Anno 2 - Numero 1-2-3

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Sulle

Anno 2 - Numero 1 - 2 - 3 Settembre - Ottobre - Novembre 2014

ote dello Spirito Area Carismatica 1. Adore te devote 2. All’inizio Dio era un suono 3. Per accogliere «colui che viene»

Area Liturgico - Musicale 1. Enzo Bianchi: L’azione liturgica deve essere un’opera d’arte 2. Una teologia della musica? 3. Il canto Gregoriano 4. Il Papa è la musica «Cantate inni con arte»

Area Tecnica 1. Teoria Musicale: Nozioni di base 2. Impariamo a suonare un canto 412 Dio tu sei buono

Gli strumenti musicali nella Liturgia 1. La guida del canto dell’assemblea: un ministero da rilanciare

Gli strumenti musicali nella Bibbia 1. San Pio X, la musica organistica e la Liturgia Cattolica

Animazione Domenicale 1. Canti per il Tempo Liturgico 2. Al Servizio della Parola: Salmodie

Foglio di collegamento a cura del Servizio Diocesano Musica e Canto Diocesi di Napoli

EDITORIALE Offri a Dio un sacrificio di lode «Lo Spirito Santo vuole rigenerare completamente tutto l’uomo donando sensi spirituali nuovi» Dio ci ha chiamati e ci ha scelti. Tante volte ci è difficile lodare il nostro Signore Gesù, i problemi della vita, le nostre difficoltà, tante volte ci impediscono di lodare il Re dei re ma il Signore ci chiama a lodarlo in ogni tempo: “offri a Dio il sacrificio della lode”. È venuto il momento, in questo anno della fede di chiedere al nostro Dio un potente risveglio nella nostra vita spirituale, è il momento di riconsacrare a Dio il nostro servizio e i nostri talenti. La Bibbia è piena di episodi in cui uomini e donne si sono consacrati al Signore Gesù ed hanno iniziato a pregare e Dio ha premiato la loro fede.. Chi si sta già riconsacrando continui e chi non lo sta facendo, inizi.. Noi vedremo la gloria di Gesù nella nostra vita...Vedremo la sua potenza scendere dentro di noi e su di noi... come non abbiamo mai visto...


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1.

ADORO TE DEVOTE

di Marco Frisina

C’era un tempo in cui a Roma – precisamente il giorno della memoria della sua fondazione – che il sole, a mezzogiorno, filtrava attraverso l’apertura del Pantheon e la sua luce sembrava uscisse dal portone principale. Era in quel momento che l’imperatore usciva trionfalmente dallo stesso portone per incontrare il popolo romano in segno di “visitazione” e benedizione del dio sole alla sua gente. Vi chiederete cosa centra questo con la Solennità del Corpo e Sangue di Cristo. Beh! Ciò mi ha fatto pensare al ”sole che esce come sposo dalla stanza nuziale” del salmo 18.

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Uno dei momenti più significativi della celebrazione del “Corpus” è certamente la processione: una delle uniche due richieste dalla Liturgia (l’altra è quella della Domenica delle Palme). Nella mia città, come in molte altre nel mondo, al termine della S. Messa, il Sacerdote rivestito dei paramenti liturgici più belli (a significare la sua dignità sacerdotale in rapporto all’unico Sacerdote che è Cristo) esce dalla chiesa portando in mano, ben alzato, l’ostensorio con l’Ostia consacrata. Il suono festoso delle campane e il canto dei fedeli accoglie l’uscita di Gesù eucarestia e poi, processionalmente, lo accompagna per le strade della città. Come non vedere in questo momento lo Sposo che incontra la Chiesa sua sposa?


Nessuno rimane indifferente davanti a quel “dschetto” bianco di acqua e farina … piccolo, fragile!! Ma dietro a tanta semplicità c’è il gesto più sublime dell’amore di Dio per noi. “La notte in cui venne tradito Gesù prese il pane e disse: Questo è il mio corpo! e poi prese il calice e disse: Questo è il mio sangue!”. Mangiando quel Corpo e bevendo quel Sangue diventiamo anche noi “con-corporei” di Gesù (come direbbe S. Paolo) e allo stesso tempo con i fratelli. Un commentatore faceva notare che se nei fratelli carnali passa lo stesso sangue allora i cristiani, nei quali scorre lo stesso sangue di Gesù, sono molto di più che fratelli carnali! Dirà S. Tommaso d’Aquino “o res mirabile” - o cosa mirabile: il povero, il servo, l’umile si cibano del Signore! Il Dio inaccessibile, dopo aver preso la fragile natura umana di un bambino ora si fa addirittura pane da spezzare. Pane di condivisione, cibo per la vita, che alimenta le realtà spirituali. Il termine tecnico “transustanziazione” significa proprio questo: alle parole e ai gesti del Sacerdote durante la messa quel pane e quel vino cambiano la loro sostanza e diventano realmente il Corpo e il Sangue di Gesù. Sempre S. Tommaso dice: “Tu non vedi, non comprendi ma la fede ti conferma, oltre la natura. Solo un segno è ciò che appare ma nasconde nel mistero realtà sublimi: mangi carne e bevi sangue ma rimane Cristo intero in ogni specie”! Spesso andiamo dietro ad apparizioni, messaggi che si presuppone vengano dalla Madonna, visioni, segni nel cielo ma non ci rendiamo conto di questo grande segno e miracolo che Gesù steso ci ha lasciato e che ogni giorno si rinnova sulla Mensa euristica di ogni chiesa, anche di quella più sperduta sulla terra. Abbiamo tanto bisogno di ritornare all’Eucarestia, di fissare il nostro sguardo in quel piccolo Pane bianco! “O Signor che dall’ostia radiosa solo di pace ci parli e d’amor, in Te l’alma smarrita riposa, in Te spera chi lotta e chi muor” cantiamo nel popolare inno. Facciamo nostre le parole di quel canto, guardiamo a Gesù che nell’Ostia santa si fa cibo e bevanda di vita, si fa dono d’amore ai suoi fratelli. Il senso della “comunione” è semplicemente questo: l’unico pane si divide fra i fratelli, l’unico amore di Dio si condivide agli uomini, la gioia della Risurrezione si propaga nei cuori di tutti. Questo è ciò che siamo chiamati a diventare: segno di comunione, “distributori” di Cristo, lampadine che irradiano la Sua luce!!! Penso che il modo migliore per augurare a tutti una buona festa del Corpo e Sangue di Cristo sia proporvi la bellissima preghiera di S. Tommaso, conosciuta nel titolo latino di “Adoro te devote” che vi riporto in una traduzione italiana: “Ti adoro devotamente, o nascosta Divinità, che sotto questi segni veramente ti celi: a te il mio cuore tutto si abbandona perché nel contemplarti tutto viene meno. La vista, il tatto, il gusto in te si ingannano, ma solo con l’udito si crede con fermezza: credo a tutto ciò che ha detto il Figlio di Dio, nulla è più vero di questa parola di verità. Nella croce solo la divinità si nascondeva, ma qui insieme si nasconde anche l’umanità: tuttavia credendo e confessando l’una e l’altra, chiedo ciò che chiese il ladrone pentito. Non vedo, come Tommaso (l’apostolo, ndr), le piaghe, tuttavia ti confesso come mio Dio: fa’ che io creda sempre in te, in te speri, te ami. O memoriale della morte del Signore, pane vivo, che dai la vita all’uomo; concedi alla mia mente che viva in te, e senta sempre la tua dolcezza. O pio pellicano, Gesù Signore, monda me immondo con il tuo sangue, di cui una sola stilla può salvare tutto il mondo da ogni peccato. Gesù che ora scorgo velato, ti prego che accada ciò che tanto bramo: che, vedendoti a viso scoperto, sia beato per la visione della tua gloria. Amen”

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2.

ALL’INIZIO DIO ERA UN SUONO

(Fonte: Credere Oggi – N. 6 – Novembre – Dicembre 1999

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«Dove la parola manca, là comincia la musica; dove le parole si arrestano, là l’uomo non può che cantare». (Léos Janacek) «La creazione musicale è una possibilità, fra molte altre, di esprimere verità». (Alois Hàba)

Una delle prime regole che l’accorto e affermato imprenditore insegna al suo giovane rampollo può essere questa: mai avvantaggiare la concorrenza con i propri sforzi. Leggendo il titolo di questa monografia, più di un lettore potrebbe legittimamente chiedersi se davvero questa volta la nostra rivista – che per sua natura affronta tematiche teologiche o per lo meno pertinenti a tale sfera – non stia lavorando per la “concorrenza”, ossia a favore di una disciplina estranea ai propri consueti orizzonti. Se ci affidiamo al nostro istinto, dovremo proprio concludere che, in effetti, stiamo oltrepassando la soglia del “concesso”. Se, oltre all’istinto, associamo l’azione della ragione, possiamo affermare con serenità che la musica attrae la nostra attenzione perché rappresenta uno degli osservatori più interessanti per cogliere le trasformazioni sociali correnti di questo trapasso epocale. La musica ha tante qualità e “punti di presa”: possiede un codice espressivo proprio e multiforme, è un oggetto estremamente commerciabile, provoca e “vende” facili emozioni, suscita ricordi; soprattutto trasmette quanto parole e concetti non riescono a esprimere con tutta la loro logicità. Nella sua invisibilità, intangibilità e singolarità risiede una magia che incanta e cattura l’uomo, avvicinandolo al mondo interiore. Questo l’ha capito ad esempio il movimento New Age che, benché non abbia leaders o strutture gerarchizzate, proprio attraverso la musica diffonde il suo ideale mistico. Lo ha compreso anche un gran numero di compositori contemporanei: Stravinskij, Messiaen, Schönberg Poulenc, Fauré Duruflé Hindemith, Britten, Petrassi, Janacek, Perosi, Goreski, Loussier, Pärt, Glass, Kancheli, Vasks, citando solo alcuni nomi dei più noti. Per non parlare poi di eccelsi esecutori quali Keith Jarrett, vero genio dell’improvvisazione, e Jan Garbarek, con la sua ormai “storica” interpretazione del Parce mihi Domine di Christobal de Morales (m. 1553). A suo modo e con tecniche esecutive proprie, ognuno di questi musicisti ha cercato di esprimere un mondo presente e segreto, portandosi sulla soglia dell’ineffabile. E la teologia? Due mondi all’apparenza estranei uno all’altro, teologia e musica, con linguaggi disarmi, se non contrari. Pur essendo uno dei canali privilegiati di incontro con il sacro (cf. il puntuale contributo di A.N. Terrin), forte di un legame secolare (basti pensare al solo trattato agostiniano “De Musica”), nel campo della riflessione teologica attuale si registra una singolare indifferenza sulla musica. Al più, la dialettica di questi ultimi anni – sfiorando a volte i toni... melodrammatici – verte quasi sempre sulle questioni pratiche della “musica per la liturgia” o strettamente intesa per il culto. Giustamente G.A. Krieg si domanda in uno dei suoi studi (Grundprobleme theologischer Musikbetrachtung, in “Pastoraltheologie” 77 [1988], pp. 240–253) che senso ha accapigliarsi su simili questioni o amplificare le solite geremiadi sul canto sacro, senza recuperare ed elevare la riflessione teologica. Possibile che la teologia dei nostri giorni, così attenta a una sconfinata serie di temi sociali, culturali e antropologici, si dimostri insensibile nelle sue appassionanti dialettiche all’esperienza musicale dell’uomo? Qualche voce autorevole c’è pure stata (E. Schlink, A. Brunner, O. Söhngen, K. Röhring, H. Schröer, in Italia P.A. Sequeri), ma non ha certo innescato una riflessione comune. Ammettiamolo: noi teologi reputiamo l’arte di Orfeo ancora un banale divertissement. Pensiamo che concetti e principi, assiomi e asserti siano gli unici elementi di lavoro per parlare rettamente su


Dio, dimenticando forse che sottile piacere del pensiero logico e idolatria del concetto sono sempre in agguato. Anche per un teologo. Così, per puro caso o per un gioco di coincidenze, capita di imbattersi in una strana e inattuale affermazione di una persona sicuramente al di sopra di ogni sospetto quanto a ortodossia: “Un teologo che non ami l’arte, la poesia, la musica, la natura, può essere pericoloso. Queste cecità e sordità al bello non sono secondarie, si riflettono necessariamente anche nella sua teologia” (Joseph Ratzinger, Rapporto sulla fede, p. 134). La musica è a pieno titolo una forma dell’unica voce di Dio, che noi teologi faremmo bene a non trascurare. Il primo contatto tra il Creatore e le creature avviene nel suono, nell’armonia, nella tonalità della voce divina (“Dio disse...”), che come un “imprinting ancestrale” rimane nell’intimo dell’essere umano quale anelito e vocazione alla sinfonia del creato. È espressione dell’ineffabilità e dell’indicibile dell’uomo, tocco della grazia e fondo dell’anima che sorregge l’esistere. La celebre badessa di Rupertsberg, IIdegarda di Bingen (m. 1098), amava ripetere “anima hominis symphoniam in se habet et symphonizans est”, l’anima dell’uomo ha in sé una sinfonia e partecipa a ogni sinfonia. Tutte le cose portano con sé il suono di quella voce creatrice e ogni creatura possiede un suono proprio che si inserisce nella sinfonia della Verità. Attraverso il dono della creazione musicale, l’uomo partecipa all’armonia e alla sinfonicità del Creatore. Sia Orfeo che il re Davide “sono le grandi figure che trasformano l’evento in metafora, la metafora in poesia, la poesia in musica; e la musica, cioè l’unità tra parola, ritmo e tonalità, trasforma l’evento, anzi, lo costituisce come evento teo-logico, come presenza del destino e degli dèi. La cultura nasce dalla culla del canto, che rispecchia l’incubo e l’incanto della vita e ci parla di una presenza indicibile che si lascia dire soltanto nel giubilo e nel lamento. Alla sorte dei mortali viene dato e chiesto troppo; e quel troppo, quel sovrappiù esplode nella musica, nel ritmo poetico, in una teologia primordiale” (Elmar Salmann). Con stile quasi pioneristico approfondiamo la tematica in questa monografia. L’apertura è affidata a EUGENIO COSTA, il quale pone alcune domande fondamentali sulla composizione e sulla fruizione musicale, indicando gli sviluppi dell’indagine teologica sulla musica. Le connessioni tra l’esperienza musicale e quella religiosa vengono adontate nel contributo di ALDO NATALE TERRIN, che mette in luce alcune implicazioni antropologiche di tale linguaggio espressivo. Uno dei capitoli più discussi e delicati di questa tematica è la percezione estetica musicale, che GASTONE ZOTTO esamina in rapporto alla teologia nel panorama storico dell’Occidente cristiano. La storia musicale del nostro secolo è testimone di una particolare attenzione verso l’elemento religioso, il fascino del sacro, l’idea di Dio (VALENTINO DONELLA). Dei tanti musicisti degni di nota, viene presentato a titolo indicativo il compositore estone Arvo Pärt (ENRICO RAGGI). Una particolare prospettiva ci viene offerta da CARLO SACCONE, che, prendendo spunto dalla recente pubblicazione di un trattato del teologo al–Ghazâlî, presenta la tematica nel particolare contesto del mondo istmico.

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3.

PER ACCOGLIERE «COLUI CHE VIENE»

di Don Giancarlo Boretti

Credere al senso delle cose è uno dei segreti per accogliere e vivere quelle “cose” con intensità e perfino con entusiasmo. Che nei partecipanti alla Messa domenicale non sempre appaiano – almeno esteriormente – intensità ed entusiasmo, è all’occhio di tutti. Data la ‘fragilità’ dell’uomo, ciò non suscita stupore più di tanto. Nella vita ci sono strade mai terminate nel cammino di chi le percorre: la strada ‘verso’ l’Eucaristia è una di queste. Bisogna comunque che il celebrare “alto” parta dal “basso”: da una profondità interiore che innalza la partecipazione di chi cerca e si affida al Mistero «per ritus et preces». Rispondere al perché “andare a Messa” potrebbe alleviare la fatica e comunicare la gioia di quella ‘salita’. Per una pia abitudine Non c’è da meravigliarsi se uno va a Messa “per abitudine”: dopo tutto, si tratta di un’abitudine ‘buona’ oltre che pia! Siamo abituati a non farci troppe domande sulle nostre azioni e sul perché le facciamo. Che bisogno c’è di interrogarsi sul “perché” dell’andare a Messa, e più generalmente dell’andare in chiesa o del pregare? L’hanno fatto i nostri genitori e i nostri nonni, lo fanno amici e conoscenti: in fondo ci sentiremmo a disagio se non ci andassimo anche noi! E poi, andare in chiesa – così ragiona qualcuno – è una consuetudine di persone perbene, anche se qualcun’altro osserva: «Ci sono uomini e donne che non vanno a Messa, e che sono migliori di quelli che ci vanno! E viceversa: persone che ci vanno, e sono peggiori di quelle che in chiesa non mettono piede!».

E se il “perché” ce lo ponessimo, almeno qualche volta, soprattutto da cristiani che si sforzano di essere tali per convinzione e non soltanto per tradizione? Forse alcune risposte serie potrebbero indurci a migliorare il nostro comportamento durante la Messa e fuori della Messa. Per un dovere disciplinare «Se Dio esiste – e io ci credo – devo obbedirgli!». Il terzo comandamento suona chiaro: «Ricordati di santificare le feste».

