Tutti per uno, Uno per tutti

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FANNO PARTE DEL COMITATO SCIENTIFICO SALVATORE ABBRUZZESE, MAGDI ALLAM, SALVO ANDÒ, LUCA ANTONINI, AUGUSTO BARBERA, SEBASTIANO BAVETTA, PIER ALBERTO BERTAZZI, PAOLO BLASI, GIAMPIO BRACCHI, LUIGI CAMPIGLIO, MASSIMO CAPRARA, FERRUCCIO DE B ORTOLI , A DRIANO D E M AIO , PAOLO D EL D EBBIO , PIERPAOLO DONATI, GIORGIO FELICIANI, MASSIMO GAGGI, FRANCESCO GENTILE, OSCAR GIANNINO, PIETRO ICHINO, GIORGIO ISRAEL, CARLO LAURO, CLAUDIO MORPURGO, I GNAZIO M USU , P IETRO N AVARRA , PAOLA O LIVELLI , LORENZO ORNAGHI, FABIO PAMMOLLI, GIUSEPPE PANZERI, A NTONIO P OLITO , A LBERTO Q UADRIO C URZIO , FABIO ALBERTO ROVERSI MONACO, GIULIO SAPELLI, EUGENIA SCABINI, CARLO SECCHI, GIUSEPPE TRIPOLI, DARIO VELO, RAFFAELLO VIGNALI, GIORGIO VITTADINI, STEFANO ZAMAGNI

TRIMESTRALE DELLA

www.sussidiarieta.net


Tutti per uno, uno per tutti Un’agenda per l’Italia

Sommario Antonio Catricalà

EDITORIALE

Il sistema economico italiano e il

Giorgio Vittadini

Tutti per uno, uno per tutti

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processo di integrazione europea 32 Pietro Ichino

Exit e Voice per rompere il circolo vizioso

PRIMO PIANO

38

Paolo Del Debbio

Dall’agenda di Caserta al bene comune

9

Antonio Polito

L’agenda del governo e il problema del consenso

14 Paola Garrone

Oscar Giannino

Un errore non privatizzare

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Public utilities: libertà di scelta, di iniziativa e imprese non profit 46 Renato Angelo Ricci

Energia, sviluppo, ambiente

52

Giovanni Grimaldi

La rivoluzione dei trasporti: la “scatola globale”

60

Pietro Modiano

La forza della microeconomia di fronte al declino e le sfide di una classe dirigente nazionale 66

IL TEMA I NODI ITALIANI Carlo Pelanda

Giovanni Marseguerra

Il modello istituzionale americano

Lo sviluppo dell’impresa familiare: 74 le sfide della sussidiarietà

a confronto con quello europeo 2

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Maurizio Sacconi

Barack Obama

Dalla società statica delle garanzie alla società mobile 80 delle opportunità

È il momento per una copertura 109 sanitaria universale

Adriano De Maio

La riforma sanitaria in California

L’università come fattore di competitività territoriale

Arnold Schwarzenegger

114

86

Michael Tanner

La mitologia della riforma sanitaria

IL DIBATTITO ESTERO

116

John Waters

L’eredità del Capotribù grasso. Come l’Irlanda è diventata la Tigre celtica

FORUM

94

Il ruolo delle banche nello sviluppo del Paese

Angela Merkel

Il modello di stato sociale europeo

Roberto Mazzotta e Cesare Geronzi

99

Annette Schavan

APPROFONDIMENTI

Rafforzare la coesione sociale, economica e politica dell’UE

Bruno Ermolli

101

Massimo Gaggi

Il dibattito sulla riforma sanitaria in USA

123

Il ruolo dell’impresa per uno sviluppo equilibrato

135

Alberto Bombassei

105

Libertà economica e democrazia 138 3


TRIMESTRALE DELLA FONDAZIONE PER LA SUSSIDIARIETÀ Anno III Numero 1

Marzo 2007

Redazione: Via Torino, 68 - 20123 Milano 02 86467235, fax 02 89093228, atlantide@sussidiarieta.net www.sussidiarieta.net

Comitato Scientifico: SALVATORE ABBRUZZESE, MAGDI ALLAM, SALVO ANDÓ, LUCA ANTONINI, AUGUSTO BARBERA, SEBASTIANO BAVETTA, PIER ALBERTO BERTAZZI, PAOLO BLASI, GIAMPIO BRACCHI, LUIGI CAMPIGLIO, MASSIMO CAPRARA, FERRUCCIO DE BORTOLI, ADRIANO DE MAIO, PAOLO DEL DEBBIO, PIERPAOLO DONATI, GIORGIO FELICIANI, MASSIMO GAGGI, FRANCESCO GENTILE, OSCAR GIANNINO, PIETRO ICHINO, GIORGIO ISRAEL, CARLO LAURO, CLAUDIO MORPURGO, IGNAZIO MUSU, PIETRO NAVARRA, PAOLA OLIVELLI, LORENZO ORNAGHI, FABIO PAMMOLLI, GIUSEPPE PANZERI, ANTONIO POLITO, ALBERTO QUADRIO CURZIO, FABIO ALBERTO ROVERSI MONACO, GIULIO SAPELLI, EUGENIA SCABINI, CARLO SECCHI, GIUSEPPE TRIPOLI, DARIO VELO, RAFFAELLO VIGNALI, GIORGIO VITTADINI, STEFANO ZAMAGNI Reg. Tribunale di Milano n. 603 - 6 settembre 2004

Direttore responsabile: GIORGIO VITTADINI

Segreteria di redazione: LORENZO TORRISI

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Editoriale Editoriale Tutti per uno, uno per tutti Sembrava inevitabile che il nostro Paese dovesse proseguire sulla strada del declino: invece, da due recenti comunicati Istat, si osserva un 2% in più del Pil e un boom del fatturato industriale (+8,3%). Come rendere stabile questo inatteso risultato? Secondo Del Debbio la risposta può risiedere nella collaborazione per il bene comune: «quella situazione sociale nella quale vi sono le condizioni perché ognuno, soggetto pubblico o privato, economico o sociale, profit o non profit, singolo o associato, possa esprimere al meglio se stesso perseguendo, in uno spazio di libertà più agevole possibile, il proprio progetto di vita». Tutti per uno, uno per tutti per attuare quel passo dell’agenda di Caserta, ricordato ancora da Del Debbio: «solo attraverso una robusta e duratura crescita della ricchezza prodotta dal Paese è possibile infatti […] proseguire nella coesione della società italiana attraverso misure volte a una maggiore giustizia ed equità sociale». Pur nelle difformità di giudizio sul Governo Prodi, gli interventi in Primo piano concordano sulle linee di lungo periodo per attuare una crescita duratura. Liberalizzare realmente i mercati è la via maestra, dice Polito, per «far tornare l’Italia a crescere, liberando le energie del suo sistema produttivo». Giannino, da parte sua, ribadisce che non c’è vera liberalizzazione senza una privatizzazione delle grandi imprese in mano allo Stato e che tale manovra non solo porta vantaggi al cittadino consumatore, ma è soprattutto necessaria per il rilancio della produttività in quanto: «nella letteratura economica internazionale è del tutto assodato che esso sia anche connesso all’attrattiva esercitata nei confronti degli investimenti diretti esteri; questi, nel continente europeo, vanno prioritariamente a Paesi a basso fisco e bassa ostilità giuridico-ambientale al fare impresa privata». La tesi di Giannino trova un riscontro in ciò che è avvenuto in Irlanda dove, secondo il giornalista John Waters, proprio misure di liberalizzazione a favore di investimenti stranieri, come per esempio l’imposta sulle società (12,5%) che rimane tuttora la più bassa in Europa, hanno permesso l’uscita da un sottosviluppo secolare. Pelanda mostra il contesto di lungo periodo di questo cambiamento epocale già imboccato dall’Irlanda e auspicabile per l’Italia. Non si tratta di passare semplicemente a un liberismo sfrenato: occorre ricercare nuovi orizzonti senza riprodurre vecchi schemi. «Il modello americano produce molto stress competitivo sui cittadini e sta aumentando la domanda di protezioni […]. Il modello europeo è fallimentare sul piano dell’economia tecnica e sta fallendo in termini di debito, scardi Giorgio Vittadini

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Editoriale

sa crescita e alta disoccupazione […]. È […] ipotizzabile pensare che alla fine vi sarà una convergenza di lungo periodo tra i due modelli». È quanto auspicato e preconizzato dalla stessa Merkel per il futuro europeo: «da una parte si schierano coloro che vogliono deburocratizzare, dall’altra quelli che vogliono salvare il sociale, ma in realtà non esiste alcun contrasto: fa tutto parte del modello sociale europeo». Conciliare la caratteristica fondamentale delle società europee, un’attenzione ai bisogni elementari di tutti, con la ricerca di eccellenza e di competizione: questo sembra il tema del futuro non solo italiano. Purtroppo l’Italia non ha ancora scelto, anzi rischia di risentire dei limiti di entrambi i sistemi, come dice Catricalà: «di qui la necessità improrogabile di accelerare e completare il processo di liberalizzazione nel nostro Paese, in modo da giungere alla realizzazione di un mercato realmente concorrenziale». Nei contributi successivi si suggeriscono perciò alcuni interventi per permettere questo rilancio strutturale del sistema produttivo con apertura agli investitori internazionali. Tutti escono dallo stereotipo stato-privato, liberismo-statalismo, per suggerire situazioni più articolate e creative, sempre incentrate su una maggior libertà di scelta dell’utente. Per ciò che concerne il sistema bancario, Geronzi e Mazzotta sottolineano la positività della coesistenza di due tipologie di banche, entrambe concorrenziali, quelle frutto di forti concentrazioni che «hanno prodotto più concorrenza, più efficienza e migliore qualità dei servizi» e quelle a forte connotazione ideale, rafforzate «dalla razionalizzazione, dall’ammodernamento, dalle aggregazioni che si sono realizzate». Ichino mostra come la pubblica amministrazione possa superare lo statalismo senza essere disgregata se, attraverso la «valutazione dell’efficienza», il «controllo della produttività individuale», la «trasparenza», la «piena accessibilità delle informazioni» previsti in recenti provvedimenti e accordi con parti sociali, permetterà al consumatore di sanzionare e denunciare le inefficienze. Paola Garrone declina le novità metodologiche proposte da Ichino nel cruciale settore dei servizi di pubblica utilità: «Occorre a questo punto fare un ulteriore passaggio e riconoscere che le imprese di matrice non profit sono una costante dell’evoluzione del settore; proprio perché consentono la presenza degli utenti nella governance, la missione specifica di servizio e il reinvestimento degli utili, esse aiutano a risolvere le decisioni relative agli investimenti a favore degli utenti». Tuttavia tutto questo non basta: se si vuole rilanciare il nostro Paese occorre superare postulati che in questi anni ci hanno bloccato ed uscire dal piccolo cabotaggio del “giorno per giorno”, per fare scelte storiche per il nostro futuro. Questo numero di «Atlantide» mostra due esempi cruciali di scelte possibili. Innanzitutto c’è il ritorno al nucleare, suffragato, come dice Ricci, da numerose ragioni legate alla competitività e alla sicurezza della nuova tecnologia nucleare al comunque consistente uso di energia nucleare importata, agli enormi costi dell’energia prodotta in Italia, all’attuazione del protocollo di Kyoto.

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Editoriale

In secondo luogo, il rilancio delle infrastrutture: non solo la Tav, ma anche i porti, il cui ruolo di piattaforma logistica al centro del Mediterraneo, come dice il presidente dell’Autorità portuale di Gioia Tauro, Grimaldi, sarà esaltato dallo storico allargamento in corso del Canale di Suez. Tutto quanto detto è cruciale ma, come si è detto, può valere per molti Paesi e non spiega quel piccolo inaspettato rilancio della nostra economia. È Modiano a interpretare le ragioni di questa ripresa, che la gran parte degli opinionisti non si aspettava né sa motivare, mostrando che esiste una rigenerazione naturale del mondo produttivo italiano: «dal 2000 a oggi le imprese italiane hanno fatto quello che avevano fatto in misura limitata e non generalizzata nei decenni precedenti, hanno cioè innovato i prodotti e la distribuzione più dei processi produttivi […]. Siamo insomma di fronte a un caso di grande interesse di divergenza fra una prognosi infausta, fondata in verità su indizi solidi e su una solida visione del mondo, e un decorso invece positivo, ma difficile da “modellare”, da riconciliare in una teoria». È l’esito dell’anomalia virtuosa italiana che permane e si consolida e che consiste nella vitalità della piccola e media impresa. Afferma Marseguerra: «come è noto, il nostro sistema produttivo è composto per la gran parte da piccole e piccolissime imprese», che continuano a presentare grandi vantaggi: flessibilità organizzativa, flessibilità produttiva, stretto legame con il tessuto locale: «nella moderna economia della conoscenza la dimensione da sola non garantisce forza competitiva». Lo ribadiscono anche Bombassei ed Ermolli quando parlano di un capitalismo più adeguato ai bisogni dell’uomo rispetto a quello basato solo sulle multinazionali, e di un libero mercato più attento alla libertà di intrapresa individuale. Se ne deduce che le modifiche strutturali suggerite, anche gli investimenti in Italia di imprese straniere, non possono avere lo scopo di cambiare faccia al nostro sistema economico, quanto di consolidarlo, come dice Modiano: «il punto è che le capacità delle imprese piccole e medie che ce l’hanno fatta sono ancora disperse, difficili da mettere a fattor comune […]: stentano come si è visto a essere riconosciute anche dagli economisti e dalla politica, e non diventano una forza collettiva e un esempio, da estendere dove la concorrenza e la meritocrazia non vogliono penetrare: nei servizi, nella pubblica amministrazione, nelle reti». Se il mondo delle piccole e medie imprese è il punto focale del cambiamento prossimo venturo, occorre aggiungere che c’è un altro aspetto cruciale dell’agenda per il bene comune, spesso teoricamente ricordato, ma poco praticato. Dice ancora Marseguerra: «le piccole imprese a carattere familiare sono spesso caratterizzate anche da un’altra importante scarsità: quella di cultura di impresa […]. A questo scopo, risulta indispensabile innalzare il livello medio dell’istruzione attraverso una opportuna valorizzazione del sistema scolastico e universitario». Lo ribadisce Sacconi: «Ai giovani deve essere garantito e promosso il diritto-dovere ad almeno dodici anni di apprendimento di base attraverso la libertà di scelta delle famiglie,

