RISING.SUBBART#12

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ISSUE#12

ESPLOSIONI 4 SUBPOSTA 6 SCHEGGE 7 ESPLOSIONI 13 L’ONDA, LA MASSA E IL “NUOVO ‘68” 15 SURFIN RIFFA 16 CHE FINE HA FATTO L’ONDA 18 SUNSHINE COMMUNIST 22 GIORNI DI RABBIA

28 F=ma 31 POSTER 34 ESPLOSIONI DEL SILENZIO 40 MUZAK REVIEW 50 PANZAROTTO AUTOMATICO 52 RISING NEWS

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SUB

POSTA

ERASMUS DA VILNIUS Mio caro Rising.Subart, complimenti sei fantastico! Pieno di foto e consigli utili per la vita di tutti i giorni! Studio giurisprudenza e anche io come tanti mi sento in “vacanza da una vita”. I mei amici sono tutti drogati fancazzisti nullafacenti...ma che ci vuoi fare a noi piace cosi! La mia villeggiatura attuale la sto svolgendo a Roma, divido una casa con 3 ragazze, ed è proprio questo il motivo del mio scriverti. Tra poco verrà ad abitare con noi una ragazza erasmus lituana, vorrei farla integrare al meglio e per la sua prima sera qui vorrei cucinare qualcosa di tipico del suo paese, tu che giri il mondo e sei un appassionato di tradizioni culinarie cosa mi consigli di prepararle? Inoltre so che sei anche un esperto di design degli interni, il giardino di casa nostra sembra il passeggio dell’ora d’aria di un carcere, cosa posso fare per migliorarlo? Ancora un’altra domanda, poi giuro la smetto, ho un caro amico che è un pò una puttanella, non esce se non si sente bella (scusa la rima) tra un pò è il suo compleanno e vorrei regalargli una cura d’ ormoni maschili che dici si offende? TVUKDB baci Mary da Roma.Ti salutano anche le mie amiche Maria katch, Betta Pelletta e Laura Cruz. Ps: se posso permettermi perchè con ogni numero non distribuisci anche dei gadgets come faceva il buon caro vecchio “Cioè”? E perché al centro pagina invece che quei disegni incomprensibili non metti un poster del tuo editor completamente nudo?

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Il miglior modo per mantenere un segreto è quello di pubblicarlo su questo magazine e firmarsi con un nome fittizio. Invia subito le tue subposte a questa mail subbposta@subbart.tk Io so già cosa devo scrivere. Certo, è così semplice...o quasi. In realtà la ragazza erasmus a quest’ora è già tornata dalle parti di Vilnius e magari in questo momento si trova insieme al suo futuro sposo al balletto di chissà quale opera. Non è stata del tutto inutile la sua presenza qui: se non fosse stata per lei e soprattutto per il suo ragazzo non avremmo mai potuto liberarci del complesso della pelle troppo bianca poiché il caro interior designer baltico ha portato verso oltre ogni più astrusa immaginazione la nostra personale idea di “avere la carnagione chiara”. Ricordo anche la prima sera a Roma della ragazza lituana. Non mangiò nulla ma in compenso la portammo a bere. E per lei penso sia stato come quel che per noi potrebbe essere l’idea di assistere ad un balletto: una cosa inedita. Soprattutto però, ricordo la prima volta che ci incontrammo. Era d’estate e noi s’era in Salento. Eravamo in quel bar sulla spiaggia perché i miei amici cafoni erano rimasti folgorati dalle numerose macchine parcheggiate ai bordi della strada, una specie d’esca infallibile per i gggiovani di questi tempi in cerca del nulla quotidiano. Si potrebbe pensare che il caos sia generato da volontà divine, invece, almeno quella volta, si trattava della mentalità cafona imperante...in ogni caso ne è valsa la pena e Dio

si limiti a proteggere per sempre da ogni sventura i miei fratelli. Non vi era proprio nulla di speciale, se non all’improvviso l’incrociarsi con gli occhi più cristallini, magnetici e profondi di tutta la galassia. E’ come se l’intera bellezza di tutto il creato fosse stata compressa proprio lì in quei due unici punti visivi, una magnifica e stravolgente visione data dal doversi confrontare con questo sguardo magico in cui tutto il mistero del suo essere donna vi è racchiuso nei suoi ammalianti colori. Mi chiese un accendino, fu un ottimo pretesto per imbastire un intero discorso al fine di continuare a godere della sua presenza. Disse che ad Ascoli la vita è noiosa. Disse che studiava a Roma e viveva con le altre sue amiche dalle parti di San Lorenzo. Mi disse che essere romantici è una cosa molto importante, gli risposi che il romanticismo non serve proprio a nulla, che è solo un raffinato ed abile inganno per mascherare più terrene “ambizioni”. Poi giunse l’alba, albe di altri giorni ancora, intere settimane, mesi. Mi chiedo il perché di questa lettera...credo voglia essere un ulteriore omaggio alla tua infinita bellezza. Per motivi al quale anch’io non saprei darvi risposta. O forse perché - almeno per un istante - nei tuoi occhi son riuscito a vedere l’eterno.

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SCHEGGE +++++++++++++++++++++++++++++++

La schizofrenia è la più comune manifestazione delle psicosi. Numero di nuovi casi di schizofrenia che ogni anno vengono registrate in Italia dalle 7 alle 14 ogni 100mila abitanti +++++++++++++++++++++++++++++++ Durante l’ultimo conflitto palestinese sembra siano state utilizzate diverse cluster bomb da parte dell’esercito israeliano. Le bombe cluster sono armi costituite da un contenitore o dispenser contenente “sub-munizioni” esplosive nel numero variabile di 200-250 unità. Il dispenser portato da un aeromobile viene sganciato sull’obiettivo, si apre e lascia cadere per gravità, e quindi con una dispersione casuale, le sub-munizioni, saturando mediamente un’area ellittica di diametro 2000 x 700 m. Una cluster bomb non esplosa mantiene la sua potenzialità letale praticamente all’infinito e diventa molto più pericolosa di una mina antipersona in quanto può esplodere alla minima sollecitazione anche casuale con effetti letali 3 volte superiori a quelli della più potente mina ad azione estesa ad oggi conosciuta. +++++++++++++++++++++++++++++++ “L’esplosione delle Torre Gemelle di NYC è stata la più grande opera d’arte di tutti i tempi”. E’ la considerazione del precursore della musica elettronica, il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen.

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Cai Guo-Qiang è forse il più famoso artista cinese. Noto al grande pubblico per essere stato l’ideatore dei fuochi d’artificio per la cerimonia d’apertura delle olimpiadi di Pechino, Cai ha realizzato una installazione in cui viene riprodotta staticamente l’esplosione di un automobile nel museo di Guggenheim di New York. La polvere da sparo delle esplosioni viene utilizzata da Cai Guo-Qiang anche in opere su carta. L’artista cosparge con polvere da sparo grandi fogli stesi sul pavimento, per poi provocare delle veloci fiammate che lasciano sulla carta delle figure tra l’astratto e il figurativo, paesaggi fantastici, disegni che in alcuni casi richiamano la tradizione calligrafica cinese. +++++++++++++++++++++++++++++++ Sono 31 i ritrovamenti di ordigni esplosivi attribuiti alla figura di Unabomber, il più misterioso attentatore italiano. Di questi 31 ordigni solo 13 sono esplosi provocando 9 feriti. +++++++++++++++++++++++++++++++ Caput Lucis è il più importante campionato di fuochi d’artificio che si tiene in Italia. “CAPUT LUCIS offre al pubblico divertimento e meraviglia, nell’emozione unica di ammirare, a distanza ravvicinata ma in tutta sicurezza, l’esplosione di tonnellate di artifici pirotecnici in una grandiosa coreografia di fuochi, con lanci a ventaglio che raggiungono un’ampiezza di fuoco aereo di oltre 200 metri”. +++++++++++++++++++++++++++++++ Numero di feriti a Napoli durante i festeggiamenti dell’ultimo capodanno: 382. A questi vi è da aggiungere anche un ragazzo morto colpito da un proiettile vagante.


ESPLOSIONI

Anche quest’oggi la sezione “Centro Studi Subbart” proporrà ai nostri lettori i risultati evinti dalle indagini socio-culturali condotte dalla sua troupe specializzata. Il tema che andremo a trattare è quello (scottante) delle “Esplosioni”. Secondo un recente studio condotto dalla “Cafiero Statistiche” l’italiano medio adora le esplosioni. Il 94% degli intervistati ha risposto di apprezzare l’esplosione in ogni suo genere: da quella

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Martin Errichiello ci illustra come preparare una molotow

sempre presente nei film d’azione ai più tradizionali fuochi d’artificio di Capodanno, passando ovviamente per una sana dose giornaliera di boati al telegiornale senza i quali tutte le principali forme di informazione televisive non susciterebbero lo stesso interesse. Solo un misero 4% (assicurandosi di non essere né visto né sentito da nessuno) ha ammesso di avere un po’ paura delle esplosioni e di preferire l’effetto video a quello audio, schierandosi così dalla parte del lampo piuttosto che da quella del tuono. Il restante 2% al momento della domanda: “Mi scusi lei

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cosa ne pensa delle esplosioni?” ha colto la palla al balzo per farsi esplodere in piazza (ferendo gravemente peraltro mezza dozzina di dipendenti della “Cafiero Statistiche”) per ragioni diverse che vanno dall’insoddisfazione personale alla ricerca di un paradiso musulmano, anche se gli intervistatori della “Cafiero Statistiche” avrebbero giurato di aver visto dietro ogni “Esplosione” uomini sospetti in giacca e cravatta stringersi la mano e annuire con soddisfazione. Dunque il punto d’arrivo, nonché il punto d’inizio della nostra indagine è proprio


1) RIEMPIIRE UNA BOTTIGLIA DI BENZINA

questo: “L’uomo ama le esplosioni”: cerchiamo adesso di capire le ragioni chimiche, fisiche e psicologiche che inducono una persona ad apprezzare così tanto un semplice spostamento d’aria accompagnato da un fastidiosissimo rumore.

espande in una sfera centrata nel punto dell’esplosione. Se incontra ostacoli esercita su di essi una forza tanto maggiore quanto maggiore è la superficie investita e quanto più è vicina al centro dell’esplosione”.

