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RITARDO DI VETRO

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Eva Fabbris

GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO JAMES BROWN 6

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Vitrine In mostra

NUMERO

MAGAZINE D'ARTE DELLA GAM PERIODICO NOVEMBRE 2011 - APRILE 2012 GALLERIA CIVICA D'ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA DI TORINO

#3



MAG #3 - GAM MAGAZINE

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EVA FABBRIS curatore di questo numero

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RITARDO DI VETRO a cura di Eva Fabbris

Sara d’Alessandro a colloquio con

GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO IN MOSTRA

La sezione contiene i contributi di:

DORA GARCÍA PIERRE LEGUILLON LILIANA MORO MARY ANNE STANISZEWSKI PAUL SIETSEMA PRATCHAYA PHINTHONG VINCENZO LATRONICO RAIMUNDAS MALASAUSKAS

15 20 22 26 32 36 39

DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI

JAMES BROWN FIRMAMENT

6 di Anna Musini

IN MOSTRA

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MAG #3 - GAM MAGAZINE

MAG GAM MAGAZINE NUMERO 3 ANNO II NOVEMBRE 2011 – APRILE 2012 chiuso in redazione il 26 ottobre 2011 Direttore Danilo Eccher

PAUL SIETSEMA

di Miriam Prencipe

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GIUSEPPE PIETRO BAGETTI PITTORE DI BATTAGLIE

22 LILIANA MORO

8 IN MOSTRA

Redazione Arianna Bona, Sara d’Alessandro, Alessandro Isaia, Daniela Matteu, Gregorio Mazzonis

PROGETTO DI MOSTRA IMMAGINARIA

CONFERENZE

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Traduzioni Laura Traversi 5|6|8|10|13|14|22|42|44 Isabella Zani 15|18|26|36|39 Progetto grafico Design testata, impaginazione e consulenza Labxyz.com - Roma – info@labxyz.com Stampa Tipograf srl - Roma Ringraziamenti Meris Angioletti, Pierre Bal-Blanc, Francesca Bertolotti, Virginia Bertone, Manuela Blasi, Silvia Brigada, James Brown, Andy Cushman, Michele D'Aurizio, Gianluca e Massimiliano De Serio, Flavio Del Monte, Luigi Fassi, GAMeC – Bergamo, gb Agency – Parigi, Dora García, Martino Genchi, Tanja Gentilini, Igor Zabel Association for Culture and Theory, Dunja Kukovec, Vincenzo Latronico, Pierre Leguillon, Raimundas Malašauskas, Francesco Manacorda, Eva Marisaldi, Liliana Moro, Anna Musini, Adriano Nasuti-Wood, Afrodite Oikonomidou, Harula Peirolo, Pratchaya Phinthong, Miriam Prencipe, Alessandro Rabottini, Sergio Ricciardone, Paul Sietsema, Mary Ann Staniszewski, Cesare Viel, Elena Volpato, Beti Zÿerovc GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino Via Magenta 31, 10128 Torino Centralino + 39 011 4429518 Segreteria + 39 011 4429595 gam@fondazionetorinomusei.it comunicazionegam@fondazionetorinomusei.it www.gamtorino.it

RUBRICHE

NEW ENTRY 43 GEORG BASELITZ – GUT GRAU VIDEOTECA ZEITGEIST, 2011 di Sergio Ricciardone ed Elena Volpato

Hanno collaborato a questo numero: Eva Fabbris, Anna Musini, Miriam Prencipe, Sergio Ricciardone, Elena Volpato

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BACKSTAGE 46 MOSTRA EROI

orari di apertura collezioni e mostre da martedì a domenica dalle 10:00 alle 18:00 lunedì chiuso Fondazione Torino Musei Città di Torino con il contributo straordinario di Fondazione CRT Periodico della GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino. Registrato presso il Tribunale di Torino aut. n.12/2011


MAG #3 - GAM MAGAZINE

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EDITORIALE Danilo Eccher – Direttore della GAM

È impossibile oggi non riflettere sul difficile momento che ci troviamo ad attraversare. La crisi economica internazionale, che mostra tutta la sua gravità travolgendo stati ed economie, conduce ad una serpeggiante sfiducia generale e, ancor peggio, ad un timore nei confronti di un futuro sempre meno prevedibile. Essa diviene quindi anche crisi culturale: i mezzi economici delle istituzioni, spesso penalizzate in quanto considerate “non produttive”, non sono più gli stessi. Si ridimensionano le possibilità e le ambizioni, e un mondo, già composito e complesso come quello dell’arte contemporanea, si disgrega in polemiche. Eppure, senza voler essere superficialmente ottimisti, la crisi può essere un’opportunità di ritorno all’essenziale, di riscoperta del proprio ruolo, di riavvicinamento alla società. Per uscire da essa, si elaborano nuove proposte, idee che, per sopravvivere, devono essere solide e strutturate. In quest’ottica la GAM prosegue il suo impegno e lo allarga, in controtendenza, ribadendo la propria missione culturale ed educativa, sia nei confronti della città, come museo civico, sia a livello internazionale, come grande e moderno museo di arte contemporanea.Per questo, accanto alla consueta programmazione espositiva, è partito il progetto Vitrine, dedicato ad artisti piemontesi, soprattutto giovani: un ciclo di cinque mostre affidato di anno in anno ad un diverso curatore, il primo dei quali è Luigi Fassi, che permette al museo di promuovere e consolidare il rapporto con l’arte del territorio, e al pubblico di conoscerla. Per questo, a novembre si inaugura Dialoghi, progetto che coinvolgerà ogni anno un diverso artista internazionale, chiamato a confrontarsi con le opere delle ricche Collezioni GAM, e che vede come primo protagonista James Brown. Infine, la GAM prosegue sulla strada già intrapresa, con il ciclo di mostre in Wunderkammer e con il nostro (e vostro) MAG, ora giunto al terzo numero, che, insieme al ciclo di conferenze correlato, offre al pubblico uno sguardo sull’animato dibattito teorico intorno all’arte contemporanea. In questo numero, il ruolo di “Direttore” è stato affidato ad Eva Fabbris che affronta un tema spinoso che permea il Novecento: il rapporto in continuo divenire fra artista e curatore, fra opera e allestimento, che pone in questione le definizioni stesse di autore e, in senso lato, arte. Non ci resta quindi che augurarvi una buona, interessante e proficua lettura.

Nowadays we cannot avoid reflecting on the difficult situation we are all going through. The serious global financial crisis affecting the economy of most countries today brings about a creeping general mistrust and, far worse, the fear of a future that seems all the more unpredictable. It also turns into a cultural crisis: institutions are often penalized the most because they are considered “non productive” and they can no longer count on the same means. As possibilities and ambitions are being trimmed down, the already complex and multifaceted world of contemporary art breaks up in polemics. And yet, without trying to be superficially optimistic, we could consider this crisis our opportunity to go back to the essentials, to rediscover our role, and to get back in touch with society. New proposals are being elaborated to get us out of the crisis, but in order to survive these ideas need to be solid and well-structured. With this in mind, the GAM carries on its commitment and goes against the grain expanding its program only to reaffirm its cultural and educational mission, both as a civic museum relating to its territory, and on a international level, as a great and modern museum of contemporary art. This is why to the regular exhibition program we have added a new project which was recently inaugurated: Vitrine, displaying the work of young Piedmontese artists in a cycle of five exhibitions, each organized by a different curator, beginning with Luigi Fassi. With this project, the museum intends to promote and consolidate its relationship with local art presenting it to the public. This is also why in November we are inaugurating Dialogues, a project that will involve a different International artist every year to exhibit in conjunction with works from the extensive GAM Collection. The first one to be invited here will be American artist James Brown. And finally, the GAM keeps up the cycle of exhibitions in the Wunderkammer as well as our (and your) MAG, now at its third issue, complemented by the usual program of thematic talks, offering a view of the vibrant theoretical debate on contemporary art. For the present edition, the role of “Director” has been assigned to Eva Fabbris, who addressed a challenging issue permeating the 20th century: the constantly evolving relationship between artist and curator—work and display—that questions the very definitions of author and, in broader terms, of art. Last but not least, we hope you will find this a good, interesting, and worthwhile read.


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IN MOSTRA JAMES BROWN – FIRMAMENT

DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI DIALOGUES D IN MOSTRA

JAMES BROWN FIRMAMENT di Anna Musini

C

on Dialoghi la GAM inaugura un nuovo progetto espositivo e di ricerca scientifica invitando ogni anno un artista affermato sulla scena contemporanea internazionale a mettere in relazione il proprio lavoro con le collezioni permanenti del Museo. L’iniziativa permette di proseguire la poetica di valorizzazione del grande patrimonio della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino e allo stesso tempo offrire un’occasione di approfondimento intorno alla produzione di artisti contemporanei. La realizzazione di ciascuna mostra è preceduta da una fase di studio in cui l’artista invitato viene guidato nell’analisi delle opere delle collezioni e in seguito nell’ideazione di un progetto espositivo. Si innesca così un rapporto di apertura, scambio, dialogo. Dialoghi in cui si confrontano artista e museo, dialoghi che portano alla costruzione di un percorso visivo che suggerisce accostamenti, delicate connessioni, spunti di riflessione, dialoghi tra le opere. Dialoghi infine tra le suggestioni della mostra e il pubblico che ne fruisce. Il progetto prende avvio nell’Exhibition Area con James Brown. L’artista americano, nato a Los Angeles nel 1951, compie gli studi negli Stati Uniti per poi perfezionarsi all'École des Beaux-Arts di Parigi tra il 1972 e il 1975. Emerge sulla scena artistica nei primi anni ’80 esponendo a New York nella galleria di Tony Shafrazi con i graffitisti Keith Haring, Jean-Michel Basquiat e Kenny Scharf. Ben inserito nel milieu artistico newyorkese e parigino collabora con galleristi di fama internazionale e instaura un rapporto di profonda stima in particolare con Leo Castelli e Lucio

Amelio. Brown compie numerosi viaggi, in Italia, in Europa, in Marocco, risiede per diversi periodi in Giappone, e dal 1995 si trasferisce con la famiglia ad Oaxaca in Messico. Il paesaggio, l’ambiente culturale e naturale con cui negli anni viene in contatto costituiscono la fonte principale d’ispirazione e trovano riscontro nel suo lavoro. Artista poliedrico, Brown spazia dalla scultura alla pittura, nella quale in particolare si ravvisa l’influenza dei grandi maestri dell’astrazione e del pensiero gestuale quali Rothko, Tàpies, Twombly. Negli sviluppi più recenti della sua opera emerge un’analisi intorno alle forze del cosmo e a contenuti metafisici: i colori saturi

dei dipinti degli anni ’80 e ’90 vengono sostituiti da trasparenze e rarefazioni delle immagini che preludono ad una narrazione spirituale. La mostra alla GAM è dedicata alla produzione più recente di Brown, la serie Firmament, realizzata tra il 2007 e il 2010, che in questa occasione viene presentata per la prima volta in un’istituzione pubblica. L’opera si compone di nove dipinti di formato grandioso: i linguaggi dell’arte astratta e primitiva sono riuniti nelle linee eleganti e naturali delle figure biomorfe protagoniste di un cosmo che oscilla tra dimensione scientifica e fantastica con espliciti riferimenti all’astronomia e


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DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI DIALOGUES DIALOGHI DIALOGUES

A SINISTRA

— James Brown, Firmament IV, 2007-2010, olio e matita su lino, 300 x 550 cm, courtesy James Brown Studio. Particolare.

all’astrologia. Forme organiche simili a particelle atomiche e cellulari campeggiano all’interno di spazi vacui e indefiniti dalle tonalità plumbee e sideree, che toccano le diverse tonalità del blu, del viola, del grigio, dell’azzurro e del bianco. Numerosi studi sul colore e sulla forma affiancano la produzione pittorica testimoniando il lavoro meticoloso che Brown dedica alla fase di preparazione dell’opera finale a partire dal disegno della composizione. L’artista ripone grande attenzione anche nella scelta del supporto prediligendo carte pregiate e tessuti, quale il lino, e seleziona con meticolosità l’impasto dei colori come nell’esecuzione di un rituale alchemico. “Il blu è il colore tipico del cielo. Se è molto scuro dà un’idea di quiete. Se precipita nel nero acquista una nota di tristezza struggente, affonda in una drammaticità che non ha e non avrà mai fine. Se tende ai toni più chiari, a cui è meno adatto, diventa invece indifferente e distante, come un cielo altissimo. Più chiaro è, meno è eloquente, fino a giungere a una quiete silenziosa: il bianco”. (Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, edizione SE, Milano, 1989, p.62) Attualmente James Brown vive e lavora tra Parigi e Merida, Messico.

Under the title Dialogues, the GAM inaugurates a new exhibition and research program inviting every year an internationally recognized contemporary artist to exhibit his work alongside a

DIALOGHI James Brown Firmament

Exhibition Area DAL

AL

25/11 12/02

2012

— James Brown, Color Study (For Firmament I), 20072010, olio su lino ripiegato montato su tela, 52 x 70.5 cm, courtesy James Brown Studio. Foto: Bertrand Huet

transparent and rarefacted images that prelude to a spiritual narrative. The GAM exhibition features works from his most recent production: the Firmament series, shown for the first time in a public institution. Created between 2007 and 2010, the work consists of nine large format paintings which combine expressions of abstract and primitive art with the elegant and natural lines of biomorphic figures inhabiting a cosmos that hovers between the scientific and the fantastic dimensions, with clear reference to astronomy and astrology. Empty, undefined spaces are dominated by organic forms, which resemble the particles of an atom, or a cell, and are pervaded by somber and astral nuances fused in different hues of blue, violet, grey, light blue, and white. His artistic production develops alongside several color studies and form that witness the meticulous work behind all stages of research and production, beginning with the drawing of the composition. Brown pays scrupulous attention to the choice of medium, mainly using valuable papers or textiles, such as linen, and he also carefully selects his color mixtures as if he were performing an alchemic ritual. “Blue is the typical heavenly colour. The ultimate feeling it creates is one of rest. When it sinks almost to black, it echoes a grief that is hardly human. When it rises towards white, a movement little suited to it, its appeal to men grows weaker and more distant”. (Wassily Kandinsky, in Concerning the Spiritual in Art, Dover, New York 1977) James Brown currently lives and works between Paris and Merida, Mexico.

2011

IN ALTO

selection of works from the Museum’s permanent collection. This initiative promotes and enhances the great artistic heritage of the Civic Gallery of Modern and Contemporary Art in Turin, while getting the public acquainted with the production of international contemporary artists. The organization of each exhibition entails an initial phase of research that involves each invited artist in the exploration of the museum’s collection and the design of the exhibition project. This collaboration is the starting point of several dialogues. It initiates an open exchange, a conversation involving more parts: Dialogues between the artist and the museum, Dialogues creating a visual path that evokes new combinations and delicate connections, and triggers ideas, but also Dialogues between the artworks; and ultimately Dialogues between the works on display and the public. The first episode of this project, set up in the Museum’s Exhibition Area, involves American artist James Brown. Brown, who was born in Los Angeles in 1951, studied in the USA and completed his art studies at the École des Beaux-Arts in Paris between 1972 and 1975. He emerged on the New York art scene in the 1980s and his work was exhibited at Tony Shafrazi’s gallery where he was grouped with graffiti artists Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, and Kenny Scharf. Blending into the art scenery of New York and Paris alike, he collaborated with international art galleries and was particularly esteemed by Leo Castelli and Lucio Amelio, with whom he established a solid collaboration. Brown travelled extensively in Italy, Europe, Morocco; he lived in Japan for short periods of time, and in 1995, he moved to Oaxaca, Mexico with his family. The landscape, the different cultural and natural milieus that he has encountered throughout his life are his real source of inspiration and are reflected in his works. Brown’s multifaceted oeuvre ranges from sculpture to painting and—particularly in the latter—shows the influence of great masters of abstract and gestural style, such as Rothko, Tàpies, and Twombly. His most recent production reveals his investigation concerning the forces of the cosmos and a metaphysical content: the saturated colors of his 1980s and ‘90s paintings have given way to


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IN MOSTRA GIUSEPPE PIETRO BAGETTI – PITTORE DI BATTAGLIE

IN MOSTRA

GIUSEPPE PIETRO BAGETTI

PITTORE DI BATTAGLIE di Miriam Prencipe

N

el 1819 Modesto Paroletti – studioso eminente e membro della Reale Accademia delle Scienze – riferiva a Giuseppe Pietro Bagetti aperte parole di elogio, riconoscendogli il merito di aver portato la pittura ad acquerello al più alto grado di perfezione. Il comune apprezzamento che i contemporanei riservarono all’artista piemontese, trova eco oltre un secolo dopo nell’impresa di Vittorio Viale e Pietro Accorsi, impegnati nell’acquisto del prestigioso fondo di disegni delle Vues des Campagnes des Français en Italie (1796 e 1800). Nel 1957, un anno dopo l’ingresso dei fogli nella collezione della GAM, si tenne a Palazzo Madama la mostra Giuseppe Pietro Bagetti, pittore di battaglie, di vedute e di paesaggi, che ebbe il merito di far conoscere l’artista al grande pubblico. Dopo questa data si dovette attendere il 2000 perché la GAM riuscisse nuovamente a esporre i 103 fogli dei campi di battaglia

delle campagne napoleoniche in Italia. Oggi, a distanza di undici anni da questa seconda grande mostra, una selezione di quei disegni è presentata nella Wunderkammer – spazio dedicato all’esibizione delle eccellenze della collezione grafica – in concomitanza con la mostra che l’Accademia Albertina dedica all’artista e ai suoi acquerelli recentemente restaurati. Gli splendidi disegni della GAM furono eseguiti a partire dal 1802, anno in cui Bagetti entrò a fa parte della Section topographique stanziata in Piemonte. Per volere di Napoleone, l’artista piemontese intraprese un lavoro che sarebbe durato diversi anni, scandito da numerose ricognizioni sui luoghi interessati dai fatti bellici, e che avrebbe avuto come esito la produzione di una serie di successive elaborazioni grafiche. Queste sono il risultato di uno studio articolato in tappe successive, scandite rigidamente dal protocollo imposto dal

Dépôt de la Guerre di Parigi: dopo i primi schizzi sul posto, Bagetti eseguiva alcuni disegni di formato più grande da spedire a Parigi, per ottenere l’approvazione; infine, sulla base del materiale raccolto realizzava a tavolino alcuni grandi disegni accurati, che gli fornirono la base per la realizzazione delle vedute ad acquerello. Questi fogli di grandi dimensioni, dettagliati e caratterizzati da un’osservazione distaccata e obiettiva degli eventi, ma contraddistinti al contempo da quell’efficacia espressiva che giustificò pienamente l’apprezzamento di Bonaparte, rappresentano la redazione definitiva di un iter complesso. L’esposizione in Wunderkammer rende omaggio a questo aspetto della produzione Bagetti, protagonista nel passaggio fra Sette e Ottocento, che riuscì a ricongiungere il panorama artistico piemontese con l’orizzonte europeo.