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Editoriale

una pluralità di istituzioni educative, pubbliche e private, la personalizzazione e la flessibilità dei percorsi - scolastico e professionale - e il contrasto dell’abbandono precoce degli studi». Lo ripetono, estendendo tale urgenza al mondo delle università, anche Ichino e De Maio. Afferma Ichino: «se, per esempio, il finanziamento pubblico delle scuole e delle università avvenisse interamente attraverso il sistema dei vouchers (previa abolizione del valore legale dei titoli di studio), gli istituti e gli atenei dove si scelgono male i professori, o comunque dove si insegna poco e male, sarebbero costretti a chiudere». E De Maio: «Riduciamo il più possibile i vincoli per la selezione, il reclutamento, la carriera, il salario dei dipendenti e, contestualmente, permettiamo che ciascuna università metta i vincoli che desidera agli ingressi di studenti, e definisca la strategia per attrarre i migliori». Quanto detto delinea il percorso per un rilancio dello sviluppo italiano. Un’agenda per il futuro, per essere completa, dovrebbe altresì comprendere proposte per una radicale riforma del welfare, innanzitutto a partire dal sistema previdenziale, come auspicato da Polito, Del Debbio, Ichino. Poiché «Atlantide» ha già trattato di recente questo tema, non lo si ripropone in questo numero. Tuttavia, per ricavare linee di metodo utili ad approfondire l’argomento, si presentano alcuni contributi tratti dalla discussione sul sistema sanitario nella prima fase della campagna elettorale americana. Massimo Gaggi ne sintetizza il significato che ripropone il superamento dell’antinomia stato-privato già proposta nel saggio di Pelanda: «in un’America in cui i meccanismi dell’economia liberale stanno funzionando molto bene in termini di aumento della produzione di ricchezza, ma non per quanto riguarda la sua distribuzione, la domanda di interventi sociali perequativi sta crescendo anche tra i moderati». In questo senso Romney, governatore del Massachusets, ha elaborato una riforma sanitaria che cerca di raggiungere tutti i cittadini senza scardinare il sistema delle assicurazioni private; Schwarzenegger ha annunciato una riforma sanitaria del costo di dodici miliardi di dollari l’anno che ricalca i meccanismi di quella di Romney. Obama si è solennemente impegnato, se sarà eletto, a estendere la copertura sanitaria a tutti i cittadini americani entro la fine del primo mandato presidenziale (2012). Il dibattito è feroce: Tanner, esperto legato alla presidenza critica questi cambiamenti come fonte di burocrazia senza reali vantaggi. Discutere di questo, come di tutto il resto, senza pregiudizi ideologici, è il primo modo per essere Tutti per uno, uno per tutti per il bene comune.

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Primo Piano Primo Piano Dall’agenda di Caserta al bene comune di Paolo Del Debbio

Una direzione di marcia Tutti per uno, uno per tutti. Un’agenda per l’Italia. Il titolo di questo numero di «Atlantide», sotto il provocatorio rimando a Dumas, suggerisce un’indicazione piuttosto precisa sulla direzione da intraprendere per chi voglia riflettere su cosa si dovrebbe fare in Italia a livello di politiche economiche e sociali. Questa indicazione potrebbe essere riassunta nel concetto di “bene comune”. Non solo quindi un’agenda, ma una vera e propria filosofia di azione, su cui è peraltro bene intendersi. Se, infatti, per bene comune si intende un’idea di società che la Politica deve perseguire con i mezzi a sua disposizione perché ritenuta dai politici governanti come “giusta”, allora questo titolo non va tanto bene. Se, come crediamo noi, per bene comune si deve intendere quella situazione sociale nella quale vi sono le condizioni perché ognuno, soggetto pubblico o privato, economico o sociale, profit o non profit, singolo o associato, possa esprimere al meglio se stesso perseguendo, in uno spazio di libertà più agevole possibile, il proprio progetto di vita, allora questo titolo ha un senso. Giova ricordare che il tema del “bene comune” è proprio della tradizione cattolica, in special modo di quella parte di riflessione che va sotto il nome di Dottrina sociale della Chiesa. Anche i recenti documenti ufficiali della Chiesa cattolica, il Catechismo e il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, ci paiono richiamare con chiarezza il secondo concetto di bene comune, sopra succintamente ricordato. È utile ricordare che «Atlantide» esordì con un numero intitolato, molto significativamente, Ce la faremo? Erano tempi nei quali il pessimismo sull’Italia veniva un po’ follemente brandito come argomento politico, pur in presenza dei segni di una ripresa che oggi, fortunatamente, sta iniziando a dispiegarsi. In quel clima di esasperato pessimismo, già allora i promotori di «Atlantide» ricordavano che, soprattutto nei momenti di crisi, è bene riferirsi a ciò che costituisce un capitale perennemente valido, cioè il capitale umano, una sorta di Leitmotiv nello sviluppo di questa rivista. Capitale umano inteso non astrattamente, ma nel suo realistico e concreto svolgersi all’interno di una società definita e storicamente collocata. Per questo, già allora e poi nei numeri successivi, ci si è riferiti con insistenza alle forme di autoorganizzazione della società civile come fulcro di valore ed energia della ripresa anche economica del Paese. Questo è il motivo per il quale si è spesso parlato del mondo del non profit e del mondo della piccola e media impresa, in cui si esprime quasi un unicum della società italiana.

PAOLO DEL DEBBIO È DOCENTE DI ETICA SOCIALE E DELLA COMUNICAZIONE PRESSO LA IULM DI MILANO E GIORNALISTA.

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Primo Piano

L’Agenda di Caserta In questo numero viene delineata una sorta di “agenda per l’Italia”, ed è quindi interessante analizzare l’Agenda di Caserta elaborata dal governo nel gennaio scorso. In essa il governo ha delineato le linee guida che intende seguire per rilanciare la crescita. Confrontarsi con questo documento può risultare utile anche nell’intento di capire se quel bene comune (al quale del resto spesso si richiama il presidente del Consiglio, Romano Prodi), sia inteso nel primo o nel secondo senso sopra descritti. Diciamo subito che, secondo noi, il senso dell’espressione “bene comune” è applicabile all’azione di questo governo, dunque anche all’Agenda di Caserta, solo nel primo senso. Si ha cioè l’impressione che il governo persegua un modello di società in qualche modo lontano dalle caratteristiche peculiari della società stessa. Non lo diciamo solo in relazione alla perdita radicale di consenso che questo governo sta registrando nei confronti della piccola e media impresa (che pure è un dato molto significativo), ma più profondamente in relaL’ipotesi che vorrei zione al concetto stesso di politica economica che si va prospettare è che perseguendo, espresso bene da vari esponenti del goverla seconda società, quella no in una sorta di slogan: «tassare per ridistribuire». Cosa del rischio, sia sempre di vuol dire? Vuol dire credere che la forma migliore di ridistribuzione sia spremere ulteriormente coloro che in quepiù il vaso di coccio fra i sto Paese creano reddito, per ridistribuirlo a coloro che, due vasi di ferro. viceversa, non sono in grado di crearlo. Questo maschera la convinzione che ci sia ancora uno spazio possibile di “spremitura” della maggioranza di coloro che rappresentano il mondo produttivo italiano. Non è mai sufficientemente ricordato che oltre il 95% delle imprese italiane è costituito da piccolissime, piccole e (in misura minore) medie imprese.

Le tre società È stato recentemente pubblicato da Guerini e Associati il terzo Rapporto sul cambiamento sociale in Italia dell’Osservatorio del Nord Ovest, curato da Luca Ricolfi, con il titolo (significativo) Le tre società. È ancora possibile salvare l’unità dell’Italia? È interessante riportare quanto scritto nell’introduzione di Ricolfi, l’idea cioè che: «la vittoria di Prodi e il varo della finanziaria 2007 stiano producendo l’esatto contrario di ciò che l’Unione si proponeva di fare: non una maggiore unità del Paese ma la progressiva separazione - come in una reazione chimica, in una sorta di elettrolisi sociale - delle componenti di base della società italiana. Oggi l’Italia sembra sempre più la risultante dell’intreccio e dello scontro fra tre modelli sociali (e territoriali) radicalmente diversi […] il

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Primo Piano

nucleo della prima società, quella delle prime garanzie, è costituito da pensionati, dipendenti pubblici, operai e impiegati delle grandi imprese: tutte figure protette da importanti sindacati e associazioni di categoria, e anche per questo scarsamente esposte ai rischi del mercato. Il tratto distintivo della seconda società, quella del rischio, è la vulnerabilità delle sue figure centrali: artigiani, commercianti, piccoli imprenditori, dipendenti delle piccole imprese, occupati atipici, lavoratori irregolari, disoccupati sono sistematicamente esposti sia alle alterne fortune del mercato sia - quando violano o eludono le norme fiscali - all’alea della sorveglianza più o meno vessatoria dello Stato. La terza società, quella della forza, si fonda sul controllo dell’economia e del territorio da parte della criminalità organizzata, e ha nella politica locale - fatta di favori, clientele, abusi, ingerenze - il suo ingranaggio chiave: intanto esiste in quanto lo Stato rinuncia alla maggior parte delle sue prerogative, prima fra tutte il rispetto delle leggi. Detta in parole semplici, l’ipotesi che vorrei prospettare è che la seconda società, quella del rischio, sia sempre di più il vaso di coccio fra i due vasi di ferro, e che proprio questa debolezza - che le recenti scelte stataliste dell’Unione hanno finito di accentuare - finisca per mettere una pesante ipoteca sul nostro futuro: è difficile pensare a uno sviluppo del sistema Italia che continui a ignorare, eludere, sacrificare o penalizzare le richieste liberiste della seconda società, se non altro perché essa è una delle colonne portanti del nostro modo di produrre […] in questo senso l’Italia che esce dal Rapporto di quest’anno è più che mai un Paese al bivio. Se dobbiamo tornare a crescere, non si possono ignorare la protesta e l’insofferenza dei gruppi sociali che producono, ma sono costretti a farlo senza tutele e senza rappresentanze forti»1.

Una politica economica sbagliata Nell’Agenda di Caserta si legge che «solo attraverso una robusta e duratura crescita della ricchezza prodotta dal Paese è possibile infatti […] proseguire nella coesione della società italiana attraverso misure volte a una maggiore giustizia ed equità sociale» e, tra le direttrici indicate nel documento al numero 9 si legge «Ricerca di una maggiore equità sociale e intergenerazionale con la piena valorizzazione della famiglia, dei giovani e delle donne»2. È evidente la discrepanza che appare, anche a occhio nudo, tra ciò che il governo ha fatto con l’ultima finanziaria e ciò che indica come obiettivi prioritari della propria azione. È come se fossimo in presenza della necessità, per il governo, di recitare un copione “europeo” e, al contempo, di mandare di fatto in scena una commediola all’italiana. Non c’è alcuna possibilità di parlare di coesione sociale e di patto intergenerazionale se, da una parte, non si attuano politiche che riguardano la stragrande maggioranza delle imprese e, dall’altra, non si mette mano a una decisa riforma delle pensioni. Ma, come è noto, a oggi è buio pesto sia per quanto riguarda la prima cosa che per quanto riguarda la seconda. Né vale il ragionamento secondo cui prima bisognava risanare e

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Primo Piano

poi, in un’ipotetica “fase 2”, procedere alle riforme di sostanza. Perché non si Non si può pensare può pensare di risanare con provvedidi risanare con menti che mettano in seria difficoltà il provvedimenti che motore stesso di ogni risanamento, l’emettano in seria difficoltà conomia reale di un Paese, così come essa è e non come il governo vorrebbe il motore stesso di ogni che fosse. Purtroppo il governo si è risanamento. mosso secondo quest’ultima ipotesi, perché cos’altro vuol dire tassare per ridistribuire? Vuol dire picchiare ancora più duro sui ceti produttivi per ridistribuire sui ceti meno produttivi, ma più vicini al bacino elettorale delle forze che compongono il governo. Questo vuol dire, non altro. Ormai, archiviato il XX secolo, dovrebbe essere chiaro a tutti che questo tipo di politica economica non funziona, non ha mai funzionato e non potrà mai funzionare. E, se non potrà mai funzionare in generale, meno che mai lo potrà in Italia, dove il comparto produttivo è costituito, in grandissima parte, da aziende che operano senza nessuna protezione di tipo statale o pubblico paragonabile a quella di cui possono avvalersi, per esempio nel settore alimentare, le imprese concorrenti francesi.

Una finanziaria diversa era possibile Vari economisti si sono esercitati nell’indicare come si sarebbe potuta scrivere questa finanziaria senza ulteriori aggravi fiscali sulle fasce produttive e anche sui consumatori. Hanno anche indicato come sarebbe stato possibile incidere sulla spesa pubblica senza operare la cosiddetta “macelleria sociale”. In particolare, Mario Baldassarri lo ha fatto riscrivendo di sana pianta una vera e propria finanziaria alternativa, pubblicata in un inserto del quotidiano «il Riformista»3; Alberto Quadrio Curzio lo ha fatto in un articolo pubblicato dal settimanale «Economy»4. Non è questa la sede per scendere in particolari di tipo tecnico, per i quali rimandiamo comunque ai due testi citati. L’unica cosa che ci interessa qui sottolineare è la fattibilità di una finanziaria alternativa: non è vero, quindi, che non si poteva fare altrimenti per contenere il disavanzo pubblico. Si è voluto fare così perché si è ritenuto che questa fosse la strada meno dannosa per la base elettorale del centrosinistra. Ma prima ancora, si è ritenuto opportuno agire così per la tenuta stessa del governo, dove il tema della ridistribuzione prevale sul tema della creazione delle risorse. È una prospettiva ovviamente legittima dal punto di vista politico, ma del tutto inadeguata alla struttura dell’economia italiana e, attuata in questo contesto, produce gli effetti descritti da Luca Ricolfi. Del resto basti pensare che l’Italia del rischio, quella descritta dallo stesso Ricolfi come un vaso di coccio, rappresenta ben i due terzi della

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Primo Piano

forza lavoro italiana. Solo un terzo di quella forza è l’Italia garantita, tutto il resto è contenuta nel vaso fragile descritto dal sociologo torinese. Ma questo vaso fragile è quello che ha meno rappresentanza e dunque meno potere. E dunque preoccupa meno il governo del professor Romano Prodi. Note e indicazioni bibliografiche 1 L. Ricolfi, Le tre società. È ancora possibile salvare l’unità dell’Italia?, Guerini e Associati, Milano 2007, pp. 8-

9. 2 Si veda http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/seminario_caserta/agenda_crescita.pdf. 3 M. Baldassari, Due finanziarie a confronto, «il Riformista», Collana Il Cannocchiale, 2006. 4 A. Quadrio Curzio, La finanziaria che avrei voluto, «Economy», 21/12/2006.

