le caldarroste, si getteranno nel­ «PAGANINI E IL SUO TEMPO» l’acqua bollente. Si ritireranno do­ Salone di Palazzo Tursi po una rapida sbollentata per met­ 27, 28, 29 ottobre 1982 terle in un apposito recipiente di coccio tutto forellato (si può tro­ vare in un negozio di artigianato calabrese, oppure si potrà usare un semplice scolapasta), coperte di sale fino e condite con aglio, origano e peperoncino piccante. Si 1asce ranno così a scolare l’amaro per qualche giorno, rimestandole di tanto in tanto. Poi andrebbero esposte al sole per una mattinata e finalmente infornate a calore mo­ derato fino a che saranno ben asciutte. I suggerimenti gastronomici che si possono trovare nelle fitte 1257 pagine del romanzo di D ’Arrigo non sono molto numerosi, ma la ricetta della «fera alla ghiotta» ha certamente il pregio dell’originali­ tà e invano la si cercherebbe nei migliori libri di cucina.

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La Gola

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La mitologia culinaria del dandy è profondamente ambigua, oscillante com’è tra una pulsione di morte e una cura estrema della materialità quotidiana. Ma la sapienza del dandy resta valido contrappunto alla voracità disordinata e occludente del borghese.

La cena di Brum m ell Giuseppe Scaraffia

j J 1116 maggio, dopo avere cenato con un cappone mana > datogli da Watier, bevve una bottiglia di Bordeaux (...) fece una stoica toeletta è la sera stessa comparve all'Opera». La cena di Brummell, alla vigilia della fuga in Francia che avrebbe troncato la sua fortunata carriera, è di un’e­ semplare sobrietà, come ricorda Barbey d’Aifrevilly. H personaggio dandystico di Bulwer-Lytton, Pelham, si reca a cena con posate modellate secon­ do le sue istruzioni: alla minuscola forchetta s’affiancano un cucchiaio appena incavato e un coltello qua­ si senza lama. Perché, egli spiega, «facciamo davvero un malaugura­ to errore quando ci affrettiamo a far scomparire in un solo minuto ciò che avrebbe dovuto prolungare il godimento più pieno per cinque interi minuti».

lord suo amico, affermando di se­ dersi a tavola soltanto alle cinque e non alle tre, come si leggeva nel­ l’invito. Con questo, il dandy non cade nell’errore speculare della ricerca della sazietà, la dieta. Essendo egli stesso la propria regola, non può tollerarne altra. Sono il ca­ priccio, il gusto e il senso della mi­ sura che lo contraddistinguono a

salvarlo da ogni meschinità culina­ ria. Per lui, il cibo non è saporito in astratto ma è leggibile, come un libro o un quadro, a partire dal pa­ lato fisico e mentale di chi l’assag­ gia. l dandy si ritrae dalla grande corrente della fame, inaugura­ ta dalle folle affamate del 1789, che percorre avidamente e pateticamente i viali del XIX seco­ lo. Il suo appetito muove, per così dire, da una sazietà interiore della quantità. Egli veglia con cura af­ finché il desiderio che lo solletica non si trasformi nella brutalità di bisogno. Per questo Delacroix, scrive Baudelaire, riprendeva a la­ vorare «dopo un pranzo più legge­ ro di quello d’un arabo». In realtà la sobrietà del dandy è una perversione raffinata della go­ losità e un’esaltazione delle capa­ cità del buongustaio, capace di ap­ prezzare sino in fondo la delicata

perfezione di pochi semplici ali­ menti. «Quanto poco bastava alle mie fantasticherie», afferma Cha­ teaubriand, e si potrebbe dedurre che altrettanto poco basta a un pa­ lato attento alle sensazioni più sot­ tili. Le salse e le spezie più strane accendono di bagliori imprevisti la semplicità squisita della tavola del dandy. Esse sono l’equivalente delle minute violazioni alla norma che, in campo vestimentario, tra­ sformano l’eleganza accurata del dandy in una provocazione. Chi ne abusa, come il protagonista del racconto Fanfarlo, Samuel Kramer, cade nella volgarità e nella sua materializzazione immediata, la grassezza. Il dandy è ugualmente lontano sia dal cibo volutamente scadente dei circoli più esclusivi della Reg­ genza sia dagli interminabili ban­ chetti dei nuovi ricchi. «Non biso­ gna ostentare la ricchezza, né pre­ parare cene sfarzose», scrive Bulwer in Godolphin.

I Non importa se il Beau cercherà di scordare le pene dell’esilio nelle pasticcerie francesi, se Musset af­ fretterà la sua fine prematura a ta­ vola, in una sorta di edonistico sui­ cidio. L’appetito non acceca mai il vero dandy, piuttosto si inserisce armonicamente nell’esercizio coor­ dinato degli altri sei peccati capitali. In un secolo di specializzazioni, di cui i personaggi monomaniaci di Balzac forniscono un ottimo esem­ pio, il dandy rifiuta di assoggettar­ si a una pratica esclusiva della go­ losità. E un vizio che, per altri ver­ si (la raffinatezza indispensabile, l’implicita cultura e la possibilità di essere consumato in solitudine), si addice mirabilmente ai suoi co­ stumi. Nella titanica lotta che, nella go­ losità, oppone la quantità alla qua­ lità, egli sceglie decisamente quest’ultima. Il dandy si situa para­ dossalmente più vicino al fumo, anzi al profumo della carne, che non alFarrosto. Le posate malagevoli di Pelham sono un piano inclinato sul quale la golosità quantitativa scivola ine­ sorabilmente. Misura della golosi­ tà è la snellezza fisica, e il dandy ha orrore del grasso, come di ogni eccesso capace di sfigurare la sua immagine. Il suo rapporto con il desiderio non mira alla distruzione simbolica effettuata dalla sazietà, equivalente borghese della felici­ tà, bensì al moltiplicarsi dei desi­ deri e dei loro echi reciproci. Se nella decadenza Brummell, come ricorda il biografo lesse, non bada quasi più alla dignità dei suoi anfitrioni, il Beau, nei primi tempi dell’esilio, vince la golosità e rifiu­ ta un fastoso invito a pranzo di un

volte, tuttavia, la mazza da passeggio del dandy si tramuta in bacchetta ma­ gica e dal suo tocco imprevisto sca­ turiscono allora cene mirabolanti, come quella descritta da Huysmans in A ’ rebours, o nude came­ riere servono alla copiosa tavola di E. Sue in un’aria fitta di profumi esotici. In queste fantasmagorie gli ali­ menti sfuggono, in una fastosa ri­ bellione, alle imposizioni del biso­ gno, per riflettere come morbidi specchi l’animo dell’anfitrione. L’irripetibilità intrinseca fa sì che ognuna di tali cene diventi imme­ diatamente l’ultima. L’invitato, di­ stratto tramite la meraviglia dall’a­ vidità che ne corromperebbe il gu­ sto, scorge per la prima volta, dal­ la distanza consentitagli dal mira­ bile apparato, il cibo nella sua inti­ ma essenza.

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Come nel famoso percorso ellit­ v' Nella sala da pranzo addobbata tico tracciato da Kleist nella «ma­ di nero, che dava sul giardino tra­ rionetta», solo l’estrema raffinatez­ sformato per l’occasione - polvere za può ricondurci alla naturalezza di carbone cospargeva ora i viali; e il miracolo, lo straordinario, ser­ la piccola vasca, chiusa adesso da vono unicamente a ricondurre i un orlo di basalto, ondeggiava di sensi a una semplicità divenuta or­ inchiostro; pini e cipressi masche­ mai inaccessibile. ravano i boschetti — il pranzo era Opposta e complementare alla stato imbandito su una tovaglia ne­ pratica dei pranzi mirabolanti è la ra, guarnita di cestelli di viole e di passione dandystica per il tè, con­ scabbiose, rischiarata da candela­ siderato dagli altri la più inconsi­ bri lingueggianti di fiamme verdi e stente e profumata delle bevande. da lucerne in cui ardevano ceri. Se con i primi egli fa del tutto un Mentre un’orchestra invisibile nulla, con il secondo fa del nulla faceva udire marce funebri, servi-, un tutto. vano in tavola negre ignude coi pie­ In questo doppio movimento di in babbucce di foggia sacra, cal­ l’io e il mondo, la vita e la morte, zate di tessuto d’argento cosparso si fronteggiano e si spiegano con il di lagrime. garbo delicato di un spettacolo di prestidigitazione. Resta, a unire gli opposti, la persistenza dello sti­ le con cui il dandy esegue i propri incantesimi. Ma lo stupore, e que­ sto il dandy lo sa benissimo, è già un assaggio del nulla. Perciò, alla tavola del dandy, un invisibile coperto attende sempre il commensale ereditato da Don Giovanni, il Commendatore sde­ gnato dalle continue seduzioni che il Beau opera nei confronti dell’e­ In piatti orlati di nero, era stata sistenza. servita zuppa di testuggine; con pa­ Ma scrive Villiers de l’Islene di segala russa, olive mature di Adam: «Il commendatore di pietra Turchia, caviale, bottarga di mug­ può venire a cenare con noi; può gine, s’eran poi avvicendate salsic­ tenderci la mano! Noi la prendere­ ce affumicate di Francoforte, cac­ mo ancora. Forse sarà lui ad avere cia in salsa color tra di liquorizia e freddo». E per il dandy anche la di lucido da scarpe; un passato di morte (il teschio tanto spesso pre­ tartufi; quindi creme ambrate di sente ai banchetti) può essere la più cioccolato, bodino all’inglese, pe­ delicata delle salse, se si ha cura di sche, noci, sapa, more e ciliege ac­ non abusarne. quaiole. In bicchieri scuri s’erano bevuti vini della Limagne e del Roussillon; del Tenedo, del Val di Peñas e del Porto; gustato, dopo il caffè e l’acquavite di mallo, del kwas, del porter e dello stout. La cerimonia commemorava una panne di virilità; e le lettere d’invito somigliavano tipografica­ mente a partecipazioni di morte. Joris-Karl Huysmans, A ’ rebours (trad. di C. Sbarbaro)

Il tartufo, questa vegetazione sorda e misteriosa di Cibele, questa saporita malattia eh'essa ha nasco­ sto nelle proprie viscere più a lungo del metallo più prezioso, questa squisita materia che sfida la scienza dell’agronomo, come l’oro quella di Paracelso; il tartufo che divide il mondo antico da quello moderno e che, prima di un bicchiere di Chio, ha l’effetto di parecchi zeri dopo una cifra. Quanto al problema delle salse, dei ragù e dei condimenti, grave problema, che richiederebbe un ca­ pitolo greve come una pubblicazio­ ne scientifica, vi posso dichiarare che andavano perfettamente d’ac­ cordo, soprattutto sulla necessità di chiamare tutta la farmacia della na­ tura in soccorso della cucina. Pi­ menti, polveri inglesi, zafferani, sostanze coloniali, polveri esoti­ che, tutto sarebbe parso loro adat­ to, se non addirittura il muschio e l’incenso. Se Cleopatra vivesse an­ cora, sono sicuro che avrebbe fatto condire il filetto di bue o di caprio­ lo con profumi d ’Arabia. Certo, è deplorevole che i cordons bleus di oggi non vengano costretti da una legge particolare e voluttaria a co­ noscere le proprietà chimiche delle materie, e non sappiano scoprire, nei casi necessari, come quello di una festa amorosa, degli elementi culinari quasi infiammabili, pronti a percorrere il sistema organico come l’acido prussico e a volatiliz­ zarsi come l ’etere. Baudelaire, La Fanfarlo

Articolo 16. Dovunque il privi­ legiato, dopo avere detto: «Io pre­ go per il mio nutrimento», troverà: due libbre di pane, una bistecca cotta al punto giusto, un cosciotto idem, una bottiglia di Saint-Julien, una caraffa d ’acqua, un frutto, un gelato e una mezza tazza di caffè. Questa preghiera verrà esaudita due volte ogni ventiquattro ore. Stendhal, I Privilegi «Dice ai miei amici, vi prego, quanto sono goloso di fragole - e siamo proprio nella loro stagione!» Lettera di Beau Brummell dal carcere per debiti di Caen «Vi assicuro che è il più bel gior­ no della mia vita, perché sono uscito di prigione proprio oggi... ». Egli si fermò un momento, da buon narratore, e aggiunse con un calmo sorriso: «E ho mangiato del salmone... ». M. Renard, Brummell et son ombre. Caen 1830-40.


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Il testam ento del porco Vincenzo Tañara

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TESTAMENTO

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* 1 Come da Copia che* di EiTo fi legge nel Tatnhu * 4i § i * § § .§4 § $ §§ I $I § ■4 § 4 4$ Í § § § § Oiche fono già ingraffato* A* Librari si preferiti * § ! Che furari* uccio con arte la Tento che fra poco § 44 Lifciar pollano le ca$te * Beccai nel crudo loco § PMiDe*Mevorranno Lafcio i miei più lunghi Denti. macellato ; §§ Onde pria del trifto $ A miei ¿;ri Ebrei poi lafcio* evento * § § £ Per levar qualunque imbroglio A miei cari Ebrei * da* quai § Niuna offefi ebbi giammai* i D erf miei beni nello Spoglio* y Far qui intendo Teftamento. Di mie un buon falcio* 4 § § D* efler dunque feppelieo Per lor Scarpe ufino quelle* I 4 Laicio in primis dei Golosi E a cucir la bocca a quanti § Entro ¡diventre in più guftosi Con parole da furfanti % § Modi acconci all* appetito® Ai Criftian metton la verte. Î 4§ facendomi ai Legati* Gli altri Peli pei pennelli §PoiLafcio § il Grugno a chi più piace Ai Pittori, Per trainilo § il Tartufo* ferace La Vellica a ogni fanciullo. $ Gliene bramoe inil Suol tutti i lati. $ Ma fian buoni* fe fon belli. § DEL PORCO

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A Chi Tuoi mondare il grano Atto c pur a chi s’ arrefta ? Per far Valli la mia Pelle, La Aia chiavica, al nativo J Ben lo mondi* che piu belle Cotfo|fcoza lavativo v Fian le Paftc*eil Panpiùfano. D i rimetterla ben prefta. § Di chi fa Stucco* e Sapone A impinguar vieppiù lor terra, £ Sien mie Cotiche a metà * Lafcio r Unghie agli Ortolani; ? Ma in partirle fedeltà* Ma .a diffenderle dai Cani, ^ Nò vi lìa fra lor tenzone. Le profondino foteerra* y Così pure a oncia* a oncia Finalmente agli Alchimirti (do $ La mia Songia a’ Carrozzieri La mia Coda*e in far ciò intcn- ^ Si divida* e a’ Carracticri* Di fgannarli* lor dicendo* ^ E la Canape a chi concia, Che col Icr Meftiero i trilli. ^ A chi fa Candele poi Di ammaliar roba penfando, § Lafcio il Sevo per fervirc Quel guadagno iol faranno* ^ Chi nel tempo del dormire Ch*io io* pur in tutto T Anno § Veglia intento a’ Studi Tuoi. La mcdefma dimenando. r Di mie Offa ne deflioo Per mio Erede pei dichiaro ^ A chi giucca a! Pelaehiù De* miei beni tutti, tutti* v Per far Dadi alquante* più Siano Lardi, fian Prefciutti*. § A chi giucca a Sbaraglino* E di quanto è in me di raro. & Anzi veglio* eh* elio n* abbia Quell* Economo* che in Villa * r Le più belle* ma con patto* Non già io lo per foaffarsi* J Che non mai avendo fatto Come Tuoi pur troppo or farfi* § Un mal tiro* ei monti in rabbia. E goder 1* aria tranquilla. Alia rufiica: mia Gente* Ma vi paffa. per vedere* Cui sì deggio per la cura Se vi fia uopo* ©magagna Di condurmi alta paftura.* § Nelle cofe di Campagna* Sarei bene un fconofccnte, Ed a tutto provvedere. Quando lor nulla lafcÌaffi’ Si difpongo. Ora da un tale A sfuggir sLaboroinofa Teftamento di un mio pari* Taccia, vo'Iafciar tal cofa* Di una Bcftia * i’ Uomo impari Che sn valor i* altre trapali?. Di lar bene a chi fa- male* Il mio Pici: con afpra offefa A chi piantili talora IL F I N E , « -Sp na al piè maligna* fuora Atto è trarla fenza fpefa. Reggio per il Davolio

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Tra cultura ed economia il maiale sta conoscendo un buon ritorno di interesse. Ecco un documento storico e un commento che ci ripresentano il prezioso animale.

sporcizia e d’impurità, e so con uando ero scolaro delle Marc Augé che «le categorie di elementari scrissi in un puro e impuro possono applicarsi componimento che il porco è un animale pulitissimo, destan­ indifferentemente e successiva­ mente a una stessa realtà» e con do, com’era naturale, l’ilarità di compagni e parenti e amici di fa­ miglior successo a quella del por­ miglia, senza dire dell’appellativo co, ma credo (non più, oggi, sul di porcellino affibbiatomi dalla fondamento dei ricordi, ma con maestra, visto che ero un ragazzo il senno del poi) che quella mia idea fosse collegata ad altre e più abbastanza pulito. Niente valse tuttavia a distogliermi dalla con­ complesse emozioni visive, soprat­ vinzione che mi ero fatta non igno­ tutto alla figura sferoidale del por­ co, all’incurvarsi delle singole el­ rando indole e costumi del porco lissi inscritte nella sua compagine, né le vicende del suo ciclo vitale e alla spirale del codino arricciolato, neppure le molteplici operazioni alla testa subconica, con i vortici della maialatura, dalla macellazio­ ne al trattamento delle carni alla delle orecchie e delle fosse oculari confezione degl’insaccati. e col grugno tracciato a guisa di Proprio un atto saliente della discoide, al fatto che il maiale da vivo non sembra camminare né maialatura aveva inciso nella mia correre ma solamente rotolare, mente, con lucida flagranza, quel­ che da morto viene prima squarta­ l’immagine e quell’idea di pulizia to, macinato, pressoché atomizza­ che agli altri aveva dato argomen­ to, tanto da far pensare a una defi­ to per ridere di me, e tuttora con­ nitiva cancellazione di ogni segno servo, di quel momento, un ricor­ che connoti la sua identità, mentre do ribadito da numerose presenze al lavoro del norcino. Questi, do­ po aver sgozzato il maiale e ada­ Istruzioni ai trincianti giata la sua spoglia sul fondo di per tagliare il porcellino da latte, una conca, provvedeva a disseto­ da Li tre trattati larla con raspa e acqua bollente, di Mattia Giegher, 1639. pelo e contropelo, finché la visio­ ne della bestia perduta nella mor­ te, quasi alleggerita del suo carico materiale e nitidamente circoscrit­ ta entro l’involucro dell’epidermi­ de rosea, lustrante, compatta, le­ vigata, qua e là increspata appena dal premere dell’interna turgidità, diventava ai miei occhi quanto di più pulito potessi concepire, quan­ to di più innocente e di più puro. So bene che questa equazione di pulizia e di purezza è da porsi con cautela, specie se correlata simme­ tricamente ad altra equazione di

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da ultimo, al di là della metamor­ fosi operata sulle sue carni, toma a comparirci nelle forme della sua originaria struttura, nelle sagome rotondeggianti dei prosciutti, dei salami, delle coppe, delle salsicce, delle mortadelle, dei cotechini, degli zamponi, delle bondiole, di qualsiasi altro insaccato. evo aggiungere che una ta­ le continuità, dalla vita alla morte del porco, è ancora oggi per me un indice di congruen­ za, e alla fine di purezza, nel suo modo di porsi in rapporto con l’uomo, per ciò che l’uomo può fa­ re oggettivamente di lui e per le operazioni che il maiale condizio­ na soggettivamente con la peculia­ rità del proprio essere. Mi sembra non vi sia disconti­ nuità o incongruenza nemmeno in un diverso ordine di comporta­ menti per cui, quando è vivo, il porco non serve a nulla, non com­

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pie lavori che tornino a suo profit­ to, non si presta a servizi di nessun genere — a eccezione del cercare tartufi — non è disponibile a nes­ sun giuoco, bada soltanto al man­ giare impegnandovi ogni sua atti­ vità, ogni suo minimo gesto o mo­ vimento, e accettando con indiffe­ renza l’alternativa di starsene soli­ tario in fondo a un porcile o di at­ tnipparsi «militarmente», come racconta Carlo Dossi, per raggiun­ gere il luogo della pastura con i suoi simili, a patto però che non gli sia fatto mancare il cibo; e quando è morto, al contrario, con­ sente la fruizione totale di se stes­ so e può finanche rogare testa­ mento, secondo dettato medioeva­ le ripreso nel Seicento da Vincen­ zo Tanara, lasciando agli uomini l’eredità primaria delle sue carni e quella secondaria dei denti, delle setole, dei peli^della vescica, della pelle, delle cotiche, del sego, della sugna, del fiele, delle unghie, cia­ p o r c h e ^ l i In +?

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scun suo prodotto a beneficio di chi ne faccia uso per necessità o per diletto. A ben guardare non c’è che una discordanza apparente fra i due momenti e piuttosto sembra esi­ stere, nel destino del maiale, un filo rosso che congiunge le ragioni del vivere e quelle del morire, qualcosa che sublima la loro inte­ razione e torna a testimoniarci quella purezza per cui l’abbatti­ mento del porco è un atto sacrifi­ cale che assicura all’uomo la so­ pravvivenza in terra. on il ripetersi dei modi di celebrarlo e con la sua an­ nuale cadenza, il rito della macellazione del maiale acquista così un valore di sacralità sempre più rilevante lungo l’itinerario per­ corso dalla cultura religiosa fino all’avvento del Cristianesimo, sia pure attraverso contraddizioni e ambiguità nelle quali sono impli­ cati il culto di sant’Antonio abate e la sua iconografia, che dapprima vede il santo come oggetto della tentazione demoniaca incarnata dal porco, e in un secondo tempo — adeguandosi al costume devo­ zionale diffuso tra i ceti popolari dell’Occidente - lo rappresenta in veste di protettore degli animali domestici, con esplicita predilezio­ ne a favore del porco. Perché il tentatore diventi l’elet­ to fra i patrocinati del santo non è facile spiegare, ma si può ritenere che l’assunzione in positivo del porco abbia origine nel riaffiorare, entro la sensibilità cristiana, di un titolo di purezza attribuitogli dalle genti pagane e tuttora non recusabile.

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Nella riscoperta della grecità, che Vemani svolge affiancando filologia, psicologia della religione e altre discipline, emerge la dimensione alimentare, spia di cultura e di culto.

Il cibo di Omero Jean-Pierre Vernant

in dai primi versi dt\Y Odis­ sea (I, 5-9), il poeta accenna all’episodio che costituirà la materia del dodicesimo canto: la morte dei compagni di Ulisse, vit­ time della loro stessa follia, per aver divorato, sull’isola che appar­ tiene al dio, i buoi di Helios Hype­ ñón, il Sole Altissimo 2. Nel terzo libro delle Storie (1726) Erodoto c’introduce, a sua vol­ ta, in un’altra contrada solare: Cambise, prima di organizzare la progettata spedizione contro gli Etiopi longevi (makrobioi), invia una schiera di osservatori, scelti tra gli ittiofagi, perché gli faccia rapporto sulla famosa Trapeza Heliou, la Tavola del Sole, che dico­ no trovarsi nella terra del Sole po­ polata dagli Etiopi. Questa, però, non è la terra del Sole Altissimo, dove l’astro è allo zenith, cioè nel punto di massima distanza dalle regioni abitate, ma, come precisa la tradizione americana3, è la terra del Sole levante o calante, situata dunque in quella regione estrema del mondo dove, a est come a ovest, il percorso dell’astro segna il punto d’incontro della terra e del cielo, il luogo in cui uomini e dèi, insieme, si riuniscono per banchet­ tare (Iliade I, 423 sgg.; XXIII, 205; Odissea I, 25 sgg). Il confronto di questi due testi, che in un primo tempo sembrano del tutto eterogenei, non è giustifi­ toi), libere dal giogo (v. 103: adcato solo dal comune riferimento a metes), che vivono all’aperto (v. una terra del Sole. Si può mostrare 71: aulin)8 in assoluta libertà, in che essi applicano a due situazioni pascoli che mai la mano dell’uomo opposte uno stesso quadro inter­ ha falciato né toccato (v. 72). pretativo, una classificazione degli Con il suo furto, Ermete fa pas­ alimenti che situa i cibi propri de­ sare queste vacche dalla sfera divi­ gli uomini in una posizione inter­ na alla quale appartenevano a media tra le vivande riservate agli quella umana, in cui assumono lo dèi e il pasto delle bestie. status di animali domestici. In vir­ Il tema del cibo è al centro del­ tù dell’accordo che il giovane dio l’episodio dt\Y Odissea. L’equipag­ conclude con Apollo, suo fratello gio di Ulisse pretende di fare scalo maggiore, per metter fine alla lite nell’isola del Sole, malgrado gli provocata dal suo furto, Ermete è avvertimenti di Tiresia e di Circe, consacrato ufficialmente patrono perché, attanagliato dalla fame, della pastorizia: le bestie, di cui non vuole più rimandare quel pa­ egli è signore con tanto di frusta sto di cui, dopo le prove di Cariddi alla mano9, saranno ormai custodi­ e di Scilla, avverte l’imperioso te nelle stalle10e, riproducendosi11, bisogno4. Il rifiuto di Ulisse lo fa faranno crescere quella mandria apparire insensibile, come se igno­ fino ad allora immutabile. Oltre rasse la comune necessità, condivi­ che Nomios, signore degli armen­ sa da tutte le creature mortali, di ti, il dio si trova ad essere anche rinnovare ogni giorno, con il cibo, Bouphonos e Mageiros, uccisore le energie consumate (XII, di vacche e cuoco: immolando due 279-83). Ulisse, alla fine, cede ai bestie e dividendone in pezzi la rimproveri dei suoi compagni, ma carne, egli istituisce il primo sacri­ prima esige che si impegnino con ficio. un giuramento a non «uccidere» le Ma se il giovane dio signore de­ vacche del Sole (XII, 301). Esse, gli scambi nel suo ruolo d’interme­ infatti, sono sacre e gli uomini non diario può passarla liscia, dei sem­ hanno il diritto d’imporre loro il plici mortali non hanno il diritto di giogo né di farle lavorare e tanto tentare un colpo così audace, tan­ meno di cibarsene5. Non sono to più che lo stesso Ermete si guar­ selvatiche e neppure domestiche: da bene dal mangiare le carni che poiché rientrano nella sfera del dio ha preparato. Se le assaggiasse, di­ sono al di là di queste categorie. venterebbe un uomo, perciò le ap­ Sotto la custodia degli dèi con­ pende al soffitto della stalla senza ducono un’esistenza libera e ino­ toccarle (Inno omerico a Ermete, perosa come fanno le bestie selva­ 130-35). Al contrario, i compagni tiche; ma a differenza di queste di Ulisse fanno baldoria con bestie non si divorano tra loro e vivono che restano proprietà del dio e su in pacifiche mandrie sulle terre del cui non possono vantare alcun di­ Sole. Hanno la stessa eccezionale ritto. bellezza che Erodoto, insieme a Omero, Pindaro e Scilace, attri­ questa carne proibita buisce agli Etiopi del paese del Omero contrappone con Sole6. Come gli uomini dell’età chiarezza due tipi di ali­ dell’oro esiodea, esse ignorano la mentazione autorizzata. In primo nascita, la crescita, l’invecchia­ luogo, il cibo che definisce la con­ mento e la morte7. Il numero e l’e­ dizione stessa dell’uomo, nella sua tà di esse restano costanti, come duplice opposizione, agli dèi im­ anche la forza e la bellezza loro. È mortali 12e alle bestie selvagge che dunque una condizione che sem­ si divorano crude le une con le bra identica a quella della mandria altre13: il pane e il vino14. Questi di Apollo da cui Ermete ruba, se­ due tipi di cibo «cotto»15sono pro­ condo YInno omerico, cinquanta dotti del lavoro umano, ugualmen­ vacche: bestie divine e immortali te distanti dall’erba cruda dei pa­ (v. 71: theon mekaron boes ambroscoli, che è il pasto degli animali, e

usate foghe di quercia, albero che simboleggia, per i Greci, la «vita allo stato selvatico» in opposizione alla «vita civile» che essi chiamano «vita del grano macinato»20. In mancanza di vino per le libagioni, i compagni di Ulisse si accontenta­ no di bere semplice acqua (w . 362 sgg.). Poi fanno baldoria. Ma poi­ ché le regole del gioco alimentare non sono state rispettate, la confu-

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Rhyton (recipiente per vino) del 430 a.C. (Museo archeologico di Ferrara) In basso: Dettaglio di un’anfora di Epiterio del VI secolo a. C. (Londra)

dagli aromi essiccati, che vengono bruciati per gli dèi16, e costituisco­ no la riserva di viveri di cui dispo­ ne l’equipaggio, il biotos proprio dell’uomo (Odissea, XII 328 con 302). In secondo luogo, sono per­ messi i prodotti di quella guerra agli animali che è la caccia e la pe­ sca. Quando il pane e il vino ven­ gono a mancare, i Greci si vedono costretti a ricorrervi per procurarsi non animali di terra quadrupedi come le vacche, ma volatili e pe­ sci, animali di aria e di acqua17. Fin qui tutto bene, gli uomini sono nel loro diritto. Ma, mentre Ulisse si è allontanato per una escursione, ecco che Eurimaco propone, per evitare la peggiore delle morti, quella della fame18, di

«sacrificare» le vacche in una gran­ diosa ecatombe (v. 344). Già all’i­ nizio questo sacrificio è privo di qualunque significato religioso: non ha altro fine che quello di to­ gliere la fame. E le vacche, invece di essere condotte in processione verso l’altare e sgozzate secondo le prescrizioni rituali, vengono in­ seguite, accerchiate e massacrate come se fossero animali selvaggi19. Questa confusione tra sacrificio e caccia, animali domestici e bestie feroci, porta a un sovvertimento blasfemo del sacrificio. Omero usa il vocabolario sacrificale consueto ma sottolinea una doppia anoma­ lia che, invertendo i valori del rito, rende questo «sacrificio» sacrilego e immangiabili i suoi prodotti. Non ci sono più cereali, né orzo né farina; in mancanza di essi vengono

sione si allarga e si manifestano fatti prodigiosi. Le bestie, ormai morte, conti­ nuano a dare segni di vita. Le pel­ li, parte speciale, che non viene mangiata dagli uomini né bruciata per gli dèi, ma riservata, spesso, al sacerdote o esposta come sema dell’atto sacrificale, si muovono come se le bestie immolate fossero ancora vive (v. 395). I pezzi di car­ ne attorno agli spiedi muggiscono, sia quelli già arrostiti che quelli an­ cora crudi (w . 395 sgg.: optalea te kai orna), come se la distinzione tra il crudo e il cotto si annullasse insieme a quella tra il morto e il vivente quando non viene rispetta­ ta l’opposizione di selvatico e do­ mestico, sacrificio e caccia. «Come di vacche s’udiva la vo­ ce» (v. 396: boon d ’hos gineto phone): la phone, espressione della vi­ ta, perpetua 1’esistenza della man­ dria che, attraverso questo fanta­ sma acustico, questo eidolon sono­ ro, continua, oltre le frontiere del­ la morte, ad abitare l’isola del Sole come prima21. La conclusione non si fa atten­ dere: simili agli uccelli e ai pesci a cui prima davano la caccia, i com­ pagni di Ulisse muoiono di morte violenta, e scompaiono senza se­ poltura nell’onda amara: «E Zeus tutt’insieme tuonò e scagliò sulla nave la folgore: tutta girò su se stessa, colpita da Zeus con la fol­ gore e fu piena di fumo sulfureo: caddero fuori i compagni, e come cornacchie in giro alla nave nera furono preda dell’onda: il dio negò loro il ritorno!» (w . 415-19). el racconto di Erodoto la situazione s’inverte, ma il problema del regime ali­ mentare resta centrale. L’equipag­ gio di Ulisse, sbarcando nell’isola del Sole, si reca a banchetto presso gli dèi senza esservi invitato, e si prende ciò che è una proprietà esclusiva degli dèi: l’accento è po­ sto sulle barriere e sui divieti che intervengono nel rapporto tra mortali e immortali. Nel paese de­ gli Etiopi, invece, sono gli dèi che vengono dagli uomini per banchet­ tare con loro: qui l’accento cade su

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un regime di convivialità che non si è ancora spezzato22. Come le vacche del Sole, gli Etiopi di Ero­ doto sono vicini agli dèi per l’am­ biente solare in cui vivono, la loro bellezza, la loro giustizia, la loro lunga vita. Questo status quasi divino, che li rende affini agli uomini dell’età dell’oro, permette loro di godere «naturalmente» di beni che i Per­ siani possono procurarsi solo me­ diante un’arte al tempo stesso raf­ finata e ingannevole23. Per sedur­ li e ridurli in schiavitù, Cambise fa portare agli Etiopi doni la cui preziosità ha il carattere dell’artificio24. Anzitutto stoffe tin­ te di porpora; ma la pelle degli Etiopi, bruciata dagli ardori del So­ le, brilla naturalmente dell’oscuro fulgore del fuoco25. Poi pre­ fumi: ma gli Etiopi, vivendo in una regione così asciutta, hanno come gli gli dèi un buon odore naturale, Yeuodia26. E infine gioielli d’oro: ma l’oro, metallo solare, incorrut­ tibile nella sua perfezione, nel paese di Helios è la cosa più comu­ ne: quello che manca è il bronzo (Erodoto HI, 23, 14-17). Questa vicinanza naturale agli dèi si manifesta anche nel regime alimentare degli Etiopi. La favola della Tavola del Sole riprende sot­ to un’altra forma il tema omerico degli dèi che banchettano con gli Etiopi e il mito esiodeo della razza d’oro, quando dèi e uomini sede­ vano ancora alla stessa tavola per far baldoria in banchetti comuni, prima che l’istituzione del sacrifi­ cio cruento venisse a consacrare la loro separazione e il loro diverso regime alimentare27. Certo, anche gli Etiopi mangiano carne, ma è una carne che la terra produce spontaneamente, in una prateria, come accadeva nell’età dell’oro per l’orzo e la vite28. In questo quadro, il mangiare carne non implica un sacrificio cruento, anzi lo esclude. Gli Etio­ pi non devono sgozzare, tagliare a pezzi e infine cuocere l’animale di cui mangiano la carne. Tutti i qua­ drupedi, selvatici o domestici, so­ no offerti loro, ogni mattina, dalle mani generose della natura, sotto forma di un cibo già commestibile: non solo cotto, ma interamente bollito, senza più nessuna parte cruda, né dentro né fuori29. Le vacche del Sole, proibite agli uomini, restano crude anche dopo la cottura, continuano a vivere an­ che se uccise, e abbatterle secondo il rito sacrificale è come cacciare animali selvatici. I quadrupedi della Tavola del Sole, invece, sono commestibili senza che occorra né sacrificarli, né cacciarli. Nascendo dalla terra sotto forma di cibo pronto, le vacche si trovano già morte, bollite e cucinate allo stato naturale.