“Un’esplosione è un improvviso e violento rilascio di energia meccanica, chimica o nucleare, normalmente con produzione di gas ad altissima temperatura e pressione. L’espansione istantanea di questi gas crea un’onda d’urto nel mezzo in cui avviene, che in assenza di ostacoli si

Più io e la mia equipe ci scervellavamo per cercare di capire la ratio per cui un’esplosione potesse tanto attrarre l’uomo, meno riuscivamo ad avvicinarci ad una soluzione. Un’esplosione, generalizzando, era qualcosa di malvagio, di violento, nel 90% dei casi scaturiva un im-

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2) PUCCIARE UNO STRACCETTO NELLA BENZINA

mediato spargimento di sangue. L’uomo avrebbe dovuto amare per lo stesso motivo, per dirne una, i tumori! E invece no! E per rendersene conto bastava fare caso ai tanti indizi che la società contemporanea subdolamente offriva. Tutti i film che avevano vinto gli oscar negli ultimi 20 anni hanno presentato almeno un’esplosione sin dai minuti iniziali. Chissà perché delle trenta guerre che attualmente annientano il pianeta, l’esplosiva striscia di Gaza era la più seguita. Dei tanti omicidi rituali avvenuti in Italia negli ultimi 30 anni (spiccano i nomi di Pantani, Pacciani o Rino

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Gaetano) l’italiano medio è terrorizzato più di ogni altra cosa dal piccolo maniaco borghese “Una Bomber”. Se i Rockfeller avessero deciso di demolire regolarmente le Torri Gemelle invece di farle esplodere, chissà se la stessa notizia avrebbe riscosso altrettanto successo. Eravamo dominati dalle bombe, d’altronde anche la musica italiana, nelle sue canzoni più famose ha sempre fatto riferimento alle esplosioni; a partire da De Andrè che dedicò un intero album alla potenza della bomba (non cesseranno mai di esistere opere come “Il Bombarolo” o “La Bomba


3) BLOCCARE LO STRACCETTO CON DELLA CERA PER FAVORIRE LA COMBUSTIONE

in testa”), al più metaforico De Gregori con la “Donna Cannone”, passando anche per riferimenti più recenti come “La Bomba Intelligente” dei Bisca, sino ad arrivare alla musica neomelodica (genere più di nicchia) con l’indimenticabile Pino Moccia che cantava “Mio Dio che Bomba di sesso che sei”. C’era qualcosa di subdolo, un motivo filosofico che induceva l’uomo ad apprezzare le esplosioni. Arrivai a pensare che uno dei motivi principali fosse la velocità, l’istantaneità dell’atto esplosivo. L’uomo “confidava” nell’esplosione. Affi-

dava a Lei la risoluzione di tutti i problemi. L’esplosione mutava da un momento all’altro l’ordine delle cose. L’uomo, da sempre insoddisfatto, poteva confidare su un aiuto dall’alto, immediato. La bomba era divina! La febbre dell’esplosione mi stava consumando, adesso facevo parte di quel 94%, mi chiedevo come prima di allora fossi riuscito a restare così imparziale sull’argomento. Non volli più continuare la mia indagine, licenziai tutti i ragazzi della troupe senza addurre spiegazioni. La legge me lo consentiva. Se esisteva

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4) INCENDIARE MASCHERATI E LANCIARE

una risposta al mio tormento avrei dovuto cavarmela da solo. Cominciai a costruire una bomba tutta mia, personalizzata. Per mesi mi rinchiusi nel garage e bullone dopo bullone costruii la più grande bomba del mondo. Altro che Einstein e Fermi la mia bomba avrebbe colpito tutta la Terra, avrebbe ristabilito l’equilibrio iniziale, avrebbe posto la parola fine alle infinite bassezze che deturpavano il pianeta. Avrei salvato il mondo. L’uomo era affascinato dalle esplosioni? Io lo avrei affascinato per sempre. Mi preoccupavo. Nel senso che il mio essere preoccupava

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me stesso, ma ormai era troppo tardi, avevo passato tre mesi chiuso in quel garage, adesso bastava premere il fatidico bottone per coronare tutti i miei sogni di gloria, un ripensamento sarebbe stato da imbecilli. Avevo la possibilità di diventare l’eroe del mondo. Mi vestii bene, in giacca e cravatta, e con solennità, mentre una terribile intuizione mi fece capire che nessuno sarebbe rimasto in vita per apprezzare la mia infinita grandezza, feci click. MARCO MORANDI


L’ONDA, LA MASSA E IL “NUOVO ‘68”

Doveva essere uno tsunami ma si è rivelato più innocuo di un semplice cavallone

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DAVIDE GAMBARDELLA

Quando l’autunno scorso iniziò a diventare “caldo”, nella mente di uno scaltro redattore di un giornale di partito balenò una brillante idea: «Azzardiamo nei titoli un ritorno al Sessantotto – propose al suo direttore – Senti se suona bene: “L’Onda Anomala, vent’anni dopo”!». Al direttore l’idea piacque e, per più di un mese, lo scaltro redattore ebbe da riempire le sue pagine di attualità, che ogni giorno venivano lette da migliaia di gongolanti fautori ed adepti della nuova rivolta studentesca. “Sparare” un titolo in prima nazionale che richiami le masse, si sa, serve a vendere più copie, garantendosi ogni giorno una schiera di lettori che si vanagloria e si sente parte di un qualcosa in cui il più delle volte nemmeno crede o – peggio – che non sa cos’è. È una logica di mercato. Cavalcare la notizia (o meglio «l’Onda») fino ad enfatizzarla, sarebbe servito a far proprio un business rappresentato da una storia avvincente già scritta (il movimento studentesco, le occupazioni, la tensione) ed una serie di attori – e comparse – che fanno di tutto per immedesimarsi velleitariamente in una parte che forse nemmeno i loro genitori hanno mai interpretato. Dopo un paio di mesi di titoloni urlati, però, tutti si accorsero che quell’esplosione altro non era che un’implosione, un’ennesima e clamorosa debacle di un’intera classe politica e dei suoi figli che non vogliono rassegnarsi all’idea di aver perso. È una constatazione che nasce da una banalissima domanda: che fine ha fatto l’«Onda Anomala», quel movimento definito sin dalle primissime battute come il “nuovo Sessantotto”? Dov’è finito quel gran subbuglio paragonato agli anni in cui le masse operaie manifestavano al fianco dei collettivi studenteschi? Alla domanda si può dar risposta anche se si è un buon navigatore di rete o semplicemente se si è iscritti (udite, udite!) a Facebook. Dall’Onda della protesta autunnale per le strade si passa a quella più sottomarina (?), di “propaganda” (?), alla quale partecipano non più “le grandi masse” (?) ma gli amanti dei social network (?) e coloro che consultano i portali vicini alla sinistra antagonista (!). Si legge nel “belligerante” comunicato dif-

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fuso dai collettivi: «La nostra lotta, oggi, interviene su piani esplicitamente interni all’università (…). Alcuni esempi: attivare corsi con programmi e bibliografie alternativi a quelli ufficiali; entrare nei corsi ufficiali e proporre una didattica diversa, partecipata (…)». Traduzione: fine delle occupazioni, stop ai cortei per le strade, azzerati i tentativi di sabotaggio. L’autunno caldo? È passato… Guai però a far notare ai capipopolo che l’Onda è andata ad infrangersi contro l’approvazione della legge Gelmini, perché si giustificherebbero dicendo che “l’autunno sarebbe stato freddissimo” se non ci fossero stati loro: è la premessa del comunicato divulgato su internet, leggere per credere. Già, nessuna accusa o polemica. Ma ora che la legge del ministro del Governo Berlusconi è passata, non sembra che faccia più caldo di prima, anzi. Quel gran movimento paragonato dalla carta stampata a quello del Sessantotto sembra già esaurito, facendo tremar le vene ai polsi di chi gli anni (e non i mesi!) più duri della lotta di classe del nostro Paese li ha vissuti sulla propria pelle. L’emulazione in quei mesi, due “caldissimi mesi” della fine del 2008, ha attecchito fin troppo bene su quelle centinaia e centinaia di giovani studenti che uniti dal legittimo grido “Noi la crisi non la paghiamo!” (“Ma-ad-andare-a-votare-neppure-cipensiamo”…) si sono ritrovati nelle facoltà occupate a fumare canne e a tracannare buon vino rosso, come impone il manuale del buon sessantottino. Quei “combattenti” dell’autunno caldo non si sa che fine abbiano fatto, forse si sentono già appagati dalla lotta, oppure attendono un prossimo fenomeno mediatico in cui catapultarsi, per non sentirsi semplicemente parte dell’anonima massa. In fondo, il loro Sessantotto l’hanno già combattuto, con tanti ringraziamenti dei mass media e di quello scaltro redattore che per più di un mese ha riempito le sue noiosissime pagine di attualità. Se un giorno diventerà direttore di un giornale di partito sarà anche merito loro…


SURFIN’ “RIFFA” SULLA SCIA DELL’ONDA Allora che si fa, eh?! Il ping-pong tra Giusso e Corigliano trova la giusta dimensione in una merda pestata all’altezza del cinema Astra. Corre voce di una festa a Corigliano. Qualcosa da fare. Pulisco le mie Sneakers di tendenza sul marciapiede e sulla ruota di una Clio parcheggiata. Alla porta ci sono le solite facce dell’Onda Anomala vs Gelmini e qualche striscione sulla manifestazione dell’indomani a Chiaiano. Dopo la calma delle acque tropicali natalizie, l’onda, a ritmo di reggae, sale e viene cavalcata andando a sbattere sulla secolare questione della monnezza. Qualcosa da fare. Entro e mi giro sul lato destro. Orde di giovani raggianti in preda al delirio, una voce urla: “Cà sta ‘a man e chist è o’ panar!” Bingo, riffe e tumbulella. Si tenta la (s)fortuna con

due euro: il vincitore della riffa potrà passare una notte di sfrenato sesso con uno del collettivo. Provocazione?! Na Strunzata?! Evidentemente qualcosa da fare. Domanda: chi si farà baciare il culo dalla Dea bendata? Continuo ad alcolizzarmi e fluttuare nel reggae. Finalmente arriva il momento dell’estra(di)zione: votta-votta e fuja-fuja generale. (Tratto da una storia realmente e tristemente accaduta) DIEGO ASTORE


CHE FINE HA FATTO L’ONDA?

COLORS è stata una grandissima rivista. Ci siamo ispirati al loro stile “Ritratto e Testo”: abbiamo fotografato 3 studenti e chiesto i loro pareri sull’onda.

Carlo De Matteis Economia aziendale 3°anno

Ti senti partecipe del movimento? Credi che sia stato negato il tuo futuro? Io sono favorevole alla ribellione e credo che l’occupazione sia stata positiva, ma ormai il mio già l’ho fatto. Il movimento l’ho visto da fuori perché ho già il mio futuro:seguire la carriera di mio padre per svolgere l’attività professionale di commercialista. Se qui non dovesse andare bene, andrò all’estero...In questo mi sento avvantaggiato perché ho vissuto a Londra e conosco bene l’inglese.

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Carmen Fattoruso Giurisprudenza 4° anno

Perché è stato un errore caratterizzare politicamente il movimento? E’ sbagliato etichettare tutto come “antifascista” perché le esigenze degli studenti vanno oltre il colore politico. Poi a me e a tutti gli studenti che non sono di sinistra, avrebbe dato fastidio partecipare a cortei dove sventolano solo bandiere di Che Guevara o con la falce e il martello. Chiunque si sarebbe sentito escluso. Io, politicamente, sono a favore della riforma Gelmini e fan sfegatata di Brunetta:il suo metodo dovrebbe essere applicato anche alla realtà universitaria. Quali sono state le conquiste della lotta?Quali gli ideali? Nel concreto non è cambiato niente. E’ finito tutto perché il decreto Gelmini è stato solo un pretesto per protestare. Pochi lo conoscevano davvero. Gli ideali erano soprattutto ideali politici:solo gli studenti di sinistra si sono veramente mobilitati.


Federico Simonetti Lettere 5° anno

e

filosofia

Che fine ha fatto “l’onda” a cui è stato paragonato il movimento studentesco? L’onda non si è infranta; l’onda è arrivata sulla spiaggia e ha travolto tutta la realtà studentesca portando maggiore consapevolezza. Solo in questo modo, allargando la percezione della realtà, ci si può riprendere il futuro. Uno degli slogan più sentiti è stato: “Se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città”; se l’università non ci offre niente, allora noi autoproduciamo ciò che ci serve; ciò che ci rimane è sabotare per creare nuovi strumenti, rendere conflittuale l’università, crearla da zero. Non si sente più parlare dell’ “onda” perché ai media non conviene; ci sono stati forti silenzi e forti fraintendimenti, perché hanno voluto farci passare per chi è legato a qualcosa che ormai è troppo “vecchio”, per chi segue un movimento ormai anacronistico, legato ai “vecchi” valori del ‘68.