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La Chiesa perciò non abolisce il precetto della Messa festiva; e parecchi cristiani ci tengono a osservarlo fedelmente tutte le domeniche o quasi, benché meno degli anni passati: in Italia 20/25 su 100 (ancora). Con ogni probabilità tu sei uno o una di quelli. Se entri in te stesso, ti senti anche gratificato: «Compio il mio dovere: il Signore ne terrà conto. Ed è pure questione di buon esempio». Se madre Chiesa togliesse il “precetto”, ci andresti ancora alla Messa ogni domenica o quasi? Tutto sommato, sei del parere che il precetto debba rimanere, per tener vivo il senso dell’impor-


tanza della celebrazione liturgica più importante; e almeno perché non si abbassi la percentuale dei cosiddetti “messalizzanti”! Prova, però, a riflettere un momento: qual è la ragione di questo ‘comando festivo’, tale da renderlo accettabile con serenità e da suscitare magari il desiderio di un ‘incontro’ reiterato libero e profondo? Per vantaggi personali All’Eucaristia andiamo anche per avere, quasi in cambio, qualcosa dal buon Dio. Si sente dire talvolta: «Purtroppo al Signore mi rivolgo soltanto per chiedergli grazie e solamente quando ne ho bisogno». Certamente facciamo bene a “batter cassa” con Dio, con la Madonna e con i Santi di oggi e di una volta. Meglio ancora se le grazie (anche quelle più piccole o più assillanti) le andiamo a implorare durante la Messa festiva. Ottima cosa però è se siamo consapevoli che con Dio non basta domandare, sia la domenica che i giorni feriali (quando è imminente, ad esempio, un ricovero in ospedale): quante volte Egli sente il nostro ringraziamento, insieme alla nostra richiesta di perdono? Ma ci sarà per te, andando a Messa, qualche ‘vantaggio’ superiore ad altri, anche senza farne domanda esplicita? Per una bella esperienza Tutti noi ricordiamo qualche “bella esperienza” religiosa: la vicina o lontana Prima Comunione, il Matrimonio proprio o della figlia o dell’amico, … con quei canti, con l’organo o la chitarra, con quella preghiera letta all’ambone. Ci sono dei cristiani che vanno a Messa solamente per provare delle buone sensazioni provocate dall’insieme di ciò che si vede, si sente, si ascolta o si dice; altri, che alla Messa ci vanno, ma in ‘quella’ chiesa o per incontrare ‘quel’ sacerdote oppure perché vi si eseguono ‘quei’ canti. Se ti piace andare a Messa, verificane le motivazioni: forse giungeresti a pensare che la “bella esperienza”, partecipando all’Eucaristia, è fondata su qualcos’altro e deriva da Qualcun altro. E perché?

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Per stare cordialmente con gli amici La domenica non c’è soltanto il bar o lo stadio, la discoteca o il circolo della Terza Età, l’oratorio o un angolo del sagrato della chiesa, per ‘stare bene’ con gli amici. C’è anche la Messa: specialmente la “Messa dei giovani”, la “Messa dei ragazzi” (perché chiamarla così, e non semplicemente la “Messa della comunità?), «la Messa più “viva” – dicono alcuni – dove la celebrazione è una “festa”!». Lì uno/a si trova bene perché ci sono i suoi amici e le sue amiche; perché i gesti, le parole, i canti, gli strumenti musicali sono quelli che “piacciono”: perché, insomma, è (quasi) una bella cena, con tante (troppe?) strette di mano al momento dello scambio della pace. Ed anche senza eccessivi pensieri seri o impegni coinvolgenti? Ma il Signore – Quello messo in croce il Venerdì santo, prima di risorgere a Pasqua – …dove è andato a finire? Lui, il Risorto, che posto occupa e gli riserviamo durante la celebrazione eucaristica?

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Per incontrare il Signore Sono da capire e da ammirare i cristiani che amano le chiese ‘raccolte’, le preghiere ‘individuali’, i canti ‘non rumorosi’, le Messe ‘tranquille’. È una esigenza evangelica quella di incontrare il Signore nel raccoglimento ed anche nell’isolamento, senza il ‘fastidio’ di chi accanto prega troppo forte o continua a guardarsi attorno. Non c’è vita di preghiera e di fede vissuta senza incontro personale con Dio, che ha voluto chiamarci benignamente a tu per tu. Ma il Signore di tutti non gradisce che io ‘mi impossessi’ di lui in esclusiva, solo e sempre a mio piacere, a mio uso e consumo; egli ci ripete: «Dove due o tre si trovano insieme, lì ci sono anch’io».

Dove due o tre, dieci o cento o mille si trovano insieme “nel suo nome”, lì c’è la sua Chiesa che egli chiama e che vuole convocare, soprattutto per ri-offrirle se stesso crocifisso e risorto, per ripresentarle continuamente la sua morte e la sua risurrezione nella celebrazione dell’Eucaristia; per r-presentare a sua volta la Chiesa a se stesso sul Calvario e nel giardino della Pasqua, abbattendo le barriere del tempo e facendo la sua Sposa ‘contemporanea’ alla sua eterna Presenza salvatrice. Ritagliarmi la mia religione, la mia pratica cristiana, la mia Messa: non rischia di degradare la celebrazione eucaristica e la mia stessa fede? Come so accogliere gli altri e, durante la Messa, partecipare con loro al sacramento-dono di quella Presenza? Per celebrare il cuore del cristianesimo Dopo che abbiamo considerato le ragioni più o meno valide che ci inducono a non rinunciare alla Messa domenicale, lasciamo la parola a Giovanni Paolo II, che propone una motivazione ineludibile; i cristiani vanno alla celebrazione dell’Eucaristia poiché essa è il centro propulsore della loro vita:

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«La Chiesa vive dell’Eucaristia. Questa verità non esprime soltanto un’esperienza quotidiana di fede, ma racchiude in sintesi “il nucleo del mistero della Chiesa”» (v. “Ecclesia de Eucaristia”).

Chi partecipa ogni domenica alla Messa probabilmente è convinto di questa “verita”; ma tale convinzione deve orientare in maniera giusta sia la stessa partecipazione liturgica che la vita quotidiana, soprattutto in famiglia e nel lavoro, nel rapporto con Dio e nelle relazioni giornaliere. «L’Eucaristia riempie di sé tutta la Chiesa, perché è il bene più grande e prezioso, il tesoro più splendido e straordinario che essa possiede: è, in realtà, lo stesso Signore Gesù, vero Dio e vero uomo, l’unico salvatore dell’uomo e del mondo» (D. Tettamanzi). Solo se accolta, partecipata e condivisa così la celebrazione eucaristica rende “missionario” il cristiano, facendolo sale per il mondo e luce davanti agli uomini. Erano sicuramente convinti e partecipi alla Messa in questa maniera, fino al punto di “perdere la vita” per il Crocifisso Risorto, quei primi cristiani del Nord Africa, che al giudice pagano (non tanto favorevole alla Messa domenicale dei seguaci di un certo “Cristo”!), dissero senza mezze misure: «Noi la domenica non possiamo fare a meno dell’Eucaristia!». “Altri tempi!” – direbbe qualcuno… Ma “la Messa è sempre una cosa seria!” – aggiungiamo tutti. Commentando la prima lettera di Giovanni, scrive S. Agostino: «Tutta la vita di un buon cristiano è un santo desiderio». Già il ”santo desiderio” di ritornare a quella ‘cosa’ – la Messa – davvero seria, potrà migliorare la nostra partecipazione e innalzare qualitativamente le nostre liturgie.


CONCLUSIONE Dopo il qualcosa sul celebrare c’è il moltissimo di più, detto assai meglio da altri. E c’è quello che dire non è possibile del «Mistero a cui affidarsi e dal quale lasciarsi raggiungere e salvare» (C.M. Martini). Le ultime parole le lasciamo ad alcuni maestri della liturgia e alle loro testimonianze. ♦ «La bellezza della liturgia è parte di questo Mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del cielo sulla terra. La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo» (Benedetto XVI). ♦ «La via per salvaguardare la spontaneità, la sincerità, la vitalità dell’atteggiamento religioso voluto da Dio ed evitare il nemico mortale del meccanicismo e del ritualismo senza vita, non può consistere nella fuga della liturgia o nel ridurla al minimo indispensabile per rimanere nell’ortodossia cattolica. L’unica via sta invece nel penetrare e vivere la realtà liturgica in modo così intenso che tutti i pensieri, sentimenti e tutta la vita dell’individuo siano imbevuti e trasformati da questa realtà» (C. Vagaggini). ♦ «Rallegrati perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della liturgia ti superi. Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte. Se la tua sete è spenta senza che la fonte sia esaurita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Ringrazia per quanto hai ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato. Ciò che non hai potuto ricevere subito a causa della tua debolezza, ricevilo in altri momenti con la tua perseveranza» (Sant’Efrem). ♦ «Non vi è spazio per la mollezza o l’incertezza, vi è una consapevolezza che illumina la mente, una docilità che obbedisce alla rubrica liturgica, una ministerialità che assume i tratti del “bel gesto” di Cristo. La mano, il volto, la voce, il busto si caricano di quella intensità che nobilita l’esecuzione del gesto, trasformando un semplice atto umano in azione di grazia. Come è inefficace il gesto “insensato”, il vacuo gesticolare, così lo è quello irrigidito dalla scrupolosa obbedienza rubricale. Entrambi mortificano la parola di cui sono portatori. Nella liturgia il tocco di Dio non è solo potenza, ma anche “carezza”. Attraverso la delicatezza di questo gesto, la Chiesa esprime compassione, cura. (…) Il gesto, senza mai essere puramente decorativo, dà carne all’amore “viscerale” di Dio, alla sua struggente compassione, alla sua infinita tenerezza. La mano abitualmente si accompagna allo sguardo alla parola, il tocco si fa leggero, il busto si china, senza tuttavia rendersi “evanescente”. (…) Un contatto che non dovrebbe mai essere temuto né sminuito attraverso quell’esercizio di riduzionismo che ancora oggi dilaga nel nostro agire liturgico! (…) Infine, il toccare è uno degli atteggiamenti più frequenti della partecipazione dei fedeli all’azione liturgica; tanto che tutta la liturgia può dirsi “prensile”: luogo di scambi, di cose maneggiate, di incontri, di contatti. Tutta la liturgia è un costante esercizio del tocco “responsoriale”, espressione viva dell’invocazione nostalgica e del desiderio di Dio» (Morena Baldacci). ♦

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«Una comunità dove ben si celebri è una comunità dove ben si crede» (Inos Biffi).

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1. ENZO BIANCHI: L’AZIONE LITURGICA DEVE ESSERE UN’OPERA D’ARTE di Chiara Santomiero

Nella prolusione al IX convegno liturgico internazionale di Bose BOSEQuando l’arte è liturgica? Quando, cioè, serve la liturgia? È l’interrogativo che ha animato il IX Convegno liturgico internazionale dedicato appunto al tema “Ars liturgica. L’arte a servizio della liturgia” che si è svolto nel monastero piemontese di Bose, dal 2 al 4 giugno scorsi, per iniziativa dello stesso monastero e dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Conferenza episcopale italiana. Come è caratteristica di questi appuntamenti, all’incontro hanno partecipato teologi, liturgisti, architetti, artisti e responsabili dell’edilizia di culto di 14 paesi europei con un’attenzione al tema che sottolinea le diverse tradizioni e le attuali ricerche ed esperienze presenti nelle chiese cristiane, nella chiesa cattolica ma anche nelle chiese ortodosse e nelle chiese della Riforma. “Dobbiamo prendere atto – ha sottolineato il priore di Bose, Enzo Bianchi, nella prolusione al convegno – che proprio la liturgia oggi nella chiesa da luogo di comunione è diventata luogo di conflitto e che c’è anche un’incomprensione dovuta a linguaggi in atto non condivisi nel loro significato”. Sacro, santo, liturgico

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Occorre, quindi, una chiarificazione terminologica proprio a partire dal termine “sacro”. “Nella costituzione Sacrosanctum concilium – ha ricordato Bianchi –, ai nn. 122–130, si giunge a definire «ministerium» il rapporto tra arte e liturgia, indicando che l’arte è essenziale alla liturgia, ma che essa è «ministra», è al servizio della liturgia, dunque ne è parte costitutiva, ma sempre alla condizione che essa sia capace di operare la dinamica dal «mistero» rivelato al mistero celebrato”. “Essendo definita «sacra» la liturgia – ha proseguito Bianchi –, si è sempre detta «sacra» anche l’arte che entra nella liturgia, ma oggi occorrerebbe specificare meglio, distinguendo tra l’arte religiosa che ha per soggetto «il mondo della religione» e l’arte liturgica cristiana, perché anche l’arte religiosa – e non solo quella profana! – non sempre appare idonea a essere collocata nel sito liturgico”. Inoltre “leggendo con attenzione i numerosi passi della Sacrosanctum Concilium in cui ricorre il termine «sacro/a», ci si rende conto che questo aggettivo potrebbe essere sempre sostituito dal termine «liturgico/a» e che quindi il suo uso pare legato più a una tradizione di linguaggio che a un significato specifico”. Vale a dire che “quando cose, oggetti, spazi sono riservati e destinati alla liturgia, allora li si è detti «sacri» – spazio sacro, vaso sacro –, ma li si potrebbe definire semplicemente «liturgici»”. Ma il sacro nelle religioni “è legato alla trascendenza, al divino, al «totalmente altro». Dio è sacro, la sua Parola è sacra, la Bibbia è sacra”. “Invero – ha aggiunto Bianchi – per fedeltà alla veritas hebraica occorrerebbe in questo senso parlare di «santità» (qadosh – qodesh): «Dio è tre volte santo (Qadosh, qadosh, qadosh: Is 6,3), i libri che contengono la parola di Dio sono santi, dunque santa Bibbia, libri santi…”. “Potremmo però – ha concluso il priore di Bose – riassumere il «sacro» nel comportamento dell’uomo, il «senso del sacro», come un sentimento di riverenza, di timor Domini. Questo è l’unico


vero «senso del sacro», disposizione interiore assolutamente necessaria nella vita di fede cristiana e perciò fondamentale nella celebrazione liturgica”. “Il cristiano – ha avvertito Bianchi – deve essere consapevole del mutamento portato dall’incarnazione rispetto a tutto il culto da compiere davanti al Dio unico e vivente rivelato da Gesù Cristo” che ha abolito la separazione tra sacro e profano. Perché in Gesù “il «sacro» di tempi, luoghi, persone, azioni ha lasciato il posto alla santificazione di tutta l’esistenza”. Se “Gesù non ha rigettato il culto, né ha voluto una comunità a–rituale, una comunità che non conosce la liturgia e i suoi luoghi e i suoi tempi in quanto l’uomo non può vivere e umanizzarsi senza azioni simboliche, senza riti e non è possibile una fede in Dio, una relazione con lui senza segni esteriori, senza liturgia” tuttavia “Gesù ha voluto che i riti, le liturgie fossero ispirazione e conferma della forma dell’esistenza del credente”. Ne deriva che “battesimo, eucaristia, imposizione delle mani, preghiera appartengono all’agire di Gesù e sono costitutivi della chiesa, dunque assolutamente essenziali alla vita cristiana” ma questi riti “non bastano a se stessi, perché per essere salvifici devono originare un’esistenza cristiana «altra», santa, conforme a quella di Gesù e alla volontà di Dio”. Allora “azioni, tempi e spazi connessi alla liturgia sono «liturgici» e non sono «sacri» nel senso della fenomenologia sacrale delle diverse religioni: devono essere conformi alle esigenze della liturgia che è adorazione, timore, memoriale di Dio e della sua salvezza”. Arte religiosa e arte cristiana liturgica Occorre, secondo il priore di Bose “focalizzare meglio il rapporto tra arte e liturgia”; senza dimenticare che “nello spazio cristiano è innanzitutto l’azione liturgica che deve essere un’opera d’arte”. “La prima bellezza epifanica – ha affermato Bianchi – deve essere trovata nell’azione liturgica, nella celebrazione, nella quale sono convocate le opere d’arte che non costituiscono lo scenario per la liturgia ma partecipano alla liturgia e – oserei dire – anch’esse concelebrano”. A questo proposito va sottolineato che “c’è un’arte religiosa, a volte straordinaria, che però non è adeguata, non ha la capacità di entrare nella liturgia”. Oggi, secondo Bianchi “regna molta confusione sull’argomento, e per questo ci si avventura troppo facilmente sulle vie della sperimentazione e dell’improvvisazione”. Invece va ricordato che “una cosa è l’arte religiosa, anche cristiana, e un’altra è l’arte cristiana liturgica: quest’ultima è giudicata a partire dalla sua capacità mistagogica, cioè diventa arte liturgica quell’arte che è capace di fare segno, di evocare, di narrare il mistero che si celebra”. Inoltre la stessa arte liturgica “deve essere anche giudicata a partire dalla sua possibilità di essere letta, percepita, accolta da parte dell’assemblea che, insieme all’arte, celebra il mistero”. Infatti “se le opere d’arte non sono lette, se non sono accolte come concelebranti, se addirittura disturbano l’assemblea celebrante, allora occorre avere il coraggio e la forza di espellerle dallo spazio celebrativo”.

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Una finestra sull’invisibile “L’arte che vuole entrare nella liturgia – ha affermato Bianchi –, con la sua bellezza, della materia e dell’arte umana, è chiamata a narrare la bellezza della presenza e dell’azione del Signore vivente”. “Simboli e arte – ha proseguito il priore di Bose – testimoniano la convinzione che l’invisibile esiste, che la liturgia è una finestra aperta sull’invisibile, che il credente vuole esercitarsi a vedere l’invisibile per restare saldo in un mondo in cui il visibile sembra essere l’unica possibilità di lettura”.

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Il problema è, allora, “quale linguaggio e immaginario simbolico può attivare il desiderio spirituale dell’uomo attuale e aprire la sua mente e il suo immaginario verso l’eschaton e l’eterno”. La simbolica e l’arte nella liturgia devono avere come fine “quello di suscitare la capacità di gratuità e di contemplazione, non di consumo o di possesso; di saper introdurre al senso del mistero, che non è affatto l’inconoscibile, ma ciò per il quale l’interesse e la ricerca non si esauriscono mai, anche quando lo si conosce parzialmente”. “Il mistero infatti – ha sottolineato Bianchi –, e in particolare il mistero di Dio, diviene sempre più interessante, se–ducente, capace di condurre a sé, nella misura in cui a esso ci si avvicina progressivamente e se ne conosce qualcosa”. Tutto questo “richiede da parte del credente un cammino di discernimento, un cammino ascetico mai concluso, un cammino faticoso di ricerca del senso inscritto in ogni bellezza, la quale sempre rimanda a Dio,autore della bellezza”. Questo, ha concluso Bianchi, significa “nessuna negazione, nessuna diffidenza verso la materia, verso le creature di questo mondo, verso l’opera delle mani dell’uomo. Occorre invece un’ascesi rigorosa affinché proprio nell’esperienza delle realtà sensibili siamo in grado di discernere le realtà invisibili ed eterne”.