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uesta confusione tra ciò che è morto e ciò che è vi­ vo, tra cotto e crudo, do­ mestico e selvatico, sacrificio e caccia, invece di relegare gli Etiopi in uno stato quasi bestiale, li innal­ za al rango quasi divino di makrobioP0. Divorare le vacche del Sole significava regredire al di sotto del normale sacrificio; man­ giare alla Tavola del Sole significa invece collocarsi al di là. Ma, in entrambi i casi, pane e vino, cibi specificamente umani, sono esclu­ si. Nel caso dei compagni di Ulis­ se, perché non ne Hanno più; ed è proprio la mancanza di pane e di vino che li spinge a divorare le vac­ che del Sole. Nel caso degli Etio-


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pi, perché non ne hanno bisogno31. Essi infatti dispongono a volontà di un cibo fornito dagli dèi e che ha quasi la virtù dell’ambrosia. A questi mangiatori di carne bollita per natura, i cereali, che per la maggior parte degli uomini rappresentano il modello del vege­ tale asciutto e cotto dal sole, ap­ paiono come un cibo putrido non diverso dal letame: chi se ne nutre è condannato a morire giovane32. Il caso del vino è diverso: benché sia un prodotto del lavoro agricolo come il frumento, è visto come una bevanda di fuoco, affine al So­ le. Senza dubbio, l’epiteto omeri­ co del vino, aithops33, per la sua vicinanza al nome stesso degli Etiopi, ha contribuito a questa in­ terpretazione. Senza il vino, i Persiani, e la maggior parte degli uomini, non potrebbero anapherien (Erodoto III, 22, 20: «tirarsi su») e la loro esistenza sarebbe ancor più effi­ mera. Ma gli Etiopi non hanno bi­ sogno di questo liquore di fuoco dalle virtù ricostituenti: essi di­ spongono di un’acqua che ha per natura lo stesso potere di ringiova­ nimento del frutto della vite. E un’acqua di vita, una vera e pro­ pria fontana dell’eterna giovinez­ za, di cui si servono per tutti gli usi (Erodoto III, 23, 5-14) e in cui è facile riconoscere quelle sorgenti d’ambrosia che certe tradizioni mi­ tiche localizzano ai confini del mondo, in prossimità del fiume Oceano. Un frammento di Eschilo (fr. 192 Nauck2 = Strabone I, 2, 27, 22-27) la descrive così: «Scorre vi­ cino a Oceano l’acqua calma degli Etiopi, la falda dai riflessi di bron­ zo, nutrice di ogni cosa, in cui il Sole che vede ogni cosa ristora eternamente il suo corpo immorta­ le e lenisce le fatiche dei suoi de­ strieri nella calda foce della morbi­ da onda». compagni di Ulisse, consu­ mato il pasto sacrilego, muoio­ no subito di morte violenta, senza funerali e senza lasciare tracce di sé, nemmeno una stele, come bestie. Gli Etiopi, che hanno vita lunghissima, conservano nella morte un aspetto del tutto simile a quello che avevano vivi. La morte, per loro, non ha nulla di ripugnan­ te (Erodoto III, 24,7-8): quando il cadavere è secco, lo spalmano con uno strato di gesso (come dire, per i Greci, di terra calcinata) sul qua­ le viene riprodotta l’immagine del­ la persona defunta. Quindi il cor­ po viene seppellito, non sottoter­ ra, ma entro una stele funeraria. La pietra di questa stele, invece di essere come le pietre normali mas­ siccia e opaca, è trasparente: così la luce può penetrarvi e rendere visibile, sul cadavere, l’immagine fedele del defunto (III, 24, 8: kai echei pania phanera homoios autoi ti nekui). Conservati dapprima nelle case dei congiunti, poi nell’immediate vicinanze della città, i morti ri­ mangono tra i vivi attraverso la propria immagine, così come le vacche del Sole continuano ad abi­ tare l’isola attraverso la propria phone. Per i makrobioi, lontani dall’umidità e dalle tenebre per quanto è possibile a creature terre­ ne, il mondo della morte non può essere contrassegnato dalla de­ composizione e dall’oscurità. An­ che allo stato di cadaveri, gli Etio­ pi restano vicini al secco, al brucia­ to, al luminoso. Per loro, come per gli armenti del Sole, la frontie­ ra tra la vita e la morte è più incer­ ta, più labile che per i comuni mortali. Un’ultima osservazione viene a confermare la presenza di un codi­ ce alimentare sotteso al testo di Erodoto come al racconto dell’O­ dissea. Nella spedizione militare che Cambise, spinto dalla sua em­ pia hybris, organizza contro gli Etiopi per asservirli, i suoi soldati, man mano che si avvicinano al proibito paese del Sole, regredi­ scono, sotto il morso della fame, dalla condizione umana allo stato bestiale (Erodoto III, 25, 15-25). E ogni tappa di questa regressione è segnata da un cambiamento di regime alimentare. All’inizio, co­ me i compagni di Ulisse, danno

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fondo alle proprie riserve di «vive­ ri» (,sitia), poi abbattono le bestie da soma (hypozygia) della spedi­ zione (III, 25,16), e quando anche queste sono finite mangiano l’erba (itrophe ek ges), come bestie (III, 25, 20-21); infine, simili ad animali selvaggi, si divorano tra loro (III, 25, 23-25: allelophagein) . Escludendosi dall’alimentazione civile, essi come l’equipaggio di Ulisse, tagliano gli ultimi legami che ancora li univano al mondo di­ vino. Mangiarsi gli uni gli altri per placare la fame è un atto non me­ no orribile, non meno terrificante nella sua empietà, che divorare le vacche del Sole (III, 25,23: deinon ergon... ergasanto). In entrambi i casi si cade al di sotto della condi­ zione umana. (traduzione di Carla Casagrande)

(1) Quest’analisi è stata oggetto nel 1972 di una comunicazione orale all’Association des Études grecques; il resoconto è pubblicato in Revue des Études grecques, voi. 85, XTV-XVH (1972). (2) Nella Teogonia di Esiodo, Hyperion è il nome di un Titano di cui Helios è il figlio. Sia che l’epiteto Hyperion si applichi a Helios in quanto tale sia che lo designi come figlio di suo padre, esso comunque caratterizza la posizione alla sommità del cielo. Caso diverso è quando Helios è visto come calante o levante.

ne, op. cit.y pp. 148 sgg., con i riferimenti ivi citati.

(11) La parte della mandria divina che Ermete ha rubato costituisce il genos boon (Inno omerico a Ermete 355); vedi Esiodo, Teogonia 444: insieme a Ecate, Ermete sa «far crescere (...) nelle stalle il bestiame»; Inno omerico a Ermete 491-94: il dio proclama che farà pascolare i buoi agresti sulla mon­ tagna e conclude: «Colà le vacche ac­ coppiandosi coi tpri partoriranno in abbondanza maschi e femmine alla rin­ fusa».

(21) Al verso 396, il muggito delle vac­ che (benché già morte, vedi v. 393) ri­ corda il muggito che, quando la nave era ancora al largo, segnalava la loro viva presenza all’equipaggio prima del­ lo sbarco nell’isola (vedi w . 264 sgg.: «È già dal mare, stando sopra la nave nera, muggito sentivo di vacche»).

(12) Vedi Iliade V, 341 sg.: «Gli dèi non mangiano pane (siton), non bevo­ no vino di fiamma (aithopa oinon), non hanno sangue perciò, e son chia­ mati immortali (athanatoi)». (13) Vedi Esiodo, Opere 276-78: «Questa infatti è la legge di natura che

Zeus ha stabilito: che i pesci e le fiere e gli uccelli alati si mangiassero a vicen­ da (esthemen allelous), giacché fra loro non esiste giustizia; ma agli uomini egli ha dato la giustizia». Vedi nell’Odissea (IX, 190 sg.) il Ciclope che ignora il frutto della vite, ma beve latte non an­ nacquato, che divora la carne umana come un leone delle montagne «e non somiglia a un uomo mangiatore di pa­ ne (sitophagos)». (14) La nave contiene viveri e bevan­ de, brosis te posis te (Odissea XII, 320), cioè pane e vino, sitos kai oinos (XII, 327). (15) Anzi cotto tre volte: da una cottu­ ra interna, dall’esposizione solare che fa penetrare il calore nella terra lavo­ rata, infine dal fuoco della cucina, per i cereali, e dalla fermentazione, per il vino prodotto dalla vite.

(4) Vedi Odissea XII, 283, 292, 307 sgg. Per i Greci è l’isola del dorpon, della cena.

(16) Vedi Marcel Detienne, 1 giardini di Adone, Torino, Einaudi, 1972, pp. 13-18; J.-P. Vemant, «Sacrifice et alimentatìon humaine: à propos du Prométhee d’Hésiode», Annali della Scuo­ la Normale Superiore di Pisa, cl. Lett. Filos., serie 3, voi. 7, pp. 938 sgg. (1977)

(6) Per la bellezza delle vacche inÒmero vedi Odissea XII, 129, 262, 365; per la bellezza degli Etiopi in Ero­ doto vedi Storie III, 20, 7. (7) Vedi Odissea XII, 129-31: «Sette mandrie di vacche (...) cinquanta capi ciascuna; parto fra queste non c’è, né mai muoiono» (gonos d ’ou ginetai auton oude potè phithinythousi). Vedi, per gli uomini della razza d’oro, Esio­ do, Opere 112-15: «Come dèi passava­ no la vita con l’animo sgombro da an­ gosce, lontani, fuori dalle fatiche e dal­ la miseria; né la misera vecchiaia in­ combeva su loro, ma sempre con lo stesso vigore nei piedi e nelle mani go­ devano nelle feste, lontani da tutti i malanni». (8) Il verbo aulizomai e tutti i termini affini ad aule si riferiscono, come os­ serva Paul Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Pa­ ris 1974, voce «aule»), «all’idea centra­ le del passare la notte all’aria aperta». A questo proposito si accosti Odissea XII, 265 (aulizomenaon) all’Inno ome­ rico a Ermete 71 (aulin). (9) Vedi Inno omerico a Ermete 497 sg.: Apollo diede a Ermete «la sferza rilucente e gli affidò la cura dell’ar­ mento». (10) Ormai le bestie non dimorano più all’aria aperta, ma vengono spinte den­ tro una stalla dall’alto soffitto (es aulion hypsimelathron) e munita di capa­

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ci abbeveratoi (lenoi): vedi Inno ome­ rico a Ermete 103 sg., 106, 134, 399.

(3) Vedi Odissea I, 24; Strabone I, 1, 5; I, 2, 24-29. In un passo, forse inter­ polato dell’Odissea (XII, 380 sgg.) l’i­ sola del Sole sembra assimilata al pae­ se degli Etiopi per l’identica posizione al tempo stesso a levante e a ponente.

(5) Esse devono restare «intatte», non bisogna compiere nessun gesto che ri­ schi di attentare alla loro integrità fisi­ ca. Si veda in Odissea XI, 110 e XII, 137 l’uso di asines, «intatto», come in XI, 112 e XII, 139 il divieto di danneg­ giarle (sinomai).

(17) Vedi Odissea XII, 330-32. Su quest’isolotto del Sole non c’è nessun ani­ male di terra oltre alle bestie che for­ mano le mandrie sacre del dio. Caccia e pesca possono dunque riguardare so­ lo le specie animali più lontane dall’uo­ mo che vivono in cielo o nel mare. Vie­ ne così sottolineata la distanza che se­ para il sacrificio normale dalla caccia e dalla pesca. (18) Vedi Odissea XII, 341 sgg. «Tutte odiose sono le morti per gli infelici mortali, ma la più atroce è morire di fame» (limoi thaneein). (19) Vedi Odissea XII, 343, 353-56, con l’uso dei verbi elauno, «spingere davanti a sé», e periistemi, «accerchia­ re». Pierre Vidal-Naquet ha visto bene e ha analizzato finemente questi aspet­ ti di perversione del sacrificio nel suo studio «Valeurs religieuses et mythiques de la terre et du sacrifice dans l’Odyssée» (1970), ora in Le chasseur noir, Paris, 1981. (20) Vedi Odissea XII, 357 sg. Sul va­ lore «selvaggio» della quercia, delle sue foglie, delle sue ghiande (come ci­ bo degli uomini ancora selvaggi), vedi Erodoto I, 66 dove gli arcadi, a causa del loro carattere «primitivo», sono chiamati balanephagoi, «mangiatori di ghiande» e non sitophagoi, «mangiato­ ri di pane». Sull’opposizione, nel ritua­ le del matrimonio, tra la vita selvaggia (bios agrios), simboleggiata dalle fo­ glie di quercia, e la vita civile (bios hemeros) o vita «dal grano macinato» (bios alelesmenos) vedi Marcel Detien-

(22) Sugli Etiopi nella tradizione greca e in Erodoto, vedi M. Hadas, «Utopian Soorces in Herodotus», Classical Philology, voi. 30, pp. 113-21 (1935); T. Säfve-Söderbergh, «Zu den äthiopi­ schen Episoden bei Herodo», Eranos, voi. 44, pp. 68-80 (1946); A. Lesky, «Aithiopika», Hermes, voi. 87, 27-38 (1959); F. M. Snowden, Blacks in antiquity. Ethiopians in the Greco-Roman Experience, Cambridge, 1970. (23) Gli Etiopi, nella loro giustizia e felicità, sono dalla parte della «natu­ ra». Secondo Erodoto (III, 20), essi soli tra tutti gli uomini accordano la dignità reale a «quello dei cittadini che essi giudicano sia il più grande e abbia forza in proporzione alla grandezza»; vedi Aristotele, Politica 1290 b 4: «Se si distribuissero le cariche in rapporto all’altezza, come, secondo alcuni, si fa in Etiopia, o alla bellezza...»; Nicola Damasceno, presso Stobeo, Florilegio 44, 25: essi scelgono per re il più bello e il più bellicoso, sono pii e giusti. Alla fine del II secolo av. C., Agatarchide (Sul Mar Rosso 49) scriverà che gli Etiopi, conducendo una vita quasi di­ vina, non hanno mai cercato di perver­ tire la natura con false opinioni. Sono felici seguendo la logica della natura. Non sono governati da leggi; non ne hanno bisogno perché sono onesti sen­ za istruzione.

GASTRONOMIA

C O L O R N I G. I segreti dei grandi cuochi, PP. 440 , 2a ed., 1968, rii. L. 15.000, bross., L. 14.000 G IO C O G. La cucina scaligera, pp. 164, 2a ed., 1978, L. 6 .5 0 0 F E S L IK E N IA N F. La cucina dei V IP , pp. 340 , 197 5. rii., L. 12.500 S A L V A T O R I DE Z U L IA N I M . La cucina d i V ersilia e Garfagnana, pp. 184, 3a ed., 1981, L. 6.000 P E R U S IN I A N T O N IN I G. M angiare e ber friu la n o , pp. 304 , 6a ed., 1982 L

8.000 C O L O R N I G .; D A L L 'A R A R.; P A R M I­ G IA N I G. T urism o e cucina sul Po, pp. 272, 1970, rii., L. 9 .0 0 0 H E L L R IG L A . La cucina d e ll'A lto Adige, pp. 128, 4a ed., 1980, L. 7.000 F E S L IK E N IA N F. La cantina dei VIP , pp. 158, rii., 1975. L. 8.0 0 0 S A L V A T O R I DE Z U L IA N I M. A lo ia co i nostri veci. La cucina veneziana, pp. 456 , 5a ed., 1981, L. 10.000 W A L D O M. La cucina orientale, pp. 220, 1973, Lire 8.000 SALVATO R I DE Z U L IA N I M . El canevin de la b o tilie , ossia de la descoverta de ta n ti "secreti de fam e gia" in te 'l cam po de la liq u o re ria veneziana e veneta, pp. 116, 1978, L. 5.500 B A L D A S S A R I M O N T E V E C C H I B. La cucina d i Em iliaR om agna, p p * 200, 1980, L . 8 .0 0 0 SAPIO B A R T E L L E T T I N. La cucina siciliana nob ile e popolare. R icette. Storia. A n e d d o ti. C uriosità. Pref. di C .L. La Rosa, pp. 188, 2a ed., 1981, L. 6 .5 0 0

(24) Vedi Erodoto III, 20, 2-5: porta­ vano «in dono una veste di porpora e una collana d’oro intrecciata e braccialetti e un alberello d’alabastro per gli unguenti e un’anfora di vino di pal­ ma». Presa la veste di porpora e capito che era tinta, il re degli Etiopi dichiarò che «ingannevoli erano gli uomini, e ingannevoli le loro vesti» (III 22, 2-6); stesse parole a proposito del profumo (III, 22, 11-12). (25) È anche il senso del loro nome: Aithiopes, i visi bruciati, i visi neri di fuoco. (26) Questa euodia ha una doppia ra­ gione: da una parte l’asciuttezza del clima e la costituzione degli Etiopi; dall’altra, l’uso nei lavacri di un’acqua che esala «un profumo come di viole» (Erodoto III, 23, 8). (27) Vedi Vemant, art. cit. (28) Vedi Erodo III, 18, 1-7: «C’è nel sobborgo un prato (leimon) tutto pie­ no di carni cotte di ogni specie di qua­ drupedi» (epipleos kreon hephthon panton ton tetrapodon). La gente del posto pretende «che queste carni sono prodotte ogni volta dalla terra stessa» (ten gen auten anadidonai hekastote). Per l’età dell’oro, vedi Esiodo. Opere 117: «il solco fecondo produceva da solo un abbondante e generoso raccol­ to» (zeidoros aroura automate). (29) Sulla superiorità del bollito rispet­ to all’arrosto, Marcel Detienne, La pantera profumata, Bari, Laterza, 1977, pp. 136-38. (30) Il termine makrobioi, o makraiones, definisce una condizione interme­ dia tra gli dèi e gli uomini dal punto di vista della durata della vita, come quella delle ninfe dei boschi e delle ac­ que. (31) L’alimentazione degli Etiopi con­ siste unicamente di carne bollita e latte (Erodoto III, 23, 4-5). (32) Vedi Erodoto III, 22,19: l’etiope, quando capì che cos’era il grano e co­ me cresceva replicò «che non c’era af­ fatto da meravigliarsi se mangiando le­ tame (kopros) vivevano pochi anni». (33) Sull’uso di aithops in rapporto al vino, vedi Iliade IV, 259, e soprattutto Euripide, fr. 896 Nauck2 = Ateneo 11, 465 b: «Euripide dichiara che uno dei cavalli del Sole è Aithiops, quello che fa maturare (pepaino, cuocere) i ceppi delle viti autunnali del dio bacchico, amico dei fiori; è per questo che i mor­ tali chiamano il vino aithops».

Da: Marcel Detienne e JeanPierre Vemant, La cuisine du sa­ crifice en pays grec, Paris, Galli­ mard, 1979; ed. it., La cucina del sacrificio in terra greca, tr. di Carla Casagrande, Torino, Boringhieri (in corso di stampa).

Mensile diretto da Balestrini, Calabrese, Corti, Di Maggio, Eco, Leonetti, Porta, Rovatti, Sassi, Spinella, Volponi In questo numero Mélange di Serres Prigogine, Clark Musil, Lukàcs, Blanchot Kripke (Bonomi), Agamben (Negri), Spinella, Marco Polo (Porta) Cinematografie dell’Est

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La Gola ® ottobre 1982

Norbert Elias * La civiltà delle buone maniere Bologna, il Mulino, 1982 pp. 390, lire 20.000 «Se un peto esce senza far ru­ more, benissimo. Tuttavia, è sem­ pre meglio che esca con rumore anziché costringerlo a restar den­ tro. Del resto, è utile trascurare il pudore per liberare il corpo, per­ ché serrare le natiche sarebbe, se­ condo il suggerimento di tutti i medici, fare come Aethon, che quantunque badasse a non petare nel tempio, tuttavia salutava Gio­ ve serrando le natiche. È proprio dei parassiti e di coloro che si dan­ no arie affermare: ’Ho imparato a serrare le natiche’» (Erasmo da Rotterdam, De civilitate morum puerìlium, citato da Norbert Elias). Tversi cortesi non dicono molto su questo argomento, annota l’au­ tore in questo stupendo libro, pri­ mo di due volumi usciti tra il 1936 e 1939 in Germania, col titolo ori­ ginale Sul processo di civilizzazio­ ne, certo un po’ meno accattivante di quello italiano ma più preciso. In effetti, la ricerca di Elias descri­ ve un processo, una dinamica di stratificazione e differenziazione che va dalla Cortezia medievale al­ la Civiltà rinascimentale alla Cul­ tura dell’età moderne: una curva. Nonostante il suo formalismo, la Cortezia medioevale è un lin­ guaggio molto semplice. L’uomo stesso, nel Medioevo, è ’semplice’. La sua visione del mondo è ele­ mentare, retta dalle diadi buono/cattivo, gioia/dolore, ecc. Le passioni, come gli amori, sono grezze e violente. La libertà, ri­ guardo al pudore e alla ripugnan­ za, è maggiore, essendo la vita ma­ teriale più costrittiva (si mangia tutti in uno stesso vaso, si usa tutti uno stesso cucchiaio, tutti bevono allo stesso bicchiere e ognuno che la fa dove puote, così, colà, in cor­ tile, ai muri, agli angoli nelle stan­ ze, sugli arazzi o per strada). E per questo che i trattati sulle buone maniere, dai Tischzuchten al Bonvesin de la Riva, non parla­ no molto dei bisogni naturali. Pre­ scrivono come comportarsi a tavo­ la, di non soffiarsi il naso nel ber­ retto o nella veste o sul gomito, cose da contadini e pizzicagnoli; di non sputare sopra la tavola o al di là di essa; di come comportarsi in camera da letto («Se devi dividere il letto con qualcuno, lasciagli il posto che più gli aggrada, e tu te ne starai a braccia e gambe diste­ se, che questa è cortesia»), ecc. E con Erasmo che i bisogni na­ turali fanno irruzione nel discorso e spostano in avanti la soglia del pudore e della ripugnanza, rispet­ to al Medioevo, che, in seguito, si trasformerà addirittura in prurito, a tal punto il modo di Erasmo di trattare le cose del corpo apparirà non solo incomprensibile ma perfi­ no disgustoso (Elias). Così la Civiltà si incurva nella Cultura e le sue ragioni si mutano in disagio. Le buone maniere di­ ventano regole, le inosservanze in­ frazioni. La nascita della clinica è vicina. Il marchese de Sade potrà parlarlo solo dalla Bastiglia il lin­ guaggio che era stato di Rabelais e di Boccaccio. Le ragioni di questo disagio che

già si vedono spuntare nei trattati del XVI e XVII secolo (Della Ca­ sa, La Salle, ecc.), tra le altre, a detta di Elias, sono: a) l’esigenza di sottrarre alla vista degli altri il soddisfacimento dei propri bisogni naturali; b) il decoro, che impone la «legge del silenzio» sulle cose del corpo e traduce la separazione lenta ma definitiva dei soddisfaci­ menti naturali dalla società. Sepa­ razione che costituisce probabil­ mente il nucleo di verità storica del delirio igienistico che regola le norme di convivenza sociale nel si­ stema della Cultura. A partire da qui, non saranno più i Bonvesin de la Riva né gli Erasmi né i Della Casa a racco­ gliere e ordinare le regole delle buone maniere: altri regoleranno l’economia degli impulsi, dissec­ cheranno i flussi (di sangue piscio, sperma moccio parola, ecc.). E bi­ sognerà aspettare Freud perché certe cose possano di nuovo entra­ re nel discorso, e parlare. V.B. o ................=

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Piero Raimondi Vini di Liguria Genova, Sagep. 1982 pp. 148, lire 16.000 L’enologia elzevirica, che poi è quella che meglio conosciamo, vi­ vendo più d’ogni altra disciplina la tragedia dell’alcolismo, abbonda di sproloqui che a tutta prima insi­ nuano l’esercizio della poesia là dove vi è di regola un singolare passatempo indirizzato a scoprire, coi metodi appunto irrazionali dei bevitori, se, poniamo, un vino d’Alto Adige sa più di prugna, me­ le renette o caffè. Dato che poi, nel porsi a que­ stionare, i cavillosi mentori di tan­ ta scienza amano ostentare sciolta erudizione e disinteressata parti­ gianeria, quasi fossero Mario Praz alle prese col Neoclassico o Eppe Ramazzotti con le tabagistiche miscela a base di toscani, si trovano a derivare le loro avventa­ tissime imprese stilistiche da quel giornalismo «en amateur» del qua­ le un quarto di secolo fa Dwight Macdonald tesse l’elogio su Encounter (novembre 1956) quale specialità squisitamente inglese. Stando così le cose, il loro me­ glio sembrano volerlo dare comu­ nicando ai lettori una forma di ca­ salingo esotismo, segnalando ciò che risulta essere più sconosciuto, esaltandolo nei loro ditirambi sulla base del principio non scritto di «meno è più è», comune anche a cinefili e altre bestie non rare (ah, povere vittime della contraddizio­ ne!), che disegna la variante po­ pulista e piccolo-borghese del motto «dividi e impera». I vini liguri, decaduti nel tempo per far posto a più intensa coltura dell’olivo (ahinoi anche lui puni­ to!), di terra sacrificata, hanno ot­ tenuto gran riverenza avendo ido­ neissimi titoli per far parole rubri­ cate. Trattandosi per lo più (se non interamente) di liquidi eroica­ mente conquistati da arcaicizzanti

Passim Libri e riviste

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fatiche, si inquadrarono benevoli nella fame di rusticità che negli an­ ni Sessanta-Settanta (quando mag­ gior si fece il loro peso col tramite dell’allora firmatario del tamburo specifico nelle «Ore liete» di Pa­ norama) aveva invaso prima le giovani e poi le più mature genera­ zioni. E questa prestazione aveva in più il modo d’affiancarsi alla ric­ chezza erbivora della cucina ligu­ re, proprio quando vegetarianesimo e stravaganza concludevano il loro lungo matrimonio. I segni favorevoli non stimola­ rono però gli scrittori del vino sul­ la strada dei maestri della cultura che andava diffondendosi, a dare precisazioni che esulassero dai propri compiti più scontatamente immediati. Non si ebbe perciò un articolato pensamento su «l’arte di camminar dondolando» perché «brilli», come altri la diedero, con pertinenza oculistica, su «l’arte di vedere» perché «fatti». II libro di Piero Raimondi dedi­ cato ai Vini di Liguria, oggi presen­ tato in una seconda più vasta edi­ zione della Sagep Editrice, dopo che la prima ottenne consensi defi­ niti «inebrianti» (come se ai suc­ cessi dei libri sul vino si potesse applicare la classificazione che nel suo celebre Atlante delle droghe Louis Lewin riserva all’alcool), ri­ spetto alla letteratura di cui ci sia­ mo qui occupati ha il pregio di evi­ tare le trappole più avvilenti a chi cerca più pertinenti informazioni e bada alla storia della vita neiia con­ trada in esame. In puntuale stima, peraltro mai con pedanteria, è te­ nuta l’evoluzione del paesaggio agrario, e abbondante risulta esse­ re la documentazione, che essa sia notarile e microstorica o di pura testimonianza di viandante. Ma qui finiscono anche le soddisfazioni. C.R. Autori vari Cibi e riti Atti del seminario di progettazione Berlini, IDZ, gennaio 1981 Crusinallo, Alessi, 1982 pp. 94, s.i.p. Sono stati recentemente pub­ blicati, a cura di François Brukhardt, gli Atti del seminario orga­ nizzato, in collaborazione con l’Intemational Design Zentrum di Berlino, dalla Alessi che è anche ’editrice del libro. Il rapporto tra cibi e riti è stato il tema di base degli incontri, che hanno visto la partecipazione tra gli altri di François Brukhardt,

Alessandro Mendini, Jean-Charles de Castelbajac, Peter Cook, Hans Hollein, Peter Kubelka, Ri­ chard Sapper, Ettore Sottsass, Stefen Wewerka. Il risultato è una ennesima ri­ flessione sulla forma del cibo, sui suoi tragitti gastronomici, sugli utensili per prepararlo e consu­ marlo; riflessione sul reale, sul suo «succo» o «athanor», momento questo che sembra ormai indi­ spensabile alla fantasticherie dell’anima e alla digestione. «L’osses­ sione del modellare il cibo», come commentava il Vasari, si fa dun­ que sempre più viva, anche se for­ se sono irraggiungibili le vette di Andrea del Sarto che, tra una Na­ tività della Vergine e una Madon­ na delle Arpie, non si perdeva un solo banchetto del «Paiolo», cena­ colo di artisti fiorentini, dove pre­ sentò il progetto per una cattedra­ le di marzapane con tanto di can­ toria con dodici cantori, rappre­ sentati da fagiani arrosto e ripiu­ mati, davanti a libri di preghiera con pagine di fette di lardo e note di chiodi di garofano e grani di pe­ pe. La Spaltung tra creazione culi­ naria e natura è al centro di alcune osservazioni di Peter Kubelka, ma non si raggiunge una definizione più complessa del rapporto conte­ nente-contenuto, per esempio in termini di transustanziazione: spesso gli interventi tradiscono un affanno verso la modernità a ogni costo. Il libro è comunque da leg­ gere, anche nei suoi paradossi me­ tafisici, che spesso riecheggiano ri­ dondanze kantiane. Per il filosofo di Koenigsberg, infatti, «l’affer­ mazione della sostanza, nella sua indistruttibile intimità, sussistente al di là degli accidenti, la cottura di un cibo per esempio, non può avvenire che attraverso la presa di coscienza dell’assimilazione dige­ stiva». 5.V.*Il Giorgio Maioli, Giancarlo Roversi Civiltà della tavola a Bologna Bologna, Edizioni Ges, 1981, pp. 412, lire 45.000 Mangiarbene a Bologna 27 settembre - 10 ottobre 1982. Nel volume, molto curato e ric­ co anche dal punto di vista icono­ grafico, i curatori affrontano in­ nanzitutto il luogo comune che si affaccia parlando di Bologna, vale a dire «la vecchia e logora immagi­ ne di Bologna come simbolo di cit­ tà ’grassa’, definizione che secon­ do Camporesi proviene da una mediazione e un riciclo dei temi dell’elaborazione dietetica perife­ rica, identificabile in un processo di assorbimento e in una conse­ guente acculturazione della cuci­ na. Tutto si riconduce quindi al co­ stume». Il mito della gourmandise bolo­ gnese, come tutti i miti, non ri­ chiede neppure dati oggettivi per essere alimentato. Oggi a Bologna non si mangia, generalmente, né tantissimo né benissimo, e spesso cibarsi costa piuttosto caro. Forti devono essere stati i moti­ vi storici, reali e simbolici, posti alle origini di una mitologia che si rivela tenace e duratura nonostan­ te trasformazioni, cambiamenti,

declini di usi e costumi. Civiltà del­ la tavola a Bologna traccia appun­ to la favolosa genealogia (e storia) della ghiottoneria bolognese. A t­ traverso una amplissima serie di mterventi si apprende, per esem­ pio, che, per quanto né Giove né Saturno abbiano mai mangiato a Bologna, Augusto imperatore, nel 20 avanti Cristo, transitasse per Bonomia, vi si fermasse e, ospite di tale Marco Marcello, parteci­ passe a un grandioso banchetto. A partire da questa data remo­ ta, le testimonianze golose si inflittiscono, dal basso Medioevo alla Bologna comunale al Rinasimento al demonio papale a Giosuè Car­ ducci sino alla Nouvelle cuisine dei nostri anni Settanta. Banchetti memorabili nel Settecento, le pri­ me fabbriche di pasta (per taglia­ telle e tortellini, appunto), i rap­ porti tra i principi, cardinali e cuo­ chi, le relazioni gastronomiche dei viaggiatori di tutti i tempi. Ma come cambia la cucina, e quando? Risponde Camporesi ai curatori: «La cucina ha tempi lun­ ghi, ha percorsi che si superano con ritmi a noi sconosciuti. Per cui direi che il taglio diacronico è as­ solutamente indispensabile per co­ gliere il lento modificarsi dei pro­ cessi alimentari, perché non si può immaginare una metamorfosi accellerata se non in particolari mo­ menti della storia nazionale, quan­ do avviene una vera e propria rot­ tura col passato: è avvenuto e sta avvenendo adesso, forse non ce ne siamo accorti completamente, ma abbiamo vissuto soprattutto fra il ’50 e il ’55 gli anni della svolta, una modificazione inavvertita e silen­ ziosa, una di quelle rivoluzioni che passano anche perché cambia il si­ stema di vendita,, cambia il sistema di rapporti col fruitore». L’ambiguo retaggio storico e il problematico presente gastrono­ mico di Bologna sono stati oggetto di un convegno che ha concluso, il 9 ottobre, un’iniziativa dell’Ente per il Turismo: «Mangiarbene a Bolo­ gna». Massimo Alberini ha riper­ corso le tappe storiche di quella cucina, rilevando il divario tra la sua importanza, unanimemente accettata, e una mancata codifica­ zione dei suoi saperi e procedi­ menti. Mentre Piero Camporesi ha inquadrato il problema nel con­ testo del generale mutamento an­ tropologico in atto, invocando la necessità di un ripensamento sin­ crono ai nuovi mestieri e compor­ tamenti ma anche, al tempo stes­ so, di una ripresa di alcuni saperi della tradizione, anche in chiave di alimentazione industriale. Tutti i convenuti hanno sottoli­ neato la crisi della ristorazione, non solo e non tanto di quella bo­ lognese, alla prese con la necessità di distinguere tra ipr livello quoti­ diano e uno «cerimoniale» o festi­ vo i quali presuppongo diete, prez­ zi e sapori molto diversi tra loro, ma ugualmente lontani da quelli di un sistema di cucina ancora troppo legato a concezioni obsolete e sfuocate. Per concludere, un’im­ portante notizia: riapre II Pappa­ gallo, uno dei più prestigiosi risto­ ranti della città. Lo chef Romano Visani vi propone una cucina bolo­ gnese aggiornata dalla sua sensibi­ lità. M.F. mm

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Dall’Opera di Bartolomeo Scappi (Venezia, 1622) Il complesso cerimoniale per servire il pranzo ai vescovi riuniti in conclave


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La Gola

ottobre 1982

Glossa «Nelle cose grandi gli uomini si mostrano come conviene loro di mostrarsi, nelle piccole, si mostrano come sono». chamfort

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“I vini d’Italia giudicati da Papa Paolo III ( Farnese) e dal suo bottigliere Sante Lancerio ”

Questo documento su alcuni vini italiani, che si dice opera di Sante Lancerio, bottigliere di Paolo 111, è a giusto titolo considerato dagli enologi il primo scritto critico sul­ l’arte della beverìa a uso di quello che Anacreonte chiama ! Oinopòtés. La presente edizione, salvo le note, alcune soppresse, altre inte­ (All’III. et Ecc. Cardinale Guido Ascanio Sforza grate, altre ancora di nuova reda­ della S.R.E. Generale Camerlingo) zione, è stata condotta sul testo stabilito da Giuseppe Ferraro, testo al quale è stato tolto un preambolo diaristico su due viaggi del Farne­ se, uno a Nizza, l’altro da Ferrara in Ancona, scopo del quale era di rendere pubblica la familiarità che il bottigliere vantava col suo signo­ re e che non compare in nessun al­ tro scritto sulla vita di quest’ultimo. Il pamphlet di Lancerio spicca sul­ per stare chez nous, a cose che ci Un accorgimento reso necessario la bibliografia vinaria del suo seco­ sono d’emblée familiari, al tempo perché questo testo, il cui mano­ lo per la sua modernità, per lo stile della rivolta fiorentina contro i Me­ scritto risalirebbe al 1539, di fatto asciutto della scrittura, per la cura dici, avvelenata dai soldi di Filippo ebbe una certa notorietà solo molto riservata agli apprezzamenti orga­ Strozzi, banchiere al servizio degli tempo dopo, sotto il pontificato di nolettici. interessi mercantili di Lione. Giulio 111, a cui invano il Lance­ Opere di altro impegno e com­ A detta di Plinio, che ben cono­ rio, si dice, offrì i propri servizi, plessità sono: la De naturali vinosceva la storia dei vini, da quando essendo questo più interessato al rum historia (1596) di Andrea Bac­ navigavano accanto alle anfore di letto di Innocenzo del Monte, suo ci, più noto come polemista del silphium e venivano quotati alla pupillo, che alle cantine della villa «bevere in fresco» e autore di un borsa del porto fenicio di Tiro, sulla Flaminia. trattato sulla natura e la bontà delle quelli dell’antichità erano 195, di Di Paolo III importa dire alme­ acque del Tevere e di quelle del­ cui più della metà reputati di gran­ no che fu uomo all’altezza dei suoi l’antica Roma; /’Oenologie, di Lade pregio e moltissimi di prove­ vizi e politico degno della propria zar e Meyssonier, del 1636, che de­ nienza italiana. Una tendenza che epoca. Padre felice, non fu sposo ve la sua fama all’appendice di gu­ si consoliderà sotto i consoli Lucio esemplare di quella Chiesa che lo sto swiftiano «Secret pour découOpimio Nepote e Quinto Fabio volle cardinale prima ancora che vrir et surprendre les servantes qui implicitamente, riconoscere l’au­ Massimo, nel momento in cui si de­ prendesse gli ordini religiosi. Gen­ boivent à la cave»; la Historia vitis tenticità del testo di questo botti­ linea la prima mappa vinicola ita­ tiluomo, conosceva i vantaggi della vinique di Rambertus Dodonaeus, gliere di casa Farnese di cui, inve­ liana di cui il testo del Lancerio è buona toletta e le precauzioni con­ edita a Colonia nel 1580; e, last but ce, molto dubitiamo. una delle ultime ricapitolazioni pri­ tro i rischi venerei dei conventi. not least, il De vino et eius proma dell’età moderna. Così, racconta il Lancerio, del prietate di Johann Besickeen e SiLa storia del vino, che non è la sto­ In altre parole, i vini di cui costui Greco di Somma «che voleva che gismund Mayer, reputato, da molti ria della vite, è esemplare perché la tesse lodi e infamie, fatte salve alcu­ fosse di sei o di otto anni per (...) esperti, come il primo libro a stam­ sua cultura corre parallela agli inte­ ne eccezioni, sono quelli che deri­ bagnarsi le parti virili». Usanza bi­ pa sul vino. L ’edizione più cono­ ressi economici a esso connessi, vano da questi «tipi»: il Cecubo, blica che qualche secolo più avanti sciuta è quella tedesca del 1478, avendo un plus che non possiedo­ del golfo di Gaeta; il Falerno, tipi­ i dandies restituiranno alla popola­ edita a Esslingen da Konrad Fyner, no né i cereali e le loro trasforma­ co della Campania; il Pocino, dei rità vantando la superiorità del anche se le edizioni successive sono zioni alimentari, né le carni e il lo­ vitigni di Adria; il Setino, della zo­ S.O.M. (Superior Old Marsala). state tirate a partire dalla traduzio­ ro mercato. Così, le meraviglie di na di Terracina (di questi ultimi Dichiara la maliziosa protagonista ne latina pubblicata a Padova nel ordine vinicolo di questo pamphlet due parla con ammirazione Pli­ di un racconto di The Pearl (A 1482. A d azzardare ipotesi, un’o­ diventano ben altro se sovrappo­ nio); il Retico delle valli adigiane, Monthly Journal o f Facetiae and peretta che di sicuro il Lancerio co­ niamo questa mappa dei vini a secco e asprigno, molto amato da Voluptuos Reading): «Certo che nosceva era il De vini natura di quella dei potentati che dominava­ Cesare; /’Albana, dei colli albani, conosco il sapore del vino di Mar­ J.B. Confalonerius, edita a Vene­ no l’Italia al tempo delle grandi famoso per la sua dolcezza; poi, sala, ma non l’ho mai bevuto!» zia nel 1535, ma ciò vorrebbe dire, guerre fra Carlo V e Francesco 1 o, per tornare in Campania, il Priver-

onosendo 111. et Ecc. mio patrone et benefattore, quanto sia utile alla vita mondana il bere, massime essendo la terza parte del nutrimento cor­ poreo; mi è parso dare alcuna cognitione et diletto a V. S. R., co­ me pure utilità ad ogni medico, nel dire delle qualità dei vini et delle bevande, che alla febee memoria di Sua Santità Paolo III, avolo suo et mio patrone et benefattore, pia­ cevano. Con narrare anco la patria donde vengono all’alma Roma, et li siti dove nascono, et il modo per conoscere la loro bontà come vuo­ le essere, con altri ottimi e perfetti segreti utili ad ogni Prencipe et si­ gnore. Farò anche narrativa delli faticosi viaggi che Sua Santità fece nel suo pontificato, et dove erano li buoni vini et ottimi, et quelli che esso volentieri beveva, con l’espe­ rienza anco da me fatta.