Perché il movimento ha scelto di autodefinirsi “antifascista”?E’ stato un errore quello di etichettare ogni iniziativa come tale? L’antifascismo è il valore fondante di ogni democrazia. Ogni tipo di comunità umana dev’essere necessariamente fondato sull’antifascismo, i fascisti non hanno diritto di cittadinanza in una democrazia. Il fascista è chi dà potere decisionale solo al governo, non riconoscendo quello delle masse critiche. La protesta non ha fatto nessun errore...l’unico “errore” è stato quello del tempo. Quali sono state le conquiste concrete dell’ “onda”?Dobbiamo aspettarci un’altra esplosione? A livello governativo non è cambiato ancora niente,ma adesso c’è più consapevolezza della realtà che viviamo da studenti. Per questo ci saranno sicuramente altre esplosioni. MARIANNA CANCIANI

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THE SUNSHINE COMMUNIST

Un giorno, mentre prendevo il sole fuori al balcone, stavo guardando la nostra democrazia e mi è apparsa una cosa strana. Per un momento la democrazia si è spostata di qualche centimetro, si è mossa un attimo, non so, forse per prendere qualcosa che le è caduto a terra; comunque, mentre si risistemava nel suo solito posto dinanzi a me, sono riuscito ad intravedere uno scenario curioso. Lo so che non vi sarà facile credermi, ma dietro la democrazia si celava una fitta rete di società segrete, c’erano i bianchi, quelli amici della Chiesa e del Vaticano, i neri, quelli fasci-nostalgici, c’erano anche gli aristocratici, quelli savoia-nostalgici, non mancava la grande famiglia ebraica, come c’erano anche le tante logge criminali, quelle che hanno affascinato tanto Saviano nel suo libro Gomorra. Ma la più grande, la più potente, era senza dubbio quella di centro-sinistra. Ho chiesto gentilmente alla democrazia di spostarsi un po’, e mi si aperto tutto un mondo di feste di gala, salotti fastosi in circoli esclusivi, strette di mano in larghi corridoi di palazzi; ma mentre la democrazia era sempre stata cortese ed invitante con me, notai che tutto questo nuovo mondo largamente mi ignorava, e stentavo ad avere anch’io un invito. Allora intravidi in un angolo un gruppo di ragazzi con bandiere e striscioni, sembra-

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va che si stessero divertendo, notai anche che erano notevolmente più polemici degli altri. Erano vestiti in maniera decisamente meno formale. Allora mi unii a loro, erano i comunisti. Ci misi poco per intendere che incarnavamo lo spirito progressista di tutta la faccenda. Ci misi un po’ di più per capire che questo spirito progressista stava in cattive mani. Ecco come sono andate le cose. Feci facilmente amicizia, tanto che mi invitarono subito ad una funzione celebrativa per un certo gruppo di attivisti comunisti in città; non voglio svelare il nome, essenzialmente perché sono simpaticissima gente, e non vorrei offenderli, diciamo che si chiamano, diciamo, laboratorio per l’avanzamento della dittatura proletaria nell’emisfero nord-occidentale, sezione giovani, il Lab.Av.Dit.Pro., cioè, il L.A.D.P. giovani. La funzione si svolgeva con il solito accentramento attorno a tutti i temi che mi stanno profondamente a cuore, c’erano dei rappresentanti delle comunità di immigranti, c’era il bancariello informativo sui vari diritti, c’era il, forse un po’ logoro, video sulle donne e bambini mutilati dal conflitto israelo-palestino-americolibanes-iraqiano. Tutto procedeva secondo l’ideologia che mi sta più vicina. Finché non fu tutto rovinato da uno spiacevole dettaglio. Non ci crederete, ma vi prego cercate di vedere le cose dal mio punto di vista. Quando sono andato a comprare una birra, quest’ultima costava 1 euro e 50 centesimi. Era chiaro che quella fosse una scelta economicamente suicida. In altri posti ero abituato a pagarla quattro, cinque euro. Quindi doveva essere a stento il prezzo di costo, oppure qualcuno era pronto a perderci per il lusso implicito nell’idea che quella birra debba costare poco. Confuso, presi lo stesso la birra e mi voltai verso il resto della fila. A mia sorpresa, riconobbi qualcosa di sinistro nelle facce dei miei compagni. Un sorriso schernitore che avevo visto anche da un’altra parte. Era lo stesso lieve ghigno che c’è sul volto del barbone. Il barbone gode nell’essere parallelo al nostro sistema fatto di sapone e rasoi. Nello stesso modo, vedevo

che tutti godevano nell’essere paralleli all’ancestrale sistema fatto di baratto e scambio di beni. C’era una sorta di snobismo post-bohémien che non mi quadrava. Ebbi l’impressione che l’avversione per il profitto aveva indotti i miei compagni a crearsi un’economia parallela. Ma come era possibile? Non volevo essere parallelo a niente, ero andato lì per essere pienamente al centro delle cose. Questa storia della birra mi preoccupava. Non sono diventato comunista per rimanere un fenomeno da baraccone, e le birre voglio pagarle quanto le pagano tutti! Marx ed Engels si sarebbero disgustati, loro mica pagavano la metà dell’affitto solo perché erano comunisti. Quando, entrando in trattoria, scoprivano che il roast-beef per loro costava di meno, indignati, avrebbero di sicuro chiesto di pagarlo quanto lo pagano tutti. C’era qualcosa di rancido sotto tutto questo, c’era una strana psicosi sotto, c’era una malattia mentale che non appartiene all’uomo medio, all’uomo normale, quello che sta pensando a come guadagnare i soldi per portare la moglie a Sharm al-Sheik, quello che si compra l’elettrostimolatore a rate chiamando in tv; no, tutto questo non era normale, c’era un strano senso di colpa implicito in questo odio verso i soldi. Indagai. Feci conversazione. In più di un occasione potei notare come le mie compagne si vantavano di quanto riuscivano a risparmiare su questo o quell’indumento di seconda mano comprato al mercatino. Osservando questi abiti, vidi qualcosa di losco mimetizzarsi dietro la giacca di velluto, vidi uno strano serpeggiare sotto la sciarpa colorata. Capii subito che cosa era. Erano i soldi, la ricchezza, sì, lei, beffarda e malvagia, in tutta la sua ipocrisia, si nascondeva sotto maschere di povertà servendosi di questa finta, stupida simulazione. D’un tratto, mentre mi bevevo la mia economica birra, mi si è rivelato tutto come un grottesco gioco di cattivo gusto. Il mio stupore non smise quando mi accorsi che, a parte quel filippino un po’

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spiazzato, cioè, quello che non riusciva a decidere se era stato invitato perché fa etnico o perché è etnico, a parte quello, si portavano tutti dietro cognomi composti, pesanti, impegnativi. Appartenevano a famiglie che riconoscevo, era gente che conta in città. Svuotando il mio bicchiere di plastica, non capivo in che senso non si potevano permettere qualche euro in più per la birra. Aleggiava un amaro connubio risparmiocoscienza, come se ci si dovesse per forza regolare qualche conto sospeso. Ed ecco quando la questione della birra smise di monopolizzare la mia attenzione, eclissata dall’immagine che si formava nella mia mente dei genitori dei miei giovani amici comunisti. Mi venne in mente il ‘68. Ma soprattutto gli anni che seguirono, quando, uno ad uno, i rivoluzionari si sono accorti di come funzionano le cose, si sono tagliati la barba, gli è finita la marijuana, si sono invaghiti di quella nuova alfa romeo spider e hanno accettato il modo in cui va il mondo, e con quello, la tessera dei Rotari o dei Lions, o di qualche organizzazione ancora più subdola. Forse una di quelle reti segrete che si celano dietro la democrazia?

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Magari quella grossa di centro-sinistra? Adesso capisco il complesso di questi giovani comunisti. Ebbi un flashback, vidi molti dei personaggi importanti dei partiti attualmente al potere militare in bianco e nero nelle università, occupare, e fare discorsi in piazza sul lavoro e sul capitale, poi tornò tutto in technicolor, e li vedi che giocavano tranquillamente a tennis con i vari gran-maestri di turno. Il pensiero viene da sé, e concludo che essere comunisti, idealisti, occupare scuole e centri sociali, sia una sorta di rito di iniziazione per la futura classe dirigente italiana. Mi guardo attorno, e capisco che sono loro che hanno ammazzato lo spirito progressista di un’era. Sono semplicemente cuccioli di borghesi, solo che hanno quella tenera emotività che li fa giocare ad essere comunisti. I volti dei miei compagni, man mano che li osservavo, si sfiguravano in smorfie demoniache; l’ipocrisia li deformava, la facciata del progresso si spellava, mostrando il volto ghiacciato ed inespressivo del potere. Ero in un qualsiasi tempio pagano, e attorno a me danzavano schiere di falsi idolatri in un qualsiasi sistema di appartenenza. Con l’aggravante che questi diavo-


li si sono presi il doppio lusso di predicare uguaglianza e giustizia da una parte, mettendo a tacere la propria coscienza, per poi tornare nelle loro villette e sguazzare allegramente nei loro schifosi milioni. C’ero cascato anche io, ero entrato nell’illusione, creata dal potere stesso per tenermi lontano da esso, per tenermi parallelo al vero mondo della politica. Mi avevano dato in dotazione una stupida e preconfezionata ideologia tagliata su misura dei miei stupidi sogni. Mentre rinsavivo dalla mia schizofrenia, vedevo il moto progressista della specie, ormai da decenni monopolio di questi ipocriti, disseccato ed incarcerato, incapace di alzare la testa e guardarmi in faccia. Quale rivoluzione potrà mai venire da costoro? Il potere si è impadronito anche delle ideologie progressiste, è diventato sia reazionario che rivoluzionario; è la stessa gente. Sono le stesse famiglie. Sono entrati in possesso anche della volontà di migliorare il mondo, e quel che è peggio, l’hanno regalata ai loro figlioli per giocarci un po’ nel frattempo che si laureano, per poi venire a fare il tirocinio nello studio dello zio, per poi andare a gestire le proprietà di famiglia, per poi diventare quello

che professano di combattere. Smascherateli, smascherateli tutti, prima che anche loro, come i loro genitori, si spoglino della loro tunica francescana per mostrare i veri abiti da corte che celano al di sotto, prima che ti ipnotizzino con i loro slogan e le loro onlus umanitarie, prima che ti trascinino nel loro perverso carnevale di forma e di finzione. Tra non molto il clima ci mangerà, gli arabi ci invaderanno, e il transgenetico ti farà crescere un pene dalla fronte, ma non sarà stata colpa delle destre e del capitalismo, sarà colpa del fatto che noi, noi che vogliamo giustizia, noi che siamo preoccupati del futuro, noi che siamo le forze progressiste del pianeta terra, eravamo troppo occupati a farci dei buchi nei jeans che non sembrassero fatti a posta. E. ALBRECHT

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E mentre negli atenei italiani si giocava al “torneo di risiko antifascista” ad Atene migliaia di persone hanno fatto tremare il corrottissimo establishment politico ellenico. Durante la sera del 6 dicembre, lo studente Alexis Grigoropoulos viene ucciso dalla guardia speciale della polizie ad Atene. La sua morte, nel quartiere di Exarheia, nel centro di Atene, un quartiere pieno di locali e giovani conosciuto per essere il centro dei movimenti anti-autoritari, viene dapprima accolta con stordimento, per poi trasformarsi in protesta. Quella stessa sera, la voce gira e la gente affolla le strade. Nei prossimi giorni la protesta cresce e si sparge per altre città della Grecia. Da dimostrazioni improvvisate si arriva ad una sommossa vera e propria, che mette la capitale a ferro e fuoco. La protesta continua per giorni. Fino alla fine di Dicembre, ogni giorno vede nuove proteste, cortei fuori alle questure, sit in al parlamento e ai ministeri, università e scuole occupate, uno striscione viene innalzato sul acropolis richiamando tutti alla protesta mentre il tradizionale albero di natale nella piazza di Syntagma viene messo al rogo. La protesta provoca un’onda di solidarietà in tutta Europa, dilatando momentaneamente la paura che il movimento possa spargersi anche negli altri paesi. La protesta viene chiamata la rivolta Greca dai giornalisti stranieri. Ma la parola ‘rivolta’ sembra diminuire la reale portata dell’insurrezione e la passione con la quale ci partecipa la gente, per la maggior parte studenti ma anche persone più anziane. Nella stessa Grecia, non si sa come definire quello che sta accadendo: i media prima danno la colpa ai giovani ribelli, per poi puntare il dito contro quella cerchia oscura al di fuori della sfera pubblica che vorrebbero smantellare la