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L’agenda del governo e il problema del consenso di Antonio Polito

L’agenda del governo Prodi Avere un’agenda è già una grande conquista per un governo. Non tutti i governi hanno un’agenda. Né tutti i governi che ce l’hanno, o dichiarano di averla, sono capaci di farla vivere nel Paese e nel Parlamento, nell’attività legislativa e nell’opinione pubblica. La grande differenza tra i governi che galleggiano e i governi che agiscono è tutta nella capacità di affermare e perseguire un’agenda: un’idea del Paese che si vuole costruire e un sistema di politiche adeguate per concretizzarla. Il bipolarismo ha questo indiscutibile vantaggio: lasciando scegliere agli elettori il governo, gli garantisce anche una certa durata, nei migliori dei casi una durata pari a quella della legislatura, aiutandolo così nel difficile compito di avere e praticare un’agenda, su cui poi essere giudicato alla fine della legislatura. Il governo Prodi, nella sua lunga fase di gestazione e di rodaggio (ha appena raggiunto i nove mesi dal concepimento elettorale, avvenuto peraltro con difficoltà e per un margine minimo che non gli ha garantito nemmeno la breve luna di miele di solito concessa dall’elettorato ai governi) ha appunto tentato, con alterni risultati, di darsi un’agenda. Il programma ce l’aveva, ne aveva anzi troppo, a causa della necessità di mettere insieme così tanti partiti e così tante anime. Ma il programma non è l’agenda. L’agenda è l’elenco delle cose da fare per ottenere i risultati indicati nel programma, e il modo di spiegarle all’opinione pubblica in maniera tale da creare consenso per la sua azione. Si dice anche che un governo è efficace quando è in grado di imporre la sua agenda, di decidere cioè quali sono le priorità e di far discutere su di esse anche l’opposizione, costringendola a confrontarsi sul suo terreno. Da questo punto di vista, due tratti chiari sono emersi finora dall’agenda del governo Prodi. Il primo è il risanamento finanziario, correttamente indicato come conditio sine qua non per sostenere la ripresa e trasformarla in crescita duratura e stabile, curando così il grande male dell’Italia, Paese che da dieci anni non cresceva e che non sembrava nemmeno più in grado di intercettare i venti della ripresa mondiale ed europea. Il secondo elemento chiave dell’agenda del governo è la spinta alle liberalizzazioni dei mercati, e più in generale un’azione in difesa del consumatore che butti giù i prezzi dei servizi e apra spazi all’intrapresa economica e alla crescita dell’occupazione: tutto ciò che passa per pacchetto Bersani, integrato e stimolato dall’agenda Rutelli.

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ANTONIO POLITO È SENATORE DE «L’ULIVO».


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Il risanamento finanziario Il risanamento finanziario, con la massiccia manovra varata con la Finanziaria, è oggi un obiettivo possibile e a portata di mano. Si tratta di un fatto di notevole importanza, perché un Paese che continua a pagare settanta miliardi di euro di interessi all’anno per finanziare il suo gigantesco debito pubblico ha, rispetto agli altri competitori europei, la metà delle risorse da riservare all’ammodernamento dei propri sistemi pubblici, alla ricerca, alla scuola, a un moderno welfare. Fuor di dubbio, però, questa parte dell’agenda del governo non ha incontrato il favore dell’opinione pubblica. Non se ne è avvertito il contenuto orientato allo sviluppo, mentre se ne è sentito fino in fondo il tradizionale ricorso all’aumento della pressione fiscale, soprattutto da parte di un Paese in cui la pressione fiscale era già stata fortemente accresciuta dall’ultima Finanziaria del governo Berlusconi. In più, il governo ha posto un’enfasi eccessiva sul tema della giustizia sociale, lasciando credeSi potrebbe quasi re che la Finanziaria fosse in qualche modo l’occasione per affermare che riparare ai torti dell’era Berlusconi. Questo ha acceso una rincorsa di aspettative tra numerosissime categorie sociali, il centrodestra abbia ognuna delle quali si è poi sentita colpita quando non ha arato il terreno, avuto ciò a cui mirava e che si aspettava. Resta il riequilicon il suo proselitismo brio dei conti pubblici, risultato non da poco, e giustain favore delle libertà mente cercato con maggiore determinazione in un momento di maggiore crescita del Paese, che da una parte pare economiche aver agganciato la ripresa europea, in particolare tedesca, e dell’impresa, e che e dall’altra sembra mostrare i primi segni di un sistema il centrosinistra stia produttivo rinnovato, uscito finalmente dalla grande ristrutseminando quel campo. turazione e selezione provocata dall’euro, e oggi più in grado di reggere la competizione sui mercati internazionali.

Le liberalizzazioni Tutt’altra accoglienza ha avuto la seconda gamba dell’agenda del governo, quella dedicata alle liberalizzazioni. Nonostante la miriade di proteste di corporazioni e di categorie toccate dalle aperture dei mercati decise dal governo, è indubitabile che l’opinione pubblica abbia avvertito le liberalizzazioni come più coerenti con l’obiettivo dichiarato in campagna elettorale, quello di far tornare l’Italia a crescere, liberando le energie del suo sistema produttivo. Si tratta di una grande novità nello spirito pubblico del nostro Paese, un consenso che va sfruttato fino in fondo per realizzare le riforme necessarie, senza eccessive timidezze e paure. Non è infatti casuale che il governo di centrodestra, nei cinque anni prece-

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denti, non abbia neanche tentato un’operazione che pure dovrebbe essere nelle sue corde ideali e politiche. Evidentemente Berlusconi non se la è sentita di sfidare categorie e interessi costituiti, ritenendoli più forti di quanto in realtà non fossero e giudicando il consenso popolare più debole di quanto in realtà sia. Si potrebbe quasi affermare che il centrodestra abbia arato il terreno, con il suo proselitismo in favore delle libertà economiche e dell’impresa, e che il centrosinistra stia seminando quel campo, con un’inversione dei ruoli storici tra destra e sinistra che meriterà qualche riflessione più approfondita in futuro. Il problema del governo Prodi è ora di dare continuità, sostanza e credibilità a quell’agenda. È evidente, per esempio, che un programma di liberalizzazioni che riguardasse soltanto barbieri, tassisti e avvocati, alla lunga non darebbe i frutti sperati di crescita e di occupazione, anzi, creerebbe risentimenti e spaccature nella società. È insomma indispensabile procedere con decisione È fuor di dubbio che nel colpire interessi corporativi ben più il campo sul quale corposi, a partire dal mercato dell’enersi deciderà l’efficacia gia e delle banche, la cui liberalizzaziodell’agenda del governo ne potrebbe dare una spinta molto potente alla crescita, e dal mercato dei è quello della riforma servizi pubblici locali, sicuramente uno del welfare, innanzitutto dei settori maggiormente suscettibili di a partire dal sistema apertura a soggetti nuovi, non solo previdenziale. imprese private ma anche cooperative. Una riforma in questo settore, contenuta nel disegno di legge Lanzillotta ma ancora oggetto di trattative tra le varie componenti della coalizione, sarebbe tra l’altro uno strumento di potenziale moralizzazione di quello che viene chiamato il neosocialismo municipale, che ha prodotto la nascita di un numero abnorme di società miste, sulle quali troppo forte è la presa della politica, con costi troppo alti scaricati dalla politica sul sistema pubblico. Allo stesso tempo, l’attacco ai monopoli privati non può escludere un’opera di rinnovamento dei monopoli pubblici: sarebbe ben strano infatti, se il governo agisse nei confronti di mercati chiusi lasciando però intatto il mercato protetto in cui esso stesso è monopolista, quello della pubblica amministrazione. Ai fini della ripresa è indispensabile accrescere fortemente l’efficienza e la neutralità di questo servizio, fondamentale nelle società moderne, di fronte al quale il cittadino non ha la scelta del consumatore, che può cambiare negozio o operatore di telefonia se il servizio è troppo caro o poco efficiente, ma non ha neanche voce, perché il suo interesse non è rappresentato. Il memorandum per la pubblica amministrazione firmato tra governo e sindacati, pur ricco di buone intenzioni, andrebbe riempito di scelte e provvedimenti concreti sia per garantire un’effettiva mobilità del personale, sia per consentire al cittadino, magari attraverso un’authority ad hoc, un controllo sull’efficien-

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za del servizio, premiando il merito e punendo il demerito attraverso un sistema di incentivi salariali veramente differenziati, e non concessi a pioggia in ossequio a un egualitarismo sindacale di vecchio stampo. Ma è fuor di dubbio che il campo sul quale si deciderà l’efficacia dell’agenda del governo e la sua corrispondenza agli obiettivi di crescita indicati in campagna elettorale è quello della riforma del welfare, innanzitutto a partire dal sistema previdenziale. È noto a tutti lo squilibrio della nostra spesa sociale a vantaggio delle pensioni, con conseguenze negative per le tutele al reddito, la formazione professionale, gli ammortizzatori sociali, un welfare moderno per la persona, tutti elementi essenziali di una vera e moderna giustizia sociale, ma anche decisivi per sostenere le necessarie trasformazioni produttive cui l’Italia sta andando incontro. Troppo alle pensioni e troppo poco al welfare, questo è il nostro problema. Occorrerebbe che il governo indicasse con chiarezza lo scambio che propone, non presentando la riforma delle pensioni come un fattore puramente punitivo, seppur giustificato dal corretto obiettivo di adeguare l’età pensionabile all’effettivo e spettacolare aumento dell’aspettativa di vita della popolazione. Voglio dire che rimettere in equilibrio il sistema previdenziale, in modo che tra vent’anni i giovani di oggi possano ricevere una pensione decente senza pesare in maniera insopportabile sulla fiscalità generale, è anche il modo migliore per dislocare risorse, e grandi risorse, verso la riforma di un welfare oggi asfittico e sostanzialmente ingiusto. Più ai figli, se si dà meno ai padri: se un anno di età pensionabile in più per un sessantenne viene compensato da un anno di sostegno al reddito del figlio trentenne alle prese con la flessibilità e le turbolenze del mercato del lavoro, allora risulta evidente e conveniente lo scambio sociale e si può costruire consenso intorno a un’agenda di governo riformista.

Il consenso: ostacolo maggiore Il consenso: questo è oggi l’ostacolo maggiore alla realizzazione dell’agenda del governo Prodi. Innanzitutto consenso nella coalizione, nella quale godono di una forza e di una capacità di condizionamento abnorme, rispetto ad altre democrazie europee, partiti e movimenti di una sinistra conservatrice, ancora legati a un’idea antica di giustizia sociale, da misurare con la quantità di spesa pubblica, senza comprendere che la spesa pubblica allontana risorse dallo sviluppo, perché oltre un certo livello l’imposizione fiscale rischia di strangolare l’economia con effetti negativi per tutti, a partire proprio dai settori più deboli della società. Esistono poi problemi di consenso nel Paese, che di suo è molto atomizzato e spezzettato in categorie e interessi divergenti, molto poco incline a riconoscere il collante comune dell’interesse generale e fortemente sfiduciato circa la reale possibilità del cambiamento. Il tema di come costruire consenso intorno alle riforme è del resto cruciale in ogni Paese d’Europa. Alcuni anni fa il primo ministro lussemburghese, alla fine di un vertice

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europeo, ebbe a dire: «Tutti noi che siamo al governo nei Paesi europei sappiamo che cosa andrebbe fatto per far ripartire l’Europa; ciò che non sappiamo è come vincere le elezioni dopo averlo fatto». La più efficace dichiarazione di impotenza riformistica della classe politica continentale. Ma questo assioma non è più necessariamente vero nell’Europa di oggi. Innanzitutto perché almeno due primi ministri hanno rivinto le elezioni dopo aver avviato un programma di riforme radicali: Tony Blair e José Maria Aznar. In secondo luogo perché nella vecchia Europa sembra diffondersi una nuova consapevolezza e disponibilità dell’opinione pubblica verso le riforme, anche grazie ai benefici di crescita economica che ne derivano. In particolare la Germania, fino a ieri il grande malato d’Europa, sembra finalmente rispondere positivamente alle riforme introdotte nel mercato del lavoro dall’ultimo governo Schröeder e a quelle che la Grande coalizione diretta dalla Merkel sta introducendo. La locomotiva tedesca si è rimessa in moto, con effetti benefici anche per altri Paesi europei, Italia in primo luogo, ed è noto che è molto più facile fare le riforme in una fase di crescita che in una fase di stagnazione. Questa può essere la grande fortuna del governo Prodi. Se saprà sfruttarla per delineare e attuare un’agenda di governo coerentemente e coraggiosamente riformista, e non per galleggiare, allora questa legislatura potrebbe non risultare persa, come le due precedenti, ai fini del rinnovamento di un Paese che ne ha un bisogno disperato, se vuole reggere la nuova competizione globale, trovare un nuovo posto nel nuovo mondo, diventare più ricco e più giusto e riprendere a produrre futuro per i suoi giovani.