C

Malvagia. La malvagia buona viene a Roma di Candia. Di Schiavonia ne viene la dolce, tonda et garba. Se si vuole conoscere la me­ glio bisogna che non sia fumosa né matrosa 1 ma che sia in colore do­ rato, perché se altrimenti fosse, sarebbe grassa, et il beveria conti­ nuo farebbe alterare il fegato. De le tre sorti usava S.S., la dolce alle gran tramontane a far un poco di zuppa, la tonda per nodrimento del corpo beveva, et della garba usava gargarizzarsi per rosicare la flemma et collera. Imperò rare volte et mattine era, che Suà Bea­ titudine non usasse per uno delli tre effetti. Di tale sorte malvagia usavano far portare da Venezia il Rev. Cardinale Andrea di Casa Comaro, et il Rev. Cardinale An­ drea di Casa Cornaro, et il Rev.

Mons. Arcivescovo di Corfù, che la donava a Sua Beatitudine. Moscatello. Il vino moscatello viene all’alma Roma da più pro­ vince, et per mare et per terra, ma il meglio è quello che viene dalla Riviera di Genova da una villa no­ mata Taglia 2 et quelli non hanno del cotto, come quelli di Sicilia et di Montefiascone. A volere cono­ scere la loro perfetta bontà, biso­ gna non sia di colore acceso, ma di colore dorato, non fumoso et trop­ po dolce, ma amabile, et habbia del cotognino et non sia agrestino. Di tal bevanda non voleva bere S. S. per conto alcuno; et diceva es­ sere fastidioso bere, et li havrìa ge­ nerato flemma assai. Tali vini sono da hosti, per coloro che volentieri corrono alla foglietta 3 et per gli imbriaconi per scaldarsi. Ne pro­ vava alcuna volta S. S. quando si trovava in Montefiascone, per da­ re honore et conditione al luogo. Trebbiano. Il Trebbiano viene in Roma dallo stato fiorentino di Valdarno di sopra, et da molti altri luoghi, ma li migliori sono quelli di San Giovanni et Figghine. La maggior parte si porta in fiaschi colle ceste, et ne vengono anche alcuni caratelli. Questa tale sorta di vino è un delicato bere, ma non a tutto pasto per essere vipo sotti­ le. A volere conoscere la sua per­ fetta bontà, non vuol essere di co­ lore acceso, ma dorato, di odore non troppo acuto, amabile, non dolce, non agrestino, anzi habbi del cotognino. Di questa sorte et di quella bontà come di sopra era­ no molto grati a S. S., ma non a tutto pasto. Di tali vini et di questa bontà faceva venire a Roma Mes-

Scena di vendemmia incisione per l’incunabolo stampata a Spira di Peter Drach 1490 (Accademia dei Georgiofili, Firenze).

ser Bindo Altoviti et li donava a S. S. che volentieri li bevea nello Au­ tunno, fra la nova et vechia stagio­ ne. Greco di Somma. Il Greco di Somma viene alla Ripa Romana dal Regno di Napoli, dalla monta­ gna di Somma, distante da Napoli dodici miglia. Questi sono vini molto fumosi et possenti, et a tutto pasto si potrìano bere, ma offen­ dono troppo il celabro massime alli principii, ma ci sono delli stoma­ chevoli et non fumosi4 et odorife­ ri. A volere conoscere la loro perfettione bisogna siano non fumosi et vogliono havere color dorato, stomachevole et odorifero. Tal vi­ no ama assai, la chiara, più che altra sorta di vino. S.S. usava di

continuo beveme ad ogni pasto, per una o per due volte, quando era nella sua perfettione et anchora ne voleva nelli suoi viaggi. Sì perché tale vino non paté il trava­ glio, sì perché ne voleva per ba­ gnarsi gli occhi ogni mattina, et anco per bagnarsi le parti virili, ma voleva che fosse di 6 od 8 anni, che era più perfetto.

nate e il Signino, intorno a Napoli; il Massico; il Caleno; il Sorrenti­ no; e il Fondano. Scendendo a sud troviamo: il Mamertino, un classico siciliano messinese, e il Tauromitano, delle vigne intorno a Taormina; i cala­ bresi Serviziano e Cosentino; i lu­ cani Turino e Lagarino; /’Ancone­ tano, il Palmense e il Cesenatico della costa adriatica; i toscani Lunense e Graviscano; e il veneto Adriano; infine le grandi famiglie della Malvagia, originaria di Creta e Cipro, e della Vernaccia tanto ca­ ra a Martino TV, centonovantesimo papa, di origine francese, che Dan­ te colloca fra i golosi, in Purgato­ rio, per il suo amore smodato per le «anguille di Bolsena e la Vernac­ cia». (Noti il lettore che qui parlia­ mo di mappe «vinicole», tutt’altra è la storia «viticola»). Per tornare al Lancerio. diciamo che i suoi meriti sono tutti nelle sor­ prese retoriche della sua scrittura e nessuno nella sua onestà di giudi­ zio, visto gl’interessi che serve e che lo rendono troppo simile ai cantinieri dei giorni nostri. Égli, in altri termini, è l’inventore di quello stile, oggi corrente, che fa di un sommelier un funambolo del lin­ guaggio denotato (da qui l’impor­ tanza di ripubblicare questo docu­ mento). Un Cocteau della bona bevedrise, come scrive Rabelais. Conosce Lancerio la supremazia del significante? Parrebbe di sì a stare all’abilità con cui usa la meta­ fora, la sineddoche e soprattutto l’attelage, la metonimia e la proso­ popea. Questi giochi semantici compaiono soprattutto nei punti nevralgici del suo discorso, là dove egli difende l’indefinibile, là dove c’è una fuga incessante del signifi­ cato e della verità. In tutto questo egli è maestro nonostante la pover­ tà del vocabolario e la mancanza di quelle preziosità tassonomiche che hanno fatto la fortuna di quelli che l’hanno seguito su questa strada. Dicono astutamente i vignerons di Francia: «Bon vin fait parler la­ tin». (Piaccia al bevitore di birra conoscere la risposta del suo parti to: «Wein redi viel aber bòs Latein»). Gianni-Emilio Simonetti

chie, o vuoi dire di Braccioli di le­ gname di nocciuole, o in Latino di avellane. A volere conoscere la sua bontà e perfettione, bisogna che prima habbi colore incerato, sia dolce et mordente et non sia lapposo. Di questa sorte et perfet­ tione et bontà era molto grato a S. B. Et certo è un dilicato bere, sì per Signori quanto per famiglia, ma dal colore fanne prova.

Greco di Posilico. Viene dal Re­ gno di Napoli alla Ripa Romana da una villa chiamata Posileco, sotto la montagna di Somma 5, et di tal vino ne viene poco. Tale vi­ no è più piccolo assai del Greco di Somma, et è un delicato bere, ma rispetto alla sua dilicatezza patisce assai il mare nel navigarlo, et la state nelli grandissimi caldi, molte volte si guasta. Di tal vino S. S. quando ne poteva havere, faceva honore al vino. A volere conosce­ re la sua perfettione e bontà biso­ gna non sia agrestino, né grasso, anzi odorifero, di colore dorato et maturo, et se fosse altrimenti non sarebbe buono. Ama ancor esso la chiara come il Greco di Somma, ma non così gagliarda. Ma se si vuole conoscere il buono innanzi che si pigli dal luogo o di barca, facciasi la prova se resiste al colo­ re, et resistendo sarà buona be­ vanda.

Greco di Nola. Ne viene di raro a Roma. Nola è città del Regno di Napoli. Tal vino non è buono per­ ché è matroso, grasso, opilativo. È verdesco, grasso et agrestino et muta di colore. E ben vero che quando era l’annata asciutta, Mons. Capo Bianco, collettore del Regno delle Decime, ne mandava qualche volta a donare a S. B., ma non è buona bevanda.

Greco d’Ischia. Viene dalla Ri­ pa Romana da un’isola così nomi­ nata, poco distante da Napoli, et è il primo vino nuovo che venga alla Ripa Romana. Tali vini sono mol­ to lapposi, et quando si trovano che non siano così lapposi, è un delicato bere a tutto pasto. Ben è vero che malvolentieri si chiarisco­ no, se non se li fa concia di Tac-

Greco di S. Gémigniano. È una perfetta bevanda da Signori, et è gran peccato che questo luogo non ne faccia assai. Che così come il sito è buono et ben posto, et ben dotato, di virtuosissimi huomini, Dottori, Notali et Maestri di Grammatica, così dovrebbe essere abbondante di vigne, da fare tale sorte di vino più che non fa. S.

Greco della Torre. Viene da una terra così nominata, non troppo distante da Napoli, vicino alla ma­ rina. Di tal vino non è manco la grandezza di quello di Somma. Ma sono quivi i vini secondo l’annata, et quando non è buona, mutano di colore e si fan neri, ma quando è buona sono buoni, ma non da Si­ gnori, né da prelati, ma da fami­ glie e da fomaciari. Di tali vini S. S. non volse mai bere.


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Gemigniano è una terra grandissi­ ma nello stato fiorentino. Di que­ sto vino ogni anno neirautunno ne facevano portare in Roma, a some con grandissime fiasche i Rev. Santiquattro di casa Pucci e li do­ navano a S. S. Il vino ha in sé perfettione, in esso colore, odore, sa­ pore, ma volendo conoscere il buono non vuole essere agrestino, anzi avereni del cotogno come il Trebbiano, et sia maturo pastoso et odorifero. In questo luogo ci so­ no anche di buonissime vemacciuole, et di questa bevanda gusta­ va molto S. S. et faceva honore al luogo. Il Vino Chiaretto. Viene da una terra denominata Chiarella nella provincia di Calabria distante dal mare tre miglia. Questo vino è molto buono et era stimato da S. S. et da tutti li prelati della corte. Ne vengono assai, i quali si vendo­ no per Chiarello, ma volendo co­ noscere se siano di Chiarella, et la loro perfetta bontà, bisogna che sia di colore acceso più che l’oro et odorifero assai, che non odorando sarebbe di Grisolia od.Orsomazzo, luoghi vicini, ancorché alla Ripa si vendano per Chiarelli. Di tale sor­ te vino tutto l’anno beveva S. S. et lo cominciava a bere dal principio di marzo per tutto l’autunno. Et non ha bevanda pari, ma volendo­ lo salvare alla stagione d’autunno, bisogna si pigli alla barca nella pri­ mavera, et mettisi in luogo fresco et che non senta travaglio, et pi­ gliarlo crudo, odorifero et grande, ché il caldo lo maturerà. La Centula. Viene da una villa così nominata in Calabria. Detto vino è alquanto più piccolo del Chiarello, ma è del medesimo co­ lore, et è più crudo et lapposo. E un dilicato bere l’estate alli gran caldi, e non ha pari bevanda la se­ ra a tutto pasto, dal primo di mag­ gio per tutto agosto. Di questa sor­ te di vino S. S. ne bevea volentieri. A volere conoscere la sua bontà e perfettione si deve avvertire non sia lapposo anzi maturo, se si vuo­ le bere presto. Et volendolo salva­ re per l’estate, bisogna pigliarlo crudo di barca, ché il caldo lo ma­ tura, et metterlo in cantina a frescho, altrimenti sobbollirà, et que­ sto procede dalla sua delicatezza. Ma vuole essere da Centula, non da Cilento o Pesciotta (circondario di Vallo, prov. Principato Citer.), che li marinari spesso vendono tali vini per Centula, ma all’odore si conosce la Centula, che ha odore più soave. Il Vino Corso. Viene da un’isola nominata Corsica. Tali vini sono molto grandi et fumosi, ce ne sono delli dolci assai et degli asciutti, sono vini da famiglia più che da Signori. A volerli conoscere nella loro perfettione, vogliono essere non dolci né asciutti, anzi amabili con odore, colore, et sapore. Il co­ lore dorato, il sapore cotognino et mordente et di odore non fumoso. Quandosia in mosto, il colore vuo­ le essere impagliato e non verdesce, perché sarebbe grasso. Si tro­ vano alcuni vini asciutti massime di Pietranera o di Brando, che fan­ no bellissima et buonissima prova la state, che quando l’agresto co­ mincia a maturare, gli altri vini corsi tutti cominciano a mutare et farsi forti, ma questi no. Di questa sorte beveva alcuna volta volentie­ ri S. S., quando era nella sua per­ fettione come sopra, massime in quaresima. Il corso d'Elba viene da un’isola non molto distante dalla Corsica. E tali vini sono molto più piccioli, hanno colore verdeggiante, sono grassi, matrosi, et volentieri si fan­ no acetosi. Questi sono ancora delli primi vini novi che vengono a Ripa, siccome quei d’Ischia. Tal sorte di vino è da famiglia et non da Signori et Prelati.Il Il Vino di Giglio. Viene da un’i­ sola vicina all’Elba. Tali vini "sono più rossi che bianchi, et sono mol­ to carichi di colore. Molto tempo è che a Roma non sono stati condot­ ti tali vini, né se ne condurranno, perché li Maomettani guastarono

La Gola

in tale maniera quest’isola, che è disabitata. Et questo fu nella pas­ sata di Barbarossa nell’anno 1545 et ancora dalli medesimi un’altra volta nel 1503. Il Vino di Portercole viene da un porto et villa nel Monte Argenta­ re, et rare volte sono buoni, ma quando sono nella loro perfettione non è pari bevanda, massime quel­ li della vigna che fece piantare Agostino Chigi senese. Il sapore di tale vino vuole essere amabile et non fumoso, et habbia del suo mo­ scato, perché in tali vigne sono as­ sai moscatelli. Il vino vuole havere colore dorato et non grasso né agrestino, atteso che per la delica­ tezza presto si farebbe forte. Tale sorta di vino era molto grata a S. S. et a molti Prelati. Et quando si trovava nella sua perfettione S. S. faceva honore al vino, massime al­ l’inverno. E t quando S. S. lasciò il mondo ne beveva, et più volte dis­ se non havere havuto nel suo pon­ tificato migliore né pari bevanda. Ma dubito che per molto tempo a Roma non ne venirà, rispetto alli soldati che hanno tagliate quasi tutte le vigne 6. Grandissimo pec­ cato! Il Vino di Riviera viene da più luoghi della Riviera di Genova. Tali vini sono molto buoni et è un delicato bere massime la state. Ma per la loro delicatezza spesso, et bene presto levati di barca, si fan­ no forti. Sono di una terra della Taglia, dove fa il buono moscatel­ lo, et ancora Onelia, ma Monte­ rosso, una delle Cinque terre, fa meglio assai. Sono bianchi et rossi, ma meglio li bianchi. Tale sorta di vino è alquanto più grande del Centula, ma la maggior parte mu­ ta di colore, et a conoscere la sua bontà bisogna sia odorifero, matu­ ro, di colore dorato. Et avanti che si levi di barca si vuole fare la pro­ va del colore. Di tale vino S. S. alcuna volta beveva et eragli grato il rosso. Mons. Puliasca ne faceva venire in piccoli Botticelli, et ne

questo luogo dove fa tale vino, usano farlo dolce sopra la vite, quando l’uva è matura col pigliare il racemolo 7, et lo storcono et poi lo lasciano attaccato alla vite per 8 giorni, et coltolo fanno vino buo­ no et perfetto. Il Latino bianco viene dal Re­ gno di Napoli da una terra detta la Torre. Et è da sapere che general­ mente in fra li mercanti et marina­ ri, tutti li vini si domandano Lati­ ni, eccetto Greco Moscatello, Mangiaguerra, Corso, Razzese. Il vino Latino è picciolo e grasso. Ne sono alcuni non grassi et è delicato bere, ma non si fanno mai chiari, senza aiuto di Tacchia. A voler co­ noscere la sua bontà deve essere amabile, grande et mordente, et resta a fare la prova del colore che rari restano, et restando si haverà buona bevanda per lo verno, che alli gran caldi non si salvano per la loro delicatezza. Di tali vini S. S. per conto alcuno non voleva bere,

et diceva essere grassi, opilativi, catarrosi et flemmatici assai. Il Vino Terracina. Viene da una città così nominata nelli confini della Chiesa, con il Regno di Na­ poli. Tali vini sono rossi et è un buon bere massime la state, quan­ do il vino è nella sua perfettione. A volere conoscere la sua bontà, bisogna che sia di colore dorato, di odore non fumoso né agrestino, et

le vigne di Casa de’ Monti. Benché il vino Romano non sia buono molto, rispetto al terreno grasso sono come è detto alcuni buoni. Et è delicato bere massime la quaresi­ ma. A volere conoscere la sua bontà, bisogna che sia pastoso, non fumoso, né agrestino. Tali vi­ ni amano la concia di Tacchie et altre alla Romanesca. Usano met­ tervi Zolfo et Cipresso, Canella, Garofani, fiori di Sambuco, cose molto in detrimento dei corpi. So­ no alcuni che per salvarli la state, usano metterci vino cotto. Di tal vino S. S. non beveva volentieri et diceva essere mala bevanda et tri­ sta per lo stomaco. Il Vino Siciliano. Viene dall’iso­ la così nominata. Ne vengono di più sorti et da più luoghi di detta isola, bianchi et rossi, ma general­ mente più bianchi che rossi. Li bianchi hanno un colore bellissimo et odore grandissimo, ma come se li mostra l’acqua, subito perde il suo profumo et odore ed ogni po­ ca acqua, l’ammazza. È buono be­ re il rosso nell’autunno, et il bian­ co alli caldi grandissimi. Ma hanno un difetto, che alli caldi sobbollo­ no, et alli freddi imbalordiscono et mutano di colore, ma non già che si facciano forti, che alli tempi fre­ schi ritornano nel loro pristino sta­ to. Di tale vino S. S. non beveva se già non fosse stato del rosso scari­ co di colore, ancorché nel suo Pontificato pochini venivano alla Ripa. Molto meglio sono quelli di Palermo che di altri luoghi di que­ st’isola, sicché sono vini da fami­ glia. Il Vino Mazzacane. Così è detto dal volgo, ma si doverla chiamare Massquano (Massalubrense prov. di Napoli), da una villa chiamata così. Ne viene ancora da Vico et da Sorrento, ambe città del Regno di Napoli. Per esperienza sono mi­ gliori quelli di Sorrento che quelli di Vico, rispetto al sito più sassoso et montuoso. Ne vengono delli bianchi et delli rossi. E un dilicato

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hanno pari per fare il Raspato, so­ no grandissimi e dolci, et sempre mantengono loro dolcezza. A vo­ lere conoscere la loro bontà et il meglio, vogliono essere più carichi di colore che sia possibile et sia grande et dolce. Tali vini sono da famiglia. Da qui anchora viene grandissimo vino chiama Falsamico, et è rosso, et molto perfetto, et di questa sorte S. S. usava bere alcuna volta. Nientedimeno diceva tali vini essere da Prelati né da Si­ gnori, ma da famiglia et da stoma­ chi gagliardi. Il Vino Asprino 8 viene da un luogo vicino a Napoli. Li migliori sono quelli di Aversa città unica et buona. Ce ne sono delli bianchi et delli rossi, ma questi sono meglio. Tali vini sono molto crudi, sono vini da podagrosi. L’estate è sana bevanda. Di questa sorta S. S. usa­ va bere alcuna volta per cacciare la sete avanti che andasse a dormire, et diceva farlo per rosicare la flem­ ma. A volere conoscere la sua per­ fetta bontà vuole essere odorifero, di colore dorato, et non del tutto crudo. Volendolo per la state, bi­ sogna metterlo la primavera nella cantina, et sia si crudo che il caldo lo maturi, et prima faccisi la prova del colore. Tali vini sono stimati assai dagli osti, che li Cortigiani et Cortigiane corrono volentieri alla foglietta. Anco questo vino è loda­ to dai Medici, sicché è buono. Il Vino del Ciragio 9. Viene da una Villa così nominata nella Provintia di Calabria, distante dal ma­ re molte miglia et è luogo montuo­ so et sassoso. È rosso et è molto perfetto et grande, ma è molto scarico di colore. Raro ne viene a Roma perché Don Pedro di Tole­ do già Viceré di Napoli se li faceva condurre nelle sue cantine per sua bevanda, dove che gli altri Viceré hanno pigliato tale costume. Detto vino è molto soave et buono, et ha odore, colore et sapore. Quando S. S. poteva havere di tale vino faceva honore al luogo et molto li soddisfaceva. A. volere conoscere la sua bontà vuol essere odorifero et maturo et non agrestine, et di colore non acceso né in tutto scari­ co, et così si havrà buona bevan­ da. Il Vino Pesciolla. Viene da una Villa così nominata vicino a Cen­ tula, nella Provintia di Calabria. Tali vini non sono buoni. Sono vi­ ni di famiglia et sono carichi di co­ lore, ma bianchi, et subito che si cavano dalla botte, mutano di co­ lore et si fanno neri. Sicché non dirò altro di questo vino che: la­ sciamolo bere alli famigli. Il Vino Calabrese. Viene da più parti et luoghi della Calabria. Di tali vini non mi stenderò molto nel dire le loro qualità, perché non so­ no vini da Signori. Dirò solo della scalea, che è molto buona ancora che se li faccia un poco di conserva di cotto. Et molti hosti lo vendono per Chiarello et molti di loro lo comprano per il simile. Ce ne sono di altri luoghi come a dire Castello dell’Abbate, San Giovanni Apino, Orsomarzo, Acciaiuolo il Bianco, et molti di altri luoghi, ma tutti so­ no vini da famiglia.

Da G.M. Mitelli, Esemplare per disegnare, 1699 c. donava a S. S. et il simile faceva il Rev. Ambrogio Doria, che ne mandava dello amabile et perfet­ to. Il Vino Razzese. Viene dalla Ri­ viera di Génova et il meglio è di una terra detta Monterosso, et è vino assai buono. Et è stimato as­ sai in Roma fra li Genovesi, come fra li Venetiani la Malvagia. Ne vengono in Roma piccioli caratel­ li. A volere conoscere la sua per­ fetta bontà, bisogna che sia fumo­ so et di grande odore, di colore dorato, amabile et non dolce. Tali vini non sono da bere a tutto pa­ sto, perché sono troppo fumosi et sottili. Di tale vino S. S. non beve­ va, ma alcuna volta alle gran tra­ montane faceva la zuppa, ovvero alla stagione del fico buono, man­ giatolo mondo et inzuccherato, gli beveva sopra di tale vino, massime del dolce et amabile et diceva esse­ re gran nodrimento alli vecchi. In

sia non in tutto ma in parte crudo, perché volendolo per la state il cal­ do lo matura, ma prima si facci la prova del colore. Di tal vino S. S. beveva alcuna volta nel mese d’a­ gosto, et ne havria bevuto in set­ tembre, ma nel suo Pontificato non si trovò mai di tale mese in Roma. S. S. diceva essere buona bevanda massime la sera alli gran­ dissimi caldi. Sono ancora questi vini stimati assai dalli cortigiani, sì ancora dagli Osti, perché si ac­ compagnano col Romanesco et pi­ gliano concia di chiara. Et volen­ tieri li Cortigiani, Notari et Copisti corrono la sera per la foglietta. Il Vino Romano. Non accade narrare in che parte faccia e d’on­ de venga, pure li migliori sono quelli che si fanno fuori la Porta San Pancrazio o incirca, sì ancora fuori della Porta Sant’Agnese; so­ pra il Monte nella Vigna del Car­ dinale Poggio, et al presente tutte

bere tale sorta di vino, rispetto alla sua piccolezza, massime per le donne, per podagrosi et ammalati. Tale vino ancora che sia piccolo ha odore, colore, sapore, et se non fosse che alcuni mutano di colore non saria pari bevanda la state. A volere conoscere la sua perfettio­ ne, bisogna che si pigli di barca crudo, habbi color dorato, odore fumoso, e del colore fa prova. S. S. ne beveva volentieri la state ai gran caldi, massime alla sera per cacciare sete, sicché è vino da Si­ gnori. Il Vino di Pavola. Viene da una terra così nominata e da una villa detta San Noceto, nella provincia di Calabria. Detto vino è molto buono, et è fumoso et grande. Et questo procede dalla Vernaccia che in questo luogo fa, et la misticano con tali vini. La sorta di tali vini non ha mai bel colore, non è né bianco né rosso. Tali vini non

Il Vino Coda di Cavallo. Viene dal Regno di Napoli da quei casali o ville, circonvicine a Nola città. Tale vino è molto dolce et buono, et quando non muta di colore non ha pari bevanda il verno. E do­ mandato coda di cavallo, rispetto all’uva che fa il suo racemolo ov­ vero Rampazzo, come una coda di cavallo. A voler conoscere la sua perfettione, vuole essere morden­ te et dolce, et habbi del cotognino, et non sia né agrestino né grasso. Et bisogna fare la prova del colo­ re, perché sogliono la più parte mutare di colore et restando il co­ lore, si haverà buona bevanda. Di tale vino S. S. beveva volentieri et massime che Mons. Capobianco Collettore nel Regno usava gran­ dissima diligenza di havere del buono, et lo mandava a S. S. quando era nella sua perfettione, et S. S. faceva honore al luogo. Il Vino di Monterano. Si porta


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all’alma Roma per terra da un ca­ stello così chiamato, distante da Roma una'grande et grossa gior­ nata. Questo è un castello antico di casa Orsina et vi è una grandis­ sima selva domandata Lamantiana. Questo vino è tanto buono, che a volere narrare la sua propria bontà et scrivere assai, sarei trop­ po lungo et non potrei tanto scri­ verne et laudarlo, quanto più me­ rita essere laudato. Tale vino cre­ do certo, secondo il mio giudizio et la mia esperienza, non habbi pa­ ri bevanda in tutta Italia. In questo vino sono tutte le proprietà che possa et debba havere un vino, in esso è colore, odore et sapore, l’o­ dore di viola mammola, quando comincia la sua stagione, il colore è di finissimo Rubino, et è sapori­ to si che lascia la bocca, come se uno havesse bevuto o mangiato, la più moscata cosa che si possa. Es­ so ha una venetta di dolce con un mordente tanto soave, che fa lagri­ mare d’allegrezza, bevendolo. Es­ so è digestivo, esso aperitivo, esso nutritivo et cordiale, sicché secon­ do me un signore non può bere migliore bevanda (in Roma) di questo vino. Di tale vino se ne può bere assai a tutto pasto, che mai non fa male, anzi ancorché sia ros­ so, purga il ventre sicché bevuto è digestivo. Et questo credo che proceda, che il terreno dove si piantano le vigne è molto forte e tufato, et è luogo calido rispetto alle grandissime selve che lo cir­ condano, et anco in molti luoghi il terreno, per sua calidità, sente il zolfo. Ci sono in questo luogo edificii antichissimi, dove si conduce­ va et si faceva la miniera di zolfo. Ci sono alcuni vinetti asciutti che, nel luogo et alla state, è delicato bere, ma per tanta delicatezza quando sono i grandissimi caldi si sobbolliscono, a chi non li mette nelle grotte calde l’inverno et la state freddissime, ma non già che questo sobbollito si facci forte. Di tale sorte di vino S. S. beveva vo­ lentieri et assai, et cominciava a berne alli primi vini novi. Et il principio era a San Martino che prima non havria provato vino no­ vo, non che bevutone, et conti­ nuava a bere a tutto il maggio delli dolci, et anco se si salvavano, ne beveva a tutto luglio. Et gli asciutti beveva nella stagione rimanente, et faceva honore al luogo. Di tali vini molti Prelati vorriano bere, ma per essere il luogo picciolo vi si fa poco vino, onde bisogna che es­ si h abbino patienza. A tal vino ha dato nome et meritamente S. S., insieme col Sig. Conte dell’Anguillara padrone di detto luogo una volta, et al presente ne è pa­ drone l’Illus. Sign. Paolo Giorda­ no Orsini, Conte d’Anguillara et di Bracciano. Io non mi sazierei mai, né potrei dare tante lodi al detto vino, quanto è meritevole la bontà et perfettione sua ma lascerò luogo all’esperienza, et al vino la sua bontà, per non affaticarmi a cosa impossibile. Il Vino Sucano. Viene da Roma per schiena di muli et per some. Tali vini sono per la maggior parte rossi, et è perfettissimo vino sì per il verno quanto per la state. Suca­ no è un castelletto distante da Or­ vieto due miglia, et dopo il vino Monterano non ha pari bevanda per vino rosso. Tali vini sono odo­ riferi, bellissimi et polputi più che il Monterano, ma non hanno tanto odore. A voler conoscere la loro perfettione, vuole essere odorife­ ro, bello et non agrestino. Ci sono delli bianchi molto perfetti per il verno, con una vena di dolce, ma vogliono essere mordenti non grassi, né matrosi. Volendo il ros­ so per la state,, si vuole pigliare crudo, et sia di vigna vecchia, ché la vigna vecchia ha questa proprie­ tà, che se fa il vino amabile lo mantiene, et se lo fa asciutto lo mantiene; la giovane fa il contra­ rio. Di questo vino S. S. beveva volentieri, massime quando era in Orvieto. Il capitano Jerónimo Benincasa faceva buona provvisione, et la faceva portare a Roma et in viaggio. Il Mangiaguerrci. Viene dal Re­ gno di Napoli et è rosso; ne vengo­ no da Castellamare e da Anglia.

Tale vino è dolce assai et molto carico di colore, rispetto alla ven­ demmia tarda che si usa in cotali luoghi dove non si può vendem­ miare per insino a San Francesco, che così è statuto antico. Tale vino è possente et è matroso et opilati­ vo assai. Sono vini da hosti et da imbriaconi. Alcuni non sono di quella grandezza et di quel colore, et Cortigiani et Prelati ne potrìano bere, ma sono in generale vini da Cortigiane per incitare la Lussu­ ria. Di tale vino S. S. non beveva mai rispetto alla loro pienezza, et diceva essere opilativo et generan­ te la flemma grossa et motivo di catarro, sicché è mala bevanda. Il Vino di Salerno. Viene da tale città nel Regno di Napoli. Tali vini sono per la maggior parte rossi, ce ne sono del non tutto bianchi, ma sono ciregiuoli. Questa è una sorta di vino molto delicato, e ricercato tanto il verno quanto la state, da Prencipi et da Prelati. A volere co­ noscere la sua perfettione et bon­ tà, prima vuole essere odorifero, et che non sia carico di colore, ma scarico, et che sia polputo et pa­ stoso, non dolce ma tondo, dico il rosso. Il bianco vuole essere cru­ do, grande et odorifero et più sca­ rico di colore che sia possibile. Di tali vini S. S. beveva volentieri quando era nella sua perfettione, massime della qualità della Abba­ zia che hanno quelli di casa Riario vicino a Salerno, sicché sono vini da Signori et è buona bevanda. Il Vino Santo Severino. Viene dalla detta città nel Regno di Na­ poli. Tali vini sono del medesimo sapore et colore del Salerno, ma più crudi, et la state sono ottimi. Sono assai stimati dalli Prelati podagrosi, et anco dagli hosti e dai cortigiani, per cacciare la sete. Ce ne sono delli bianchi et delli rossi, ma rari sono li rossi, imo sono ci­ regiuoli. A volere conoscere la lo­ ro perfettione bisogna che il rosso non sia troppo carico di colore, et il bianco non vuole essere total­

bevea volentieri, massime quelli scarichi di colore, che erano mor­ denti, pastosi et non matrosi. Sic­ ché a me pare che non facciano la prova, et non siano in bontà come sono stimati nel luogo. Ma sono buoni pei Francesi per rosicare lo­ ro la collera, sicché in Roma non sono vini da Signori.

Di tali vini S. S. non volse mai be­ re per niente.

Il Vino Aglianico. Viene dal Re­ gno di Napoli dalla montagna di Somma, dove si fa il buon Greco. Tale vino è rosso, et non è manco grande et fumoso del Greco, mas­ sime quando si fa la vendemmia asciutta. Tali vini sono anco cari­ chi di colore, et ne sono delli di­ scarichi molto migliori et più pa­ stosi. A volere conoscere la loro perfettione, vuole essere odorifero di poco colore et pastoso. Di tali vini S. S. beveva molto volentieri, et dicevali bevanda delli Vecchi, rispetto alla Pienezza.

Il Vino Fistignano. E rosso et viene dal Regno di Napoli, da un luogo sotto la montagna di Som­ ma. Tale vino si domanda Fisti­ gnano rispetto la sorte o viticcio dell’uva. In questo luogo sono vi­ gne arborate et uva assai rossa et dolce, et fa il vino maturo et dolce et carico di colore. Ci sono anco degli asciutti e sono ottimi vini. A voler conoscere la loro perfettio­ ne, vuole essere scarico di colore, et habbia polso cioè sia gagliardo, né molle né matroso, et sopra tut­ to habbia odore. Di tali vini S. S. beveva volentieri e gli faceva ho­ nore. Il meglio vino che si faccia, è della possessione di Mons. Dome­ nico Terracina, ma raro viene a Roma, perché i Viceré lo vogliono per loro, et certo è buona bevan­ da.