‘’nostra democrazia’’. Il pericolo che la protesta si estenda alle altre città, oltre ai gravi danni riportati ai negozi, banche e palazzi di governo, viene usato per creare una reazione conservatrice tra i cittadini/ telespettatori che pone il diritto alla proprietà privata sopra ogni cosa, soprattutto al diritto di piangere uno studente morto ed al diritto di protestare contro l’abuso di potere da parte delle forze dell’ordine. I politici all’inizio provano ad ignorare la protesta, per poi dare anche loro la colpa alle “cerchie oscure”, implicando parte della sinistra parlamentare ed extraparlamentare. Il Partito Comunista ufficialmente prova a criticare la protesta e la mancanza della lotta di classe nella sua natura, coltivando così i sospetti contro gli altri partiti di sinistra. Accademici ed intellettuali non ne riescono a venire a capo. Il movimento non sembra essere organizzato da nessuno e non ha nessuna richiesta o agenda specifica. Le persone che protestano sono dunque inclassificabili e a breve la protesta si disperderà. Ma la domanda rimane: che cosa sta succedendo, e cosa vogliono questi manifestanti? Perché e Cosa? Nei giorni che seguirono la morte del giovane Grigoropoulos il dibattito si fece caldo. Un’ipotesi si fece avanti: la generazione dei 700 euro, senza prospettiva di lavoro a tempo pieno e con la precarietà e la disoccupazione alle porte, ha cominciato a manifestare per protestare contro il futuro che gli viene prospettato. C’è chi da la colpa ad uno stato cronicamente corrotto, di recente accusato di una truffa di molti milioni di euro che implicava entrambi i partiti e la chiesa. Per altri alla base della protesta c’è una profonda crisi di fiducia nelle istituzioni oltre all’incompetenza e l’autoritarismo della polizia. Ma tutte queste spiegazioni non riescono a mettere a fuoco i reali motivi di una protesta così violenta ed intensa come non se ne vedevano dagli anni ‘70. La morte di un ragazzino 15enne ha funzionato da catalizzatore per persone di diverse età e posizione sociale in un’espressione di risentimento verso un sistema che non fa bene a nessuno. Qualsiasi fossero le ragioni, l’insurrezione stessa le ha sorpassate. I manifestanti chiedevano tutto e niente.

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Scuole migliori, un sistema sanitario per tutti, la responsabilità sociale, la fine della corruzione, ed una vita vissuta dignitosamente. Oppure, come recitava il manifesto dei giovani che occuparono gli uffici della televisione nazionale durante la trasmissione del discorso del primo ministro al parlamento: “Dobbiamo riunirci con gli altri, dobbiamo trasformare gli spazi pubblici, le strade, le piazze, i parchi, le scuole in luoghi d’espressione, incontrarci faccia a faccia in modo che tutti assieme possiamo coordinare le nostre richieste e le nostre azioni. Dobbiamo smetterla di avere paura, dobbiamo spegnere le televisioni, uscire dalle nostre case, dobbiamo pretendere, esigere, dobbiamo prendere la vita nelle nostre mani.”

Murplejane è una quasi architetto di 27 anni nonchè fotografa freelance professional amateur. Beve latte, mangia cioccolato in dosi quotidiane e vive ad Atene insieme al suo compagno Mao Tse Tung. Insieme ad una dozzina di amici atipici scrive su un blog chiamato “Trainstorming” (trainstorming. blogspot.com) e condivide alcuni dei suoi lavori fotografici su questo indirizzo www.flickr.com/photos/murplejane

MURPLEJANE

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DRAMMA ORWELLIANO Il destino mi si pose davanti come un plotone d’esecuzione. Non avevo scampo, avevo solo il tempo per pensare che non avevo scampo. Alzai le mani. Non mi aspettavo che la cella fosse bella, ma perlomeno me la immaginavo in qualche modo “romantica”, come la cella solitaria di Gramsci ad Ustica, oppure quella nel castello di If di Edmond Dantés. Invece la mia era tristemente illuminata da un neon freddo e un po’ stanco, niente candela per creare atmosfera; e sulle mure invece di scritte poetiche oppure incisioni di conti alla rovescia, c’erano solo schizzi di sangue da chi sa quale interrogatorio precedente. Il sangue in qualche modo faceva scena,

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ma il neon non lo sopportavo. Mentre mi interrogavo sulla possibilità di romperlo con la testa visto che ero ammanettato, un uomo apri la cella e si fermò sulla porta. L’Ispettore era un uomo robusto e con la gelatina nei capelli. Uno di quei sbirri con la forfora sulla giacca. Insomma un maiale sadico. Quando ti pestano a sangue succede una cosa molto interessante. La mente si aliena dal corpo e non senti più dolore. Qualcuno dovrebbe dirlo ai maiali sadici che dopo un po’ i loro sforzi sono pressoché inutili. Il suono muto dei calci in faccia quasi diverte, e il sangue sputato sul pavimento assume un sapore freddo e lontano. Ma soprattutto, l’unica cosa


che viene in mente è: come mai i colpi non fanno quel caratteristico rumore che facevano nei film di Bud Spencer? Il dolore lo senti solo dopo qualche ora, e anche allora, te lo godi quasi come una medaglia alla sopravvivenza. Mi venne in mente che forse, dopo tutto, l’ispettore ed io avremmo fatto una bella coppia. Ma ecco che entrò il procuratore con un bicchiere d’acqua. -:“Bevi.” -:“No, dai, la routine sbirro cattivo sbirro buono no, e che cazzo, siamo nel 2000.” Mentre da dietro vidi entrare una barella con un generatore elettrico e dei cavi appesi, il procuratore mi rispondeva, “Infatti, e dunque beneficeremo della tecnologia moderna”. Tutto il ragionamento sul dolore di prima, lo ritiro. Questo fa male. “I nostri informatori ci hanno detto che hai delle opinioni pericolose. Abbiamo interrogato delle persone che ti frequentano e ci hanno tutti confermato che secondo te il Comune ruba i soldi dalla gente per darli ai mafiosi.” -:“Si, vedo questo e dunque penso questo” dissi io con la bava bianca che mi montava in bocca. -:“Devi sapere che non è così, abbiamo usato quei soldi per la nuova metropolitana.” -:“Ma se fa schifo e non è nemmeno finita.” 20000 volts si abbatterono sulla mia spina dorsale come una mandria di cavalli selvaggi. -:“No, invece è molto bella” disse il procuratore con una voce che proveniva dall’altra parte dell’universo. A quel punto il procuratore alzò quattro dita e chiese, “quante sono queste?” -:“Quattro.” I cavalli ripresero la loro cavalcata, questa volta arrivando fino alla punta del mio cranio. -:“Sono cinque” disse il procuratore. -:“Quattro.” Shock. -:“Cinque.” Ogni nervo del mio corpo pulsava puro dolore. Quel che rimaneva della mia vista era confusa ed annebbiata. Lacrimavo sangue e respiravo a malapena attraverso la schiuma che mi sputavo addosso. Che ne posso sapere io quante dita sono. Quattro, cinque, che importanza ha? Sono cinque, va bene cinque, si, cinque.

“Cinque” mormorai. -:“Sicuro che ne vedi cinque?” Entrai in uno strano vuoto. Non percepivo né tempo né spazio, solo un lungo fiume con la morte sorridente che dondolava in piedi su una larga canoa. Figure fantasmagoriche dal mio passato mi si affollavano attorno. I miei nonni, i miei maestri alle elementari, i miei primi ed ultimi amori, i miei amici. La morte mi tende il braccio, e ben vestito, in smoking bianco, sorride, mi dice, “su, dai, non ci cascare, lo sai che sono quattro le dita che vedi.” Il momento che seguì durò un’eternità. Un unico, lungo dramma, lungo quanto una vita. I fantasmi presero a svolazzarmi attorno, allontanando il signor morte sempre di più. Non so perché dicevo quattro prima, effettivamente ne vedevo cinque, c’erano cinque dita su quella mano. Dissi “cinque” come quando si esce da una lunga apnea. La voce del procuratore ritornò da lontano. “Adesso sei un uomo libero, adesso vedi la verità, e la verità ti ha reso libero. Non c’è nulla oltre la verità.” La voce si fece sempre più vicina affinché non venne a combaciare esattamente con il sorriso sulla bocca del procuratore. Misi a fuoco quella bocca, quel naso, lo vidi respirare aria, sorridere di nuovo. -:“Ti piace la nuova metropolitana?” -:“Si.” Risposi senza sapere perché. L’ispettore di prima girò la barella su cui stavo e mi portò fuori, attraversammo un corridoio con altri neon, una rampa, due porte, il sole, ed ero veramente libero. Qualche mese dopo mi trovai a girare per la città senza meta. La città era una ferita aperta. Ad ogni mio passo calpestavo muscoli, nervi e tessuti. Imbucai l’ingresso della metropolitana, feci il biglietto e mi sistemai su uno scalino della scala mobile. Scendevo e ascoltavo depresso il ronzio elettrico del motore sotto i piedi, poi lo stridore prolungato del treno che si fermava sui binari, poi la ventola dell’aria condizionata nella carrozza. E. ALBRECHT

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Stando alla (1), l’accelerazione è una conseguenza di un’esplosione, o dell’applicazione su di una forza, su di una certa massa m. La fisica regola i più remotamente immaginabili fenomeni culturali. Io sono iscritto a Facebook dal 2007, navigo su internet da quando avevo 12 anni. Sono quindi un ragazzo che, parzialmente formato, ha iniziato a fare uso di uno strumento velocissimo, ed in crescita esponenziale, per esprimere le proprie idee, incontrare persone con i medesimi interessi e via discorrendo. Ho quindi immesso la mia essenza ‘formata’ e ‘formantesi’ in un sistema velocissimo, da cui è probabilmente scaturita una conseguenza psichica sulla mia crescita.