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Un errore non privatizzare di Oscar Giannino

Privatizzazioni a rischio Le parole pronunciate il 14 febbraio scorso a Montecitorio dal ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa sull’inopportunità per lo Stato di scendere sotto le attuali quote in Eni, Enel, Finmeccanica, rappresentano a tutti gli effetti una “svolta di pagina”, nonché un freno a mano tirato, meno esplicito ma altrettanto evidente, sull’alienazione ai privati delle società di reti pubbliche, fidando su una forte ed efficace “vigilanza regolatoria” per impedire appropriazioni improprie di rendite di monopolio. Per un bel po’ non si parlerà più di grandi privatizzazioni. Eccezion fatta per Alitalia, naturalmente, per la quale l’aggettivo “grande” appare però del tutto inadeguato, stante che di grande nel suo caso, anzi di grandissimo, c’è solo il fallimento storico dell’azionista pubblico. Se si effettua un calcolo attualizzato di quanto la compagnia è costata ai contribuenti dal 1986 a oggi, dacché cioè si sono quotati i suoi titoli ordinari, e si sommano tutte le perdite accumulate, i trasferimenti e i sussidi pubblici, gli aumenti di capitale al netto dei dividendi e i fondi di dotazione a carico dello Stato, e si parametra, inoltre, il ritorno sul capitale immobilizzato in vent’anni alla remunerazione che si sarebbe ottenuta investendo in semplici titoli del debito pubblico a breve termine, il capitale complessivamente andato in fumo supera la spaventosa somma di quindici miliardi di euro. E la compagnia nella sua performance e configurazione attuale vale in realtà pochissime centinaia di milioni di euro, non più di un terzo della sua capitalizzazione di Borsa, spinta irresponsabilmente in alto da mesi e mesi di dichiarazioni politiche, senza che la Consob abbia mai deciso di intervenire e, anzi, senza che neppure i candidati alla sua acquisizione sappiano ancora se nel bilancio 2006 Alitalia sia andata oltre i limiti dell’articolo 2446 del Codice civile. Il caso Alitalia dovrebbe dunque insegnare in maniera definitiva che la mano pubblica è una pessima proprietaria, che distorce i corretti funzionamenti del mercato e rende disponibili servizi a prezzi più alti per i consumatori, tutelando esclusivamente minoranze “forti” di rendita politica. Eppure, Padoa Schioppa ha annunciato che di grandi privatizzazioni per un bel po’ non si parlerà più, con la giustificazione che Francia e Germania non ci pensano nemmeno per le loro Edf e Deutsche Telekom, e dunque non si vede perché noi dovremmo fare i primi della classe. Rischia di essere un errore grave, anche se è difficile restare stupiti, viste

OSCAR GIANNINO È VICEDIRETTORE DI «FINANZA & MERCATI».

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le coordinate politico-ideologiche dell’attuale maggioranza, e considerando la sua mancanza di coesione interna rispetto al valore del mercato e alla cultura della concorrenza, due principi fortemente avversati da almeno metà dell’attuale Unione e da tutta la sinistra antagonista.

Rinunciare alle privatizzazioni è un errore Oggettivamente, non si tratta di una vera e propria promessa mancata, perché il Dpef presentato da Padoa Schioppa lo scorso luglio affermava testualmente che il nuovo governo, da poco entrato in carica, non poteva procedere a una quantificazione delle possibili privatizzazioni, «perché in assenza di operazioni pianificate dal precedente governo occorre prima procedere a una valutazione delle opzioni strategiche relative alle dismissioni del patrimonio residuo dello Stato». Evidentemente le parole di Padoa Schioppa del 14 febbraio costituiscono proprio quella «valutazione»: una valutazione negativa. L’ultimo Dpef del governo Berlusconi, che a dire il vero annunciava dismissioni, già a partire dal 2006, di ulteriori quote di Eni, Enel, Finmeccanica, Rai e Poste anche se non ne erano state poste le premesse - se non in parte per Rai -, è ufficialmente relegato dal governo Prodi a pura carta straccia. Eppure, nella scorsa legislatura si era provveduto, per la prima volta e attraverso un documento discusso in Parlamento, a una ricognizione attendibile delle attività dello Stato a prezzi di mercato, che stimava il valore residuo del patrimonio pubblico in un ammontare pari al 130-140% del Pil, rispetto a un debito che oggi è intorno al 107% del Pil, e che rappresenta la vera maledizione della finanza pubblica italiana, dopo il ritorno sotto controllo del deficit nel 2006. Per una parte considerevole di tale patrimonio veniva effettuata una valutazione cosiddetta “di medio periodo”, nella stima che essa potesse essere collocata sul mercato per un controvalore di almeno 400 miliardi di euro in meno di cinque anni. Si disegnava, cioè, in vista di ottenere avanzi primari nell’ordine del 5-6% del Pil per molti anni, un sentiero di riduzione, graduale ma sistematica, del debito pubblico italiano alternativo alla logica dell’aggravio fiscale di parte corrente, come invece si prefigge l’accoppiata Visco-Padoa Schioppa. Analoghe considerazioni si possono fare per le oltre 800 municipalizzate in forma di Spa, che accentrano in mano pubblica l’esercizio dei servizi locali. Il disegno di legge messo a punto dal ministro Linda Lanzillotta ha dovuto, a questo proposito, abbandonare “programmaticamente” ogni intento privatizzatore, concentrandosi sulla esclusiva affermazione del principio della messa a gara dei servizi; già così, esso risulta sottoposto a una dura messa in mora da parte della sinistra antagonista, che intende difendere il più possibile la facoltà della gestione in house, oltre all’affidamento “in economia” per i piccoli comuni. Dire no alle privatizzazioni guardando a una presunta “lezione europea”, a modesto avviso di chi scrive, che non nasconde la sua forte convinzione liberista, costituisce però un

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errore. Per almeno tre ordini di motivi: il primo è di finanza pubblica, il secondo è di recupero del gap internazionale accumulato in termini di produttività, il terzo è di cultura della regolazione. Vediamoli nell’ordine.

Perché è un errore Quanto alla finanza pubblica, è del tutto intuitivo che il riferimento a Germania e Francia è fuorviante. Entrambi i Paesi hanno un debito pubblico inferiore al nostro nell’ordine di cinquanta punti di Pil; di conseguenza, a tassi d’interesse comuni ma con lo spread aggiuntivo di una trentina di punti base dei titoli pubblici italiani rispetto al bund germanico, noi siamo gravati da un onere annuale di servizio del debito più che doppio rispetto a quei due Paesi. È una camicia di Nesso in più sulla crescita italiana, che Dire no alle si aggiunge a un tasso di interposizione pubblica sul Pil privatizzazioni guardando (la somma delle entrate tributarie e delle spese correnti rispetto al Pil) assolutamente spropositato, salito dall’88 a una presunta “lezione al 91% negli ultimi tre anni e che nel 2007 salirà ulteeuropea”, a modesto riormente di un altro punto almeno, stante la messe di avviso di chi scrive, entrate fiscali aggiuntive disposte nella recente legge che non nasconde finanziaria. la sua forte convinzione Come visto prima, possiamo contare su un ingente patrimonio pubblico dismissibile a prezzi di mercato per liberista, costituisce ridurre il debito pubblico, che oggi rappresenta il vero gap però un errore. residuo da colmare rispetto al Patto di stabilità europeo. Decidere di non praticare massicciamente tale strada significa abbracciare una volta per tutte la via di un fisco ancora più invasivo, come unica cura allo squilibrio del debito pubblico. Si sceglie cioè una strada recessiva e deflazionistica, al posto di una che consenta l’alleggerimento radicale del prelievo e che insieme moltiplichi le occasioni proprietarie e la nascita o il rafforzamento dei pochissimi attuali grandi gruppi privati italiani. Quanto al recupero del gap di produttività, nella letteratura economica internazionale è del tutto assodato che esso sia anche connesso all’attrattiva esercitata nei confronti degli investimenti diretti esteri; questi, nel continente europeo, vanno prioritariamente a Paesi a basso fisco e bassa ostilità giuridico-ambientale al fare impresa privata, come Regno Unito, Irlanda, Spagna e Paesi dell’Est europeo. I mercati mondiali sono da anni saturi di liquidità, troppo abbondante secondo molti critici delle banche centrali americana, cinese e giapponese, grazie alla quale si regge l’attuale locomotiva monetaria della crescita mondiale e il terribile deficit di parte corrente degli Usa. Tale liquidità cerca solo

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buone occasioni d’investimento, ma occorre saper garantire la cessione di attività con redditività apprezzabilmente certa nel tempo, secondo standard di mercato, insieme al rispetto delle clausole cessorie da parte dello Stato e a chiare norme regolatorie in merito alle authorities chiamate nei vari ordinamenti a vigilare su concorrenza e stabilità dei diversi segmenti del mercato privato.

La cultura della regolazione A questo punto il secondo aspetto si lega con il terzo ordine di ragioni per cui è un errore abbandonare la via delle privatizzazioni. In pochi mesi, sotto l’attuale governo sono stati dati segnali negativi ai mercati in ciascuno dei tre ambiti richiamati come È troppo chiedere necessari per attirare investimenti diretti esteri. La gara un dibattito adeguato, Alitalia, per esempio, è istruita secondo il modello del beauty contest invece che secondo uno dei tanti possibili intorno a tutti questi modelli a offerta rigorosamente quantificabile, secondo critemi, che non si risolva teri predeterminati in materia di garanzie finanziarie e di nell’inno delle garanzie piano industriale. Lo Stato si è riservato ogni facoltà di proche solo lo Stato porre variazioni delle condizioni in corso d’opera o addirittura di rinuncia all’esito stesso della gara: l’esatto opposto proprietario, secondo delle scelte nette che servono per attirare i grandi attori una certa cultura, internazionali. Quanto alla chiarezza e all’osservanza delle può offrire? clausole cessorie, il caso Autostrade-Abertis ha visto lo Stato rimangiarsi gli impegni di convenzione sottoscritti col concessionario, per di più tramite decreto legge e fuori da ogni logica di confronto col privato. Per quanto poi riguarda gli ambiti d’intervento delle Autorità di vigilanza e regolazione, ancora il caso Anas ha confermato come lo Stato continui a vedersi nella tripla veste di concedente, concessionario e vigilante: si tratta invece di ritirarsi nel solo primo ambito, lasciando ai privati il secondo, e il terzo ad Autorità indipendenti dalla politica e dai governi. Non è affatto vero che per finanziare le opere infrastrutturali italiane serva solo il capitale pubblico raccolto attraverso la leva fiscale corrente, messaggio passato con la riduzione a un terzo delle opere della Legge obiettivo, giustificandola con l’incapienza della finanza pubblica. Non risponde neppure a verità che servano finanziatori “centauro”, come il Fondo infrastrutture italiane (F2i), realizzato sommando Cassa depositi e prestiti (Cdp), fondazioni creditizie e banche. Se non è vero quel che noi liberisti abbiamo obiettato, e cioè che in questo modo lo Stato tramite Cdp si riserva di indicare le opere su cui investire e gli asset da mettere in sicurezza di aziende sia pubbliche che private, e se è vero che tutto ciò che F2i farà avverrà a tassi e regole di mercato, tanto valeva allora affidarsi al capitale privato mon-

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diale offrendo condizioni certe. Altrimenti, significa solo che tramite F2i si dà a fondazioni e banche la garanzia di poter investire in asset senza dover mettere in conto l’opposizione della politica, ma questo significa, appunto, distorcere le regole del mercato. Infine, non è affatto vero che la proprietà pubblica o semipubblica, tramite Cdp o assimilate e consorziate come F2i, serva a preservare l’italianità di asset sensibili rispetto alla sicurezza nazionale, come reti energetiche o di tlc. La golden share, opportunamente rivista e dimagrita dall’Unione Europea, consente esplicitamente allo Stato azioni di riserva straordinarie, laddove i proprietari privati assumessero decisioni straordinarie di cessione o di esercizio delle proprie attività in violazione della sicurezza nazionale. Anche in questo caso, chiamate a vigilare e intervenire sono unicamente le Autorità di settore, quelle stesse Autorità alla cui credibilità sono stati inferti recentemente colpi assai seri. Gli interventi governativi che hanno abbassato i costi telefonici di ricarica, o annullato l’onere di estinzione del mutuo o disposto la sua portabilità, sono esempi clamorosi di arbitraria invasione di campo nelle competenze di Agcom, Antitrust e Bankitalia, quand’anche i fini fossero quelli, commendevoli, di abbassare i relativi oneri per il consumatore. È troppo chiedere un dibattito adeguato, intorno a tutti questi temi, che non si risolva nell’inno delle garanzie che solo lo Stato proprietario, secondo una certa cultura, può offrire? E che apra gli occhi, invece, su quella enorme liquidità che, sui mercati mondali, chiede solo ottime occasioni d’investimento, a condizione che i contratti siglati si rispettino e non si straccino per decreto? Sono questi gli interrogativi che restano irrisolti, dopo le parole di Padoa Schioppa che, di dibattito, non ne hanno alimentato alcuno.

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TopFoto/Archivi Alinari

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I nodi italiani

ALCUNI ANNI FA, UN POLITICO STRANIERO AFFERMÒ CHE, COME IL CALABRONE NON POTREBBE VOLARE SECONDO LE LEGGI DELL’AERODINAMICA, COSÌ L’ITALIA NON POTREBBE SOPRAVVIVERE SECONDO LE LEGGI DELL’ECONOMIA. QUESTA PARADOSSALE CONSTATAZIONE HA UN FONDO DI VERITÀ, CHE TRADURREMMO IN UN’ALTRA IMMAGINE: QUELLA DI UN GIGANTE IMPRIGIONATO DA UNA RETE DI NODI. UNA RAGNATELA CHE LO COSTRINGE AD ANDARE A RILENTO, A STRAPPI, A DOVER SPESSO RICORRERE ALL’INTERVENTO DI QUALCUNO CHE, DALL’ESTERNO, TIRI UN CAPO E SCIOLGA UN NODO. QUI DI SEGUITO VENGONO DISCUSSI ALCUNI DI QUESTI NODI SENZA LA PRETESA DI ESSERE ESAURIENTI, MA CERCANDO DI TOCCARE DIVERSE AREE COMUNQUE IMPORTANTI PER IL FUTURO DEL PAESE. SI TRATTA DI PROBLEMI DI CUI DEVE OCCUPARSI, PER COMPITO ISTITUZIONALE, LA CLASSE POLITICA NEI SUOI VARI LIVELLI, IN PARTICOLARE CHI È PRO TEMPORE AL GOVERNO. UNA SERIE DI INTERVENTI, PERCIÒ, CHE POTREBBERO CONFIGURARSI COME UN’AGENDA DI CIÒ CHE SI DOVREBBE FARE PER L’ITALIA CUI SI POTREBBE AGGIUNGERE, NATURALMENTE, MOLTO ALTRO. TUTTAVIA, QUESTO COMPITO NON È SOLO DELLA CLASSE POLITICA, È DI OGNI SINGOLA PERSONA, IN QUANTO CITTADINO, E DI OGNI COMUNITÀ, IN QUANTO LIBERA AGGREGAZIONE DI PERSONE. IN MODO PIÙ O MENO DIRETTO, PIÙ O MENO IMMEDIATO, CIASCUNO DI QUESTI NODI PUÒ ESSERE AFFRONTATO ISPIRANDOSI AL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ, PRINCIPIO NON ASTRATTO BENSÌ MOLTO CONCRETO, SULLA CUI APPLICAZIONE OCCORRE ANCORA EFFETTUARE UN LAVORO DI APPROFONDIMENTO TEORICO E PRATICO. QUINDI, TUTTI PER UNO, MA ANCHE UNO PER TUTTI, EVITANDO SIA CHE QUALCUNO SCIOLGA SOLO I NODI PIÙ VICINI E CHE RIGUARDANO SOLO LUI, COSTITUENDOSI PROPRIE PRIVATE RENDITE, MA ANCHE CHE ISTITUZIONI SOFFOCANTI SI APPROPRINO DELLO SFORZO DI TUTTI PER FINI ALTRETTANTO PRIVATI, ANCORCHÈ PASSATI PER PUBBLICI.