Il Vino di Salutio. Salutio è in Piemonte et ha vino molto perfet­ to, ma per li tanti travagli che ha da condurlo alla marina, patisce assai. Di questi vini raro si trova in Roma, m aGil Signor Card. d’Ariminis, per un suo Abbate di detto luogo, alcuno anno ne haveva qualche caratello et ne faceva gu­

Il Vino nominato Lagrima. 11 Per tutte le parti del mondo dove si fa vino, si può fare. Si fa nel Regno, et viene da più casali et luochi della montagna di Somma. Si domanda Lagrima perché alla vendemmia colgono l’uva rossa, et la mettono nel «palmeto» ovvero «lina» ovvero alla romana «va­ sca». Et quando è piena, cavano innanzi che l’uva sia bene pigiata il vino che può uscire, et lo imbotta­ no. Et questo domandano Lagri­ ma, perché nel vendemmiare, quando l’uva è ben matura, sem­ pre geme. Ne viene a Roma poco, ma il meglio è quello della monta­ gna di Somma. A volere conosce­ re la sua bontà, non sia del tutto bianco, sia odorifero, mordente, polputo et del colore si faccia pro­ va. Molti lo falsificano con vino bianco et rosso mistiati, et a Roma lo vendono per Lagrima, ma spes­ so si fa giallo. S. S. ne beveva vo­ lentieri et della possessione del detto Mons. Domenico. Il vino dello Stato degli Illustris­ simi Farnesi, miei padroni, è per la maggior parte rosso, et ancora so­

Stampa bolognese del ’600 (da F. Curii, G.M, Tamburini, Virtù et arti esercitate in Bologna, 1640 c., In alto: Scena di vendemmia, incisione per l’incunabolo stampata a Spira da Peter Drach, 1490 (Accademia dei GeorgiofUi, Firenze)

mente bianco, perché seria grasso vino, et vuole essere crudo, per­ ché alli gran caldi matura. Di tali vini S. S. non beveva, ma diceva essere buoni per li Podagrosi, per assottigliare li humori grossi. Sic­ ché sono vini da huomini che le feste giocano alla piastrella, et poi corrono volentieri alla taverna per la foglietta. Il Vino Francese. Vengono da più luoghi, da Avignone di Pro­ venza, da Biona 10e da Linguadoc. Tali vini raro sono buoni, perché patiscono il mare, sono anco ma­ trosi et sentono di corame, o vuoi dire di stivali, et anco di terreno, massime quelli di Provenza. Ci so­ no alcuni vini claretti di Avignone, che sono molto buoni, ma sono sottili. Di tali vini S. S. non beveva mai, se non di certi vini buoni et stomachevoli, che venivano da Carpentras, li quali il Rev. Card. Sadoleto, vescovo di detto luogo, mandava a donare al papa che li

stare et bere a S. S. che assai gli piaceva. Il Vino di Spagna. È condotto alcuna volta in Roma, quando al­ cuna nave capita a Civitavecchia che venga di Spagna, et poi si con­ duce per barca alla Ripa, ma rare volte. Tale vino è fumoso et pos­ sente, et credo che molti Spagnoli che bevono acqua, lo faccino per non guastarsi lo stomaco con tale vino. Tali vino sono rossi et molto carichi di colore, et per farli scari­ chi usano mettervi gran copia di gesso, et così si fa alquanto scarico et di bel colore, ma è cosa di molto detrimento allo stomaco et al cor­ po. Li bianchi sono rari, ma sono alquanto più piccoli. Nondimeno non sono vini da Signori, ma da famigliali, et vogliono acqua assai, rispetto alla loro grandezza. Dico­ no molti Spagnuoli salvarsene per cento anni, in certi vasi di terra grandissimi et sotto terra, sicché sono vini da lasciarli bere a loro.

no generalmente tutti buoni. Ben è vero che ci sono delli rossi trop­ po carichi di colore. Sono di più luoghi et ville et castella. Ma per dire solo li migliori et per espe­ rienza sono questi cioè: Gradde, Istia, le Grotte. Quelli di Istia so­ no migliori, et quelli massime di una vigna che S. S. in minoribus fece piantare, domandata S. Ar­ c an g elo vicino alla porta della Terra. Di questa vigna esce bianco et rosso, ma meglio è il rosso. Quelli delli Terrazzani sarebbero buoni, perché il sito è atto, se non vi mettessero dell’acqua. Et la Ba­ lia Gregoria ogni anno ne faceva fare nelle sue vigna per S. S. Sono anche a Gradole di perfetti vini massime della vigna del Fanuzzo, di Vico, di Cecco calzolajo, et di una vigna che il Duca di Castro fece piantare del Vitame di Mon­ terano; è vero però che non fa il vino di quella bontà. Ma le Grotte fanno ottimi vini, tanto bianchi quanto rossi, et molto meglio sono

la state che il verno, massime il bianco, ma vuole essere di vigna vecchia. Qui vicino è un luogo det to il Borghetto, che Mons. Matteo Palmerino fece piantare di buone viti, che col tempo faranno ottimi vini. Tali vini resistono assai, nel trasportarli in fiaschi et in barili a Roma, ma bisogna far prima la prova del colore. Lascio giudicare al Lettore se erano grati a S. S. et se gli piacevano, prima per la dol­ ce patria et bello stato, poi per l’affettione di havere piantata la vigna. Et certo sono perfetti vini Ci sono di molti altri castelli, cioè Capodimonte che non fa malo vi no, ma per essere luogo acquoso di state non durano et sono molli. C’è una bella vigna che S. S. fece piantare et non fa mal vino. Marta fa buon vino, et Canino fa vini as­ sai, ma meno buoni, Valentano non lo fa tristo. Certo Casa Farne­ se si può laudare, di havere nello stato novo et vecchio Il12 buona be vanda. Il Vino di Montepulciano. È perfettissimo tanto il verno quanto la state, et meglio è il rosso la sta­ te, io ne sono certo. Tali vini han­ no odore, colore et sapore, et vo­ lentieri S. S. ne beveva, non tanto in Roma dove gli erano portati in fiaschi, ma ancora in Perugia Marcello Cervino, poi papa et do­ mandato Marcello II, che non re­ gnò se non venti giorni, et Tarugio Tarugi, Senatore romano, faceano a concorrenza chi di loro donava il meglio. Volendo conoscere la bontà di questo vino, vuole essere odorifero, polputo, non agrestino né carico di colore. Volendolo per la state alli caldi grandi sia crudo, et di vigna vecchia. Di questa sor­ te S. S. beveva volentieri, et face­ va honore al vino et presente al Donatore, sì in Roma come in Pe­ rugia, sicché è vino da Signori. Montepulciano è nello Stato fio­ rentino. Il vino Invrejia è perfetto vino e molto più il rosso che il bianco. Invrejia13 è città di Pie­ monte dove gli 111. Cardinali di Ca­ sa Ferrerò ne facevano venire a Roma et ne donavano alcuno bot­ ticelle a S. S. Detto vino è molto perfetto, ma per li tanti travagli che si hanno per condurlo alla ma­ rina di Savona et di poi a Roma, lascio giudicare se può patire. Cer­ to credo che se non fosse tanto il travaglio che ha, non sarebbe pari bevanda. Tali vini sono molto odoriferi et delicati. Essi erano molto grati a S. S. che faceva mol­ to honore al Donatore. Sono otti­ mi quelli di una villa detta la Ca­ pellina, et anco di Piverone, ma certo quelli della Capellina sono li migliori. Di tali vini S. S. beveva volentieri nello autunno, perché resistevano alla state et il caldo li maturava, sicché è un’ottima et perfetta bevanda da Principi et Si­ gnori. Il Vino di Casentino dello Stato fiorentino è la maggior parte ros­ so, et sono perfetti vini. Di questo vino, ogni anno, li frati dell’Ere­ mo di Camaldoli ne portavano in barili per una o due botti, et lo donavano a S. S. che lo beveva vo­ lentieri. Il vino è molto buono, ma alquanto carico di colore et è cru­ do. Di tale vino S. S. beveva a pa­ sto mai, ma la sera sì quando an­ dava a letto, perché li rosicasse la flemma et restringesse il catarro, massime nel mese d’ottobre, fra li vini novi et li vecchi. Il Vino di Cervetri. È perfetto vino nel luogo. Ma levatolo dalla sua botte per trasportarlo, muta colore et anco sapore, et sente del terreno. E t chi non lo conoscesse pensaría che fosse la botte trista, ma certo non è altro che il terreno che fa così. Di questo vino S. S. non beveva volentieri, se non già si trovasse nel luogo et per far fa­ vore al Conte deH’Anguillafa, Pa­ drone di detta Terra et luogo. Il Vino di Capraróla. È ottimo. Caprarola è terra distante da Ro­ ma una grossa giornata, et è nello Stato novo di Casa Farnese. Tale è stimato assai da Signori et Prelati et Cortigiani. Ce ne sono delli bianchi et delli rossi, ma meglio sono li rossi delli bianchi. A tutti si


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fa un poco di conserva di vino cot­ to, per salvarli la state. Tale vino sente alquanto del terreno, et chi non lo ha in uso crederà la botte trista, ma è un delicato bere, et resiste tanto in barili quanto in fia­ schi, a portarlo in viaggio, et que­ sto si sa per esperienza. A volere conoscere la sua perfettione, biso­ gna non sia grasso né agrestino, ma che sia posato, fumoso et gran­ de, et che habbi bel colore. Ma del colore fanne prima la prova, che allora di tutto sarai soddisfatto. Di questo vino beveva volentieri S. S. per essere del suo Stato, et aveva amore al luogo, et parte del suo cardinalato, e ci habitava volentie­ ri et spesso. Et certo è un bel sito et luogo da piacere et da caccia. Il Vino di Bagnaja. È buono e ce ne sono delli bianchi et delli rossi. Bagnaja è villa distante da Viterbo 2 miglia sotto li monti. Tali vini sono buoni quando si fa vendem­ mia asciutta, et se non fosse che alli vini di questo luogo si fa un poco di conserva, massime alli bianchi, non sarebbero buoni, massime rispetto al sito che è mol­ to freddo et acquoso. Sicché fa­ cendo tale conserva li fa salvare la state. Di tali vini S. S. non beveva, salvo quando andava a Viterbo, et alla Regina Advocata sua, Maria della Cerqua. Quivi il Cardinale Ridolfi ne presentava a S. S., ma più li piacevano li rossi che li bian­ chi rispetto alla conserva, et li sod­ disfacevano per essere alquanto mordenti. Il Vino di Cortona. È un perfet­ to vino tanto il bianco quanto il rosso, ma meglio il bianco che pa­ re essere Trebbiano, ma non in quella sottigliezza. Sono ancora molto gentili, et resistono per qualche dì trasferendoli di luogo a luogo nei fiaschi, et è una delicata bevanda. Di tali vini usava S. S. bere quando stava in Perugia, et massime delle bianchi che il Cardi­ nale d’Ariminy gli donava et gli sa­ pevano molto buoni, et ogni anno ne faceva provvisione et ne beveva assai. Et beveva anche di quello che il Signor Antonio Marchese del Monte, come affezionato suo servitore, gli donava in qualche numero di fiaschi. A volere cono­ scere la sua perfettione, bisogna non sia fumoso et sia stomachevo­ le et non dolce, et habbia del coto­ gnino et non habbia conserva di cotto et così soddisfarà assai, ma facendo però prima l’esperienza del colore, et così si havrà ottima bevanda.Il Il Vino della Tolfa è un delicato et perfetto bere tanto il rosso quanto il bianco, ma molto meglio è il rosso. Questa è una terra sopra Civitavecchia in un Monte tutto oro, onde è buono il vino. Vi è una miniera d’allume che quivi si estrae, et è luogo tufato et forte, sicché non può essere che in tale luogo non facci buon vino. A vole­ re conoscere la sua perfettione, bi­ sogna che sia di colore dorato, et il rosso sia scarico di colore ma non in tutto, et sia odorifero et habbia del suo vajano, cioè una vajana et che sia di vigna vecchia. Di tali vi­ ni S. S. beveva volentieri et ogni anno ne faceva fare provvigione, massime per la quaresima et anco per l’autunno. E t il Rev. Mons. Sauli, appaltatore di esse Lumere, ne faceva portare assai fiaschi per donare a S. S., et sì anco ne faceva salvare nel luogo, et nell’autunno ne faceva portare in fiaschi, altri­ menti non sana restato il colore alli caldi, et questo per esperienza di molti anni. L’Anguillara distan­ te da Roma 16 miglia, fa di perfetti vini per il verno, che alli caldi non resistono nella terra, perché non ci sono grotte fresche. Ci sono vini bianchi et rossi, meglio questi. Ta­ li vini hanno tutti del molle et gras­ so, rispetto al paese acquoso, per il lago che circonda la terra. In questo luogo ci è una grandissima vigna, arborata et perfetta, pianta­ ta anticamente da una Contessa detta Portia. La qual vigna fa così perfetto vino quanto qualunque luogo vicino a Roma, massime il rosso. Di questo S. S. volentieri beveva, ed il Conte di detto luogo ogni anno ne salvava per S. S. A

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volere conoscere la sua perfettio­ ne, bisogna sia potente, odoroso et maturo, et di colore non troppo carico, et sia mordente. Vuole es­ sere trasportato da luoco a luoco per il fresco, et non per il caldo. È ottima bevanda. Il Vino di Bracciano è perfetto. Bracciano è il primo luogo di casa Orsina, et è luogo inespugnabile. Questo vino è picciolo, e certo non sono vini da portare da luogo a luogo, se non nel verno. Sono anco di buoni vinetti a un luogo qui vicino nominati Pisciarelli, do­ ve sono molte capanne fatte di le­ gname et terra. Dove habita lom­ bardi, toschani, et di diverse provintie, che custodiscono le vigne ciascuno secondo la sua patria, et il * " ' " 0 lo fanno il simile al modo del suo paese. Di modo che qui si trovano di buoni et perfetti vini, ma in Roma sono buoni per il ver­ no. La state si trova qualche vino in quelle grotte, ed è molto appeti­ toso, ma vuole essere pigliato in fiaschi, perché alli caldi non resi­ ste. Di questo vino, massime ros­ so, S. S. beveva alcuna volta nella primavera, quando era amabile, di

vigne sono arborate alla lombar­ da, et li contadini usano metterli dell’acqua a bollire coll’uva, nella fina o vasca. Perciò sono mordenti vini e buoni nel verno. Ci sono an­ co delle vigne basse, che fanno perfetto vino et la state è buono et perfetto bere, massime nel luogo, rispetto alle grotte fresche che qui si trovano. Di tali vini S.S. rare volte beveva, perché la maggiore parte di tali vini sono grassi et agrestini, sicché S.S. diceva essere vini da giovani et non da vecchi. Il Vino di Monterosso è perfetto et buono, ma qui sono poche vi­ gne. Ci è un’ottima vigna sopra un colle, della quale havendo quella cura et governo che meriterebbe, certo farebbe meglio vino. Massi­ me il rosso è un vino stomachevole et mordente et polpato. Di questo vino S.S. beveva assai. Et Pili. Sig. Card. Farnese faceva usare gran­ dissima diligenza, ad un suo fatto­ re, chiamato mons. Valerio; quan­ do morì di morte sùbita, si trovò che haveva nascosto un viluppo di ducati in un monte di grano. Il Vino di Castel Gandolfo. È

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bellissimi appartamenti di stanze da Pontefici, vi è una grandissima stalla et luogo da caccia et pesca, et luogo da far volare uccelli di ra­ pina et falconi et altro. Ma per non essere ai lettori fastidioso, non mi estenderò a narrare parti­ colarmente delli vini che si usano bere vicino a Roma, dirò solo delli luoghi: Marino, Rocca di Papa, Fanzano, Civita Lavinia, Genazzano, Cave, Paliano, Anticoli, Valerano, Palestrina città, Rocca priora, Colonna, Nettuna, Grotta­ ferrata, Castelnovo, Montefortino, Subiaco, Nemi, Ardea, Lugivolo; Anagni città, Alatri città, Veruli città, Signa città, Ferentino città, Velletri id., Tivoli id., Tuscolana id. detta Frascati, Banco, Ciperano, Pipemo, Anto, Fumone, Frusolone, Suppino, Scurcula, Vaimontone, Carpineta, Cori, Savel­ lo, San Silvestro, Ruffina, Porciliano; Nepi città, Viterbo id., Sutri id., Orta id., Civitacastellana id., Capranica, Riano, Rignano, Gallese, Bassano, Bassanello, Giove, Vignarello, Soriano, Canapina, Scrofano, Borghetto, Sant’Elia, Fabbrica, Valerano, Roncilione, Vetralla, Monterotondo, Menta­ na, Magliana, Pecorareccio, Compagnano, Magliano di Sabina, Formello, Farra, Galera. Di tali vini S.S. non beveva di nessuno perché certo et per espe­ rienza sono vini cotti et arrosto et arsi et matrosi et grassi. Sicché so­ no vini da lassarsi alli contadini. Note

Scena di vendemmia, incisione per l’incunabolo stampata a Spira da Peter Drach, 1490 (Accademia dei Georgiofili, Firenze)

bel colore et mordente sicché è buono et perfetto bere per Signori et Prelati, nella detta stagione. Il Vino Albano. È ottimo et per­ fetto tanto il bianco quanto il ros­ so, ma meglio, secondo il mio giu­ dizio, è il rosso; è buono tutta la state, quando il verno sia mante­ nuto in luogo fresco. Albano è cit­ tà antichissima, distante da Roma 12 miglia alla romana. In questo luogo sono vigne arborate et basse assai, et il paese è fruttifero et sas­ soso, rispetto alle rovine antiche che qui si vede, di edificii grandis­ simi. Sicché v’è buon vino et polpato, stomachevole et nutritivo. A volere conoscere la sua perfettio­ ne, bisogna avvertire non sia di vi­ gna giovane, né sia agrestino, non grasso né molle, né che habbi del cotto. Perché molti usano cuocer­ lo. Vuole essere cotognino et di colore dorato. Il rosso sia maturo et scarico di colore, ma non in tut­ to, et sia mordente. Di tali vini S.S. beveva volentieri quando era a Frascati et anco a Marino, a Grotta Ferrata. Sicché è vino da Signori. Il Vino della Riccia è buono, ma non come quello di Albano, an­ corché tali luoghi siano vicini. Le

poco et è picciolo, ma è molto per­ fetto massime per la state. Ma non bisogna muoverlo da quell’aria, perché quando sono in luogo pia­ no dove non possa il vento, si mu­ tano et sobbolliscono. Di tali vini S.S. beveva alcuna volta quando andava là. E faceva pescare in quel laghetto, dove si trova la bar­ ca di Caronte. Questo è un luogo antico di Casa Savella et in cima di un monte che è signoreggiato da tutti li venti. Et è luogo ameno da caccia et da pescagione. Il Vino della Magliana è perfet­ tissimo, tanto bianco quanto ros­ so. In questo luogo non è se non una vigna, la quale fece piantare papa Leone X. In questa vigna so­ no vitami di più sorti, et venerati da più provintie, ce ne sono perfi­ no in Spagna. Sicché è impossibile che essendo il sito bello, et sopra un colle ameno, la vigna non fac­ cia buonissimo vino. S.S. faceva bene custodire la vigna e ci andava bene spesso il Verno, et beveva al­ cuna volta del detto vino, il quale è di Verno ottima bevanda. È pec­ cato che tale vigna vada in perdittione, il che non è bene, rispetto alli piaceri che si può pigliare un Pontefice in questo luogo, vicino a Roma a sole 5 miglia. Dove sono

(1) Matrosa, cioè che fa deposito. Pos­ siamo identificare questa «malvagia» di Candia con il Montecompatri. (2) Molti vini moscati bianchi passano per vini di Taggia. (3) Dal provenzale folheta. È una mi­ sura di capacità pari al quarto di bocca­ le che si usa soprattutto a Roma. (4) Fumosi per dire spiritosi. (5) Qui l’autore sbaglia. Posillipo, e in dialetto napoletano Posileco, è a sini­ stra di chi entra nel porto di Napoli, Somma è a destra. In questi vini ”,gre­ ci” manca quello di Tufo, di cui parla Virgilio e che oggi si produce ancora nei vitigni a nord di Avellino, di profu­ mo delicato e di colore bianco paglieri­ no. E un vino ”doc”. Così come manca il Greco di Gerace detto anche Greco di Bisuco, caratteristico per il suo profu­ mo che ricorda i fiori d’arancio. (6) Questi soldati erano Francesi uniti ai Turchi, che erano sbarcati in questi luoghi e minacciavano Cosimo I Duca di Firenze, poi Granduca, che guerreg­ giava con la Repubblica di Siena, difesa dai Francesi sotto il comando di Pietro Strozzi. (7) Diminutivo di «racemo». I racimoli sono i grappolini di cui si compone il grappolo d’uva, in particolare quei grappolini che restano sulla vite dopo la vendemmia. Questo Razzese di cui par­ la Lancerio si può, oggi, identificare nello Sciacchetrà, più che nel Roccese, fratelli della stessa madre Vernaccia. (8) Vino in estinzione, un tempo molto conosciuto anche se non da tutti ap­ prezzato. Il Redi, per esempio, ne parla male in polemica con Gabriello Fasino. (9) Giuseppe Ferraro identifica Ciragio con Ciro. Non è certo, visto che Ciro deriva da Psicrò. Questo, come altri vi­ ni della zona, sono gli eredi dei vini di Cremissa, i protagonisti dei grandi ban­ chetti in onore degli atleti di Crotone che ritornavano vincitori dalle Olim­ piadi. (10) Forse Biarno, o Bearno, cioè Bearn in Francia. (11) Esiste un vino chiamato Lacrima. È un rosato della campagna intorno a Gallipoli. Il Lacrima di cui parla Lan­ cerio è il prodotto di una curiosa via di mezzo fra una vinificazione in bianco e una macerazione carbonica per vini di pronto consumo. Diciamo da spillare nella notte di S. Martino. (12) Casa Farnese possedeva feudi pri­ ma di Paolo III per opera di Rannuccio, avolo di quel papa, che da pepa Eugenio TV ebbe la Rosa d’oro e molti feudi. Il nuovo Stato Farnese comincia da Paolo III. (13) Ivrea. (14) Questi luoghi sono detti dello Stato dei Colonna. La famiglia Colonna, in­ fatti, era potentissima nello Stato ponti­ ficio. Si poteva dire cogli Orsini com­ proprietario di tutto il Patrimonio di San Pietro. Quasi tutte le famiglie, che diedero un papa al trono pontificio dal 1500 in poi, godettero largamente e sfruttarono il tesoro di tutto lo Stato. I Colonna però e gli Orsini, come signori nati e padroni ab antico, ebbero sempre uno Stato dentro lo Stato, mentre i parvenus delle altre famiglie, ad eccezione dei Farnesi, si contentarono di avere ville, palazzi, magistrature, o terre fuo­ ri dello Stato del papa.

Fulvio Papi Ugo Fabietti Alfredo Morosetti

IL GRANO E LA MORTE Letture di storia e antropologia

L’esperienza e i suoi cam­ biamenti nel corso del tem­ po e nel variare dei luoghi in quindici grandi temi: i gesti quotidiani (mangia­ re, sposarsi, lavorare, co­ municare), i luoghi dove si vive (città, territori), gli eventi collettivi e indivi­ duali (catastrofi, guarigio­ ni) e così via. E per ciascun grande tema, pagine scelte - con intenti divulgativi - dai migliori studiosi italiani e stranieri. La materialità della vita co­ me appare agli occhi della nuova ragione storica e an­ tropologica. 338 pagine, 95 fotografie, 9 800 lire

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In genere non si conosce Vimportanza delle società che controllano il mercato delle materie prime: ora sono circa cinquanta e in pochi anni si ridurranno a una dozzina, con un potere enorme. Anche la IFI International partecipa al gioco.

opo il 1945, il mercante ha preso progressivamente il posto del mediatore, come canale obbligato degli scambi nel commercio intemazionale delle materie prime. In effetti, il molo del mercante è assicurare il trasfe­ rimento geografico, temporale e finanziario dei prodotti da un pun­ to all’altro del globo, facendosi in­ teramente carico dei rischi di va­ riazione nei corsi mondiali per le merci, i noli, i tassi finanziari e le monete... Dopo il 1974, le cre­ scenti fluttuazioni sui mercati in­ temazionali hanno provocato un aumento dei rischi ed è stata raf­ forzata la posizione centrale dei mercanti entro il sistema. Alcuni recenti sviluppi mostrano che essi sono diventati i più dinamici vetto­ ri di mutamento nel capitalismo intemazionale, e che hanno esteso il proprio ambito di attività all’in­ sieme dei flussi di scambi fisici e finanziari su scala mondiale. L’inizio del 1981 è stato caratte­ rizzato da alcune grandi manovre finanziarie su scala intemazionale: si è trattato addirittura di una feb­ bre di fusioni e di offerte pubbli­ che d’acquisto (O .P.A .)1. E stata l’occasione per constatare che a fianco dei classici organismi finan­ ziari, bancari e assicurativi (Ame­ rican Express, Prudential Insuran­ ce, ecc.) e delle grandi aziende in­ dustriali e petrolifere (Du Pont, Mobil, Seagram’s, ecc), erano en­ trati in scena nuovi attori: una manciata di grandi società intema­ zionali che commerciano in mate­ rie prime. Fino ai primi anni Settanta, le società di questo genere, quantun­ que potenti nel proprio campo, erano di poca rilevanza se colloca­ te sulla scena finanziaria. Le tem­ peste del 1972-1975 nel commercio delle materie prime, e l’instabilità generale dei mercati che le ha se­ guite, hanno rafforzato ed esteso il molo di queste società (soprattut­ to nell’ambito dei prodotti energe­ tici), e hanno aumentato di molto la loro capacità di fare profitti (spesso più di quanto si può pensare).2 Questa crescita, che non è senza rischi (e che ha causa­ to una tendenza alla concentrazio­ ne dal 1977 in poi) per un certo periodo fu nota solo agli iniziati. Ma alcuni fatti recenti ne hanno messo tutti al corrente e hanno evidenziato tre tendenze principa­ li: concentrazione del mercato in­ temazionale attorno a poche im­ prese non specializzate («poliprodotto»); diversificazione di queste imprese; interesse dichiarato da parte delle grandi società multina­ zionali, industriali o finanziarie per le attività di compravendita. Il fatto più importante, riguardo alle concentrazioni, è l’acquisto da parte di Cargill, che è al primo po­ sto nel commercio dei cereali, del­ la Ralli Brothers, al primo posto per il cotone. Ralli Brothers, che commercia ogni anno per 1-2 mi­ lioni di balle di cotone3, era una filiale del gruppo Slater Walker, ceduta poi al gruppo Bowater, che ha interessi che vanno dalla pasta di carta ai materiali per costruzio­ ne. Poi, per alcune difficoltà, Bo­ water aveva ceduto a Cargill que­ sta società, piuttosto lontana dai suoi principali campi di interven­ to. Cargill, attraverso la consocia­ ta Hohenberg, era già al sesto po­ sto nel mercato mondiale del coto­ ne. Così Cargill, già leader del mercato mondiale dei cereali e materie oleose e presente sul mer­ cato dei metalli (C. Tennant), di­

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venne la prima impresa sul merca­ ve essere certo limitata al solo to mondiale delle fibre tessili (Ral­ aspetto di mercato: la Philip Brot­ li e Hohenberg riuniti hanno circa hers si muove anche in quanto il doppio del giro d’affari del se­ braccio, negli Stati Uniti, del grup­ condo, la società svizzera Volkart po Hoppenheimer, che aveva ma­ Brothers). nifestato spesso la sua intenzione Allo stesso tempo, Cargill aveva di fare massicci investimenti fuori interessi anche nel commercio pe­ dell’Africa del Sud e, soprattutto, trolifero, dove aveva investito 50 nel Nord America. Ed è chiaro, milioni di dollari. comunque, che non a caso è stata L’altro «grande», la Philip Brot­ scelta per questa operazione la hers, continuava intanto a fare in­ Philip Brothers invece di altre so­ vestimenti metodici sul mercato cietà del gruppo. delle materie prime. Dopo note­ A confronto di questa operazio­ voli trasformazioni nella propria ne, le altre diversificazioni portate struttura finanziaria4, questa im­ avanti dalle società di compraven­ presa, filiale indiretta del gruppo dita sembrano molto più «classi­ di Harry Hoppenheimer (Angloache», dato che sono soprattutto at­ merican), è entrata in società con tive sul lato industriale dei princi­ la inglese Cocoa Merchants per in­ pali prodotti trattati. vestimenti sul mercato del cacao. La società italiana Feruzzi, in La Phibro passava così dal campo origine ai primi posti nel mercato iniziale dei metalli al petrolio europeo dei cereali (probabilmen­ (1974), allo zucchero (dal 1976 in te con il 20 per cento del mercato) poi: oggi è al secondo posto nel e in quello americano (Artfer Ine. mercato mondiale), ai cereali (dal che ha un silo di esportazioni sul 1979), e infine al cacao. Nello stes­ Golfo), e che già era molto so periodo, nel mercato petrolife­ industrializzata7, non è riuscita nel ro, Marc Rich, ultimo arrivato tra tentativo di assorbire il numero i «grandi», si diversificava in dire­ uno dello zucchero francese, Bezione dei metalli e dei cereali (voci ghin Say, anche se ne conserva il sull’acquisto della società olandese 30 per cento del capitale. Anche il Granaria). mercante inglese S.W. Berisford Sembra che il futuro della com­ (zucchero, caffè, cacao) nel giu­ pravendita internazionale di mate­ gno 1981 ha rinunciato al tentativo rie prime dovrà passare per alcune di offerta pubblica di acquisto sul­ grandi imprese, presenti su tutti i la British Sugar Corp. che in Gran mercati e avvantaggiate dall’eco­ Bretagna detiene il monopolio nomia di scala della loro rete in­ della produzione di zucchero di temazionale. La concentrazione è barbabietola. Ciò nonostante, Be­ avvenuta a partire dal boom delle risford possiede ancora più del 40 materie prime nel 1972-74. Da al­ per cento del capitale della British lora, nessuno, in pratica, è più en­ Sugar. I grandi mercanti di cereali trato nel giro sempre più chiuso hanno continuato i loro investi­ dei grandi mercanti5. menti: Cargill, dopo aver rilevato Il «diritto d’ingresso» da pagare otto grandi mulini della Seaboard (rete di informazioni e comunica­ Allied Milling Corp. per 55 milioni zioni), in effetti, è sempre più alto. di dollari, è diventato il primo mo­ All’interno di questo giro che at­ litore americano, con il 15 per cen­ tualmente si può circoscrivere a to del mercato8; Bunge, da parte cinquanta imprese circa, le ten­ sua, si è rafforzato anche nella tri­ denze alla concentrazione sopra ri­ turazione della soia. levata fanno ritenere che, a lungo Ma queste diversificazioni indu­ termine, sopravviveranno solo una striali non sempre sono felici. Così dozzina di gruppi «poliprodotto» Louis Dreyfus nel maggio 1981 si è che stanno costituendosi sotto gli ritirato dalla Oleafin, una holding occhi del giro ristretto. A questo che aveva in gestione soprattutto livello, i prossimi due anni saranno rimpianto di macinazione di Bor­ capitali per il futuro di molte so­ deaux Oléagineux. Dreyfus aveva cietà di compravendita. il 49 per cento, contro il 51 per Ma oltre alla concentrazione, è cento del CNTA (Comptoir Natio­ interessante seguire anche, da una nal de Techniques Agricole). A parte, le tappe della diversificazio­ quanto pare ci sono state delle di­ ne delle società e, dall’altra, i ten­ vergenze tra il socio industriale e tativi delle società estranee al cam­ quello commerciale riguardo alla po di annettersi attività di compra- gestione dell’insieme 9. vendita. Ma un mercante caccia l’altro e Bunge ha rimpiazzato, in parte, La prima «merchant bank» Louis Dreyfus nella Oleafin. Sul terreno della diversificazione, E certo che gran parte delle so­ l’elemento più spettacolare, che è cietà di compravendita, eccettuate stato forse il simbolo più chiaro Cargill e Philip Brothers, sono an­ della crescita dei mercanti in quan­ cora agli inizi della diversificazio­ to attori intemazionali, e ha avuto ne: in genere è una diversificazio­ l’effetto di una bomba negli am­ ne industriale; ma in molti casi ci si ' bienti di Wall Street, è stato l’an­ orienta sempre più verso attività nuncio, a fine di luglio del 1981, finanziarie e di servizio10. che la Philip Brothers aveva rile­ Il fenomeno interessante non è vato la banca d’affari Salomon tanto l’industrializzazione dei mer­ Brothers di New York6, per un co­ canti, quanto la loro trasformazio­ sto totale di 550 milioni di dollari ne in multinazionali di servizi fi­ (di cui il 60 per cento in contanti e nanziari e commerciali. Ma un set­ il 40 in azioni Philip Brothers). La tore così dinamico come il com­ fusione è diventata effettiva il pri­ mercio delle materie prime non mo ottobre. E ancora presto per poteva non attirare brame esterne. afferrare completamente le conse­ A dire la verità, questo non è un guenze di questa fusione, che dà fatto nuovo e va riconosciuto che vita a un organismo finànziario e non è stato sempre coronato da commerciale intemazionale di pri­ successo. Se ne può vedere come mo piano, più completo nel suo prova il disimpegno completo del genere di una società come la Mer- gruppo Bowater (vendita di Ralli ryl Linch. Il futuro presidente, Brothers e, per due milioni di ster­ David Tendler, ha dichiarato d’al­ line, di Rjoilse, caffè, cacao, zuc­ tronde di avere intenzione di crea­ chero e caucciù, al gruppo Mer­ re la prima «merchant bank» mon­ cantile House). Allo stesso modo, diale. Questa operazione non de­ l’armatore francese Les Chargeurs

Réunis del Gruppo Pricel, nell’a­ prile 1981 ha ceduto la maggioran­ za del capitale della Safic Alean, primo mercante occidentale in caucciù11, ad una holding lussem­ burghese, la IFI International, che rappresenta gli interessi degli Agnelli. Nei due casi, si è trattato dell’impossibilità per una società a gestione «classica» di adattarsi alle irregolarità del mercato: ci sono profitti negli anni di vacche grasse, ma non si rientra gli anni di vacche magre! Il mutamento di maggioranza nella Safic Alean forse avrà conse­ guenze più importanti, poiché il gruppo Agnelli, se vuole, ha i mezzi per inserirla nel giro ristret­ to di cui abbiamo parlato prima. Ma, a questo livello, il fatto più interessante è stato l’acquisto del grupppo internazionale A C L F, primo commerciante mondiale in caffè, da parte della società Do­ naldson, Lufkin e Jenrette di Wall Street. DLJ è la sedicesima banca d’affari americana con un capitale di 115 milioni di dollari. H rileva­ mento della ACLI sarebbe costato 42 milioni di dollari. A livello mi­ nore, questa operazione si può av­ vicinare al rilevamento della Salo­ mon da parte di Phibro. Essa dà vita al medesimo tipo di «entità», particolarmente adeguato all’evo­ luzione dei mercati intemazionali della finanza delle derrate, e so­ prattutto allo sviluppo dei nuovi mercati a termine di servizi finan­ ziari. Ma, oltre che le finanziarie, il commercio interessa anche impre­ se già presenti nella fase di trasfor­ mazione: così tutte le grandi multi­ nazionali minerarie hanno svilup­ pato attività commerciali. È il caso soprattutto della Pechiney Ugine Kuhlmann che, nel giugno 1981 ha rilevato per 30 milioni di sterline la società di intermediazione Bran­ déis Goldsmith dalla banca d’affa­ ri SG Warburg. Questo fatto con­ ferma il movimento della Pechiney Ugine Kuhlmann in direzione del commercio. Ora PUK avrà due posti al London Metal Exchange (con quello dell’altra sua filiale Intsel). Si sono notate analoghe evoluzioni presso altre grandi so­ cietà minerarie, come Asarco e Phelp Dodge. Ma, anche qui, non ci sono sol­ tanto successi. Così agli inizi del 1981 l’unione delle cooperative cerealicole americane Farmers Export13, creata nel 1963 per af­ frontare i grandi affari intemazio­ nali, ha annunciato un deficit di 40 milioni di dollari dovuto a specula­ zioni sfortunate. H che conferma quanto abbiamo detto sopra sull’e­ strema difficoltà per i nuovi arriva­ ti di penetrare ex abmpto nel mondo del commercio mondiale: non nascondiamo perciò il nostro scetticismo riguardo alla volontà dimostrata in certi periodi da par­ te del potere pubblico di creare, o di suscitare, un «Cargill francese». L ’acquisto da parte del gruppo di cooperative americane ed europee del 50 per cento del capitale del Tòppfer International14 nel 1979 può sembrare più promettente, ma è ancora troppo presto per giudi­ care. Non bisogna dimenticare die il commercio è anzitutto questione di assumersi rischi. Il naufragio, in giugno, del gruppo commerciale argentino Sasetru (cereali e oli) ce lo ricorda. In qualunque modo si vogliano interpretare gli avvenimenti del primo semestre del 198115, resta di­ mostrato che la compravendita in­

temazionale delle materie prime ha definitivamente lasdato i ma­ gazzini portuali per salire alla ri­ balta del capitalismo finanziario intemazionale.