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A Tatami di quasi un anno fa si discuteva di come Facebook prendesse piede in Italia - invitati erano un editore ed una scrittrice. Il primo abbondantemente a favore di Facebook, e la seconda che ne disprezzava usi, finalità e richiami. Guardandolo mi sono reso conto di come effettivamente utile fosse il social network: avere un certo numero n di amici a portata di “cerca” in alto a destra, facilmente rintracciabili, facilmente inquadrabili, impazienti di mettersi in mostra e raccontarsi in pochi ammassi di byte. La distanza degli anni ‘90 e dei 9900 anni priori di scrittura si è persa: era necessaria l’intenzione per effettivamente comunicare con qualcuno, era necessario il corpo, un’espressione, una lettera, un tono di voce, una telefona-

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ta, un movimento per scrostarsi dalla sedia. Un’esplosione, dunque, una minima accelerazione impressa su di una massa. Poi è balenata l’illuminazione: intere vite si svolgono ormai su internet, su mezzi non reali, non corporei, non fisici, non tangibili. Eppure, la percezione di una qualunque interazione o avvenimento su facebook è intensa quanto quella di un’interazione reale, corporea, fisica, tangibile. Forse perché sentirsi padroni di tutto è gradevole, così come rinchiudere intere vite in contenitori stagni e soprattutto “finiti” ed “immobili” è facile e semplice; perché non si riesce ad accettare il rischio di perdere cose e manifestazioni formali e perifrasate della nostra vita (proprio perché si sta perdendo l’essenza in se), si


ama interagire comodamente da casa, si odia la fatica, si odia il percorso, si gode nel gonfiare, nel mostrare, nell’acquisire anche al costo di farlo virtualmente. Ovviamente, l’editore - più anziano, più brutto, più ottuso - amava Facebook perché riusciva a dargli quello che non aveva: la velocità canonicamente propria di quello che è la giovinezza. Ed ovviamente, la scrittrice - più giovane, più gradevole, più acuta - odiava Facebook perché le toglieva quello di cui aveva bisogno, dopo essere cresciuta in un mondo troppo veloce: il tempo di decantazione dei sentimenti. Rendetevi conto: nel momento in cui qualcosa non è validato da facebook o internet

o tv o altro, questo qualcosa, per molti di noi, non esiste. Forse è il momento di auspicare ad un’esplosione inversa, un’esplosione che ci riporti a curare il poco, per farlo meglio. Siamo pur sempre umani, e siamo pur sempre quelli degli anni ‘90 e dei precedenti 9900: vivremo pure in un mondo di apparenti infinite potenzialità ma, eticamente, rimaniamo sempre gli stessi goffi ed adorabili umani bisognosi di contatto fisico, e non di infinite amicizie su facebook. PAOLO MANCINI

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il Blog di Mariano Anniciello. News, opportunitĂ e informazioni da discutere e commentare per la cittĂ di Napoli.

marianoanniciello.it


LEO

LE TUE PARETI & FANNO SCHIFO PIPO

Prosegue l’appuntamento mensile per il rinnovo degli interni del tuo buco da letto. Questa volta il materiale arriva direttamente da Paris, la città in cui per avere un quarter pounder con cheese devi dire A Royale with cheese. Gli autori di questo poster sono Leo & Pipo, che di loro dicono in terza persona: “Dopo aver passato la loro infanzia tra la dolcezza e la quiete della periferia parigina, Leo & Pipo hanno difficoltà ad adattarsi all’austera Parigi, spinti dalla noia e dalla fredda umanità che popola le strade di questa “città-museo” che sembra respingerli, di riflesso tentano di catturarla, dando vita lungo l’aprile del 2008 a questo progetto che attinge dalla tradizione del “parlare sui muri” evitando però, ardentemente qualsiasi messaggio d’impegno”. Immagino che i due nostri amici francesi si sono onestamente dedicati all’estetica lasciando perdere i soliti messaggi retorici della street art contemporanea. Perché? Forse perché ultimamente tantissimi si pongono l’obiettivo di comunicare qualcosa di impegnativo sui muri ma rarissimi sono quelli che ci riescono senza cadere nel banale e nella mediocrità. E quindi? Quindi largo al disimpegno coerente e teniamoci distanti dalla massa di replicanti di Banksy.

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L’ESPLOSIONE DEL SILENZIO

Se non avesse varcato i confini della Campania, probabilmente Gomorra, il best seller di Roberto Saviano, non avrebbe venduto più di 100mila copie nel mondo e i Casalesi sarebbero continuati ad essere uno dei tanti clan che indisturbati fanno il bello ed il cattivo tempo nel tacco dello Stivale. Opere, sensazioni ed emozioni di chi ogni giorno vive e racconta la drammatica realtà del territorio campano, si scontrano col comatoso silenzio delle Istituzioni locali. E le uniche parole lanciate per stigmatizzare un fenomeno come la camorra, vengono spese sempre troppo tardi, magari quando è iniziata una nuova mattanza o salta fuori che qualche politico è colluso con la mala.

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Se ne parla solo quando fa rumore. Solo se l’aria puzza di zolfo e l’emotività collettiva impone a chi di dovere di condannare l’ennesima strage, oppure se i sicari imbottiti di coca hanno freddato un innocente per sbaglio. È quasi una costante, nella città all’ombra del Vesuvio, intervenire solo quando le pagine dei giornali si riempiono di veri e propri bollettini di guerra provenienti dai “fronti” della periferia abbandonata. La camorra però c’è sempre, in ogni angolo, nei salotti buoni della borghesia come negli uffici dove si progettano opere per milioni di euro. C’è chi ogni giorno racconta e denuncia, attraverso la propria professione, quella realtà magmatica fatta di dolori, tragedie, ma anche di gioie e passioni che solo un popolo vulcanico può conoscere. E spesso si ritrova a farlo da solo, nell’assordante silenzio delle istituzioni napoletane che da anni assistono ad una vera e propria guerra senza intervenire con decisione. Stefano Renna è uno di questi «menestrelli» delle cronache metropolitane. Fotoreporter, operatore dell’immagine e pupillo all’Accademia di Belle Arti del maestro Mimmo Iodice, lui da più di vent’anni racconta al mondo fatti e misfatti della città di Partenope. Lo fa con passione e dedizione per il mestiere, tanto che i suoi lavori da più di dieci anni vengono pubblicati da organi di stampa e magazine di fama mondiale (Reuters e Stern per citarne alcuni) e riviste italiane come L’Espresso, il Venerdì e Panorama, che dai suoi scatti ne hanno tratto reportage drammatici. La massima espressione del suo impegno sociale attraverso questa arte ha una data: 2007, anno in cui, insieme al giornalista e scrittore Marco Salvia, pubblica per la casa editrice Stampa Alternativa “L’ultimo Sangue”, libro che attraverso racconti scritti in una lingua ibrida tra dialetto ed italiano, e fotografie tratte dalla mostra “Camorra, vittime e carnefici”, denuncia la “normale anormalità” napoletana, l’atavica assenza delle istituzioni ed i vent’anni di faide intestine ai clan di una città «morta», dai connotati anarcoidi. Un lavoro di eccezionale portata artistica e sociale, che però non ha trovato la giusta eco nella bella ed ingrata Partenope. «Paradossalmente invece questo lavoro

fu molto apprezzato a Roma – racconta Renna - Grazie all’assessorato alla Cultura, e alle biblioteche che sono attivissime nella Capitale, riuscimmo a presentare il libro che ebbe subito un ottimo riscontro con la critica. I feedback furono assolutamente positivi. La cosa più bella è che i giovani delle scuole romane, il terreno più fertile su cui si può intervenire socialmente, erano realmente interessati a saperne di più su questo fenomeno, e le stesse scuole vollero uscire dai classici schemi, vestendo i panni di chi vuole essere catechizzato ad un argomento». Tutto questo sembra assurdo: a Napoli, città dove nascono certi fenomeni di devianza sociale, racconti del genere passano sotto silenzio, ed in altri posti vengono apprezzati dalla critica e finanche portati nelle biblioteche a scopo didattico. Come mai? «La nostra realtà spesso è carente di collegamenti: a Napoli esistono delle energie positive che sono assolutamente nascoste e non riescono ad emergere proprio a causa del gap tra Enti preposti ed artisti. Il progetto editoriale partorito da me e Salvia è andato arenandosi più volte nella tipica inerzia napoletana. Purtroppo Napoli è lo specchio di se stessa, nel senso che un prodotto che nasce in questa città viene seppellito tra i protocolli. E questo avviene anche per l’arte, per i grandi progetti di rilancio dei monumenti, per la cultura…». Si può dire che Roma, rispetto alla nostra città, è più sensibile ad un tema come quello della camorra anche se non gli appartiene direttamente? «Roma è più aperta all’esperienza, alla novità, al collegamento tra il fatto e il modo di esporlo e di raccontarlo. Non ha interessi a guardare semplicemente ai fatti che riguardano la propria realtà cittadina, anzi, si spinge al di là dei suoi confini. Paradossalmente questo avviene anche in altre nazioni, mentre a Napoli le opere di denuncia vengono letteralmente dimenticate…». Un esempio? «In Francia hanno la sensibilità di sconvolgere interamente un paese alla fotografia, installando per le strade e nelle scuole scatti di cronaca, per creare memoria storica comune ed aprire la gente a tematiche sociali forti. Questo invoglia un

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operatore dell’immagine, che ha bisogno di trampolini per lanciare il suo messaggio alla gente. Napoli invece ha la capacità di far gettare la spugna a chiunque tenti di emergere». Torniamo a noi. Cos’è per un fotoreporter un’esplosione? «Per me è uno slancio emotivo. Se non avessi quello, probabilmente non riuscirei a fare questo tipo di foto e ad interpretare le cose come se mi trovassi in uno stato ipnotico. Quando fotografo non ho una condizione sociale regolare: o lavoro, o mi fiondo nel contesto, venendone rapito. Il mio è il ruolo di chi sovrasta la scena e riesce a registrarla dal punto di vista visivo ed emotivo». I morti ammazzati dall’Ottanta ad oggi, gli anni d’oro del Napoli di Maradona, la Tangentopoli napoletana, l’emergenza rifiuti: si può dire che queste esperienze hanno fatto esplodere una parte di te che dall’arte è poi passata al racconto quotidiano di una città?

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«Sì, le definirei “esplosioni formative”. Il fenomeno Maradona in me ha suscitato particolare interesse in quanto legato ai costumi e ad una società impazzita, e come tale l’ho descritta in maniera molto distratta. Il mio lavoro è unicamente basato sulle connessioni sociali. Più che Maradona a me interessava la vasca a forma di conchiglia dove posò con i fratelli Giuliano quando all’epoca erano i boss di Forcella. Questo servizio fu pubblicato da Panorama, ma se avessi proposto un “semplice” scatto della conchiglia della Venere di Botticelli allo stesso giornale non avrebbe avuto il valore di una foto col campione nella vasca insieme al camorrista». Quanto conta nel tuo settore il fatto di essere napoletano? «Vivendo in una città come Napoli mi sono impegnato nella descrizione della cronaca, che è predominante per chi pratica il mio lavoro su questo territorio. Ho sempre cercato di raccogliere informazioni per poi darne una percezione ester-


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na, lasciando in me quella parte creativa acquisita prima attraverso la pittura e poi con la fotografia». Se dovessi dipingere un quadro per descrivere il tuo ruolo quando sei davanti ad un fatto di cronaca, come lo raffigureresti? «Sarebbe come l’ultimo quadro che dipinsi nell’84. Disegnai un vetro rotto, che divideva l’esterno da una superficie colorata, un grosso cartone che faceva da osmosi tra il mondo della realtà, e quindi della percezione, ed il mondo dell’immagine. Nascosi questi cromatismi intensi e li isolai da un vetro sfondato, che rappresen-

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tava la rottura che ebbi con quel mondo colorato, fino ad approdare ad una realtà più asettica. Il trasporto deve essere sempre emotivo ed esterno alla superficie, ed il vetro rotto rappresenta appunto questa fragilità: bisogna essere sempre esterni con la massima delicatezza, sapendo che non si può entrare mai troppo nella intimità della persona, perché sarebbe una violenza vera e propria verso un essere umano che in quel momento sta provando fortissime emozioni». DAVIDE GAMBARDELLA


Le foto di questo servizio sono tratte da “L’ultimo sangue”, l’opera letteraria realizzata dal fotoreporter Stefano Renna e dal giornalista Marco Salvia.