Il modello istituzionale americano a confronto con quello europeo di Carlo Pelanda

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Perché guardare al modello americano?

A cosa può servire una comparazione tra modello istituzionale statunitense e italiano, per altro simile a quelli di Francia e Germania? Chi scrive la vorrebbe utilizzare per capire se e dove esista la possibilità di rendere compatibili i modelli americano ed europeo-continentale, allo scopo di una loro integrazione, in particolare sul piano economico. Non è uno scenario irrealistico, anche in considerazione della proposta avanzata da Angela Merkel nel gennaio 2007, in veste di Presidente di turno dell’Unione Europea, di costruire un mercato unico euroamericano sul piano finanziario, dotato di regole conseguenti. C’è però anche un altro interesse, più strettamente italiano: la Costituzione elaborata nel 1947 ha disegnato un sistema istituzionale “orizzontale” con la priorità di impedire l’esercizio del governo da parte di una sola forza vincitrice delle elezioni. A quei tempi democristiani e comunisti temevano che la vittoria dell’avversario li lasciasse totalmente emarginati, e per questo accettarono un compromesso che impediva a una parte di “pigliare tutto”. Ciò creò un sistema istituzionale senza facoltà di governo “verticale”, e oggi le riforme non si riescono a fare anche per mancanza di potere da parte dell’esecutivo, con grande danno per la nazione, che non riesce ad adeguarsi alla realtà che cambia. Ma c’è di più. La Costituzione italiana e la legislazione di ordinamento/modello da essa dipendente ha altri difetti: ammette autonomie locali, ma senza responsabilità fiscale, il che è un controsenso e una fonte di disordine; fornisce uno status istituzionale ai sindacati e alle corporazioni di interessi inserendo un terzo elemento di disturbo nella relazione democraticamente pura tra elettorato e potere di governo. In sintesi, prima o poi l’Italia dovrà affrontare più seriamente di quanto abbia fatto finora il problema di aggiustare il proprio modello istituzionale in relazione ai criteri di governabilità e buon funzionamento della democrazia. Non sarà presto, ma alla fine dovrà accadere, anche perché la cessione di sovranità all’Unione Europea implica, per non dire “impone”, un rafforzamento dei poteri esecutivi allo scopo sia di garantire al sistema sovrastante che la nazione rispetti i requisiti imposti dall’esterno, sia l’uso migliore degli spazi residui di sovra-

CARLO PELANDA È PROFESSORE DI POLITICA ED ECONOMIA INTERNAZIONALE ALLA UNIVERSITY OF

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GEORGIA.


Il modello istituzionale americano a confronto con quello europeo di Carlo Pelanda

nità per difendere l’interesse nazionale. Ciò comporta lo studio di modelli politico-istituzionali dove sia possibile un esercizio più fluido del potere esecutivo pur nel suo bilanciamento da parte di quello legislativo. In tale ottica, il modello americano appare uno dei migliori al mondo, il che suggerisce di valutarne l’applicabilità o meno nell’ambiente europeo continentale.

Il modello economico statunitense Negli Stati Uniti, lo Stato fornisce garanzie economiche prevalentemente in modo indiretto: il mercato è lasciato il più libero possibile affinché possa produrre più opportunità di lavoro. La garanzia indiretta, semplificando, è la seguente: io Stato mi impegno a regolare il mercato, la moneta e la politica interna ed estera, in modo tale che il mercato produca una domanda continua di lavoro pari all’offerta. In tal senso la garanzia di base è: se perdi il lavoro questo modello ti assicura che ne troverai presto un altro; a tale scopo rendo Negli Stati Uniti, massimi i controlli che assicurino la libera lo Stato fornisce concorrenza e l’efficienza complessiva del sistema, e minime le tutele del posto di garanzie economiche lavoro specifico. Caro cittadino, più sei prevalentemente in modo licenziabile e meglio sarai riassumibile. indiretto: il mercato Tale impostazione spiega anche è lasciato il più libero perché la Banca centrale statunitense abbia la missione non solo di difendere il possibile affinché valore della moneta, ma anche la responpossa produrre più sabilità di stimolare la crescita economiopportunità di lavoro. ca. In sintesi, il governo della moneta può assumersi un rischio, pur limitato, sul lato dell’inflazione, perché ritenuto meno dannoso del rischio di deflazione. Tale cultura di politica monetaria è correlata a un modello politico-istituzionale che concepisce la garanzia economica come tutela della costante vitalità del mercato, come “opportunità”. Dagli anni Sessanta in poi (amministrazione Johnson) anche negli Stati Uniti si sono sviluppate istituzioni di stato sociale che hanno definito aree di assistenzialismo selettivo: sussidi di disoccupazione, buoni alimentari gratuiti per i bisognosi, etc., ma il modello americano è rimasto sostanzialmente basato sul principio della “garanzia indiretta”. Va detto che l’ambiente culturale statunitense è stato forgiato dalla cultura del pionierismo e dalla variante del cristianesimo che impone il massimo di responsabilità privata per le cose che nella vita succedono alle persone. È una cultura della libertà e dell’attivismo, insofferente verso la mano pubblica considerata, più che inefficiente, immorale e inutilmente intrusiva.

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Il modello istituzionale americano a confronto con quello europeo di Carlo Pelanda

Negli anni Venti un movimento socialista cercò di diventare offerta politica di massa, ma non ci riuscì proprio per il fondamento libertario della cultura condivisa dalla popolazione statunitense.

Il modello economico europeo Alla fine del 1800 gli stati nazionali europei avevano instaurato con i loro cittadini un “contratto sociale di impero”: io Stato ti fornisco istruzione e lavoro, perché mi serve un’industria degli armamenti avanzata e un esercito che sappia leggere gli ordini per scopi di impero. Tale formula istituzionale, lo stato “bismarckiano”, forniva garanzie dirette. Lo Stato inoltre interveniva direttamente nell’economia e l’industrializzazione era trainata da una forma di impresa strettamente intrecciata con la politica imperiale. Il nazismo e il fascismo esasperarono, successivamente, questi Gli Stati nell’eurozona modelli rendendo totale, e non solo totaliforniscono un massimo tario, l’intreccio tra Stato e mercato. Dopo il secondo conflitto mondiale Germania e di garanzie dirette Italia non cambiarono modello, ma genefinanziate da tasse rarono uno statalismo post-totalitario che elevate e un minimo di si incrociò con l’emergente concetto di garanzie indirette in welfare state, mentre la Francia mantenne lo statalismo imperiale. Per inciso, la forma di opportunità Spagna, impero già in crisi dal 1700, non di mercato. strutturò in forma forte lo statalismo e nel 1975 la giovane democrazia ispanica ereditò uno Stato leggero e con poco debito pubblico. In sintesi, correnti bismarckiane, fasciste, socialiste e solidaristiche si incrociarono generando il modello di stato sociale europeo-continentale basato sul seguente principio di inversione dei ruoli: lo Stato fornisce ricchezza, il mercato garanzie, erogate direttamente o in forma di assegno assistenziale o di mercato protetto. Oggi infatti si può osservare che gli Stati nell’eurozona forniscono un massimo di garanzie dirette finanziate da tasse elevate e un minimo di garanzie indirette in forma di opportunità di mercato. La disoccupazione resta elevata per mancanza, appunto, di opportunità, ma i licenziamenti sono meno frequenti e i periodi senza lavoro salariati; per questo il mercato europeo ha una minore crescita economica di quello statunitense. È interessante notare come la missione della Banca centrale europea non contempli la stimolazione della crescita economica, ma solo quella di difesa dall’inflazione. In parte ciò è dovuto alla cultura tedesca di finanza pubblica segnata dalla crisi inflazionistica degli anni Venti e dall’ossessione di evitare l’inflazione, ma anche a una cultura di politica economica

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in cui le istituzioni non si pongono il problema della crescita del mercato, che non è considerata come “garanzia pilastro” del sistema in quanto lo è, appunto, quella diretta. È una cultura della “stabilità” contrapposta a quella americana della “fiducia”: per ottenere la stabilità posso anche sacrificare la crescita, mentre per ottenere la fiducia non posso mai farlo, ovviamente entro limiti dettati dall’inflazione. Tuttavia nella cultura della fiducia lo Stato impone un massimo di efficienza concorrenziale, proprio per aumentare lo spazio di crescita economica non inflazionistica, mentre nella cultura della stabilità l’enfasi su tale obiettivo è minore e c’è una maggiore tolleranza per il consociativismo e per il mercato protetto non concorrenziale. Ovviamente nessuno ha disegnato intenzionalmente il sistema della fiducia e quello della stabilità, si tratta di conseguenze di fatti storici, a cui le istituzioni e gli istituti si sono adattati. La prassi però deve sempre rivestirsi di teoria, e quella americana si basa sul paradigma del “mercatismo”, mentre quella europeo-continentale sullo statalismo. Tutto ciò per dire che le pratiche sono diventate dottrine politiche e ciò rende più difficile la loro flessibilizzazione. Sarà possibile renderle compatibili? Difficile, troppo diverse. Ma c’è una tendenza interessante. Il modello americano produce molto stress competitivo sui cittadini e sta aumentando la domanda di protezioni e di investimenti pubblici maggiori per aumentare il valore di mercato degli individui. Il modello europeo è fallimentare sul piano dell’economia tecnica e sta fallendo in termini di debito, scarsa crescita e alta disoccupazione. Anche se l’opinione pubblica non lo richiede, e anzi vuole mantenere il protezionismo statalista, i tecnici non potranno far altro che rendere più simile a quello americano il modello europeo, per non farlo saltare insieme con l’euro, il collante politico dell’Unione Europea. È dunque ipotizzabile pensare che alla fine vi sarà una convergenza di lungo periodo tra i due modelli, che nel medio periodo non hanno però compatibilità sufficienti per essere messi a

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contatto senza provocare grossi problemi di rigetto reciproci. L’eventuale convergenza euroamericana va quindi cercata selezionando le aree di minor impatto sociale, tra cui l’integrazione delle regole finanziarie e contabili e quindi dell’ambiente in cui operano imprese e banche. Basterebbe creare un ciclo integrato di euro e dollaro per sposare i due continenti, lasciando il resto dell’integrazione a uno sviluppo più lento. Sul piano tecnico il fatto che l’Europa continentale operi con il diritto romano e l’America con la Common Law non pare un ostacolo, in quanto è possibile generare uno schema di traduzione tra i due sistemi, come già avviene in molte operazioni di contrattualistica privata.

Dal pollaio all’aquila La cultura politica italiana rifugge il comando verticale, l’aquila, per i motivi detti sopra, ma anche per l’esperienza negativa dell’autoritarismo fascista. Comprensibile. Ma a sessant’anni dalla fine del conflitto mondiale ciò non appare un motivo adeguato per perpetuare l’inefficienza e l’inefficacia delle istituzioni disegnate con criterio orizzontale (il pollaio). Ma quale modello verticale proporre? Quello francese è un compromesso tra l’esigenza di una potenza nucleare di poter far premere a una sola persona legittima il bottone e il mantenimento del modello parlamentarista europeo; non sembra particolarmente risolutivo e inoltre il bilanciamento del potere esecutivo da parte di quello legislativo appare zoppicante. Il modello di governo tedesco è definibile come un parlamentarismo con qualche verticalizzazione, ma con un eccesso di orizzontalità come quello italiano. Quello inglese è molto elegante e amabile per ritualità, ma non fornisce all’esecutivo una forza particolare. Il modello americano, invece, sembra ben adatto alle decisioni verticali, ma senza perdite di bilanciamento. L’esperienza L’esecutivo viene eletto direttamente, ed è statunitense mostra ben separato dal potere legislativo. Il secondo può annullare il primo, eccetto come istituzioni che nei casi di emergenza e di guerra. Il disegnate per competere primo può annullare il secondo con dei l’una con l’altra tendano veti, ma non può proporre legislazioni con a produrre buongoverno metodo autocratico. Il tutto appare ben e non assenza bilanciato ed efficiente. Chi rifiuta di applicarlo in Italia dello stesso. teme che esso rappresenti sia la fine dei partiti, tagliati fuori dall’elezione diretta del Presidente, sia il blocco delle istituzioni, in caso di orientamenti diversi tra Parlamento ed esecutivo. Proprio l’esperienza statunitense mostra però che i partiti vengono rafforzati, anche

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se sono costretti ad aggregarsi in due poli, e che mai si è notato un blocco del governo per motivi di conflitto intraistituzionale. Anzi, l’esperienza statunitense mostra come istituzioni disegnate per competere l’una con l’altra tendano a produrre buongoverno e non assenza dello stesso. Tale apprezzabile risultato dipende molto dalla qualità “in basso” della democrazia americana, e dal fatto che la stampa sia veramente libera e non asservita a una parte o all’altra. In altre parole, è difficile dire se il modello americano possa essere esportato fuori dalla specificità statunitense. Il federalismo americano, che bilancia bene prerogative locali e federali e rispettivi regimi fiscali, non è applicabile in Italia, a causa dell’asimmetria tra le nostre Regioni, alcune delle quali hanno possibilità di godere di una certa autonomia, altre no; per noi andrebbe meglio un modello di autonomismo asimmetrico come quello in vigore in Spagna. In conclusione, la sensazione è che dovremmo studiare molto di più le istituzioni americane per trovare ispirazione al miglioramento delle nostre, ma non pare possibile l’importazione del modello statunitense a casa nostra, costruita da una storia che ha usato diversi mattoni, più fragili. Dovremo inventarci un’aquila tutta italiana, buon lavoro cari costituzionalisti.