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2.

UNA TEOLOGIA DELLA MUSICA?

di Eugenio Costa (Docente di Teologia e Liturgia, Centro Teologico, Torino

Le “teologie del genitivo” (della serie “teologia del lavoro”, “teologia della cultura”, ecc.) hanno fatto il loro tempo. Non è il caso di rispolverarle per aprire un ulteriore capitolo riguardante la musica. La riflessione susseguente tuttavia non ha certo voluto snobbare il valore e l’importanza, agli occhi del credente, delle grandi aree dell’operosità umana, ma si è sforzata di rileggere i diversi temi – troppo frazionati e fatti spesso oggetto di considerazioni francamente ingenue – alla luce di una teologia globale della creazione. Questa, per ricordare Barth, non è “il portico dei Gentili” che rimane fuori dallo spazio sacro, ma è assunta all’interno dell’unico piano salvifico di Dio, dove naturale e soprannaturale non si oppongono ma si integrano e si orientano. Tali scarne annotazioni di apertura valgano a sgombrare subito il campo da ogni pretesa, o illusione, di impostare un discorso che abbia appunto l’intenzione di teologizzare la musica, o di musicare la teologia. Ciò non significa che non si possa render conto del lavoro di ricerca e delle alterne fasi storiche che risultano da un attento sguardo retrospettivo sulla prassi musicale e sulle considerazioni di cui è stata corredata, anche partendo da retrospettive teologiche. E nulla vieta che si tenti di porre nuovamente alcune domande fondamentali riguardo alla fruizione musicale e a un suo eventuale ruolo nel difficile, faticoso e avventuroso avvicinarsi dell’uomo alla realtà divina1. 1. Quale musica È senz’altro utile delineare rapidamente una mappa dei significati che, come da un tronco comune, fioriscono attorno al termine “musica”, formando una costellazione assai fitta e non sempre chiaramente precisata. La descrizione che segue intende far risaltare l’intreccio costante fra la pratica del “far-musica” e i diversi approcci di tipo culturale di cui essa è oggetto. Possiamo partire dal procedimento creativo dell’oggetto musicale, che va dal compositore (ed eventualmente dall’autore di testi per il canto) all’esecutore/fruitore. In certe culture, antiche o anche presenti, non vi è distinzione fra compositore ed esecutore. Va da sé che, sotto l’unico termine “musica”, si intende tanto il canto quanto la musica prodotta da qualsiasi tipo di fonti sonore o strumenti: il rapporto dei vari elementi o attori di questo processo con l’oggetto e con l’atto musicale non è evidentemente lo stesso. In altre parole, ci si appropria in vari modi della composizione musicale: ascoltandola eseguita da altri, eseguendola personalmente (cantando, suonando) e/o in gruppo, associandola ad altre azioni umane (ad esempio la preghiera, la danza) o a situazioni ed eventi (musica di fondo o di ambiente), fino a un possibile utilizzo ? a determinate condizioni ? con scopo terapeutico. Il rapporto oggi più comune è quello fra opera composta ed esecutore della medesima; ma non è l’unico, perché è possibile non soltanto che, come già detto, coincidano il compositore e l’esecutore, ma che il singolo, o anche il gruppo, improvvisino forme musicali che si risolvono nell’atto stesso del produrle, secondo procedimenti spontanei (in realtà, culturalmente predisposti e psicologicamente attivi), senza riferimento a una partitura da eseguire. Più in particolare, c’è consenso fra gli osservatori per distinguere, quanto all’ascolto, tre modi di attenzione che qualificano tre diverse relazioni con una fonte sonora: ascolto distratto (se chi ascolta fa altro, ma riceve “sullo sfondo” una produzione musicale che lo accompagna); ascolto indiretto (quello che si presta, ad esempio, a ogni forma di colonna sonora, al cinema, in teatro, alla televisione o altro); ascolto diretto (la classica situazione del concerto, o comunque dell’attenzione esclusiva e protetta). Questi tipi di ascolto vanno naturalmente modulati fra il caso singolo e quello di un gruppo, di qualsiasi dimensione.

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Il caso del concerto è emblematico: ha un impianto rituale, con procedure riconosciute e regole del gioco che variano secondo gli ambienti umani e gli ambiti musicali: luogo, circostanze, tipo di pubblico, generi di musica, livello e forme di coinvolgimento. Dalla sala o dal teatro, al club o allo stadio, il rito del concerto è un momento forte nella vita di molti. Le distinzioni fra i diversi generi di musica sono correnti e in parte giustificate: classica/popolare; antica (?)/contemporanea; folk/etnico/pop, ecc. Se la tendenza oggi è all’accostamento e al missaggio, almeno sperimentale, permangono situazioni in cui genere, luogo, esecutori, ethos globale, sono ferreamente caratterizzati e custoditi. Da ultimo, il caso particolare della “musica sacra”: si va delineando un certo accordo sulla distinzione, valida per oggi, fra musica “sacra” intesa come il patrimonio secolare di composizioni colte su testi biblici e liturgici, che costituiscono un’ampia parte della storia musicale in Europa; musica “religiosa”, categoria più vasta e alquanto fluida, caratterizzata da una certa intenzionalità o ispirazione di tipo religioso, da definire di volta in volta; musica “liturgica”, o rituale, o per il culto, composta su misura per le concrete celebrazioni di una confessione religiosa, cristiana o altra. Questa triplice distinzione è di grande importanza, se si vogliono evitare confusioni e malintesi. A conclusione di questa mappatura di cose e di nomi, dovrebbe essere chiaro che non si può parlare di “musica” in senso troppo generico, ma che occorre adottare, caso per caso, problema per problema, un’angolatura precisa che permetta di cogliere nel segno. 2. Una prima riflessione storico-critica

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L’odierna musicologia è una disciplina a tutto campo, con settori specifici e con interrelazioni: dalla storia alle teorie acustiche, dalle dottrine sistematiche sui fatti musicali, la loro notazione e riproduzione, la loro ermeneutica e il loro peso culturale, fino alle procedure didattico-pedagogiche. È una riflessione di secondo grado sull’evento-musica, sezionato secondo punti di osservazione particolari. A fianco, ma non sempre ben correlato, vive tutto l’universo dell’inse-gnamento del canto e della pratica strumentale e si agita il grande mare del far-musica, dell’organizzazione della sua diffusione, del business spettacolare e commerciale. Se si intende spingere la ricerca sul senso dell’agire musicale fino a porre domande ultime, o almeno penultime, si dovrà rimanere consapevoli della complessità, teorica e pratica, del pianeta musica, che sfugge a un’osservazione semplificata. Una riflessione cristiana sulla musica, intesa settorialmente come una delle pratiche del culto, appare solo indirettamente negli scritti dei Padri; la lezione agostiniana, più che nel De musica, va ricercata in determinati passi delle Confessioni e delle Retractationes e si estende comunque a una concezione più ampia, che va oltre la musica nel culto; l’epoca medievale vede nascere cospicui repertori per il canto liturgico ed esprime un primo stadio di meditazione sapienziale,


soprattutto riguardo al cantare; i primi Riformatori, sentendo fortemente il legame fra parola e musica, lasciano tracce di una riflessione teologica sui loro ruoli rispettivi; a cominciare dal sec. XVII, si fa luce la prospettiva di una differenza esplicita e riconoscibile fra musica sacra e profana, con un crescendo di dispute e un divaricarsi stilistico sempre più netto; in epoca romantica saranno soprattutto letterati, filosofi e teologi di area germanica e luterana, a tentare per primi un affondo con intenti teologici (Tieck, Wackenroder, Hoffmann, Schleiermacher). Nel quadro del romanticismo viene a formarsi in effetti una considerazione della musica – intesa qui come opera colta di compositori dotti, offerta soprattutto all’ascolto – che tende a configurarne la fruizione come un atto (quasi) religioso: E. Th.A. Hoffmann scrive, nel 1814, che “nella sua essenza più caratteristica e interiore, la musica è [...] culto religioso”2. L’orizzonte dei teorici romantici è quello del patrimonio storico di musiche sacre, quale era allora conosciuto. Essi tendono ad attribuire all’ascolto di questo genere musicale, eseguito dentro o fuori il tempio, effetti spirituali di grande portata. È una posizione che ha attraversato, si può dire, due secoli per giungere fino a noi, reperibile tuttora in frasi comunemente accettate del tipo “La musica [quale?] eleva l’animo a Dio [come? quando? a quali condizioni?]”; “Questo autore (xy) è davvero ispirato, parla di Dio”; “Quando ascolto certa musica, mi sento trasportato in un altro mondo”, e simili. Una vera e propria religione dell’arte, in questo caso arte musicale, in cui la percezione estetica ? di preferenza, riservata agli eletti ? provoca stati subliminali di uscita da sé e di ingresso in un mondo prossimo al divino, o nel divino tout court. I confini non sono tracciati con precisione; ciò che conta è sperimentare la pienezza di un’emozione totale e di un coinvolgimento affettivo intenso, procurati dall’ascolto di una determinata produzione musicale. Dove, in realtà, sono presenti e attive alcune pre-comprensioni e condizionamenti culturali non sempre lucidamente vagliati: infatti non ogni tipo di musica è adatto allo scopo, ma solo quello, stilisticamente connotato, che globalmente può chiamarsi “classico”, in una cornice d’ascolto privilegiata (dalla chiesa al chiuso della propria stanza), sulla base di particolari predisposizioni e stati d’animo. Nell’avanzare del sec. XIX e l’inizio del XX, da un lato la composizione della musica sacra colta si sposta sempre più verso una musica di tipo religioso, si stacca cioè sempre più da un rapporto, quale che sia, con l’ambito chiesastico per divenire una libera creazione a carattere spiritualistico (non meglio identificato); d’altro lato la musica per il culto si allontana deliberatamente da ogni compromesso con l’at-tualità e si rifugia o nei miti del passato (gregoriano, polifonia palestriniana) o in una linea neo-sacrale ad alte dosi di kitsch (cecilianesimo). La posizione ecclesiastica prevalente cercherà di dare un fondamento alle proprie scelte e direttive, sposando di fatto l’ideale romantico del “sublime”, cercato in epoche precedenti (senza storicizzarle) o in alcuni caratteri compositivi che avrebbero dovuto connotare infallibilmente il “sacro”. Nel medesimo tempo la cultura europea è attraversata da importanti spostamenti di prospettiva,

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in particolare per quanto riguarda una graduale acquisizione di autonomia da parte dei valori estetici e in genere dell’opera d’arte. Si verifica una certa secolarizzazione dell’estetico nei confronti dell’etico e di conseguenza un allontanamento, una distanza fra il religioso e l’artistico. Il mondo ecclesiastico appare singolarmente spiazzato rispetto a un’evoluzione del genere, anzi refrattario a indagarne le ragioni e quindi a priori nemico di ogni produzione artistica che non si pieghi a determinati canoni o non si inserisca entro certi progetti. I valori estetici, dal canto loro, si dislocano liberamente e trasversalmente, in assoluta mancanza di costrizione. A ben guardare, non si è trattato di una secolarizzazione a tutto campo, bensì del sorgere di un nuovo sacro pre-religioso, che di fatto si identifica con il bello e con il suo culto. La musica partecipa di questa temperie, almeno a livello colto, e si insedia definitivamente nel suo tempio, la sala da concerto, o nel suo prolungamento domestico, grazie alle sempre più raffinate tecniche di riproduzione sonora. 3. La teologia può parlare della musica?

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Come osserva P.A. Sequeri3, oggi la teologia, per una serie di motivi, tende a tacere sull’argomento, inclusa quella protestante che pur si era, nel passato, più volte pronunciata: perché il rinnovamento radicale dell’ermeneutica ha polarizzato la ricerca sulla revisione del linguaggio, e quindi sulla parola scritta e parlata; perché la drammatizzazione della scelta della fede porta a opporre la tragicità dell’esistenza all’evasività dell’estetico, tanto più del musicale; perché si è più inclini a trattare temi connessi con l’impegno politico e sociale, anziché temi che si collocano nella sfera del superfluo (!). In altre parole, canto e musica sarebbero accessori della vita quotidiana, soprammobili o coriandoli rispetto alla gravità e alla seriosità delle “vere” questioni. Prima di chiarire questo punto e svilupparlo, occorre riprendere la mappa tracciata al punto 1 di questo contributo e precisare alcune cose. Nella misura in cui vi è stata, storicamente, qualche riflessione cristiana sulla musica, essa si è concentrata o sulla fruizione dell’opus musicale (da Agostino ai romantici) o sull’identificazione di un suo carattere “sacro”, distinto dal profano (i classici, i ceciliani). In sostanza: l’ascolto della musica, entro uno spettro che va dalla classica alla “sacra”. Poco o nulla sull’atto stesso del “far-musica” con la voce o con gli strumenti (salvo alcune osservazioni di marca monastica sul cantare liturgico). Lo stesso meccanismo dell’ascolto non ha riscosso particolare attenzione, tale da precisare ad esempio i rapporti fra audizione, recezione, eventuale meditazione o altro. Due sembrano tuttavia le piste su cui si può impegnare una ricerca, in parte peraltro già avviata, seppure in anni molto recenti. Si tratta di piste pertinenti, che cioè rientrano correttamente in un’interrogazione che parta da premesse teologiche e si proponga di evidenziarne un senso coerente con la destinazione ultima dell’uomo. La prima area è quella della musica per/nella preghiera, personale e comunitaria4. Su questo importante evento, anzitutto ecclesiale e sacramentale, ma in cui il canto è uno dei codici principali (accessoriamente, anche la musica strumentale), si va affinando un pensiero sempre meglio articolato. Esso intreccia i dati liturgici, perciò a monte cristologici ed ecclesiologici e a valle rituali e antropologici, con le acquisizioni storiche, i problemi posti dalla gestione dei repertori antichi e recenti, l’approfondimento del nesso fra celebrazione e vita cristiana quotidiana. Negli anni immediatamente post-conciliari l’attenzione fu catturata dalla messa a punto di un ben funzionante rapporto tra funzioni rituali (il gesto, la parola e il loro senso) e forme musicali (da riscoprire o ricreare perché siano a servizio delle dette funzioni), con una rimessa in questione dei grandi patrimoni del passato e una critica costante delle produzioni odierne. Il canto e gli strumenti sono stati inquadrati nel loro stringente rapporto con il rito e con l’assemblea che lo celebra. Ne derivano conseguenze, che alcuni ancora oggi giudicano devastanti (per tutto un “tesoro” di musica sacra, composta sotto un diverso disegno liturgico ed ecclesiale), ma che in realtà stanno lentamente facendo rifiorire l’autenticità del gesto vocale e sonoro, purché tutte le condizioni ne-


cessarie a un buon “funzionamento” siano presenti ed offrano a tutti il massimo delle chances sul piano simbolico e spirituale. Qui l’occhio del teologo veglierà soprattutto alla globalità e integrità del significato inteso dal progetto liturgico, con tutte le sue componenti, non solo contenutistiche, ma anche e soprattutto “performative”, atte cioè a far entrare l’assemblea nel vivo del passaggio pasquale, a cui i credenti sono chiamati. Negli anni più recenti le ricerche si sono fatte più attente all’aspetto personale della fruizione musicale nel culto. Si vanno indagando alcune importanti premesse di ciò che può essere detto l’homo audiens, premesse teologiche (a Dio che per primo parla l’uomo porge un orecchio e un cuore), antropologiche (natura e cultura pre-condizionano ogni concreto ascolto) e musicali (il gioco del proferire in canto un messaggio, dell’accoglierlo nel silenzio e del rispondervi in vari modi musicali). Il fondamentale paradigma della Parola di Dio, che è sempre in principio, e della parola umana, personale ed ecclesiale, che loda, supplica e rende grazie, innerva nuove ricerche compositive ed esecutive, perché il credente, dopo essere audiens, è anche loquens e canens, laudans e petens. Quest’ottica, più sbilanciata verso il soffietto, è destinata a incontrarsi con la precedente, più “oggettiva”, preoccupata cioè del progetto rituale nei suoi aspetti storico-istituzionali e delle esigenze poste dalla sua pratica attuazione.

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La seconda area è la più impegnativa per un’indagine che voglia porsi un traguardo eminentemente teologico; essa tocca nel vivo un aspetto centrale del cammino dell’uomo verso il suo Creatore e Salvatore. La domanda di partenza può essere formulata così: ogni (forte) esperienza dell’estetico è destinata ad aprire a un autentico approccio con Dio, o finisce immancabilmente per chiudere la strada e ri-voltarsi narcisisticamente verso (contro?) il soggetto? La questione ricupera quanto di vero, di intimamente umano era presente nella sopra citata posizione romantica, e tiene gran conto dello sperimentare vissuto. Da un punto di vista musicale, il problema può essere posto sia per l’ascolto sia per il far-musica, e non va circoscritto ad un unico genere o stile di musica. L’essere “presi” da una ricezione sonora o da un’azione musicale che investano la persona e inneschino intensi processi emotivi e affettivi, operino una sorta di dilatazione interiore fino a far cogliere, per il gioco dei rimandi simbolici, qualcosa di più che umano, trascendente l’orizzonte terreno, può essere riconosciuto con certezza come una condizione quasi di anticamera o di soglia, là dove l’oscura-luminosa Presenza sembra annunciarsi come prossima, e il mistero comunicarsi in misura prima sconosciuta? Oppure è un percorso del tutto fuorviante, illusorio, puramente orgiastico e, in fin dei conti, auto-distruttivo? È un’inevitabile deriva? È talmente carico di pesanti scorie da bruciare ogni energia positiva e sprofondare l’essere umano in uno stato regressivo, benché forse, esteriormente, ammantato di fascino, se non di prestigio? Lascio la parola a P.A. Sequeri, che ha cercato ripetutamente di gettare luce sulla questione, rinnovandone l’impostazione e delineandone alcuni tratti salienti: «Il [...] tema fondamentale è [...] quello di una teologia cristiana dell’estetico, come ascetica e mistica dell’esperienza sapienziale del divino. Una vera e propria estetica teologica: interpretazione teologica della forma estetica dell’esperienza, e non della semplice omologia dell’esperienza religiosa e dell’esperienza artistica. Una teoria nella quale siano ripresi lo spirito e la verve dell’antica lezione sui sensi spirituali e sulla spiritualità del sensibile [...]. L’estetica per il sacro è certamente nell’ordine del gratuito. Ma anche nel senso per cui l’analogia della grazia e della bellezza – il più “bello” di tutti i legami, secondo Platone – annuncia come nessun altro l’evidenza simbolica, universalmente accessibile, dell’ordine teologale. La grazia di Dio infatti è destinata ad ogni uomo “che viene in questo mondo”. Perciò la risonanza estetica del sacro è modalità fondamentale per l’esperienza del senso5». La ricerca teologica e il cammino spirituale trovano qui orientamenti e punti cruciali, dunque.