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REVIEW

artista: Il cielo di Bagdad titolo: Export for Malinconique label: RECbedroom genere: Popular Musica emozionale per cuori malinconici. Lo dice stesso il titolo del disco de Il Cielo di Bagdad: “Export for Malinconique”. L’album è frutto del lavoro di Nicola Mottola (chitarra), Giovanni Costanzo (tastiere) e Luca Buscema (batteria), tre ragazzi di Aversa, che dopo due EP (usciti nel 2004 e 2006) passano perfettamente la prova più difficile. E le nove tracce che compongono “Export for Malinconique” lasciano ottime impressioni: un dream - pop sognante, con l’utilizzo di glockenspiel, archi, modulazioni elettroniche ed effettistica di grande gusto. Con i Sigur Ros come riferimento eccelso, i Cielo di Bagdad ci fanno entrare nel loro mondo fiabesco, rappresentato dai disegni del quarto membro della band, Alessio Nunzi, illustratore romano che collabora col gruppo. E canzoni come A day of wool, Save your forest, Mr.Butterfly, Sunday afternoon (che si apre con la telecronaca di una partita del Napoli di Maradona) sono piccoli gioielli di musica strumentale, con attimi di calma e fragorose esplosioni musicali che si susseguono senza mai stancare. Il tour li vedrà arrivare in Francia e Germania, una gran bella vetrina internazionale per un gruppo che è partito dalla profonda provincia campana. myspace.com/ilcielodibagdad ANDREA SALADINO

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artista: Antonio Onorato

& Eddy Palermo

titolo: Two Parallel Colours label: Mo’records production genere: Jazz Come lo racconti ad un ragazzino di diciotto anni, con la chitarra sulle spalle, che macina chilometri per pochi minuti di lezione, che un giorno suonerà in un disco tutto suo con l’amato maestro?? Non glielo racconti, aspetti e basta!! E già…se il ragazzino in questione si chiama Antonio Onorato un po’ te lo aspetti che finirà per avere un luminoso futuro con quelle sei corde tra le mani. Lo scugnizzo della chitarra ripercorre così il suo cammino, condotto dal suo spirito guida alla maniera dei nativi americani, fino alla sofferta partenza quando tra mille autobus e metrò i pensieri si perdevano sulle note ed i colori del jazz che fluiva leggero dalla chitarra del maestro al cuore del discepolo. Il titolo di questo nuovo lavoro appare tutt’altro che casuale; fin dagli inizi di carriera Antonio è da sempre arrivato all’ascoltatore col suo suono particolare e inconfondibile, col suo “colore” personale ed elegante e più che mai legato in maniera indissolubile alle luci e i sapori del mediterraneo e di Napoli; un “colore” costruito e sviluppato in venti anni di musica, di esperimenti, di vita artistica e creativa, eppure così naturale e profondo, così legato all’anima e allo spirito

dello sciamano vesuviano, quel “colore” che oggi conferma la sua unicità e si fonde con la tecnica sopraffina e il grande stile del vecchio maestro Eddy Palermo. Due “colori paralleli” che si inseguono, si guardano, si studiano, si legano e si slegano in eleganti sviluppi armonici e melodici, senza mai confondersi, senza mai incontrarsi veramente, lasciando nitido e leggibile il confine tra loro, rimanendo unici e irripetibili in ogni frangente, due sapori diversi per un unico banchetto dal retrogusto partenopeo. Con “Two Parallel Colours” accade ciò che non sempre avviene quando due personalità così forti si incontrano, si crea un sottile filo conduttore, una linea invalicabile e impercettibile di separazione a cavallo della quale due modi di raccontare la musica si snodano lenti e poi veloci in virtuosi e melodici voli degni del miglior Pindaro, una striscia continua sull’asfalto e due fuoriserie fiammanti l’una al fianco dell’altra senza che mai nessuna delle due prevarichi l’altra, non due metà della stessa mela ma di sicuro due mele dello stesso albero. Non c’è che dire, sin dalle prime note si scorge la diversità di questi due “colori” che correndo paralleli danno origine a un tutt’uno di pregevole fattura, con l’ottimo supporto ritmico che vede protagonisti Dario Deidda al basso e Giampiero Virtuoso alla batteria, musicisti di esperienza e classe indiscutibili. L’aria che si respira ascoltando questo disco è assolutamente piacevole, le atmosfere sono varie e spaziano dalle ballate melodiche e velate di malinconia in pieno stile Onorato (Evening in London), al blues e al samba (Blues for Eddy) al jazz indiavolato, fino ad arrivare a indimenticabili classici della cultura bossa nova Brasiliana come “Meditaçao”, per approdare ad un Palermo che si cimenta con deliziosi risultati in composizione ed esecuzione di un brano tutto “Onoratiano” (Onorando) o al nostrano Pino Daniele di “Chi tene o Mare”. Un autentico viaggio che dalle grigie metropoli americane patria del bop, porta al calore e la saudade del Brasile per approdare sulle coste del mediterraneo con tappa obbligata all’ombra del Vesuvio. Probabilmente se glielo avessero detto a quel ragazzino di cui sopra, se gli aves-

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sero raccontato di questo disco, non ci avrebbe creduto, ma sarebbe bello scoprire che lui, Eddy, il maestro, che lui già lo sapeva, ed ha semplicemente aspettato il ritorno del discepolo, oramai affermato e col suo bagaglio di esperienze ed estro creativo, per rincontrarsi come vecchi amici. Con questo disco Antonio conferma la sua piena maturità artistica oltre che le indiscutibili e già provate qualità tecniche combinate al suo grande gusto melodico ma intanto una domanda ancora non trova risposta: Ma alla fine, l’allievo supera il maestro?

artista: The Gentlemen’S

Agreement

titolo: Let me be a child label: Materia Principale genere: Swing/Folk

Ritorno alla Campagna!!! Ritorno alla vita!!! E’ questo il motto dei “The Gentlemen’S Agreement”, quartetto napoletano, anzi direi “flegreo”, all’esordio discografico con “Let me be a child” un disco che, parola della band, si rivale di un’identità fanciullesca e giocosa…un pò come dire “oh! se sto disco vi sembra una cazzata abbiamo messo le mani avanti!! Siamo dei bambini e vogliamo giocare!” Beh, a dirla tutta questo disco potrà piacervi oppure no, ma di certo l’unica cosa

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che non potrete dire è che è una cazzata, e non lo è sembrato neanche a praticamente tutte le migliori riviste del settore che hanno già incoronato questi 4 campagnoli tra le più belle sorprese di questo inizio d’anno. Non stiamo parlando né di geni né di inventori della musica, ma va pur detto che se non hai talento e qualcosa di buono da dire 73 concerti in un anno in Italia non li fai...neanche se vai a suonare gratis. “Let me be a child”, secondogenito della label rigorosamente made in Naples “Materia Principale”, è di gran lunga un discreto disco d’esordio, valido anche perché alcune sue lacune lasciano fiutare le potenzialità di una band che partendo da questo lavoro potrà fare davvero tanta strada negli anni a venire, esportando un modello musicale certamente originale ed innovativo per l’ahinoi tanto arretrato panorama italiano. Perciò qui non stiamo a dire che con questo disco i Gentlemen’S hanno lanciato un genere, ma di sicuro possiamo dire che per molti questo disco porterà una ventata di freschezza, e magari un’ispirazione per spunti artistici un pò diversi dai soliti canoni pop o indie. Si può dire senza dubbio che Raffaele Giglio (autore e voce dei pezzi) ha ben appreso la lezione della scuola americana del Country/Folk (da Neil Young fino a Sufjan Stevens), ma si può anche dire che ha saputo renderla sua, personale, mischiandola allo Swing, alla Chanson francese, o altre volte invece alla Bossanova di Caetano Veloso, altre volte ancora al rock’n roll degli anni 50; e sempre con un attitudine spiccatamente giocosa, senza mai prendersi troppo sul serio neanche nei momenti più intimi del disco. Immaginate Jeff Buckley che va gironzolando in bici in mezzo alla campagna agitando il suo campanello e mangiandosi la sua pannocchia…non so, io sta scena me la sono proprio immaginata cosi come la scrivo, al primo ascolto di “Blonde Country Girl” o “Kinderdijk” ascolti e immagini... Forse perché la ricetta giusta di questo disco sta proprio nell’ utilizzo mai convenzionale degli strumenti tipici, accostati a suoni di campanelli, vasi, cani piangenti, processioni della madonna dell’arco (è vero) che riescono a catturare l’attenzione e a farti sorridere...o forse semplicemente perché qui ci sono delle belle canzoni,


cosa sempre più rara da trovare nei dischi. Sicuramente una delle motivazioni di questo “coinvolgimento/divertimento/ assorbimento emotivo” sta nell’armonica e soprattutto nella tromba di “Farmer” Renzullo, mai banale, in certi pezzi fondamentale proprio per il suo atteggiamento non invasivo... Insomma un bel disco, con alcuni spunti notevoli ed altri meno, un ottimo punto di partenza su cui lavorare, magari sviluppando ulteriormente lo spessore delle composizioni, forse leggermente deboli e ripetitive se spogliate del loro pur fantastico abito giocoso... myspace.com/thegentlemensagreement ALESSANDRO PANZERI

THE GENTLEMEN’S AGREEMENT

RAFFAELE GIGLIO “THE FARMER” PARLA DELL’ULTIMO DISCO DEI GENTILUOMINI Innanzitutto il disco: Come è andata la storia? E’ andata che mi sono trovato solo a casa, in mezzo la campagna, e ho dato libero sfogo alla mie idee...raccogliendo tanto materiale e selezionandone il meglio per affiancarlo ad alcuni pezzi del nostro vecchio Ep, ottenendo così “Let me be a child”.

E l’ incontro con la vostra label? E’ stato facile trovare un’intesa? Assolutamente no! Ci siam presentati da Materia Principale a Novembre per un provino...e devo dire che facevamo veramente schifo! L’intesa artistica con la label c’è stata fin da subito, ma in quel periodo non eravamo per nulla nelle condizioni di poter incidere... perciò ci siamo chiusi per due mesi nella nostra sala, sudando dietro ad un metronomo e lavorando e ancora lavorando fino a che non siamo stati veramente pronti per iniziare a registrare. Abbiamo iniziato quindi solo a Febbraio, e mai in maniera frettolosa; in questo i ragazzi di Materia Principale sono stati davvero bravi, non ci hanno mai fatto sentire la pressione dei loro sforzi e ci han dato tutto il tempo di capire dove ci trovavamo ed in che modo stavamo lavorando. Chi vi ha curato la produzione del disco? Il disco è stato registrato in parte negli studi della label, e poi concluso in quello del nostro produttore artistico, Massimo D’avanzo, un grande consigliere ed un maestro con gli strumenti acustici, pane della nostra musica, mentre il mastering è stato fatto negli Stati Uniti. E il lavoro grafico? E’ stata un idea vostra? Tutto il progetto grafico è stato curato da Roberto Amoroso (A toys orchestra, 24 grana), una garanzia, è stato molto gentile nell’offrirsi di collaborare con noi nonostante il nostro budget ridotto... L’impostazione grafica del progetto e della copertina nasce dall’idea di un ORO SAIWA, è da li che siamo partiti. Avete già suonato più di 50 volte fuori dalla Campania, come vi sembrano a livello musicale queste altre realtà? Diverse dalle nostre presumo... Diverse, ma non sempre migliori, alcune grandi città a dispetto di quello che si pensa, parlo ad esempio di Torino o di Milano, non sono provviste di una vera scena unita, che segue un unico percorso, probabilmente le strutture

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sono migliori, si prestano di più al live, ma sarebbe una cosa sbagliata lanciare un messaggio che sminuisca il lavoro che si sta facendo a Napoli, e soprattutto il valore delle band, per accentuare quello che in altre città forse non è chissà quanto migliore del nostro… E allora Napoli secondo te? Qual è la situazione della scena indipendente? Anzi, partiamo da lontano...c’è una scena indipendente? C’è mai stata? I Gentlemen’s, i primi Gentlemen’s, nascono intorno al 2000. Quegli anni segnavano a Napoli il principio del declino delle Posse, così tanto caratterizzanti e simbolo dell’intera cultura musicale degli anni ’90 e l’affermazione di nuovi locali come punto di incontro di una cultura musicale emergente, di stampo molto più rock...In quel contesto band come gli Sperms, i Valderrama5 o i Goonies, suonavano spesso in un locale che si chiamava Slovenly Bar, al centro, vero punto di riferimento di questa nuova cultura, insieme al Sanakura, o al Mamamù...e in quel periodo i gentlemen’s erano una band di ragazzini che seguiva proprio questa scia Alternative, Rock, e a dirla tutta girava davvero tanta tanta droga...oggi la situazione si è evoluta, ci sono alcune band ormai affermate nel circuito indipendente, penso ad Atari, Epo, 24 Grana ed almeno altre 10/15 band che meriterebbero la stessa affermazione; certo i posti non sono tanti, ma fortunatamente realtà come il Duel Beat, il Doria 83 o lo stesso Mamamù sono sempre più orientati ad una gestione professionale e competente, aiutano ad esprimersi e a favorire lo scambio con le realtà aldifuori della Campania... una cosa è certa, in questo momento a Napoli c è tanta musica di qualità, e questa non è certamente una cosa da non tenere in considerazione...