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La concorrenza, principio fondamentale dell’Unione Europea La concorrenza assume, com’è noto, valore fondante della costituzione economica europea. Essa infatti in un primo momento ha costituito uno degli strumenti necessari per l’integrazione dei mercati nazionali e, dunque, per la realizzazione del mercato unico, per divenire successivamente il principio generale, cui devono conformarsi le politiche economiche degli stati membri e della Comunità. L’allargamento dell’Unione Europea a sua volta richiede un rafforzamento dei principi di unità del mercato e di divieto di discriminazione, per abbattere le barriere statali (causa di frammentazione del mercato) e denazionalizzare l’economia. Questa impostazione dei rapporti tra poteri pubblici e mercati ha avuto, e continua ad avere, importanti riflessi sugli ordinamenti nazionali, che devono adottare strumenti di disciplina dell’economia compatibili con un regime di mercato aperto e concorrenziale, e garantire il libero esercizio dell’attività d’impresa. Se si ricostituiscono barriere statali e rendite di posizione di imprese pubbliche nazionali, e si impedisce o si limita la libertà di svolgere nel rispetto della concorrenza attività di impresa (acquisizioni, fusioni, etc.) nei diversi mercati nazionali, viene meno lo scopo principale dell’Unione Europea. La crisi economica che ha attraversato l’Europa negli ultimi anni conferma che di concorrenza c’è oltremodo bisogno. Il ridimensionamento della crescita, anche dietro la pressione competitiva delle economie emergenti, ha evidenziato i vincoli e le barriere strutturali, normative e tecniche che ancora sussistono tra i mercati nazionali. Se si vuole incentivare l’economia europea e, con essa, quella italiana, a percorrere rapidamente la fase di ripresa, occorre studiare questi vincoli e cercare di rimuoverli o quantomeno di ridurne gli effetti deleteri. In questo contesto, il settore dei servizi in generale, e al suo interno il comparto dei servizi pubblici, riveste un’importanza cruciale data l’incidenza in termini percentuali sui costi di produzione per tutti gli altri mercati. Esso contribuisce per oltre il 65% e il 68% rispettivamente al Pil e all’occupazione dell’area euro, anche se le quote sono inferiori a quelle riferite alla media dei Paesi Ocse: ciò significa che vi sono ampi margini di sviluppo potenzial-

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ANTONIO CATRICALÀ È PRESIDENTE DELL’AUTORITÀ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO.


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mente sfruttabili. Anche con riferimento alla crescita della produttività nel settore dei servizi, l’Europa è indietro rispetto agli altri Paesi industrializzati. Del resto, si registra un’alta dispersione nel livello dei prezzi dei servizi tra i Paesi europei, a indicare che l’auspicata convergenza verso le best practices adottate dagli operatori più efficienti è ancora lontana, e che il settore nel complesso risulta molto protetto; infine, l’inflazione nel settore dei servizi è più elevata in Europa rispetto agli Usa, soprattutto dove la regolamentazione è più stringente1. Nell’ambito dei servizi in generale, due settori, tra gli altri, risultano particolarmente indicativi del rapporto tra sistema economico italiano e processo di integrazione europea: quello energetico e quello bancario.

Il settore energetico Per quanto riguarda i settori energetici, i mercati nazionali sono ancora ben lungi da un’integrazione reale e da un accettabile livello di interconnessione, che permettano di parlare di mercati energetici europei e, soprattutto, di acquistare i servizi energetici dalle imprese effettivamente più competitive ed efficienti. In questo come negli altri settori le questioni, sia di politica industriale vera e propria, sia di liberalizzazione, dovrebbero essere sollecitate e coordinate da una “regia comunitaria”. Sotto un profilo strettamente concorrenziale, infatti, il potere monopolistico esistente a monte della filiera e tendenzialmente in capo a stati e imprese extraeuropei può essere controbilanciato soltanto con la creazione di un vero e proprio grande mercato europeo dell’energia completamente integrato. Dopo una fase di incertezza e di scarsa incisività delle istituzioni europee (che aveva portato a tentativi di neoprotezionismo, come nel caso della fusione tra Endesa e Gas Natural o della fusione tra Gaz de France e Suez), con il Libro Verde della Commissione dell’8 marzo 20062 e, più di recente, con il documento strategico sull’energia presentato dalla Commissione il 10 gennaio 20073, sembra finalmente avviata la strada di una politica energetica comune. In questa prospettiva, un Paese come l’Italia, rimasto “a metà del guado”, si trova in una situazione pericolosa nella quale non si riescono a ottenere i benefici del sistema concorrenziale, ancora troppo debole, mentre si profila all’orizzonte l’instaurazione di oligopoli collusivi tra gli ex monopolisti nazionali ancora forti e i nuovi entrati. Di qui, la necessità improrogabile di accelerare e completare il processo di liberalizzazione nel nostro Paese, in modo da giungere alla realizzazione di un mercato realmente concorrenziale. Proprio in questi settori si è tra l’altro concentrata l’azione dell’Autorità garante, con interventi nei confronti degli ex monopolisti Eni ed Enel, finalizzati a comporre una struttura almeno preconcorrenziale del mercato, con l’imposizione agli incumbents di comportamenti idonei a superare in prospettiva i vincoli di rete con effetti benefici per i consumatori. Ma vincoli infrastrutturali gravano altresì sulle reti di trasporto: nel settore persistono ambiti estesi di inefficienza delle imprese (ex) pubbliche e di concorrenza limitata, a partire dal sistema di affidamento in concessione. Anche su questi vincoli occorre intervenire per rimuoverli.

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Il sistema finanziario e creditizio Per quanto concerne poi il sistema finanziario e creditizio, la concorrenza bancaria incide innanzitutto sulla competitività delle imprese e sulle attese dei consumatori per il costo dell’intermediazione bancaria e per la qualità dei servizi offerti. Da più parti si segnalano rigidità e ritardi del settore, che si traducono spesso in comportamenti omogenei degli operatori anche quando una loro diversificazione sarebbe possibile e anzi costituirebbe una leva concorrenziale. Nel Rapporto finale sul mercato bancario presentato dalla Commissione europea il 31 gennaio 2007 si evidenzia come i mercati siano «frammentati, divisi da fattori quali barriere competitive e regolamentari, differenze legali e culturali», con persistenti carenze strutturali nelle carte e nei sistemi di pagamento, oltre che nei prodotti bancari al dettaglio. È per questo che l’industria bancaria retail genera 250-275 miliardi di euro all’anno di utile, pari al 2% del Pil dell’Ue (decisamente troppo). Il Rapporto evidenzia rischi di collusione e di pratiche anticompetitive e la mancanza di concorrenza transfrontaliera. Ma ancora un volta proprio in Italia, e in Lussemburgo, sono stati individuati i costi più elevati per la clientela, rispettivamente per mantenere e chiudere un conto corrente. D’altra parte, questa situazione trova conferma nella recente Indagine conoscitiva4 svolta dall’Autorità garante, dove si riscontra un’enorme variabilità potenziale dei prezzi da una banca all’altra e una spesa media di conto corrente molto al di sopra del resto d’Europa. Più in generale, nel settore finanziario e creditizio si evidenziano conflitti di interesse che frenano innanzitutto la sua crescita e, quindi, lo sviluppo dell’intero sistema economico. Il riferimento è alle partecipazioni incrociate fra banche e assicurazioni, che rendono estremamente complesso valutare le reali dinamiche competitive. Le partecipazioni incrociate costituiscono infatti per le imprese un incentivo a coordinare e concordare le proprie condotte di mercato, incentivo che diventa tanto più forte quanto maggiore è la sostituibilità per i consumatori dei servizi offerti da banche, imprese di assicurazione e società di gestione del risparmio. Tale sostituibilità dipende anche, per certi aspetti, dalle informazioni possedute dai consumatori, elemento questo che evidenzia un ulteriore potenziale attrito fra banca, altri intermediari finanziari e cliente. Le origini del conflitto si ritrovano, ancora una volta, nell’asimmetria informativa che caratterizza tale rapporto. L’inadeguata disponibilità di informazioni chiare e semplici relative al rischio, al rendimento e al costo del prodotto/servizio sono tra le maggiori cause di una limitata concorrenza fra le imprese, dovuta, in ultima analisi, all’impossibilità per i consumatori di effettuare un reale confronto fra i vari prodotti offerti. La scarsa trasparenza e la complessità caratterizzano i rapporti contrattuali sia nel momento in cui il consumatore sceglie la forma di investimento, sia nel corso di svolgimento del rapporto. Questa situazione determina una maggiore debolezza del processo competitivo nel nostro settore bancario rispetto agli altri Paesi e l’assenza di incentivi allo sviluppo di un reale gioco concorrenziale. Di qui la necessità di interventi volti, da un lato, a vigilare e impedire

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possibili distorsioni della concorrenza derivanti dai processi di concentrazione in corso all’interno del comparto, e, dall’altro, a garantire una reale trasparenza per consentire ai consumatori le scelte migliori, insieme all’eliminazione di tutti gli ostacoli alla mobilità da una banca all’altra. Banche più aperte alla concorrenza rappresentano infatti la condizione imprescindibile per aumentare la competitività, nel contesto europeo e internazionale, del nostro sistema finanziario, che deve crescere in termini di prodotti, operatori, dimensioni.

La riforma della regolazione Dinnanzi al processo di integrazione europea e alla sua evoluzione, in termini di allargamento e di rafforzamento, il nostro Paese non può dunque che sostenere e sviluppare la concorrenza, intesa come valore, bene giuridico, processo dinamico di crescita dell’economia e dell’occupazione, motore di sviluppo della produttività, e in definitiva del benessere per l’intera collettività. Se la promozione della concorrenza costituisce una delle leve fondamentali della politica economica di un Paese, si giustificano misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di funzionamento ottimale del mercato e a instaurare assetti di pri-

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vilegio per i consumatori. Se l’obiettivo generale è quello di rafforzare la competitività economica del nostro Paese, occorre compiere passi decisi sia verso una seria riforma della regolazione che verso una rigorosa applicazione della legislazione antitrust (enforcement). La riforma della regolazione è necessaria per rimuovere a tutti i livelli di governo i vincoli normativi e amministrativi che ancora circondano, spesso in un recinto protezionista, interi settori dell’economia, dal credito alle assicurazioni, alle libere professioni, dal trasporto alla grande distribuzione, frenando lo sviluppo e la competitività del Paese. La riforma ovviamente non deve essere intesa come una liberalizzazione sfrenata, ma come un’attenta modulazione della disciplina delle attività, che valuti accuratamente gli impatti sul mercato che da essa possono derivare e la sua effettiva rispondenza a esigenze di interesse generale. In questo, l’Autorità ha svolto e continuerà a svolgere nei confronti delle istituzioni un ruolo di impulso e di promozione della concorrenza, soprattutto attraverso l’attività di segnalazione. I recenti provvedimenti sulle liberalizzazioni, che fanno seguito a quelli varati nello scorso anno, vanno in questa direzione. Si tratta di primi passi molto importanti, ai quali dovranno seguirne altri, soprattutto nei settori delle reti energetiche, laddove una maggiore concorrenza dovrebbe consentire di ridurre gli elevati costi di approvvigionamento che gravano pesantemente sulla competitività del sistema Paese. In conclusione, è necessario proseguire il cammino. In primo luogo, è compito del policy maker nazionale e soprattutto europeo (esemplare la vicenda della Direttiva servizi5, ritagliata e modificata in più parti, estendendo le deroghe e le esenzioni, fino a snaturarla nella versione approvata) aprire, se è il caso forzosamente, i mercati, anche associando alla liberalizzazione serie politiche di privatizzazione, così da prevenire chiusure oligopolistiche. In secondo luogo, è necessario l’impegno di tutti i soggetti che, sia a livello centrale sia a livello locale, sono chiamati a regolare tali settori, e che in alcuni casi sono contemporaneamente soggetti storicamente dominanti su tali mercati (basti pensare al fenomeno della gestione in house dei servizi pubblici locali). Infine, il processo di liberalizzazione deve essere sostenuto da un’efficace politica antitrust non solo nazionale, ma anche e soprattutto europea. Per essere efficace la politica antitrust deve a sua volta orientarsi sull’analisi della sostanza degli equilibri economici, così da garantire la cura tempestiva ed efficace dell’interesse pubblico al corretto funzionamento dei mercati; deve essere in grado di affrontare, secondo un approccio dinamico, il rapporto tra mercato, concorrenza e distribuzione del reddito, e adottare un orientamento che consideri in primis gli effetti sui consumatori. Questi ultimi, e specialmente gli utenti dei servizi pubblici, devono poter godere in tempi brevi dei benefici della concorrenza in termini di prezzi più bassi e di una maggiore varietà e qualità dei servizi stessi. In tal senso, l’attività di enforcement è più efficace e penetrante grazie ai nuovi strumenti affidati all’Autorità garante, che può contare sul potere cautelare, sul potere di chiudere il procedimento senza accertare l’infrazione (in presenza di impegni delle parti idonei a rimuovere i problemi concorrenziali), e sulla possibilità di usare programmi di clemenza per indurre l’emersione e la cessazione dei cartelli segreti, che rappresentano le pratiche più dan-

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nose per il benessere generale. Questi nuovi strumenti possono infatti incentivare le imprese a collaborare in modo da ricostituire il corretto gioco competitivo, a tutto beneficio dei consumatori. Avere chiaro l’insieme di questi problemi - strutturali, normativi, amministrativi - può aiutare a individuare soluzioni concrete per rilanciare la nostra economia, e per liberare risorse da riutilizzare proficuamente per sviluppare settori strategici quali l’innovazione, la ricerca, il sistema della formazione, nei settori più avanzati e nelle fasi della filiera legate alla progettazione, al design, all’invenzione industriale. In un quadro di obiettivi condivisi, la concorrenza non può che avere un ruolo di leva fondamentale dello sviluppo, che accomuni e avvicini pubblico e privato, orientando e guidando, oggi più di ieri, l’azione dei diversi soggetti e le politiche pubbliche. Note e indicazioni bibliografiche 1 Diversi recenti lavori Ocse hanno analizzato al riguardo gli effetti di una stringente regolazione nel settore dei servizi

sulle dinamiche macroeconomiche, con riferimento a quattro aree cruciali: occupazione, produttività, investimenti e innovazione. Cfr. G. Nicoletti, S. Scarpetta, Product Market Reforms and Employment in Oecd Countries, Ocse, «Economics Department Working Papers» n. 472, 2005; P. Conway, D. De Rosa, G. Nicoletti, F. Steiner, Regulation, Competition and Productivity Convergence, Ocse, «Economics Department Working Papers» n. 509, 2006. 2 Libro Verde della Commissione dell’8 marzo 2006, Una strategia europea per un’energia sostenibile, competitiva e

sicura, COM (2006) 105 def. 3 Una politica energetica per l’Europa: la Commissione intensifica la sua azione a fronte delle sfide energetiche del 21°

secolo, MEMO/07/7, del 10/01/2007. 4 IC32, Indagine conoscitiva riguardante i prezzi alla clientela dei servizi bancari, 5 febbraio 2007. 5 Direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12/12/2006 «relativa ai servizi del mercato inter-

no».