Essere “presi” da quale “grazia”? Essere trasportati oltre quale orizzonte? Quale ascesi all’interno della percezione stessa della bellezza? Come assumere seriamente una spiritualità di ciò che vi è di più sensibile, come la musica ricevuta e ricreata? L’indagine continua. Sommario L’articolo non ha la pretesa di teologizzare la musica, ma vuoi porre soltanto alcune domande fondamentali sulla composizione/fruizione musicale. Dopo aver chiarito i vari significati del termine e i vari generi di musica, viene presentata l’evoluzione storica della riflessione cristiana sull’arte musicale, facendo notare in particolare il distacco tra musica come fatto estetico e musica funzionale al culto liturgico. L’attuale ricerca teologica sembra avviata a comprendere la risonanza estetica del sacro nel quadro più vasto della percezione di senso che ogni persona compie (o non compie) nella propria esperienza. Ma tale indagine è appena iniziata.

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Note Cf. P.A. Sequeri, L’estetico per il sacro “La Scuola cattolica” 123 (1995), pp. 621-663. Studio fondamentale sul tema, provvisto di un’estesissima bibliografia. Rimane un riferimento obbligato, e il presente articolo se ne ispira abbondantemente, con riconoscenza verso l’Autore. 2 E.TH.A. Hoffmann, Musica religiosa antica e moderna citato da R. Di Benedetto, L’Ottocento, E.D.T., Torino 1982, p. 193. 3 Sequeri, L’estetico per il sacro..., pp. 640-642. 4 In questo settore occorre ricordare l’operosità del Gruppo internazionale di studio sulla musica nella liturgia, denominato Universa Laus, di cui compaiono contributi su riviste come La Maison Dieu, Rivista Liturgica, Rivista di pastorale liturgica, Musica e assemblea. Altre pubblicazioni di membri del Gruppo sono ampiamente indicate nella nota 2 del citato articolo di Sequeri, L’estetico per il sacro..., pp. 622-623. 5 Sequeri, L’estetico per il sacro..., pp. 661-663. 1

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IL CANTO GREGORIANO

Il canto Gregoriano è legato intimamente alla religione e alla chiesa cristiana, più specificamente cattolica perchè fino al 1500 costituiva una sola religione estesa in tutta Europa fino ai paesi dell’est. Invece il canto tradizionale della chiesa anglicana si chiama Antems, invece quella della chiesa Protestante (luterana poiché deriva dalla riforma di Lutero) pone al centro del culto il Corale scritto in lingua tedesca. Il canto Gregoriano nasce nella Terra Santa, e esso accompagnava i primi canti del cristianesimo. Inoltre nei primi anni la musica ebraica, il modo di leggere i testi sacri degli ebrei, influisce sul canto Gregoriano. La musica ebraica era legata al canto religioso, veniva effettuata nelle sinagoghe e nei loro riti (Pasqua, nei sacrifici a Dio, come invocazione a Dio prima della battaglia); con inni e canti a Dio accompagnati da strumenti e danze. Nelle sinagoga o nei riti ebraici potevano cantare solo le voci maschili, e le voci bianche dei bambino maschi: la donna non può cantare. Infatti nei primi tempi anche i cristiani affermavano che la donna doveva tacere in chiesa. Insomma il Canto Gregoriano come la religione cristiana si innesta sulla religione ebraica, il canto e le musica avevano quindi una matrice ebraica. Gli strumenti diffusi presso gli ebrei erano: - - - -

KIMNOR strumento a 10 corde pizzicate LIRA LIUGAB strumento a fiato SCHOFFAR realizzato con le corna di montone o di caprastrumento sacro per antonomasia, utilizzato ancora oggi nelle sinagoghe (strumento a fiato). - IL SALTERIO strumento a corde pizzicate - TAMBURELLI anche quelli a sonagli

La più antica forma di canto ebraico prende il nome di Cantillazione, forma di declamazione dei testi sacri e dei salmi, basata sulla ripetizione continua di una stessa nota con lievi inflessioni verso l’alto o verso il basso. Il testo nel canto Gregoriano è determinante, il canto dei salmi poteva avvenire in tre diverse forme: - MODO DIRETTO un versetto di un salmo veniva cantato da un solista e veniva ripetuto dal coro - MODO RESPONSORIALE nel quale il solista declamava le strofe e il coro risponde declamando il ritornello. - MODO ANTIFONICO prevede l’alternanza di due cori, nella realizzazione del salmo.

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Il Jubilus è un canto diffuso presso gli ebrei e consiste in lunghi vocalizzi sulla parola Halleluja. I vocalizzi sono l’estensione di una vocale su più note.


La monodia liturgica cristiana Le musiche greche e romane , non essendo state fissate per iscritto, svanirono gradualmente con lo sparire delle relative civiltà. Un’altro antico repertorio di tradizione orale riuscì a giungere alla fase della stesura scritta , che ha quindi reso possibile la sua sopravvivenza. È quello che viene denominato canto gregoriano, ma che è più corretto definire MONODIA LITURGICA CRISTIANA. Non avendo testimonianze sul canto cristiano dei primi secoli, si può supporre che la prima comunità cristiana per le sue celebrazioni, un tipo di canto non diverso da quello delle sinagoghe. La liturgia ebraica era caratterizzata dal fatto di essere CANTILLATA: le parole venivano intonate su formule melodiche tradizionali, costituite da intervalli musicali piccolissimi (detti “microtoni”, perché più piccoli di un semitono), spesso la voce si spostava da una nota all’altra, quasi scivolando (glissando). Il ritmo era modellato sul ritmo verbale stesso; la “cantillazione” era un’amplificazione della parola liturgica, che quindi attribuiva maggiore importanza. La principale eccezione a questa regola era la SALMODIA: i salmi (preghiere in poesia della bibbia adottate integralmente dal Cristianesimo) venivano cantati imperniandole la recita su un’unica nota continuamente ripetuta, fatta precedere e seguire da formule di intonazione e cadenza (come modo diretto).m fin dalla prima generazione di discepoli, la nuova religione si diffuse rapidamente in tutto il bacino del mediterraneo. Il greco divenne la lingua maggiormente usata dalla liturgia: e in greco furono scritti sia i vangeli che tutti gli altri libri del Nuovo Testamento. In Occidente, quando finirono le persecuzioni, il latino si affiancò al greco, come lingua liturgica; ma il latino non divenne lingua ufficiale della chiesa d’Occidente, fino alla metà del 4 secolo. Per esempio le parole amen e alleluia sono ebraiche, mentre è in greco la preghiera Kyrie eleison(signore pietà). Ma la struttura della messa latina non era così come la conosciamo oggi, non risale a prima dell’8 sec. Una grande svolta avvenne quando Costantino emanò l’editto di Milano; nel quale veniva riconosciuto il diritto alla libertà di espressione per tutti i culti religiosi. Dopo circa trecento anni di problematici rapporti con le autorità statali, il cristianesimo inaugurò un epoca dove il proprio ruolo della vita politica e religiosa divenne sempre più influente: il passaggio tra 4 e 5 sec fu caratterizzato dagli editti di Teodosio (re barbari che impedisce il culto pagano) e Onorio che , giungevano fine ad eliminare i templi gli atti di culto di tutte le religioni. Nel 4 secolo furono poste le basi per l’affermazione ufficiale della chiesa, attribuendole una totale visibilità pubblica:

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- si costruirono numerose basiliche - ci si avviò ad istituzionalizzare, ampliare e fissare per iscritto il cerimoniale liturgico che fino ad allora era gestito dalle singole comunità in modo libero e creativo. Furono inoltre adottati elementi del culto pagano e dal cerimoniale di corte dell’imperatore per accrescere il fasto della liturgia e renderla degna di quella che era diventata la nuova religione di Stato; entrarono in uso: - abiti e insegne di funzionari imperiali - gesti di prostrazione alla divinità - espressioni di uso giuridico Canto liturgico: amplificazione del testo sacro Parte integrante della solennità del rito, era la musica. Così come il sacerdote si rivestiva dei para menti sacri per evidenziare il superamento della sua persona concreta e poter agir in nome di cristo, così avvolgendosi nella dimensione inusuale della ed elevata del canto, la proclamazio-

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ne del testo liturgico si innalzava da semplice livello di linguaggio umano a quello di parola di Dio. (il suo compito era quello di innalzare e di rendere divina la parole) Questa funzione di amplificazione rituale, la musica svolgeva inoltre una funzione di amplificazione fonica: in una sala o in una basilica la parola cantata era molto più sonora e percepibile di quella parlata. Un’altra fondamentale funzione della musica applicata al testo sacro è l’amplificazione melodica: la monodia liturgica cristiana non faceva altro che esplicita la musicalità del latino. La lingua latina aveva una caratteristica: gli accenti delle parole consistevano soprattutto nell’elevazione melodica della voce, più che in una intensificazione. La lingua latina determina tutto l’assetto del canto gregoriano, metro, ritmo e melodia e nasce in funzione, si modella sulla lingua latina, abbiamo delle testimonianze: Cicerone ad esempio descrive il linguaggio come un cantus obscurior, canto più nascosto, del resto lo stesso termine greco prosodia deriva da pros odè cioè vicino al canto, come la parola accentus significa vicino al canto. Di ogni parola latina si può rintracciare una specie di diagramma melodico, il cui punto più alto corrisponde alla sillaba accentata.

Gli stili sillabico e melismatico

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Il CANTUS non aveva un’unica possibilità di realizzazione, e il suo grado di melodizzazione dipendeva dallo stile richiesto nelle singole circostanze: in una voce antifona ( breve versetto che introduce e conclude il canto di un salmo, vedi salmodia responsoriale, salmodia antifonica, salmodia diretta), la melodia era più semplice e tale stile viene detto SILLABICO (ad ogni sillaba del testo corrisponde una nota), il cantore poteva elaborare lo schema di partenza uno stile più ricco, detto STILE MELISMATICO O STILE FIORITO (vocalizzi = melismi). Anche il ritmo si modellava fedelmente sulla dizione parlata del testo; i melismi poi venivano cantati con grande libertà.


Il legame tra la linea melodica del canto e l’accentuazione del testo liturgico (amplificazione melodica), caratterizza l’80 per cento del repertorio Gregoriano che è giunto fino a noi. Eccezioni dell’amplificazione melodica - Un caso riguarda i SALMI, la cui intonazione avveniva in modo simile a quello ebraico descritto sopra: se la voce doveva fissa su un’unica nota (corda di recita) era impossibile seguire il profilo di ogni parola. - Un caso riguarda gli INNI: erano composizioni poetiche di lode a Dio , cantate (in greco) fin dagli inizi del Cristianesimo, soprattutto grazie a S.Ambrogio, l’innodia latina ebbe una vasta diffusione , assumendo forma strofica con versi regolarmente ritmati e testo facilmente comprensibile. Gli inni nascono in lingua greca e quindi non c’e uno stretto legame tra parole e melodia. La melodia infatti si presenta più marcata e accentuata. - L’ultima importante causa era l’obbedienza ad un criterio più generale. Lo stesso legame melodico tra parola e nota veniva applicato anche nelle intere frasi.l’arcta descritta dalla voce parlata all’interno di ogni frase, che sottolineava la parola con un innalzamento vocale, era riprodotta allo stesso modo in musica, attraverso un identico percorso. Può quindi capitare che la parola meno importante sacrifichi la sua linea melodica per uno slancio verso l’apice della frase. Riti liturgici Il canto liturgico diede luogo a tradizioni di canto diverse nelle varie regioni d’Europa subendo l’influenza anche degli stili di canto locali. Dal 4 sec in poi, sotto la spinta della Chiesa, ci fu un processo di coagulazione della liturgia e del canto liturgico in vaste unità regionali. - Da una parte la Chiesa d’occidente in lingua latina, con il canto vetero-romano (rito romano antico), il rito ambrosiano (rimasto intatto fino ad oggi), il rito gallicano (in Francia = Gallia), il rito celtico (nelle zone influenzate dai celti), e il rito ispanico. - Dall’altra parte si trovavano le chiese d’Oriente, frammentate in una vasta pluralità di riti e di lingue diverse, che si avviava ad una separazione da Roma nel 1054 dalla scissione tra cattolici e ortodossi.

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Il 6 sec si concluse con il papato di Gregorio Magno, colui dal quale il canto gregoriano prese nome (melismatico, sillabico Romano antico e Gallicano). Prima si riteneva che egli avesse avviato una grande riforma del canto liturgico, modellandolo nella struttura definitiva. Studi più recenti hanno rivelato che non esiste nessun documento attendibile che dimostri un intervento determinante del papa riguardo la musica.(colomba). L’intenzione del papa era quella di rispettare e stimolare le autonomie locali, non di modificarle in favore di un’unificazione imposta dall’autorità centrale. Primo approfondimento Nell’ambito del canto liturgico della chiesa di Occidente ci sono pervenuti i primi esempi di notazione musicale (9 sec/ 1800), quelli invece scritti con i neumi risalgono al 10 sec. Senza un supporto scritto la composizione e la trasmissione delle melodie non poteva avvenire, così come non potevano essere accettati riti religiosi senza canto, occorrevano così delle scuole di canto per l’istruzione dei cantori. Grazie al Papa Sergio 1 nasce una scuola cantorum pontificia che divente-

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rà fondamentale in Occidente. Furono gli stessi monasteri a dare un primo compito per la pratica musicale in particolare quello benedettino a partire dal 6 sec con la fondazione di abbazie come quella di NONANTOLA e più tardi della cattedrali come MERTZ E SAN GALLO. La notazione musicale non impedisce lo sviluppo del canto Gregoriano. Il percorso didattico dei cantori dura 10 anni che non mira sola alla memorizzazione dei canti. Per analizzare le tecniche e i trucchi di memorizzazione utilizzarono il TRACTUS (canti solistici che sostituiscono l’alleluja durante la quaresima e nella messa dei defunti costituiti da versi separati e da pause quindi sono ASSIMMETRICI e il DEUS, DEUS MEUS.

1. si consideri che ciascun canto liturgico si può accumulare ad un altro in espressione di un certo “tipo melodico”. Per esempio sia il TRACTUS DEUUS CHE IL DEUS, DEUS MEUS, intonano i loro versi sulle corda di recita “fa” (repercussio) e hanno in comune anche la nota finalis o di riposo “re”. Non sempre però l’oscillazione tra repercussio e finalis nei versetti del tractus è così nitida poiché nella melodia vengono inserite altri tipi di note.(nel canto comunque rimangono questi due poli di attrazione. Quindi un tipo melodico si distingue sia dalla sua destinazione (tractus) quanto per le note polari della melodia 2. inoltre ci sono determinate formule melodiche fisse valide per l’apertura o la chiusura del canto di un determinato tipo, come il Tractus, che il cantore ha memorizzato. 3. inoltre il cantore sa che dovrà suggerire l’articolazIone in versetti tipica del TRACTUS. Il versetto è costituito da 4 segmenti (è assimetrico perché presenta 3 pause per respirare) la melodia del versetto ha quindi 4 tappe fondamentali che possiamo definire note cardine (re, do, fa, re) l’analisi della melodia dimostra che le intonazioni sono una diversa dall’altra, eppure tutte seguono un profilo melodico simile dette scheletro melodico fondamentale.

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Queste 3 formule furono rese comuni e potevano essere utili alla memoria del cantore improvvisatore. I poemi omerici sono per secoli stati destinati alla trasmissione orale esercitata dagli aedi. Quindi possiamo attribuire l’acquisizione di alcune formule per l’intonazione e la memorizzazione del canto Gregoriano al fatto che derivano dal modo di declamare gli antichi poemi epici. Era la pratica del canto che conduceva i cantori ad adottare lo schema più opportuno per passare dalla corda di recita ad un’altra nota cardine del versetto.


