Il racconto della mela

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La domestica che mi crebbe mi diceva che mia madre era instancabile. Diceva che avevo i suoi occhi, sempre fissi su un impervio orizzonte e le sue lunghe mani mai ferme.


La storia dice che un giorno mia madre sedeva accanto alla finestra aperta guardando la neve fuori, ricamando corone sulla veste di battesimo della creatura che aspettava. La domestica l’avvertì che sarebbe morta se avesse continuato a sedere al freddo, lasciando che la neve entrasse e spruzzasse il suo lavoro. Mia madre non sembrava udirla. Proprio allora l’ago le si conficcò nel dito, e tre gocce di sangue macchiarono la neve sulla cornice d’ebano della finestra. Mia madre disse alla donne la bambina che aspetto avrà i capelli neri come l’ebano, labbra rosse come il sangue, pelle bianca come la neve. Cosa la salverà dal mio destino?

Poi le doglie si impadronirono di mia madre e se la portarono via. Benché io fossi molto più piccola di lei, ero più forte; non avevo motivo di rifiutare la vita.



a tica mes o d a Fu l è non finch a r u ersi c prend sciuta. fui cre tava la mi por o n n u t u Ogni a era il o. Non in d r ia g ela del o a mio prima m a ser vit iv n e v he aturo c pomo m i, ese più tard padre un m ortabile,della o, quasi insopp ma il gusto aspr i tremare. netrante da farm primizia, così pe vò che mestica morì, mi tro Q uando anche la do

mi prese tra del castello e si to n ve oi rrid vagavo nei co piaceva portarmi in ellino. D’estate gli le sue braccia d’erm sopra il tappeto erboso. giardino, farmi dondolare mio grande albero. Egli era il mio gioco e il rescevo, no che c Man ma finchè in grembo gli saltavo bruciavano. le nostre guance


giorno in cui appar ve una macchia rossa sul mio lenzuo lo stropic ciato, mi o padre p m i b ; a a t ortò a ca c a t i ò en v e a p p s a a r r e l sa una nu ò e h d c o o l c v i e ova moglie. Non aveva molti anni p m a e C n . t o e l l d e i n n a a n zi alla un corte, ma io potevo o di velluto che spettava al suo rango, finchè non fu coperta da tu c i c s a r t dire che sarebbe stata mia nemica. s tto l’appar lo ato del po tere. Ma er a me che la gente salutava he mi sarebbe potuta piacere, se ci fossimo incontrate d c o s o s s a piccole, c Ade on i piedi a bagno nel fiu me. Avrei tenuto la sua mano nella m ia,

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polto un marito di sangue reale. Aveva i miei a giĂ se colori. Il suo v e v a viso era come u a na pietra preziosa incastonata in piĂš di me, m

segnai alla nuova arrivata il centinaio di chiavi tintinnanti, la corona ingemmata, C’era spazio per una sola regina nel castello. SÏ, con chi affettuosi di mio pad c o o i l g e m o re; era mia la chiav quand prima mela del mi spec o la carr giardino. ozza passava, ero io che d i o m d d i a e r f madre. Avrei a n e p p a o t i d potuto amar o rubato al la, se.... se... se ta dal rubin ... ta appesanti a t s e s s o f n o n e s


Le sue labbra erano soffici sulla mia fronte quando mi baciava dinanzi alla corte, ma sapevo dai racconti che il sorriso di una matrigna è come quello di un serpente, cosÏ le serrai la mia mente fin dal giorno in cui rigida perdevo il primo sangue.


era lei che ogni sera mi slacciava i nastri e abbandonava il mio corpo al sonno. Con le sue mani mi passava il pettine ingioellato tra i capelli, sciogliendone i nodi. Sebbene non mi fossi mai fidata di lei traevo piacere da ciò che mi dava.