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Wunderkammer

A CURA DI VIRGINIA BERTONE

DAL

AL

2011

20/10 11/12

2011

Giuseppe Pietro Bagetti al servizio di Napoleone

Prossime mostre

SERGIO SARONI: DECIFRARE L’INVISIBILE 15 dicembre 2011 – 11 marzo 2012

GIUSEPPE MAZZOLA E L’ELEGANZA NEOCLASSICA 15 marzo 2012 – 20 maggio 2012

FRANCESCO MOSSO TRA BOHÈME E SCAPIGLIATURA 24 maggio 2012 – 30 settembre 2012

NELLA PAGINA ACCANTO

In 1819 Modesto Paroletti – eminent scholar and member of the Royal Academy of Sciences – openly praised Giuseppe Pietro Bagetti and acknowledged his merit in bringing watercolor painting to the highest degree of perfection. More than a century later, the unanimous admiration for the Piedmontese artist shown by his contemporaries resonated in the important acquisition by Vittorio Viale and Pietro Accorsi of the prestigious drawings from the Vues des Campagnes des Français en Italie collected works (dating from 1796 to 1800). In 1957, one year after the documents entered the GAM collection, Palazzo Madama hosted the exhibition Giuseppe Pietro Bagetti, pittore di battaglie, di vedute e di paesaggi (Giuseppe Pietro Bagetti, a painter of battles, views and landscape) introducing the artist’s work to a larger public. It was not until 2000 that the GAM could once again display the 103 drawings illustrating the battlefields of Napoleon’s campaign in Italy. And today, eleven years after that major second exhibition, a selection

of those extraordinary drawings is showcased in GAM’s Wunderkammer – the area entirely devoted to the display of the most valuable pieces from the museum’s graphic collection – concurrently with the exhibition that the Accademia Albertina dedicates to the artist and to his recently restored watercolors. The wonderful drawings from the GAM collection were started in 1802 when Bagetti joined the Section topographique in Piedmont. By Napoleon’s will, the Piedmontese artist took on a job that lasted several years and entailed numerous expeditions to survey the sites of the ongoing war. Dating back to this period is the series of the graphic re-elaborations on display: they are the product of a meticulous investigation that was organized in subsequent stages according to the strict protocol imposed by the Dépôt de la Guerre in Paris. From the first sketches on site Bagetti made bigger drawings that were then sent to Paris for approval. On the basis of all the collected documents he eventually created highly detailed largescale drawings, which were finally used for

— Giuseppe Pietro Bagetti Entrata dei francesi a Cuneo per la porta di Nizza, attraversando il Gesso, 1805 GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino IN ALTO

— Giuseppe Pietro Bagetti Battaglia di Marengo, post 1804 GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino A SINISTRA

— Giuseppe Pietro Bagetti Allegoria napoleonica, 1801 c.a. GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino

his watercolour views. These accurately beautiful watercolors drawings – conflating a detached and objective recording of events and a great expressive value, which granted him Bonaparte’s appreciation – are the final step of an elaborately organized process. The Wunderkammer exhibition pays tribute to this aspect of Bagetti’s production, and to the important role he played in bringing the Piedmontese artistic landscape into the European horizon at the turn of the Nineteenth century.


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IN MOSTRA VITRINE – GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO

SARA D’ALESSANDRO A COLLOQUIO CON

IN MOSTRA

PER IL PROGETTO PRESENTATO IN VITRINE UTILIZZERETE PARTE DEL GIRATO RISULTANTE DEL VOSTRO PRIMO FILM SETTE OPERE DI MISERICORDIA, IN PARTICOLARE I PROVINI PER LA RICERCA DI LUMINITA, LA PROTAGONISTA FEMMINILE. AVETE SPESSO PARLATO DI RITRATTO RIFERENDOVI AL VOSTRO LAVORO, MA IN QUESTO CASO SI TRATTA DELLA RICERCA DI UN PERSONAGGIO CHE AVEVATE IN MENTE: È QUINDI UN RITRATTO CHE SI FORMA DA PIÙ IDENTITÀ DIVERSE?

Il punto di arrivo dell’installazione, quindi, è un impensato personaggio pantagruelico, che ingloba le più disparate identità e, come in uno specchio frantumato in mille pezzi ricomposti dalla nostra Luminiţa in absentia, ne restituisce l’identità multiforme. Cercavamo Luminiţa nei volti e nelle parole delle ragazze, chiedevamo loro di dare una nuova vera vita al personaggio, una “piccola luce” (questo è anche il significato della parola Luminiţa) che nelle pallide pagine della nostra fantasia restavano ancora carta, inchiostro, finzione. Gli incontri del casting hanno assunto gradualmente uno schema che si assomigliava, di volta in volta declinato in modo diverso: una presentazione, una prima descrizione di poche caratteristiche del personaggio, una serie di domande all’attrice. Lentamente si entrava però nella vita di un’ipotetica Luminiţa, un personaggio che aveva il volto dell’attrice, una sempre nuova vita, un modo diverso di muoversi, di parlare, di guardare. La matrice di alcune scene provate era simile a quelle dello script, ma l’improvvisazione e la non conoscenza delle vere azioni scritte da noi, portavano le attrici a nuove sorprendenti soluzioni che lasciavano affiorare nuovi universi espressivi, nuove

SARA D’ALESSANDRO TALKS TO

GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO

Il ritratto che proponiamo in Looking for Luminiţa, parte dall’idea di personaggio che abbiamo in mente, formalizzata nella nostra sceneggiatura di Sette opere di misericordia. Si tratta di una giovane clandestina moldava, pronta a tutto pur di sopravvivere. Nella ricerca dell’attrice che avrebbe interpretato Luminiţa, ci siamo imbattuti in più di trecento ragazze romene, e, mano a mano che il casting andava avanti, di fronte a noi si manifestava l’autoritratto collettivo di una generazione, davanti al quale la nostra camera non poteva che documentarne il disegno.

azioni, nuove caratteristiche. Messi alla prova come registi e completamente rimessi in questione come sceneggiatori, ci siamo trovati di fronte ad una crisi sempre più acuta, che in parte ha cambiato il destino stesso del film e del personaggio che cercavamo. UNA COSA CHE MI COLPISCE MOLTO DEL VOSTRO LAVORO È COME RIESCA DA UNA PARTE AD ESSERE PROFONDAMENTE ATTENTO A TEMATICHE SOCIALI DRAMMATICHE, E DALL’ALTRA AD ESSERE INTRISO DI RIFERIMENTI ALLA GRANDE STORIA DELL’ARTE CHE CARATTERIZZANO UMANAMENTE I PROTAGONISTI. L’ARTE CONTEMPORANEA SI CONFRONTA SPESSO CON LE PROBLEMATICHE SOCIALI, MA È RARO CHE VI SI INTRODUCA, AL DI LÀ DELLA DOCUMENTAZIONE, QUESTO TIPO DI RICERCA ESTETICA E LINGUISTICA. LA VOSTRA SCELTA È IN QUALCHE MODO INFLUENZATA DALLA VICINANZA CON IL MONDO DEL CINEMA? L’arte e la società sono strettamente legate, anche inconsapevolmente. Ogni


MAG #3 - GAM MAGAZINE

Torino per noi è innanzitutto un luogo di vita. I nostri lavori partono sempre da incontri che facciamo, e questo ci porta spesso a lavorare a Torino e, in particolare, nella periferia dove viviamo tuttora. La sua unicità, tuttavia, che pure esiste fortemente - non solo visivamente, ma anche dal

punto di vista sociale -, in realtà si perde per lasciare spazio, nelle nostre intenzioni, a una certa universalità. Luogo unico di incontro e di passaggio, città di accoglienza e di forti cambiamenti sociali dovuti a vecchie e nuove migrazioni, Torino diventa metafora della trasformazione stessa, del tessuto urbano che si trasfigura in ritratto stesso del cambiamento. In questo fluire di identità, allora, i nostri protagonisti sono colti in momenti di crisi, e continuamente lottano per costruirsi e affermare una propria, nuova, identità. I nostri lavori non mostrano quasi mai il paesaggio urbano, però sono la trasposizione estetica del nostro deambulare in esso. Così, tra le città romene di Cluj, Timosara, Iasi e Bucarest, anche Looking for Luminiţa è una deambulazione: noi, ciechi che si cercano nel buio, le mani protratte in avanti. È il nostro autoritratto da ciechi, oltre che l’autoritratto del “nostro” personaggio. È la memoria che abbiamo del personaggio, del nostro intenso lavoro di scrittura impiegato per realizzarlo, del lavoro su questa memoria. Un lavoro incompiuto, sempre messo in discussione, scalfito, riplasmato in continuazione…

YOUR WORKS AS PORTRAITS. THIS TIME YOU ALREADY HAD THE CHARACTER IN MIND, SO IN THIS CASE THE PORTRAIT IS SHAPED BY MULTIPLE DIFFERENT IDENTITIES? The portrait presented in Looking for Luminiţa originates from the idea of a character we already had in mind, and that has been articulated in the script of Sette opere di misericordia. It was this young girl from Moldavia, an illegal immigrant, willing to do anything to survive. More than three hundred Romanian girls auditioned for the role of Luminiţa. During the auditions we realized we had

CON GLI OCCHI CHIUSI A CURA DI LUIGI FASSI

DAL

AL

27/09 31/07

2012

VITRINE È UN PROGETTO DEDICATO ALL’ARTE DEL TERRITORIO, E DI TORINO IN PARTICOLARE. VOI SIETE LEGATI A QUESTA CITTÀ NON SOLO PER NASCITA, MA ANCHE PERCHÉ L’AVETE SCELTA COME TEATRO DI QUASI TUTTE LE VOSTRE OPERE. TORINO NON È SEMPRE RICONOSCIBILE, MA È COMUNQUE PRESENTE, IN PARTICOLARE LA SUA PERIFERIA. LA SUA UNICITÀ PER VOI DIPENDE SOLO DAL FATTO CHE È LA VOSTRA CITTÀ, O C’È DELL’ALTRO?

— Gianluca e Massimiliano De Serio, Looking for Luminita, still da video, 2011, courtesy the artists

2011

artista, nel momento in cui getta uno sguardo sulla realtà che lo circonda, offre un’interpretazione, e la condivide con il pubblico. Il gesto artistico è sempre politico, nel senso che propone una discussione pubblica. Per noi è fondamentale accompagnare questa proposta da una ricerca estetica, e, viceversa, restituire un’estetica come gesto politico. La storia dell’arte (occidentale, per noi) è un bagaglio di forme, ma anche di riflessioni sociali ed etiche, ed è un immaginario straordinario a cui attingere per reinventarne uno nuovo, personale, ma non in senso postmoderno. Non ci interessano le rivisitazioni, quanto piuttosto attualizzare i messaggi, ripescare quelle chiavi di lettura della contemporaneità che l’arte dissemina nel corso della sua storia. Lo stesso titolo del nostro film, Sette opere di misericordia, deriva dall’omonimo quadro di Caravaggio conservato a Napoli, dove le sette opere di misericordia corporale sono raffigurate in un unico dipinto, e in cui figure della società di allora, dei bassifondi della società, profondamente legate alla realtà, convivono con il messaggio spirituale. Dove gli angeli hanno le ombre… Per noi si pongono delle domande sulla società di oggi: può esistere umanità dove regna l’abiezione? Il cinema amplifica questa dimensione “politica” perché si rivolge potenzialmente a tutti, perché è come una grande piazza, un agorà, uno spazio di contemplazione/ immersione/riflessione estetica.

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I PROSSIMI APPUNTAMENTI:

GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO 24 novembre – 31 gennaio 2012

FOR VITRINE YOU WILL USE PART OF THE FOOTAGE FROM YOUR FIRST FILM SETTE OPERE DI MISERICORDIA, AND SPECIFICALLY THE AUDITIONS FOR THE FEMALE LEADING ROLE OF LUMINITA. IN THE PAST YOU OFTEN REFERRED TO

ISOLA E NORZI 9 febbraio – 31 marzo 2012

ALESSANDRO SCIARAFFA 12 aprile – 30 maggio 2012

CARETTO E SPAGNA 5 giugno - 31 luglio 2012


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IN MOSTRA VITRINE – GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO

society. For instance, can humanity exist where abjection rules? Cinema magnifies this “political” dimension because it potentially addresses everyone. It is like an agorà, a place for contemplation, immersion, aesthetic reflection

— Gianluca e Massimiliano De Serio, Looking for Luminita, still da video, 2011, courtesy the artists

come across the collective self-portrait of an entire generation, and we could do nothing but document it on camera… So the end result for the installation is an unpredicted Pantagruelian character incorporating the most diverse identities. It was like putting together the pieces of a shattered mirror: its reconstruction created the character of Luminiţa, who in absentia, represents its multifarious identity. We studied the girls’ faces, we wanted them to bring a true new life to the character, we were looking for a “tiny light” (which is also the meaning of the word Luminiţa) since in the pale pages of our imagination she was still only paper, ink and fiction. The casting gradually took on a regular pattern that evolved differently with every girl: an introduction, a brief description of the character, and a series of questions for the actresses. This gradually brought us inside the life of a hypothetical Luminiţa, a character that took on the actress’s features, that had a new, different life every time; she moved, spoke and looked different every time. Some of the rehearsed scenes were taken from the script, but the actresses didn’t know how the action evolved and by improvising they always added new and surprising solutions ultimately bringing to the surface new expressive universes, actions, and features. As directors we were put to the test and our script was totally challenged; it was a critical process that partly changed the fate of the film, and of the character we had initially set out for. ONE OF THE THINGS THAT STRIKES ME OF YOUR WORK IS HOW YOU CAN FOCUS ON DRAMATIC SOCIAL ISSUES AND AT

THE SAME TIME PERMEATE IT WITH REFERENCES TO ART HISTORY THAT CHARACTERISE YOUR LEADING FIGURES. CONTEMPORARY ART OFTEN ADDRESSES SOCIAL ISSUES, BUT IT RARELY CONSIDERS THIS KIND OF LINGUISTIC AND AESTHETIC RESEARCH. TO WHAT EXTENT HAS YOUR EXPERIENCE WITH CINEMA INFLUENCED YOU? Art and society are strongly connected, perhaps subconsciously so. Every artist, in the moment he or she takes a look at the surrounding reality, offers his or her interpretation of it and shares it with a public. Artistic practice is always political, in the sense that it suggests a public debate. We feel it is important to complement this suggestion with an aesthetic research, and, vice versa, to present an aesthetic as a political gesture. Art History (Western Art History for us) is a baggage of forms, but also of social and ethical considerations, and it is an extraordinary imaginary to draw upon reinventing a new, personal one, however not in a postmodern sense. We are not interested in re-assessing messages but rather in updating them, getting back the key to interpret the contemporary essence that art disseminates throughout its history. The very title of our film, Sette opere di misericordia, is taken from the homonymous painting by Caravaggio preserved in Naples, where the Seven Works of Mercy are depicted in a single painting and characters from the real slums of that past society coexist with the spiritual message, and where angels have shadows… Today we have questions regarding our present

VITRINE IS DEVOTED TO LOCAL ART, FROM TORINO IN PARTICULAR. YOUR BOND WITH THE CITY IS NOT ONLY DETERMINED BY THE FACT THAT YOU WERE BORN HERE, BUT ALSO BECAUSE IT’S WHERE MOST OF YOUR WORKS ARE SET. PERHAPS IT IS NOT ALWAYS CLEARLY RECOGNIZABLE BUT YOU CAN FEEL IT, IT’S THERE, ESPECIALLY ITS SUBURBAN ARE AS ARE. AS FAR AS YOU ARE CONCERNED, DOES ITS UNIQUENESS DEPEND ONLY ON THE FACT THAT IT’S YOUR HOMETOWN, OR IS THERE MORE TO IT? For us Torino is above all a place with life. Our works are always started off by the people we meet, so we often end up working here, especially in the suburbs where we live. However its uniqueness —which is not only visual but also social— is actually put aside to allow space to certain universality, or at least this is our intent. A unique place of meeting and gathering, a city that hosts immigrants, a city of strong social changes given by past and new migrations. Torino becomes a metaphor for transformation, for the urban outline that is in itself transformed into the portrait of change. In this flow of identities, our characters are caught in moments of crisis, and they constantly fight to create and state their own new identity. Our works seldom reveal the urban landscape but they are the aesthetic transposition of our meandering within it. Similarly, Looking for Luminiţa represents our wandering in the cities of Cluj, Timosara, Iasi and Bucarest: blind, we search for one another in the dark, our hands reaching out. It is a self-portrait of us being blind, besides being the portrait of “our” character. It is our memory of the character, of our intense work on writing in, our work on this memory. An unfinished work, a work that is constantly questioned, retraced and reshaped…


MAG #3 - GAM MAGAZINE

MAGAZINE D'ARTE DELLA GAM PERIODICO NOVEMBRE 2011 – APRILE 2012

RITARDO DI VETRO di Eva Fabbris Nel 1966, con la mostra The Other Tradition all’ICA di Philadelphia, il curatore Gene Swenson propone l’idea di una storia dell’arte recente che, libera dalla lettura formalista dei movimenti d’avanguardia, stabilisca come principio interpretativo la condivisione emotiva (non simbolica, né identificativa) tra opera d’arte e spettatore. Nel saggio in catalogo spiega come questa tradizione altra non possa essere descritta da un uso razionale del linguaggio, e guarda a Duchamp, alla relazione innovativa tra parola scritta, rappresentazione e contesto instaurata dal Grande Vetro e relative Note. Nella pittura su vetro non c’è sfondo: la spazialità in cui fluttuano gli elementi dipinti è la stessa in cui si muove lo spettatore. Come esempio di un linguaggio libero, evocativo nel suo dare nuove regole per definire questa relazione, Swenson cita la nota: Specie di sottotitolo / Ritardo di vetro / Usare “ritardo”invece di quadro o pittura; quadro su vetro diventa ritardo di vetro – ma ritardo di vetro non vuol dire quadro su vetro. E commenta: “Il termine duchampiano

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EVA FABBRIS Dottoranda all’Università di Trento con una ricerca sulle eredità della nozione duchampiana dello spazio espositivo sulle pratiche curatoriali della seconda metà degli anni ‘60. E’ stata assistente curatoriale a Museion di Bolzano, curatore aggiunto alla Galleria Civica di Trento, curatore al Kaleidoscope Project Space di Milano e coordinatore generale de “L’Inadeguato” di Dora García alla Biennale di Venezia. PhD student at the University of Trento researching on the legacy of Duchamp’s revolutionary notion of the exhibition space and its influence on the experimental curatorial practices of the late Sixties. She has worked as a curatorial assistant at the Museion in Bolzano, adjunct curator at the Galleria Civica of Trento, curator at Kaleidoscope Project Space in Milan, and general coordinator of “L’Inadeguato” by Dora García at the Venice Biennale.

‘ritardo di vetro’ situa i nostri pensieri nello spazio, o piuttosto porta il processo di pensiero fuori dalla sua strada lineare. Cominciamo a lanciare in aria le nostre idee come un giocoliere (in un campo gravitazionale a bassa intensità) invece di disporle su una linea logica”. Al di là della storia del fare mostre, c’è una tradizione altra dell’esporre. La riflessione sul contesto espositivo permea l’Avanguardia: mostre fondamentali sono organizzate, allestite (curate?) dagli artisti stessi. Il fenomeno continua ad esistere, parallelamente alla crescita dell’importanza del curatore che dai tardi anni ‘60 in poi si propone con connotati fortemente autoriali. Nel panorama attuale c’è una forma di fluidità tra ruoli. Il punto, sul quale si concentrano MAG e conferenze, non è che degli artisti curino mostre, né il grado di liceità autoriale entro il quale la curatela non debordi nell’artistico, ma la creazione di situazioni ambigue: figure che discutono, forzano la distinzione artistacuratore, o ne prescindono. Pratiche che, come nella definizione della pittura su vetro, creano un linguaggio meticcio con cui ridefinire l’autorialità di chi fa una mostra.

Delay in Glass In 1966, with the exhibition The Other Tradition at the ICA in Philadelphia, curator Gene Swenson proposed a history of recent art freed from the formalist reading of the avant-garde movements, that could be based on an emotional sharing (neither symbolic nor identifying) between the spectator and the artwork. In his essay in the catalogue, Swenson claimed that a rational use of language could not describe this “other” tradition, mentioning Duchamp and the innovative relationship—among written

word, representation, and context— established by The Large Glass and related Notes. There is no background in glass painting: the viewer moves within the same spatiality in which the painted elements fluctuate. As an example of a free language that evocatively sets new rules to define such relationship, Swenson cites Duchamp’s note: Kind of sub-title / Delay in Glass / Use “delay” instead of “picture” or /”painting”; “picture on glass” becomes / “delay in glass” - but “delay in /glass” does not mean “picture on glass”. And adds: “Duchamp’s term ‘delay in glass’ situates our thoughts in space, or rather takes the thought process out of its linear rut. We begin to throw our ideas up into the air like a juggler (in a low gravitational field) instead of placing them on a logical line.”Beyond the history of exhibition-making, there exists another exhibiting tradition. Avant-garde art is permeated with observations on the exhibitory context: landmark exhibitions were designed, set up –curated?– by the artists. This is still happening today, along with the increasing relevance of the curator’s role that ever since last ‘60 has taken on a strongly authorial connotation. Nowadays there is certain fluidity between the roles. The point—and focus of both MAG and Museum talks—is not the fact that artists are curating exhibitions, nor is it the degree of authorial legitimacy that determines when the curator’s work overflows into the “artistic”. The point is the creation, today, of ambiguous situations: different actors discussing, forcing the distinction between artist and curator, or disregarding it. As in the alternative definition of painting on glass, such practices create a mixed language that can re-define ​the notion of author of an exhibition.