Note (1) Si vedano le manovre intorno alla CONOCO (Du Pont, Seagram’s, Mo­ bil), l’offerta Seagram’s St. Joe, la fu­ sione American Express-Shearson Loeb Rhoades, l’acquisto della Bache da parte della Prudential Insurance... (2) Il «bottino di guerra» accumulato dal 1972 al 1975 da Cargill probabil­ mente supera il miliardo di dollari (Bu­ siness Week, 16 aprile 1979). (3) Confronta Fibres et Textiles. Dimensions du pouvoir des Societès transnationales, CNU-CED, TD/B/C.l/ 219, Genève, 19 novembre 1980. (4) Nel 1960 Philip Brothers si era fusa con la Minerals and Chemicals Com­ pany americana, poi, nel 1967, con la Engelhard* Industries Ine. Da allora era stata quotata alla borsa di New York come Engelhard Minerals and Chemicals Corp. Dal 1974 in poi, la crescita della divisione «commercio» fu tale che questa arrivò a rappresenta­ re il 90 per cento delle entrate del gruppo. Nell’aprile 1981, i responsabili hanno diviso la società in Philip Brot­ hers Corp. (commercio) e Engelhard Corp. (industria). Ambedue sono con­ trollate per il 27 per cento dalla società bermudese Minorco, a sua volta con­ trollata dalla De Beers e dall’Angloamerican, del gruppo Hoppenheimer. (5) Non è stato così per le società che hanno approfittato della crescita di mercato del petrolio come la Philip Brothers, e, soprattutto, la Marc Rich. (6) La Salomon Brothers era al quarto posto nella Usta delle Investment Houses americane, con un capitale (1980) di 330 milioni di dollari. Nel 1981 con­ tava 63 soci. Insieme alla Lazard, la Salomon era già consigliere finanziario della Phibro. (7) Il gruppo Feruzzi raggruppa 80 so­ cietà circa, con una cifra d’affari che pare consolidarsi sui 3,3 miliardi di dollari; si va dalla produzione di zuc­ chero (Eridania, 36 per cento del mer­ cato italiano) agli oh vegetali, al tra­ sporto marittimo, al cemento. (8) Nel 1979 aveva già rilevato la se­ conda impresa americana di carne (meat packer) MBPXL, per 75 milioni di dollari. (9) Si è parlato di sfortunate specula­ zioni sul girasole. (10) Notiamo che i commercianti han­ no seguito in gran parte lo sviluppo dei mercati a termine verso gli strumenti finanziari e hanno creato filiali specia­ lizzate. Così alla fine del 1980, Gill and Duffus, il primo mercante mondiale di cacao, ha dato vita a New York alla Gill and Duffus Security Ine. (11) D primo mercante «orientale» in caucciù è la ditta Lee di Singapore che è notevolmente più importante di Safic Alcan. (12) ACLI è una ditta di commercio di New York fondata nel 1898 e rimasta sempre in possesso per intero di fami­ glie ebraiche. ACLI era specializzata soprattutto in caffè (prima mercante mondiale con una percentuale dal 15 al 17 per cento del mercato), in cacao, in caucciù... all’inizio del 1981, ACLI avrebbe subito perdite molto intense (60-80 milioni di dollari) per sfortunate speculazioni sul caffè. (13) Composta da 6 unioni regionali di cooperative cerealicole. (14) Sesta sul mercato mondiale in ce­ reali con sede ad Amburgo che ha forti posizioni soprattutto in Tailandia (ma­ nioca). (15) E, in un mondo in cui impera il segreto, è molto probabile che ne sia­ no passate sotto silenao molte altre. Le Monde Diplomatique maggio 1982, La Gola ottobre 1982. Si pubblica per concessione di Rosen­ berg & Sellier, Torino esclusivista per ITtalia della testata ed editore di un Dossier trimestrale.


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Analisi della stampa mondiale sui problemi alimentari

Il riciclaggio della fame Index - Archivio critico dell’informazione

problemi che vanno sotto l’eti­ chetta generica di «fame nel mondo» sono spesso conosciuti superficialmente anche dall’opi­ nione qualificata. Una visione troppo sovente affidata all’umanitarismo assistenziale offusca i ter­ mini fondamentali della questione alimentare, questione non separa­ bile dal sistema di relazioni finan­ ziarie, politiche e commerciali sul­ l’asse Nord-Sud. Tecnicamente, non esiste un «problema della fa­ me» in termini di sottoproduzione alimentare. Secondo una stima della FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’agricoltura e l’alimentazione, le disponibilità caloriche attuali superano del 10 per cento i bisogni strettamente necessari alla nutrizione della po­ polazione mondiale. Appare dun­ que evidente che il problema na­ sce sul terreno economico-politico ed è qui che occorre analizzarlo. Come molti ricorderanno, al­ l’indomani della «crisi petrolifera» del 1973 si pose il problema di «ri­ ciclare» le eccedenze in dollari ac­ cumulate dai paesi produttori di petrolio (OPEC) in direzione dei paesi importatori, così da colmare la falla che l’aumento dei prezzi del greggio aveva aperto nelle loro bilance commerciali. La soluzione che si impose con il nome di «rici­ claggio dei petrodollari» seguiva questo schema: i paesi petroliferi depositano il loro surplus di dollari presso le grandi banche multina­ zionali di New York e di Londra (in minor misura nelle banche svizzere, tedesche, giapponesi, ecc.) e queste, a loro volta, presta­ no ai paesi importatori i fondi ne­ cessari. Com’è ovvio, le banche realizzano ingenti profitti sulla dif­ ferenza di interessi fra depositi e prestiti. Secondo The Economist, fra il 1974 e il 1978 le banche dei maggiori paesi capitalisti hanno portato il totale dei loro prestiti in­ ternazionali da 280 miliardi di dol­ lari a 900 miliardi di dollari; di questi, almeno 500 miliardi di dol­ lari costituiscono il debito attuale dei paesi del Terzo Mondo1. A quasi dieci anni di distanza, gli effetti di questo meccanismo sono ormai chiariti. Mentre i paesi industrializzati hanno raggiunto un sostanziale equilibrio nei loro conti con l’estero, i paesi in via di sviluppo hanno dovuto indebitarsi a un tale livello da rendere quasi disperata la loro bilancia valuta­ ria.

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«I paesi sviluppati», ha scritto Michel Danderstaedt su Le Monde diplomatique «hanno potuto riag­ giustare le proprie politiche inter­ ne ed estere in modo da sopprime­ re o da ridurre al minimo il pro­ prio deficit (...) Solo i prestiti con­ cessi ai paesi del Terzo Mondo consentono a questi di finanziare le importazioni dai paesi sviluppa­ ti. Quindi, solo un aumento del deficit dei paesi in via di sviluppo, del relativo indebitamento, per­ mette ai paesi sviluppati di equili­ brare i propri conti. Il problema della politica monetaria mondiale è perciò quello di sapere come si possa gonfiare a sufficienza il defi­ cit, e quindi i debiti, del Terzo Mondo, evitando però che questo sia costretto a sospendere i paga­ menti. L’atteggiamento dei paesi sviluppati in proposito assomiglia a quello di un giocatore che tenti di alzare un castello di carte men­ tre prende a calci il tavolo»2. L’esito più perverso del «rici­ claggio» è che il rimedio è diventa­ to peggiore del male originario. Secondo una stima déiV Economist, un aumento del prezzo del petrolio di 5 dollari al barile assor­ be, per un paese come il Brasile, il 7 per cento delle entrate valutarie delle esportazioni, mentre un au­ mento del 5 per cento del tasso di interesse interbancario (LIBOR London Inter Bank Offer Rate) incide per il 13,5 per cento del ri­ cavo dell’export.3 Poiché il tasso LIBOR è passato dal 5 per cento circa del 1977 al 20 circa della fine del 1980, è facile desumere che in tre anni l’aumento dei tassi di inte­ resse ha prosciugato da solo circa il 40 per cento delle entrate valuta­ rie di un paese come il Brasile. Secondo una stima della Bankers Trust Company, citata dal Fi­ nancial Times, il «servizio» del de­ bito estero incide attualmente per il 60 per cento delle esportazioni brasiliane, per una quota analoga delle esportazioni argentine, per il 40 per cento di quelle messicane e filippine4. Ma, secondo altre fonti citate da Newsweek, lo scorso an­ no le Filippine avrebbero impe­ gnato addirittura il 77 per cento delle proprie esportazioni per ser­ vire il debito estero5. «Per la maggior parte di questi paesi», scrive Paul Fabra su Le Monde «il servizio del debito rap­

presenta dal 30 all’80 per cento delle entrate, mentre, fino a qual­ che tempo fa, il Fondo Monetario Internazionale considerava perico­ losa una proporzione superiore al 20 per cento»6. Il punto che non sempre viene afferrato è che le conseguenze del­ la situazione debitoria del Terzo Mondo si trasmettono con un irre­ sistibile effetto-domino dai paesi più poveri a quelli meno poveri, da quelli meno poveri a quelli ric­ chi. «Molti paesi del Terzo Mon­ do», ha dichiarato recentemente Denis Healey, ex Cancelliere del­ lo Scacchiere britannico e attuale ministro degli Esteri del governoombra laburista «sono di fronte al­ la prospettiva del collasso econo­ mico, dell’anarchia politica e del­ l’inedia di massa. Il rischio di una grossa insolvenza che inneschi una reazione a catena sta aumentando di giorno in giorno»7. Fra agosto e settembre la crisi finanziaria di un paese come il Messico, che pure è un esportato­ re di petrolio, ha riempito la stam­ pa finanziaria di analisi e di ipotesi sugli effetti dirompenti che l’insol­ venza di «grandi debitori» come il Messico o l’Argentina potrebbe avere sul sistema bancario occi­ dentale. Ma anche escludendo l’i­ potesi di un crack finanziario in­ ternazionale, resta quella, già tan­ gibile, di un progressivo strangola­ mento degli scambi e dello svilup­ po. Appare infatti evidente che, per far fronte alle scadenze debito­ rie, i paesi in via di sviluppo devo­ no tagliare drasticamente le pro­ prie importazioni, in particolare dai paesi industrializzati. Ciò ha già prodotto nel 1982 una stagna­ zione del commercio mondiale. Ma i timori di insolvenze e banca­ rotte a catena ha portato, dopo la crisi messicana in particolare, a una ulteriore conseguenza. Le grandi banche sono ora molto me­ no disponibili a concedere nuovi prestiti o a rifinanziare quelli in scadenza. «I banchieri», scrive The Economist «stanno scoprendo di avere una possibilità: se dicono no, costringono i paesi in deficit a tagliare i propri deficit (...) Un paese che non può ricorrere a pre­ stiti generalmente deve eliminare il proprio deficit riducendo la do­

manda. Ciò taglia le gambe allo sviluppo mondiale, aumentando le difficoltà di tutti. Con l’allargarsi della recessione, un numero sem­ pre più grande di paesi e di impre­ se scoprono che gli investimenti rabberciati non possono produrre ricavi sufficienti per servire il pro­ prio debito»8. Nessuno sa con precisione dove può condurre la spirale perversa del riciclaggio, dell’indebitamento e della riduzione forzata delle esportazioni. Per i paesi in via di sviluppo è peraltro chiaro che ser­ vizio del debito accumulato, im­ possibilità di ottenere degli sboc­ chi commerciali a causa della re­ cessione mondiale, costituiscono una miscela esplosiva. Essi dispon­ gono di risorse valutarie sempre minori per acquistare all’estero prodotti alimentari, macchine e fertilizzanti per l’agricoltura, ener­ gia. Sono facilmente intuibili le probabili conseguenze sui livelli salariali e occupazionali, oltre che sulla capacità di produrre o di ac­ quistare all’estero merci alimenta­ ri. Insomma, la crisi finanziaria è una miccia accesa per la polveriera della «fame». Una delle regioni più colpite, secondo il Financial Times, è at­ tualmente l’Africa sub-sahariana, .dove la produzione alimentare prò capite è scesa dell’l ,1 per cento al­ l’anno, per tutto lo scorso decen­ nio. La Banca Mondiale prevede che negli anni Ottanta circa 40 na­ zioni dovranno «contare quasi es­ clusivamente sulla assistenza in­ ternazionale per integrare le risor­ se interne necessarie allo sviluppo fisico e umano»9. La necessità di procurarsi le ri­ sorse finanziarie per pagare i debi­ ti contratti, inoltre, impone a mol­ ti paesi in via di sviluppo scelte agricole in contrasto con l’obietti­ vo deH’autosufficienza alimentare. Scrive in proposito il quotidiano di Dakar (Senegai) Le Soleil: «I pae­ si africani, pesantemente indebita­ ti, debbono affrontare anche un deficit cronico della bilancia com­ merciale. Per soddisfare i fabbiso­ gni di valuta, essi si trovano co­ stretti a sviluppare al massimo le colture destinate all’esportazione, più precisamente a nutrire il be­

stiame europeo. I vantaggi finan­ ziari derivanti da queste colture tropicali li allontanano dalle coltu­ re per l’alimentazione umana»10. Ma è lo stesso giornale senegalese a criticare «una certa opinione, ab­ bastanza diffusa negli ambienti terzomondisti, che vorrebbe ricon­ durre il problema alimentare a un semplice squilibrio fra colture ’commerciali’ e colture ’alimenta­ ri’». Le Soleil fa osservare che questi paesi non si trovano di fron­ te a una effettiva scelta di politica agro-alimentare: «Ciò che si di­ mentica è che, nella quasi totalità dei paesi africani, questa scelta po­ litica non esiste. La strategia dello sviluppo agricolo è molto spesso imposta dall’esterno, implicita­ mente, nel contesto degli accordi, peraltro scarsi, di finanziamento selettivo che vengono conclusi sui mercati finanziari internazionali». Se la struttura finanziaria inter­ nazionale spinge molte aree del Terzo Mondo verso colture orien­ tate all’esportazione, ciò comporta inevitabilmente una accresciuta di­ pendenza dal mercato internazio­ nale per l’approvvigionamento di cibo, soprattutto di cereali. Come è noto, il massimo esportatore mondiale di cereali sono gli Stati Uniti. L’amministrazione Reagan non ha fatto mistero di voler utiliz­ zare l’arma alimentare come stru­ mento di pressione politica11. Al dato politico si affianca quello commerciale; scrive in proposito il quotidiano di Algeri El Moudjahid: «Tutti conoscono le ’sette so­ relle’ (le compagnie petrolifere che hanno a lungo regnato sul mercato mondiale degli idrocarbu­ ri), ma pochi sanno che cinque so­ cietà americane controllano il mercato dei cereali a livello plane­ tario. Si tratta di Cargill, Conti­ nental, Dreyfus, Gamac e Bunge»12. Al riguardo, si veda, in questo stesso numero de La Gola, l’articolo di Philippe Chalmin sulla attività dei grandi mercanti inter­ nazionali di materie prime. Da quanto detto, il «riciclaggio della fame» su scala mondiale emerge, forse, come un gigantesco affare per alcuni gruppi economici e finanziari; ma è probabile che, nel medio periodo, sia un boome­ rang micidiale per l'economia oc­ cidentale nel suo complesso, come hanno del resto sostenuto Guido Carli, negli anni in cui era in di­ scussione il «riciclaggio dei petro­ dollari», e, più recentemente, Car­ lo De Benedetti13.

Da Bartolomeo Scappi, Opera dell’arte del cucinare, Venezia 1622.


La Gola

pagina 21

ottobre 1982

Note (1) The Economist, 1 agosto 1982, «Recyclers’ recession» (2) Le Monde diplomatique, febbraio 1982, «Les risques de l’endettement inégal» (3) cfr. The Economist, 20 dicembre 1980 (4) cfr. l’inserto «World Economy» del Financial Times, 7 settembre 1982 (5) Newsweek, 6 settembre 1982, «A sea of debt in thè Third World» (6) Le Monde, 5 ottobre 1982, «Les fis­ sures du système bancaire international» (7) cit. in Financial Times, 4 settem­ bre 1982, «Healey wams of world cata­ strophe» (8) The Economist, 7 agosto 1982, cit. (9) «World Economy», cit. del Finan­ cial Times, 7 settembre 1982. (10) In «Un seul monde», n. 14, pub­ blicato come supplemento da dodici quotidiani di tutto il mondo - cfr. in questa stessa rubrica il pezzo sulla Giornata mondiale dell’alimentazione. (11) cfr. dichiarazioni citate in Le Monde diplomatique, novembre 1981, «Le commerce des céréales: clé du pouvoir alimentaire mondial» (12) In «Un seul monde» n. 14, cit. (13) cfr. intervista di Guido Carli a Business Week, 12 ottobre 1974, «Gui­ do Carli’s ideas for solving thè oil crisis» e l’intervista di Carlo De Benedet­ ti alla Repubblica del 17 settembre 1982, «Nell’era del grande crack».

sforzo jugoslavo per lo sviluppo agricolo del paese); Asahi Shim­ bun di Tokio (il crescente aiuto agricolo del Giappone ai paesi del Sud-Est asiatico); La Stampa di Torino (la ricerca della CEE sulle fonti di energia rinnovabili e sul loro impiego nello sviluppo agri­ colo); El Moudjahid di Algeri (la dipendenza dei paesi in via di svi­ luppo dal mercato internazionale dei cereali e dalle cinque compa­ gnie USA che lo controllano); Le Soir di Bruxelles (gli effetti per­ versi dell’aiuto alimentare ai paesi più poveri); Le Soleil di Dakar (l’estensione delle monocolture commerciali nel Terzo Mondo, causata dagli obblighi valutari e fi­ nanziari internazionali); Dawn di

CEF (il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia) informa sulla gigan­ tesca operazione in corso per sal­ vare dalla fame cinque milioni di cambogiani. Infine vengono pre­ sentati diversi esempi dell’azione dell’ONUDI (l’organizzazione delle Nazioni Unite per lo svilup­ po industriale) per promuovere lo sviluppo deH’industria alimentare in diverse aree in via di sviluppo. Almeno un cenno merita l’arti­ colo di Le Monde, il quale sottoli­ nea il comportamento degli Stati Uniti e di altri paesi industrializza­ ti come la Francia, in occasione della recente conferenza del Con­ siglio Mondiale dell’Alimentazio­ ne, svoltasi ad Acapulco nello scorso giugno. In quella occasio­

Da Bartolomeo Scappi, Opera dell’arte del cucinare, Venezia 1622.

15 ottobre: Giornata mondiale dell ’alimentazione La FAO ha proclamato il 15 ot­ tobre Giornata mondiale dell’ali­ mentazione. In concomitanza, i dodici quotidiani, appartenenti a diverse aree del globo, che pubbli­ cano un supplemento congiunto sul «nuovo ordine economico in­ ternazionale», hanno dedicato ai problemi agro-alimentari il nume­ ro autunnale. Il supplemento è pubblicato trimestralmente da un pool che comprende testate come Le Monde, l’Asahi Shimbun, Magyar Nemzet, La Stampa, El Moudjahid. Si tratta di uno degli sforzi più notevoli per informare l’opinione pubblica mondiale sui temi del sottosviluppo, delle rela­ zioni Nord-Sud e sull’azione degli organismi delle Nazioni Unite. Questo numero comprende arti­ coli di: Politika di Belgrado (lo

Karachi (la necessità di riforme agrarie per elevare la produzione alimentare in Pakistan); Zycie Warszavy di Varsavia (lo sforzo polacco per rivalutare il lavoro agricolo fra i giovani); Le Monde di Parigi (la responsabilità dei pae­ si industrializzati nella mancata costituzione di una riserva cereali­ cola che assicuri un minimo di si­ curezza ai paesi più bisognosi). Agli articoli si affiancano inter­ venti di diverse istituzioni dell’ONU. Il direttore del Programma Alimentare Mondiale (PAM) sin­ tetizza l’azione nelle situazioni di emergenza alimentare. L’UNI­

ne, Stati Uniti e Francia si sono opposti alla costituzione di una ri­ serva alimentare mondiale, cioè di uno stock di cereali capace di sop­ perire alle esigenze dei paesi più poveri e minacciati dalla fame, co­ me quelli deH’Africa sub-saharia­ na. Lo stock, secondo il progetto, dovrebbe essere accumulato attra­ verso acquisti effettuati sul merca­ to nelle fasi di ribasso dei prezzi, grazie a prestiti preferenziali. Le Monde sottolinea che il fallimen­ to, almeno per il momento, di questo progetto è principalmente dovuto all’interesse dei paesi occi­ dentali, e degli Stati Uniti in parti­

colare, ad utilizzare su basi bilate­ sempre più efficace il fattore rali l’aiuto alimentare, a fini di «marca» su cui puntano le grandi pressione politica. imprese produttrici. Nel prossimo numero analizze­ Secondo i dati riportati dall’auremo il comportamento della ‘torevole settimanale inglese The stampa italiana e straniera in occa­ Economist, nella prima metà di sione della Giornata mondiale del­ quest’anno i prodotti venduti con l’alimentazione. Vedremo se e co­ l’etichetta della distribuzione han­ me è stata colta questa occasione no raggiunto il 25 per cento del per migliorare l’informazione in mercato, in particolare per i generi questo campo. di drogheria. Ciò segna un aumen­ to significativo rispetto al 22-23 Gran Bretagna: per cento degli anni precedenti, nei quali peraltro questa tendenza Nuovi sviluppi nel marketing alimentare aveva già cominciato a manifestar­ si. Molti esperti di marketing ri­ I dati più recenti sul mercato ali­ tengono che questa quota sia de­ mentare inglese confermano alcu­ stinata ad aumentare ancora entro ne tendenze di grande interesse la fine di quest’anno. anche per gli altri paesi europei, I produttori delle «grandi mar­ che» temono che si affermi fra i consumatori la convinzione che i prodotti concorrenti siano sostan­ zialmente uguali, e che perciò il solo fattore che conta è il prezzo. «La loro sola difesa», scrive The Economist, «è investire pesante­ mente sulla pubblicità. Aziende come la Procter & Gamble o la Mars lo scorso anno hanno speso ciascuna più di 20 milioni di sterli­ ne per la pubblicità di marca» (cir­ ca 50 miliardi di lire). II paradosso è che la pubblicità sembra diventata, però, una allea­ ta delle catene di distribuzione che puntano sul fattore prezzo. Que­ ste, infatti, attualmente spendono grosse cifre per pubblicare intere pagine di comparazione dei prez­ zi, dalle quali il prodotto «di mar­ ca» esce quasi sempre sconfitto. I dal momento che sembrano colle­ grandi produttori reagiscono con gate a mutamenti di atteggiamento grosse campagne pubblicitarie ten­ dei consumatori in presenza di una denti a persuadere che vale la pe­ forte recessione economica. In so­ na spendere qualcosa di più per un stanza, si assiste a una «fuga» pro­ prodotto migliore. La caduta della quota di merca­ gressiva dai prodotti alimentari «di marca» (distribuiti cioè con la to di alcune «grandi marche» sem­ marca del produttore) a favore dei bra indicare che, per molte di esse, prodotti distribuiti da catene di su­ la guerra fra prezzi e «immagine di permercati o di negozi con la pro­ marca» è perdente. «Nei prossimi pria etichetta. L’elemento decisivo dieci anni», conclude The Econo­ di questo slittamento è il prezzo. I mist «la marca maggiore in molti prodotti commercializzati con l’e­ di questi mercati potrebbe essere tichetta della distribuzione costa­ quella di un distributore». no meno e, in un periodo di reces­ sione e di forte disoccupazione, «The winning ways of Brand X», questo fattore contrasta in modo The Economist, 4 settembre 1982

Nuove tendenze in Italia Gian Paolo Fabris

S

tiamo assistendo, nel costume mente costituito tanta parte. Non è alimentare, alTemergere pre­ certo una novità ricordare come, potente di due fenomeni a pri­ sino a un recentissimo passato, in ma vista contraddittori ma in realtà molte zone del paese una donna assolutamente coesistenti e specula­ che non sapesse tirare la sfoglia ri. Da un lato si registrano una co­ fosse inevitabilmente condannata stante diminuzione del tempo dedi­ allo zitellaggio. cato alla preparazione dei pasti e la Mentre cioè una volta la prepa­ dichiarazione di un interesse sem­ razione del cibo costituiva uno dei pre minore per il cucinare; dall’al­ compiti più universalmente diffusi tro si riscontra la tendenza - for­ e condivisi nella popolazione fem ­ malmente antitetica - a cimentarsi minile (far da mangiare, infatti, da nella preparazione di piatti com­ una parte significava l’adempimen­ plessi ed elaborati, al recupero di to culturale a una prescrizione di vecchie ricette, a sperimentare, en­ ruolo che non ammetteva deroghe, tro le mura domestiche, menu e essendo il cucinare il più espressivo specialità di altri paesi. Ma la con­ dei lavori domestici, e dall’altra il traddizione, come abbiamo detto, è solo apparente. La tabella 1, che traiamo da un’ampia ricerca sul cambiamento sociale condotta dalla Monitor Demoskopea su campioni rappresen­ tativi della popolazione, dimostra con chiarezza il decadimento di in­ teresse al cucinare nelle donne più giovani e più scolarizzate. In altre prosieguo a un livello fantasmatiparole presso le donne più moder­ co del ruolo di nutrice, dell’oblatine: quelle cioè che più incisivamen­ vità materna), adesso questo si va te hanno messo in discussione la rapidamente ridimensionando. tradizionale declinazione del ruolo In parallelo alla profonda revi­ femminile di cui il lavoro domesti­ sione del ruolo femminile oggi in co (e, nell’ambito di esso, il far da atto, la preparazione del cibo divie­ mangiare) ha sempre tradizional- ne progressivamente disinvestita da

quei significati culturali-psicologici che ne facevano un compito et; ozionalmente assai coinvolgente, per divenire un’incombenza da svolgere rapidamente, con efficien­ za, utilizzando largamente tutte

quelle facilities che l’industria ali­ mentare consente. Indiscutibilmen­ te il fenomeno è sovradeterminato dal jatto che spesso chi fa da man-

Italia

giare ha altri modi di gratificare le sue pulsioni creative, diverse dallo «sfogo» tradizionale della massaia oltre che dalla perdita del significa­ to profondamente materno dell’elargire il cibo preparato con le pro­ prie mani. A l tempo stesso anche la centra­ lità del cibo nella vita degli italiani appare ridimensionarsi: il desco, accanto al talamo, come momento più espressivo dell’intimità familia­ re; la tavola come occasione privi­ legiata di socializzazione; una sor­ ta di coazione a mangiare, anche per esorcizzare i fantasmi ancestra­ li dell’indigenza, in cui la quantità fa largamente aggio sulla qualità: Rabbuffata» (quella sorta di nevro­ si da cibo che alcuni indicavano co­ me tratto caratterizzante la nostra identità nazionale) appaiono infatti in declino. Si osservi, ad esempio, nelle tabelle 2 e 3 il decrescere del livello di assenso a items relativi al vissuto più tradizionale del cibo nella direzione che abbiamo già ri­ levato per l’interesse a cucinare: meno elevato cioè fra i più giovani, i meno scolarizzati e via dicendo. Ma coesiste con queste tendenze la riscoperta del cucinare, invece, come momento di tempo libero, come canalizzazione di istanze di

Sesso maschi

creatività che è difficile esprimere altrove, come fatto culturale. Il di­ sinteresse per il cucinare vale so­ prattutto per la routine quotidiana, laddove appunto alla preparazione dei pasti si richiede di essere la più veloce, pratica e sbrigativa possibi­ le, mentre è nel tempo libero (alla sera, al sabato, alla domenica, per certe ricorrenze, con gli amici) che il cucinare ritrova tutte le sue valen­ ze. E allora il cucinare torna a esse­ re un’operazione lunga e comples­ sa, emozionalmente coinvolgente in cui si sperimentano nuovi menù, si rivisitano antiche ricette, si recu­ perano piatti di desuete tradizioni locali, si preparano sottòli, mar­ mellate, conserve. E in misura cre­ scente il cucinare in questa nuova accezione (a cui si dedica tempo e impegno in un’atmosfera spesso di fattiva collaborazione con altri membri della famiglia, con forti componenti ludiche) coinvolge l’uomo. L ’uomo che, non dimenti­ chiamo, a parte la grande alimenta­ zione, era sempre stato tradizional­ mente escluso da una mansione considerata stereotipicamente co­ me femminile.

Età

Scolarizzazione

femmine

15-17 anni

18-24 anni

25-34 anni

35-54 anni

+ 54 anni

elemen­ tare

media infe­ riore

media supe­ riore

univer­ sità

Tabella 1 «mi piace cucinare»

18.3

9.8

26.0

13.5

13.8

16.1

18.1

24.7

19.2

19.0

16.3

13.5

Tabella 2 «mangiare bene è uno dei piaceri più importanti della vita»

21.0

24.6

17.7

20.1

20.1

20.0

21.0

22.9

20.0

21.9

18.9

16.4

Tabella 3 «a tavola non s’invecchia»

16.5

20.2

13.2

12.7

15.0

15.9

16.5

18.5

16.8

16.6

15.8

10.4


pagina 22

Alberto Guenzi Pane e fornai a Bologna in età moderna Venezia, Marsilio Editori, 1982, pp. 154, lire 11.000 L’indagine sul sistema annona­ rio bolognese affronta il tema del pane a diversi livelli: il processo produttivo, la determinazione del prezzo, la commercializzazione. Ne emerge un quadro che vede l’a­ limento al centro di un intricato nodo di problemi economici e so­ ciali: potere politico, proprietari terrieri, fornai, popolazione, se­ condo diverse strategie trovano nel sistema annonario un terreno di scontro ma più spesso di con­ trattazione e mediazione dei ri­ spettivi interessi. In questo senso la dimensione del pane (le cui oscillazioni di prezzo si tràducevano in modifica­ zioni di peso di una pezzatura dal costo fisso) e il suo colore, più o meno scuro, esprimevano lo stato di salute dell’economia cittadina. In una società preindustriale, per la popolazione la politica era essenzialmente la politica dei gra­ ni; i consumatori in città conosce­ vano e giudicavano l’operato del governo alla luce dei risultati del­ l’approvvigionamento alimentare, in virtù di una convenzione univer­ salmente accettata nelle società d’ancien régime: il dovere del Prin­ cipe di sfamare i suoi sudditi. Il significato politico incorporato dal pane si configurava quindi come un vero e proprio diritto da rispet­ tare sempre, nonostante le crisi e le carestie. A . E.

La Gola

le, da tutti auspicato. I due autori esaminano le forze in gioco e le diverse variabili sulla base dei più noti studi e delle più attendibili proiezioni esistenti, per arrivare a una conclusione precisa: alla fine di questo secolo non vi sarà una catastrofe generale, bensì abba­ stanza cibo per sfamare, in linea teorica, tutti gli abitanti del globo. Tutte le tendenze in atto fanno però ritenere che, con il permane­ re di una iniqua redistribuzione delle derrate disponibili, possano sussistere squilibri regionali e ca­ renze alimentari in alcuni paesi o zone. E le responsabilità maggiori saranno di quanti oggi detengono il «potere verde»: gli Stati Uniti, ma anche l’Europa. A.Z.

Doc. sua disposizione erano tali da per­ metterlo; i rapporti di proprietà e di produzione erano tali da non impedirlo. I rapporti fra gli uomini, il rap­ porto degli uomini con l’ambiente: sono queste le due chiavi con le

mento, il regime alimentare dei rustici nell’alto Medioevo viene a prospettarsi relativamente solido, dal punto di vista qualitativo e quantitativo, in virtù di quella plu­ ralità di cespiti e varietà di risor­ se, divenute più tardi impensabili, che allora permisero di affrontare il problema della fame con dram­ maticità forse minore, e un margi­ ne di sicurezza maggiore, che in altri periodi storici. Di qui prende avvio tutta una serie di ulteriori considerazioni sul tenore di vita della popolazione rurale nell’alto Medioevo, ove la storia dell’alimentazione, intesa non solo nei suoi aspetti materiali, biologici ed economici, ma anche in quelli culturali, ideologici e mentali, che indissolubilmente vi

Alain Revel, Christophe Ribaud Les États-Unis et la stratégie alimentare mondiale, Paris, Calmann-Lévy, 1981 Nel Duemila ci sarà abbastanza cibo per sfamare tutti gli abitanti della terra? Se si guardano i dati statistici disponibili, c’è da essere pessimisti. Nel 1978-79 il deficit cerealicolo del Terzo Mondo è sta­ to di 400 milioni di quintali (quasi cinque volte l’intera produzione italiana di frumento) e tra quattro anni sarà probabilmente di 660 mi­ lioni. Ma per rispondere alla doman­ da bisogna anche esaminare tutta una serie di fattori dai quali dipen­ derà per l’uomo la possibilità di uscire dal grave squilibrio alimen­ tare oggi esistente. Alcuni sono noti: l’andamento demografico, le tendenze climatiche, l’aumento della produttività e della superfi­ cie coltivata. Ma ve ne è un altro troppo spesso trascurato. L’equili­ brio alimentare dipende moltissi­ mo dalle strategie agricolo-commerciali mondiali, che sono preci­ samente uno degli argomenti trat­ tati nel libro di Revel e Ribaud. Essi analizzano lo scacchiere agricolo internazionale, indivi­ duando cinque pedine principali. La prima, la più importante, sono gli Stati Uniti che controllano il 14 per cento dell’intera produzione di grano, il 47 per cento di quella di mais, il 59 per cento di quella di soia (e rispettivamente il 46, 84 e il 72 per cento del commercio inter­ nazionale dei tre prodotti). La se­ conda pedina è l’Europa comuni­ taria, primo importatore e secon­ do esportatore mondiale di derra­ te alimentari. La terza è costituita dai paesi importatori netti, ma sol­ vibili, con in testa quelli dell’Opec e quelli socialisti. Vi sono poi gli stati esportatori ma senza un ruolo dominante sul mercato (Argenti­ na, Australia, Brasile). E, infine, la quinta pedina è quella dei paesi in via di sviluppo con una agricol­ tura arretrata e una assoluta di­ pendenza dalle importazioni ali­ mentari. Dall’interazione e dalle esigenze di tutte queste pedine, dal loro gioco nello scacchiere intemazio­ nale, dipende se si arriverà o meno a quell’ordine alimentare mondia-

Ogge Forme i Laboratorio

Massimo Montanari L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo Napoli, Liguori, 1979 «Nuovo Medioevo», 11 pp. 519, lire 22.000 Nell’alto Medioevo, l’Italia pa­ dana aveva una fisionomia assai diversa da quella attuale: boschi, paludi, brughiere l’attraversavano ovunque, incrociandosi con le aree coltivate e i villaggi. Da questo ti­ po di paesaggio, condizione e ri­ flesso di un’economia a base silva­ no-pastorale non meno che agrico­ la, deriva il particolare carattere dell’alimentazione contadina nel­ l’alto Medioevo. Allora, il conta­ dino era anche cacciatore, pesca­ tore, allevatore, raccoglitore di prodotti spontanei. Le risorse a

làli e delle funzioni. della cultura materiale.

l

) Pesaro Telefono 0721/39127 quali Massimo Montanari, docen­ te di Storia agraria medioevale presso la facoltà di Lettere dell’U­ niversità di Bologna, affronta in questo libro il tema dell’alimenta­ zione contadina nell’Italia del Nord altomedioevale. L’indagine, attraverso un esame minuzioso del regime alimentare nelle sue singole componenti (ce­ reali e legumi, ortaggi o frutta, carne, pesce, bevande, «fondi di cucina» e condimenti, sale spezie, ecc.) tende a proporre un’inter­ pretazione complessiva del proble­ ma, considerandolo in stretta con­ nessione con la realtà del paesag­ gio e delle strutture produttive, dell’organizzazione economica e dei rapporti sociali. Diversamente da quanto in ge­ nere si scrive (e si pensa) sull’argo-

sono collegati, rappresenta an­ che l’occasione per tracciare un ampio affresco della società del tempo. A. E.

Autori vari L’uomo e la nutrizione Voli. I, II e III Bologna, Documentazione Scien­ tifica Editrice, 1981, pp. 1068, lire 160.000 «L’uomo non mangia proteine o vitamine, ma alimenti. Si potrebbe vivere bene a Parigi con un chilo­ grammo di pane, un bicchiere di latte e un frutto. Senza un motivo

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scientifico, si spende quattro volte di più. «Con un ettaro si producono otto volte dì più proteine di grano che proteine di carne, e tuttavia si consu­ mano sempre più prodotti animali senza che la fisiologia lo possa giu­ stificare. «Il povero operaio agricolo del­ l’Africa del Nord acquisterà una bottiglia di Coca-Cola, pagata con un’ora di lavoro, mentre l’operaio industriale la paga dieci volte di meno. L’operaio africano paga lo standing di un gesto». Così dice Jean Trémolières nella sua intro­ duzione, e precisa: «Mangiare si­ gnifica molto di più che nutrirsi. Ad esaminare solo i fatti, il gesto alimentare risuscita, evoca tutta una storia e racchiude in sé tutta una speranza. Chi vuole riassume­ re ciò che ha visto del comporta­ mento alimentare non può che ri­ prendere le due parole barbare dei teologi. Mangiare è comunione e transustanziazione. Mangiare: ap­ partenere a una società. E Egizia­ no colui che beve l’acqua nel Nilo, diceva la legge che definiva la pri­ ma società civilizzata. Dopo trent’anni di rivoluzione e di guerra, non vi è più che il modo in cui noi mangiamo che ci faccia esistere co­ me popolo, mi scriveva un amico vietnamita». Ancora: «Il nostro comportamento non è logico. Noi mangiamo tre volte al giorno, mentre mangiando un giorno alla settimana noi non avremmo esau­ rito che il quarto delle nostre riser­ ve per l’uomo, e l’ottavo per la donna. Potremmo spendere cin­ que volte meno per nutrirci, viven­ do di pane e di latte, e acquistiamo più volentieri ciò che costa di più. L’uomo industriale vive a un livel­ lo calorico-azotato elevato; man­ giando due volte in meno, sarebbe un asiatico alto 150 cm., ma altret­ tanto intelligente ed attivo. Attra­ verso la scelta degli alimenti, l’uo­ mo sceglie il tipo d’uomo che desi­ dera essere, attraverso un sistema di squilibrio perpetuo. Spinto da desideri, anticipo di un piacere fu­ gace, ciò che diveniamo, con l’e­ sperienza tentata, ci piace o ci di­ spiace. Il giudizio che decide se ciò che si è fatto è “piacevole” , se cioè sarà trasformato in abitudini e co­ stumi, ha due origini: una è bio­ logica, mentre l’altro criterio di giudizio dell’atto alimentare è sim­ bolico, associativo, evocatore». Mosè durante l’esodo verso la terra promessa promulgò la prima legge alimentare: infatti, stabilì, che si potevano mangiare solo le bestie dallo zoccolo forcuto, diviso in due unghie, e che ruminano. La legge esclude gli animali che saltel­ lano e quelli che strisciano nonché sorci, talpe, lucertole, lumache. Erano proscritti gli insetti alati a eccezione delle cavallette. Di questo e altro parla questa enciclopedia o di una «summa ali­ mentare» dove dalla biochimica, alla filosofia, alla patologia, alla psicologia, emergono di continuo l’uomo e i suoi problemi nel corso dei secoli. L’opera in tre volumi, curata nell’edizione italiana da Bruno Barosco e Giacomo Marcolin, ha come titolo originale Le grand livre de la nutrition e de la diététique. È stata ideata da Michel Villemont ma materialmente compo­ sta da Jean Trémolières, uno dei pochi illuminati che in epoca lontana si adoperarono nelle varie parti del mondo affinché la comunità scientifica intemazionale cono­ scesse l’importanza della ricerca nel vasto campo interdisciplinare della nutrizione. L’enorme trasformazione di una civiltà di agricoltori in una di tecni­ ci non ha ancora prodotto un pro­ prio tipo alimentare con tutto quel che ne deriva. Così la legislazione attuale nel settore resta più vicina a quella dei codici babilonesi che alle esigenze della nostra epoca. Essa definisce le frodi e le altera­ zioni, ma ignora l’informazione basata su definizioni corrette. Questa importante opera rappre­ senta un punto di approdo, ma “aperto” alle nuove conoscenze dietetiche e alimentari. A.B.