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artista: Miriam In Siberia titolo: Miriam In Siberia EP label: Autoproduzione genere: Indie/Pop Con un nome così non è facile passare inosservati, e infatti il primo Ep dei Miriam In Siberia ha già fatto riscontrare commenti entusiasti un pò ovunque. Un autoproduzione, che non disdegna la qualità, un lavoro che a tratti sorprende; sound curatissimo e liriche malinconiche che nei momenti di maggior pathos ricordano i Marlene del primo periodo, quelli che tutti abbiamo amato. Bastano cinque canzoni e torna alle orecchie tutto il rock italiano indipendente, esatto crocevia tra l’energia dei Verdena e il pop delicato dei torinesi Perturbazione. Chitarre accarezzate che colmano i vuoti di un suono essenziale e delicato, la voce che porta alla mente un cantaurato italiano, che unito all’ascolto di post e indie rock di forte matrice britannica da un risultato gradevole. I Miriam in Siberia si guardano indietro con personalità rigettando su disco tutto quello che avevano da dire, e proprio il fatto che hanno qualcosa da dire, portatori di un messaggio musicale che in Italia è gia un risultato, è questa la cosa essenziale di questo EP, e che non fa sembrare i quattro campani un “gruppetto” adolescenziale che segue l’ultima moda musicale (il post rock...). La sintesi tra i quattro raggiunge l’apice in “Dicembre”, che mostra l’enorme poten-


ziale di una band ancora alle prime armi, ma già pronta al grande salto. Così mentre Miriam va In Siberia noi li aspettiamo dall’altro lato, quello del successo.

artista: The One’s titolo: The Debut of Lady Jane v: Forears genere: Folk Rock

artista: A testa bassa titolo: s/t label: DIY Conspiracy genere: Punk/Hardcore

“Vorrei raccontarmi, ma non ci riesco / se sapessi cosa dirti, sarebbe gia qualcosa che conosco di me...”. Queste le parole che aprono il nuovo/primo cd degli A testa bassa, gruppo hardcore pugliese. Dopo un demotape che qualcuno mi ha rubato verso il 2000 almeno, un ‘7 pollici dal titolo Clone OGM, sette anni di silenzio, un incontro all’Atlantide Squat di Bologna con Carletto (che chissà se si ricorda), ritornano. Soprattutto dal vivo con la formazione originale e l’aggiunta di Pietro alla seconda chitarra (un barese tutto hc che chiunque vorrebbe nel suo gruppo). Vecchia scuola punk-hardcore di chiaro stampo italiano e quindi sottopressione su tutti, con l’emozionalità nei testi dei KINA “Urla grigie e nebbia // le parole, l’arcobaleno si tramutano in sabbia” gli ATB con questo trasformano la mia Top 10 in Top 20 (non sto parlando di myspace, ma dei miei 20 dischi preferiti) e ci entrano di prepotenza. Il disco è co-prodotto da diverse realtà DIY della penisola. Poi vi spiego cos’è...

Gli One’s sono quattro ragazzi di Napoli, questa forse è l’unica cosa di cui non vi accorgereste mai ascoltando il loro primo lavoro ufficiale. Il Produttore Daniele Landi si è accorto di loro, e non se li è fatti scappare, da poco infatti è stato pubblicato il loro primo lavoro per la Forears, una giovane etichetta fiorentina. Quello che colpisce di più è proprio la postproduzione, un lavoro di ottimo livello che ha reso canzoni che prima i ragazzi avevano già inciso su modeste autoproduzioni, delle vere e proprie gemme indie folk: di particolare fascino la chiusura, affidata alla “vecchia hit” tirata a lucido in una nuova e affascinante veste, “Roads”. Undici tracce fresche e senza fronzoli, gli One’s non hanno nulla di nuovo da portare alla luce, ma le cose che suonano sono semplici e lineari, magari belle proprio per questo. Bob Dylan, Neil Young e polverose autostrade americane (Brown haired Girl o Midnight Talker) da un lato, senza dimenticarsi la lezione di gruppi della tradizione Pop come Colplay eTravis (Shine in The Wind e I Haven’t Lost My Hope). Una lieta sorpresa, un disco facile e piacevole. Magari da rivedere suono e arrangiamenti, un pò ripetitivi sulla distanza.

ANTONIO DEVITO

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Hubb. Mistico-etnico è il pezzo dedicata a Jaipur, India, paese già oggetto di un altro album-viaggio dell’artista: “Linga-Yoni, the Dub Paradox”. Dopo tanto sognare ci si ritrova in un’ambiance da cabaret passando dal Vagone Bar che ci conduce all’orientaleggiante “Light the Pipeline” dalle sonorità etnico-dub proprie anche di Fedayi Pacha che vi suona il duduk. Tornati in Europa veniamo ricevuti dall’elettro sognante di “Yell of Crack” seguita dalla breve ma efficace “Gitan Clan” dedicata alla cultura Gitana, ultima tappa prima di tornare a casa con “Arrival”. myspace.com/maydhubb www.cd1d.com MALÌ EROTICO artista: Mayd Hubb titolo: the Blue Train label: Komod O’ Dragon et Greeninch Sound genere: Elettro/Dub/Break Beat Mayd Hubb, rappresentante del movimento dub francese, con “the Blue Train”ci invita a fare un viaggio in treno attorno al mondo in 17 tappe attraverso le sonorità ispirate a ciascuna di esse, per tornare al punto di partenza, la Francia. Dopo la partenza dub ed esser passati dalle sonorità jazz londinesi di “Declaration of Peace” si attraversa l’Atlantico grazie ad uno spumeggiante interlude e si giunge a New York dove veniamo accolti da una ballad reggae (feat.Olliejam). Sempre reagge, ma più roots è “Jojo’s buissness” omaggio alla Giamaica. In Messico ci aspetta l’ hip hop di “Lettre aux Politiques” con Dikormatik e subito dopo, a Manaus, veniamo cullati da “My forest Queen” ispirata alla Bossa Nova brasiliana. In Africa ci attendono due canzoni dal profumo etnico e ipnotico separate dall’interlude trip hop, “Serenade” che ci fa passare anche dal Mali. Giunti in Australia veniamo sorpresi dal ritmo tribale di “Cursus Chamanik” seguito dall’interlude hip hop “Compartiment fumeur”, con Well J, che ci permette di oltrepassare l’Oceano Indiano. Arrivati in Tibet si ritorna al dub francese con un pezzo realizzato con il gruppo Teldem Com’Unity, fondato e capitanato dallo stesso Mayd

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Bologna nella seconda metà degli anni ‘90 è stata una delle città più all’avanguardia ed eccitanti d’Italia. Attualmente non si vede in nessuna città la stessa intensità che si è vissuta in quegli anni, nel declino generale del nostro Paese sarebbe bello riuscire a poter dire che esiste qualcosa di simile, magari anche un quarto di quel che è stato nella città felsinea. Forse Torino oppure Roma, in ogni caso Bologna, quella Bologna esplosiva del vecchio Link, del Livello57, della miriade di persone in Piazza Verdi non esiste più. Leg-No, ex componente dei TMS, ha vissuto gli ultimi anni di splendore ed eccitazione che la città ha offerto e ce li racconta attraverso quest’intervista della fotografa bolognese Malì

LEG-NO >>> .


Perché hai scelto Bologna? Mi ricordo che da ragazzino tra tutti i miei amici c’era il mito di Bologna. Poi quando sono diventato più grande ed ho cominciato a girare un po’ mi sono reso conto che forse per me era la città migliore. C’era fermento in quel posto ed io avevo bisogno di una città proprio così. Mi attraeva tutto il passato sessantottino e pensavo mi avrebbe potuto dare grande spunti; e infatti me li ha dati… In che periodo ci sei stato? Sono stato a Bologna dal 1995 al 2007. Una lunga carriera universitaria durante il quale ho maturato tutta la mia esperienza musicale. Che realtà hai trovato? È molto diversa da quella di oggi? Mi ricordo perfettamente il primo giorno in cui arrivai a Bologna, era settembre ‘94. Arrivai, chiaramente, in piazza Verdi e mi vidi tutta ‘sta massa di alternativi: chi con la cresta, chi con il chiodo, chi con l’Unita sotto il braccio, chi con il cane (senza guinzaglio), chi vestito giacca e cravatta. Era la città dei balocchi: tutti si miscelavano insieme con un’armonia fantastica. Venivo da Lecce, una città dove i dread locks significavano essere l’ultimo della società, e vedere l’avvocato che viveva perfettamente con il punk di fianco per me era solo un sogno. Era una città che aveva evidentemente ereditato un passato intenso: quello degli anni ‘70. Era tutto magico per me. Peccato che in pochi anni tutto si sarebbe trasformato. Cosa ha contribuito secondo te all’esplosione della scena bolognese nel panorama italiano in quegli anni? Be la risposta è ovvia. Bologna era il centro dell’Italia in quegli anni. Non solo musicalmente. Veniva dal suc-

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cesso dei Sangue Misto e dei bellissimi centri sociali che funzionavano perfettamente come avrebbero dovuto continuare a fare: c’era l’ATC, il primo livello 57 e altri. Posti che veramente davano alla gente l’opportunità di poter esprimere le proprie idee, la propria creatività e quindi erano dei trampolini di lancio per chi come me faceva musica o altro in campo artistico. La gente il sabato sera veniva da tutte le parti d’Italia per andare al livello. Adesso li hanno chiusi tutti, la gente non ha spazi per farsi notare e poi fa la mia fine…scappa dall’Italia. Secondo te la politica ha influenzato questi avvenimenti? La politica? Penso che a Bologna siano stati messi in atto dei piani che erano stati progettati più di una decina di anni fa. Il problema è stato che non hanno capito bene cosa dovevano eliminare. Cofferati poi è stata la botta finale. Volevano eliminare il degrado e invece hanno eliminato gli studenti che erano sia la fonte di guadagno principale, sia il colore della città. Un tempo si usciva da casa, si andava in centro e si incontrano un sacco di studenti e qualche spacciatore, ultimamente trovavi solo gli spacciatori. Cofferati ha fondato la sua politica sulla sicurezza e invece il numero degli stupri nell’ultimo periodo in cui vivevo a Bologna era aumentato. E’ chiaro, per strada non c’era più nessuno: diventa facile per i malviventi commettere reati. Mi ricordo che l’ultima settimana prima di trasferirmi a Londra mi hanno chiesto due volte i documenti per strada in centro senza nessun motivo.

rave illegali a Bologna. Io e miei pochi amici, al tempo, rimanemmo al quanto straniti. Era una cosa nuova per noi. Non avevamo mai visto gente che viveva nei camion e andava in giro a organizzare party free per tutti. Questo è stato lo spunto principale. L’idea di poter fare della musica per tutti, per far ballare tutti in degli spazi senza regole, senza limiti era fantastica. Pian piano siamo diventati amici di questi ragazzi inglesi e sul loro modello abbiamo cominciato a suonare anche noi. Non era solo la musica, era il concetto di musica che era diverso. La gente veniva ad ascoltare e ballare non solo per la musica ma perché eravamo soprattutto una grande comunità...anche se di matti. Non sono mai riuscito a capire se il rave, almeno quello delle origini qui in Italia, sia stato un momento di vera creatività eversiva. Tu credi che il fenomeno rave sia stato qualcosa di rivoluzionario? O è stato soltanto un pretesto per devastarsi di droga? Il “rave” è stato un fenomeno sociale e come tale composto di persone che gli hanno dato interpretazioni diverse. Per alcuni, un momento per sviluppare modi di aggregazione alternativi, sperimentare nuovi generi musicali e teatrali che ora ricevono apprezzamenti dalla cultura ufficiale (ed è importante sottolinearlo). Sarebbe come descrivere il movimento hippie come una esperienza psichedelica! Questo è stato per me: esperienza in campo musicale e perdita, a vario titolo, di persone care.