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RITARDO DI VETRO A CURA DI EVA FABBRIS

I CONTRIBUTI / P. 15 DORA GARCÍA (1965) è artista, vive e lavora a Bruxelles. I suoi interventi, di matrice concettuale, si formalizzano in performance, video o ricerche documentative presentate in spazi che favoriscano la partecipazione. Vi introduce spesso elementi teatrali: così è stato nel lavoro A Beggar’s Opera, a Skulptur Projekte Münster 2007 o nel progetto L’inadeguato per il Padiglione Spagnolo, Biennale di Venezia 2011. Dora García (1965) is an artist who lives and works in Brussels. Her work, of conceptual nature, takes the form of performances, videos or documental research, and is presented in specific spaces to allow participation from the audience. They often feature theatrical elements, as in A Beggar’s Opera, for the Skulptur Projekte Münster 2007, or the project The Inadequate for the Spanish Pavilion at the 2011 Venice Biennale. / P. 18 PIERRE LEGUILLON (1969) è artista, vive e lavora a Parigi. Accumulazione, selezione e sequenza sono alla base del suo lavoro: Leguillon crea slideshows, installazioni e mostre nella veste di curatorecollezionista, come nel caso di Pierre Leguillon features Diane Arbus: A Printed Retrospective, 1960-1971 presso il Moderna

Museet Malmö nel 2010. Pierre Leguillon (1969) is an artist who lives and works in Paris. His work is based on accumulation, selection and sequence: he creates slideshows, installations and exhibitions and presents them also as a curator-collector, as with Pierre Leguillon features Diane Arbus: A Printed Retrospective, 19601971 at the Malmö Moderna Museet in 2010. / P. 22 LILIANA MORO (1961) è artista, vive e lavora a Milano. Le sue installazioni, in cui spesso utilizza oggetti di uso comune, creano ambienti di riflessione su temi come la femminilità e il rapporto tra arte e politica. Ha esposto presso Documenta, Kassel (1992), Biennale di Venezia (Aperto, 1993), Fondazione Ambrosetti (2004), Fabbrica del Vapore, Milano (2008), e in collettive presso il MAMbo Museo d’arte moderna, Bologna (2008), Galleria Civica di Trento (2009). Liliana Moro (1961) is an artist who lives and works in Milan. For her installations she often uses everyday objects to create settings that trigger questions on subjects such as femininity and the relationship between art and politics. She exhibited at Documenta, Kassel (1992), the Venice Biennale (Aperto, 1993), Fondazione

Ambrosetti (2004), Fabbrica del Vapore, Milan (2008), and in group shows at MAMbo Museum of Contemporary Art, Bologna (2008), and at the Galleria Civica in Trento (2009). / P. 26 MARY ANNE STANISZEWSKI è professore associato in Storia dell’Arte presso la City University of New York. La sua ricerca, che mette in relazione la cultura con le prospettive sociali, si esprime sia in ricerche accademiche, sia nella pratica curatoriale. Ha pubblicato Believing Is Seeing: Creating the Culture of Art (Penguin USA, 1995), The Power of Display: A History of Exhibition Installations at the Museum of Modern Art (The MIT Press, 1998). È direttore di Curatorial Incubator presso lo spazio Exit Art a New York. Mary Anne Staniszewski is associate Art History Professor at the City University of New York. She investigates the relationship between culture art and social perspective through academic research as well as curatorial practices. She has published Believing Is Seeing: Creating the Culture of Art (Penguin USA, 1995), The Power of Display: A History of Exhibition Installations at the Museum of Modern Art (The MIT Press, 1998). She is director of a Curatorial Incubator at Exit Art, New York.

/ P. 32 PAUL SIETSEMA (1968) è artista, vive e lavora fra Berlino e Los Angeles. Usa fotografie e oggetti che vengono ripresi in disegni, sculture e film, caricandosi di significati stratificati. Ha esposto presso il Whitney Museum, New York (2003); il Museo Reina Sofía, Madrid (2009); il MOMA, New York (2009). Ha esposto in Italia per la prima volta nel 2011 nella doppia personale, con il disegnatore surrealista Alberto Martini, a cura di Eva Fabbris presso il Kaleidoscope Project Space di Milano. Paul Sietsema (1968) is an artist who lives and works between Berlin and Los Angeles. He uses photographs and various objects featuring them in drawings, sculptures and films that set new layers of meaning. He has had solo exhibitions at the Whitney Museum, New York (2003); the Reina Sofía Museum, Madrid (2009); the MOMA, New York (2009). In 2011 his work was exhibited for the first time in Italy, in a double solo show—also featuring works by surrealist illustrator Alberto Martini—curated by Eva Fabbris at the Kaleidoscope Project Space in Milan. / P. 36 PRATCHAYA PHINTHONG (1974) è artista, vive e lavora a Bangkok. Le sue opere partono dall’analisi di meccanismi mediatici

e finanziari per creare situazioni che conducono a porsi questioni su valori quotidiani. È il caso del progetto Give more than you take, 2011: a partire dalle idee dell’artista, la mostra che ha avuto luogo al CAC di Brétigny e alla GAMeC di Bergamo presentava nelle due sedi le medesime opere in forme e materiali diversi a seconda delle scelte deferite ai curatori. Pratchaya Phinthong (1974) is an artist who lives and works in Bangkok. He investigates the mechanisms of finance and the media, creating situations that raise questions on our everyday values. Such is the case of Give more than you take, 2011: ideated by the artist, the exhibition was held at the CAC in Brétigny and at the GAMeC in Bergamo featuring the same works in different shapes and media, according to specific curatorial choices. / P. 39 VINCENZO LATRONICO (1984) è scrittore, vive e lavora a Milano. Ha pubblicato per Bompiani i romanzi Ginnastica e rivoluzione (2008) e La cospirazione delle colombe (2011). Nel 2010-2011 ha tenuto al Kaleidoscope Project Space di Milano un workshop sull’autofiction intitolato Io è un altro. Collabora con riviste quali Domus, Kaleidoscope, Flash Art e frieze. Vincenzo Latronico (1984) is a writer

who lives and works in Milan. His novels Ginnastica e rivoluzione (2008) and La cospirazione delle colombe (2011) were published by Bombiani. In 2010-2011 he held a workshop on autofiction titled Io è un altro (I is someone else) at the Kaleidoscope Project Space in Milan. He collaborates with magazines Domus, Kaleidoscope, Flash Art, and frieze. / P. 39 RAIMUNDAS MALAŠAUSKAS è curatore, vive e lavora a Parigi. Dal 1995 al 2006 ha lavorato al CAC di Vilnius, Lituania, dove ha curato la IX Biennale Baltica, Black Market Worlds, nel 2005. Dal 2007 è curatore all’Artists Space, New York. Fra le mostre, Sculpture of the Space Age, David Roberts Art Foundation, Londra, 2009, Repetition Island, Centre Georges Pompidou, Parigi 2010. Raimundas Malašauskas is a curator who lives and works in Paris. From 1995 to 2006 he worked for the Contemporary Art Center in Vilnius, Lithuania, where in 2005 he curated Black Market Worlds, the IX Baltic Triennial. As of 2007 he is curator of the Artists Space, New York. Among others he curated the exhibitions Sculpture of the Space Age, at the David Roberts Art Foundation, London, 2009, and Repetition Island, at Centre Georges Pompidou, Paris, 2010.


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LA PENNELLATA CHE UCCIDE «L’origine della Brushstroke (Pennellata) si trova in una storia a fumetti, con protagonista un pittore. L’artista dipinge una figura in modo tanto realistico che questa prende vita: ma non sapendo che fare della sua “creatura”, l’autore stesso distrugge l’immagine con una gran pennellata da parte a parte, uccidendo così anche il personaggio inventato.»

Nota a piè pagina nel catalogo The Other Tradition [“L’altra tradizione”] di G.R. Swenson, Institute of Contemporary Art, University of Pennsylvania, 1966, p. 19, con riferimento all’origine della serie Brushstroke [Pennellata] di Lichtenstein, 1965.

DI DORA GARCÍA

L’amore che gli artisti visivi moderni e contemporanei (me compresa) esprimono per la letteratura, il cinema, il teatro e i fumetti viene – è triste dirlo – solo molto di rado ricambiato dai professionisti di quelle discipline. Hanno tutti un’idea molto bizzarra di che cosa sia in effetti l’attività chiamata arte contemporanea; e azzardo senz’altro che tali bizzarre convinzioni derivino tutte dal fraintendimento più assoluto del retaggio di Marcel Duchamp. Diverse volte mi sono trovata seduta con romanzieri e registi cinematografici alla medesima tavola rotonda, dove a tutti veniva chiesto di descrivere i tratti comuni delle rispettive attività; e in ognuna di queste occasioni ho notato una certa condiscendenza nel riferirsi al lavoro che io faccio, rispetto a quello che loro (l’autore letterario, il regista cinematografico) fanno. Si vede bene che ai loro occhi a me mancano l’abilità, il virtuosismo e la maestria professionale che invece loro, nel loro mestiere, possiedono; e che considerano gli artisti contemporanei come un branco di parvenu, incapaci di tirare una riga dritta ma con tutta la faccia tosta necessaria ad arrampicarsi socialmente, per poi vendere le loro follie alla moglie di qualche milionario. Il colpevole di quest’impostura? Marcel Duchamp. Quando ho insistito perché articolassero meglio le proprie opinioni sul retaggio duchampiano, li ho sentiti dire che «qualunque cosa è un’opera d’arte quando la metti in un museo» (con il ready-made che diventa una specie di furto della Pantera

«PER IMPARARE TUTTO QUEL CHE C’È DA SAPERE SULLA TECNICA CINEMATOGRAFICA BASTA MENO DI MEZZ’ORA». Rosa, un caso per l’ispettore Clouseau) e che quindi «chiunque può fare l’artista». Idea che loro trovano ripugnante, certi come sono che solo pochi e specialissimi individui colmi di ispirazione, istruiti e indefessi possano fare i romanzieri, i registi teatrali o cinematografici, i grafici. Mi sono trovata parecchie volte in questa

situazione; ed ero sempre molto incerta su come reagire. Qualche volta ho risposto citando quel che disse Orson Welles mentre girava il suo primo film, Quarto potere1, all’età di ventiquattro anni: «Per imparare tutto quel che c’è da sapere sulla tecnica cinematografica basta meno di mezz’ora». Replica che però lasciava insoddisfatta me e imperturbati i miei interlocutori perché, questa era la mia sensazione, il dissenso tra noi era ben più profondo e riguardava terminologia, linguaggio, significato e senso... una generale visione del mondo. Il contrasto non verteva soltanto sull’importanza di certe capacità; verteva invece sulla funzione dell’arte. Perciò sono rimasta piacevolmente sorpresa quando il drammaturgo Jacob Wren, durante una conversazione, mi ha detto: «È difficilissimo fare qualcosa di diverso e autentico in teatro, perché è un ambiente conformista e intrinsecamente reazionario. Mentre voi (cioè noi artisti moderni e contemporanei) siete stati fortunati: c’è stato Marcel Duchamp, e da allora siete liberi». Marcel Duchamp, da principe dei ladri a libertador. Nel suo articolo «Buddha of the Bathroom», Louise Norton2 sembra rafforzare l’immagine del principe ladrone: «D’altro canto, c’è anche chi si chiede con una certa ansia: “Scherza o fa sul serio?”. Forse tutt’e due! Perché, non sarebbe possibile? In questo senso credo faremmo meglio a rammentarci che il senso del ridicolo, proprio come “il senso del tragico cresce e cala con la sensualità”:


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RITARDO DI VETRO A CURA DI EVA FABBRIS

Edimburgo e Newcastle e aver inventato la pop-art con la sua serie di quadri For Kate5. E di lì alla Pennellata che uccide, e al Disegno cancellato di de Kooning, la storia del Dada è la storia dell’arte contemporanea. 1 — Quarto Potere di Orson Welles (1941) è unanimemente considerato dalla critica, dagli addetti ai lavori e dalla stampa specializzata di tutto il mondo tra i più grandi film della storia del cinema, e certamente il migliore film americano di tutti i tempi. Si tratta dell’opera prima di un Welles, appunto, ventiquattrenne. [n.d.t.]

— Papillon Dada, Tristan Tzara, 1919, courtesy Bibliothèque Kandinsky, MNAM-CCI / Centre Pompidou, Paris

insomma, dipende un po’ da noi. E tra noi oggi c’è un senso della blague che proviene dalla visione amara dell’artista di un mondo sovra-istituzionalizzato, di statistiche stagnanti e assiomi antichissimi. In certi casi si può scherzare e far molto sul serio al tempo stesso. Come disse Raoul Hausmann: «Il dadaismo detesta la stupidità e adora il nonsenso». La cosa serissima, secondo Jeff Wall, era questa: «Stando a quelle che Thierry de Duve definisce condizioni del nominalismo, il nome “arte” deve essere applicato a qualunque oggetto che l’artista possa legittimamente chiamare con tale nome. O, per essere più circospetti, l’oggetto cui il nome di arte non può logicamente essere negato. Dunque il ready-made ha dimostrato che un oggetto arbitrario può essere definito arte, e che non esistono argomentazioni atte a confutare quella definizione»3. A mio avviso, Hausmann ha raggiunto la perfezione assoluta nel dichiarare: «Più ci si pensa, più ci appare cristallino che il dadaismo e l’arte moderna sono la stessa cosa. Dadaismo e arte moderna sono identici nelle proprie condizioni essenziali, e dunque i malintesi contro l’arte moderna sono gli stessi diretti contro il dadaismo fin dalla sua fondazione nel 1916». Il Dada si manifestò con spettacoli tra teatro e vaudeville, in cui ogni numero veniva inevitabilmente interrotto dal successivo, con l’ovvia intenzione e soddisfazione di scandalizzare il pubblico, e in cui il “successo teatrale” veniva fuggito come la peste: «Tra un insulto e l’altro ci esibivamo da “artisti”, ma di regola le esibizioni venivano interrotte. Perciò, non appena Walter Mehring si metteva a pestare

sulla macchina per scrivere declamando questo o quell’altro brano di sua composizione, ecco che da dietro le quinte saltavano fuori Heartfield o Hausmann strillando: “Fermo! Non starai cercando di abbindolare quel mucchio di babbei laggiù, eh?”»4. Che avrebbero detto Hausmann o Grosz delle rivendicazioni di abilità, virtuosismo e maestria come tratti distintivi dell’autentico autore? I malintesi contro l’arte moderna sono gli stessi diretti contro il dadaismo fin dalla sua fondazione nel 1916. E quanto profondamente il Dada sia legato all’essenza dell’arte contemporanea lo si può vedere anche nel (tragico) destino di molti suoi affiliati. A Kurt Schwitters fu sempre negato l’accesso al(la setta del) dadaismo a causa dell’opposizione di Huelsenbeck; mentre Merz, invece, era più Dada del Dada stesso. Schwitters fuggì dalla Germania quando le sue opere vennero confiscate ai musei tedeschi, messe in ridicolo dai nazisti e infine esposte a Monaco di Baviera alla mostra della Entartete Kunst, l’arte “degenerata” (mostra che ancor oggi risulta aver riscosso in Germania il maggior numero di visitatori di sempre - ah, il Pubblico!). Altri artisti Dada esposti erano Max Ernst, George Grosz e Raoul Hausmann appunto; insieme ad altri nomi come Otto Dix, El Lissitzky, László Moholy-Nagy, Piet Mondrian... Dalla Germania Schwitters passò all’internamento in diversi campi in Inghilterra, per poi essere infine liberato a Londra; a quel punto era divenuto una figura vagamente patetica, arcana e irrilevante per gli artisti inglesi del periodo bellico. Morì nel 1948 dopo aver creato il suo ultimo Merzbau in un fienile tra

2 — Cfr. Louise Norton, «Buddha of the Bathroom» in The Blind Man, n. 2, maggio 1917, New York, pp. 5-6. [n.d.t.] The Blind Man [“Il cieco”] era una rivista d’arte del Dada newyorchese. L’articolo della Norton seguiva l’inaugurazione, nello stesso anno, della mostra della Society of Independent Artists’ e l’esclusione della famigerata Fontana di Duchamp, un orinale firmato dall’artista con un nome inventato e presentato anonimamente per la categoria sculture. [n.d.a.] 3 — Cfr. Jeff Wall, Hermes Lecture 2006: Depiction, Object, Event, nella versione presente all’url http://www. hermeslezing2006_eng.pdf [n.d.a.] 4 — Cfr. George Grosz, The Autobiography, 1955. 5 — For Kate [“Per Kate”, n.d.t.] è un collage realizzato da Schwitters dopo la liberazione dalla prigionia durante la Seconda guerra mondiale. Mentre abitava a Londra ricevette da amici americani alcune lettere contenenti albi a fumetti, e li utilizzò appunto nella composizione del collage che, si dice, costituì il contrasto e l’ispirazione al movimento pop-art. [n.d.a.]