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Le riforme dell’amministrazione pubblica negli anni Novanta

Che cosa non ha funzionato nelle riforme degli anni Novanta della nostra amministrazione pubblica, promosse dai ministri dell’epoca Sabino Cassese e Franco Bassanini? Quando, nel 1993, si è esteso quasi interamente il diritto del lavoro privato al rapporto di impiego pubblico, l’idea da cui muoveva il legislatore era che il netto divario di efficienza tra i due settori fosse dovuto, per un verso a un difetto di distinzione e separazione tra responsabilità di indirizzo politico e responsabilità di gestione, e per l’altro a una disciplina che configurava il rapporto di impiego come rapporto autoritativo, di natura pubblicistica, sottoposto a controlli ex ante di legittimità formale degli atti, i quali prevalevano nettamente sui controlli di produttività ex post. Si è dunque definita meglio la distinzione tra indirizzo politico e responsabilità di gestione e si è sancita la natura contrattuale del rapporto, attivando l’autonomia negoziale delle parti sul piano collettivo come su quello individuale, attribuendo così maggiori poteri e discrezionalità alla dirigenza pubblica e alla coalizione sindacale. Si è sancita esplicitamente la responsabilità dei dirigenti per il raggiungimento degli obiettivi fissati dal potere politico, e si è affidato a quest’ultimo il compito di controllare che tali obiettivi venissero effettivamente conseguiti. La disciplina del rapporto di lavoro pubblico è stata così quasi del tutto parificata rispetto a quella vigente nelle aziende private. Non si è, però, tenuto adeguatamente conto del fatto che nel settore pubblico manca per lo più la “molla” potentissima che muove il dirigente privato, vale a dire la concorrenza tra operatori diversi, che consente la dura sanzione del mercato contro l’inefficienza: una “molla” che il potere politico, per sua natura, non è capace di sostituire con l’esercizio di un controllo rigoroso e imparziale. Nel mercato l’utente/cliente/consumatore sanziona l’inefficienza rivolgendosi altrove: egli esercita così quella che Albert O. Hirschman1 chiama l’opzione exit. Alternativa a questa è la possibilità di farsi sentire, denunciare le inefficienze, interloquire nelle scelte: l’opzione voice, che nel paradigma hirschmaniano può essere favorita dall’attaccamento all’istituzione/organizzazione - loyalty - e può consentire a quest’ultima di individuare più rapidamente ed efficacemente i difetti di funzionamento. Il problema fondamentale della nostra amministrazione pubblica sta nel fatto che non si concede al cittadino nessuna delle due opzioni: né

PIETRO ICHINO È ORDINARIO DI DIRITTO DEL LAVORO ALL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO E

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DIRETTORE DEL MASTER EUROPEO IN SCIENZE DEL LAVORO DELLA STESSA UNIVERSITÀ.


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exit, né voice. La voice contro l’inefficienza dovrebbe essere esercitata dalla cittadinanza attraverso i propri rappresentanti politici, che purtroppo però tendono a interferire con l’amministrazione per fini del tutto diversi da quelli del miglioramento della sua efficienza. Non ci si può dunque stupire che ne risulti un gravissimo difetto di stimoli al miglioramento dell’efficienza dell’amministrazione stessa. Si sono dati al management pubblico gli stessi poteri e la stessa discrezionalità di cui dispone il management delle imprese private, ma in un contesto in cui - nella maggior parte dei casi - il cattivo o mancato esercizio degli stessi non è sanzionato né dal mercato, né dal controllo del cittadino-utente, strutturalmente mal rappresentato in questa funzione dal potere politico.

L’opzione exit, libertà di scelta e concorrenza Quando la libertà di scelta dell’utente sia effettiva, siano cioè garantite concorrenza aperta tra operatori e simmetria di informazione, l’opzione exit costituisce una grande garanzia di equità e di benessere per l’utente medesimo. Dovunque sia possibile offrire al cittadino questa opzione, in un settore dei servizi pubblici, e collegare a essa il flusso delle risorse, si può attivare uno stimolo assai efficace nei confronti della dirigenza di quel settore (anche se - avverte ancora Hirschman - questo sistema può presentare il difetto di privare il management della denuncia tempestiva del difetto di funzionamento da parte dell’utente, per il quale l’opzione exit può essere sovente più comoda e vantaggiosa rispetto all’opzione voice; tutto ciò può portare al collasso e alla sostituzione della struttura inefficiente, invece che al suo risanamento: torneremo sul punto fra breve). Una libertà di scelta effettiva oggi è offerta all’utente, in qualche misura, nel settore dell’istruzione e in quello della sanità; ma potrebbe essere offerta anche altrove, e in modo assai più esteso e incisivo. Se, per esempio, il finanziamento pubblico delle scuole e delle università avvenisse interamente attraverso il sistema dei vouchers (previa abolizione del valore legale dei titoli di studio), gli istituti e gli atenei dove si scelgono male i professori, o comunque dove si insegna poco e Una libertà di scelta male, sarebbero costretti a chiudere; e se, effettiva oggi è offerta nell’istituire tale sistema, si attribuisse ai all’utente, in qualche rettori e ai presidi una piena discrezionamisura, nel settore lità nella selezione e nella gestione delle risorse, allora li vedremmo assai più e dell’istruzione e in quello meglio mobilitati di quanto non siano oggi della sanità; ma potrebbe per scegliere i professori migliori, e per essere offerta anche stanare quelli inerti dalle loro nicchie; li altrove, e in modo assai vedremmo attivarsi dove possibile per sanpiù esteso e incisivo. zionare gli assenteisti e allontanare gli

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incompetenti, per spostare le persone di cui dispongono dove sono più utili e non dove fa loro più comodo. Nel rapporto tra amministrazione pubblica e cittadini si possono introdurre anche altri meccanismi di mercato che diano agli utenti, almeno in parte, un’opzione exit: per esempio, si possono mettere gli sportelli che offrono uno stesso servizio (anagrafe comunale, rinnovo della patente di guida, rinnovo del passaporto, etc.) in concorrenza tra loro, attribuendo un premio agli addetti allo sportello che riesce ad attirare più utenti o a dimostrarsi comunque più efficiente; qualche cosa di questo genere è previsto nella recentissima legge regionale lombarda sui servizi al mercato del lavoro (n. 22/2006, particolarmente articoli 16-17), emanata con un voto sostanzialmente bipartisan nel settembre scorso.

Opzione voice: trasparenza e accesso ai dati della P.A. In molti settori dell’amministrazione pubblica, però, i meccanismi lato sensu “di mercato” del tipo di quelli menzionati nel paragrafo precedente non si possono introdurre. Per esempio, se un corpo municipale di vigili urbani funziona male, non è possibile consentire ai cittadini di avvalersi di un altro corpo di vigilanza concorrente, né premiare con un maggiore flusso di risorse un servizio alternativo. Si è anche visto, d’altra parte, come possa persino sostenersi, almeno in certi casi, la preferibilità dei meccanismi di voice rispetto ai meccanismi di exit, per la più rapida individuazione dei difetti di funzionamento di un’amministrazione e la prevenzione del suo deterioramento e del suo collasso. Dare voce al cittadino-utente presuppone, innanzitutto, che egli sia compiutamente informato; questo richiede che le amministrazioni stesse siano dotate di organi deputati a raccogliere ed elaborare tutti i dati rilevanti, a valutarli, e a farlo sia nella piena indipendenza dal management che deve esserne valutato, sia in modo trasparente, consentendo la piena accessibilità dei dati a chiunque vi sia interessato. Il panorama internazionale ci offre su questo terreno molte esperienze di grande interesse: per esempio nel settore scolastico, in quello della formazione professionale, in quello dei servizi nel mercato del lavoro, dove da decenni ormai vengono sperimentati e affinati metodi e tecniche di rilevazione degli indici di efficienza ed efficacia dei servizi, ovviamente diversi da settore a settore. Un aspetto molto interessante di queste esperienze è la combinazione tra autovalutazione dell’amministrazione, che si esprime solitamente nella pubblicazione di un annual report, e confronto con la valutazione dall’esterno, espressa spontaneamente dalla cittadinanza attraverso i propri osservatori qualificati, secondo il metodo della public review. Le associazioni degli utenti, i giornalisti specializzati e i centri di ricerca, quando dispongono dei dati necessari, si sono dimostrati capaci di controllare l’efficienza e produttività delle strutture pubbliche talora persino meglio delle strutture stesse. Questa capacità costituisce una risorsa preziosa, un grande “tesoro nascosto” che può essere attivato e utilizzato dalle amministrazioni pubbliche a costo zero: basta imporre il principio della totale

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accessibilità dei dati. L’introduzione di questo principio può avere un impatto positivo persino superiore rispetto all’istituzione degli organi interni di valutazione, che pure sono indispensabili. Di questa pratica del civic auditing non abbiamo soltanto alcuni esempi importanti nei Paesi del Nord Europa, ma anche qualche primo esempio in casa nostra: si pensi, in particolare, all’esperienza che stanno svolgendo associazioni come Cittadinanzattiva e alcune altre nel settore sanitario. Proprio alla valorizzazione di questo “tesoro nascosto” mira la legge emanata recentemente negli Stati Uniti, il Federal Funding Accountability and Transparency Act 2006, che obbliga chiunque operi con finanziamenti federali a porre in rete, a piena e immediata disposizione del pubblico, tutti i dati relativi alla propria attività. Introdurre questo principio anche nel nostro sistema potrebbe avere un effetto tonificante straordinario. Immaginiamo, per esempio, che in una grande città - come Milano o Napoli - venga garantita la totale disponibilità, per chiunque vi sia interessato, dei dati analitici sul funzionamento del servizio di vigilanza urbana: le retribuzioni degli agenti, gli orari di lavoro, le mansioni effettive, le assenze e i motivi che le giustificano, quanti vigili si occupano del commercio, quanti del traffico, quante contravvenzioni ciascuno di questi ultimi ha verbalizzato, quante e quali sanzioni disciplinari sono state irrogate, per quali mancanze, e così via. Immaginiamo poi che, applicandosi il metodo della public review, una volta all’anno l’or-

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gano di controllo comunale sia tenuto a confrontare in un dibattito pubblico le proprie valutazioni con quelle espresse dalla società civile, attraverso gli osservatori qualificati di cui si è detto sopra. Solo allora si incomincerebbe a scoprire e a misurare con precisione, per esempio, di quanto l’impegno di alcuni vigili sia maggiore di quello di altri, di quanto il tasso di assenteismo e quello di vigili imboscati negli uffici sia superiore a quelli che si registrano nelle altre città europee, se e quanto le promozioni siano in rapporto con il merito effettivo, quanto più raro sia vedere un vigile in un quartiere periferico della città rispetto al centro, quanto sia difficile ottenere l’intervento di un vigile in piena notte, quanto e quando sia esercitato effettivamente il potere disciplinare, quale sia il tasso di soddisfazione della cittadinanza per il servizio e tanti altri dati importanti. A quel punto anche gli obiettivi di miglioramento del servizio, invece che essere negoziati tra potere politico e management nel chiuso di un ufficio, potrebbero essere discussi pubblicamente e decisi dall’autorità politica sotto il controllo Un’Autorità indipendente effettivo della cittadinanza. può diventare il punto Oggi i nostri ricercatori possono accedere a tutti i dati di riferimento per una relativi alle amministrazioni della California o della Svezia, ma non a quelli relativi alle amministrazioni italiane, che si società civile, cui tratti della vigilanza urbana o della giustizia, di personale si chiede di attivarsi sanitario o docente. Da noi vige di fatto il principio esattanell’opera di valutazione mente contrario a quello della trasparenza; la prassi (giuridiparallela e concorrente camente infondata) è quella del segreto. Questo viene sovente giustificato con la protezione della privacy degli addetti al con quella di servizio, ma il principio della privacy - cioè della protezione autovalutazione svolta della vita privata delle persone - qui non c’entra per nulla: il dalle singole riserbo con cui si occultano i dati analitici sul funzionamenamministrazioni. to delle nostre amministrazioni risponde semmai all’antico principio di inaccessibilità degli arcana imperii, che da sempre protegge i poteri autoritari, i sovrani assoluti. Oggi da noi esso protegge le posizioni di rendita diffusamente annidate nelle pieghe del pubblico impiego, a cominciare da quelle dei dirigenti negligenti o inetti. In un regime veramente democratico, invece, dell’attività del civil servant, soprattutto dove non operino meccanismi di mercato, deve potersi conoscere tutto.

Una Autorità indipendente per il pubblico impiego Attivare la capacità di autovalutazione da parte delle amministrazioni pubbliche, garantire la trasparenza di tale valutazione e stimolare il pieno coinvolgimento della cittadinanza nel controllo sono i cardini del progetto di legge per l’istituzione di una Autorità

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indipendente per il pubblico impiego, che è stato presentato nel dicembre scorso alla Camera e al Senato da parlamentari di maggioranza e di opposizione2. L’istituenda Autorità indipendente, secondo questo progetto, deve essere molto snella e poco costosa per lo Stato (essendo costituita quasi interamente con risorse provenienti da altri organismi centrali che vengono contestualmente sciolti): i compiti che il progetto si propone di assegnarle non sono, infatti, di valutazione diretta, dall’alto o dall’esterno, bensì compiti - per così dire - di secondo grado o di “metavalutazione”. In particolare, le si chiede di: - sollecitare e controllare la costituzione, in ogni comparto amministrativo e in ogni centro di servizi, dei nuclei di valutazione già previsti dalla legge Bassanini n. 286/1999 (nella maggior parte dei casi a tutt’oggi disapplicata per questo aspetto): questo per stimolare la capacità di autovalutazione delle amministrazioni e non, di regola, per sovrapporre una valutazione esterna a quella che ciascuna amministrazione è in grado di produrre sulla propria performance; - garantire l’indipendenza dei nuclei di valutazione dal management che deve esserne controllato (è questo un aspetto che nella legge del 1999 è stato trascurato); - garantire la trasparenza dell’operato dei nuclei di valutazione e l’accessibilità totale dei dati di cui essi dispongono, anche prima che vengano elaborati (garanzia nella quale rientra anche l’arbitrato tra il cittadino che chiede i dati e l’ufficio che oppone il segreto, o fa difficoltà, o li fornisce in modo reticente); -garantire il confronto pubblico periodico tra valutazione interna e valutazioni esterne, secondo il metodo della public review; - diffondere benchmark, tecniche, esperienze straniere e nuove metodologie di valutazione; - solo in via sussidiaria ed eccezionale, intervenire con la propria valutazione in sovrapposizione rispetto al nucleo di valutazione interno carente o inefficiente, o a sostegno dello stesso, per rafforzare le misure tese a correggere la disfunzione amministrativa. Un’Autorità indipendente può diventare il punto di riferimento per una società civile, cui si chiede di attivarsi nell’opera di valutazione parallela e concorrente con quella di autovalutazione svolta dalle singole amministrazioni. Concorrenza assai utile, perché è importantissimo che intelligenze, tecniche e ottiche differenti di valutazione si attivino e si confrontino apertamente su questo terreno. Dovunque non sia possibile attivare meccanismi di mercato nell’amministrazione pubblica - e con essi garantire agli utenti l’opzione exit contro l’amministrazione inefficiente - è essenziale che sia garantita agli utenti stessi, alla cittadinanza, almeno l’opzione voice. E come è ragionevolmente necessario che un’Autorità indipendente presieda alla garanzia dell’opzione exit, là dove il mercato può effettivamente operare allo stesso modo e altrettanto è ragionevolmente necessario che un’Autorità indipendente presieda alla garanzia della trasparenza e dell’opzione voice, dove il mercato non può operare o dove si preferisce comunque che esso non operi.