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Sono stati pensati per allargare il consumo dei vini tra i giovani, a causa del loro sapore leggero e fruttato, ma finora sono piuttosto adottati da una cucina creativa e d'élite. Prospettive e problemi di un nuovo prodotto.

I vini nuovi dell’ anno Antonio Piccinardi

el dire vino nuovo, ci si ri­ ferisce da alcuni anni al «vino novello» o «vino gio­ vane», diciture che il Decreto mi­ nisteriale del 10 novembre 1979 ha stabilito venissero impiegate per i vini da tavola con l’indicazione geografica e i vini da tavola tipici, purché riportino l’indicazione del­ l’annata di produzione delle uve. Inoltre, i vini debbono essere im­ bottigliati entro il 31 dicembre del­ l’annata relativa alla vendemmia da cui derivano le uve utilizzate per la produzione. Sono pertanto esclusi, daf novelli o giovani, i vini a denominazione d’origine con­ trollata. Vino nuovo, nella tradizione, ri­ porta ad alcuni vini rossi della To­ scana prodotti a Montespertoli, Vinci, Cerreto Guidi oppure in Romagna col vino Cagnina, per consuetudine vinificati anticipatamente e quindi proposti con le ca­ stagne arrosto. Zone storicamente vocate per vini nuovi sono il Tren­ tino e l’Alto Adige, anche se in molte altre regioni, come ad esempio il Dolcetto in Piemonte, consuetudinariamente furono pro­ posti, pochi mesi dopo la vendem­ mia, i vini nuovi tradizionali, an­ cora acerbi, ricchi di tartarico, tan­ nici e terribilmente disarmonici. Il primo vino nuovo italiano, nella concezione moderna del vo­ cabolo, appositamente preparato al fine di ottenere un prodotto ar­ monico e fresco a metà novembre, è stato il Vinot di Angelo Gaja, vitivinicoltore a Barbaresco, cuore viticolo del Piemonte. Avvenne nel 1975. Gaja, impiegando uve Nebiolo vinificate con la macera­ zione carbonica, produsse 12.000 bottiglie di questo nuovo vino. Il nome Vinot, scelto da Gaja, si ricollega a quel vino ottenuto sino al 1945 dai contadini langaroli uti­ lizzando uve di scarto, addirittura aggiungendo acqua, e che rappre­ sentava la bevanda immediata­ mente pronta dopo la vendemmia. Era vino fresco e leggero, facil­ mente deteriorabile: in ogni modo il primo vino pronto dell’anno. Per questo la scelta del nome cadde sul «vinello» della tradizione pie­ montese. Lo stesso anno, anche gli Antinori prepararono un vino nuovo in Santa Cristina, poco distante da Firenze, utilizzando uve Sangiove­ se e in piccola parte Cannaiolo. La produzione sperimentale fu di 9.000 bottiglie, commercializzate nel gennaio 1976; anche in questo caso il vino fu vinificato con mace­ razione carbonica. Il vino degli Antinori si chiamò nel 1975 e l’an­ no seguente «Vino nuovo», e solo dal 1977 in poi fu etichettato con la dicitura «San Giocondo» e propo­ sto il 14 novembre di ogni anno, ricorrenza del santo omonimo.

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acerazione carbonica è la tecnica di vinificare senza pigiare le uve: consiste nel mettere i grappoli intieri in una vasca chiusa addizionando anidride carbonica (C 02). In tal modo le uve subiscono una fer­ mentazione intracellulare; pigiatu­ ra e torchiatura sono effettuate dopo questa fase. La vinificazione con pigiatura parziale o senza pi­ giatura è pratica antica in molte regioni, soprattutto quando le uve non erano trattate meccanicamen­ te. Già nel 1872 Pasteur si chiede­ va quale sarebbe stata la differen­ za qualitativa tra due vini i cui aci­ ni siano stati, in un caso, perfetta­ mente schiacciati, nell’altro lascia­ ti per la maggior parte intieri. Sessantanni dopo, sempre in

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Francia, Flanzy approfondisce la conoscenza dei fenomeni e predi­ spone l’utilizzazione più razionale del procedimento. Le uve in con­ dizioni anaerobiche, senza ossige­ no, in atmosfera di anidride carbo­ nica, sono assoggettate a una fer­ mentazione che trasforma una pic­ cola quantità di zuccheri in alcool. Non è questa l’unica trasforma­ zione: in effetti, vi è una diminu­ zione dell’acido malico, compo­ nente che dà al vino acidità ag­ gressiva ed eccedente. Altro fatto molto importante è che le sostanze aromatiche presenti nella buccia per mezzo della macerazione car­ bonica si diffondono nella polpa. La macerazione carbonica è di particolare vantaggio per quelle zone che hanno tendenza a dare vini duri e acidi. I vini prodotti con questa tecnica conservano la loro gradevolezza nel corso del primo anno, mentre sopportano male l’invecchiamento, perdendo il pro­ prio particolare carattere fruttato. E tecnica costosa e difficile da at­ tuare per il controllo dei batteri acetici e lattici, ma se eseguita con rigore fa sì che il vino nasca armo­ nico in termini di freschezza e di pronta beva, con profumo fra­ grante e fruttato di particolare serbevolezza. In genere, la fermentazione ma­ iolattica viene attuata per la metà della quantità di acido malico pre­ sente, il che significa che il 50 per cento di questo acido si trasforma in acido lattico; la parte rimanente resta com’era dando al vino fre­ schezza e sapidità.

contemporaneamente? Senza dub­ bio il dilagante successo del Beau­ jolais Nouveau, quindi la necessità di utilizzare in maniera diversa le uve eccedenti, di realizzare un prodotto pronto e commercializza­ bile dopo poche decine di giorni dalla vendemmia evitando immo­ bilizzi di capitale, di sollecitare un consumo alternativo, quello del vi­ no nuovo, estremamente diverso dal vino tradizionale, nonché di proporsi come iniziatori di una moda. In parte ci riuscirono, so­ prattutto nei primi anni; il Mini­ stero stesso, dopo le esperienze di Gaja e Antinori, varò la norma precedentemente citata del 1979. Padre indiscusso dei novelli ita­ liani è il Beaujolais Nouveau, che nasce in Francia tra il 1939 e il 1945, in seguito a una decisione amministrativa degli occupanti te­ deschi che prevedevano una com­ mercializzazione a partire a tempi alterni del raccolto. In questo mo­ do una partita di vino Beaujolais fu messa sul mercato poco dopo la vendemmia e degustandolo ci si accorse che questo vino poteva es­ sere commercializzato molto rapi­ damente. Individuata la tipologia, la legge francese ne difese caratte­ ristiche e immagine. La vinificazione del Nouveau francese avviene in tempi molto brevi, utilizzando uve Gamay, con una semimacerazione carbonica, senza l’impiego di anidride carbo­ nica aggiunta. L’uva a grappoli in­ tieri è messa nelle vasche non completamente colmate, così che la parte superiore del vaso vinario raccolga l’anidride carbonica natu­ uali le motivazioni che ralmente sviluppata dall’uva in hanno mosso i due vinifica­ fermentazione. tori Gaja e Antinori, ignari Alcuni dati relativi al 1981 sono, dell’analoga iniziativa intrapresa a mio avviso, sorprendenti. D nu­

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mero di produttori di vino Beaujo’ais e Beaujolais Villages (entram­ be le denominazioni sono com­ mercializzabili con la dicitura Nouveau) è di 5.500, le bottiglie commercializzate 42 milioni. È al­ tresì sorprendente l’impegno pro­ mozionale attuato per questo vi­ no: collaborazione stretta con le compagnie aeree, degustazioni ne­ gli aeroporti di Parigi e di Lione, organizzazioni di rallyes, anima­ zione nel nuovo quartiere parigino Forum, capacità di diffondere si­ multaneamente il prodotto in qua­ si tutto il mondo. « Tirage de Primeur» è l’identificazione di una primizia che anticipa, di parec­ chio, il consueto rituale nella pro­ posta dei vini: questo è l’elemento nuovo proposto dai francesi per mezzo del Beaujolais Nouveau. uale dovrebbe essere il si­ gnificato dei vini nuovi ita­ liani ora presenti in buon numero sul mercato? Il Novello dovrebbe rappresentare un consu­ mo in più, diffondere la moda del­ la novità nel vino (troppo spesso l’immagine di questa bevanda è le­ gata a stereotipi obsoleti), inoltre sollecitare, incuriosire, spingere al consumo di vino nuovi soggetti. Purtroppo il frazionamento ter­ ritoriale dei produttori di Novello e la cronica incapacità dei vinifica­ tori italiani di raggiungere un ac­ cordo collettivo sull’immagine non hanno permesso di creare una mo­ da, di sancire un avvenimento, che sono fattori indispensabili per il successo di un nuovo prodotto. Nei primi anni essi ottennero, con la novità, un discreto successo, poi non suffragato per la mancanza di una immagine comune. L’iniziati­ va poteva espandere il consumo ri­

chiamando i giovani a un prodotto particolarmente vicino ai loro gu­ sti; e non v’è dubbio che un freno notevole è stato anche attuato con il prezzo, spesso incredibilmente alto: si è voluto (questo vale per alcuni produttori) considerare prodotto d’élite un vino nato con caratteristiche di ampio consumo. Alcuni distributori, inoltre, sono convinti che sì è trattato più di una esigenza produttiva che di una po­ tenziale aspettativa del mercato. Proporre un vino dopo poche de­ cine di giorni, evitando immobiliz­ zi di capitale e destinando uve non al prodotto tradizionale, sempre meno richiesto, è stata la molla che ha spinto i produttori. Sono convinto che il Novello italiano possa avere una funzione trainante nei consumi dei giovani, i non tradizionali bevitori, se viene garantito un prezzo coerente, e diffusa un’immagine comune sul prodotto. In questo senso, ha avu­ to in parte, e potrebbe avere ancor più in futuro, un significato cata­ lizzante sul mercato del vino. La contraddizione evidente del prodotto fresco, giovane, serbevole proposto a novembre alla tem­ peratura di 14 °C è con la cucina regionale italiana. In autunno le proposte si alternano tra funghi, tartufi, cacciagione, piatti compo­ siti e ridotti, ai quali è indispensa­ bile abbinare vini di buon corpo, invecchiati, austeri: non v’è sim­ biosi tra questi cibi e i vini novelli. Per di più vi sono giacenze di note­ voli quantità di vini invecchiati, una tradizione di abbinamento e soprattutto la necessità di difende­ re il patrimonio enoico italiano. L’unico elemento di coerenza col Novello è dato dall’abbina­ mento alla cucina creativa italiana che sta largamente diffondendosi. Qui la gentilezza delle preparazio­ ni e la freschezza dei piatti trovano coerente abbinamento con il No­ vello. Tuttavia, solo una élite di consumatori si avvicina a questo nuovo modo di proposta dei cibi, e quantitativamente, per quanto ri­ guarda i consumi, ha un peso limi­ tatissimo anche se ha grande capa­ cità trainante per l’immagine di estrema raffinatezza che propone.

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I Novelli previsti per il 1982 sono: Antinori: San Giocondo; Cà del Bosco: Vino novello; Cant. Soc. Cormaiano: Vino di San Martino; Coldorcia: Novembrino; Contini Bonacossi: Vin. Ruspo; Colosio: Vino nuovo; De Castris: Novello; Duca d’Asti: Fior d’Autunno; Fre­ scobaldi: Nuovo Fiore; Fiorina: Primaticcio; Gaja: Vinot; Gradnik: Vin nuovo; Lamberti: Bardo­ lino; Maculan: Perla; Negri: No­ vello; Pezzi: Sangiovese; Ronco: Grignolino; Serra: Erbaluce; Vai­ lunga: San Marten; Volpi: San Martino.


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Vautore d i A ltri libertini

La Gola • ottobre 1982

Il passaggio d all uva al vino è fatto di molte scelte, non solo tecniche ma economiche e culturali. E un vino buono non e mai semplice \ presuppone un sapere molto strutturato e la messa in opera di una tradizione verificata.

Tècniche del vinificare

FELTRINELLI PIER VITTORIO TONDELLI

Francesco Spagnoili

Pao Pao Sfrenatamente divertente, tenero ma anche drammatico Le passioni, l’irrequietezza, i giochi, la sensualità, la musica, la gayezza di un gruppo di ragazzi durante il servizio militare dentro e fuori la caserma

Vautore d i Cocaina

FELTRINELLI

In bianco

In rosato

In rosso

PER: uve bianche a gusto non aromatico, uve rosse da cui si vuole un vino bianco o rosato

PER: uve rosse da cui si intende elaborare un vino rosato

PER: uve rosse da cui si vuole ottenere un vino rosso; uve bianche aromatiche (es.: Moscato)

Raccolta e scelta delle uve

Raccolta e scelta delle uve

Raccolta e scelta delle uve

Trasporto con molta cura in cantina Pigiatura

Trasporto in cantina Pigiatura

Trasporto in cantina Pigiatura

Pressatura

Diraspatura

Diraspatura

Solfitaggio del mosto

Solfitaggio del pigiato

Solfitaggio del pigiato

Defecazione del mosto (statica o dinamica)

Breve macerazione sulle vinacce (12-36 ore)

Fermentazione con macerazione

Fermentazione a temperatura controllata (18-22 °C)

Svinatura

Svinatura

Affinamento del vino

Fermentazione a temperatura controllata

Fermentazione lenta

Imbottigliamento sterile

lllimpidimento del vino

Fermentazione malolattica

Affinamento

Invecchiamento in botti di legno Stabilizzazione spontanea

LA DROGA PERFETTA Rapporto sul tabacco da fumo di Giancarlo Arnao illustrazioni di Vincino Un libro provocatorio dell’autore di Cocaina Aspetti medici, farmacologici, psicologici e culturali Dall’ iniziazione giovanile ai drammatici effetti sulla salute, al formarsi della dipendenza, alla difficoltà della disintossicazione. Autocoscienza dei fumatori

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Spedire a: g g DSE via Irnerio 18, 40126 BOLOGNA ATTI ALIMENTARI E ATTI CULINARI Alimentazione Evoluzione Cultura Essere onnivoro è avere la libertà di scelta, ma anche l’obbligo della varietà: come esercitiamo questa scelta? Come subiamo questo obbligo? Perché mangiamo quello che mangiamo e non qualcos’altro? Qual è il limite tra il commestibile e il non commestibile?

Un’antropologia fondamentale dell’alimentazione dovrà circolare incessan­ temente dalla chimica alla mitologia, dal simbolico al biologico. Prego inviarmi in contrassegno l’opera

ATTI ALIMENTARI E ATTI CULINARI al prezzo di L. 11.000

Cognome e Nome

Città

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Data

Firm a

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Cap

Imbottigliamento sterile Rapido consumo

ttobre è in tutta Italia il mese della vendemmia, il momento in cui il viticolto­ re vede finalmente appagate le sue speranze sull’esito del raccolto, sente al sicuro la produzione, assa­ pora il piacere della meritata re­ munerazione delle fatiche. Un momento di gioia, insomma: pro­ prio per questo, forse, ha ispirato spesso poeti e pittori. Con la vendemmia il lavoro del viticoltore finisce, proprio mentre inizia quello dell’enotecnico. E il momento del cambio delle conse­ gne, del passaggio del testimone in una gara a staffetta, dove perdere anche qualche frazione di secondo potrebbe essere fatale agli effetti del risultato finale. Infatti, sulla pianta l’uva è in continua evoluzione biochimica, cioè modifica di continuo la pro­ pria composizione. Perciò, è possi­ bile ottenere prodotti diversi a partire dal medesimo vitigno, ma vendemmiando in date diverse. Valga in proposito l’esempio del Pinot nero, dai cui grappoli si può preparare un vino base spumante (bianco) oppure un vino rosso da arrosto, oltre che con un diverso schema di vinificazione, anche con un differente momento di effettua­ zione della vendemmia (anticipata nel primo caso). Alla vendemmia segue imme­ diatamente la vinificazione, cioè la trasformazione dell’uva o del mo­ sto in vino. Ci sono delle eccezio­ ni. In Germania, ad esempio, in qualche caso si conserva il mosto e si attua la vinificazione solo qual­ che mese prima di commercializ­ zare il vino, nell’intento di immet­ tere sul mercato un prodotto estre­ mamente fresco e caratterizzato dal profumo fruttato sviluppatosi durante la fermentazione alcolica, che invece, inevitabilmente, si at­ tenuerebbe con la conservazione. In Italia, fedeli al fatto che il vi­ no deve sempre mantenere l’im­ magine di prodotto naturale, deri-, vante dall’evoluzione praticamen­ te spontanea della materia prima, con l’enotecnico intento a dirigere e sorvegliare i processi piuttosto che a forzarli, una simile pratica non è permessa.

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a vinificazione è un momen­ to importantissimo per la qualità del futuro vino: un po’ come un tappone alpino ri­ guardo alla classifica finale del Gi­ ro.

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Rapido consumo

Imbottigliamento Invecchiamento ulteriore Consumo

Fondamentalmente esistono tre schemi di vinificazione: in bianco, in rosato e in rosso. Precisiamo su­ bito che i termini non si riferiscono né al colore della materia prima, né a quello del prodotto finale: ci capiremo meglio tra poco. Vinificare in bianco significa condurre la fermentazione alcolica sul solo mosto, allontanando com­ pletamente le parti solide del grap­ polo (raspi, bucce e vinaccioli) in fase pre-fermentativa. Seguendo tale schema, l’uva arriva in cantina con gli acini ancora perfettamente integri; poi viene pigiata in manie­ ra soffice, e quindi messa in pres­ se, per lo più orizzontali, che ope­ rano lo sgrondo della frazione li­ quida. Successivamente il mosto viene defecato, cioè privato dei materiali intorbidanti grossolani, per fermentare infine previo ade­ guato inoculo di lieviti selezionati. In questo modo, la fermentazione alcolica denota un andamento re­ golare e non tumultuoso: sono più

tamente pensare di tomare com­ pletamente indietro, ricorrendo alla macerazione per ottenere vini bianchi: si avrebbe un eccessivo arricchimento in composti fenolici e perciò maggior suscettibilità al­ l’ossidazione. Pertanto, bisogna scegliere il minore dei mali... La vinificazione in rosso, invece, muove dal presupposto che la fer­ mentazione alcolica è condotta in presenza delle vinacce: da queste l’alcool etilico, che si forma pro­ gressivamente ad opera dei lieviti, estrae parecchie sostanze, e princi­ palmente: composti coloranti, aro­ mi, polifenoli. Di norma, seguono questo schema le uve rosse da cui si vuole ottenere un vino del me­ desimo colore, ma a volte anche uve bianche, qualora si vogliano estrarre gli aromi caratteristici dal­ le bucce (ad esempio, per il Mo­ scato). La tecnologia della vinificazione in rosato, infine, può essere basata o sull’elaborazione in bianco di uve rosse, oppure su una breve macerazione delle medesime, a se­ conda dell’intensità colorante che si vuole realizzare.

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contenuti gli innalzamenti di tem­ peratura e si arriva a un vino dal profumo più delicato, marcatamente fruttato. Però... Ogni medaglia ha un rovescio, e anche la vinificazione in bianco non si sottrae alla regola universa­ le degli inconvenienti. Infatti, in questi ultimi anni, soprattutto in alcune regioni italiane caratteriz­ zate da una certa schiera di viti­ gni a frutto bianco (Trentino-Al­ to Adige, Friuli-Venezia Giulia, ecc.), si è notato un certo appiatti­ mento nei profumi che, pur re­ stando gradevoli e fruttati, non evidenziano più le caratteristiche aromatiche distintive. Ed è per que­ sto motivo che di frequente risulta problematico individuare attraver­ so l’assaggio se si tratta di una Ri­ bolla o di un Verduzzo, di un Tocai o di un Pinot, di un MüllerThurgau, o di un Traminer, e così via. D ’altro canto, non si può cer-

uesta la tradizione. Ma or­ mai da parecchi anni sono apparsi nuovi metodi di vi­ nificazione, ognuno dei qua sente di realizzare determinati vantaggi. Così, ad esempio, la vi­ nificazione continua, adatta so­ prattutto qualora arrivino alla can­ tina grandi quantità di materia pri­ ma praticamente uniforme, la ter­ movinificazione e la vinificazione a caldo in genere, e la macerazio­ ne carbonica. Tutti questi sistemi si addicono alla preparazione di vini rossi, con tendenza a separare la fase della fermentazione (trasformazione dello zucchero in alcool e anidride carbònica^ da parte dei lieviti) da quella della1 macerazione (estra­ zione mediante solubilizzazione di determinati composti presenti nel­ le parti solide del grappolo e so­ prattutto nelle bucce). Almeno a grandi linee, questo è il modo in cui i mille e mille tecnici che operano in Italia provvedono a trasformare in vino una media di 100 milioni di quintali di uve. Si impegnano per ottenere un pro­ dotto di qualità, apprezzato dal consumatore ma soddisfacente an­ che sotto l’aspetto tecnico. E per­ ciò dunque, l’enologia è in conti­ nua evoluzione...


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l cavolo è stato legato (e, in parte, forse lo è ancora) al fan­ tasma della povertà, alitato dal suo «cattivo» odore. Odore di ca­ volo, cucine dal soffitto basso e malsane, contadini avvolti dai va­ pori dell’acqua che bolle con den­ tro ogni specie di cavolo, sguardi lividi e ostili... Ma il fantasma del­ la povertà, e della fame a malape­ na quietata, con brodi di radici e cavoli e altre erbe, si trasforma an­ zi svanisce se il nostro sguardo as­ sume una dimensione storica e la nostra mente, libera da condizio­ namenti, comincia a rimacinarne la storia. I cavoli sono spontanei, la loro scoperta risale alla preistoria e la loro selezione a opera dell’uomo è considerata plurimillenaria, alme­ no nell’Europa meridionale e occi­ dentale e qualcuno pensa anche nell’Asia occidentale. L’uomo ha visto i cavoli crescere e ne ha sco­ perto le proprietà non solo nutriti­ ve ma anche mediche, soprattutto per la sua azione antiscorbuto (il che significa ricchezza di vitamina C, analoga a quella del limone), per l’attivazione della diuresi e la stimolazione della peristalsi inte­ stinale (alto ne è il contenuto di fibre cellulosiche), uno dei crucci supremi dell’età moderna avanza­ ta. Accertate tutte le sue proprietà e resisi ben conto che i cavoli cre­ scono anche d’inverno (dono tar­ divo della madre terra quando tut­ to sembra ormai tacere), gli umani hanno cominciato a selezionarli con cura; di qui le varietà oggi più note e le contemporanee e l’estreme variazioni dell’uso: dalla tavola del povero a quella di un re (il ca­ volfiore viene bollito nel brodo con aggiunta di macis e servito alla mensa di Luigi XIV con guarnizio­ ni di burro fresco).

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Scrive Piero Camporesi nel fina­ le deH’introduzione alla Scienza in cucina (edizione citata): «A que­ sto punto la storia della cucina e dell’alimentazione diventa sensibi­ le strumento per l’esplorazione concreta non solo del reale, ma anche del profondo: uno dei molti occhi che la meditazione degli uo­ mini ha inventato per spiale den­ tro le funzioni non visibili della ve­ ra natura umana che la lettura del­ l’alfabeto simbolico degli alimenti c’insegna a meglio penetrare, per­ ché “la cuisine d’une société est un langage dans lequel elle traduit inconsciemment sa strutture” (LeviStrauss, L ’origine des manières de table, Paris, Plon, 1968, p. 411)».

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redo che gli umani siano stati colpiti prima di tutto dalla bellezza dei cavoli e ne abbiano anche accostato la cre­ scita e lo sviluppo alla nascita dei cuccioli d’uomo: la testa di un ca­ volo che preme tra le foghe è la testa di un bambino che viene spinto fuori dalla madre al compi­ mento del nono mese della gravi­ danza. E l’immagine speculare dell’atto sessuale, in uscita, ap­ punto, anziché in entrata, verso ì’aria, dopo la penetrazione nell’o­ ceano uterino e placentare. Bel­ lezza e memoria della nascita: so­ no le forme che lo dicono. Il cavo­ lo non è un segno, è una rappre­ sentazione, è arte. Uno scultore nostro contempo­ raneo, dopo avere passato un’e­ state in campagna e avere prolun­ gato quel suo soggiorno fino al principio dell’autunno, è stato se­ dotto daU’apparizione dei cavoli verzotti tanto che è corso in fonde­ ria e ha cercato di fissarli in imma­ gini solari, bronzee. Si deve essere poi reso conto che il suo gesto era una risposta amorosa ma super­ flua: basta attendere con pazienza il ritorno dell’autunno per avere ogni volta la conferma che l’inver­ no non passerà senza le sue scultu­ re viventi, e commestibili. Se i cavoli verzotti ci stupiscono per la delicatezza del loro color cinerino, quasi consunzione di un’ultima fiammata dentro una terra ancora calda e arrossata dal­ l’estate appena finita, i cavoli ros­ si, che arrivano a essere violacei, ci indicano percorsi ormai nottur­ ni, segnalano sentieri dove la luce si attenua per venir trattenuta ai limiti della sopravvivenza (dove si traccia il limite tra la vita e la sua cancellazione). Nel pieno di una notte fermen­ tante ci introducono i cavoli neri. Nella lunga notte invernale sono quelli che più hanno trattenuto della luce solare. I cavoli neri co­ me gli Etiopi, «la cui pelle, brucia­ ta dall’ardore del Sole, brilla natu­ ralmente del sacro fulgore del fuo­ co» (Jean-Pierre Vemant), porta­ no nel loro stesso nome il senso di un culto solare (Aithiopes = «i visi bruciati, i visi neri di fuoco»).

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ei violetti di Sicilia, o cavol­ fiori neri, ha scritto Ludo­ vico Castelvetro (15051571) che «tengono di bontà e di

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Il cavolo nero è un prodotto molto particolare, per le risonanze simboliche che provoca e per la filosofia che propone. Uno scrittore lo esplora in questa prospettiva multipla.

\ferso il cavolo nero Antonio Porta

beltà tra tutte le spezie dei cavoli il primo onore. Questi, cotti prima in acqua con poco di sale, s’acco­ stano in insalata come de’ lupuli s’è dimostrato. Se ne fa poi mine­ stra rara, e allora si cuociono in buon brodo, e si mette prima, nel piatto nel qual si vogliono mette­ re, delle fette di pane, sopra le quali si pongono poi i cotti fiori con un poco del loro brodo e con cacio vecchio grattuggiato e pe­ pe». Il cavolo nero di Toscana, il ca­ volo nero a penna, e il fiorentino detto anche palmizio, non ha fiori, si affida tutto alla pelle delle sue foglie etiopi. Che sia detto palmizio significa che può raggiungere anche i 2 metri di altezza, una giungla notturna e solare, dove ci si può perdere; ma a quel punto di crescita vertiginosa servirà solo da foraggio per le bestie, non sarà più cibo di uomini né di dèi. Perché sia profumato (nessuno ha mai pensa­ to che il cavolo nero toscano aves­ se cattivo odore o sapesse di po­ vertà e indigenza) e adatto all’uo­ mo (e forse agli dèi), deve esser naturalmente colto in età adole­ scenziale, con ancora poche foglie esterne dure da eliminare.

Di fatto con l’eliminazione delle «costole dure» cominciano molte ricette di cavolo e conviene com­ mentare quella di Pellegrino Artu­ si (1820-1911) n. 438 de La scienza in cucina e Varie di mangiar bene (mi riferisco all’edizione Einaudi, Torino 1974, a cura e con introdu­ zione e note di Piero Camporesi), intitolata Cavolo nero per contor­ no: «Levategli le costole dure, lessa­ telo e tritatelo fine. Se non avete sugo di carne fate un battutino di prosciutto e cipolla, mettetelo al fuoco con un pezzetto di burro e quando la cipolla sarà ben rosola­ ta, bagnatela con un gocciolo di brodo e passate il sugo formatosi. In esso gettate il cavolo, conditelo con pepe, poco o punto sale, ag­ giungete un altro pezzetto di burro e altro brodo, se occorre, e servi­ telo per contorno al lesso o al cote­ chino. «Alcuni usano per minestra di arrostire fette di pane grosse un dito, di strofinarle con l’aglio, d’intingerle appena nell’acqua in cui ha bollito il cavolo nero, po­ nendoci sopra il cavolo stesso, an­ cora caldo, e condendolo con sale, pepe e olio. Questo, che chiamasi

a Firenze cavolo con le fette, è un piatto da Certosini o da infliggersi per penitenza ad un ghiottone». urioso che una ricetta per un «contorno» abbia preso la mano all’ottimo Artusi (che è ottimo proprio perché da vero scrittore si lascia «prendere la mano» dalla scrittura) e lo abbia spinto su una strada opposta, dalla golosità del soffritto all’austerità da Certosini, fino alla «penitenza per ghiottoni». Il fatto è che que­ sta sorta di lapsus ben controllato (mi si perdoni l’ossimoro e lo si capisca) svela, contro l’intendi­ mento iniziale del ghiottone tradi­ zionale, due conflittuali anime che engono insufflate nel cavolo nero o che dal cavolo nero vengono in­ spirate nella mente umana. Come se Don Giovanni avesse scoperto la bellezza di un catalogo di rinun­ ce parallelo a quello famoso delle conquiste («e in Ispagna son già milletre...»). Profumo, dunque, più che sapo­ re della minestra di cavolo nero, e palato ancor più esercitato quello da Certosini, tale da cogliere l’as­ senza più che la presenza, l’impal­ pabilità più che lo stimolo violento.

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Ricette di famiglia a cura di Ambrogio Gagliolo

Cavolo nero ripieno (Liguria) Utilizzo un frutto di media gran­ dezza, che svuoto del torso, con­ servando l’involucro esterno. Le foglie interne sono la base del trito in unione ad aglio, prezzemo­ lo, uova per l’amalgama unendole a un poco di pane vecchio inumidi­ to nel latte. Insaporisco la pastella con poca mortadella o salsiccia tagliata a da­ di e unita al tutto, mentre le spezie sono sale, pepe nero, noce moscata e maggiorana. (Chi ama la salvia e la mentuccia può utilizzarle). Condiziono l’involucro esterno del cavolo in un coccio a bordi alti, sul fondo del quale pongo due spa­ ghi in croce, che utilizzo in cottura per ritenere l’involucro ed evitare che s’apra. Riempio l’involucro e lo serro a cocca, lo inforno a temperatura media, con sugo di pomodoro e

una spruzzata di vino bianco di tanto in tanto per evitare che bruci. Posso utilizzare anche una cas­ seruola a fuoco lento, per cuocere il tutto, oppure scegliere una bolli­ tura lenta a bagnomaria, sempre con sugo di pomodoro e poco vino bianco di tanto in tanto. Col medesimo procedimento posso riempire le foglie singole del cavolo, formando dei piccoli invol­ tini, che possono cuocere in una zuppa di cavolo nero. Per questa ipotesi l’unica accortezza è la ne­ cessità di scottare preventivamente le singole foglie che utilizzo per l’involucro esterno degli involtini. Zuppa di cavolo nero In un soffritto d’aglio, olio e ci­ polla aggiungo una quantità di pe­ pe nero tritato, distendo le foglie di cavolo nero ben lavate e mondate, tagliate a liste. Aggiungo brodo di

dado vegetale o carne, e cuocio a fuoco lento sino a cottura ultimata. La base del soffritto è olio di oliva vergine. Insalata di cavolo nero (bergamasca) Le foglie lavate e mondate del cavolo nero sono bollite al punto che possono perdere la loro carat­ teristica crosta resistente. Si condiscono tiepide come una qualsiasi insalata, con olio, limo­ ne, pepe e sale. Per condire le foglie posso utiliz­ zare una pastella di acciughe ben lavate e spinate, che in un mortaio pesto con aglio e olio con sapienza, tanto che la stessa rimanga né trop­ po liquida né troppo solida. Aggiungo prezzemolo pestato, se piace.

A questo punto» significa «nel momento presente», in cui avvertiamo l’effetto di due tensioni opposte: una muta­ zione verso l’innaturalità a partire dal cibo (il cibo come colore e an­ siolitico più che come gusto e ali­ mento necessario) e un ritornò utopico ma diffuso (mi si perdoni e si interpreti anche questo secon­ do ossimoro) verso l’essenzialità naturale. La tensione verso l’artificiale provoca anche un sensibile au­ mento dell’anoressia (il mortale ri­ fiuto che il corpo oppone a qual­ siasi alimentazione), mentre la ne­ cessità di essere in consonanza con la naturalità dovrebbe produrre più conoscenza alimentare (e certi segnali sembra lo confermino). Ma ancora: si tratta di una cono­ scenza in direzione della ghiotto­ neria pura e semplice, direi rozza, da nouveaux riches, oppure di una via che conduce fino alla raffina­ tezza povera ma assoluta del pala­ to da Certosini? Torniamo al lapsus di Artusi e alle due possibili anime del cavolo nero. Nell’inconscio della società attuale si possono scoprire inferni molteplici, ma possiamo pensare che nell’inconscio sociale ci sia an­ che un filtro che qualcuno o mol­ tissimi sono in grado di usare, mentre l’inferno rimane mèta di pochi. Ciò che passa da questo fil­ tro sembra suggerirci che l’austeri­ tà ha profonde esigenze e che non significa, quando si rinuncia al su­ perfluo, fare a meno del gusto, dimenticare la gola, piuttosto il contrario: pochi eccelsi sapori (l’a­ glio strofinato sul pane abbrustoli­ to e condito con l’olio d’oliva) e poche misture sicure (dunque non mistificanti), contro la prolifera­ zione dei gusti artefatti e ansioliti­ ci. L ’alfabeto del cavolo nero «sil­ laba nuovo», nel senso di opposto alla nostra storia coatta. Scheda tecnica Il cavolo nero è una verdura a ciclo vegetativo bimestrale, sempre e co­ munque a pieno campo. Il suo habitat non richiede prepara­ zioni del terreno che non siano le usua­ li (aratura, preparazione del letto, se­ mina). Resistente alle malattie, soffre la mancanza d’acqua e quindi diviene una verdura invernale. Limitatamente resistente al gelo, sopporta temperatu­ re non inferiori ai —2, —3 gradi. Le sue zone naturali di coltivazione sono perciò Liguria e Toscana entro un raggio di massimo di circa 5.000 metri di lontananza dal mare, sempre che le zone di coltivazione possano essere in­ fluenzate dal clima marino; considera­ ta tuttavia la sua particolare robustez­ za, il cavolo nero può crescere ovun­ que in Italia. L’optimum perché vegeti esente da malattie o parassiti è un clima umido, piuttosto fresco e ricco di abbondanti precipitazioni. In questo periodo i ri­ fornimenti (relativi a Milano) sono ga­ rantiti da un prodotto pugliese, in tem­ pi più avanzati lo stesso verrà sostituito da prodotto di provenienza ligure o to­ scana. Non si confonda la provenienza con le ragioni climatiche, dato che la pro­ duzione alla data odierna è condizio­ nata da motivazioni di tipo economico (la Liguria e la Toscana sono avare di ampi spazi agricoli e in questo periodo stanno sviluppando coltivazioni di al­ tro genere più convenienti economica­ mente per il produttore).