The Killer Brush Stroke “The brush stroke originally came from a comic book story of a painter. The artist in the story had painted a figure so realistically that it came to life; not knowing what to do with his “creation”, he destroyed the image by wiping a large brush stroke across the picture, killing the invented person as well.” (Footnote in the catalogue “The Other Tradition” by G. R. Swenson, Institute of Contemporary Art, University of Pennsylania, 1966, pp. 19, referring to the origin of Lichtenstein’s Brush Stroke, 1965). The love that modern and contemporary visual artists (like myself) profess for literature, cinema, theater, or comic books, is, sadly to say, rarely returned by professionals of those disciplines. They have the most strange ideas about what the activity named as contemporary art consist of, and, I dare to say, these strange ideas originate in an absolute misunderstanding of the legacy of Marcel Duchamp. I have in some occasions found myself sitting at the same lecturers’ table than novelists


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and cinema directors, all of us being asked to describe the common grounds of our production. In such occasions, I have always noticed a certain condescendence when referring to the work I do, in comparison to the work they (the literary author, the cinema director) did; clearly, in their view, I lacked the skills, the virtuosity, the mastership they had in their respective trades. They saw contemporary artists as a mass of parvenus unable to draw a straight line but with the necessary chutzpa to escalate socially and sell their lunacies to the wives of millionaires. The person to blame for this imposture? Marcel Duchamp. When I pressed them further to express their views, what they understood as the inheritance of Marcel Duchamp was “any thing can be art when placed in a museum” (the Readymade becoming a sort of robbery of the Pink Panther diamond, a case for inspector Clouseau) and therefore “any one could be an artist”. This was something repugnant for them, since they were certain that only a few special, inspired, trained and hardworking people could be novelists, cinema and theater directors, or draughtsmen. This sort of situation happened to me several times; I was unsure as how to react to this. In a few occasions I replied with the quote by Orson Welles when shooting his first film Citizen Kane1 at the age of 24: “Everything that one needs to know about the technique of movies, can be learned in 25 minutes”. But this reply left me unsatisfied and my opponents unmoved, because, I felt, our disagreement was a much more profound one, one about terminology, language, meaning, sense, general vision of the world. It was not only a disagreement on the importance of skillfulness; it was a disagreement on what art was supposed to do. So I was very positively surprised when, in a conversation with theater maker Jakob Wren, he said to me: “It is really hard to do something different, authentic, in theater, because it is so full of conventions and so inherently reactionary. You (we, modern and contemporary artists), you were lucky, you had Marcel Duchamp, and since then, you are free.” Marcel Duchamp, from captain of thieves to libertador. The article “Buddha of the Bathroom” by Louise Norton2, seems to fuel the image of captain of thieves: “Then again, there are those who ansiously ask,

‘Is he serious or is he joking?’ Perhaps he is both! Is it not possible? In this connection I think it would be well to remember that the sense of the ridiculous as well as ‘the sense of the tragic increases and declines with sensuousness’. It puts it rather up to you. And there is among us to-day a spirit of ‘blague’ arising out of the artist’s bitter vision of an over-insitutionalized world of stagnant statistics and antique axioms.” Something can be a joke and be terribly serious at the same time. As Raoul Hausmann dixit: “Dada hates stupidity and loves nonsense”. The terribly serious thing was, in the words of Jeff Wall: “ Under what de Duve calls the conditions of nominalism, the name ‘art’ must be applied to any object that can be legitimately nominated as such by an artist. Or, to be more circumspect, it is the object from which the name art cannot logically be withheld. The Readymade therefore proved that an arbitrary object can be designated as art and that there is no argument available to refute that designation”3. To me, Hausmann reached absolute perfection when he declared: “The more you think of it, the more it becomes crystal clear that Dadaism is identical to Modern Art. Dadaism and Modern Art are identical in their essential conditions, and therefore the misunderstandings against Modern Art are the same than the misunderstandings against Dadaism since its very foundation in 1916.” Dada manifested itself through theater-vaudeville séances, the one act being unavoidably interrupted by the next, all of them with the obvious intention and pleasure of outraging the audience, and where “theatrical success” was shunned as the pest: «Between insults we performed ‘art,’ but the performances were as a rule interrupted. Thus hardly would Walter Mehring begin to rattle away at his typewriter while reciting some piece or other of his own composition, when Heartfield or Hausmann would come out from behind the stage and yell: ‘Stop! You’re not trying to bamboozle that feeble-minded lot down there, are you?»4. What would Hausmann or Grosz say to the claims of skill, virtuosity and mastership as sure signs of the true author? The misunderstandings against Contemporary Art are identical to the

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misunderstanding against Dadaism since its very foundation in 1916. How closely knitted is Dada to the essence of Contemporary Art can be seen in the (tragic) fate of many of its affiliates. Kurt Schwitters was never allowed to enter (the sect of) Dada because of the opposition of Huelsenbeck; however, Merz was more Dada than Dada. Schwitters fled Germany when his works were confiscated from German museums and ridiculed, to be finally included in the Nazi exhibition “Entartete Kunst” (Degenerate Art) in Munich (exhibition that remains to this day the most succesful ever in Germany, in terms of number of visitors- Ah, The Audience!)- other Dada artists in the exhibition were Max Ernst, George Grosz, Raoul Hausmann; together with such names as Otto Dix, El Lissitzky, MoholyNagy, Mondriaan… From Germany Schwitters went to different internment camps in England to be finally freed in London. He had become by then a somewhat pathetic figure, arcane and irrelevant for war-time British artists. He died in 1948 after having produced his last Merzbau in a barn between Edinburgh and Newcastle and having invented Pop-art in his series of pictures for Kate5. And from there to The Killer Brush Stroke, and the Erased de Kooning Drawing, the history of Dada is the history of Contemporary Art.

1 — Film directors, critic’s polls from reviews such as Village Voice and Time Out placed Citizen Kane (1941) at the top of the list of the best films ever made. It has been voted number one in each of the last five Sight & Sound polls and it was listed as the greatest American film by the American Film Institute in both the first (1998) and second (2007) versions of its 100 Years... 100 Movies list. It was the first movie of a 24 years old Welles. 2 — The Blind Man No. 2. The Blind Man was an art and Dada journal published by the New York Dadaists in 1917. The article by Louise Norton followed the opening of the Society of Independent Artists’ 1917 exhibition and the rejection of Duchamp’s infamous entry Fountain, a urinal that the artist signed with a fictitious name and anonymously submitted as sculpture. 3 — Jeff Wall, Hermes Lecture 2006: Depiction, Object, Event, as found at: http://www.hermeslezing.nl/hermeslezing2006_eng. pdf 4 — George Grosz, The Autobiography of George Grosz [1955] 5 — For Kate was a collage done after Schwitters was released from his internment during World War II. While he was living in London, he received letters containing comics from American companions. He utilized these comics in For Kate which is said to be the foil and inspiration to the Pop Art movement.


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RITARDO DI VETRO A CURA DI EVA FABBRIS

— La Grille du Festival, Centre Pompidou, Paris, 2009

LA MOSTRA È MIA EVA FABBRIS A COLLOQUIO CON PIERRE LEGUILLON VORREI INIZIARE DAL TUO PROGETTO PIÙ RECENTE, QUELLO DEDICATO ALLA BIBLIOTECA DI DRAWINGS ON SITE (2011). MI SEMBRA UN BUON PUNTO DI PARTENZA PER DISCUTERE LE TUE MODALITÀ DI LAVORO RISPETTO ALLA RELAZIONE CHE INTENDI CREARE CON UN CONTESTO SPECIFICO. PUOI RACCONTARMI QUALCOSA DI PIÙ? Certo! Qui a San Francisco ho scoperto un posto incredibile, la Prelinger Library. I Prelinger, marito e moglie, circa otto anni fa hanno aperto al pubblico la loro biblioteca personale. Non in casa, ma in un enorme magazzino dove hanno mescolato le loro cose con libri scartati dalle biblioteche pubbliche americane. Ci si trovano ad esempio riviste anni ’50 di imballaggio, o

EVA FABBRIS TALKS TO PIERRE LEGUILLON

di studi socio-culturali, o sulle minoranze negli usa... e di fronte alla cultura pop mischiata con volumi editi dal mit, si comprende fino a che punto la cultura sia una costruzione. Non esiste un catalogo, perciò bisogna frugare in giro da soli, e all’ingresso c’è un’enorme insegna al neon che dice: niente paura, libertà di parola. È l’unica biblioteca che conosco in cui si può parlare con gli altri e talvolta sentire addirittura un po’ di musica... Insomma, la Prelinger è diventata il mio posto preferito e, un po’ per volta, mi sono messo a ricalcare copertine di libri. Ne ho isolate alcune sezioni, in base a elementi d’interesse o magari perché i libri erano molto più belli, e ho cercato di dare vita a un ritratto della biblioteca stessa. In pratica

ho fatto come la gente che va nei cimiteri e ricalca i nomi delle tombe, per ricordarli. Anzi credo che i miei disegni diano proprio quella sensazione cimiteriale, perché le copertine sono grigie e stanno una accanto all’altra. Penso ricordino anche le vetrine delle librerie. È la prima volta che faccio disegni, i miei li vedo a metà strada fra quelli dei bambini e di Max Ernst. Inoltre, il disegno è molto vicino alla fotografia (all’idea di catturare un’impronta di qualcosa) e all’archeologia. So che gli archeologi, prima dell’invenzione della fotografia, ricalcavano i fregi degli edifici che visitavano. Perciò ho iniziato a vedere tutta la biblioteca come una costruzione, fisica e mentale.


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NOTO UN’AFFINITÀ CON IL METODO CHE HAI SCELTO PER PIERRE LEGUILLON FEATURES DIANE ARBUS: A PRINTED RETROSPECTIVE 1960 – 1971. IN ENTRAMBI I CASI C’È UNA COLLEZIONE DI IMMAGINI BI-DIMENSIONALI, PRODOTTE «MECCANICAMENTE». LA MOSTRA SULLA ARBUS È UNA COLLEZIONE DI FOTO SCATTATE DA UNA FOTOGRAFA E VISTE NEL CONTESTO DELLA LORO DISTRIBUZIONE MEDIATICA, VALE A DIRE SU PAGINE DI RIVISTE. CI RESTITUISCE UNA DIANE ARBUS GIORNALISTA, DOCUMENTARISTA... In quest’ottica si può vedere la mia mostra su di lei come una specie di opera-documentario, perché di fatto documenta come quelle immagini sono state stampate. C’è un collegamento con il lavoro che svolgo ora San Francisco: vale a dire che la storia dell’arte, la storia culturale e la cultura in senso lato sono sempre legate alla tecnica, e ne subiscono sempre l’influenza. Tutto il progetto alla Prelinger Library riguarda il concetto di appropriazione, poiché, a causa di internet, da un certo punto di vista le biblioteche non ci servono più. Ma d’altro canto io ho comprato le riviste che ho usato nel progetto Arbus in rete, tramite eBay. Perciò sto parlando di appropriazione, in diversi modi, con tecniche diverse. E SEI TU AD OPERARE QUESTA APPROPRIAZIONE... Ripenso sempre a quando la mostra su Diane è arrivata in Svezia, al Moderna Museet di Malmö. Per mia fortuna, all’inaugurazione c’era tutta la squadra di curatori, perciò ci siamo messi a parlare, e la loro prima domanda è stata: «Poteva essere qualcun altro, anziché la Arbus?». Ovvero, avevano capito, e sottolineavano, il fatto che non si trattava di lei, o non solo: come amo ripetere, la mostra non è di Diane Arbus, la mostra è mia. Sono io che gioco con il suo nome, e lo uso a mo’ di cavallo di Troia. E lo faccio proprio come qualsiasi museo usa il nome di un artista – di artisti morti in particolare – e dice: «Ecco la mostra di Andy Warhol», ma Warhol non l’avrebbe mai disposta in quel modo. E in effetti, quel che si vede sono opere di Andy Warhol messe in mostra dal museo. Perciò il mio nome compare

per primo nel titolo: pierre leguillon presenta diane arbus: retrospettiva a stampa 1960-1970. IL TITOLO COSÌ COME L’HAI CONCEPITO, LA SCELTA DEL VERBO «PRESENTARE», MI SEMBRA SIA ANCHE UN RIFERIMENTO AL CINEMA. Sì, hai ragione. Mi piace presentarmi nei titoli di testa, proprio come un produttore cinematografico: così si richiama anche una gerarchia che nel cinema è molto precisa, mentre nel mondo artistico è del tutto disattesa. Io do molta importanza anche ai tecnici che lavorano dietro le quinte, ma nessuno li nomina mai: anche il corniciaio partecipa alla mostra, come pure un guardiano... Ma oggi si parla solo dei curatori, e qualche volta degli artisti. «Presentare» significa anche quello. IL CHE MI INDUCE A CHIEDERTI QUAL È LA TUA IDEA DI AUTORIALITÀ. È legata alla questione dell’identità intera. Ed esattamente come se mi chiedessero: «Chi sei?». Rispondere è molto difficile perché sappiamo bene di possedere identità diverse e sovrapposte, che concorrono tutte a formarci come persone. Così la vedo io: penso sia molto importante, nella vita, poter cambiare identità. Apprezzo moltissimo, dell’Italia e dell’italiano, che si possa dire: «Sono un artista» ma anche: «Faccio l’artista», come se fosse un ruolo da interpretare. Per me conta molto poter essere sia il docente sia l’allievo; e anche essere l’allievo dei miei studenti. Ovviamente sento l’influenza del libro di Jacques Rancière, Il maestro ignorante. Pesano molto anche Bruno Munari ed Enzo Mari, gente che operava in campo artistico e ha deciso di spostarsi altrove, ma ha continuato un percorso coerente: se consideri Munari dal Futurismo ai libri per l’infanzia cogli una logica, uno scopo visivo, che non è sempre al servizio della stessa idea ma, certamente, di un medesimo ideale. Tornando alla tua domanda, io gioco sempre con l’identità, per essere certo della posizione dalla quale mi esprimo. Per esempio non mi sono mai presentato come curatore della mostra sulla Arbus, ma come collezionista: ho collezionato le riviste che compongono la mostra, e poi ho venduto la collezione a un’altra collezione.

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IN EFFETTI TU GIOCHI SEMPRE CON L’IDEA DELLE MOSTRE COME COLLEZIONI. Dipende dal fatto che oggi l’artista non è più al centro del mondo artistico. Per me, l’unico modo di sentire che esisto ancora è imporre un sistema a un altro sistema: su piccola scala, ho creato un sistema integrato che si regge da solo, dunque per qualche verso ora la mia istituzione sono io. È quanto accade con La Promesse de l’écran (La promessa dello schermo, 2007), o con i lavori con le diapositive: c’è sempre un elemento che mi presenta per nome e cognome, ma anche come se il mio fosse un nome commerciale, un marchio. Così io sono sia diversi marchi, sia la persona che lavora per questi marchi. SI PUÒ USARE ANCHE UN’ALTRA CATEGORIA RANCIÈRIANA PER DESCRIVERE QUESTO SISTEMA, E IL RUOLO CHE SECONDO ME TU ATTRIBUISCI AI VISITATORI: PENSAVO ALLO SPETTATORE EMANCIPATO... Io ho studiato da artista, poi sono diventato critico e curatore. Il mio primo lavoro da artista è stato tenere una conferenza: fu praticamente una recita! Poi ho deciso di fondare una rivistina e fare il curatore, e muovermi in quel campo diventò più importante. Quindi ho iniziato con i diaporama, e ogni volta che ne allestivo uno (a partire dal 1993), mi stupivo sempre della gente che dopo mi avvicinava e mi diceva: «Sai, quella parte mi è piaciuta, ma quell’altra molto meno», o «Lì mettici una musica diversa», «Hai presente la tale immagine, penso starebbe bene...». Quindi il mio lavoro si è incentrato sulle reazioni, con la scoperta che tutti mi fornivano idee con le quali poi, in modo molto empirico, costruire la presentazione successiva. Con la sensazione che la mia opera corresse più veloce di me. Per questo mi convinco, talvolta, di produrre arte: quando mi rendo conto di dover correre dietro a qualcosa che ho creato io. Poi ho cominciato a lavorare a La promesse de l’écran (La promessa dello schermo, 2007) per molte diverse ragioni, ma in particolare perché in Francia era appena stato eletto Sarkozy e io pensavo di dover fare qualcosa. Perciò ho aperto un locale a Parigi, in cui si poteva bere per meno di quanto non si spenda normalmente a Parigi, e per dare al mondo dell’arte un ritrovo non soltanto modaiolo, ma dove si


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potessero davvero scambiare delle idee. All’inizio aprivo ogni quindici giorni, ed era piuttosto faticoso; poi ho cominciato ad accorgermi che la gente si fermava volentieri, e beveva magari fino alle tre di notte... e così abbiamo cominciato veramente a discutere: e se facessimo, tipo, una La promesse de l’écran su questo o quell’argomento, e che ne pensi di questa cosa, hai visto quel film... Insomma, il pubblico lavorava al posto mio. Hai presente il lavoro che ho fatto al Centre Pompidou1? Sulla Piazza, il calendario dipinto a terra... In realtà l’hanno fatto altre persone: un allestimento permanente di cui era il pubblico a decidere la forma. C’è un dramma di Peter Handke, L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro, senza dialogo e senza testo. Sul palco c’è solo una specie di pubblica piazza, attraversata dai passanti. Handke descrive solo quel che la gente fa; poi tu puoi immaginarti che queste persone abbiano una relazione, o che fra una e un’altra succeda qualcosa. Il mio pezzo al Pompidou mi è sembrato simile: un vasto palcoscenico, una cornice, a mettere in evidenza che il movimento umano può essere bellissimo, come una coreografia spontanea e naturale.

I WOULD LIKE TO START OUR CONVERSATION FROM YOUR MOST RECENT PROJECT: THE ONE DEVOTED TO THE LIBRARY PROJECT, DRAWINGSON SITE (2011). I THINK IT CAN BE A GOOD STARTING POINT FOR DISCUSSING YOUR PRACTICE IN TERMS OF THE RELATION YOU ARE INTERESTED TO CREATE WITH A SPECIFIC CONTEXT. WOULD YOU DESCRIBE IT A BIT?

RITARDO DI VETRO A CURA DI EVA FABBRIS

Ok! Here in San Francisco I discovered this amazing place, the Prelinger library. The Prelingers are a couple; about eight years ago they opened their library to the public. It’s not their home. They have a huge storage and they mixed their own library with books that public libraries in America throw away. You can find, for example, magazines about the packaging in the Fifties, and also

— Drawings on Site, Prelinger Library, San Francisco, 2011

about cultural studies, minorities in the US…. You can deeply see how culture is a construction: you have vernacular culture mixed with MIT Press books. There is no catalogue, so you need yourself to browse in the library. There is a huge neon at the entrance, that writes “Free speech, fear free”; this is the only library I know where you can speak to other people, sometimes listen at music…. This was my favourite place in the city and little by little I decided to make some rubbings on book covers. I choose some sections of the library, according to points of interest or sometimes because books look much better and I tried to start a portrait of the library. I just did what people do in the cemeteries when they go on the graves and they rub the names on them, just to remember them. I think looking at these drawings you have the feeling of a cemetery, because the single

covers are grey, one next to another. I guess they also look like a window display of a bookshop. It’s the first time I make drawings: it’s in between children drawings and Max Ernst’s. It’s very close to the photography idea (taking an imprint of something) and to archeology. I know that archeologist before the invention of photography went on buildings and they rubbed some details of the surface. So I really saw the entire library as a kind of construction: a mental and physical construction. I CAN SEE ALREADY AN AFFINITY WITH THE WAY YOU WORKED IN YOUR PIERRE LEGUILLON FEATURES DIANE ARBUS: A PRINTED RETROSPECTIVE 1960 – 1971. BOTH THESE PROJECTS ARE COLLECTIONS OF BI-DIMENSIONAL IMAGES “MECHANICALLY” PRODUCED. THAT SHOW IS A COLLECTION OF THE PICTURES PRODUCED BY A STRAIGHT PHOTOGRAPHER SEEN IN THE CONTEXT OF THEIR MEDIATIC DISTRIBUTION, THAT IS IN THE PAGES OF THE MAGAZINES. ONE CAN CONSIDER DIANE ARBUS A PHOTO-JOURNALIST, A DOCUMENTARIST… In this perspective you can also look at my exhibition on her as a sort of documentary exhibition. It is a kind of documentary of how these images were printed. It is related to what I am working on here (in San Francisco) too: that is art history, cultural history, culture in general, is always related to technique, and very influenced by technique. The all project at the Prelinger is about appropriation. In some way we don’t need libraries anymore, because of the internet. And on the other hand I used internet, ebay, to buy the magazines for the Diane Arbus project. So I am speaking of