Nei mesi successivi fece tutto ciò che potè per guadagnare la mia amicizia, e io cominciai a cedere. Pensavo di aver forse frainteso l’espressione ermetica dei suoi occhi. Alla fine, le consentii di coprirmi con le sete e i broccati che aveva portato dalle montagne. Era lei che mi allacciava il corsetto ogni mattina finchè non ero arrossata per la gioia,


Mio padre era entusiasta di vederci così vicine. Una volta che venne di notte nella sua camera ci trovò entrambe lì, le gambe intrecciate sul letto sotto un mare di trine e velluti, mentre ci scambiavamo gli orecchini. Rise rovesciando la testa all’indietro nel vederci. Non si sono mai viste due così belle dame nello stesso letto! Esclamò. Ma chi, fra di voi è la più bella? Ci guardammo, lei ed io, e ci unimmo al coro delle sue risate. é una mia impressione, ripensandoci adesso, che nelle nostre voci ci fosse una nota stonata? Vedi, la sua chioma era nera come il carbone, la mia come l’ebano. Le mie labbra erano rosse come le sue, le nostre guance pallide come due pagine contigue di un libro.


Ma i nostri volti non erano uguali, nè erano paragonabili. Rise ancora fragorosamente. Ditemi, chiese, come posso scegliere fra due tali bellezze? Guardai la mia matrigna, anche lei mi fissò, i nostri occhi erano come due specchi opposti che creano un corridoio di riflessi, vuoto all’infinito. Mio padre sogghignò mentre mi baciava sulla fronte, mi spinse gentilmente fuori dalla stanza e mi sprangò la porta alle mie spalle.


Ma mentre l’anno passava e la matrigna rimaneva snella come il primo giorno in cui egli l’aveva condotta al castello la bocca di mio padre cominciò a indurirsi. Le proibì di fare qualsiasi cosa eccetto rimanere sdraiata ad aspettare un figlio, il figlio che egli aveva tanto desiderato. La mia matrigna giaceva sulla schiena che si indebolì talmente che potevo vedere le ossa sotto i suoi occhi. Quando un altro anno si allungò nella primavera, non era più la mia matrigna a giacere consunta e malata ma mio padre. Io andavo e venivo dal suo letto, ma egli era oltre ogni possibilità di cura. Malediceva le sue due mogli che lo avevano abbandonato e infine, malediceva il figlio che non era mai venuto.



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Quella notte udii molti passi dirigersi verso la porta di mio padre. Affondai la faccia nel cuscino. Aspettai. Non si sentiva un suono nell’oscurità; nessuna ultima parola per me. Decisi di non rimanere ad aspettare che ciò che il giorno dei funerali avrebbe portato, quali occhi cortigiani avrebbero scintillato di violenza. Decisi di lasciare tutto a lei, e lasciare lei a tutto. Mi riempii l’abito di pezzi d’oro e fuggii. Se fosse stato ancora inverno quella notte mi avrebbe uccisa; l’aria tiepida fu la mia salvezza.Più vasta di quanto avessi immaginato la foresta ospitava creature che non sapevo nominare, cose con occhi d’argento e denti rumorosi; nonostante tutte le mie pellicce non chiusi occhi quella notte.



All’alba ero più smarrita di un pulcino Dopo aver vagato quasi morta di fame

e impazzita per più giorni di quanti potessi ricordare,

ebbi la fortuna di essere trovata da un gruppo di boscaioli. Mi chiesero chi fossi.

La verità è più rapida delle menzogna, così glielo dissi. Avevano saputo della morte del re. Quella sera mi sfamarono, e ogni altra sera io sfamai loro. Ogni volta che mi fermavo

per riposare accanto al fuoco ero aggredita dal pensiero della mia matrigna. Si ergeva davanti ai miei occhi, sempre allungandosi come un’ombra sul muro. Gli uomini non mi chiedevano mai a cosa pensassi, neanche quando rimanevo intontita e lasciavo bruciare la minestra. Mi lasciavano sognare accanto al fuoco come un gatto.