A volte il cantore poteva inserire più o meno consapevolmente in un canto, formule provenienti da altri canti. Il cantore poteva quindi modificare le melodie liturgiche a seconda dei costumi musicali tipici della propria cultura e delle proprie capacità, quindi cambia il loro modo di improvvisazione ma l’elemento conservatore nei vari pezzi era quello dato dai 2 punti di appoggio. Fu solo di conseguenza alla nascita del Sacro Romano Impero che inizia ad esserci la necessità di modificare il canto Gregoriano partendo però da diversi tipi di canto esistenti. Le innovazioni del 9 Sec Fra l’8 e il 9 sec ci fu un cambiamento significativo: le innovazioni del introdotte nel periodo carolingio diedero inizio ad un epoca totalmente diversa, i quali caratteri si estendono fino ai nostri giorni. Questa rivoluzione non fu dettata da ragioni musicali, ma essenzialmente politiche. Inizialmente i Franchi, per la loro strategia di espansione in Europa, si allearono con il papato. In questo modo ci furono numerosi scambi tra Roma e Aquisgrana: si può pensare infatti al soggiorno di Papa Stefano 3 presso Pipino il Breve, alla successiva discesa di quest’ultimo in Italia, e alla celebre incoronazione di Carlo Magno quale sovrano del Sacro Romano Impero, a Roma nella notte di natale da Leone 3. Nel corso di questi contatti ci si rese conto che il canto liturgico in uso presso i Franchi era molto diverso da quello Romano: quindi si intende la differenza tra il rito Gallicano e il VeteroRomano. La monarchia carolingia non restò indifferente a tale constatazione, che sembra riguardare la sfera ecclesiastica o quella musicale, e agì di conseguenza. Pipino e i suoi discendenti non si consideravano semplici laici, ma sovrani dotati di un’investitura divina, visibilizzata dall’unzione con l’olio sacro: quindi non ritenevano estraneo ai loro compiti occuparsi dei problemi religiosi. La motivazione più importante che determinò il loro intervento nel fatto che tollerare il pluralismo nei riti locali avrebbe compromesso il progetto di accentrare il potere nell’autorità imperiale: l’unificazione politica del Sacro Romano Impero marciava a pari passo con l’unificazione religiosa. Genesi del canto franco-romano Si cercò di trapiantare presso i franchi il rito romano, inviando presso di essi maestri di Roma o accogliendo a Roma alcuni cantori franchi come allievi; ma ci furono comunque molti problemi. È naturale che il forzato inserimento del canto romano al posto di quello gallicano si concluse in un prodotto ibrido, frutto di una reciproca contaminazione. Siamo infatti in un’epoca dove la musica era affidata esclusivamente alla memoria dei cantori e alle loro capacità dei modelli melodici tradizionali. Si dimostra infatti che il canto vetero-romano facesse abbondante uso di microtoni(intervalli più piccoli del semitono); questa era un’ulteriore difficoltà per i Franche che non erano abituati a questo sistema di altezze. Secondo Giovanni Diacono erano queste le sottigliezze non erano recepite dai barbari Franchi; possiamo rendercene conto anche noi se volessimo imparare i canti delle popolazioni arabe, intessuti di microtoni: un compito troppo raffinato alle nostre orecchie, abituate a dividere l’ottava in 12 semitoni. Quindi il traguardo che entrambi volevano raggiungere (abolire il canto gallicano per quello vetero-romano) sarebbe rimasto irraggiungibile. L’operazione si concluse con la creazione di un nuovo tipo di canto, prodotto dalla mescolanza dei due, che può essere definito franco-romano. Per cementare l’unità dell’impero anche attraverso la musica, i sovrani carolingi imposero a tutti i territori a loro soggetti di adottare questo nuovo canto liturgico ufficiale. Per superare l’osta-

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colo nacque quindi una leggenda tipicamente medioevale, conferendo al canto franco-romano un nome che non fu più dimenticato: canto Gregoriano. Si narrava che Papa Gregorio 1 dettasse i suoi canti ad un monaco, alternando tale dettature a pause molto ampie, era in queste pause che avveniva il prodigio: una colomba, posata sulla spalla del Papa, gli stava suggerendo frase dopo frase. Quindi sarebbero stesso Spirito Santo (la colomba) ad aver inventato il nuovo canto, diffondendolo tramite papa Gregorio. Così il canto Gregoriano conquistò tutta l’Europa. Questa fu la chiave della volta della musica Occidentale. Lo stabilizzarsi del repertorio Gregoriano fu infatti pieno di importanti conseguenze. Codificazione del repertorio gregoriano La presunta origine divina del canto Gregoriano fece sì che esso assimilò il libro ispirato da Dio: la Bibbia. Come i testi della bibbia dovevano essere tramandati con assoluta fedeltà, così il canto gregoriano doveva essere tramandato senza alcun mutamento, per rispettare quindi la volontà dello Spirito Santo. Ecco formarsi allora il concetto moderno di repertorio: un corpus di musiche ben definito e fissato, posto sotto il segno dell’immutabilità. Con questo ci fu quindi il graduale tramonto della pratica improvvisativi del canto liturgico. Da ora in poi divenne sempre più importante rimanere fedeli al testo musicale e l’improvvisazione venne relegata in ambiti ristretti. Metodologia didattica Quest’ultima mutò, trasformando la creatività tipica della tradizione orale in un apprendimento passivo del repertorio già costruito: quindi nacque anche il concetto di imperare a memoria. Il

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cantore ormai apprendeva le proprie melodie dalla voce del proprio maestro come fossero oggetti perfettamente compiuti e indeformabili, ripetendoli ogni volta sempre identici; e per impadronirsi di tutti i canti liturgici gli erano sufficienti 10 anni di studio. La codificazione del gregoriano e l’esigenza di tramandarlo intatto sono le cause della grande svolta della musica tra l’8 e il 9 sec. Classificazione del repertorio gregoriano negli 8 modi Per favorire il nuovo tipo di memorizzazione , i teorici carolingi cercarono di dividere il repertorio a seconda del modo, cioè il tipo di scala musicale usata. Nella fase più antica del canto liturgico si impiegavano sistemi molto più semplici: le melodie ruotavano intorno ad una nota che era più importante delle altre , detta corda madre, che poteva essere do, re o mi. Poi si passò ad evidenziare un 2 polo di attrazione: le melodie possedevano sia la nota dominante (repercussio) sia nella nota finale (finalis). In epoca carolingia si formò una griglia di 8 modi entro la quale vennero classificati tutti i canti Gregoriani (ovvero otto modi di scale musicali con diverse successioni di toni e semitoni, ognuno con la propria finalis e repercussio). Ma questa classificazione non si adattava a tutto il repertorio liturgico. Alcuni di essi allora furono fortemente inseriti nel sisteme degli otto modi. Altri impossibili da normalizzare furono chiamati modo irregolare o peregrino. Nascita della scrittura neumatica Inizialmente a servirsi dei neumi(segni convenzionali)sui libri liturgici furono i sacerdoti e i diaconi, non i cantori veri e propri. Infatti i testi di loro competenza erano spesso intonati in stile di una salmodia su una corda di recita fissa , e solo in alcuni punti dovevano piegarsi in inflessioni e cadenze alla finalis. Per evitare incertezze i celebranti evidenziarono tali punti con apposite annotazioni, la cui funzione era molto simile a quella della punteggiatura, e forse proprio da essa deriverebbe l’origine di questi primi segni di notazione musicale. Infatti questi segni di punteggiatura ebbero degli antenati alla corte di Carlo Magno. È giustificato evidenziare un rapporto tra il rifiorire della parola scritta, e la nascita della scrittura musicale. Lo sbalorditivo consumo di pergamena documentato nell’epoca carolingia era dovuto:

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- sia all’esigenza di ordine e chiarezza nell’amministrazione dell’impero - sia alla necessità di conservare la lingua latina, minacciata dall’avvento delle lingue romanze. - Per assicurare la sopravvivenza del canto Gregoriano, impedirne corruzioni e alterazioni e mantenerlo uniforme in tutto l’impero. Dal 10 sec cominciarono ad essere compilati dagli stessi cantori professionisti che costituivano la schola cantorum manoscritti musicali. Di piccolissime dimensioni, essi non servivano per la pratica musicale concreta: fungevano da archivio a cui fare riferimento per controllare di non aver deviato dalla tradizione. La scrittura musicale non implicava l’abitudine di leggere musica da un testo al momento dell’esecuzione: questo avvenne in maniera graduale. L’amplificazione orizzontale: tropi e sequenze Questo è un altro prodotte dell’epoca di Carlo Magno: i tropi e le sequenze. Conosciamo un monaco dell’abbazia svizzera di San Gallo uno dei tanti che utilizzò questi prodotti: Notker Balbulus.

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Essi consistono nel “farcire” , di parole lunghe, melismi privi di testo che fanno parte di alcuni canti, in modo che ogni nota del melisma corrisponda a una sillaba del nuovo testo. Un tale espediente come dice Notker, agevola la memorizzazione della melodie. Ma la loro funzione non è tutta qui. Il testo aggiunto deve essere coerente con le parole del canto originario, ma ne è un’amplificazione. Per esempio, ad un melisma sulla parola Kyrie, furono adattate le parole onnipotente padre Dio creatore di tutte le cose, che è una parafrasi della parola kyrie. Se il gregoriano è l’amplificazioni della parola latina , i tropi e le sequenze sono a loro volta un’amplificazione del canto gregoriano. I tropi consiste anche nella semplice aggiunta di un nuovo melisma, oppure nell’inserzione di nuove frasi, complete di parole e musica, per amplificare il canto di partenza anche dal punto di vista della durata, rendendolo alle maestose celebrazioni delle grandi abbazie. Le sequenze, che probabilmente erano in origine le prose adatte ai melismi dell’Alleluia, divennero composizioni completamente autonome, in poesia; in esse, coppie di strofe erano cantate sulla stessa frase musicale ripetuta. Se i tropi, fino al sec 13, furono aboliti del tutto dal concilio di Trento alla metà del 16 sec, quattro sequenze sono invece sopravvissute nell’uso liturgico fino ai tempi moderni. Amplificazione verticale: polifonia - Polifonia= sovrapposizione di melodie diverse

Un ultimo grande passo fu compiuto nell’epoca carolingia: la polifonia fu inserita a pieno diritto nella liturgia ed ebbe il privilegio per la prima volta nella storia, di essere tramandata da fonti scritte. La possibilità di arricchire polifonicamente il canto liturgico è testimoniata fin da molti secoli prima, e rientrava nel campo della tradizione orale. I musicisti del 9 sec hanno solo incanalato l’antica pratica di cantare a più voci nella spinta generale verso una codificazione scritta. La polifonia era la risposta ideale all’esigenza di accrescere la solennità del rito , senza alterare il canto liturgico ormai Gregoriano ed intangibile: esse ne era solo un’amplificazione verticale, così come tropi e sequenze erano un’amplificazione orizzontale.

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4.

«CANTATE INNI CON ARTE!»

Giovanni Paolo II: “ritorni sempre più nella liturgia la bellezza della musica e del canto”

*** Sala Stampa Vaticana - 26 febbraio 2003 - Udienza generale CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA Salmo 150 - Ogni vivente dia lode al Signore Lodi della domenica della 4a settimana (Lettura: Sal 150, 1-5)

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1. Risuona per la seconda volta nella Liturgia delle Lodi il Salmo 150, che abbiamo appena proclamato: un inno festoso, un alleluia ritmato dalla musica. Esso è l’ideale sigillo dell’intero Salterio, il libro della lode, del canto, della liturgia d’Israele Il testo è di una mirabile semplicità e trasparenza. Dobbiamo solo lasciarci attirare dall’insistente appello a lodare il Signore: «Lodate il Signore … lodatelo… lodatelo!». In apertura Dio è presentato in due aspetti fondamentali del suo mistero. Egli è senz’altro trascendente, misterioso, distinto dal nostro orizzonte: sua dimora regale è il «santuario» celeste, il «firmamento della sua potenza», simile ad una fortezza inaccessibile all’uomo. Eppure Egli è vicino a noi: è presente nel «santuario» di Sion e agisce nella storia attraverso i suoi «prodigi» che rivelano e rendono sperimentabile «la sua immensa grandezza» (cfr vv. 1-2). 2. Tra terra e cielo si stabilisce, dunque, quasi un canale di comunicazione in cui si incontrano

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l’azione del Signore e il canto di lode dei fedeli. La Liturgia unisce i due santuari, il tempio terreno e il cielo infinito, Dio e l’uomo, il tempo e l’eternità. Durante la preghiera noi compiamo una sorta di ascesa verso la luce divina e insieme sperimentiamo una discesa di Dio che si adatta al nostro limite per ascoltarci e parlarci, per incontrarci e salvarci. Il Salmista ci spinge subito verso un sussidio da adottare durante questo incontro orante: il ricorso agli strumenti musicali dell’orchestra del tempio di Gerusalemme, come la tromba, l’arpa, la cetra, i timpani, i flauti, i cembali. Anche il muoversi in corteo faceva parte del rituale gerosolimitano (cfr Sal 117,27). Il medesimo appello echeggia nel Salmo 46,8: «Cantate inni con arte!».

3. È, dunque, necessario scoprire e vivere costantemente la bellezza della preghiera e della liturgia. Bisogna pregare Dio non solo con formule teologicamente esatte, ma anche in modo bello e dignitoso. A questo proposito, la comunità cristiana deve fare un esame di coscienza perché ritorni sempre più nella liturgia la bellezza della musica e del canto. Occorre purificare il culto da sbavature di stile, da forme trasandate di espressione, da musiche e testi sciatti, e poco consoni alla grandezza dell’atto che si celebra. È significativo, a tale proposito, il richiamo della Lettera agli Efesini ad evitare intemperanze e sguaiatezze per lasciare spazio alla purezza dell’inneggiare liturgico: «Non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza, ma siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» (5,18-20).

4. Il Salmista termina invitando alla lode «ogni vivente» (cfr Sal 150,5), letteralmente «ogni soffio», «ogni respiro», espressione che in ebraico designa «ogni essere che respira», specialmente «ogni uomo vivo» (cfr Dt 20,16; Gs 10,40; 11,11.14). Nella lode divina è, quindi, coinvolta anzitutto la creatura umana con la sua voce e il suo cuore. Con lei vengono idealmente convocati tutti gli esseri viventi, tutte le creature in cui c’è un alito di vita (cfr Gn 7,22), perché levino il loro inno di gratitudine al Creatore per il dono dell’esistenza. Sulla scia di questo invito universale si porrà san Francesco con il suo suggestivo «Cantico di Frate Sole», in cui invita a lodare e benedire il Signore per tutte le creature, riflesso della sua bellezza e della sua bontà (cfr Fonti Francescane, 263). 5. A questo canto devono partecipare in modo speciale tutti i fedeli, come suggerisce la Lettera ai Colossesi: «La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali» (3,16). A questo riguardo, sant’Agostino nelle sue Esposizioni sui Salmi vede simboleggiati negli strumenti musicali i santi che lodano Dio: «Voi, santi, siete la tromba, il salterio, la cetra, il timpano, il coro, le corde e l’organo, e i cembali del giubilo che emettono bei suoni, che cioè suonano armoniosamente. Voi siete tutte queste cose. Non si pensi, ascoltando il Salmo a cose di scarso valore, a cose transitorie, né a strumenti teatrali».

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In realtà voce di canto a Dio è «ogni spirito che loda il Signore» (Esposizioni sui Salmi, IV, Roma 1977, pp. 934-935). La musica più alta, dunque, è quella che sale dai nostri cuori. E proprio questa armonia Dio attende di ascoltare nelle nostre liturgie.


1.

Teoria musicale: Nozioni di base

Continua dal numero (Anno 1 - Numero 8 - 9 - 10 - 11)

Il tempo Ogni brano musicale inizia con l'indicazione del tempo sotto forma di una frazione come ad esempio 2/4, 3/4, 4/4, 3/8, 6/8 ecc..Il numeratore della frazione indica quanti tempi sono contenuti nella battuta mentre il denominatore sta ad indicare la durata di ciascun tempo. In altre parole il numeratore ci dice quanti battiti ci sono nella battuta e il denominatore la durata di ciascun battito. All'interno di una battuta possiamo trovare tutte le possibili combinazioni di note e pause purchè la loro somma corrisponda al numero di battiti per battuta indicato all'inizio del rigo musicale.

In questo esempio 2/4 significa che in ogni battuta ci sono due tempi da 1/4 ciascuno o una combinazione di note di valore tale che la loro somma sia comunque pari a due quarti complessivi, come si può vedere nelle batture 2, 3 e 4. In musica il tempo si batte con movimenti regolari della mano destra secondo lo schema di seguito riportato e riferito al tempo di 4/4:

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Tutti i movimenti dall’alto verso il basso si chiamano movimenti in battere mentre tutti gli altri si chiamano movimenti in levare. Ogni movimento completo della mano destra in battere o in levare corrisponde ad un tempo nella battuta: nello schema sopra ad un quarto. È opportuno precisare che il movimento completo comprende una andata ed un ritorno della mano destra: cioè il movimento inizia, nell’esempio, con “u-” e finisce con “-no” e così per i movimenti successivi. I tempi si dividono in semplici e composti. Sono semplici i tempi in cui ogni movimento si può suddividere in due parti. Sono composti i tempi in cui i movimenti si suddividono in tre parti. Sono tempi semplici: 2/2, 2/4, 2/8, 3/2, 3/4, 3/8, 4/2, 4/4, 4/8. Sono tempi composti: 6/4, 6/8, 6/16, 9/4, 9/8, 9/16, 12/4, 12/8, 12/16.

Sincope e contrattempo La sincope consiste nello spostamento dell’accento forte su quello debole. Generalmente si ha la sincope quando troviamo figure di maggiore valore poste tra figure di minore valore. Un altro caso ritmico di spostamento dell’accento forte è il contrattempo che si ha quando al posto della nota con l’accento forte c’è una pausa. Sincope e contrattempo sono figurazioni ritmiche molto usate nella musica jazz.

Come sviluppare il senso del tempo

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Il modo migliore e più divertente per acquisire il senso del tempo e del ritmo è di suonare con dei bravi musicisti. Questa scelta insegnerà, in breve tempo, a mantenere la stessa velocità e lo stesso ritmo per tutto il brano. È ovvio che suonare in una band non è sempre possibile per cui molto spesso ci si ritrova a suonare da soli. Ma è proprio quando si suona da soli che è più facile perdere il tempo (.....andare fuori tempo). Un’altra soluzione ottima per acquisire il senso del tempo è quella di suonare sui dischi. Esistono, poi, in commercio delle apparecchiature che forniscono una base regolare per mantenere il tempo con precisione: metronomi e batterie elettroniche. Le batterie elettroniche sono nate come semplici metronomi elettronici subendo, nel corso degli anni, una rapida evoluzione. Esistono, oggi, batterie elettroniche molto versatili che possono produrre una grande varietà di ritmi complessi. Quelle più costose possono essere programmate e forniscono suoni molto realistici.