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different ways, different techniques also, of appropriating. SO YOU ARE THE ONE WHO APPROPRIATES… I always remember when the Diane Arbus show travelled to Malmö in Sweden to the Moderna Museet, I was very lucky because the team of curators of the Moderna came for the opening and we had a conversation in the show and the first question was: “Could it have been somebody else than Diane Arbus?” It was really underlining that the subject was not Diane Arbus, I mean not only. As I always say it’s not an exhibition by Diane Arbus, it’s an exhibition by me. I play with her name, I use her name as a Troy horse. I do that as museums use name of artists, especially dead artists, and they say: “You will see a show by Andy Warhol”, but Andy Warhol never hung a show that way. And in fact you see some works by Andy Warhol shown by the museum. That’s why my name comes first in the title: Pierre Leguillon features Diane Arbus: A Printed Retrospective, 1960–1970. THE PHRASE YOU USED IN THE TITLE, THE CHOICE OF THE VERB “FEATURE” TO ME SOUNDS ALSO AS A REFERENCE TO CINEMA. Yes, you are right. I like to be introduced in the title as the producer in cinema. That means also to refer to a hierarchy, that in cinema is very precise, and in the artworld is not respected at all. To me the technical crew of a show is very important, and they are not very often mentioned. A framer is part of the show, a guard is part of the show…. But today we only speak about curators, and sometimes about artists. “Feature” means also that. THIS BRINGS ME TO ASK YOU ABOUT YOUR CONCEPTION OF AUTHORSHIP. To me it’s the all question of identity. And to me this is as if someone asks me: “Who are you?” It’s quite difficult to give an answer, because you know that you have different identities that cross over, one on the other, to compose your own identity. That’s the feeling I have. I think it is very important in life to be able to exchange your identities. What I like so much in Italy is that you not only say “to be an artist” but you can also say “to make the artist”. This is a role you

can play. To me it is important sometimes to be a pupil and sometimes to be a teacher; and also to be the pupil of my own students. I was influenced of course by the book of Jacques Ranciére Le Maître ignorant. Bruno Munari to me is important, and Enzo Mari, these people who were in the art field and decided to move in another one, but continuing a coherent work: if you look at Munari from Futurism to children books, there is a kind of logic, it is always a visual purpose that serves always not the same idea, but the same ideal. So to be back at your question, I always play with identity, to be sure that I know where I speak from. For example I never introduced myself as the curator of the Diane Arbus show; I introduced myself as the collector. I collected magazines to make the show and I sold this collection to another collection. IN FACT YOU USUALLY PLAY WITH THE IDEA OF EXHIBITIONS OR COLLECTIONS. This is related to the fact that today the artist is not the center of the art world anymore. For me the only way to feel I am still in the world, is imposing a system within another system. At my small level, at my small scale I have my entire system that works in itself, so I can be in some way my own institution. That’s what happens with La Promesse de l’écran (The promise of the Screen, 2007) or with my slideshow: with always something that introduce not only using my name, but as a company name, as a brand: I have different brands and I am somebody who is working for this different brands. ANOTHER CATEGORY DEVELOPED BY JACQUES RANCIÉRE COULD BE USE TO DESCRIBE THIS SYSTEM, AND THE ROLE I THINK YOU GIVE TO SPECTATORS: I AM THINKING TO THE EMANCIPATED SPECTATOR… I was trained as an artist, but then I became a critic and a curator. The first work I did as an artist was to give a lecture, very staged! Then I decided to create a very small magazine and I went into curating, and it was more important to me to act in this field. And then I began with the slideshow, and each time I was screening a slideshow (starting from 1993), I was always surprise to see that people would come to me after the screening, saying: “You know I liked this part, but I didn’t like that part”, “Put

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another music on this part”, “Do you know this image, I think it could fit well….”. So my work was about reception, and then I discovered that everybody gave me some ideas: that allows myself, in a very empirical way, to construct the next screening. So I had the feeling that my work was walking ahead to me. That’s why I also consider sometimes that I am doing art: when I see that something that I have done, I have to run after it. Then when I began the Promise of the Screen, I did it for many reasons, but especially because Sarkozy was elected in France and I was thinking I should do something. So I opened this speakeasy in Paris, so we could have drinks less expensive than usually in Paris, and we could also have a place in the artworld that was not “mondane”, where we could really share ideas. At the beginning I made it every two weeks, and it was quite intense. And then I started to see people that stayed at the bar, drink more, until maybe three in the night… and this was the occasion to start to discuss: you know, we could make one “Promise of the screen” about this subject, about this topic, what about this, do you know this film…So the audience was doing my work. You know this work I did at the Pompidou1? On the piazza, with the calendar painted on the ground…Of course this was done only by other people. It was a permanent stage where the public made the design. There is this play by Peter Handke The Hour We Knew Nothing Of Each Other: there is no dialogue in it, no text. There is only a kind of public square on the stage and people just cross one each other. He only describes what people are doing and then you can imagine that sometimes they will have a relation or that there is something between them. To me the Pompidou piece was more or less the same, a very big stage, a frame where you can see that the movements of people can be beautiful, a spontaneous and natural choreography.

1 — Performance in occasione del Festival du Centre Pompidou, 21 ottobre 23 novembre 2009. Performance for Festival du Centre Pompidou, 21 October - 23 November 2009


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RITARDO DI VETRO A CURA DI EVA FABBRIS

Ciò che conta ne né il “sublime”, n gusto”, non è la “ della verità”, è tu l’accesso all’orig dell’originale sin la cosmologia pe discreta, tocco di odore, canto o pa (e non la costruzi

Ci sono i resti.C’è un costo energetico ed un tempo che più di tanto non riesco a stirare. Il tunnel è lì, noi ci spostiamo, emergiamo in esterno, notturno. C’è un’astronave con i racemi, da scena, arruginita. Cerco di operare in un tunnel che non si traveste da tunnel dell’orrore, quello è sotto gli occhi di tutti. Piuttosto un underground dove il disordine è tollerato e considerato vitale. Ho sempre pensato che una risoluzione “grezza”, ROUGH (come dicono in ambito musicale), fosse la cifra giusta per me perché non è scienza questa voracità condizionata: Penso ai condotti di aerazione.

Jean-Luc Nancy

Once it was the color of saying, Marinella Paderni e Eva Marisaldi, estratto dal testo di presentazione della mostra Underlines, alla galleria Nicoletta Rusconi, Milano 2010.

Il mondo è davvero così asservito come lo hanno sognato – come lo progettano, lo programmano o vogliono imporcelo – i nostri attuali “consiglieri fraudolenti”? Postulare una cosa del genere significa, appunto, dar credito a ciò che la loro macchina vuol farci credere. Significa vedere solo il buio fitto o la luce accecante dei riflettori. Significa agire da sconfitti: ossia essere convinti che la macchina svolga il suo compito senza sosta né resistenza. Significa vedere solo il tutto. Non vedere dunque lo spazio – magari interstiziale, intermittente, nomade, collocato in maniera improbabile – delle aperture, dei possibili, dei bagliori, dei malgrado tutto. A quale parte della realtà – il contrario di un tutto – può oggi rivolgersi l’immagine della lucciole?

Georges Didi-Huberman Come le lucciole una politica delle sopravvivenze, Bollati Boringhieri

… … … ….la cultura non è ciò che ci protegge dalla barbarie e deve essere protetto da lei, ma è quello stesso ambiente in cui prosperano le forme intelligenti della nuova barbarie. Alain Brossat, De l’inconvenient d’étre prophète dans un monde cynique et désenchanté. Lignes

L’impegno è vivere la contemporaneità: un artista di oggi deve utilizzare un linguaggio anche scomodo. Se la realtà è violenta, solo un’opera d’arte altrettanto o più forte può far capire in che tipo di violenza si vive. Ascanio Celestini


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ell’arte, ciò che rende tale l’arte non è il “bello”, non è la “finalità senza scopo” né il “giudizio di “manifestazione sensibile”o la “messa in opera utto questo, certamente, ma in un altro modo: è gine scartata, nel suo stesso scarto, è il tocco plurale ngolare. L’arte è da sempre cosmogonia, ma esibisce er quel che essa è: necessariamente plurale, diffranta, i colore e timbro, frase o massa piegata, lampo, asso sospeso, poiché essa è la nascita di un mondo ione di un sistema). Essere singolare plurale, pag. 23 24.

Immaginario:

Pensare il pensiero consiste per lo più nel ritirarsi in un luogo senza dimensione dove solo l’idea del pensiero si ostina. Ma in realtà il pensiero si apre al mondo. Dà forma all’immaginario dei popoli, alle loro poetiche diversificate, che a sua volta trasforma: in loro, cioè, si realizza il suo rischio.

La cultura è la precauzione di chi pretende di pensare il pensiero restando fuori dal suo percorso caotico. Le culture in evoluzione implicano la Relazione, il superamento che fonda le loro unità-diversità.

Il pensiero disegna l’immaginario del passato: un sapere in divenire. Non lo si può fermare per valutarlo, né isolare per esprimerlo. È condivisione da cui nessuno può dividersi, e che nessuno, fermandosi, può far sua.

Edouaed Glissant Poetica della Relazione Quodlibet

Fin da bambini i nostri corpi vivono immersi in un traffico linguistico che ci fa diventare soggetti pubblici e privati al contempo, grazie al linguaggio e al costante dialogo/conflitto con l’altro. Nei miei lavori cerco di tradurre e restituire tutto questo, per produrre domande sul senso e sul mondo, mai facili ricette, o consolatori apparati per un immediato consumo. C’è già troppo fast food in giro. Cesare Viel

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RITARDO DI VETRO A CURA DI EVA FABBRIS

What counts in art the “sublime”; it is the “judgement of the “putting into w another way: it is plural touching of cosmogony, but it diffracted, discree folded mass, a rad a scent, a song, or of a world (and no

There are the remnants. There is a cost in terms of Energy and time that I can only stretch to certain extent. The tunnel is there: we move and emerge into a nocturnal exterior. There is spaceship with racemes, stage props, it’s rusty. I’m trying to work in a tunnel that is not disguised as a tunnel of horrors—which is before everybody’s eyes. It’s rather underground, where disorder is tolerated and regarded as vital. I’ve always thought that a rough result was right for me, because this conditioned voracity isn’t science. I’m thinking of air ducts. Once it was the color of saying, Marinella Paderni and Eva Marisaldi, extract from the exhibition presentation Underlines, at Galleria Nicoletta Rusconi, Milan 2010

Has the world really submitted itself to the way our present “fraudulent advisers” have dreamt it – to how they design, plan and impose it for us”? Postulating this means to give credit precisely to what they want us to believe. It means seeing only in pitch dark or in the blinding lights of television spotlights. It means acting as defeated: being convinced that the machine never ceases to carry out its deed, without resistance. It means seeing just the whole. But not seeing the hole – that space albeit interstitial, intermittent, nomadic, or placed in an unlikely manner – of an opening, of what is possible, of a glowing, of all the “nevertheless”.

… … … ….culture is not what protects us from barbarism and needs to be protected by it, but it is the very environment in which new intelligent forms of barbarism prosper. Alain Brossat, De l’inconvenient d’étre prophète dans un monde cynique et désenchanté. Lignes

Nowadays, to which part of reality – the opposite of a whole – can the image of fireflies refer to? Georges Didi-Huberman Survival of Fireflies, Bollati Boringhieri

DA SINISTRA VERSO DESTRA

— Eva Marisaldi, Underlines, 2010, video, courtesy l’artista e galleria Nicoletta Rusconi / video courtesy the artist and galleria Nicoletta Rusconi. — Martino Genchi, Influenzati da una luna sbagliata, 2008, azione di sostituzione di lampadine dell’illuminazione pubblica con luci rosse, © Martino Genchi / replacement action of public light bulbs with red lights, © Martino Genchi — Cesare Viel, Facciamo fluire via le nostre frasi, 2011, intervento audio e performance, Fondazione Pietro Rossini, Briosco (MB), courtesy l’artista e Pinksummer, Genova. Foto: Cocis Ferrari / Audio intervention and performance, Pietro Rossini Foundation, Briosco (MB), courtesy the artist and Pinksummer, Genova. Photo: Cocis Ferrari. — Adriano Nasuti Wood, Lettura pubblica del Manifesto, 2011, courtesy BOCS Catania, Galleria Spazio A / courtesy BOCS Catania, Galleria Spazio A — Adriano Nasuti Wood, Manifesto “Agira Domina”, 2011, courtesy l’artista / courtesy the artist

Jean-Luc Nancy Es pag. 23 24

Commitment is living the contemporary state: artists today must use a language that might also be inconvenient. If reality is violent, only an artwork that is just as violent, or even tougher, can convey the kind of violence we live in. Ascanio Celestini


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t, what makes art art is neither the “beautiful” nor s neither “purposiveness without a purpose” nor f taste”; it is neither “sensible manifestation” nor work of truth”. Undoubtedly, it is all that, but in access to the scattered in its very scattering; it is the f the singular origin. … Art always has to do with exposes cosmogony for what it is: necessarily plural, et, a touch of color or tone, an agile turn of phrase or diance, r a suspended movement, exactly because it is the birth ot the construction of a system).

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Since our childhood our bodies are submerged in a linguistic traffic that turns us into both public and private subjects on account of language and a constant dialogue/conflict with one another. I attempt to translate and convey all of this through my works to raise questions on both sense and the world. They are never some easy recipe or a consolatory tool for immediate consumption. There’s already too much fast food around. Cesare Viel

Essere singolare plurale,

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Imaginary

Thinking thought usually amounts to withdrawing into a dimensionless place in which the idea of thought alone persists. But thought in reality spaces itself out into the world. It informs the imaginary of peoples, their varied poetics, which it then transforms, meaning, in them its risk becomes realized. Culture is the precaution of those who claim to think thought but who steer clear of its chaotic journey. Evolving cultures infer Relation, the overstepping that grounds their unity-diversity. Thought draws the imaginary of the past. One cannot stop it to assess it nor isolate it to transmit it. It is a sharing one can never not retain, nor ever, in standing still, boast about.

Édouard Glissant Poetics of Relation Translated by Betsy Wing

* Agira Rules. / O make me not a Crag, but Water and Sky. / O make not an Object, but an Extent. / O make me not a brassy Virtue, but an obscure Vault. / Agira Rules. / Think though, in this dusky site, / We keep the occult hub of an Idea. / I was holding the cartridge pen always toward tings. When I realize that, / Suddenly I diverted it onto a new direction, / where was nothing. / Agira Rules, today and tomorrow from 7pm in Via Musa 29 / Conceptual Art exhibition. / Agira Rules. / The Artworks, not many of them, bestowed on Empty intellectual contents. / To be in a bathing resort is an Idea. / Agira Rules, today and tomorrow from 7pm in Via Musa 29 / Conceptual Art exhibition.


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IL REALISMO RITARDO È UNDI FIORE VETRO A CURA A CURA DI ALESSANDRO DI EVA FABBRIS RABOTTINI

A CURATORIAL DECLARATION di Mary Anne Staniszewski

IL TESTO CHE SEGUE È BASATO SULLA MIA PRESENTAZIONE AL CONVEGNO "EXHIBITION AS THE ARTISTIC MEDIUM, CURATOR OF CONTEMPORARY ART AS THE ARTIST. THE CHANGING STATUSES OF THE EXHIBITION AND THE CURATOR IN THE FIELD OF CONTEMPORARY ART" [“LA MOSTRA COME MEZZO ARTISTICO, IL CURATORE DI ARTE CONTEMPORANEA COME ARTISTA: MOSTRE E CURATORI, UNO STATUS CHE CAMBIA”] IDEATO E ORGANIZZATO DA BETI ŽEROVC, PRODOTTO DA IGOR ZABEL ASSOCIATION ED ERSTE FOUNDATION E TENUTOSI PRESSO LA MODERNA GALERIJA, GALLERIA DI ARTE MODERNA DI LUBIANA, L’1 E IL 2 OTTOBRE 2010. NEL CORSO DELLA PRESENTAZIONE HO FATTO RIFERIMENTO A IMMAGINI (IN QUALCHE CASO SEGNALATE TRA PARENTESI PER MAGGIORE CHIAREZZA) NONCHÉ A COMMENTI ESPRESSI DA, E A COLLOQUI CON ALTRI PARTECIPANTI AL CONVEGNO. WWW.IGORZABEL.ORG/EN/ISCP2010/ABOUT_SYMPOSIUM

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o intitolato questa presentazione “L’artista curatore, il curatore artista” proprio per riassumere la questione, a mio avviso, essenziale in questo convegno; e alla richiesta di scrivere un abstract ho deciso di stendere un manifesto curatoriale. Che è poi risultato semplicissimo: forse troppo per questo pubblico davvero raffinato, molto addentro alle prassi artistiche e curatoriali di oggi. Ad ogni modo, nel manifesto sostenevo che a parer mio le mostre possono essere in primis e soprattutto un fatto creativo o meglio, che i curatori dovrebbero sforzarsi di produrre mostre che siano creative, trasformative, stimolanti, provocatorie, belle e possenti, come fossero arte, che siano arte. In effetti io ho un’idea molto ampia - o molto “democratica”, se vogliamo - di cosa sia l’arte, e cerco di essere sempre molto site-specific e di rimanere in tema; mi spiegherò meglio delineando in breve la storia della curatela per come l’ho studiata, come ci ho lavorato su e come la vedo. Come sempre, mi interessa la “modernità”, e le cose che dalla modernità scaturiscono: parliamo cioè dell’epoca che ha inizio nel tardo Settecento con la comparsa del moderno stato-nazione liberale, democratico e capitalista, e del tipo di soggettività che vi è legata. Una manifestazione di questa soggettività, che a mio avviso contribuisce a chiarirne e cristallizzarne la natura, è l’arte - insieme al museo e a varie altre entità (per esempio il tema della razza, su cui sto lavorando al momento) fra cui le mostre. Le diapositive che seguono mostrano diversi musei paradigmatici: l’Altes Museum berlinese, il Museum of Modern Art di New York; poi - sempre cercando di essere site-specific - la Galleria di arte moderna qui a Lubiana, il nuovo MoMA (cioè la ristrutturazione e l’ampliamento del MoMA che conoscevamo) e il Guggenheim a Bilbao. Gli ultimi due sono esemplari del nuovo museo ultramodernista; e si vede bene che questi “nuovi musei” presentano le stesse caratteristiche del primo genere di museo moderno, in forma esagerata. Oggi tuttavia vorrei soffermarmi su un’altra entità emergente: come ho detto a Paul O’Neill, magari sbaglierò, ma mi pare che assistiamo al coagularsi di una nuova curatela (e del ruolo dei curatori), in un modo molto più chiaro e definito per quanto riguarda prassi, visibilità, standard, corsi universitari - Beatrice von Bismarck ne ha appena varato uno che sembra molto interessante - e convegni. Tutto questo acquista densità mentre vi parlo, mentre tutti discorriamo tra noi, mentre io vi guardo e voi guardate me: ne siamo partecipi, e non si tratta di un fenomeno limpido come certi altri, ed è di formazione recente, moderna. E in questo senso penso a tutta una gamma di prassi di curatela: da quelle di Alfred Barr (Foto: Alfred Barr osserva un Alexander Calder) fino alle odierne. Ecco qui altre immagini di curatori-artisti e artisti-curatori -di nuovo, con l’intento di essere site-specific (Foto: uno scatto dell’autrice al convegno stesso, durante l’ultima sessione plenaria). Uno dei miei libri si intitola The Power of Display [“Il potere dell’esposizione”]; io l’ho intitolato così, e io ho scelto la parola “esposizione” - in una delle precedenti tavole rotonde Martin Beck ha sollevato a questo proposito diverse questioni interessanti - e, sì, come parola è alquanto

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imperfetta. Di fatto io volevo che avesse la più vasta accezione possibile, e ci pensavo appunto in termini vasti, culturali. Ma il “potere dell’esposizione”, per come l’ho affrontato e analizzato dapprincipio, era inteso come mezzo per ottenere tutta una serie di risultati: per esempio, svelare il cosiddetto “inconscio politico” di mostre e istituzioni. Quel libro rappresentava anche una critica della “storia” dell’arte e di una decina di altre cose che qui tralascerò. Ma continuo a ritenere strategicamente corretta la scelta di analizzare i modi dell’esposizione e della curatela: perché è questo, più di ogni altro, il luogo in cui l’attività di curatela si manifesta, agisce, crea. Certo non solo qui, e forse i risultati di quest’attività andrebbero descritti come “eventi espositivi”, se sposiamo la terminologia teatrale usata da Beti Žerovc per sistematizzarli. Dunque è di questo “potere dell’esposizione”, di questo genere di “curatela creativa” o, magari, di “arte-gianato”, che intendo parlare; e cercherò di delinearne un breve profilo storico tramite esempi in cui secondo me si riscontrano eloquenza, eccellenza, risultati di qualità artistica. Goran ĐorÐevic´ ha accompagnato la sua conferenza sulle prassi progettuali dell’installazione con diapositive molto simili: perciò adesso conoscete tutti l’“innovazione-invenzione” sviluppata da Alexander Dorner negli anni Venti del secolo scorso, ed è probabile che gran parte di voi abbia familiarità con la sua risistemazione del museo di Hannover, e con le innovazioni apportate da Barr e Johnson al MoMA (Foto della prima mostra al MoMA, 1929). Vorrei sottolineare che siamo di fronte al primo allestimento di quel museo, che è in pieno “stile Alfred Barr”. Ma vorrei sottolineare ulteriormente, a fini retorici, che Barr non curò quella prima, paradigmatica mostra, nel senso dell’aver operato la scelta delle opere da esporre; ma di certo fu lui che le installò. E quando lo ha fatto, io ritengo che abbia creato un nuovo “modo dell’installazione” che poi ha percorso tutto il mondo per decenni, ed è stato ripresentato al MoMA in molte e diverse mostre. Qui vediamo una loro esposizione relativamente recente, e questi altri sono esempi di come lo stesso “modo” viaggia per il mondo, sottoforma di convenzione curatoriale: lo vediamo a Bilbao, in Corea, qui a Lubiana, e via dicendo. (Foto di diverse mostre allestite in musei, tutte realizzate con i consueti interni bianchi o in colori neutri, e con le opere isolate alle pareti, su piedistalli, dentro nicchie). Vorrei anche tornare ai primi anni delle avanguardie internazionali, cioè a quella che considero una “epoca-laboratorio” per questo genere di moderna prassi curatoriale. Di nuovo, ho trovato molto istruttiva la presentazione di Goran ĐorÐevic´, e so che si è lavorato ben di più sulla preistoria della “sospensione moderna” ottocentesca, cosa che trovo immensamente utile. Ma intendo rimanere sulle avanguardie internazionali. Questa è la mostra-installazione teatrale di Frederick Kiesler (1924), della quale fu anche curatore, appunto nel senso della scelta di opere (Foto: International Exhibition of New Theater Technique). Si tratta del suo famoso “metodo L-T”, un sistema dinamico e interattivo con lo spettatore giacché permetteva di alzare e abbassare le opere, regolare l’illuminazione, eccetera. Questo è Kiesler in persona, poggiato su uno dei suoi moduli che possono