Cfr. sull’argomento Riccardo Di Corato 838 frutti e verdure d’Italia Milano, Sonzogno, 1979 pp. 335, lire 10.000


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La Gola • ottobre 1982

Un musicista che, come tanti altri, ha composto attraverso metafore culinarie. Ma c’è di più: in musica e a tavola Satie predica la semplicità bianca.

Il cibo di Erik Satie Ornella Volta

ean Cocteau ha scritto un giorno: «Satie ha avuto la più grande audacia del nostro tempo: essere semplice». Fu certa­ mente audace, infatti, presentare una musica definita dal suo stesso autore «senza salsa», in un paese come la Francia, dove per l’appun­ to l’arte di approntare una salsa è considerata la qualità distintiva del grande cuoco. Francese anomalo, Erik Satie ha ancora aggravato la sua posizio­ ne, stabilendo esplicitamente un parallelo tra i suoi gusti musicali e i suoi gusti culinari: «In arte», ha detto «mi piace la semplicità: lo stesso, in cucina». Quest’accostamente è meno ov­ vio di quel che può far pensare a prima vista la tranquillità della sua formulazione e ancora meno ovvio doveva sembrare a un’epoca in cui la pratica del banchetto, oppure del digiuno, era considerata un elemento essenziale al fine di di­ stinguere il borghese dall’Artista. E un accostamento, comunque, che suppone l’accettazione di un principio fondamentale: l’unità della personalità in qualsivoglia sua manifestazione. Con il seguen­ te corollario: se l’atto creativo cor­ risponde all’espressione della per­

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sonalità, la nozione di creatività deve essere estesa anche al campo della nutrizione, e non solo per l’arte di confezionare manicaretti, ma anche per quella di selezionarli ai fini del proprio consumo. Il Ready Made di Duchamp ha dimostrato che, perché un oggetto qualunque risponda allo statuto di opera d’arte, è sufficiente che esso venga prescelto da un artista: non si vede perché quel che è concesso a un portabottiglie non si possa estendere anche a quanto le botti­ glie, o i piatti, contengono. ulla serietà con la quale Satie interpretava il suo ruolo di commensale, gli aneddoti ab­ bondano. Il più significativo, ce lo fornisce ancora Cocteau, a conclusione di una serie di divagazioni sul tema della tavola, pubblicate - per le edizioni della Sirène - neWAlmanach de Cocagne pour l’A n 1922: «Erik Satie, buongustaio modello, non si alza mai da tavola senza portarsi dietro una crosta di pane che rosicchia poi tranquillamente in poltrona e sostiene di avere pre­ so quest’abitudine in gioventù dai più raffinati gastronomi di Honfleur».

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Una crosta di pane come ultimo tocco di un buon pasto: davvero ci sembra non si possa andare più lontano nell’associare semplicità a raffinatezza. La semplicità non deve però es­ sere considerata come un invito al­ la superficialità: a questo proposi­ to, François Rabelais, non certo sospetto di scarso interesse per i

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pasti pantagruelici, porta tuttavia a modello dei suoi lettori il compor­ tamento di un cane qualunque di fronte al cibo meno attraente che si possa immaginare: un nudo os­ so. Anziché rifiutarlo o comunque farsi scoraggiare dalla sua appa­

rente impenetrabilità, guardate, dice Rabelais, come il cane que­ st’osso lo annusa, lo rigira, lo graf­ fia, lo morde, lo rode e lo attacca, insomma, da ogni parte e in tutti modi finché non gli riesce di spez­ zarlo e di raggiungerne all’interno la «sustantificque mouelle», il so­ stanzioso midollo. Non per nulla Satie, grande ammiratore di Rabe­ lais, ha dedicato proprio a un ano­ nimo cane diverse sue opere. elebre per la sua prosa co­ lorita, Rabelais ha fatto l’e­ logio di un solo colore: il bianco, che in realtà è un non-colore, o piuttosto la somma di tutti i colori dello spettro solare. Il bian­ co era anche il colore preferito da Erik Satie, il quale ha affermato questa sua preferenza a proposito sia della propria musica sia della propria maniera di alimentarsi, due attività che egli mette decisa­ mente sullo stesso piano. Tra i suoi progetti, i suoi com­ menti alla sua opera e i suoi consi­ gli di interpretazione, si trovano frasi come «Vorrei fare dei con­ trappunti bianchissimi», «Vorrei fare un’opera pura e bianca come l’Antico», oppure «Questo prelu­ dio è un tappetino d’avorio», o an­

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cora «Suonate bianco». Negli scritti autobiografici, mol­ to opportunamente intitolati Me­ morie di un amnesiaco, egli ha scritto: «Mi nutro esclusivamente di alimenti bianchi: uva, zucchero, ossa grattugiate, grasso di anima­ li defunti, vitello, sale, noce di cocco, pollo cotto in acqua bianca, muffa di frutta, riso, rape, sangui­ naccio canforato, pasta, formag­ gio (bianco), insalata di cotone idrofilo e di una speciale qualità di pesce (spellato)». L’ammirazione per il bianco da parte di Satie giunge fino all’elogio di un comune piatto di porcellana completamente vuoto. Quest’elo­ gio si intitola Fantasticheria su un piatto e dice: «Com’è bianco: nes­ suna pittura l’adorna. È tutto d’un pezzo». J immagine di questo piatto vuoto, bianco e rotondo co4 me un’ostia, ci sembra il migliore simbolo che si possa tro­ vare della tavola secondo Satie. Dalla musica senza salsa al piatto privo di nutrimento: seguendo un implacabile processo di elimina­ zione progressiva, cibo e musica finiscono per confondersi nel non­ colore assoluto dell’Idea.

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«Il G astronom o» (1956 -1962) e la gola Veronelli per prima cosa, se lo vedi, ti sorprende. Fisicamente proprio. Ti aspetti una persona piccola e paciosa, perché così ap­ pare quando lo vedi alla televisio­ ne durante trasmissioni come A ta­ vola alle 7 o Lezione in cucina. In­ vece no. Lui è piuttosto alto, ha le spalle larghe, lo sguardo è sornio­ ne sotto gli occhiali. Da lui noi sia­ mo andati perché tra le molte ini­ ziative che ha partorito c’è un Ga­ stronomo, rivista trimestrale di cu­ cina e cultura, che ha fatto uscire dal 1956 al 1962. Ci interessava sentirne parlare. «Il gusto è un atto del giudizio. Separa ciò che è buono da ciò che non lo è», dice, e intanto dalle fine­ stre della sua casa di Bergamo alta entrano quasi fino a noi verdissimi i prati che ci circondano. «Il cibo è anche estetica», aggiunge. «Questo l’ho sempre pensato, è da questo che prendeva sostanza il discorso del Gastronomo. Unire cucina e cultura, parlare dei piatti e dei vini italiani in rapporto alle regioni, al­ le genti, ai’costumi, alle morali». Ma la gente come rispondeva? «La rivista finì per esaurimento delle mie energie, più che altro. Ma erano anche anni diversi, in fondo eravamo ancora un paese povero, la guerra non era finita da molto... Forse il tipo di discorso che volevo fare allora era prema­ turo. Non c’era quella disponibili­ tà che esiste oggi. Anche la cucina era diversa, perché diversi erano i tempi. Oggi c’è la nuova cucina: piatti nuovi, per mangiare senza appesantirsi, mangiare e poter cor­ rere poi, magari, in ufficio». Ahi Veronelli! Non sarà che da tutto questo alla fine salti fuori la funzionalità della cucina verso cui stiamo andando alle esigenze pure e semplici del sistema produttivo? E il piacere, riusciremo a salvarlo? «Ma certo. Guarda: non c’è nulla che possa spezzare il legame tra cucina e desiderio di felicità. Man­ giare è una cerimonia necessaria per vivere ma anche per essere soddisfatti di esistere. Non per

nulla le grandi rivoluzioni hanno sempre cambiato anche il modo di mangiare. Oggi c’è la pressione della coscienza ecologica, necessi­ tà e desiderio di pulizia... E allora si riscoprono, per esempio, i ce­ reali integrali e biologici... L’idea, grosse speculazioni commerciali a parte, è senz’altro giusta. Anche questo è un modo per andare avanti. Purché tutto ciò che di nuovo esce sia puramente e sem­ plicemente buono. E la cosa più importante». Filippo Ravizza

Anton Francesco Doni, 1500. «Il voler persuadere coll’autorità dei testi è lo stesso che prender un per la gola e dirgli: Credi ciò che io affermo». Niccolò Tommaseo, 1800. «Canzon, vattene dritto a quella donna / che m ’ha ferito il core, e che m ’invola / quello ond’io ho più gola». Dante Alighieri, 1265-1321. «L’uomo che avrà inghiottito os­ so e spina, e gli sarà ristata nella gola, e non potrà andar su e giù, come si potrà torre quell’osso?». Li­

contesa chi la sua ghiotta gola non raffrena». Cecco d’Ascoli, 12691327. «Per ¿scarsezza sola vien peccato di gola / ch’on chiama ghiottomìa». Brunetto Latini, 1200. «Vizio di gola, tu brutto e ontoso / quasi sor tutti, for quel di lussura». Guittone d ’Arezzo, 1200. «Per la dannosa gola, / come tu vedi, alla pioggia mi fiacco». Dan­ te Alighieri. « Uomo dato alla gola, e a tutti i piaceri sensuali e mondani». Feo

Happening culinaire sulla scena, e davanti al pubblico, del l heatre de la ( /linière (42, rue bontaine, Parigi) il 2S aprile I960, nel quadro del Terzo Festival della Libera Espressione, organizzalo da Jean-Jacques Lebel. Nella foto (da sinistra a destra): 1acqueline De long, Eric Dietmann, Jean-lacques Lebel, Noèl Arnaud, Gait Frogé, Oliver Merson, Elione Braun, Jean- Louis Braun, Ralph Rumney, Paul-Armand Gette. Menu della serata: pollo arrosto allo spiedo, patate al forno, insalata verde, camembert, torta al cioccolato. Vino: Bordeaux rosso. Cuoco: Ben Vautier. In sala: quattrocento spettatori. Durata: un’ora e venti minuti.

La Gola o D Gastronomo. Millantavoltemillanta meglio La Gola. Cominciamo, per l’ambigua significanza, con Matteo Villani, 1300: «La gola del tiranno non si può ammazzare per l’acquisto di signoria; per divorare tiene la gola aperta». Poi, quasi a caso. «Noi altri (poeti) che ci becchiamo il cervello tratti da la gola della immortalità, scappiamo con un ghiribizzo oggi e con un altro capriccio domani».

bro di Sydrac, 1200. «Sulle viti / l’uva dolce bevanda t’apparecchia / all’arsa gola». Ga­ sparo Gozzi, 1700. «Abbiamo la gola rossa dei no­ stri vini dell’Occidente». Vincenzo Cardarelli, 1900. «Pensa a una casa nuova, / pen­ sa al nido ove un giorno / tu ricomincerai la tua canzone / con la tua gola fresca». Gabriele D ’Annun­ zio, 1863-1938. «Non può con gli altri vizi far

Beicari, 1400. «Bere non per sete, ma per gola del vino». Giovanni Della Casa, 1500. «La gola è un vizio che non fini­ sce mai, ed è quel vizio che cresce sempre, quanto più l’uomo invec­ chia».Carlo Goldoni, 1700. «Egli non basta loro nelle cene empiersi a gola e tuffarsi nelle vi­ vande». Gasparo Gozzi, 1700. «’Le gole lor disabitate’. Così di­ ciamo di coloro che sempre man­

giano, né mai si veggono sazi». Note al Malmantile, 1600. «’Gole’ chiamansi de’ pescatori le due parti laterali della manica della rezzuola, della sciabica, a cui sono annessi li scaglietti». France­ sco D ’Alberti, 1700. «’Gola’... il tratto di gamba che è più prossimo alla testa di una nota». Niccolò Tommaseo, 1800. Gola profonda?

«Gastronomo» ha, forse solo, il Gherardini: «... chi ama i lauti pa­ sti». «La Gola», millantavoltemillanta meglio la gola. L ’uomo è un onnivoro che si nu­ tre di carni, di vegetali e di immagi­ nario; se l’alimentazione riconduce al campo biologico, essa stessa tut­ tavia non vi è del tutto riconducibi­ le; il simbolico e l’onirico, i segni, i miti, e anche i fantasmi nutrono e concorrono a regolare la nostra nutrizione. Nell’atto alimentare uo­ mo biologico e uomo sociale sono stretti, pesano delle costrizioni multiple e legate da interazioni complesse: costrizioni e regole bio­ chimiche, termodinamiche, meta­ boliche, fisiologiche; pressioni eco­ logiche; ma anche modelli socioculturali, preferenze o avversioni individuali, rappresentazioni, siste­ mi di norme, codici (prescrizioni e proibizioni, associazioni o esclu­ sioni), «grammatiche culinarie» che governano la scelta, la prepara­ zione e il consumo degli alimenti. L ’ha scritto Fischler, avrei potuto scriverlo (minime le variazioni) io. Con quella mia rivista velleiteria, Il Gastronomo, nata nell’inverno 1956-1957 in parallelo con II Pen­ siero, rivista di filosofìa neotra­ scendentale (seguiva poco dopo Problemi del Socialismo di Lelio Basso), mi proponevo, pensa te, di rinnovare la cucina e di riproporre, col loro nome e cognome, i vini e i i cibi d’Italia. Quanta strada da allo- j ra, e quante mutazioni (fermo, for- | se solo, il proposito). Luigi Veronelli |i

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La Gola 9 ottobre 1982____________________________ ________________________ __________________________________________________________________________ pagina 27

Cronaca del primo simposio de La Gola sul tema della convivialità, ovvero della condizione necessaria al gusto del cibo.

Pranzo del I ottobre Ì982 Il luogo e il suo nome L'osteria di Corte Regina si tro­ va a Milano percorrendo via Pado­ va fino al n. 244; si svolta a destra in via Emo e si arriva in via Rottole dove al n. 60 corrisponde la sem­ plice insegna Trattoria. Corte risale molto probabilmen­ te al nome delle proprietà fondiarie longobarde, dette «curtes», di am­ ministrazione ducale oppure regia. Nella Pieve di Bruzzano resisteva dunque il ricordo di due tipiche «curtes» longobarde, una apparte­ nente alla casata di Arimanno (Curtis Cumana) e una del dema­ nio del Re (Curtis Regina). Alcuni hanno pensato a Beatrice Regina, figlia di Martino II della Scala, si­ gnore di Verona, che nel 1350 ven­ ne a Milano come sposa di Barnabò Visconti. Ma il nome di «Corte Regina» è sicuramente precedente. In un celebre catalogo compilato in redazione definitiva nei primi anni del Trecento (il Liber Notitiae Sanctorum Mediolanij si legge che esisteva un altare dedicato a San Tommaso di Canterbury nella chiesa di Santa Maria della «Corte Regina». Potrebbe avere anche il senso di corte (stazione di posta in insediamento agricolo) sulla via «regia» per eccellenza, quella che da Porta Argentea (Porta Orienta­ le) raggiungeva Bergamo e prose­ guiva per Brescia, Verona e Aquileia. La chiesa di Santa Maria, quan­ do ormai sembrava perduta, è stata recuperata da un sacerdote che nel 1941 vi ha fondato una parrocchia nuova, tra gli ultimi orti della peri­ feria milanese. Ora restaurata, ri­ vela la sua struttura architettonica tipicamente gotico-lombarda. Via Rottole: probabilmente da una famiglia «de Rotolis» che ave­ va in questa località vasti possedi­ menti. Di una «Cascina Rottole» si ha memoria in un documento del 1494, di proprietà del patrizio D. Jacopo Rotoli. L’ospite (o l’oste) Nicola Silvestri, che ha restaura­ to i locali della cascina restituendo­ le il grande decoro delle travature in legno massiccio. Coltiva la cuci­ na «creativa» nel rispetto dei sapori e dei profumi intatti. La guida Antonio Piccinardi, che ha con­ cordato il menù per La Gola e ha suggerito gli abbinamenti con i vini da lui scelti.Il I commensali Il discorso iniziale, o inaugurale, riguarda lo stare a tavola insieme, il senso che ha oggi, e che noma nuovo o antico si può dare a questo incontrarsi senza scopo, cioè senza fini di utilità immediata, senza la mira di.un compenso che non sia lo stare a tavola assieme, il comunica­ re tra amici e anche il conversare con persone prima non conosciute. Un osservazione. Si prevedono difficoltà nel recupero di un senso del tutto gratuito dello stare a tavo­ la insieme, oggi che siamo corrotti da anni di «pranzi e colazioni di lavoro». Il cibo «finalizzato» do­ vrebbe ridiventare un «cibo amica­ le», interessato alla sola amicizia, dunque del tutto disinteressato. Intanto, c'è un interesse al cibo, o meglio: al racconto del cibo, co­ me si dirà anche dopo, alla sua sto­ ria, ai suoi riflessi, e a quel recupe­ ro di memoria che il cibo può favo­ rire e a volte decisamente determi­ na. Si fa rilevare che lo stare a tavo­ la, insieme e a lungo, ha un gusto «rétro», non più praticabile in un'epoca tardomoderna, in cui il cibo è assunzione frettolosa, da

greggi in movimento. La mobilità La tinca è il pesce più grasso e ser­ del moderno sembra negare la sta­ ve per legare gli altri. La ricetta è ticità del sedersi a tavola. Ma pro­ antica. Intorno al 1500 il lago di prio di qui emerge sempre più chia­ Pusiano, notissimo per le predile­ ra la necessità di non essere succubi zioni di letterati come Parini (che di di un moderno che è pura imposi­ lì veniva), era la peschiera privata zione, e che occorre avere la forza degli Sforza. Due volte la settima­ di fermarsi, perfino di essere rétro. na portavano il pesce fresco a Mila­ Infatti, l'ospite ricorda subito la no coi carrettini pieni di ghiaccio tavola dei genitori come luogo de­ prodotto l'inverno e conservato tut­ putato alla comunicazione e al rac­ ta l'estate nelle nevère (ghiacciaie). conto. Era a tavola che si parlava e 1 contadini che abitavano intorno si prendevano anche decisioni im­ al lago (di contadini si trattava e portanti. E a tavola si raccontava­ non di pescatori) non potevano cat­ no delle storie, secondo una tradi­ turare questo pesce e le pene erano zione contadina invernale. Ma a ta­ molto severe. Così lo rubavano e vola il racconto di fondo è il rac­ per nasconderlo-conservarlo lo ta­ gliavano a grossi tocchi e lo mette­ conto del cibo, delle sue ricette. È fuorviante, e forse anche un vano nelle retine di maiale. Lo sa­ p o ’ ridicolo, tentare un recupero lavano per conservarlo. Da questa del termine simposio o convivio. cronaca ho dedotto la ricetta. Dalla Questo sì sarebbe un rétro degra­ retina al salame di pesce. Bisogna dato. Basta pensare alla parola rimangiarlo subito, entro due giorni pranzo (pranzo con amici) per es­ al massimo. Per conservarlo di più sere soddisfatti dall'indicazione e bisognerebbe salarlo e salandolo ben vengano poi anche argomenti scomparirebbero i gusti che invece non strettamente legati al «racconto vogliamo far emergere». Qualcuno chiede se è più pregia­ del cibo», tra letterati ma anche tra non letterati. Si ricorda la quasi im­ to il piatto di pesce o quello di car­ possibilità di mangiare da soli e le ne. Piccinardi non ha dubbi: il pe­ conseguenze nefaste della solitudi­ sce, più costoso perché più difficile

ce Nicola: dunque una violenza trattenuta. E ancora valida la raccomanda­ zione di Socrate: gustare, certa­ mente, ma bere da poter controlla­ re l'ebbrezza? Socrate era un pe­ dante ma aveva ragione. Il cibo amicale, il pranzo degli amici, non deve trasformarsi in un rito orgia­ stico perché le comunicazioni ver­ rebbero interrotte... Anche il rac­ conto del cibo diventerebbe inin­ fluente e prevarrebbe l'ingurgitare, Vesibizione, insieme al linguaggio gutturale. Siamo ancora al tema della guerra dei ghiotti contro i ghiottoni. I buongustai hanno spes­ so fisico asciutto e sanno anche smettere di bere per certi periodi in modo da non corrompere il gusto con l'abitudine, che è scelta oppo­ sta a quella di chi vuol vincere l’a­ bitudine con sempre nuove raffina­ tezze che alla fine si trasformano in autentiche sofisticazioni, cioè bugie alimentari. Passiamo ai ravioli. Sono classi­ cissimi, dice Silvestri, ma con un ripieno di trota passata. Il ragù è fatto con zucchine, carote e basili­ co. Diciamo che i ravioli col bran­

da trovare e da conservare. Un al­ tro suggerisce: dipende dai tempi e dalla storia. Non è una preferenza assoluta. Forse il pesce non è per i ghiottoni ma per i ghiotti, i buon­ gustai, che prediligono le piccole porzioni. Occorre tenere ferma questa distinzione tra ghiotto e ghiottone, cioè mangione. Oggi il ghiottone è l’obeso. L'obesità, de­ rivato di ansie formidabili, è pro­ blema di oggi. Quindi La Gola fa la guerra agli obesi, ai ghiottoni? La risposta è: tendenzialmente sì. Prosegue il racconto del cibo con Piccinardi che illustra l'Arneis di Cornarea, Canale d'Alba, ven­ demmia 1981. Il vitigno Arneis era sconosciuto, e l’hanno riscoperto alcuni studenti della scuola di eno­ logia di Alba, quindici-vent’cmni fa. Si sono accorti che tra le vigne di Nebiolo e di Dolcetto c’era ogni tanto qualche pianta di uva bianca. Hanno selezionato e radunato que­ ste viti e hanno scoperto che si trat­ tava di Arneis. Questa è la prima tenuta (Cornarea) a proporre un catino meraviglioso dove viene col­ tivato solo l'Arneis. A differenza di quasi tutti i vini bianchi contempo­ ranei, troppo acidi a causa di certe mode, questo vino è morbido, sua­ dente, vellutato, pacioso; ha un profumo lievemente selvaggio, un vento di brughiera che finisce in calma, paciosità. Eccezionale mi sembra l'abbinamento col salame di lago, anch’esso un piatto pacio­ so, crepuscolare. Gli abbinamenti cibo-vino si dividono in cinque gruppi: quattro sono per simbiosi e uno solo per contrasto. Beviamo l'Arneis anche col bottaggio di pol­ lo (il nostro secondo piatto) che pure ha un sapore suadente, anche se più violento del salame di pesce. Un omaggio alla futura Cassola, di­

zino (o spigola) alla francese li fan­ no un p o ’ dappertutto e poi li con­ discono con un fumetto di pesce e il tutto è forse raffinato ma anche pe­ sante, a mio parere. Questo è inve­ ce un sapore italico: c’è l’aglio, il basilico... Sì, aggiunge Piccinardi, è un piatto interessante. C’è il recu­ pero della pasta italiana per eccel­ lenza, con tanto rosso d’uovo, quella che si mastica con violenza, che qui si unisce alla paciosità della trota, che si abbandona; e poi il profumo forte dell’orto che dà fre­ schezza al piatto. Ecco, il profumo dell’orto dà allegria. Il risotto alla carne di piccione. E fatto col riso nuovo, dice Silve­ stri, è arrivato da due giorni, da Isola della Scala (Verona), pilato a mano, cioè lavorato con quel gros­ so passino o setaccio che fa la pila­ tura. Se si fa un p o ’ di attenzione si sente ancora il profumo delle erbe, quel profumo che non ha più il riso messo normalmente in commercio. Il riso nuovo emana una freschez­ za che ben si unisce a un condi­ mento classico-lombardo, la carne di piccione. Un punto suscita discussione. E meglio avere prima la descrizione del cibo e verificarla mangiando oppure è meglio mangiare e ascol­ tare dopo il racconto della ricetta in modo da rigustarla «in memoria»? C'è chi sostiene sia meglio sapere prima che cosa si sta per mangiare. Si ricorda l'origine della parola «credenza», che era l'assaggio pre­ liminare del cibo in modo che chi stava a tavola (il signore) fosse ras­ sicurato, cioè prestasse fede alla portata (che non fosse, per esem­ pio, avvelenata). Il cibo deve mo­ strare le sue «credenziali» e poi es­ sere mangiato. Altri contestano, preferiscono l'avventura del gusto e

ne a tavola, che significa spesso rimpinzarsi senza gustare e soprat­ tutto non digerire. Il cibo esige so­ sta e compagnia, sospensione del tempo e comunicazione. A tavola ci si riconosce sodali e compagni, a volte nemici, ma le ostilità stanno in sospeso. Prevale la comunica­ zione. Si può subito fare un passo in­ dietro, all'aperitivo raccontato da Antonio Piccinardi. E un Pinot di Franciacorta «méthode champenoise» (si prevede che questa dicitu­ ra sarà proibita da una norma Cee e verrà sostituita con «metodo classi­ co») le cui doti nascono da partico­ lari cure. Un eccellente vinificatore è come un pilota di formula Uno: rischia il massimo e lo può fare solo se è bravissimo. Il cantiniere in que­ stione è stato assunto sei anni fa nel­ la favolosa terra di Champagne. Il Franciacorta di Cà del Bosco come tutti i grandi spumanti (e champagne) scompare subito dopo aver toccato la lingua, è un concen­ trato di presenza-assenza, più che essere bevuto vola via per salire su­ bito al cervello. A quel punto tutte le sensazioni si unificano e il vino ci restituisce intatta la memoria del­ la propria origine. Un grande vino è solo borghese, dice Piccinardi. I vini contadini possono essere gra­ devoli ma non sono mai grandi. Con il Franciacorta si assaggia un cannoncino riempito di mousse di peperone giallo. Piccolo esem­ pio di «cucina creativa»: una pasta destinata al classico dolce alla cre­ ma si fa portatrice di un gusto aspro e stuzzicantissimo. E subito al primo piatto: salame di pesce di lago, in salsa d'aceto e lattuga. Spiega Nicola Silvestri: «Si tratta di un salsiccione di pesce in bianco: trota salmonata, tinca e lavarello.

avere poi conferma o smentita. Prevale una proposta mediatrice: assaggiare, sapere circa a metà por­ tata, e a conoscenza sopraggiunta continuare a mangiare raddop­ piando il piacere, o forse triplican­ dolo: avventura, conoscenza, e poi fusione tra avventura e memoria... E meglio sapere durante. Il grappolo di vitello. Poiché sia­ mo ormai in ottobre, dice Silvestri, è doveroso un omaggio figurato al­ la vendemmia. Ecco un semplice involtino di vitello cotto col vino, con verdure fresche, sistemato nel piatto in forma di grappolo d’uva. A questo punto entra in scena il Dolcetto d’Alba, vendemmia 1979, del vigneto Rossana - Madonna Como. Dunque un vino fatto te­ nendo separate le uve di una certa vigna, precisa Piccinardi. Quando si fa una mescolanza di uve di varie vigne, la personalità del vino scom­ pare. Il Dolcetto è uno dei vini me­ no tannici del Piemonte, e non è troppo detergente. Lo stiamo be­ vendo a una temperatura di circa 19 gradi e invece ci fa l’effetto di essere più fresco (non più di M gra­ di di temperatura). Questo è l’effet­ to del tannino e una delle ragioni del successo del vino rosso. Il vino bianco a queste temperature sareb­ be imbevibile e nei campi fa molto caldo: ecco la preferenza per il ros­ so da parte dei contadini che ne hanno una sensazione di freschez­ za, di alleviamento della fatica. Tutto merito del tannino. Torta di pane. Silvestri: «E la vecchia torta dei contadini poveri, solo pane e latte (la torta di Miche­ laccio: mica e lace...), che si è ar­ ricchita man mano con il cacao, i pinoli, gli amaretti. Questa la fa la nonna del cuoco, una brianzola (pensate: il mio cuoco ha solo ventun’anni e una passione formidabi­ le). Ci vogliono 12 ore per farla, non meno. Bisogna lavorare a lun­ go il pane ammollato nel latte per­ ché diventi un vero amalgama, sen­ za grumi. E una torta che si trova in tutte le pasticcerie di Milano ed è spesso immangiabile: perché la fanno in fretta senza rispettare i tempi naturali di questa torta». Forse la possono fare solo le nonne, ormai... o forse l’hanno sempre fatta solo le nonne, che hanno abolito il tempo dell’orolo­ gio e stanno attente solo ai tempi naturali... Qui è accompagnata da una crema di caffè (uova, mascar­ pone e caffè) di vecchissima data: la davano anche agli studenti per «tirarsi sù» in tempo di esami. Antonio Piccinardi nota che ab­ biamo gustato tutti i cibi del nord Italia, sensazioni vellutate, sfuma­ te, profumi di orti sommessi; ora si passa per un attimo a una sensazio­ ne diversa, al Malvasia delle Lipa­ ri, un vitigno che è stato recuperato da un milanese appassionato: Car­ lo Hauner, naturalmente innamo­ rato di quelle isole, nel cuore del Mediterraneo. Qui si sentono i mortaretti, i fuochi d'artificio, le esplosioni del sole. Un grande re­ cupero per un eccellente dessert. C'è infine una grappa che non si può trascurare (Grappa Vuisinar, Nonino). Secondo una prescrizio­ ne che risale al VI-VII secolo è sta­ ta invecchiata in botti di ciliegio, l'unico legno che non trasmette nulla di sé al liquido che protegge.

Cronaca di Antonio Porta. Hanno partecipato al pranzo: Pier Maria Fasanotti, Francesco' Leonetti, Giuseppe Pontiggia, Giovanni Raboni, Giorgio Taborelli, Patrizia Valduga e naturalmente il croni­ sta.


L’UOMO E LA NUTRIZIONE

L’opera, in tre volumi, è stata realizzata da un’équipe di studiosi francesi e italiani. La sezio­ ne francese rappresenta, in grande parte, la sintesi della ricerca di uno dei più grandi nutrizioni­ sti, Jean Trémobières; la sezione italiana è stata curata dai nostri maggiori specialisti. I tre volumi sono stati concepiti in modo da fornire un’informazione esauriente, enciclopedi­ ca, definitiva sulla nutrizione e la dietetica. Informazione, ma anche formazione per l’organicità con cui vengono trattati i vari argomenti e le diverse discipline. “ L’Uomo e la Nutrizione” costituisce, per questo, una particolare enciclopedia delle scienze umane che, attraverso l’analisi dell’atto alimentare, riesce a dare dell’uomo un’immagi­ ne e una definizione autentica e attuale. Accanto a un discorso rigorosamente scientifico che percorre i tre volumi, vengono riporta­ ti dati, squarci di altre opere, ecc... Dalla combinazione, quindi, del trattato, e dell’opera di erudi­ zione, “L’Uomo e la Nutrizione” non solo risulta un libro stimolante e piacevole ma anche un valido strumento di lavoro e di consultazione. ...In ogni caso, un connotato del tutto peculiare dell’opera merita segnalazione: il disegno logico seguito nello svolgimento dell’intera materia e, in particolare, l’ampio ricorso a soluzioni grafiche e a tabelle, elaborate nelle forme e misure più idonee a rafforzare la comprensione e la memorizzazione di dati, concetti e meccanismi fondamentali della nutrizione, risultano flessibil­ mente strutturati in maniera da interessare studiosi e lettori delle più varie categorie e livelli pro­ fessionali ed educativi. Prof. Aldo Mariani Costantini direttore dell’Istituto Nazionale della Nutrizione La “ confezione” enciclopedica dell’opera vive ed è immutabile: essa esprime un passato (storia del sapere) ed un presente (attualità delle conoscenze), ma può e deve contenere anche il seme per ogni ulteriore e futura evoluzione della ricerca della conoscenza e del sapere. Prof. Luigi Travia direttore dell’Istituto di Scienza dell’Alimentazione dell’Università di Roma ...l’opera più completa, attualmente meglio informata, la più ricca sulla dietetica e sulla nu­ trizione. Gli autori... hanno dato garanzie di serietà e di scientificità ai tre tomi che compongono l’intero campo storico, psicologico, biochimico della nutrizione. -t—

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Prego inviarmi l’opera L’UOMO e la NUTRIZIONE al prezzo di L. 160.000 che pagherò in cinque rate mensili, di cui la prima in contrassegno Nome e Cognome ____________________________________________________ Cap______________Città_______________________________________________ Data

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La Gola • ottobre 1982

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Il regista parla dal fondo del suo posto al ristorante, vicino alla cassa. Gli piace soprattutto far mangiare gli amici e guardarli. Ha qualche rimpianto culinario, qualche idea, ma è la sua reticenza a dire di più.

Le donne doviziose di Fellini ( intervista) A cura di Leonetta Bentivoglio

tavola con Fellini. Dalla Cesarina di via Sicilia na­ turalmente: il suo risto­ rante prediletto, da sempre. Si conoscevano bene, lui e la Cesarina, fin dai tempi di Bolo­ gna, quando Federico era uno studentello magro, squattrinato, vi­ tellone, con gli occhi grandi e cu­ riosi. Lei, gigantesca, brontolona, generosa, più o meno identica a quella di ora, lo stesso incedere solenne e fiero che segue passo passo il carrello dei bolliti, gli orecchini preziosi e zingareschi che le ballonzolano sulle gote, il forte accento emiliano, la stessa aria di desolata repulsione di fron­ te a qualsiasi tentativo di dieta o comunque di scarsa adesione alla sua cucina, lei a quello studentello, spesso, faceva maternamente credito. Quando, ai tempi della Dolce vita, la Cesarina si trasferì a Ro­ ma, aprendo il nuovo ristorante a due passi da via Veneto, Federico, ormai celebre regista, di lei non si era affatto dimenticato. Tanto è vero che fu proprio nel ristorante di via Sicilia che La dolce vita ven­ ne annunciato alla stampa, coi pa­ parazzi scalmanati che puntavano i flash contro una Cesarina rag­ giante ritratta a braccetto con il Maestro, o assieme alla nordica Anitona, dal décolleté pannoso e la pelle d’alabastro. Il ristorante fu lanciato, divenne alla moda: attori, politici, gente di cinema e di teatro, ricchi turisti americani, in molti cominciarono a frequentarlo. La padrona era simpatica, facilmente s’incontrava Fellini in compagnia della Masina o di qualche produttore, il luogo era familiare e accogliente, col ca­ mino sempre acceso d’inverno; e poi i passatelli in brodo, le squisite salse dei bolliti, la lasagna specia­ le, delicata e cremosa, la zuppa in­ glese che pareva fatta in casa... A tutt’oggi, il ristorante Cesari­ na non è affatto cambiato: il nome è lo stesso, si mangia sempre bene, l’arredo è immutato, i politici ci vanno ancora, Fellini anche. Ma lei, la Cesarina, l’ispiratrice, la fondatrice, la reginona di via Sici­ lia, lei non c’è più, da quando, l’anno scorso, ha deciso di ven­ dere ad altri il suo ristorante, no­ me compreso. E così, la grande si­ gnora si è messa a riposo; nei vec­ chi luoghi toma solo di tanto in tanto, per nostalgia, e tutti quanti le fanno festa, clienti e camerieri. Fellini sente la sua mancanza, e se ne lamenta. Pure non sa rinun­ ciare al suo ristorante, allo spazio caldo e comodo, al mangiare ge­ nuino che gli rammenta la sua Ro­ magna. Per questo continua a es­ serne un cliente assiduo; e i came­ rieri, premurosi, conoscono bene ogni suo piccolo vezzo: il tavolo tondo subito sotto la cassa (è quel­ lo che preferisce) apparecchiato per lui, i pezzettini di parmigiano fresco da stuzzicare durante le at­ tese, tutto il carrello dei dolci da contemplare a fine pasto (ma poi non assaggerà quasi nulla: l’impor­ tante è scuriosare).