Metronomo classico

Metronomo elettronico

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Batteria elettronica

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La scala maggiore Nozioni di base sulle scale Come sappiamo la scala musicale è una successione ordinata di sette note chiamate anche gradi. La distanza tra due note consecutive non è sempre uguale. Tale distanza (chiamata anche intervallo) può essere infatti di un tono o di un semitono. Il tono è la distanza più grande tra due note consecutive e si compone di due semitoni. Il semitono è l'intervallo più piccolo tra due note consecutive. Per comprendere la differenza tra i due concetti basti osservare la tastiera del pianoforte. Le sette note sono costituite dai tasti bianchi.

Partendo dal Do e suonando tutti i tasti bianchi fino a giungere al Do successivo si ottiene una scala che va sotto il nome di scala diatonica di Do maggiore. È importante notare come tra due tasti bianchi ve ne è uno nero tranne che tra Mi e Fa e Si e Do. Questo sta a significare che la distanza tra due tasti bianchi successivi è sempre di un tono tranne che tra Mi e Fa e Si e Do (tra questi infatti intercorre un semitono). La distanza tra un tasto bianco e quello nero immediatamente successivo è pari ad un semitono. Per indicare le note sui tasti neri si utilizzano i simboli di diesis (#) e bemolle (b) che rispettivamente significano “alzato di un semitono” e “diminuito di un semitono”. Per cui sul tasto nero tra Do e Re si troverà una nota che potrà avere due nomi e cioè: Do# e Reb. Le sette note naturali, quindi, non sono disposte a intervalli regolari. Infatti tra Si e Do e tra Mi e Fa vi è un semitono e non un tono. Ragionando in termini di semitoni, inoltre, avremo dodici semitoni all’interno di un’ottava. Se partendo dal Do, suoniamo in successione tutti i dodici semitoni otteniamo la scala cromatica. Quest’ultima, chiamata anche scala semitonata, può, quindi, essere definita come la successione di tutti i suoni contenuti nell’ottava. Essa comprende 12 semitoni: 7 diatonici e 5 cromatici. Nello scrivere la scala cromatica si usa riportare i diesis nella fase ascendente ed i bemolle nella fase discendente.

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Una scala può avere inizio da qualsiasi nota, cioè può avere un diverso punto d’intonazione (primo suono della scala). Affinchè una scala non muti il proprio carattere, è necessario che, pur modificando il punto d’intonazione, resti invariata la successione di toni e semitoni. Una scala, quindi, può tranquillamente essere vista come una successione di toni e semitoni come ad esempio: T-T-ST-T-T-T-ST. Per cui, partendo da una qualsiasi nota, se rispettiamo tale successione di toni e semitoni, otterremo una scala diversa ma con lo stesso carattere. In definitiva, pur variando i suoni, se lo schema degli intervalli resta lo stesso, una scala mantiene il proprio carattere. La scala maggiore La scala maggiore è formata da una precisa successione di toni e semitoni. Precisamente i semitoni si trovano tra il 3° e 4° grado e tra il 7° ed 8° grado mentre i toni tra gli altri gradi. La scala di Do maggiore è la madre di tutte le scale. È partendo da essa che si ricavano tutte le scale.

Sulla chitarra i tasti procedono per semitoni. Ciò significa che tra la nota su un tasto e quella sul tasto successivo sulla stessa corda intercorre un semitono. Per passare, quindi, da una nota alla successiva che dista dalla prima un tono è necessario saltare un tasto. In altri termini, la struttura di una scala maggiore eseguita su una stessa corda è la seguente: due tasti - due tasti - un tasto - due tasti - due tasti - due tasti - un tasto. Nella scala di Do maggiore, questa struttura comporta l’assenza di diesis e bemolle.

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Prendendo come base la scala di Do maggiore e rispettando la successione di toni e semitoni in essa contenuta si possono ricavare tutte le altre scale maggiori cambiando, ovviamente, la base di partenza. Il seguente schema rende maggiormente l’idea.

I gradi della scala prendono ciascuno un nome particolare che richiama la funzione specifica che svolgono all’interno della scala stessa.

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Tale classificazione e denominazione resta la stessa qualunque sia la scala maggiore o minore.


La scala minore La scala minore naturale Ad ogni scala maggiore corrisponde la relativa scala minore. Si chiama relativa minore perchè conserva le stesse alterazioni della scala maggiore. La scala relativa minore della scala di Do maggiore è quella di La minore. Quest'ultima si ottiene partendo dalla sesta nota (6° grado) della scala maggiore. Lo schema seguente spiega meglio come si ottiene la relativa minore dalla scala maggiore:

Come si vede la scala minore naturale (relativa minore) ha una struttura di toni e semitoni diversa rispetto alla scala maggiore: tono - semitono - tono - tono -semitono - tono - tono. Sulla chitarra questa successione si traduce in: 2 tasti - 1 tasto - 2 tasti -2 tasti - 1 tasto - 2 tasti - 2 tasti. Come già detto, la scala minore naturale ha le stesse note della scala maggiore relativa, solo che parte da una nota diversa producendo, così, un diverso responso sonoro. La relazione tra scala maggiore e relativa minore è sempre la stessa: basta scendere di tre semitoni per passare dalla scala maggiore alla scala minore e salire di tre semitoni per passare dalla minore alla maggiore.

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La scala di La minore è il modello di base a cui fare riferimento per trovare tutte le altre scale naturali minori: basta semplicemente rispettare la successione di toni e semitoni. La scala minore armonica

La scala minore naturale, sotto il profilo della sonorità prodotta, presenta un problema: tra il 7° e l’8° grado intercorre un tono. Ora, sappiamo che il settimo grado è la sensibile che, per sua natura, tende a risolvere sulla tonica purchè sia distante da questa un semitono. Per raggiungere questo obiettivo e, quindi, risolvere l’inconveniente della scala minore naturale, nella scala minore

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armonica si è alterato, sia in fase ascendente che discendente, il settimo grado innalzandolo di un semitono. Con questa operazione il settimo grado della scala minore ha acquisito uno spiccato carattere di sensibile. Nella scala minore armonica la successione di toni e semitoni è la seguente: tono - semitono tono - tono - semitono - tono più semitono - semitono [T-ST-T-T-ST-(T+ST)-ST]. La scala minore melodica La scala minore armonica presenta un problema. Infatti riducendo, rispetto alla minore naturale, l’intervallo tra il 7° e l’8° grado a un semitono, l’intervallo tra 6° e 7° grado diventa di tre semitoni. Trattasi di un salto troppo grande per scrivere linee melodiche. Per questo si è alzato il 6° grado di un semitono ottenendo un flusso melodico più dolce e lineare. Questa variazione è importante solo nella fase ascendente mentre non lo è in quella discendente. Ne consegue, quindi, che la successione di toni e semitoni diventa la seguente:

Tra tutte le tipologie di scala minore, quella minore melodica è la più comunemente utilizzata. La tabella seguente elenca le 13 scale minori melodiche:

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Le scale pentatoniche La scala pentatonica (chiamata anche scala pentafonica) è una scala formata da cinque suoni. È priva di semitoni e si compone di intervalli di seconda maggiore e di terza minore fra suoni contigui (ad esempio: Do-Re-Mi-Sol-La). È tipica di molte musiche extra-europee e si ritrova spesso utilizzata anche in alcune antiche melodie europee. Sembra che abbia origini mongole e giapponesi ed ha una collocazione molto importante in tutta la musica dell'Estremo Oriente, dell'Africa e delle popolazioni celtiche. Il modo pentatonico rappresenta il primo approccio per ogni chitarrista che voglia sperimentare l'improvvisazione e viene spesso accostato al Blues in considerazione della sua somiglianza con la scala blues. In generale il modo pentatonico si costruisce sulla scala maggiore utilizzando il 1°, 2°, 3°, 5° e 6° grado della scala. La scala pentatonica maggiore è definita dai seguenti intervalli: [T-T-(T+ST)-T-(T+ST)]. Ad esempio la scala pentatonica maggiore di Do sarà : Do-Re-Mi-Sol-La-Do La scala pentatonica minore è definita dai seguenti intervalli: [(T+ST)-T-T-(T+ST)-T]. Ad esempio la scala pentatonica minore di La sarà: La-Do-Re-Mi-Sol-La La caratteristica di minore è data dall'intervallo di tre semitoni (terza minore) tra la prima e la seconda nota della scala. Come si può vedere nell'immagine che segue, le due scale pentatoniche hanno tra di loro lo stesso rapporto che esiste tra la scala maggiore e la scala minore diatonica: dalla maggiore alla minore si scende di tre semitoni - dalla minore alla maggiore si sale di tre semitoni.

Infine, la scala pentatonica maggiore di Do e la scala pentatonica minore di La avranno le stesse note e gli stessi intervalli.

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I modi ed il sistema modale Il modo, al pari di qualsiasi scala, è una successione di note con una determinata struttura di toni e semitoni. La prima nota del modo è quella che ne determina la tonalità. I primi ad introdurre il concetto di "modo" furono gli antichi Greci i quali attribuirono, alle diverse successioni di note, i nomi dei vari popoli della civiltà greca. A tal proposito, infatti, si parla di "modo ionico", "modo dorico", "modo frigio", "modo lidio", "modo mixolidio", "modo eolio" e "modo locrio". Tutti i modi comprendono otto note, compresa l'ottava, corrispondenti ai soli tasti bianchi della tastiera del pianoforte. Avremo, quindi, sette modi: uno per ogni nota naturale. Modo ionico Per meglio comprendere il concetto di modo partiamo dalla scala di Do Maggiore:

La successione dei toni e semitoni di questa scala, come sappiamo, è la seguente: T - T - S T - T - T - S (dove T=tono e S=semitono). Il nome dato dai Greci a questa successione di note è: “Modo Ionico”. Modo dorico Riportiamo, ora, una successione di otto note naturali partendo, però, da Re fino a giungere al Re un’ottava sopra. Otterremo una scala che comprende le stesse note naturali della scala di Do Maggiore (Do ionico) ma con una diversa sucessione dei toni e semitoni. Infatti il semitono (Mi-Fa e Si-Do) viene a trovarsi spostato rispetto alla scala di Do maggiore.

La successione di toni e semitoni di questa scala sarà la seguente: T - S - T - T - T - S - T. La diversa distribuzione dei toni e dei semitoni determinerà un diverso responso sonoro di questa scala rispetto alla precedente. Questa successione di note va sotto il nome di “Modo Dorico”. Se ragioniamo alla stessa maniera, partendo da ogni altra nota della scala di Do maggiore, avremo altre successioni di note (modi) con una propria distribuzione di toni e semitoni e, quindi, con un proprio responso sonoro. Modo frigio Successione dei toni e semitoni: S - T - T - T - S - T - T

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Modo lidio Successione dei toni e semitoni: T - T - T - S - T - T - S

Modo mixolidio Successione dei toni e semitoni: T - T - S - T - T - S - T

Modo eolio Successione dei toni e semitoni: T - S - T - T - S - T - T

Modo locrio Successione dei toni e semitoni: S - T - T - S - T - T - T

Come già detto, ognuno di questi modi ha un proprio responso sonoro (o sound) essendo diversa la distribuzione dei toni e semitoni. Ebbene, il sound di ciascun modo può essere trasportato in qualunque tonalità se viene rispettata la stessa struttura di intervalli. A titolo di esempio, il modo dorico in Do sarà il seguente:

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Come si vede la successione di toni e semitoni è esattamente quella del modo dorico e cioè: T-S-T-T-T-S-T

continua nel prossimo numero

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2.

IMPARIAMO A SUONARE UN CANTO CON LA CHITARRA

di Marcello Manco (musicista e compositore)

In questa sezione di volta in volta verrà proposto un canto del libretto “Dio della mia lode” per aiutare tutti coloro che suonano la chitarra. Le frecce sono l’aiuto più immediato ed efficace. La freccia in basso (battere) rappresenta la pennata in basso, la freccia in alto rappresenta la pennata in alto (levare). Nel canto di specie, c’è anche una tablatura. I numeri sulla tablatura rappresentano i tasti della tastiera della chitarra mentre i numeri all’inizio della tablatura rappresentano invece le note.

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1. LA GUIDA DEL CANTO DELL’ASSEMBLEA: UN MINISTERO DA RILANCIARE di Eugenio Costa (Docente di Teologia e Liturgia, Centro Teologico, Torino

1.

Chi è l'animatore musicale?

1.1

Un'assenza ingiustificata

In un buon numero di chiese non esiste un animatore musicale: lo si doveva constatare già dieci-quindici anni fa; lo si deve purtroppo affermare ancora oggi. Di qualcuno che è assente, c'è chi avverte la mancanza; ma può anche succedere che la cosa lasci del tutto indifferenti! Rimane un fatto che possiamo facilmente rilevare (basta partecipare qua e là a diverse assemblee liturgiche nel nostro Paese): quando si celebra, al momento del canto avvertiamo un certo disagio; il canto comincia stentatamente, va avanti alla meno peggio, è cantato da alcuni ma molti altri tacciono. Se ascoltiamo con un po' di attenzione, ci vengono in mente domande di questo tipo: chi ha scelto questo canto? che rapporto ha con la festa che si sta celebrando? come mai – qui e altrove – si finisce per cantare da anni sempre gli stessi identici canti? oppure: come mai – ed è il caso inverso – si cambia così spesso il repertorio cantato, tanto che l'assemblea, frastornata, non riesce ad assimilare nulla, non ha un suo patrimonio di canti? Ma soprattutto: come pretendere che l'assemblea canti, se nessuno si occupa di lei? In sostanza, si direbbe che nessuno si prenda molto a cuore la questione, se non in modo casuale, episodico, per nulla organizzato. C'è addirittura chi non avverte affatto questo disagio: non c'è poi un gran bisogno di cantare – pensano alcuni – quando si prega e si celebra. Infatti bastano le parole: letture, preghiere, saluti, monizioni e stop. Certo, dirà qualche nostalgico, una volta sì che c'erano i bei cori, i buoni organisti, e si cantavano i canti di un tempo, che tutti sapevamo... Ma, si sa, i tempi sono cambiati e anche la liturgia è cambiata: ora si capiscono le parole, si può perciò fare presto e bene. Non c'è bisogno di cantare: il canto è un lusso, è un di più. A questo punto, che bisogno c'è di un animatore di canto? Perché dovremmo affollare ulteriormente il presbiterio con ministri non necessari? 1.2

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Due esempi pratici

Immaginiamo due situazioni, che sono abbastanza ricorrenti da essere significative: ci riconosceremo facilmente nell'una e nell'altra. Siamo in una saletta della parrocchia e sta per cominciare una riunione di gruppo. Invece della solita, frettolosa Avemaria, vorremmo cantare qualcosa, un canto che sappiamo e che sia adatto al momento. Nel gruppo c'è qualcuno che ci sa fare: è lui che intona un canto e tutti, senza difficoltà, vi partecipiamo di cuore. Tanto che vorremmo cantare una seconda strofa, ma molti non ricordano le parole. Colui che ha intonato il canto le ricorda brevemente, ridà l'attacco e il canto riparte allegramente. Riflettiamo: il nostro cantore non ha “diretto” il canto, come se fosse un direttore d'orchestra. È stato però di grande utilità perché ha lanciato e rilanciato il canto; ha tenuto d'occhio, con discrezione, il suo buon andamento; ha fatto sì che la nostra breve preghiera cantata si svolgesse nel migliore dei modi. Ci troviamo in una grande cattedrale. È un giorno di festa solenne, perciò vi è in programma di cantare molto. Ecco il coro, i solisti, l'organista, gli altri strumentisti; l'assemblea viene spesso sollecitata a prendere parte al canto. Coro e solisti hanno il loro maestro. Gli strumenti sanno il


fatto loro. E l'assemblea? È mai pensabile che riesca a intervenire facilmente, al punto giusto, a mantenere il ritmo, l'andamento esatto, a entrare prontamente in gioco con i ritornelli e le varie alternanze con il coro? Ci vorrebbe qualcuno, una presenza, un segno, un gesto. Un vero e proprio animatore, o guida del canto dell'assemblea. Se c'è, tutto cambia. Ho presentato due situazioni estreme, in mezzo alle quali stanno tutte le varianti possibili. In queste situazioni, l'intervento vivo ed efficiente di un incaricato del canto, appare decisivo. Tuttavia: perché la sua presenza e la sua azione vengano richieste e apprezzate, è necessario un presupposto molto chiaro. Ossia che la preghiera cantata sia percepita come un elemento insostituibile (non ho detto: indispensabile) della celebrazione liturgica. E che non sia invece osteggiata, o al massimo tollerata, come un soprammobile superfluo, di cui non si avverte la necessità. Dietro a questo ruolo liturgico vi è tutto un modo di intendere la celebrazione; vi è la concezione che laici e clero del luogo se ne sono fatti; vi è tutto un modo di sentire l'atto del canto, la sua funzione espressiva e il suo peso di preghiera nell'azione celebrativa. Ma, prima di andare avanti, vorrei spiegarmi su ciò che intendo per “animatore”. 1.3

In che senso animatore?