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ve se , oa is p lei er do to. D n la. ò, i o a e c l o lie u sem i. M min co ae as c lta estr fuo are d o ca he e brav n i n v f l u a i a a of m s all ici ra, qu cambi to t em are uori d en tavo ata. U ee and ntr uardai f can potu i no g tii e e t a c d t n s e ’ be d g i i o o i n r a s o so i c s tag i e a co o ne f D rrise. e. a lia m end ei m Posso entrare in casa tua? Chies lì.L t e a . No Sed avr cora n p o le r . n iv a e n s a r a s p ecc arla ei e no , di mm e, tornai alla porta, per curiosità e l hi ecchi me p s o li tem c o de l g o passato. Ho cominciato a rompere p i. L ndol tringe ei era dietro di me e mi allacciava il corsetto, s

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do gli Q uan rincasai , in m uo quella sera a n rono, varono in ure. mi tro di stupo sorta a si preoc Prim parono, cu

io re- ato, do il m nn senten ndo e affa dendo le ofo rono, ve ibo per r p o c sir rrabbia a niente rigna poi si l tavolo e la mai mat per u e e s rape Dissero ch ’incantatric na cena. a essere un mezzo a u dvev armi in ata. trov fores



Trascorsero alcune settimane ed ero tornata me stessa, strofinavo, cucinavo e mi guadagnavo da vivere. La visita cominciò a sembrare un altro dei miei sogni ad occhi aperti. Un pomeriggio riposavo accanto a un ceppo fuori casa, rubando un raggio di sole sulla schiena, quando udii lo stridio delle sue briglie. Questa volta si inginocchiò di fianco a me e non c’era nulla della regina che era in lei. Non ho dormito una notte da quando te ne sei andata, disse, è come danzare dentro scarpe incandescenti. Tornerai a casa adesso? No, dissi, e mi voltai. Prese il pettine ingioiellato e cominciò a passarmelo fra i capelli, paziente con tutti i ricci e i nodi che la mia nuova vita aveva creato. Chiusi gli occhi e lasciai che i denti del pettine mi penetrasero la testa, scavando fino al centro della memoria.



Quando gli uomini rincasarono, quella sera, mi trovarono rannicchiata intorno al ceppo, sull’erba umida. Mi sollevarono e mi dissero che la mia matrigna doveva essere una strega per avvelenarmi talemente di indolenza. Mi consigliarono di rimanere in casa e cacciare ogni visitatore. Ma un pomeriggio, all’inizio dell’autunno, fui stordita da una zaffata di profumo di un’intensità irresistibile. Non potevo ricordare cosa fosse; sapevo solo che potevo a malapena sopportarlo. Mi voltai, e alla fnestra c’era la mai matrigna, una mela nella mano levata. Matrigna, sì, era qualla la parola ma non c’era nulla della madre in lei. La mela era matura a metà.Un lato era verde, l’altro rosso. Ella morse il lato verde, e sorrise. Presi la mela senza una parola, morsi il lato rosso e iniziai a tossire. Paura ed eccitazione si combattevano nella mia gola, e l’oscurità calò sui miei occhi. Caddi al suolo. Era tutto bianco, dove andai; come neve calda, pressata negli angoli e nelle fenditure del mio corpo. Non c’era luce, nè rumore, nè colore. Pensai di essere un tesoro, conservato in un luog sicuro.


Q uando rinvenni sobbalzavo in una bara aperta. La luce del sole pugnalava miei occhi. I boscaioli mi stavano trasportando giù dalla montagna, fuori dal bosco. Mi raddrizzai, tossii, mi sedetti.La mia testa girava ancora; pensai di poter svanire di nuovo. Ma nella mia bocca c’era la mela, scivolosa, ancora dura, aspra sui bordi.

Po t e v o sentire i segni dei miei denti sulla buccia. La morsi, e il succo scorse lungo gli angoli delle mie labbra. Non era avvelenata. Era la prima mela dell’anno dell’orto di mio padre. La masticai fino ad inghiottirla e seppi cosa fare.


Mi f e c i mettere a terra e uscii dalla cassa, sorda alle loro proteste. Mi guardai intorno finchè vidi il castello, piccolo sullo sfondo della foresta, lontano sulla collina. Mi voltai da quella parte, e cominciai a camminare. Nel giardino domandai:Chi eri tu prima di sposare mio padre?



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