A

U

n’intervista sul cibo a Felli­ ni non poteva dunque che avvenire dalla Cesarina. Cosa mangia il Maestro? Poco, e con una certa fretta: una tazza di zuppa di verdura, un’omelette («ma mi raccomando, che sia bella bavosa dentro»), molta frutta alla

fine, con una preferenza spiccata per l’uva baresana. «Il fatto è che io mangio come un frate, seguo un menù semplice, ripetitivo. No, non posso darle molta soddisfazio­ ne su quest’argomento. E poi i condizionamenti delle diete... Da ragazzo ero magrissimo, e ho no­ stalgia di quel periodo. Col passa­ re degli anni mi sono appesantito, e sono arrivati gli inevitabili con­ fronti con i medici, con quelle loro dannate bilance che segnano sem­ pre due o tre chili in più del peso reale...».

cose; un processo irreversibile di speculazione fantasiosa o fantasti­ ca sulla realtà, per cui tutto ciò che mi pare mi trattenga in una dimen­ sione sensoriale subito mi appe­ santisce, mi sembra da sfuggire, da evitare... D. Però le piace vedere mangiar gli altri... Fellini. Già. Ho piacere a vede­ re mangiare gli amici, ho la mania di riempir loro il piatto con tanti piccoli assaggi di tutte quelle cose che non voglio o non posso man­ giare io... Direi che, in generale,

ti. Mi piace una donna che rispet­ ti, nel fisico, la tradizione delle grandi Veneri: Rubens, Tiziano. La donna morbida insomma, opu­ lenta, quella che ha il vantaggio di restituire un senso di protezione antica, di nutrimento, di saggezza. Quel tipo di donna ha qualcosa in più: una sua verità non corretta, non trattenuta; un’assenza da pri­ vazioni. D ’altra parte, sono anche convinto che questa mia predile­ zione sia una tendenza molto natu­ rale in tutti gli uomini del mondo: la grassezza non c’entra. L’aspetto

E uropa

Valéry Larbaud

X

uropa! Soddisfi gli appetiti senza confini del sapere, e gli appetiti della carne e quelli dello stomaco, e gli appetiti indicibili dei Poeti, ancor più che imperiali, e Vorgoglio intero dell’Inferno. (Talvolta mi sono domandato se tu non sei uno degli scalini, un’adiacenza dell’Inferno).

E

O Musa, figlia dei grandi capitali! riconosci i tuoi ritmi nel brontolìo incessante delle strade interminabili. Vieni, abbandoniamo gli abiti da sera e indossiamo io una giacca logora, tu un abito di lana e mescoliamoci alla gente qualunque che non conosciamo. Andiamo a danzare al ballo degli studenti e delle sartine, andiamo a incanaglirci in un caffè-concerto! Confessa che qui noi siamo soltanto ospiti di passaggio che lasciano tracce invisibili, forse, sul fango leggero e lucente che calpestiamo. Se lo vogliamo possiamo ritornare alle foreste vergini, al deserto, le praterie, le Ande colossali, il Nilo bianco, Teheran, Timor e i Mari del Sud, l’intera superficie del pianeta, son tutti lì per noi, quando lo vogliamo! Se io fossi uno di quelli che vivono sempre qui per lavorare in fabbrica dalla mattina alla sera e negli uffici, di quelli che vanno alle soirées o recitano per la centesima volta una parte in teatro o nei clubs o ai concorsi ippici, io non resisterei! e mi allontanerei come il contadino che ha venduto i suoi prodotti in città e torna via, bastone in mano andrei e andrei, in marcia senza soste verso l’Equatore! Per me l’Europa è come un’unica grande città ricolma di provviste e di ogni urbano piacere, e il resto del mondo mi è l’aperta campagna dove senza cappello corro contro il vento lanciando urla selvagge! (Traduzione di Antonio Porta) Fellini, dunque, mangia poco. Ma perché sempre » così frettolosamente? Fellini. Perché sono un pastic­ cione. In realtà mi siedo a tavola con piacere più per l’aspetto con­ viviale della faccenda che per il ci­ bo in sé. Mi piace l’incontro con un amico, il momento di confiden­ za, l’avvenimento festoso, la chiacchiera rilassata: la tavola, in­ somma, come pausa, stacco dal la­ voro. Ma in effetti, non credo di gustare granché quello che man­ gio. Sono impaziente, sono qui e vorrei già essere altrove... Fa par­ te, credo, di una mia forma tem­ peramentale, che ormai si è com­ pletamente sclerotizzata: una for­ ma di fretta, di fuga continua dalle

D

mi piace molto veder mangiare gli altri. D. E le donne, in particolare? Fellini. Sì, certo, una bella don­ na che non ha complessi di linea, e che mangia con appetito, mi ha sempre fatto molta simpatia... Questo nutrirsi gagliardamente mi pare rivelatore di un certo modo positivo di porsi di fronte alla vita. Una spontaneità, un’autenticità senza rigori, senza problemi, l’in­ differenza agli attacchi autopuniti­ vi delle diete, tutto questo mi pare un buon segno, mi fa allegria. D. Allora è vero che le piacciono le donne grasse. Fellini. Niente affatto. Mi piac­ ciono gli attributi femminili dovi­ ziosi, convenientemente sviluppa-

dre, e le polpette, e il polpetto­ ne... Uno nasce coi sapori che sen­ te in famiglia, e crede sia quello il mangiare migliore del mondo. Ri­ cordo la zuppa inglese che faceva mia nonna, non l’ho mai più ritro­ vata così squisita, con la chiara d’uovo sbattuta e bruciacchiata, e uno spruzzetto di Mistrà... D. Si è perso molto, a suo pare­ re, il senso del piacere? Uaspetto sensuale, godereccio della vita? Fellini. Mi pare di sì. Il piacere è qualcosa di estremamente privato, individuale. Essendo andato perso, per ansia, nevrosi, paura dell’iso­ lamento, il piacere di stare con se stessi, tutto quello che riguarda il piacere personale ha perduto d’interesse, di fervore. Ci si è abi­ tuati a uno stordimento collettivo, un’ubriacatura contagiosa, un pia­ cere consumato insieme. Una ta­ volata di cento persone sta forse mangiando? Sta consumando il piacere della tavola? No, si sta so­ lo rumorosamente ingozzando di cose fatte per il gruppo, e quindi indifferenziate, approssimative. Poi questa mania delle diete, que­ sto fatto di considerare il corpo in una forma schematizzata, quest’i­ dealizzazione teorica di un benes­ sere fisiologico stabilito in numeri e cifre... Tutto è stato appiattito, generalizzato secondo modelli astratti. Il che, inevitabilmente, ha portato a un allontanamento dal piacere, inteso in senso individua­ listico, aristocratico. Si è perso, in­ somma, un rapporto privato con se stessi e con la vita. Per tornare a consumare un piacere autentico, bisognerebbe innanzi tutto ritro­ vare un proprio centro, che dagli altri non possa e non debba essere invaso. Mentre invece, incapaci di stare da soli, di continuo ci lascia­ mo plagiare dal collettivo. E, forse tutto questo è molto grave.

Nota

Nota Questa poesia è la terza di un poe­ metto di undici dedicato «all’Europa». Le poesie di Valéry Larbaud, con il titolo Le poesie di A.O . Barnabooth, furono pubblicate in una prima edizio­ ne del 1908 e in una successiva, per la Nouvelle Revue Française, del 1913. La più recente edizione italiana (1982) è apparsa presso l’editore Einaudi, a cura e con un’ottima introduzione di Clotilde Izzo (pagine 206, lire 8.500). La traduzione di questa poesia è inve­ ce inedita.

adiposo non mi piace, non mi inte­ ressa. D. Eppure lei ne fa un uso conti­ nuo ed abbondante in tutti i suoi film ... Fellini. Che significa? È come accusare uno scrittore di adopera­ re spesso un certo aggettivo! Che invece è solo, semplicemente fun­ zionale a un fatto espressivo... I miei gusti personali non c’entrano. D. Quali sono i suoi piatti prefe­ riti? Fellini. Non so, mi faccia pensa­ re... I sapori, i gusti cambiano, nelle diverse stagioni della vita. Ricordo che da ragazzino mi pia­ ceva il caffelatte, insieme al pane abbrustolito con sopra la ricotta. E le minestre che faceva mia ma­

Volubile in apparenza ma fonda­ mentalmente molto abitudinario, Fel­ lini frequenta da anni gli stessi risto­ ranti. Al primo posto, naturalmente, c’è la vecchia Cesarina di via Sicilia, con la sua cucina emiliana ricca e gu­ stosa. Poi c’è Checco alla Tredicesima, quando Fellini è in vena di fare una piccola gita in macchina, oppure in estate, quando si trasferisce a Fregene (e Checco è proprio sulla strada del mare, al 13° km dell’Aurelia): speciali­ tà di pesce, un salone enorme, dove il fumo si sperde (Fellini odia le sigaret­ te) , una gestione familiare simpatica e affettuosa. A pranzo, quando lavora a Cinecittà (ma non solo), c’è un’altra mèta prediletta, a pochi chilometri da­ gli stabilimenti della via Tuscolana: il Fico Nuovo di Grottaferrata. Il cibo è rustico e appetitoso, il panorama è gra­ devole, in piena campagna, e soprat­ tutto il proprietario, Claudio, è un omino tutto speciale, buon amico da tempo di Fellini, che lo ha anche utiliz­ zato come attore (era uno dei due sin­ dacalisti di Prova d’orchestra). Si dice che Claudio sia perfino un po’ mago e veggente. Di tanto in tanto, la sera che ha voglia di mangiare della carne come si deve, il regista sceglie II Toscano di via Germanico, celebre per le sue ine­ guagliabili bistecche e per il suo Chian­ ti sopraffino. Quando, infine, Fellini è in un periodo di rigoroso igienismo, di­ venta un assiduo frequentatore del ri­ storante Vegetariano di via Margutta, proprio sotto casa sua: l’ambiente è giovane, la cucina leggera ma saporita, il vino è categoricamente abolito, il proprietario (Claudio anche lui) è uno spilungone simpatico, che a tempo perso fa il maestro di yoga. L.B.


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Vedi Luoghi, cose, eventi

La Gola • ottobre 1982 SIP - Servizio cucina Il telefono, curiosa protesi, ha fatto il suo ingresso anche in cuci­ na. Da molto tempo le signore hanno l’abitudine di suggerire al­ l’amica l’ultima scoperta culinaria 0 ricevere a loro volta consigli su questa o quella ricetta, nelle ore del mattino che precedono il quo­ tidiano lavoro tra i fornelli. Ma nel caso ci si ritrovasse sole, con un vuoto improvviso di idee, ecco che ancora il telefono può essere d’aiuto. Componendo un numero, che varia da città a città, la Sip of­ fre un servizio di ricette, ogni gior­ no nuove, della durata di due mi­ nuti. Nato a Bologna nel 1977 in col­ laborazione con l’Unione Cuochi Bolognesi, serve a variare il menù di tutti i giorni, non dimenticando il risparmio e l’attenzione ai pro­ dotti di stagione. Ricette economi­ che, dunque, e anche rapide, in li­ nea con i ritmi della nostra epoca. Da Bologna il servizio è stato gradualmente esteso a tutti gli altri distretti: a Venezia (a cura del­ l’Associazione Ristoranti del Buon Ricordo), a Genova, Firen­ ze, Milano (dal 1980), e via via in tutte le principali città italiane, sempre in accordo, per il lato ga­ stronomico, con le diverse associa­ zioni di cuochi. A Roma non ci si è limitati a questo: accanto al tradizionale «199», da qualche mese un nuovo servizio opzionale offre ricette dietetiche e consigli per magri o per obesi, per signore e signori af­ fetti da questa o quella malattia, indicazioni e controindicazioni, contenuto calorico del cibo. Il tut­ to curato da una nota dietologa ro­ mana, la dottoressa Venturini. Il settore gastronomico regionale nella capitale, è ideato dalla AMIRA (Associazione Maitres Italiani Ristoranti e Alberghi). Alcuni funzionari della Sip ci hanno assicurato il successo dell’i­ niziativa presso gli utenti, con una media giornaliera, per le più im­ portanti città, di circa 300 telefo­ nate al giorno. Le ore in cui si usa di più sono quelle del mattino e la cosa non è limitata alle casalinghe. Anche alberghi e ristoranti pare compongano quotidianamente il numero che toglie dall’impasse il cuoco e la cuoca con poca fanta­ sia. Abbiamo provato anche noi. Ecco la ricetta del 29 settembre 1982 per il distretto di Milano a cura della sezione lombarda della Federazione Italiana Cuochi. Piccioni farciti alla bresciana, per sei persone. Fiammeggiare e pulire tre piccioni grossi. A parte preparare un ripieno usando i ty fegatini tritati e saltati con la cipol­ la (un cucchiaino) e trenta grammi di burro. Impastarli in una terrina con pan grattato, un uovo, due mandorle amare tritate, formaggio grana grattugiato e un mestolo di brodo. Regolare di sale e pepe e lasciare riposare il composto per venti minuti, dopo di che riempire 1 piccioni. Dopo averli cuciti e le­ gati, disporli in una tortiera con olio d’oliva e mezz’etto di burro, il rosmarino (un rametto) e cuocerli in forno a calore moderato, aven­ do cura di bagnare di tanto in tan­ to con vino bianco. M.P.

7 novembre: Asta del Cardo e del Tartufo Nizza Monferrato. La terra nicese ci offre due prodot­ ti tipici: il Cardo Spadone, detto «gobbo», e il Tartufo Bianco. La pianta del cardo, robustissima e adattabile a ogni tipo di terreno, trova solo a Nizza quello ideale, nascendo su di una piana alluvio­ nale alla confluenza del Belbo e della Nizza, dove limo e sabbia lo rendono morbido e dolce. In au­ tunno le piante del cardo vengono sotterrate e piegate nella terra morbida, così da assumere la tipi­ ca forma arcuata e il colore bianco avorio che contraddistinguono il «gobbo» dalle altre qualità. La sua coltivazione è opera solo dell’uo­ mo, senza alcun aiuto dei mezzi

meccanici, e l’abilità sta nell’intuire il momento giusto per interrare e nel modo di piegare la pianta senza romperla o incrinarla. D Tartufo Bianco è invece il classi­ co rivale di quello di Alba, ma questo è di qualità superiore, an­ che se la quantità è limitata. Il suo tubero profumatissimo, infatti, sta rischiando l’estinzione, a causa dell’abbattimento di vaste aree di alberi che vivono in osmosi col tar­ tufo. Ogni anno, il 7 novembre, si tiene l’Asta del Cardo e del Tartufo, or­ ganizzata dal Comune di Nizza, in collaborazione con la Camera di commercio di Asti e la Regione Piemonte. Quest’anno la mattina è dedicata al tartufo, il pomeriggio al cardo. Nella sala affollata di «trifolau», commercianti e pubbli­ co, verranno posti all’incanto ben 39 lotti di tartufi, dei quali uno composto da un solo esemplare di ben 720 grammi. Lo scorso anno se ne vendettero circa 140 chili a un prezzo medio di 40.000 lire cir­ ca all’etto, anche se, in aste come questa, non è il solo peso a deter­ minare il prezzo, ma anche la bel­ lezza, la forma, la rotondità del tartufo. Pare comunque che quest’anno il prezzo all’etto si aggirerà sulle 80.000 lire, dunque quasi il doppio dello scorso anno. Nel 1981 si ven­ dettero circa 10 quintali di cardo, a un prezzo di 4-5.000 lire al chilo, ma anche per il «gobbo» si preve­ de quest’anno un notevole rialzo B.P. delle quotazioni.

Burghy Recenti ricerche di mercato di­ mostrano che l’industria del «Fastfood», ristorazione rapida, sta cre­ scendo anche in Italia. Ma la bassa qualità del cibo veloce ha già crea­ to la definizione di «Trash-food», cibo spazzatura, lanciata dai con­ sumatori risentiti. Alimenti raffinati, gonfiati, tin­ ti, ricchi di conservanti e coloranti, queste le caratteristiche del cibo veloce. L’esperimento italiano di que­ sto tipo, df ristorazione è rappre­ sentato da Burghy, aperto nella centralissima piazza San Babila di Milano e funzionante dal mattino alla notte. L’ambiente di Burghy è affolla­ to di teen-agers, affascinati dall’a­ ria americana che vi si respira. So­ brio, pulitissimo e ordinato, l’idea è quella di una palestra scolastica dove efficienza e standardizzazio­ ne sono privilegiate rispetto al gu­ sto, o comunque alla «intensità» dei sapori regionali italiani. Bur­ ghy ha adottato lo schema di pro­ dotti che già lo caratterizzano in molti Paesi, molto simile del resto a quello dei Me Donalds e concor­ renti vari, ma con qualche piccolo ritocco per adattarsi al palato ita­ liano. Il Big Burghy è un panino speciale con doppio sottile ham­ burger di manzo, formaggio, ci­ polla, guarnizione di lattuga fresca e salsa speciale Burghy; altre spe­ cialità della casa sono il Cheeseburger, con prevalenza di formag­ gio, e il Fishburger, con merluzzo impanato e fritto. Immancabili le patatine fritte, in bella mostra nel cartoncino rosso e offerte in due diverse porzioni. Infine i dolci: il richiestissimo Milk-Shake e la Golden Tart, ovvero dolce di mele caldo (proibito tradurre in italiano cosa sono). V.T.

Osterie bolognesi Chi a Bologna è arrivato da po­ co, chi passa per qualche giorno ogni tanto, senza viverci stabil­ mente, difficilmente riesce a sot­ trarsi al cliché gucciniano della cit­ tà delle osterie, al fascino di que­ ste grandi stanze vocianti in cui le persone sedute ai tavoli di legno scuro sembrano, alla prima oc­ chiata, tutti membri di una stessa confraternita. Nell’osteria bolognese non c’è, come nell’american bar, la colon­ na sonora di sottofondo che neu­ tralizza l’ambiente, stacca un tavo­ lo dall’altro e ti consente di entra­ re quasi senza essere visto: vedi subito che non potresti scambiare il Moretto per Osteria delle Da­ me, né le due osterie di via Fondazza l’una con l’altra. Se all’Oste­ ria Senzanome entri deciso e un po’ spavaldo, magari ti fai strada a gomitate e ti siedi dove puoi, al­ l’Ortica ti muovi quasi in punta dei piedi, e prima ancora di cercare il posto leggi ai muri gli avvisi mano­ scritti dei generi più disparati e guardi sul banco le torte dolci e salate. Ma stiamo parlando delle oste­ rie del centro, non di quelle fuori porta - di quelle , cioè, che negli ultimi dieci anni hanno subito la trasformazione più drastica sotto l’impatto della popolazione stu­ dentesca. Fra queste solo l’Osteria del Sole, appena dietro Piazza Maggiore, ha conservato le carat­ teristiche delle vecchie osterie bo­ lognesi: non si beve altro che vino, la casa non offre cibo; così è rima­ sta l’abitudine di procurarselo al­ trove, nelle salumerie o nelle ro­ sticcerie intorno, portarlo sui tavo­ li e ordinare da bere, ed è quello che a mezzogiorno fa il curioso amalgama di pensionati, lavorato­ ri e studenti che frequentano il lo­ cale. In tutti gli altri posti, a poco a poco, la birra ha affiancato, se non soppiantato talvolta, il vino (e tut­ ti, seguendo l’esempio dei primi, coraggiosi, pionieri, si sforzano di offrire l’assortimento più ricco: le birre scure di produzione belga hanno a Bologna uno dei luoghi di culto più importanti); in tutte le osterie ormai si trova da mangiare, dal semplice affettato ai piatti freddi più elaborati, a veri e propri menù che vanno dalla pasta e fa­ gioli a qualche secondo semplice ma forte, al dolce (personalmente la migliore pasta e fagioli l’ho mangiata da Lucio in via Fondazza, ma devo riconoscere che la scelta dell’Osteria dei Poeti è più ricca, e i piatti altrettanto buoni). Ora questa trasformazione nel­ l’offerta e nella fisionomia, che è poi all’origine una trasformazione della domanda, del pubblico, va indubbiamente nel senso di livella­ re, se non la qualità dell’offerta, la tipologia dell’osteria. E ci accor­ giamo allora che quella che a tutta prima ci pareva una qualità incon­ fondibile di ogni singolo locale si riduce a volte solo a un fatto di architettura, o di decorazione. Certo, in nessun altro posto tro­ veremo i capitelli splendidi delle sale cinquecentesche del Matusel, o l’ossessione lussureggiante di manifesti che tappezza le pareti del Moretto. Ma il pubblico no, quello se guardiamo bene, non è così caratteristico, non è così lega­ to al locale come sembrava a pri­ ma vista. Certo non è omogeneo, non c’è un unico «genere» ma una fauna di osteria stratificata in zone di età, di interessi, di settori di la­ voro, che all’osteria siedono fian­ co a fianco senza comunicare e senza conoscersi (diversamente, forse, da quanto accade nelle oste­ rie o nei bar dei quartieri). Ma è una fauna distribuita, a meno di accentuazioni e addensamenti lo-

cali, abbastanza casualmente in tutti i posti; e se qualche fascia di età (i trentenni e ultratrentenni, per esempio) mostra predilezione per qualche locale, è sempre un fatto transitorio, una scelta suscet­ tibile di fluttuazioni anche rapide e brusche. Forse non era così ancora cin­ que o sei anni fa, quando la pre­ senza forte e pubblica di uno stra­ to sociale il cui nome oggi è pru­ dente mettere tra virgolette (il «movimento») disegnava anche una originale distribuzione dei luoghi del bere e del mangiare, rendendoli a volte più significativi degli stessi luoghi più direttamen­ te deputati alla decisione e all’a­ zione (l’aula universitaria, l’as­ semblea). Ma non equivochiamo, nessuna nostalgia: perché Bologna oggi seduce anche per questa me­ scolanza di omogeneità e di diffe­ renza, per questo agitarsi di vene sottili e tenui nel liquido sociale che già è stato il più ribollente d’I­ talia, per questo muoversi quieto della contemporaneità (che i mio­ pi continuano a scambiare per ri­ flusso) all’ombra di portici e palaz­ zi medioevali: che poi, come si sa, non sono neppure tutti autentici. A.C.*Il

Oscar Tusquets Oronda Achille Castiglioni Dry Alessi Crusinallo Di chi è vassallo il vassoio? Del porgere. Del servire. Quello disegnato da Oscar Tu­ squets per Alessi si chiama Oron­ da. Mentre le posate di Achille Castiglioni sono Dry. La vita di un vassoio sta nel ge­ sto di porgere, di servire, di soste­ nere. Il cibo trova nel vassoio la quiete. Si dispone alla pausa che scandisce il suo percorso: la tavo­ la, il piatto, la posata, la bocca. In questa sequenza l’oggetto vive, il cibo compie il suo destino. Ma non solo questo. Il vassoio ha a che fare con il deporre con cura, con il guarnire, con lo sguardo che guida al piace­ re del divoramento. Ciò che regge è destinato a scomporsi, a essere diviso, a esse­ re tagliato. Nel suo vassallaggio ha spesso bisogno del coltello, oltre che della mano che lo sostiene. Ha bisogno del cucchiaio che riceve e porge il suo contenuto. Il nome spiega il destino: vassorium, da «vas», vaso, e «missorium», piatto. La sua vita infatti sta tra il vaso e il piatto. E prezioso. Su un vassoio è stata deposta e servita la testa del Battista. In quanto piatto ha portato e offerto allo sguardo, incise nel suo corpo argenteo, le storie di Alessandro Magno, di Davide, di Achille, di Ercole, di animali in lotta. Su un vassoio d’argento si serve e si offre un caffè, una buona occa­ sione, un amore, una lettera. Oronda è un vassoio rettangola­ re in acciaio inossidabile di cm 52,5 per 31. E asimmetrico, ed è disponibile in alcune varianti de­ corate. f Oscar Tusquets, di scuola cata­ lana, ha 41 anni. Attualmente im­ pegnato al progetto sperimentale «Officina Alessi» per un servizio da tè e caffè. Sono 75 le posate della serie Dry disegnate per «mangiare all’i­ taliana» da Achille Castiglioni. Dodici i cucchiai, le forchette e i coltelli da tavola, altrettanti i col­ telli e le forchette da frutta, i cuc­ chiaini da tè o caffè. Più un mesto­ lo, un cucchiaione, un forchettone da servizio. II cucchiaio ha una coppa ben capace, la forchetta quattro rebbi allungati, il coltello una lama mol­ ta lunga. Castiglioni ha disegnato anche il mobiletto-contenitore: in legno cartonato per l’acciaio e in legno di pero per l’argento. La sua colla­ borazione con Alessi continuerà con una serie di oliere e portacondimenti. F.P.


La Gola

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ottobre 1982

Gli intellettuali scoprono la cucina, si dice, ma il fenomeno è più complesso e non privo di ambiguità. Si parla di moda golesca, ma una moda contiene tante cose e il loro contrario. A Passariano (Udine) si è tenuto un convegno internazionale...

Passariano, cucina e società in parole Antonio Attisani

nche se molte delle pre­ senze annunciate o desi­ derate sono venute a man­ care (Claude Lévi-Strauss, Piero Camporesi, Luigi Firpo, Emilio Faccioli e altri) per i motivi più di­ versi, il convegno di Passariano è stato uno dei tanti sintomi dell’at­ tenzione che specialisti di varia provenienza dichiarano di voler ri­ volgere d’ora in poi al rapporto cucina-società. La novità sta ap­ punto in una convergenza transdi­ sciplinare che dovrebbe permette­ re di risarcire la complessità del di­ scorso gastrologico, e la sua emblematicità. La complessità del discorso ga­ strologico risulta più da una visio­ ne panoramica del convegno che dalla maggioranza dei singoli in­ terventi: questi, quando non testi­ moniavano di un imbarazzante e futile neofitismo culinario, erano spesso costretti a presentare dei sommari di possibili argomenti piuttosto che a svilupparne alcuni. La «neutralità» del discorso ga­ strologico, poi, non deriva solo da una padronanza della materia (i dilettanti prendono tutto alla lette­ ra) ma è soprattutto il portato di un’intelligenza e di una passionali­ tà politica, viene dalla consapevo­ lezza della complessità e dell’inter­ dipendenza dei vari livelli di sape­ re-struttura, e dunque non può prescindere da una presa di posi­ zione etico-politica. In questo senso il convegno, con i suoi grandissimi meriti, non pote­ va che risultare un po’ goffo nella sua indiscriminata apertura e nulla può garantire circa la qualità di in­ contri di questo genere in futuro. E ovviamente impossibile riferi­

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poetica culinaria di Satie e la storia della patata, otteneva un buon ef­ fetto di sorpresa e testimoniava di quella convergenza di saperi che fa del discorso culturale sulla cucina non una nuova specialità (o catte­ dra che dir si voglia) ma una sorta di interdisciplina (che è, poi, ciò che dovrebbe diventare qualsiasi specialità). Il secondo giorno, dopo Piero Ricci con i suoi Frammenti di di­ scorso culinario e Ornella Volta con Satie, l’atteso intervento di Nôelle Châtelet: Mangiare con Sa­ de. La Châtelet tende a distinguere un Sade pornografo da un Sade fi­ losofo e indica nel primo uno stru­ mento del secondo, che sarebbe poi un perfetto illuminista, ammi­ ratore di Diderot e Rousseau e fautore di un’opzione materialista emendata dalle fantasie sessuali e di potere che normalmente si im­ prigionano neH’inconscio. Così l’autrice del Corpo a corpo culinario2 ha un po’ deluso per la sua ipotesi tutto sommato pacifi­ cante a spese di Sade; e a poco è servito il suo richiamo finale sul fatto che il Divino Marchese, se può sembrare lontano da noi e dal­ la nostra gastronomia (versione della coscienza), è lì pronto a fare da testo e specchio a tutto ciò che siamo e che non osiamo dire. Un finale, casomai, che poteva costi­ tuire un buon inizio. Luigi Veronelli esordiva più tar­ di ricordando il significato dell’ar­ te di dire bugie scrivendo ricette. Così facendo, i cuochi non mostra­ no una banale gelosia dei loro sa­ peri, ma tendono a creare le con­ dizioni di un esperimento, poiché

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di Don Giovanni. Almansi ha terminato con un sospetto nei confronti della moda golesca e, so­ prattutto, dissentendo dall’equiva­ lenza stabilita da Sade tra una fan­ tasia di tavola e una di letto, poi­ ché, dice, non pare possa esistere per l’esperienza culinaria quella

Un menu da «Neve di primavera» di Y. M ishima

una ricetta (il copione di un sapere culinario) non può essere ripro­ dotta ma solo reinventata. Altro stacco, ed ecco salire sul podio due psicanalisti in successio­ ne, Carlo Viganò e Giacomo Con­ tri. Quest’ultimo ha fatto un esem­ pio (da Süss l'Ebreo di Feuchtwanger) per dire che non esiste cucina se non in una delle tante comici culturali e che parlare di «cucina dell’amore» è pleonastico: la cuci­ na non è bisogno, è dal lato delle parole. La giornata seguente ha regi­ strato la tesi di Christina von Braun sul «cannibalismo fallosofico», ovvero sull’eterno rimprove­ ro del maschio nei confronti della donna-madre che l’ha tenuto per nove mesi nel suo ventre, non sen­ za successive implicazioni per la sua strategia culinaria. Seguivano le relazioni di Omar Calabrese su Cibi d'arte, di GianniEmilio Simonetti su La comples­ sità del discorso gastrologico e di Guido Almansi su La cucina

lizzazione della pelle, da una par­ te, attraverso le cosiddette cure postanalitiche (bioenergia^ terapie di gruppo, jogging, ecc.) e a un surinvestimento delle relazioni in­ terpersonali (buona socialità, convivialità, lo stare insieme, ecc.): la nuova pornografia. Fontana ha poi concluso sul ricordo di un trattatello cinquecentesco di Luigi Comaro, una disincantata apolo­ gia della frugalità.

Renata Pisu

Festa dei ciliegi in fiore Banchetto serale 6 aprile 1913 Anno Secondo dell’Era Taisho Zuppa di tartaruga Brodo di pollo

MINESTRE brodo con carne di tartaruga sminuzzata brodo con sottili fette di carne di pollo

Entrée Trota pochée al latte e al vino bianco Roast-beef con contorno di funghi stufati Quaglie arrosto ai tartufi, con funghi Filetto di montone alla griglia con contorno di sedani Pàté de foie gras con accompagnamento di selvaggina e trance di ananasso al vino ghiacciato Gallo ruspante arrosto farcito di funghi Verdure Asparagi Fagiolini al formaggio Desserts Crème renversée Petits fours Gelati Assortiti

anizaki diceva che ai Giap­ ponesi derivavano molti in­ convenienti dal fatto di vive­ re in una società d'accatto. Per esempio, dover mangiare con sto­ viglie di porcellana, temibile con­ duttrice del calore, che urtata «rin­ tocca sinistramente» mentre al con­ trario i servizi di legno laccato «so­ no leggeri, gradevoli al tatto, deli­ cati, non rumorosi...». «Troppo presto il brodo servito in una tazza di porcellana bianca svela i suoi se­ greti», scrive Tanizaki, «sollevato il coperchio si sa subito che colore ha il liquido e cosa contiene. È co­ sa straordinariamente bella, inve­ ce, sollevare il coperchio di una ciotola di legno laccato: difficile capire cosa si trovi laggiù... Attra­ verso il vapore abbiamo un vago presentimento del cibo: esso si an­ nunzia a noi prima di toccare il pa­ lato. Una emozione così profonda e intima certo non può essere para­ gonata a ciò che si prova davanti a un brodo servito in un piatto di bianca porcellana occidentale. Vi è, in essa, qualcosa di mistico e,

forse, un zinzino di Zen». Ecco, non c'è nemmeno un zin­ zino di Zen nel menu nel banchetto offerto dal marchese Matsugae per la Festa dei ciliegi in fiore, e Mi­ shima lo sa, tutti i giapponesi colti lo sanno. Per questo, in Neve di primavera, primo romanzo della sua tetralogia II mare della fertili­ tà, Mishima si limita a pubblicare pari pari, senza commenti, il menti ricchissimo, occidentale e bizzarra­ mente congeniato del pranzo. Mentre Jinuma lo legge, l’espres­ sione del suo viso muta in conti­ nuazione, e Mishima nota che «ta­ lora i suoi occhi sembravano per­ vasi di spregio, talaltra apparivano pervasi da una sorta di supplica struggente». E questo l'unico muto commento al menu. Ma Jinuma è un servo di casa, il suo spregio e le sue suppliche non contano. Il me­ nu parla da solo, racconta che il marchese Matsugae è stato all'este­ ro, ha assimilato alcune usanze straniere e il roast-beef non si man­ gia in piatti di legno laccato. Nem­ meno la «trota pochée».

trascendenza della passione che si può verificare, invece, attraverso la sessualità. Sarebbe veramente pretestuoso cercare di richiamare tutti gli in­ terventi nella loro complessità in sede di resoconto: solo gli Atti del convegno potranno dame idea. Ma preme ricordare l’intervento di Alessandro Fontana, il quale ha posto, come ipotesi, il seguente quesito: è possibile affermare che ciò cui stiamo oggi assistendo è la sostituzione lenta e implacabile del discorso sul cibo al vecchio di­

tiche e comportamentali); il digiu­ no professionale; lo sciopero della fame, soprattutto nella grande pratica politica di Gandhi. Secondo Fontana, dopo la se­ conda guerra mondiale, e con una forte accelerazione dopo il ’70, l’alleanza tra la sessualità e l’ali­ mentazione (di cui era stata spia l’anoressia) si è andata via via scio­ gliendo e il cibo sta oggi assumen­ do una nuova centralità. Il cibo sta diventando il dispositivo essenzia­ le di una articolazione del corpo e dell’anima che tende a una sacra­

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re in dettaglio delle circa trenta re­ lazioni proposte dal convegno e dei numerosi interventi che hanno riempito ben quattro giornate di lavoro.1 Ha aperto Giuseppe Recchia con una relazione sulla presenza e l’assenza della cucina nella lettera­ tura, e gli ha immediatamente fat­ to seguito Boris Oguibenine con La parola cucinata secondo gli or­ dini degli dei; poi Jean-Louis Flandrin ha rivisitato il vocabolario della gola dal Settecento a oggi, Giorgio Cusatelli ha parlato dei Rituali gastronomici nella fiaba e Donatella Mazzoleni di Cibo e ar­ chitettura: metafore del corpo. Questo tipo di salti, queste dif­ ferenze di approccio hanno carat­ terizzato tutto il convegno; il moti­ vo era pratico, in quanto si tratta­ va di assecondare gli impegni di data comunicati dai relatori, ma l’effetto era tutt’altro che spiace­ vole. Lo slittamento continuo tra fini analisi semiologiche e racconti sulla cucina dei nomadi, tra la

scorso sulla sessualità? La questio­ ne dell’associazione storica tra ci­ bo e sesso è stata poi negativamen­ te analizzata in tre figure di rifiuto del cibo, a partire dalla seconda metà del secolo scorso: l’anoressia nervosa e isterica (con le sue de­ scrizioni psichiatriche, psicoanali­

Il discorso di Fontana è l’unico che abbia un po’ scosso il conve­ gno, provocando nette reazioni prò e contro (gli argomenti contra­ ri non si sono ben capiti e si sono consumati nei corridoi: si riferiva­ no a un suo presunto tono quaresi­ male e moralistico). A noi pare che, al di là delle affermazioni da approfondire e verificare, esso sia interessante per il suo spessore problematico, cioè, per parlare più diretto, contiene diverse indi­ cazioni su cui vogliamo riflettere attraverso questa rivista. Per il resto il convegno non ha registrato polemiche o contrappo­ sizioni. Non si tratta di avere no­ stalgia per i settarismi all’opera e i bollori artificiosi dei convegni del passato, ma di invocare che questa nuova parola sulla cucina sia più interessata e non buttata lì tanto per dime due sull’argomento del giorno. Abbiamo partecipato tutti della sobria euforia di questo convegno, del suo opportuno conforto am­ bientale (Villa Manin) e culinario (pranzi e cene al Ristorante del Doge e varie escursioni in osterie o presso produttori di vino o for­ maggio). Ugualmente tutti abbia­ mo capito, spero, che questa eufo­ ria è destinata a sboccare in una depressione più profonda se viene consumata velocemente in se stes­ sa, senza curarsi di cosa veramente accade, dopo ia digestione e fuori dal nostro corpo.

Note (1) Gli Atti saranno pubblicati dalla Shakespeare & Company di Milano entro dicembre. (2) Nôelle Châtelet, Il corpo a corpo culinario, Milano, Feltrinelli, 1982.


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Il coltello, Alessi. La forchetta, Alessi. Il cucchiaio, che senza difficoltà ha raccolto il titolo di questa pagina, Alessi. Per la prima volta, insomma, Alessi presenta un servizio di posate. Si chiama Dry ed è stato disegnato da Achille Castiglioni. Nel pensarlo, Achille Castiglioni si è riferito alla classica tradizione italiana. Le citazioni sono evidenti: il cucchiaio ha la coppa ben capace, la forchetta è a quattro punte, il coltello (forgiato a caldo e temperato) ha la lama molto lunga. Tutte caratteristiche che rivelano una sot­ tile, ma determinata punta polemica rispetto alla posateria scandinava. Servizio di posate Alessi Dry per 12 persone. 75 pezzi in una classica confezio- J A I i j ne regalo. Oppure, tante posate da comperare una alla volta. SE CI MANDATE IL VOSTRO NOME E L'INDIRIZZO CON LA SIGLA G 0/P1 POTREMO FARVI AVERE UN CATALOGO ILLUSTRATO DEI NOSTRI PRODOTTI ALESSI S.P.A - 28023 CRUSINALLO/NO


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