Dobbiamo porre alcuni punti fermi, ben chiari. Nella liturgia vi è anzitutto una (auspicata e invocata) animazione interiore, la più importante e decisiva: quella dello Spirito di Dio, che supplichiamo perché venga e operi in ciascuno dei membri dell'assemblea. Non sto facendo un richiamo scontato. È essenziale non perdere di vista questa primaria realtà teologale, per mettere subito le cose al posto giusto e ricordare così a tutti gli animatori umani i limiti della loro azione – benché molto preziosa – e infine per riconfermare la necessità di riferirsi continuamente al misterioso dialogo interiore tra la coscienza di ciascuno e la Spirito del Padre. Quanto poi all'animazione umana, occorre evitare un errore di prospettiva: quello che deriva da un'inconscia sfiducia nel rito liturgico. Come se la liturgia della Chiesa non avesse in sé la forza di esprimere significati e di coinvolgere i partecipanti – come se vi fosse la necessità di rianimare un corpo morto con continue“iniezioni verbali”: spiegazioni, didascalie, commenti, esortazioni. È un triste retaggio dell'epoca pre-conciliare, e può essere talvolta un'ancor più triste necessità odierna, che però non nasce dal rito, bensì da una pessima gestione. L'institutio Generalis Missalis Romani (datata del 1969, agli albori della nuova pratica liturgica nata dalla riforma conciliare) cita ancora, al n. 68, il ruolo del commentatore, di cui si dice che ha il compito di “introdurre nella celebrazione e meglio disporre i fedeli a comprenderla e seguirla” (ivi)1 . In realtà, perché la celebrazione abbia il suo giusto dinamismo non serve ricorrere a personaggi fittizi – come se fossero una voce “off”, fuori campo, una specie di “anchor man”, un presentatore di spettacoli. Occorre invece lavorare sodo perché ciascuno di coloro che hanno un preciso ruolo da svolgere nella celebrazione lo faccia bene e a fondo, prendendosi tutte le sue responsabilità. Chi presiede, presieda sul serio: è lui che ha la responsabilità principale. Non deve lasciarsi confinare in un ruolo imbalsamato di puro recitatore di monizioni prescritte e di orazioni prestampate, o a muoversi teleguidato dal cerimoniere, come se fosse un bambino. Assuma il suo ruolo e presieda! Chi invece proclama la Parola di Dio, sappia introdurla e proporla per bene. Chi guida il canto e la musica, sappia insegnare, presentare e guidare i canti. Age quod agis. 1.4

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Perché “guida del canto di assemblea”?

Perché è un ministero ancora praticamente assente nelle nostre chiese. Perché il canto dell'assemblea non va “diretto” (come si farebbe con un coro o un'orchestra) bensì guidato, come conviene a un'assemblea che, normalmente, non è fatta di musicisti ma che si suppone abbia buona volontà e un minimo di capacità vocali. Perché, finalmente, l'assemblea dovrebbe essere o diven-

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tare la pupilla dei nostri occhi: tutti i ministeri liturgici sono a suo servizio, perciò anche il ministero del canto e della musica. 2.

Perché prima della riforma liturgica non esisteva questa figura?

La risposta è facilmente intuibile: perché il progetto liturgico, e perciò quello liturgico-musicale, è stato per secoli diverso. Il canto liturgico dell'assemblea è rimasto, per quanto possiamo essere documentati, in stato comatoso per molti secoli: grosso modo dall'Alto Medioevo fino al nostro secolo quando l'impegno del mondo ceciliano, sostenuto dal magistero ecclesiale, ha cominciato a smuovere le acque. Sto parlando, evidentemente, del canto liturgico e non di quello devozionale o popolare. Ma la grande svolta è stato il Vaticano II: tutta l'assemblea della chiesa locale celebra i misteri di Cristo, animata dai suoi ministri. Cambia il progetto liturgico, cambia la musica. Dal basso Medioevo, su per il Rinascimento e per l'età barocca e poi classica, vi sono state figure come il Cantor e il Maestro di cappella:

3.

Il Cantor, nel mondo monastico medievale, ebbe funzioni di cantore solista o di pre-centor, di direttore della Schola o anche, nella prima polifonia, di esecutore della vox principalis. Nel mondo luterano, la parola Kantor copre, variamente, ruoli diversi: direttore di scuola, catechista, maestro di canto – con l'impegno del culto – , infine organista. Nel mondo anglicano, coincide con il Director of music, con compiti anche di solista intonatore. Il Maestro di cappella, termine piuttosto rinascimentale, è colui che, soprattutto nelle cattedrali, cumula tutte le responsabilità del servizio musicale liturgico. Nel '600 assume, specie nelle corti, anche compiti relativi alla musica profana: dirige le opere e compone musiche per le più svariate circostanze. Come si vede, sono stati ruoli consoni ai progetti in atto, sia in area di chiesa che in area civile. Nessun cenno, è ovvio, a un rapporto con la gente di chiesa, che non fossero i musicisti, gli addetti ai lavori. Ma è utile per noi, oggi, custodire almeno un aspetto di queste figure: quello di essere globalmente responsabili, e competenti, riguardo all'insieme delle esigenze musicali della liturgia. Perché il ruolo dell'animatore del canto è oggi necessario?

Anche qui la risposta, se è vero quanto detto sopra, è intuibile. La riforma liturgica ci chiede di celebrare insieme e di celebrare cantando: sono le motivazioni-cardine. Se stanno, sta in piedi il compito di animare il canto. Se cadono, cade anche questo compito. E se oggi dobbiamo constatare che troppo spesso e in troppe assemblee il ruolo di questo animatore manca, ciò dovrebbe indurci a porre la domanda: la riforma liturgica è davvero stata accolta e condotta fino alle sue pratiche conseguenze? Certi rifiuti viscerali, certe idiosincrasie che qua e là si manifestano nei confronti di una guida del canto di assemblea, non nascondono forse – al di là di futili antipatie personali – un malcelato rifiuto delle colonne portanti della riforma liturgica nel settore del canto? 4.

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Distinguere le diverse esigenze

Questo paragrafo va letto con un occhio a quello successivo (n. 5). Infatti, a questo punto è importante chiarire da un lato le funzioni pratiche, alle quali qualcuno deve pur rispondere, per il bene


dell'assemblea; da un altro lato, orientarci su chi assume queste funzioni: può essere la stessa persona o possono essere anche più persone diverse. Le funzioni possono essere suddivise in tre ambiti: prima, durante e dopo la celebrazione: - prima: ci vuole qualcuno che, preferibilmente non da solo, ma insieme agli altri musicisti locali (se ci sono) e ai responsabili pastorali (se ci stanno, come dovrebbero) sappia fare una seria programmazione dei canti da inserire nell'insieme delle celebrazioni di un anno: eucaristie domenicali e messe feriali, battesimi, cresime, liturgie penitenziali, matrimoni, funerali, liturgia delle Ore, altre celebrazioni. Programmare consiste nello scegliere all'interno del vasto oceano dei canti, editi o inediti, reperibili in raccolte, repertori, fascicoli, partiture, dischi cassette, CD, derivati dalle fonti più diverse. Consiste poi nel calibrare attentamente il repertoriodella/ delle assemblee della propria comunità: alternare saggiamente canti tradizionali e canti nuovi, canti noti e canti da imparare, senza consentire ristagni ma anche senza lasciare la gente letteralmente senza fiato per i continui cambiamenti. Tralascio qui i criteri prettamente liturgici di queste scelte, che sono tuttavia il cardine dell'operazione. In effetti, l'animazione musicale ha senso se rientra in una regìa globale dell'azione liturgica. Ancora: prima della celebrazione, ci vuole qualcuno che, dopo aver egli stesso accuratamente imparato, partitura alla mano (compresa quella dell'accompagnamento strumantale), il/i canti sappia insegnarli (se nuovi) o rimetterli a punto (se già noti, ma forse da rattoppare o restaurare) a uno o più gruppi di canto, o coro, o schola, curando anche gli strumenti che accompagnano. Infine, immediatamente prima di iniziare a celebrare – perché non si vede come questo possa farsi durante o dopo o in altri momenti –, ci vuole qualcuno che faccia le prove con l'assemblea, prove che richiedono la presenza attiva del gruppo di canto e degli strumenti. Si tratta, in concreto, di distribuire attentamente il poco tempo a disposizione, in modo da rinfrescare semplicemente i canti già conosciuti, e da insegnare, pazientemente e con precisione, sostenuti dal coro e dagli strumenti, i canti da apprendere. - Durante: in una parola, si tratta di aiutare – non da soli, ma con il coro e gli strumenti – l'assemblea a celebrare cantando. Questo comporta due elementi: quando è il caso, con una breve monizione introdurre il significato del canto e dare, se necessario, qualche indicazione pratica (testo, articolazione del canto). Una monizione del genere richiede un'arte spirituale, è cosa delicata2.

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Siamo giunti al momento della realizzazione del singolo canto. Qui l'animatore diventa vera e propria guida del'azione cantata. Egli è il punto di riferimento per il coro e per il suo maestro, per gli eventuali solisti, per gli strumenti e naturalmente per l'intera assemblea (che comprende navata e presbiterio). Notiamo che una buona guida del canto non canta mai nel microfono: sarebbe un'illusione credere che sia un modo efficace di coinvolgere l'assemblea. È il coro che fa da locomotiva per l'assemblea che canta. Tecnicamente, guidare il canto di tutti può comportare tre cose: - la prima, la più importante, mai da tralasciare: dare un gesto preciso d'avvio quando tocca all'assemblea cantare. Deve essere un gesto rigorosamente coordinato con l'introduzione strumentale e/o con il canto del coro, se esso precede l'intervento dell'assemblea. L'esperienza insegna che un buon gesto di partenza si suddivide a sua volta in tre tempi: gesto di attenzione, “pronti”, “via!”. Negli appositi corsi di formazione questi tre gesti vengono lavorati a lungo e con rigore. - La seconda cosa: a meno che il canto sia molto conosciuto e frequentemente eseguito, può

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essere utile che la guida batta con il braccio la pulsazione ritmica fondamentale (che è tutt'altra cosa rispetto alla chironomia analitica, propria del solfeggio parlato).

- La terza cosa: se è utile, per maggior chiarezza, la guida può anche dare un semplice segnale di conclusione del canto.

In tutto questo, vale l'antico proverbio cinese: “Quando basta una parola, evitiamo il discorso quando basta un gesto, evitiamo la parola - Quando basta uno sguardo, evitiamo il gesto - quando basta il silenzio, evitiamo lo sguardo”. - Dopo: è indispensabile fare ogni tanto una verifica, gettare uno sguardo critico, non tanto sul singolo canto né sulla singola celebrazione, quanto a tutto un periodo liturgico: ad es. Avvento, Settimana Santa, ecc.; o anche battesimi, matrimoni, ecc. La verifica funziona bene a tre condizioni: - sia fatta, non da uno solo, ma fra collaboratori, e tenendo gran conto delle reazioni della gente, da sollecitare e poi da vagliare criticamente; - non sia viscerale, umorale, ma impostata sul rapporto fra progetto ed esecuzione; - sia basata sulla persuasione che è verificabile solo il comportamento pratico, celebrativo (ad es. l'assemblea canta/non canta; canta facilmente/con difficoltà...), non il frutto spirituale interiore, profondo, al cui servizio, peraltro, sono tutta la celebrazione e tutta l'animazione.

5. Questo complesso ventaglio di operazioni va concentrato in una sola persona? O va invece ridistribuito fra varie persone? Vi è una risposta ideale e una di fatto. a. Idealmente, è importante che uno solo abbia il compito, come si dice ancora oggi nelle chiese anglo-sassoni e americane, di Director of music. Una responsabilità globale, che però può essere condivisa anche da altri. In particolare la guida del canto durante la celebrazione può essere affidata a qualcuno che si specializzi in questo ministero: esso ingloba tutto il rapporto diretto con l'assemblea, dalle prove all'introduzione al canto, alla guida del canto e al coordinamento di tutti gli interventi cantati e strumentali. In certe situazioni concrete, il maestro del coro può assumere simultaneamente anche il ruolo di guida dell'assemblea. b. Di fatto, si fa quel che si può. Spesso la povertà di persone e di mezzi può condurre a condizioni minimali, dove non resta che il ‘fai da te’, anche dovendo fare a meno del ruolo decisivo del coro, talora persino di uno strumento accompagnatore. L'animatore/guida del canto deve allora accumulare una notevole diversità di competenze, alle quali cercherà di prepararsi adeguatamente; in particolare, deve essere impeccabile come cantore. 6. Tale ruolo di animazione, unitario o condiviso, ha fra i suoi segreti quello di sapersi concertare:

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- anzitutto con gli altri musicisti; - poi con tutti gli altri ministri del rito. In questa direzione va soprattutto la cura (interiore) dei rapporti umani e, perché no, spirituali fra


i membri dell'équipe musicale – se, e quando c'è – e di tutti loro con chi presiede, chi legge, chi ha altre incombenze. Dove l'insieme è ben coordinato, la celebrazione fila via dritta, ben oliata, senza incongruenze né tensioni, anche se non si può sempre far fronte a tutti gli imprevisti. 7.

Un autentico ministero liturgico

Come per ogni ministero di chiesa, riassumo la sua identità ripercorrendo le classiche quattro tappe: - vocazione: intendo sottolineare sia l'aspetto interiore (senso di fede e spirito di servizio3) sia quello della chiamata da parte della chiesa locale: se non proprio da parte del Vescovo (ma ne riparlo più sotto), almeno da parte del parroco o altro responsabile. Non ci si intrufola, più o meno furbescamente, in un insieme così delicato come l'animazione musicale della liturgia; - talento: va da sé, per quel che riguarda il lato musicale (voce, personalità armoniosa, attitudine al concertare). Sul piano umano più generale, certo ci si augura di trovare persone comunicative, pazienti, concrete, insomma tutto il contrario del musicista scarmigliato, ombroso, romantico, intrattabile. Sotto l'aspetto dell'età, è meglio si tratti di un giovane/adulto: no ai ragazzotti e alle ragazzine, per quanto dotati. Riguardo al sesso, non essendo angeli, ciascuno ‘rimanga com'è’...(parafrasi da S. Paolo); - formazione: spero che divenga il chiodo fisso di noi tutti, quasi un'ossessione, sia sul piano spirituale che su quello liturgico e tecnico. In questo convegno don Antonio Parisi ha parlato abbondantemente di ciò che, in questo ambito, si fa oggi in Italia (cf). Per il settore specifico della guida dell'azione cantata, esistono pochissimi sussidi a stampa (v. bibliografia) e, per quel che ne so, pochissimi corsi dedicati esplicitamente a questa tecnica, la quale differisce non poco da quella della direzione corale. In alcune Scuole diocesane o in qualche corso estivo si sta facendo qualche tentativo. Nei Conservatori invece non si trova nulla: dove manca il progetto di un canto di massa, mancano logicamente gli utensili corrispondenti. Credo che ogni Scuola diocesana dovrebbe istituire il corso apposito.

Sulle note dello spirito

GLI STRUMENTI MUSICALI NELLA LITURGIA

- riconoscimento: ogni ministero di chiesa ha bisogno di un suggello, di una conferma e di una promulgazione alla comunità cristiana. Anche per questo ruolo bisognerebbe trovare una forma di convalida e di presentazione all'assemblea. Come fanno alcuni vescovi, che danno mandato ai catechisti, così si potrebbe immaginare che lo facciano anche per i musicisti. Vi è già, qua e là, qualche realizzazione in questo senso. Occorre però vigilare che la cosa non si burocratizzi all'eccesso. Conclusione Concludo citando alcuni passi dell'articolo “L'animazione del canto”, riportato nel n. 8/96 di La vita in Cristo e nella Chiesa (a sua volta tratto dalla rivista francese Célébrer), pp. 27-28: “L'animatore è a servizio dell'assemblea nel rispetto del rito (...). Un canto (...) si iscrive nella celebrazione, che ha un suo ritmo. A seconda della sua funzione e della sua caratteristica, esso deve servire il grande ritmo della celebrazione”. È l'ABC dell'animatore consapevole e preparato.

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GLI STRUMENTI MUSICALI NELLA LITURGIA

Sulle note dello spirito

Bibliografia I.G.M.R., n. 64 (cantore o maestro di coro), n. 34 (salmista), n. 68 (commentatore); O.L.M., n.260 (cantore del salmo); Brandolini L., Animazione in Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma 1983, pp. 52-64; Costa E., Assemblea liturgica in Enciclopedia di Pastorale, 3, Piemme, Casale Monferrato 1988, pp. 10-24; Iotti P., Guidare un coro liturgico, EDB, Bologna 1990; Costa E., Celebrare cantando. Manuale pratico per l'animatore musicale nella liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1994; Della Torre L., Abecedario dei gruppi liturgici, Queriniana, Brescia 1995²; Ghezzi A. Dare un'anima alla celebrazione in “Evangelizzare”, 1 (1996), pp. 12-14; C.N.P.L. (Parigi) L'animazione del canto, in “La vita in Cristo e nella Chiesa”, 8 (1996), pp. 27-28 In “Musica e Assemblea” cfr: Guida del canto dell'assemblea, 28 (1979); Ditelo coi fiori. Un manuale del “perfetto” animatore, 39 (1981) 6-23; F. R ainoldi, P. Silva, E. Costa Per farsi un repertorio, 42-43-44 (1982); G.F. Agamennone Rinnovare un repertorio, 57 (1985); G.F. Gomiero, P.A. Ruaro, M. Deflorian Programmare-celebrare-verificare, 64 (1987); E. Costa Introdurre un canto..., 2 (1988); P. Iotti Come insegnare un canto, 2 (1989); Guidare il canto dell'assemblea (sintesi di MeA n. 28: cf sopra), 2 (1990); M. Deflorian Assemblea e ruoli, 1 (1994); M. Deflorian Chi è l'animatore 4 (1995)

Note 1 A dire il vero, la stessa IGMR attribuisce questa funzione di ‘introduzione’ sia al canto d'ingresso (cf n. 25) sia al sacerdote o altro ministro capace, dopo il saluto iniziale (cf n. 29): ci si chiede allora se l'intervento del suddetto commentatore (nomen est omen) non sia davvero di troppo. 2 Ecco alcuni cattivi esempi, da evitare: lo stile prolisso, confuso e maldestro (“Con questo canto vogliamo dire al Signore che vogliamo essere fedeli al suo Vangelo, che egli ha predicato sulle strade del mondo, al suo tempo in Palestina e che ancora oggi noi vogliamo impegnarci a testimoniare, a condividere con i fratelli, specie i più poveri, per il Regno dei cieli, invocando anche la Madonna, Regina degli apostoli, per fare comunità tutti insieme, bla, bla, bla ...”); oppure il genere caserma (“In piedi. Canto 102. Tutti, il ritornello e le cinque strofe”); o ancora l'annuncio un po' sbadato (“In questo momento di riflessione, nel silenzio, di fronte a Dio, offriamo al Signore questo canto, rimanendo seduti, e cantiamo insieme: ‘Andiamo per le strade in tutto il mondo’ ”).