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fungere da sedile, piedistallo e via dicendo; sono il luogo e l’utilizzo a determinare il significato dei moduli stessi. Questa invece è un’immagine scattata alla galleria surrealista Art of This Century, l’installazione creata da Duchamp per la mostra First Papers of Surrealism allestita a New York nei primi anni Quaranta del secolo scorso alla Whitelaw Reid Mansion. Ma anche al MoMA l’attività ferveva: prima l’installazione Barr-Johnson del 1929 (cioè la prima mostra), poi l’assolo di Johnson per l’esposizione Machine Art [“Arte a macchina”] del 1932. Il pubblico americano riservò, a sorpresa, una reazione “orgasmica” a questa mostra, che conteneva pezzi come, per esempio, alcune viti minuscole su un piedistallo ricoperto di velluto azzurro. E Johnson realizzò - anche qui, con qualche sorpresa - anche mostre didattiche: eccone una che ha per tema architetti e abitazioni (Americans Can’t Have Housing [“Niente case per gli americani”], 1934). Mentre questa è una mostra di René d’Harnoncourt: professionista decisamente trascurato. Se qualcuno è in cerca di un argomento per la tesi di dottorato, e gli interessa la scena americana, garantisco che d’Harnoncourt è un interessantissima figura di curatore-artista-direttore di museo (è stato il secondo direttore del MoMA). Poi: questa è la mostra sull’arte del popolo Asmat, del 1962; d’Harnoncourt collaborò con un architetto, Justin Henshell, e con il curatore Arthur Drexler. Prima c’era stata una grandissima realizzazione, la mostra spartiacque del 1941 The Indian Art in the United States [“L’arte indiana negli Stati Uniti”], che finalmente stabilì lo status pienamente artistico, non artigianale, dei manufatti nativo-americani; l’esposizione che da sola determinò quello scarto epocale. Ed ecco ancora, nel 1938, la famosa mostra di Bayer al Bauhaus. Negli anni Quaranta Edward Steichen, che curiosamente si qualificava come “direttore di mostre”, ne allestì al MoMA una dai forti connotati politici, Road to Victory [“Verso la vittoria”]; mentre questa è la sua crucialissima The Family of Man, realizzata in collaborazione con l’architetto Paul Rudolph nel 1955. Mentre mi preparavo per questa conferenza - ripassando quest’epoca-laboratorio, e le opere che considero vere pietre miliari nella creazione di una branca, perché hanno funto da preistoria dell’installazione artistica - mi è capitato di parlare con il mio amico storico di mostre e installazioni Bruce Altschuler, il quale mi ha detto: “Be’, ma la maggior parte di queste grandissime mostre è stata progettata o curata da artisti”. Lì ho cominciato a vedere le cose in modo diverso. Io non avevo mai separato così nettamente i due ruoli: ma mi sono resa conto che in moltissimi casi gli artisti avevano aperto la strada. È altamente probabile che Barr e Dorner non si sarebbero mai riconosciuti nel ruolo di artisti, però d’Harnoncourt disegnava e dipingeva e quindi c’era, nella sua personalità, un aspetto più tradizionalmente artistico; chissà. In ogni caso non è a questo che pensavo io, e mi sono concentrata sulle prassi illustrate in quanto luoghi di enorme creatività e valenza artistica nel lavoro e nel ruolo di curatore. Coda: affermando al principio che ho un’idea “democratica” di cosa sia l’arte, intendevo dire che penso ai concetti di “arte” e “artista” in base a specificità di sito, situazione e creazione, anziché come cornici o ruoli prefissati che spesso sono collegati a nozioni estetiche molto tradizionali. Storicamente, molte di queste mostre classiche - che io

considero opere d’arte - sono state allestite da persone identificate come artisti, architetti, designer, ma anche da altri che invece erano etichettati come direttori di museo e curatori: adesso che il campo curatoriale si fa sempre più visibile e istituzionalizzata, lo scopo del mio discorso è di provare a stabilire parametri professionali per la creatività curatoriale e per la sperimentazione con il “potere dell’esposizione”.

THE FOLLOWING IS A TEXT BASED ON MY PRESENTATION AT THE CONFERENCE: EXHIBITION AS THE ARTISTIC MEDIUM, CURATOR OF CONTEMPORARY ART AS THE ARTIST. THE CHANGING STATUSES OF THE EXHIBITION AND THE CURATOR IN THE FIELD OF CONTEMPORARY ART, CONCEIVED AND DIRECTED BY BETI ŽEROVC, PRODUCED BY THE IGOR ZABEL ASSOCIATION AND THE ERSTE FOUNDATION AND HELD AT THE MODERNA GALERIJA LJUBLJANA, OCTOBER 1 AND 2, 2010. THROUGHOUT THE TALK, I REFERENCE THE PROJECTED IMAGES (IN CERTAIN CASES THESE ARE IDENTIFIED IN BRACKETS FOR CLARIFICATION) AS WELL AS PREVIOUS COMMENTS BY, AND CONVERSATIONS WITH, CONFERENCE PARTICIPANTS;

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chose the title “Artist as Curator, Curator as Artist” for my presentation as a way for me to summarize what I thought was the essential question at the conference. When asked to write an abstract, I decided to write a curatorial manifesto, and I wrote a very simple one—maybe too simple for such a sophisticated audience, highly involved in contemporary art and curatorial practice. But my position in the manifesto is that I think exhibitions can be, first and foremost: creative--or should I say, that curators should strive to produce exhibitions that are creative, transformative, challenging, provocative, beautiful, powerful, art-like, Art. So I have a very broad – or better, a very “democratic” – notion of what art is, and I always try to be very “site specific” and engaged with the topic. I’m going to elaborate by giving some sense of the history of curating as I have studied it, worked with it, and viewed it. My interest is always in “Modernity” and the things that emerge within it: in other words, the period since the late-eighteenth century when the modern, liberal, democratic, capitalist nation-state emerged—and the type of subjectivity associated with it. A manifestation of this type of subjectivity, which in my view clarifies it and crystallizes it, is art—with the museum and various other entities, such as race, which is what I am working on currently, but also exhibitions. The following slides are of various paradigmatic museums: the Altes Museum; MoMA (Museum of Modern Art in New York); plus – trying to be site specific – The Museum of Modern Art here in Ljubljana (Moderna Galerija Ljubljana); the “New MoMA” (the newly renovated Museum of Modern Art), and Bilbao. These last two are examples of the new, über-modernist museums; as you can see, these


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“new museums” present exaggerated features from the earlier type of modern museum. But today I would like to focus on another emerging entity: as I said to Paul O’Neill, I could be proven wrong, but to me it seems very clear that another entity is coalescing, and that is curating (and the role of curators); in a much more defined and clearer way, in terms of practices, visibility, standards, university programs – Beatrice von Bismarck has just started one that sounds very interesting – and conferences. So this is all coalescing as I speak, as we all talk to each other, as I stare at you and you stare at me. We are participating in this, and it isn’t as clear as some other phenomenons, and it is of more recent, modern formation. In this respect, I am thinking of a range of curatorial practices: from those of Alfred Barr [Image of Barr looking at an Alexander Calder] to now. Here is an image of some curator-artists, artist-curators—again, trying to be site specific. [A photograph I took the previous day at conference during the final panel with all the presenters participating.] One of my publications dealt with The power of display; I called it that and I chose the word “display” – Martin Beck in a previous panel raised various interesting questions regarding this – and, yes, it is a very imperfect word. I actually wanted it to have as broad a sense as possible, and I was thinking in broad, cultural terms. But “the power of display”, as I initially approached and analyzed it, was intended as a means of achieving quite a number of things, such as revealing the “political unconscious” of exhibitions and of institutions. The book was also a critique of “art history” and about a dozen other things, which I will not go into now. But I still think it a strategically sound choice, to analyze the display and the curatorial method: this is really the place where so much curatorial creativity, activity, manifestation occurs. It is not, however, the only place; and maybe I should describe the works as “exhibition events”, given Beti Žerovc’s framing of these concerns in theatrical terms. So it is this “power of display”, or this kind of “curatorial creativity” or “arts-manship” that I’m going to feature. Toward a brief, historical outline I will give examples where I feel there have been eloquence, achievements, art-like realizations. Goran Djordjevic gave a talk with very similar slides, in his description of some of the installation design practices: so you’re all famil-

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iar now with Alexander Dorner’s “innovation-invention” at the Hannover museum, and, most likely, many of you are already familiar with this. And also Barr-Philip Johnson’s innovation at the museum of Modern Art. [Slide of the first exhibition at the Museum of Modern Art in 1929.] I would like to stress that this is the first exhibition at the Museum, and it is aligned with Alfred Barr. But I would like to emphasize, rhetorically, that Alfred Barr did not curate this exhibition in the sense of selecting works for this first paradigmatic show: but he did install them. And when he installed them, I feel he created a new “installation piece” that has travelled for decades internationally, and has continued be presented at MoMA in a large number of their shows. This is an image of a relatively recent MoMA exhibition, and these are examples of this “piece” travelling around the world, as a curatorial convention, as seen in Bilbao, Korea, Ljubljana, and so on. [Slides of diverse museum shows, all with this conventional neutralcolored or white interiors, and isolated works on walls and pedestals, or in spaces.] But I also want to go back to the early years of the international ava nt-ga rdes — what I consider to be the “laboratory period” for this type of modern curatorial practice. Again, Goran Djordjevic’s presentation was very instructive for me, and I know there has been a lot more work done on the pre-history of the “modern hang” in the Nineteenth century, and I found it very helpful. But I’m featuring, however, the international avant-gardes. This is Frederick Kiesler’s theatre exhibition-installation of 1924. He also was a curator here, in the sense of selecting the artworks. [Slide of International Exhibition of New Theater Technique.] This is Kiesler‘s “L and T method”, a dynamic system that was interactive for the viewer, in that you could raise and lower works, adjust lighting, and so on. This is Kiesler, the man lying in one of his multiples that can be seat, pedestal, and so on: the site and the use determine the multiples’ meaning. This is a slide of the Art of This Century’s Surrealist Gallery, Duchamp’s installation at the First Papers of Surrealism exhibition at the Whitelaw Reid Mansion in New York City in the early 40’s. At MoMA there was also a lot of activity: the 1929 Alfred Barr-Philip Johnson installation (the first exhibition), then Johnson working on his own with the 1934 Machine Art exhibition. The American public was surprisingly “orgasmic” about


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IN ALTO — Beti Zÿerovc, Mary Anne Staniszewski, Søren Grammel - Symposium Curatorial Practice in Contemporary Art Igor Zabel Association, Museum of Modern Art, 1.-.2.10. 2010 - photo: nada zgank / memento NELLE PAGINE PRECEDENTI — Beti Zÿerovc, Jelena Vesic´, Kerstin Stakemeier, Beatrice von Bismarck, Martin Beck, Mary Anne Staniszewski, Michael Fehr

Symposium Curatorial Practice in Contemporary Art - Igor Zabel Association, Museum of Modern Art, 1.-.2.10. 2010 - photo: nada zgank / memento

this show, which included displays like tiny screws on a blue velvet-covered pedestal. Johnson also did didactic shows, again, somewhat surprisingly. Here’s one dealing with housing and architects [Americans Can’t Have Housing, 1934]. This is a D’Harnoncourt exhibition. He is an often overlooked figure: if anyone is looking for a PhD dissertation topic, and is interested in American Studies, D’Harnoncourt is really a very, very interesting curator-artist-museum director (he was MoMA’s second museum director). This is the Art of the Asmat, from 1962: D’Harnoncourt worked with on the pavilion an architect (Justin Henshell and curator Arthur Drexler). This is a major piece, a breakthrough exhibition in 1941, The Indian art in the USA, which really framed Indian Art as art, not artifact: this is the exhibition that caused that paradigmatic shift. Then there’s the famous 1938 Bauhaus show by Bayer. In the 1940s Edward Steichen, who interestingly considered himself a “director of exhibitions”, produced a very political show at the Museum of Modern Art, Road to Victory, and this is his climatic Family of Man, where he worked with architect Paul Rudolph in 1955. As I was preparing for this conference – surveying this laboratory period, and the works that I really considered “pieces”, in terms of setting up a field, functioning as the pre-history for so-called “installation art” – I had a conversation with my exhibition-installation-historian friend, Bruce Altschuler, who commented, “Well, so most of these great exhibitions were designed or curated by artists.”

Then I started seeing things in a different way. I had never bifurcated the roles in that fashion: but I realized how artists had, in so many cases, led the way. Certainly Barr and Dorner most likely would not have seen themselves in the artist role, but D’Harnoncourt painted and drew and so had a side to him that could be seen as more traditionally artistic, who knows. However, this wasn’t the topic I was thinking about, and I was more focused on these practices as places of extreme creativity and artlike-ness in curatorial work and the curatorial role. Coda: When I mentioned earlier that I had a “democratic” understanding of what art is, I meant to say that I consider the “art” and “artist” concepts in terms of specific sites, situations, and creations, rather than fixed frameworks or roles that are often linked to traditional aesthetics notions. Historically, many of these classic exhibitions – that I consider works of art – were produced by people identified as artists, architects, designers, but also by others, labeled as museum directors and curators. As the curatorial field becomes ever more visible and institutionalized, the intent of my discussion is to feature possibilities for professional parameters, for curatorial creativity, and for experimentation with “the power of display”.


È critico d’arte e curatore indipendente, vive e lavora a Torino. È Visiting Lecturer in Studi Curatoriali e Teoria dell’Arte presso il dipartimento Curating Contemporary Art del Royal College of Art di Londra. Dal 2007 al 2009 è stato curatore presso la Barbican Art Gallery di Londra. Nel gennaio 2010 è stato nominato direttore di Artissima, Torino. He is a critic and a curator based in Turin. He is Visiting Lecturer in Exhibition History and Critical Theory at the Curating Contemporary Art Department of the Royal College of Art. From 2007 through 2009 he has been curator at the Barbican Art Gallery, London. From January 2010 he has been appointed Director of Artissima Fair, Turin.

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In occasione della presentazione di questo numero di MAG al pubblico, Leguillon presenterà la performance “Diane, Ad and the Tupperware”: una conferenza con immagini dedicata al tema dell’autobiografismo nella sua opera. Vedi l’intervista su MAG#3 pp. 18-21 On the occasion of the MAG public presentation, Leguillon will feature the performance “Diane, Ad and the Tupperware”: a lecture with images dedicated to the theme of autobiography in his artwork. See his interview to MAG#3 pp. 18-21

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NOVEMBRE 2011

PIERRE LEGUILLON ARTISSIMA Meeting Point ore 17:30

È artista, vive e lavora a Vilnius, Lituania. I suoi progetti spaziano dalla documentazione di una visita alla Fiera della Parapsicologia alla proposta di un museo dedicato agli ABBA per l’aeroporto di Berlino. Nel 2011 ha rappresentato la Lituania alla 53° Biennale di Venezia.

NOVEMBRE 2011

FRANCESCO MANACORDA

GAM Sala Uno ore 18:00

He is an artist, live and works in Vilnius, Lithuania. His projects vary from a video documentation of a visit to the Parapsychology Fair to proposing an ABBA museum for Berlin airport. In 2011 he represented Lithuania at the 53° Venice Biennial. Lithuania at the 53° Venice Biennial.

È direttore del CAC – Centre d’Art Contemporain di Brétigny, Francia. Dal 2003 al 2008 ha lavorato al CAC come curatore. La sua ricerca curatoriale è improntata a un radicale sperimentalismo e affronta temi cardine della riflessione sul fare mostra. He is the director of CAC – Centre d’Art Contemporain of Brétigny, France. From 2003 through 2008 he has been curator at CAC. His curatorial research is based on a strong experimentalism; he addresses the key issues on the reflection about exhibition making.

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DICEMBRE 2011

PIERRE BAL-BLANC GAM Sala Uno ore 18:00

Vedi il suo contributo su MAG#3 pp. 15-17 See her contribution to MAG#3 pp. 15-17

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GENNAIO 2012

DORA GARCÍA

GAM Sala Uno ore 18:00

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NOVEMBRE 2011

DARIUS MIKŠYS GAM Sala Uno ore 18:00

È un collettivo artistico di matrice concettuale che gioca sul citazionismo (il nome è la francesizzazione di Lucio Fontana), ma anche sulla parentela con il collettivo parigino Claire Fontaine di cui si definisce «sorella». Lucie Fontaine parte da una concezione di un sistema dell’arte “anti-gerarchico”, in cui critici, curatori, artisti e galleristi possano essere considerati sullo stesso piano. Is a conceptual artist collective which plays with quoting (their name is the French translation of Lucio Fontana), and with the affinity with the Parisian collective Claire Fontaine, declared “sister”. Lucie Fontaine moves from an anti-hierarchical conception of the art field, where artists, curators, gallerists, collectors, editors and critics are all considered at the same level.

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FEBBRAIO 2012

LUCIE FONTAINE GAM Sala Uno ore 18:00

CONFERENZE

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DAL 4 NOVEMBRE 2011 AL 1 FEBBRAIO 2012


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EVA FABBRIS A COLLOQUIO CON PRATCHAYA PHINTHONG

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PIÙ DI QUEL CHE PRENDI

QUAL È LA TUA MOSTRA PREFERITA DI SEMPRE? (UNA ALLA QUALE HAI PRESO PARTE, OPPURE CHE HAI VISITATO...) Non si tratta di una mostra che ho visto, penso piuttosto a Jay Chung e al suo “film invisibile”, Niente di più pratico dell’idealismo (2001), che lui ha prodotto, scritto e diretto. È un cortometraggio in 35 millimetri, girato con una troupe composta da una ventina di persone; nei due anni di lavorazione, però, non c’è mai stata pellicola nelle cineprese, solo che la troupe non lo sapeva. Come riferimento, resta soltanto una foto di loro con Jay. Ricordo anche che lui mi raccontava delle scuole di cinematografia russe durante la guerra, quando non c’erano i soldi per comprare la pellicola e girare era solo un modo per far fare esercizio agli studenti. TU TI RICONOSCI IN QUESTO IDEALISMO “PRATICO”? Mi interessano praticità e idealismo come mezzi per capire la realtà, ammesso che si possa conoscere tramite le idee, e le possibilità di proiettare nella realtà questo paradosso.