Come hai iniziato la tua avventura nel mondo dei rave?

Come, quando e chi erano i tekno mobil squad?

Arrivai a Bologna con la passione della musica e delle macchinette elettroniche. In quel tempo poca gente si interessava a produrre musica elettronica quindi non avevo attorno tante persone con cui confrontarmi. Improvvisamente arrivarono dall’Inghilterra un gruppo di matti che cominciarono ad organizzare i primi

I tekno mobil squad sono nati dopo un viaggio in Spagna. Eravamo in quattro o forse cinque. Non c’erano tutti quelli che poi sono subentrati e che ancora oggi rilasciano interviste ai giornali dicendo che hanno fondato i tekno mobil squad. Ci siamo ritrovati in viaggio tutti insieme e abbiamo deciso che al rientro in Italia avremmo cominciato

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a organizzare i nostri party. Era bellissimo perché non c’erano dei ruoli, non c’erano responsabilità ma alla fine ognuno inconsciamente si era affibbiato un ruolo. Io per esempio montavo l’impianto e suonavo. Altri si sbattevano a cercare i posti. Altri organizzavano il bar. Altri gestivano gli incassi che poi investivamo per costruire altre casse. Era tutto magico perché eravamo in perfetta armonia. Una famiglia che si sbatteva per un’unica causa: il party. Ci incontravamo la sera per caso in qualche punto della città e ognuno metteva a disposizione degli altri quello che era riuscito a recuperare: parlo sia di informazioni che di materiale. C’era quello che per esempio aveva trovato una fabbrica abbandonata piena di legno ottimo per costruire delle nuove casse e c’era quello che magari aveva trovato un gancio per ottenere la fornitura del bar senza anticipo. Insomma era musica, famiglia, armonia, peccato che poi c’è sempre qualcosa che rovina tutto. Purtroppo di errori ne abbiamo fatti. L’errore più grande è stato cosa abbiamo trasmesso a coloro che venivano dopo di noi. Avremmo dovuto trasmettere tutte le cose belle di cui sto parlando, invece hanno interpretato il rave solo come un posto dove poter fare quello che volevano. Il rave era un posto dove potevi veramente fare quello che volevi ma sempre con criterio e nel rispetto degli altri. Invece questo ha attirato solo i peggiori della società. Lascio immaginare cosa è diventato in pochi anni. Solo un esempio per chiarire le idee: nel ‘98 - ‘99 in un rave trovavi la gente col sorriso che si divertiva ad oltranza, dal punk al discotecomane tutto colorato appena uscito dalla discoteca, nel 2003 trovavi gli zombie che vagavano nei capannoni. Com’è evoluto il tuo percorso musicale in questi ultimi anni? Beh ci sarebbe un po’ da dire. Dopo la delusione rave party, che era legata al fenomeno e non alla musica, mi sono avvicinato ai club quindi sono rimasto sempre su stili di musica ballabili ma non più da rave party. Ho prodotto e

suonato drum&bass in giro per un bel po’. In realtà non era neanche pura drum&bass ma era la mia drum&bass. Nel senso che ho cominciato a miscelare mie produzioni musicali con voci rap creando qualcosa di leggermente diverso da quello che si sentiva in giro. Era simpatico per il pubblico sentire un pezzo drumnbass con la voce di Snoop Dogg. Diciamo che in quegli anni era insolito. Adesso lo fanno tutti. Mi ricordo il mio successo più grande fu un disco che feci in cui remixavo Beasty Boys, Mos Def e Clipse. Ho ricevuto complimenti da ogni parte d’Europa per quel disco, proprio perché in quel periodo nessuno si aspettava musica dance con rap sopra. Dopodiché ho cominciato ad avvicinarmi a sonorità molto più lente, sonorità che piano piano mi hanno portato a realizzare l’album che uscirà il prossimo 20 marzo. Anche in questo caso potremmo parlare di Hip Hop ma io direi che è la mia interpretazione di Hip Hop. E’ un album in cui ci sono personaggi noti da tutte le parti del mondo, dai Wu Tang Clan agli Asian Dub Foundation, ma la musica che ci sta dentro non è quella che uscirebbe ad un classico produttore Hip Hop ma quella che uscirebbe da un produttore che ha fatto per anni dance, quindi con influenze completamente differenti. Perché te ne sei andato da Bologna? Perché ero disperato. Bologna mi ha dato tanto, ho conosciuto tanta gente, ho condiviso tanto, mi ha dato la possibilità di far ascoltare la mia musica a tutti, cosa che sicuramente a Lecce difficilmente avrei potuto fare. Ma dopo 13 anni mi stava molto stretta. Dei problemi di Bologna ne ho già parlato. Quindi da un lato c’era la Bologna morta che non mi dava più stimoli, e con i bar che chiudevano alle 10 di sera per ordinanza del sindaco e dall’altro c’erano tutti i cantanti con cui avevo collaborato per il mio disco che mi dicevano: “vieni a lavorare a Londra con noi” …cosa avreste fatto? MALÌ EROTICO

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crocio, ansia. Sento il cuore che mi batte oltre la velocità standard, siamo ben sopra i 100 bpm. Accendo la radio per distrarmi ma non ci riesco. Ansia. Sono quasi arrivata, non riesco a concentrarmi su nulla. Ansia. Parcheggio l’auto e chiudo la porta. La vista del suo cognome sul citofono mi fa sentire dei piccoli fastidi allo stomaco. Tutto il mio corpo mi sta dicendo di non volere andare su e combattere, affrontare questa situazione che mi vede nettamente schierata dalla parte della perdente.

Mi sta aspettando a casa sua. Probabilmente gli hanno già detto tutto. Ma si, sicuramente. Chiudo la porta e scendo le scale. Appena al secondo piano ed è subito ansia. Apro la portiera dell’auto, metto in moto, parto, strade, ansia, in-

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Oramai è fatta, devo affrontarlo. Mi apre la porta, giusto quel che basta per non spingere a vuoto. La porta vuole che la apri io. Ci sono. Mi guarda e non dice niente, fa solo un sorriso ironico di


disprezzo. Si vabbè, perché doverci girare intorno, quel che ti hanno detto è tutto vero. Ti ho tradito, lo so. Lo so io, lo sai tu, lo sa quel maledetto coglione che proprio non poteva fare a meno di divulgare la notizia. Ti ho tradito. Dovrei cercare delle motivazioni? Dovrei darti delle spiegazioni? E cosa mai dovrei dirti? L’ho fatto, sono stata scoperta, sono colpevole. Ho preso il suo cazzo in bocca. Ma ora fuori il verdetto. Non puoi fare così. Non puoi lasciarmi seppellire dai miei sensi di colpa. Ho detto che non voglio affrontarli, voglio un verdetto, una sentenza, non continuare a subirli. Veniamo al dunque maledizione! E’ finita si o no?!? E’ finita? Ok, basta cosi allora, tu hai tutte le ragioni ed io tutti i torti... Ma quali torti poi? In fin dei conti non ho mai fatto nessun giuramento di proprietà esclusiva, che cosa di mio gli appartiene? Ti ho ingannato forse. Ti ho lasciato credere, ti ho lasciato nei tuoi castelli di carta, nei tuoi progetti, non ti ho mai voluto svegliare dal tuo sogno. E’ questa la mia colpa? Quella di non averti voluto ferire subito? Prima o poi doveva accadere...quello che non sono riuscita a dirgli con le parole è esploso con una serie di gesta. Il gesto di mettersi nella bocca qualcosa che non è suo. E dubito che questo sia stato il mio errore, la mia colpa. Il mio errore più grande è stato quello di aver fatto in modo da lasciarlo legare troppo a me stessa, quand’ero troppo giovane per poter controllare e

realmente capire le mie capacità emotive. L’ho lasciato legare così stretto intorno a me che ora pensa siamo un tutt’uno per sempre. Ed io potessi ignorare tutto il mondo che mi circonda, già obbligata ad accontentarmi di una sua infinitesimale parte...che assurdità. Si, solo assurdità. Ed io ora sono in preda a molteplici sensazioni. Io non posso violentarmi in questo modo. Ma certo, io non limiterò me stessa in nome di un amore così acerbo. In nome dell’amore non coverò nessuna contraddizione in me. L’ansia si sta affievolendo e sento di diventare sempre più forte. Dietro quel citofono, oltre quella porta, mi aspettavo di trovare un uomo in collera ed una volgarità rumorosa. Di essere umiliata, di subire fisicamente la sua rabbia. Invece ho trovato un uomo in lacrime ed un fragoroso silenzio. L’ho ridotto alle lacrime. Forse dovrei piangere anche io. Sono io che ho colpito basso. Perché invece non mi esce nemmeno una lacrima? Evidentemente non me ne frega un cazzo, ecco perché. Ora l’ansia non la sento quasi più, e sto riempiendo questo silenzio con una sensazione di onnipotenza. I sensi di colpa sono soltanto un ricordo. Li ho leggittimati. Sto facendo del male ad una persona, la persona che dice di amarmi. E facendo del male a lui mi sono tolta il malessere che avevo io. Abbiamo raggiunto un equilibrio quindi. Io detterò le regole e tu dovrai seguirle. E se non ti sta bene allora ciao. Ho trovato la mia dimensione percorrendo le strade della cattiveria. Adesso ho capito. Ho vinto io.

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CREDITS .SUBBART RISING E NR.12 / ANNO 2009 MAGAZIN

MARRENO VIDE GAMBARDELLA DIRETTORE RESPONSABILE DA BASTIONI AZIONE GRAFICA MATTEO

EDITOR FABRIZIO ELABOR

ERRICHIELLO A RO “ZAK” DAVID / PINA CAUS FASHION EDITOR ALESSAND

PHOTO EDITOR MARTIN REDAZIONE

MARIANNA CANCIANI CHIARA “LECIRQUEINVISIBLE” ALESSANDRO PANZERI E. ALBRECHT

STO NUMERO:

HANNO COLLABORATO IN QUE

ALESSANDRO PALDO MARCO D’ANNA ANTONIO DEVITO ANDREA SALADINO LEO & PIPO MYSPACE.COM/LEOANDPIPO SERVIZI FOTOGRAFICI

MALÌ EROTICO RORA MYSPACE.COM/MALISERENAU NE MURPLEJA EJANE FLICKR.COM/PHOTOS/MURPL



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