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Problema: è possibile che questo compito sia assunto da un musicista che si dichiara lontano dalla fede e dalla vita di chie-

sa?


1. SAN PIO X, LA MUSICA ORGANISTICA E LA LITURGIA CATTOLICA di Raimondo Mameli

Ci occuperemo, in questo studio, dell'organo e della musica organistica nella liturgia della Chiesa Cattolica di rito latino, attraverso una lettura dei principali documenti di Magistero. Avevamo fatto qualche accenno all'oggetto del presente nell'articolo Il canto gregoriano e la liturgia tradizionale (cfr. Una Voce dicentes, Anno V, N. 1, Gennaio-Aprile 2006, pg. 9-19). Sempre in quella sede avevamo ricordato ai nostri lettori come il musicista di Chiesa, cantore o organista, eserciti un vero e proprio ministero. Oltre a parlare principalmente dell'organo, faremo riferimento all'uso dei vari strumenti musicali nella liturgia. Non è nostra intenzione proporre al lettore i nostri gusti personali; richiamando i pronunciamenti della Chiesa su questa delicata materia, capirà egli stesso cosa sia auspicabile e cosa da rigettare. Del Magistero della Chiesa Cattolica sull'organo e la musica organistica San Pio X Dal "Motu Proprio ... ... de musica sacra" del Sommo Pontefice San Pio X Tra le sollecitudini (22 novembre 1903) [1]: 15. Sebbene la musica propria della Chiesa sia la musica puramente vocale, nondimeno è permessa eziandio la musica con accompagnamento d'organo. In qualche caso particolare, nei debiti termini e coi convenienti riguardi, potranno anche ammettersi altri strumenti, ma non mai senza licenza speciale dell'Ordinario, giusta la prescrizione del Caerimoniale Episcoporum. 16. Siccome il canto deve sempre primeggiare, così l'organo o gli strumenti devono semplicemente sostenerlo e non mai opprimerlo. 17. Non è permesso di premettere al canto lunghi preludi o d'interromperlo con pezzi di intermezzo. 18. Il suono dell'organo negli accompagnamenti del canto, nei preludi, interludi e simili, non solo deve essere condotto secondo la propria natura di tale strumento, ma deve partecipare di tutte le qualità che ha la vera musica sacra e che si sono precedentemente annoverate. 19. È proibito in chiesa l'uso del pianoforte, come pure quello degli strumenti fragorosi o leggeri, quali sono il tamburo, la grancassa, i piatti, i campanelli e simili. 20. È rigorosamente proibito alle cosiddette bande musicali di suonare in chiesa; e solo in qualche caso speciale, posto il consenso dell'Ordinario, sarà permesso di ammettere una scelta limitata, giudiziosa e proporzionata all'ambiente, di strumenti a fiato, purché la composizione e l'accompagnamento da eseguirsi sia scritto in stile grave, conveniente e simile in tutto a quello proprio dell'organo. 21. Nelle processioni fuori di chiesa può essere permessa dall'Ordinario la banda musicale, purché non si eseguiscano in nessun modo pezzi profani. Sarebbe desiderabile in tali occasioni che il concerto musicale si restringesse ad accompagnare qualche cantico spirituale in latino o volgare, proposto dai cantori o dalle pie Congregazioni che prendono parte alla processione. 22. Non è lecito, per ragione del canto o del suono, fare attendere il sacerdote all'altare più di quello che comporti la cerimonia liturgica. Giusta le prescrizioni ecclesiastiche, il Sanctus della Messa deve essere compiuto prima della elevazione, e però anche il celebrante deve in questo punto avere riguardo ai cantori. Il Gloria ed il Credo, giusta la tradizione gregoriana, devono essere relativamente brevi. 23. In generale è da condannare come abuso gravissimo, che nelle funzioni ecclesiastiche la liturgia apparisca secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della liturgia e sua umile ancella.

Sulle note dello spirito

GLI STRUMENTI MUSICALI NELLA BIBBIA

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ANIMAZIONE DOMENICALE - SALMI RESPONSORIALI

Sulle note dello spirito

1. CANTI PER LE DOMENICHE DEL MESE DI SETTEMBRE Questa sezione vuole essere d’aiuto e di indicazione per la scelta dei canti per la Celebrazione Eucaristica considerando la liturgia del giorno e il tempo liturgico. La numerazione è riferita al libretto Dio della mia Lode anno 2011.

7 SETTEMBRE - XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Ingresso 02 Canto al Vangelo 18 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 333

kyrie M Gialloreti Offertorio 196 Dossologia Agnello di Dio 6 Conclusione 40/41

Gloria 26 Santo 234 Padre Nostro 203 Comunione 371

14 SETTEMBRE - XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Ingresso 27 Canto al Vangelo 15 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 219

Kyrie 347 Offertorio 280/342 Dossologia Agnello di Dio 7 Conclusione 131/345

Gloria 27 Santo 233 Padre Nostro 203 Comunione 298

21 SETTEMBRE - XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Ingresso 141 Canto al Vangelo 23 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 137

Kyrie (Sorgente di salvezza) Offertorio 59 Dossologia Agnello di Dio (Sorgente di salvezza) Conclusione 85

Gloria 145 Santo 235 Padre Nostro (Sorgente di salvezza) Comunione 383

28 SETTEMBRE - XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

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Ingresso 329 Canto al Vangelo 162 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 368

Kyrie 352 Offertorio 03 Dossologia Agnello di Dio 7 Conclusione 294

Gloria 364 Santo ex 120 Padre Nostro 203 Comunione 143


1. CANTI PER LE DOMENICHE DEL MESE DI OTTOBRE Questa sezione vuole essere d’aiuto e di indicazione per la scelta dei canti per la Celebrazione Eucaristica considerando la liturgia del giorno e il tempo liturgico. La numerazione è riferita al libretto Dio della mia Lode anno 2011.

05 OTTOBRE - XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Ingresso 217 Canto al Vangelo 18 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 361

kyrie M Gialloreti Offertorio 196 Dossologia Agnello di Dio 219 Conclusione 304

Gloria 26 Santo 234 Padre Nostro 203 Comunione 371

12 OTTOBRE - XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Ingresso 356 Canto al Vangelo 15 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 219

Kyrie 347 Offertorio 280/342 Dossologia Agnello di Dio 137 Conclusione 131/345

Gloria 27 Santo 233 Padre Nostro 203 Comunione 298

19 OTTOBRE - XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Ingresso 47 Canto al Vangelo 23 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 132/320

Kyrie (Sorgente di salvezza) Offertorio 59 Dossologia Agnello di Dio (Sorgente di salvezza) Conclusione 354

Sulle note dello spirito

ANIMAZIONE DOMENICALE - SALMI RESPONSORIALI

Gloria 145 Santo 235 Padre Nostro (Sorgente di salvezza) Comunione 383

26 OTTOBRE - XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Ingresso 27 Canto al Vangelo 162 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 333

Kyrie 352 Offertorio 03 Dossologia Agnello di Dio 279/64 Conclusione 294

Gloria 364 Santo ex 120 Padre Nostro 203 Comunione 143

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ANIMAZIONE DOMENICALE - SALMI RESPONSORIALI

Sulle note dello spirito

1. CANTI PER LE DOMENICHE DEL MESE DI novembre Questa sezione vuole essere d’aiuto e di indicazione per la scelta dei canti per la Celebrazione Eucaristica considerando la liturgia del giorno e il tempo liturgico. La numerazione è riferita al libretto Dio della mia Lode anno 2011.

01 NOVEMBRE - TUTTI I SANTI Ingresso 327 Canto al Vangelo 23 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 153

kyrie M Gialloreti Offertorio 196 Dossologia Agnello di Dio 6 Conclusione 372

Gloria 26 Santo 234 Padre Nostro 203 Comunione 383

02 NOVEMBRE - XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Ingresso 323 Canto al Vangelo 15 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 219

Kyrie 347 Offertorio 77 Dossologia Agnello di Dio 7 Conclusione 321

Gloria 27 Santo 233 Padre Nostro 203 Comunione 59

09 NOVEMBRE - XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Ingresso 41 Canto al Vangelo 23 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 361

Kyrie (Sorgente di salvezza) Offertorio 70 Dossologia Agnello di Dio (Sorgente di salvezza) Conclusione 245

Gloria 145 Santo 235 Padre Nostro (Sorgente di salvezza) Comunione 219

16 NOVEMBRE - XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

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Ingresso 85 Canto al Vangelo 20 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 331

Kyrie 352 Offertorio 129 Dossologia Agnello di Dio 7 Conclusione 362

Gloria 364 Santo ex 120 Padre Nostro 203 Comunione 137


23 NOVEMBRE - XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Ingresso 02 Canto al Vangelo 18 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 154

kyrie M Gialloreti Offertorio 186 Dossologia Agnello di Dio 6 Conclusione 160

Gloria /// Santo 235 Padre Nostro 203 Comunione 143

2. AL SERVIZIO DELLA PAROLA La delicatezza del ruolo che il Lettore (salmista) è chiamato a svolgere sconsiglia l’improvvisazione dilagante nell’esercizio di tale ministero e pone l’accento sulla necessità di una formazione attenta e accurata. Il ministero del Lettore(salmista) è un servizio che si fa con impegno e che esige stabilità e continuità. Egli deve essere in condizione di esercitare con competenza, con misura e con stile tutta una serie di importanti meditazioni, per consentire alla Parola di Dio di giungere all’assembleae per far si che la Parola proclamata penetri con efficacia nel cuore dei fedeli. Il dinamismo rituale della Liturgia della Parola impegna in prima persona il Lettore (salmista) facendosi carico: a) di dare voce alla Parola scritta: colui che proclama la Parola di Dio si pone al servizio di essa e dell’assemblea. Perciò tutto acquista importanza: la qualità della lettura, il modo con cui si è preparato, il suo atteggiamento. Non si dovrebbe chiedere mai a nessuno di improvvisare un simile servizio, che esige sempre una preparazione interiore e psicologica.

Sulle note dello spirito

ANIMAZIONE DOMENICALE - SALMI RESPONSORIALI

b) di dare soffio alla Parola scritta con la sua voce il lettore deve essere in grado di comunicare a tutti la convinzione che quanto si sta ascoltando è la Parola di Dio. non è, quindi una parola qualsiasi, che può essere ascoltata per abitudine o per conformismo. è una Parola mediatrice di salvezza, perché supera la contingenza e l’ambiguità delle parole umane. c) di dare corpo alla Parola scritta: il Lettore deve sforzarsi di far emergere il significato attualizzante di quanto egli proclama, deve far avvertire a tutti che la Parola di Dio è una realtà viva che interpella l’assemblea. La Parola di Dio non è un vago pensiero della mente, non è una realtà astratta. L’obiettivo fondamentale del ministero del Lettore sta nell’operare il passaggio dalla Parola scritta alla Parola viva. Egli offre la sua voce per l’iterazione dell’azione salvifica di Dio. Perciò è necessario che egli sia adeguatamente formato, “i lettori, siano veramente idonei e preparati con impegno” (OLM 55; IGMR 66). Il lettore deve essere un uomo di fede, deve essere preparato dal punto di vista liturgico e biblico di modo che il suo ministero risulti credibile e convincente, ma deve anche conoscere molto bene i problemi di ordine tecnico che condizionano il suo particolare ministero.

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ANIMAZIONE DOMENICALE - SALMI RESPONSORIALI

Sulle note dello spirito

SALMODIE

7 SETTEMBRE - XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Tratto dal Salmo 94 - Ascoltate oggi la voce del Signore.

Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza. Accostiamoci a lui per rendergli grazie, a lui acclamiamo con canti di gioia. Entrate: prostràti, adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti. È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce. Se ascoltaste oggi la sua voce! «Non indurite il cuore come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».

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14 SETTEMBRE - XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Tratto dal Salmo 77 - Non dimenticate le opere del Signore!

Ascolta, popolo mio, la mia legge, porgi l’orecchio alle parole della mia bocca. Aprirò la mia bocca con una parabola, rievocherò gli enigmi dei tempi antichi. Quando li uccideva, lo cercavano e tornavano a rivolgersi a lui, ricordavano che Dio è la loro roccia e Dio, l’Altissimo, il loro redentore. Lo lusingavano con la loro bocca, ma gli mentivano con la lingua: il loro cuore non era costante verso di lui e non erano fedeli alla sua alleanza. Ma lui, misericordioso, perdonava la colpa, invece di distruggere. Molte volte trattenne la sua ira e non scatenò il suo furore.

Sulle note dello spirito

ANIMAZIONE DOMENICALE - SALMI RESPONSORIALI

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Sulle note dello spirito

ANIMAZIONE DOMENICALE - SALMI RESPONSORIALI

21 SETTEMBRE - XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Tratto dal Salmo 144 - Il Signore è vicino a chi lo invoca.

Ti voglio benedire ogni giorno, lodare il tuo nome in eterno e per sempre. Grande è il Signore e degno di ogni lode; senza fine è la sua grandezza. Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature. Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere. Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità.

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28 SETTEMBRE - XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Tratto dal Salmo 23 - Ricordati, Signore, della tua misericordia.

Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza; io spero in te tutto il giorno. Ricòrdati, Signore, della tua misericordia e del tuo amore, che è da sempre. I peccati della mia giovinezza e le mie ribellioni, non li ricordare: ricòrdati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore. Buono e retto è il Signore, indica ai peccatori la via giusta; guida i poveri secondo giustizia, insegna ai poveri la sua via.

Sulle note dello spirito

ANIMAZIONE DOMENICALE - SALMI RESPONSORIALI

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Sulle note dello spirito

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05 OTTOBRE - XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Tratto dal Salmo 79 - La vigna del Signore è la casa d’Israele.

Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli. Perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolano le bestie della campagna. Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte. Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome. Signore, Dio degli eserciti, fa’ che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi.

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12 OTTOBRE - XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Tratto dal Salmo 22 - Abiterò per sempre nella casa del Signore.

Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia. Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza. Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici. Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca. Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni.

Sulle note dello spirito

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19 OTTOBRE - XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Tratto dal Salmo 95 - Grande è il Signore e degno di ogni lode.

Cantate al Signore un canto nuovo, cantate al Signore, uomini di tutta la terra. In mezzo alle genti narrate la sua gloria, a tutti i popoli dite le sue meraviglie. Grande è il Signore e degno di ogni lode, terribile sopra tutti gli dèi. Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla, il Signore invece ha fatto i cieli. Date al Signore, o famiglie dei popoli, date al Signore gloria e potenza, date al Signore la gloria del suo nome. Portate offerte ed entrate nei suoi atri. Prostratevi al Signore nel suo atrio santo. Tremi davanti a lui tutta la terra. Dite tra le genti: «Il Signore regna!». Egli giudica i popoli con rettitudine.

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26 OTTOBRE - XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Tratto dal Salmo 17 - Ti amo, Signore, mia forza.

Ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore. Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio; mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo. Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici. Viva il Signore e benedetta la mia roccia, sia esaltato il Dio della mia salvezza. Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato.

Sulle note dello spirito

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Sulle note dello spirito

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01 NOVEMBRE - TUTTI I SANTI Tratto dal Salmo 23 - Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Signore.

Del Signore è la terra e quanto contiene: il mondo, con i suoi abitanti. È lui che l’ha fondato sui mari e sui fiumi l’ha stabilito. Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non si rivolge agli idoli. Egli otterrà benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza. Ecco la generazione che lo cerca, che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.

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02 novembre - XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Tratto dal Salmo 26 - Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura? Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore e ammirare il suo santuario. Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me, rispondimi! Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto. Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi. Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.

Sulle note dello spirito

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Sulle note dello spirito

ANIMAZIONE DOMENICALE - SALMI RESPONSORIALI

09 NOVEMBRE - XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Tratto dal Salmo 45 - Un fiume rallegra la città di Dio.

Dio è per noi rifugio e fortezza, aiuto infallibile si è mostrato nelle angosce. Perciò non temiamo se trema la terra, se vacillano i monti nel fondo del mare. Un fiume e i suoi canali rallegrano la città di Dio, la più santa delle dimore dell’Altissimo. Dio è in mezzo a essa: non potrà vacillare. Dio la soccorre allo spuntare dell’alba. Il Signore degli eserciti è con noi, nostro baluardo è il Dio di Giacobbe. Venite, vedete le opere del Signore, egli ha fatto cose tremende sulla terra.

16 NOVEMBRE - XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Tratto dal Salmo 127 - Beato chi teme il Signore.

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VISTO CHE SAREMO TUTTI AL CONVEGNO DIOCESANO LO CANTEREMO TUTTI INSIEME


23 NOVEMBRE - XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A Tratto dal Salmo 22 - Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.

Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare. Ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici. Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca. Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni.

Sulle note dello spirito

ANIMAZIONE DOMENICALE - SALMI RESPONSORIALI

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LA MUSICA ARMONIA DIVINA Bisogna comprendere il canto e la musica in base alla Parola di Dio. La musica e il canto tocca la sfera emotiva. La Bibbia è piena di riferimenti alla musica e al canto e vi sono molti brani che, nella loro forma originale, venivano probabilmente cantati. A musica è un aspetto della “creatività” di Dio e che è stata data all’umanità come un dono, uno di quelli di cui “possiamo godere” (1 Tm 6,17), allora possiamo legittimamente trarre grande piacere dall’ascoltare o dal comporre musica. Dio ama fare musica! Non è solo la fonte della musica, ma è egli stesso un “musicista”. La Bibbia si riferisce a Dio stesso che canta, dimostrando così il suo amore ed il suo compiacimento per la musica quale parte del suo creato. La musica originariamente fu “un’idea di Dio”. La prima musica nell’universo deve essere stata il canto degli angeli che inneggiavano alla creazione “” Gb 38,7.

Progetto grafico e impaginazione: Francesco Angioletti


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