COME DESCRIVERESTI IL TUO RAPPORTO CON IL CURATORE INSIEME AL QUALE LAVORI? Come giocare a ping-pong. COMPETIZIONE COMPRESA? Si tratta più di far pratica, che di competere per vincere. IN EFFETTI SE RIPENSO ALLE MOSTRE GIVE MORE THAN YOU TAKE (2011), QUELLA CURATA DA PIERRE BAL BLANC AL CAC DI BRÉTIGNY E QUELLA CURATA DA ALESSANDRO RABOTTINI ALLA GAMEC DI BERGAMO, L’ANALOGIA CALZA PERFETTAMENTE 1. RISPETTO AL TEMA DELLO SCAMBIO TRA ARTISTA E CURATORE, MI PARE FOSSERO ENTRAMBE UNA CONTINUA E RECIPROCA CHIAMATA A REAGIRE, A DECIDERE; CREDO CHE IN QUELLE MOSTRE TU ABBIA MESSO FORTEMENTE IN DISCUSSIONE L’IMPORTANZA DEL MODELLO DEFINITO IN RELAZIONE ALLE PREMESSE SOCIALI DELL’ESISTENZA DI UNA SCULTURA (O DI QUALSIASI ALTRA OPERA D’ARTE). E COSÌ FACENDO HAI MESSO IN DUBBIO LA NOZIONE DI AUTORIALITÀ, AFFIDANDO AL CURATORE

EVA FABBRIS TALKS TO PRATCHAYA PHINTHONG

1 — Invitato a una residenza IASPIS in Svezia, l’artista ha deciso di spendere il relativo periodo in quella nazione lavorando a raccogliere frutti rossi, come un gran numero di suoi connazionali. Il peso del suo raccolto di ogni giorno era spedito a Pierre Bal Blanc via sms; suo compito era di raccogliere un quantitativo equivalente di un materiale a sua scelta per esporlo nella mostra di Pratchaya Phinthong al CAC. Alessandro Rabottini per la seconda venue della mostra, la GAMeC, ha scelto un materiale diverso. Inoltre Phinthong ha smontato e rubato una torretta da cui gli operai vengono controllati durante il lavoro; ha chiesto a entrambi i curatori di esporla nella forma che preferissero.


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L’AUTONOMIA E LA RESPONSABILITÀ DI SCEGLIERE CIÒ CHE POI LO SPETTATORE AVREBBE VISTO. COME VEDI QUEST’ULTIMO RUOLO, TORNANDO ALLA PARTITA DI PING–PONG? Personalmente mi preoccupo molto degli spettatori, ma da loro non pretendo nulla. Le mostre sono fatte di rappresentazione della forma, così come l’ha suggerita il curatore. Si possono anche vedere come racconti orali, concetto sempre connesso alla messa in dubbio dell’autorialità: cambiano a ogni ascolto, ogni percezione. Quanto al ping-pong, la partita non è mai riservata ai soli contendenti, ma coinvolge sempre anche il pubblico. Ogni volta che la palla viene colpita e supera la rete si crea qualcosa di più; potrebbe essere qualcosa di invisibile, ma esiste.

— Pratchaya Phinthong Give more than you take, 2011 Installation view GAMeC, Bergamo. Photo: Jacopo Menzani. Courtesy GAMeC Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo A SINISTRA

— Pratchaya Phinthong Give more than you take Photo: Steeve Bekouet. CAC Brétigny – Coproduction CAC Bretigny/Gamec Bergamo

TU HAI UNO STUDIO? No, lavoro a casa. VIAGGI MOLTO? Mi muovo abbastanza spesso, ma non poi così tanto. Il mese prossimo vado in Africa per delle ricerche; sarò in Sudafrica, Zimbabwe, Zambia, Etiopia e Kenya. Penso che per un artista viaggiare sia importante, proprio come leggere... Al termine degli studi, nel 2004, il mio progetto per la mostra di fine corso è stato un viaggio via terra verso Oriente, dalla Germania alla Thailandia. Ci ho messo tre mesi perché avevo deciso di usare solo mezzi di superficie. Il lavoro che ne è risultato non consisteva in un muro vuoto; ho invece preso a prestito opere d’arte che mi erano piaciute o mi avevano ispirato, le ho appese e me ne sono andato via prima dell’inaugurazione. Viaggiare soli è molto interessante, è come essere una distesa di terra in attesa di una goccia d’acqua, che sia pioggia, sputo o anche piscio, per poi tornare a seccarsi. Nel corso del viaggio ho appreso e pensato molto alle altre persone, e a cose diverse... Un anno dopo mi sono ritrovato a scrivere un catalogo per una mostra, su tutto quel che ricordavo del viaggio a partire dal primo giorno. Sforzarsi di ricordare i minimi particolari, ogni passo fatto un anno prima, fa venire un gran mal di testa; e il risultato è ancora una miscela di ricordi frammentati e scritti d’invenzione, puoi chiamarlo Ricordi d’estate o usarlo come sonnifero. CHE RUOLO GIOCA LA NON-INTENZIONALITÀ NEL TUO LAVORO? Ho inoltrato la domanda a David Teh, che non sapeva niente del nostro colloquio. E lui ha risposto così: «A dire la verità, per me il tuo lavoro è caratterizzato da una forte vena di concreta intenzionalità: direi anzi che in alcuni pezzi si vede soltanto quella. Le foto dei municipi, per esempio, o le “tarlature”, alcune cianografie e opere testuali. Sono gesti. O magari progetti di ricerca, con un destinatario molto specifico.

Nelle realizzazioni più complesse – Dong Na (2005)2, per esempio – credo invece che diventino importanti le intenzioni altrui. E per quanto sottilmente, accade lo stesso con i dollari dello Zimbabwe3: lì la tua volontà è chiarissima, decisamente formale, ultraleggibile. Ma il motore silenzioso dell’opera è la volontà del cambiavalute, benché sia invisibile. Allo stesso modo, potremmo dire che è l’intenzione altrui a infondere energia al progetto Lapponia; forse per questo è stato importante, negli scambi fra te e il CAC, escludere qualsiasi intenzione. Ritengo che la tua opera sia spesso aperta all’imprevisto: ma non credo questo equivalga a dire che il suo fulcro è “la non-intenzionalità”. (Ecco il paradosso filosofico tra intenzione e non-intenzione: non sono due facce di un’unica moneta. L’artista si propone un intento, oppure no. La non-intenzionalità non può mai essere un valore posto–a quel punto diverrebbe intenzione.)»

WHICH IS YOUR FAVORITE EXHIBITION EVER? (IT CAN BE ONE IN WHICH YOU PARTICIPATED, OR ONE YOU VISITED...) It isn’t an exhibition I have seen, instead I’m thinking about Jay Chung and his “invisible” film, Nothing Is More Practical than Idealism (2001); the one he produced, wrote and directed. It is a short 35-mm-film, shot with a crew of about twenty, but there was no actual film in the camera over the two years the movie was made, though the film crew didn’t know that. In

2 — Per questo progetto, concepito e sviluppato in collaborazione con Pattara Chanruechachai, Phinthong ha creato una piattaforma espostiva all’interno della quale erano messi in vendita i quadri astratti di Mitr Jaiin, pittore che vive a DongNa, che è una cittadina sul lato thailandese del fiume Mekong e non appare sulle carte geografiche. Il ricavato della vendita era destinato a costituire una biblioteca pubblica per Dong-Na (n.d.a.). 3 — What I learned I no longer know; the little I still know I guessed (2009), pila di banconote dello Zimbabwe: l’artista ha cambiato un po’ alla volta in dollari Zim, la valuta più debole del mondo, 5.000 euro guadagnati negli anni recenti del suo lavoro. Durante la mostra presso la galleria gb Agency di Parigi, in cui è stato esposta per la prima volta, le banconote venivano spedite allo spazio espositivo man mano che le operazioni di cambio andavano a buon fine, e quindi la pila cresceva di momento in momento, aumentando il suo volume e il suo valore in trilioni di dollari Zim.


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the end, it was only a photograph of him and his crew as a reference, but I also remember Jay referring to Russian film schools during the war, when there was no money to buy film, and shooting was only a way to have the students practice. DO YOU RECOGNIZE YOURSELF IN THIS “PRACTICAL” IDEALISM? I am interested in practicality and idealism as things that can make us understand reality, if only reality could be known through ideas, and in how this paradox possibly be projected in it. HOW WOULD YOU DESCRIBE YOUR RELATIONSHIP WITH A CURATOR YOU ARE WORKING WITH? Like playing ping-pong. COMPETITION INCLUDED? It’s more about practicing than competing to overcome. IN FACT, IF I GO BACK TO YOUR EXHIBITIONS GIVE MORE THAN YOU TAKE (2011), THE ONE AT CAC IN BRÉTIGNY CURATED BY PIERRE BAL BLANC AND THE OTHER ONE AT GAMEC IN BERGAMO CURATED BY ALESSANDRO RABOTTINI, THIS COMPARISON WORKS PERFECTLY 1. IN THE PERSPECTIVE OF THE EXCHANGE BETWEEN ARTIST AND CURATOR, I WOULD DESCRIBE BOTH AS A CONTINUOUS AND RECIPROCAL CALL FOR A REACTION, FOR A DECISION. I THINK IN THOSE EXHIBITIONS YOU STRONGLY QUESTIONED THE IMPORTANCE OF A GIVEN FORM IN RELATION TO THE SOCIAL PREMISES OF THE EXISTENCE OF A SCULPTURE (OR OF ANY OTHER WORK OF ART). IN DOING SO, YOU QUESTIONED ALSO THE IDEA OF AUTHORSHIP, GIVING TO THE CURATOR THE FREEDOM AND THE TASK TO CHOOSE WHAT THE VIEWER CAN ACTUALLY SEE. HOW DO YOU SEE THE ROLE OF THE SPECTATOR IN RELATION TO THIS PING-PONG GAME? Personally, I am always concerned about the audience, but I have no expectations of it. The exhibitions are made of any representation of forms that curators suggest. They could also be seen as oral history, which is somehow embedded in questioning the idea of authorship: they change each time the viewer perceives it, hears it. In relation to ping-pong, the game is never set only for the two sides, it always involves the audience too. And each time the ball gets hit and crosses the net there is something more there; it might be an invisibility, but it exist. DO YOU HAVE A STUDIO? No, I don’t, I work at home. DO YOU TRAVEL A LOT? I travel quite often, but not so much I guess; I’m

going to Africa on a research trip next month, I will be in South Africa, Zimbabwe, Zambia, Ethiopia, Kenya. I think traveling is quite important for an artist, same as reading... My proposal for my graduation show, after completing my studies in 2004, was that I travel eastwards on an overland trip from Germany to Thailand. It took me three months because I had promised myself I’d use ground transport. My final work wasn’t an empty wall, instead I borrowed artworks that I liked or that inspired me, hung them there and then left before the opening. Traveling alone is very interesting, like a vast land waiting for drop of water, be it rain or even spit or piss, but then drying up again. During the trip, I learned and thought a lot about other people, different things... A year later I ended up writing a book for an exhibition, about all I remembered from the first day of my trip on. Trying hard to remember every single detail, every move you made a year before is really painful for the head, and the result is still a mixture of fragments of memories and invented pieces of writing, you can call it Summer Memories or a sleeping pill. WHAT ROLE DOES UNINTENTIONALITY PLAY IN YOUR WORK? I forwarded your question to David Teh who didn’t know anything about our dialogue; here is his answer. «For me, your work is actually characterized by a quite strong current of concrete intention. I’d even say that in some pieces that’s all you are presenting. The town hall photos, say. The wormholes. Some of the blueprints and text works. They’re gestures. Research propositions, perhaps, sometimes with very specific recipients. In your more complex projects – Dong Na (2005)2, for example – I think what becomes important is the intentions of other people. In a subtle way, I think the Zim 3 dollars are the same: your own intention here is very plain, very formal. Super-legible. But the intentions of the currency dealer, even if they’re not legible, are really the silent engine of the piece. In a similar way, we could say that other people’s intentions are what energize the Lapland project. Maybe this is why, in the exchanges between you and CAC, it was important to keep intentions out of it. I think your work is often open to the unforeseen. But I don’t think this is the same as saying ‘the unintentional’ is somehow important. (That’s the philosophical paradox of the intentional/ unintentional - they are not two sides of one coin. For the artist, either there is intent, or there is none. The unintentional can never be a positive value - that would make it intent.)»

1 — Invited in Sweden for a residency at IASPIS, the artist decided to spend his time picking wild berries, like many other Thai people do. Everyday he texted the weight of his daily harvest to curator Pierre Bal Blanc, who was to collect an equivalent amount of a material of his choice and display it at the Pratchaya Phinthong exhibition at CAC. The same exhibition was organized in a second venue, the GAMeC, where Alessandro Rabottini chose to display a different material. Moreover, Phinthong dismantled and stole one of those control towers used to watch over the harvest workers and asked both curators to display it in the preferred form. 2 — For this project, designed and developed together with Pattara Chanruechachai, Phinthong created a display platform to sell the abstract paintings of Mitr Jai-in, a painter who lives in Dong-Na, a small town on the Thai side of the Mekong River that does not appear on the map. The proceeds from this sale were used to finance a public library in Dong-Na [author’s note]. 3 — What I learned I no longer know; the little I still know I guessed (2009), stacks of dollar bills from Zimbabwe: a little at a time the artist exchanged € 5,000—he had earned from his work in previous years—for Zimbabwe dollars, the most devalued currency in the world. During the exhibition at gb Agency in Paris, where the work was shown for the first time, the money was sent to the gallery each time the exchange operations were completed. The bills were thus gradually added to the piles as the work progressively increased in size reaching the value of trillions of ZWD.


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PISCINA DI SPECCHI FUSI VINCENZO LATRONICO INTERVISTA RAIMUNDAS MALAŠAUSKAS

COMINCEREI FACENDO FINTA DI ESSERE UNO STORICO DELL’ARTE DEL FUTURO. DICIAMO CHE UN VIRUS HA FATTO TABULA RASA DI TUTTI I DISCHI FISSI DEL MONDO E CHE SI È PERSA BUONA PARTE DELL’ARTE CONTEMPORANEA, TUTTAVIA – CON QUEL CHE RESTA DELLA DOCUMENTAZIONE CARTACEA – CERCO DI RICOSTRUIRE LE VITE E LE TEORIE DI ALCUNI CURATORI ATTIVI, DICIAMO, TRA IL 2008 E IL 2012. OVVIAMENTE PROCEDO COSÌ: METTO INSIEME PIÙ MATERIALE POSSIBILE SULLE LORO ATTIVITÀ, E LO USO PER CAPIRE CHE TIPI ERANO, CHE COSA GLI INTERESSAVA, COME LA PENSAVANO. DI RAIMUNDAS MALAŠAUSKAS, PER ESEMPIO, TROVO SCULPTURE OF THE SPACE AGE, IL PROGETTO CREATO PER CORRISPONDENZA, LO HYPNOTIC SHOW E LA MOSTRA SU CLIFFORD IRVING. NE DOVREI CONCLUDERE PER FORZA CHE ERI O UN FALSARIO, O UN PERSONAGGIO INVENTATO. SBAGLIEREI? Se tu sei nel futuro, io sono in qualche altro futuro, o magari addirittura morto. Ora come ora, non mi preoccupo tanto del fatto se esista o meno, quanto della possibilità di considerare realtà alternative. Che dire, da questo punto di vista? È bello

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VINCENZO LATRONICO TALKS TO RAIMUNDAS MALAŠAUSKAS

che il contenuto di questi progetti cambi e si rimodelli ogni volta che qualcuno ci si avvicina: se ricordo bene, era questo che entusiasmava anche me entrando in una narrazione preesistente, che fosse la mostra Sculpture of the Space Age o la faccenda di Clifford Irving. Buona parte di ciò che si credeva perso, in quegli anni, in realtà non era perso affatto. Faceva parte della strategia per far circolare le opere, o era un modo di posizionarsi rispetto all’inaccessibile o all’inconoscibile, o almeno a quello che all’epoca si chiamava “inconoscibile”. Poi lo si è chiamato in altri modi. SAPRAI BENE CHE LA DOCUMENTAZIONE SU ALCUNI TUOI PROGETTI È BASATA PER LO PIÙ SUL SENTITO DIRE, SU “LEGGENDE ORALI ” QUASI, ANCHE PERCHÉ È MOLTO DIFFICILE CAPIRCI QUALCOSA, PER DIRE, DALLA FOTO DI QUALCUNO CHE GUARDA UN OLOGRAMMA. Però dal punto di vista dell’ologramma non è poi così difficile. Volevo creare una mostra che andasse per forza affrontata di persona, otticamente e fisicamente, non un file PDF, un video o una foto in una rivista. La mostra con gli ologrammi è stata realizzata pensando a un visitatore in carne e ossa. O, come dice Pierre

Huyghe sugli ologrammi appunto, “da una posizione mentale diversa”. L’ATTIVITÀ DEI CURATORI È VISTA SPESSO (E SEMPRE DI PIÙ) COME UNA FORMA DI NARRAZIONE. DA QUESTO PUNTO DI VISTA IL CURATORE SCEGLIE/ DISPONE LE OPERE D’ARTE IN MODO DA “CREARE” UN’INVENZIONE CHE PRIMA NON ESISTEVA: UNA STORIA. QUINDI LA CONTRAPPOSIZIONE È, TIPO: CURATORE + ARTISTI + OPERE (REALI) | STORIA (INVENTATA). NEL CASO DI ALCUNE TUE MOSTRE, PERÒ, LE COSE NON STANNO COSÌ: L’ARTISTA O LE OPERE VANNO A FINIRE DALL’ALTRA PARTE DELLA BARRICATA. CONSIDERI LA TUA ATTIVITÀ DI CURATORE COME UNA FORMA DI NARRAZIONE? E SE SÌ, QUELLA CHE SCRIVI È UNA STORIA METANARRATIVA? Mi attraeva l’idea di scrivere, si trattasse di un romanzo, un saggio, o un programma cognitivo che simula l’esperienza. Mi piaceva anche l’idea di non-scrivere. Comporre situazioni a partire da opere d’arte, possibili luoghi di proiezione, caratteristiche di oggetti, aspettative e storie non doveva per forza essere collegato alla scrittura. Forse questo ci dice che la storia non era il mezzo espressivo dominante.


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Un tempo paragonavo ogni mostra a una chimera, come nell’estetica manierista, dove la chimera era un modello di bellezza e contaminava i sensi. Nasceva come composizione di parti provenienti da realtà distinte, spesso slegate tra loro. Quando ho cominciato a lavorare con gli ologrammi, il mio primo impulso è stato di creare un personaggio completo, come quelli che si incontrano nella letteratura realista, ma immerso in una dimensione ottica. Certo già all’inizio si trattava di un personaggio composito, formato da diversi attori: più lo studiavo, e più diventava complesso. Si vedevano i miei occhi al posto delle tue gambe, la lingua dove si trovava il cervello, dati inquietanti, particolari su tutto l’intero, lo sfondo che agitava la coda, la testa inserita nel ciclo mestruale di qualcun altro, logica fatta di polvere, volontà che fluttua nell’energia neuromuscolare della festa di ieri, una parte che diventa tre, sinergia di metafore obsolete, illusioni vicino a una schiena. Il tutto avvinto nel tempo e nello spazio tramite connessioni non locali, così il dito infilato nel didietro del tempo apparteneva a un pulsante di domani, ma anche all’occhio dell’osservatore che un giorno avrebbe tenuto tutto insieme. Lo vedi? Le apparenze non sono per forza legate l’una con l’altra, e nemmeno i loro legami. Più la osservavo, più la chimera si disfaceva. Come nuotare in una piscina di specchi fusi. LO SFUMARSI DELLA CONTRAPPOSIZIONE TRA OGGETTO ED ESPERIENZA SFUMA ANCHE LA DISTINZIONE TRA L’AUTOBIOGRAFIA COME MEZZO “CREATIVO” E IL PROFILO BIOGRAFICO DEL CURATORE O DELL’ARTISTA COME STRUMENTO FONDAMENTALE NEL SISTEMA ARTE (UN APPARATO FATTO DI AUTORIALITÀ). MI SEMBRA CHE LA MAGGIOR PARTE DEI TUOI PROGETTI TENDANO A METTERE IN DISCUSSIONE QUESTO FATTO E, CURIOSAMENTE, DALLA PARTE DEL CURATORE. L’AUTORIALITÀ DELL’ARTISTA È STATA DISCUSSA A FONDO E LA SUA MORTE, ANNUNCIATA PIÙ VOLTE: MA QUELLA DEL CURATORE? SECONDO TE, MAN MANO CHE L’ATTIVITÀ DEL CURATORE SI AVVICINA A QUELLA DI UN AUTORE, BISOGNA METTERE IN DISCUSSIONE

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ANCHE QUESTA AUTORIALITÀ? C’ENTRA CON QUELLO CHE STAI FACENDO? Si dice che mi abbiano sorpreso molte volte a lavorare per la morte di questa contrapposizione; forse è vero. In Sculpture of the Space Age l’unica cosa firmata, centinaia di volte, era la mia lettera a Matthew Young, il protagonista del racconto di J.G. Ballard. Penso che anche tu le firmi, le lettere che scrivi. ANCHE GLI ARTISTI RACCONTANO STORIE, E A VOLTE È DIFFICILE DIRE SE LA TUA ATTIVITÀ SIA PIÙ DA CURATORE O DA ARTISTA. OVVIAMENTE È UNA QUESTIONE DI GRADI, O FORSE DI ETICHETTE; SO PERÒ CHE IL TUO IMMINENTE PROGETTO LONDINESE VERRÀ PRESENTATO COME UNA PERSONALE D’ARTISTA. CHE COSA TI HA SPINTO A CAMBIARE CATEGORIA? È SOLO QUESTIONE DI PAROLE O C’È DIETRO QUALCOSA DI PIÙ SOSTANZIALE? E CHE EFFETTO HA, IN RETROSPETTIVA, SUI TUOI PROGETTI PRECEDENTI? Anche la chimera che ho cercato di descriverti ha mosso qualche passo nel mercato, qualche anno fa. Nello stesso periodo lavoravamo anche con Audrey Cottin per la sua mostra al Jeu de Paume a Parigi. È stata lei a risvegliare il mio interesse per la topologia: forme che definiscono relazioni ben precise nello spazio in funzione di alcuni parametri da specificare. Chiesi a Audrey quale potesse essere una forma topologica in grado di mostrare il funzionamento dei rapporti tra curatore e artista, ed ecco che cosa rimane di una matrice digitale che mi ha mandato: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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I’D LIKE TO START BY PRETENDING I WERE AN ART HISTORIAN FROM THE FUTURE. MUCH OF WHAT WAS GOING ON IN CONTEMPORARY ART IN THIS DECADE HAS BEEN LOST, WHEN A PECULIAR VIRUS WIPED OUT EVERY HARD DISK IN THE WORLD, BUT STILL - WITH SOME PAPER DOCUMENTATION LEFT - I’M TRYING TO RECONSTRUCT THE LIVES AND THEORIES OF SOME CURATORS ACTIVE BETWEEN, SAY, 2008 AND 2012. MY PROCEDURE, OF COURSE, IS: I GATHER AS MUCH MATERIALS POSSIBLE ON THEIR ACTIVITIES, AND FROM THIS I INFER THEIR CHARACTERISTICS, INTERESTS, THEORIES AND PERSONALITIES. OF RAIMUNDAS MALAŠAUSKAS, I FIND, FOR INSTANCE, SCULPTURE OF THE SPACE AGE, YOUR LETTER PROJECT, THE HYPNOTIC SHOW AND THE CLIFFORD IRVING SHOW. MY ONLY CONCLUSION COULD BE THAT EITHER YOU HAVE BEEN A FORGER OR YOU EXISTED ONLY IN FICTION. WOULD THIS CONCLUSION BE WRONG? If you are in future, I must be in some other future too, or even dead perhaps. At the moment I am less concerned now whether I exist or not, but more with an ability to consider alternative realities. What can I say from this perspective? It is good that the contents of those projects is changing and is being remodeled each time someone approaches it - if I remember correctly, that was also part of my excitement to enter some pre-existing narratives like Sculpture of Space Age exhibition or Clifford Irving affair. Much of what claimed to be lost in that decade was actually never lost. It was a part of the strategy of circulation or a way of positioning ones work in relation to the inaccessible or the impossible to know, or at


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least used to call ‘the impossible to know’ at the time. Later on it entered systems of other names. YOU’RE PROBABLY AWARE THAT SOME OF YOUR PROJECT ARE MOSTLY DOCUMENTED BY HEARSAY, AND ALMOST “ORAL LEGEND”, ALSO BECAUSE IT’S VERY HARD TO UNDERSTAND SOMETHING FROM, SAY, THE SNAPSHOT OF SOMEONE LOOKING AT A HOLOGRAM. It is not that hard to understand it from the perspective of a hologram though. I wanted to produce an exhibition that had to be encountered optically and physically rather than a PDF file a short video or an image in a magazine. Hologram exhibition was produced with a present viewer in mind. Or, in Pierre Huyghe’s words about hologram: “from a different position of mind”. CURATORIAL PRACTICE IS OFTEN (AND INCREASINGLY) SEEN AS A FORM OF STORY-TELLING. UNDER THIS PERSPECTIVE, THE CURATOR CHOOSES/ ARRANGES ARTWORKS IN ORDER TO “CREATE” SOMETHING FICTIONAL THAT DIDN’T EXIST: A STORY. SO THE DIVIDE IS SOMETHING LIKE: CURATOR+ARTISTS+WORKS (REAL) / STORY (FICTION). IN THE CASE OF SOME OF YOUR EXHIBITIONS, HOWEVER, THIS IS NOT THE CASE: EITHER THE ARTIST, OR THE WORKS, END UP ON THE OTHER SIDE OF THE DIVIDE. DO YOU SEE YOUR CURATORIAL PRACTICE AS A FORM OF STORYTELLING? AND, IN THIS CASE, IS IT A META-FICTIONAL STORY YOU’RE WRITING? Writing used to appeal to me regardless of whether it was writing a novel, an essay or some cognitive software for experience. I loved the idea of non-writing too. Composing occurrences out of artworks, possible sites of projection, qualities of objects, your expectations and stories, did not necessary have to be attached to any writing. This may possibly suggest that story was not a predominant medium. I used to think of an exhibition in terms of chimera back to the days. It was Mannerism aesthetics where chimera flourished as a model of beauty and contaminated my

senses. It arrived as composition of parts coming from different, often unrelated domains. When I started to work on hologram my first impulse was to create a full character, something akin to realist literature, yet embedded in optical dimension. Obviously, it was a composite character at the source - composed of several actors. The further I was looking into it, the more intricate it became. You could see my eyes where your legs were, tongue - where brain will be, data - hairy, detail - cut across the whole, whole interchangeable with a hole, background moving its tail, head - enmeshed in someone else’s ovarian cycle, logic - cast in dust, will - spiraling in neuromuscular energy of yesterday’s party, party - in triplication of parts, synergy - in dead metaphors, illusion in proximity of a back. All entangled in time and space through non-local connections, so that a finger in the back of the time belonged to a button of tomorrow, but also to the eye of the viewer that held it together someday. Can you see it? Appearances didn’t necessary belong together, and neither their belongings did. The more I was looking at it the further it was slipping apart. Like swimming in a pool of melted looking glass. THE BLURRING OF DIVIDES BETWEEN OBJECT AND EXPERIENCE ALSO BLURS THE LINE BETWEEN AUTOBIOGRAPHY AS A “CREATIVE” MEDIUM AND THE CURATOR’S OR ARTIST’S “BIO” AS A FUNDAMENTAL DEVICE IN THE ART SYSTEM (AN APPARATUS OF AUTHORSHIP). IT SEEMS TO ME THAT MOST OF YOUR PROJECTS TEND TO QUESTION THAT – AND, CURIOUSLY ENOUGH, FROM THE CURATOR’S SIDE. THE ARTIST’S AUTHORSHIP HAS BEEN DISCUSSED THOROUGHLY AND ITS DEATH HAS BEEN STAGED MANY TIMES: BUT WHAT ABOUT THE CURATOR’S? DO YOU THINK THAT, AS CURATORIAL PRACTICE GETS CLOSER TO AUTHORSHIP, THIS AUTHORSHIP ITSELF NEED BE QUESTIONED? IS THIS A PART OF WHAT YOU’RE DOING? People say I’ve got caught several times on working on the death of the divide. This could be true: In Sculpture of Space Age the only thing that was signed several hundreds of times was my letter to

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Matthew Young, the protagonist of J.G. Ballard’s story. I assume you sign your letters too. STORYTELLING IS SOMETHING THAT ALSO PERTAINS TO ARTISTS – AND AT TIMES IT IS HARD TO TELL WHETHER WHAT YOU’RE DOING IS CLOSER TO A CURATORIAL OR AN ARTISTIC PRACTICE. IT COULD, OF COURSE, BE A MATTER OF DEGREES, OR RATHER OF LABELS; BUT STILL, I KNOW YOUR UPCOMING PROJECT FOR SUNDAY, IN LONDON, WILL BE PRESENTED AS AN ARTIST’S SOLO SHOW. WHAT LED YOU TO SWITCHING THE CATEGORY? IS IT JUST A MATTER OF NAMES, OR IS THERE SOMETHING MORE SUBSTANTIAL TO IT? AND HOW DOES THIS APPLY, IN RETROSPECT, TO YOUR PAST PROJECTS? The chimera I’ve tried to describe you a few years ago had exercised its foot in the market too. Around the same time we were also working with Audrey Cottin on her exhibition at Jeu de Paume in Paris. She raised my interest in topology - forms defining specific relations in space in some unspecified parameters. I asked Audrey what would be a topological shape demonstrating the workings of the relationship of figures of curator and artist, here is what is left from a digital matrix she has sent me: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


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RITARDO DI VETRO A CURA DI EVA FABBRIS — Nel 1993 Mike Kelley (Detroit, 1954) viene invitato a partecipare a Sonsbeek con un’installazione. Kelley invece cura la mostra The Uncanny, dedicata alla rappresentazione del corpo umano. Nel 2004, la mostra, rivista e aggiornata, viene presentata alla Tate Liverpool e al MUMOK di Vienna. Nel 2010 la Biennale di Gwangju curata da Massimiliano Gioni, includeva un tributo in forma di ricostruzione parziale non autorizzata di The Uncanny. — In 1993 Mike Kelley (Detroit, 1954) was invited to contribute to Sonsbeek with an installation. Kelley instead curated an entire exhibition The Uncanny, dedicated to the representation of the human body. In 2004, the show—revised and updated—was presented at Tate Liverpool and at the MUMOK in Wien. The 2010 Gwangju Biennial, curated by Massimiliano Gioni, included a tribute to Kelley’s work in the form of an unauthorized partial reconstruction of The Uncanny. Veduta parziale della ricostruzione della mostra di Mike Kelley The Uncanny presso 10,000 Lives: The 8th Gwangju Biennale. Partial view of the reconstruction of Mike Kelley's exhibition "The Uncanny" at 10,000 Lives: The 8th Gwangju Biennale.

THE UNCANNY


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GEORG BASELITZ GUT GRAU

In seguito al successo della mostra EROI, la Fondazione per l'Arte Moderna e Contemporanea CRT sostiene ancora una volta le politiche di acquisizione della GAM, le cui collezioni si arricchiscono di un nuovo capolavoro contemporaneo: Gut Grau (olio su tela 250 x 200 cm), opera del 2009 del maestro del neo espressionismo tedesco, Georg Baselitz. After the success of the EROI Exhibition, CRT Foundation for Modern and Contemporary Art supports GAM acquisitions policy once again. The museum collections gain a great contemporary masterpiece: Gut Grau (oil on canvas 250 x 200 cm) , realized in 2009 by the master of German neo-expressionism, Georg Baselitz. Photo: Jochen Littkemann, Berlin

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VIDEOTECA MERIS ANGIOLETTI

ZEITGEIST, 2011 DI SERGIO RICCIARDONE ED ELENA VOLPATO

6 novembre 2011 ore 17:00 – Videoteca GAM

Grazie alla Fondazione per l'Arte Moderna e Contemporanea CRT Club to Club Festival e la Videoteca GAM presentano per il secondo anno il progetto Zeitgeist ideato come momento d’incontro tra arti e luoghi appartenenti a diverse culture. Meris Angioletti è stata invitata a realizzare un video dedicato ad una delle tre città - Torino, Milano e Roma - da cui prende le mosse l’edizione Club to Club 2011. Come l’anno scorso Carlos Casas lavorò su Istanbul e Torino, Angioletti ha scelto di lavorare su Roma, vista come paesaggio di memoria e cultura

in proiezione fino a sabato 10 dicembre 2011

cinematografica. L’installazione prosegue l’indagine dei rapporti conoscitivi tra parola, immagine e suono che l’artista ha sin qui condotto con non comune coerenza. In questo progetto è soprattutto il diverso senso del tempo e della realtà che hanno in sé connaturati quei tre elementi espressivi a risultare centrali. Il cinema a cui si fa riferimento non è infatti quello del neorealismo, ma il più antico cinema muto dove la parola compariva scritta, come immagine, soltanto dopo la sua rappresentazione mimica, dopo la visione

della sua enunciazione labiale, e dove la musica della colonna sonora apparteneva ad un presente diverso da quello del fluire volatile delle immagini cinematografiche, fisicamente incardinato nel qui e ora dell’esecuzione in sala. Il video si muove nel “dietro le quinte” del cinema, negli spazi e nelle architetture, alla ricerca delle origini dell’immagine in movimento - scrive l’artista - si compone di brevi scene, in cui tre personaggi silenziosi esplorano di notte luoghi reali della città di Roma e scenografie ricostruite all’interno degli studi di


MAG #3 - GAM MAGAZINE

Cinecittà. Il piano della città reale e quello di un altrove cinematografico si sovrappongono, creando una geografia immaginaria. Non ci sono parole tra i personaggi, ma solo gesti, a metà tra la danza e il mimo, che lasciano spazio ad un dialogo fatto solo di immagini. L’opera sarà sonorizzata dal vivo, con l’aiuto di un rumorista e di un tecnico audio, che rinnoveranno l’ambiguità percettiva tra presente corporeo del suono e evanescenza dell’immagine cinematografica propria delle proiezioni accompagnate dai pianoforti meccanici di un tempo.

Thanks to the support of the CRT Foundation for Modern and Contemporary Art, Club to Club Festival and the GAM Video Library present the second edition of the Zeitgeist project designed to bring the arts into venues that belong to a different culture. Meris Angioletti has been invited to create a video on one of the three cities– Turin, Milan and Rome – hosting the 2011 edition of Club to Club. Just like Carlos Casas worked on Istanbul and Torino for the past edition, this year Angioletti chose to work on Rome presenting it as a landscape of memory and film culture. With her installation the artist resumes her exploration of the cognitive relations between word, image, and sound, as done in previous works with uncommon consistency. In this project the three expressive elements are intrinsically embedded in the different sense of time and reality that the images convey. In fact, the work alludes to a cinema that does not relate to Neo-realism, but to the past of silent cinema; a time when words only appeared —as images—on the screen in written form only after they had been mouthed and acted out, while the soundtrack, performed in the hic et nunc of the screening, belonged to a different moment in time from that of the volatile flow of movie images. As the artist explains, the video moves about “behind the scenes” of cinema, within its spaces and architectures, in search of the origin of moving images. It consists of short night scenes, where three silent characters explore the city of Rome and the movie sets

in the studios of Cinecittà. The map of the real city and that of an ideal cinematographic place overlap creating an imaginary geography. The characters never speak. They communicate with gestures, without a word, in a sort of dance or mime, leaving space for a dialogue that consists of images only. Sound will be played live with the help of a foley artist and an audio engineer, whose performance will renew the perceptual ambiguity created by the physical present of the sound being added to the video and the evanescence of the cinematographic image— echoing the past when film screenings were accompanied by the sound of mechanical pianos. Presentation: November 6, 2011 at 17:00 Videoteca GAM, Via Magenta 31, Turin Screening until Saturday, December 10, 2011

A SINISTRA

— The Curious and the Talkers film sonoro, versione francese, 16’32”, fari tatrali RGB. Particolare dell’installazione a La Galerie, Centre d’art contemporain de Noisy-le-Sec Photo: © Cédrick Eymenier, 2011

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MERIS ANGIOLETTI Nata a Bergamo nel 1977. Nel 2004 si diploma all’Accademia di Brera. Tra le mostre recenti: 2011 La Galérie, Noisy-le-Sec (personale), IllumiNations – 54 Biennale di Venezia; 2010 21x21, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, Rudolf Steiner und die Kunst der Gegenwart, Kunstmuseum Wolfsburg, Wolfsburg; 2009 I describe the way and meanwhile I am proceeding along it, Fondazione Galleria Civica di Trento (personale), Ginnastica Oculare, GAMeC- Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo (personale); 2008 T2-Le 50 Lune di Saturno, Torino, Pavillon#7, Palais de Tokyo, Parigi. Nel 2005 è stata artist-in-residence presso il Centre de Recolléts – Dena Foundation a Parigi. Nel 2006 ha lavorato a Maastricht dove, in collaborazione con l’istituto psichiatrico Van Gogh di Venray ha realizzato Travel Tales, un radiodramma che ricostruisce i racconti di viaggio di un paziente affetto da fuga compulsiva. È stata residente presso Le PavillonLaboratoire de crèation du Palais de Tokyo, Parigi per l’edizione 2007/2008 e finalista di The Spirit in any conditions does not burn – 7. Premio Furla nel 2009. Nel 2010 si è aggiudicata la residenza presso ISCP-NY per la borsa Premio New York del Ministero degli Affari Esteri. She was born in Bergamo in 1977. In 2004 she received a degree in Fine Arts at Brera Academy. Among her recent exhibitions: 2011 La Galérie, Noisy-le-Sec (solo), IllumiNations – 54 Venice Biennale; 2010 21x21, Sandretto Re Rebaudengo Foundation, Turin, Rudolf Steiner und die Kunst der Gegenwart, Kunstmuseum Wolfsburg, Wolfsburg; 2009 I describe the way and meanwhile I am proceeding along it, Fondazione Galleria Civica di Trento (solo), Ginnastica Oculare, GAMeC- Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo (solo); 2008 T2-Le 50 Lune di Saturno, Turin, Pavillon#7, Palais de Tokyo, Paris. In 2005 she was artist-in-residence at Centre de Recolléts – Dena Foundation in Paris. In 2006 she worked in Maastricht in collaboration with the Psychiatric Institute Van Gogh of Venray realizing Travel Tales, a radiodrama that reconstructs travel tales of a patient who kept compulsively escaping. She was in residence at Le PavillonLaboratoire de crèation of Palais de Tokyo in Paris, 2007/2008 edition, and was finalist of The Spirit in any conditions does not burn – 7. 2009 Furla Prize. In 2010 she received the New York Prize grant of Italian Ministry of External Affairs.


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BACKSTAGE ALLESTIMENTI

ALLESTIMENTO MOSTRA EROI

01| Disimballo di / Unpacking of Pawel Althamer, Self Portrait, 1993 Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino

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02| Allestimento dell’opera / Installation of the work Pietro Roccasalva, Senza titolo, 2005 Collezione Edoardo Gnemmi, Milano / Edoardo Gnemmi Collection, Milan 03| Posizionamento di / Installation of Francesco Clemente, Autoritratto con Juventus - Torino, 2011 Collezione dell’artista / Collection of the artist 04| L’artista Danh Vo lavora all’installazione di / Artist Danh Vo working at the installation of Central Rotunda/Winter Garden, 2011 Courtesy l’artista e Galerie Isabella Bortolozzi, Berlino / Courtesy the artist and Galerie Isabella Bortolozzi, Berlin




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