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Il sindacato e l’iniziativa politica A questo progetto di riforma qualcuno obietta che nulla sarà possibile, per un miglioramento dell’efficienza delle nostre amministrazioni pubbliche, finché i sindacati del settore manterranno una posizione di sostanziale resistenza conservatrice. Anche su questo terreno vi è tuttavia qualche motivo per essere ottimisti. Il memorandum sottoscritto dal Governo con le confederazioni sindacali maggiori il 18 gennaio scorso contiene alcune novità rilevanti, che non vanno sottovalutate: vi compaiono, per la prima volta in un documento di questo genere e livello, parole-chiave come «valutazione dell’efficienza», «controllo della produttività individuale», «trasparenza», «piena accessibilità delle informazioni» per gli osservatori esterni. Certo, una lettura attenta ne rivela alcuni difetti, anche gravi; ma questo non toglie il significato di svolta che, almeno sul piano dei principi, questo accordo assume. Ora tocca al Parlamento dire la sua. Nella parte migliore del memorandum sono enunciati principi identici rispetto al progetto di legge che è all’esame delle Camere; la differenza Occorre ora far leva sulla sta nelle “gambe” di cui questo progetto di legge intende crescente insofferenza, dotare quei principi per consentire loro di camminare, cioè negli strumenti di controllo e valutazione che ci si propone di ben percepibile attivare, in aggiunta (non in contrapposizione) a quelli previsti all’interno delle nel documento sottoscritto da Governo e sindacati. Il datore di amministrazioni lavoro pubblico deve essere libero di dotarsi di questi strupubbliche, di chi tira menti; sarebbe comunque inammissibile che il sindacato prela carretta lavorando tendesse di impedirglielo, sostenendo che il memorandum esaurisca ogni possibilità di iniziativa ulteriore: questa non è per due. una materia sulla quale il potere legislativo possa essere limitato, né tanto meno vincolato, da un accordo sindacale. Il sindacato, d’altra parte, non può permettersi l’immobilismo. Nel 1980 un evento che solo due o tre anni prima sarebbe stato considerato impossibile, la marcia dei 40.000 di Torino, segnò una svolta drastica rispetto agli eccessi di egualitarismo delle politiche retributive perseguite dai sindacati maggiori nel settore privato, nel corso del decennio precedente. Non è dunque impensabile che un’iniziativa politica incisiva, oggi, segni un’analoga drastica svolta rispetto all’evidentissimo eccesso di egualitarismo proprio dell’attuale regime dell’impiego pubblico, che è persino più spinto rispetto a quello che dominò nel settore privato negli anni Settanta. Occorre ora far leva sulla crescente insofferenza, ben percepibile all’interno delle amministrazioni pubbliche, di chi tira la carretta lavorando per due, nei confronti di questa grave doppia ingiustizia: essere pagato (poco) esattamente come chi non lavora affatto, e al tempo stesso essere accomunato al nullafacente nel discredito generale che investe l’impiego pubblico. Far leva su questa sacrosanta insofferenza è possibile proprio attivando i mec-

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canismi di autovalutazione delle strutture e di civic auditing, di cui si è detto sopra. Un sindacato che ignorasse questo diffuso disagio sarebbe destinato a un declino forse lento, ma sicuramente accompagnato dal progressivo abbandono dei lavoratori pubblici migliori. Ma il movimento sindacale italiano dispone oggi delle risorse culturali e morali necessarie per evitare questo esito; il sindacato può, anche nel settore pubblico, recuperare la funzione di “intelligenza collettiva” che consente ai lavoratori di valutare la bontà di un progetto e investire su di esso il proprio consenso e il proprio lavoro. Note e indicazioni bibliografiche 1 A. O. Hirschman, Exit, Voice and Loyalty. Responses to Decline in Firms, Organizations and States, Harvard University

Press, Cambridge, Mass., 1970. 2 Il documento è consultabile sul sito www.lavoce.info

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I

Il dibattito sui servizi di pubblica utilità

I servizi di pubblica utilità svolgono una funzione insostituibile per le persone, le famiglie e le imprese1. Nell’economia italiana, inoltre, le imprese che offrono servizi idrici, energia elettrica, telecomunicazioni, gas, trasporto pubblico e gestione dei rifiuti rappresentano un settore importante, con un valore aggiunto superiore a quello del settore bancario e pari a circa un quarto di quello dei settori manifatturieri. Per migliorare la diffusione e la qualità dei servizi di pubblica utilità, l’Italia e altri Paesi europei hanno avviato, a partire dalla prima metà degli anni Novanta importanti riforme, basate sull’apertura alla concorrenza di numerosi mercati e sull’istituzione di autorità indipendenti di regolazione. Al tempo stesso alcune imprese statali e comunali sono state privatizzate, almeno parzialmente. Il processo di riforma tuttavia non ha avuto fino a oggi gli esiti sperati. Soprattutto per alcuni servizi e in alcune zone del Paese, la qualità e la stessa diffusione dei servizi sono lontani dall’essere soddisfacenti, mentre l’efficienza produttiva resta modesta, con implicazioni negative in termini di prezzi (tariffe) o di ricorso ai sussidi pubblici. Due sono gli atteggiamenti prevalenti nel dibattito pubblico in Italia. Da una parte, emerge una nostalgia più o meno esplicita per la tradizionale gestione dei servizi in monopolio da parte dello Stato o degli enti locali; come esempi si possono citare le recenti proposte di ripubblicizzazione delle reti nei settori delle telecomunicazioni e l’opposizione a ogni forma di confronto concorrenziale per i servizi idrici. Appare difficile condividere tale posizione: in primo luogo, la natura pubblica del servizio non richiede necessariamente la proprietà pubblica; anche nelle infrastrutture e nelle utilities, come in altri servizi pubblici, la sussidiarietà orizzontale può dare un contributo unico; in secondo luogo, la presenza dello Stato nelle utilities - nonostante alcuni meriti storici - non è un dato strutturale, originario del settore; in terzo luogo, molti ritardi e inefficienze trovano origine proprio in un’organizzazione che vedeva lo Stato o gli enti locali nel ruolo di produttori e gestori. I tentativi di riforma - si pensi alla

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PAOLA GARRONE È DOCENTE DI ECONOMIA E ORGANIZZAZIONE AZIENDALE AL POLITECNICO DI MILANO.


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privatizzazione senza sostanziali garanzie di concorrenza - hanno introdotto problemi specifici a cui occorre porre rimedio, ma l’ampliamento dello spazio riservato al settore pubblico non appare certo una soluzione. Infine, se c’è una responsabilità chiara per lo stato di impasse in cui il settore si trova, va attribuita proprio alla resistenza al cambiamento da parte dei soggetti a cui l’attuale organizzazione del settore assicura una rendita. D’altra parte, vi è chi propone una più decisa promozione e tutela della concorrenza e il rafforzamento delle autorità di regolazione e della loro indipendenza. La posizione riformista appare condivisibile proprio per le critiche appena svolte nei confronti della posizione conservatrice, ma in un’ottica di piena e genuina liberalizzazione chiede di essere declinata in termini di libertà di scelta, libertà di iniziativa, possibilità per gli utenti di esercitare la titolarità.

Libertà di scelta Occorre innanzitutto creare le condizioni per una reale Occorre che siano libertà di scelta. L’utente è il miglior giudice dei prezzi e della contrastate con qualità dei servizi, e la possibilità di scelta dell’utente stimo2 la le imprese a dare il meglio . decisione le strategie La scelta del fornitore è possibile nei mercati finali anticoncorrenziali aperti alla concorrenza: commodity energetiche (grazie alla degli ex monopolisti, separazione dalle reti) e telecomunicazioni (anche nelle reti e che vengano favoriti soprattutto grazie alla varietà di tecnologie). Mancano tuttavia gli investimenti alcuni ingredienti per una vera liberalizzazione: in primo luogo, gli utenti devono potere valutare come sono serviti; i nelle centrali e nelle reti. regolatori oggi sono troppo poco attivi nella raccolta, elaborazione e diffusione delle informazioni sul livello di servizio offerto dai diversi fornitori e negli esercizi di comparazione tra imprese impegnate nello stesso servizio. In secondo luogo, gli effetti della libertà di scelta traslano troppo poco ai mercati intermedi (per esempio, nella produzione dell’energia elettrica o nell’approvvigionamento del gas naturale); occorre che siano contrastate con decisione le strategie anticoncorrenziali degli ex monopolisti, e che vengano favoriti gli investimenti nelle centrali e nelle reti, anche attraverso una politica lungimirante nei confronti delle opposizioni locali. Dove la presenza di più operatori non è possibile, gli enti pubblici (tipicamente locali) possono mettere a confronto più fornitori e scegliere di affidare le attività di gestione operativa al migliore candidato attraverso un contratto di servizio limitato nel tempo, con forme diverse per i diversi servizi. Tuttavia, gli enti affidanti devono potere svolgere un vero confronto concorrenziale e gli utenti devono essere messi in grado di giudicare chi sceglie per loro. Anche a questo fine, appare indispensabile che il regolatore sviluppi un’intensa attività di benchmarking.

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Libertà di iniziativa e titolarità delle reti: apertura al non profit A fianco della libertà di scelta da parte degli utenti, un secondo ingrediente fondamentale è la libertà di investimento. Senza dubbio, non ci devono essere preclusioni nei confronti degli investitori privati; in molti casi essi hanno dimostrato di essere buoni fornitori di servizi pubblici. Va tuttavia riconosciuto un problema specifico dei servizi di pubblica utilità: come già detto, in molte attività è possibile un confronto concorrenziale, ma chi assume le decisioni relative agli investimenti nelle reti e nelle altre infrastrutture opera in regime di monopolio, e non può essere facilmente sostituito in caso di condotte insoddisfacenti. Nello stesso tempo, in questa area la regolazione non può sostituire gli effetti di un genuino confronto concorrenziale; occorre tenere in conto i limiti del rapporto tra regolatori e monopolisti, soprattutto con riferimento ai grandi investimenti3. In assenza di concorrenza, le imprese private, nello sforzo di ridurre i costi e stanti i limiti della regolazione, possono degradare la qualità del servizio o sotto-investire senza conseguenze4. In questo ambito le motivazioni dei soggetti incaricati di decidere gli investimenti nelle reti diventano centrali, anche se va detto che la proprietà pubblica delle reti non è necessariamente l’unica o la migliore soluzione. I limiti della gestione diretta dei monopoli da parte dello Stato sono ben visibili in molte parti del settore italiano di pubblica utilità, oltre che sintetizzati da un ampio corpo di studi5. Limiti dell’impresa statale, limiti del regolatore, limiti degli investitori privati: un utile premessa nell’affronto di questo problema è il riconoscimento che anche nelle pubbliche utilità è possibile e benefica la presenza di diverse forme di impresa. In Europa i privati e le imprese municipali sono stati attori centrali dello sviluppo del settore, non solo nelle fasi pionieristiche; la nazionalizzazione dei servizi di pubblica utilità avviene con forza solo nei decenni centrali del Novecento6. Negli Stati Uniti, dall’origine i privati sono presenti in misura rilevante in molte reti, e lo Stato federale e i singoli stati sono presenti in misura marginale; le autorità municipali dominano i servizi idrici e il trasporto pubblico locale, mentre le cooperative di utenti gestiscono le reti elettriche e telefoniche nelle aree rurali. In sintesi: appare poco desiderabile l’omologazione delle forme di impresa. Occorre a questo punto fare un ulteriore passaggio e riconoscere che le imprese di matrice non profit sono una costante dell’evoluzione del settore; proprio perché consentono la presenza degli utenti nella governance, la missione specifica di servizio e il reinvestimento degli utili, esse aiutano a risolvere le decisioni relative agli investimenti a favore degli utenti.

Esperienze non profit nei servizi di pubblica utilità L’apertura alle non profit appare ben motivata dall’osservazione che le utilities non profit operano bene. La discussione dei principali aspetti economici, organizzativi e gestionali

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delle non profit che svolgono attività di pubblica utilità viene rimandata a ulteriori sviluppi del lavoro, oltre che alla letteratura dedicata al tema7. Nella categoria non profit possono rientrare forme societarie diverse, tutte accomunate dalla destinazione del patrimonio a uno specifico servizio e da forme di rappresentanza degli utenti: le imprese non profit private, le cooperative di utenti, alcune versioni dell’impresa municipale8. L’esperienza forse più interessante proviene dalla Gran Bretagna, Paese di avanguardia nella strada delle riforme, nel settore idrico e in quello ferroviario, industrie nelle quali era minore la soddisfazione per l’esperienza della privatizzazione. Altri esempi sono le cooperative di utenti statunitensi, danesi e australiane, e le non profit private nelle reti elettriche di trasmissione negli Stati Uniti e nei servizi idrici ed elettrici dei Paesi in corso di industrializzazione; le stesse autorità municipali Usa sono caratterizzabili come non profit pubbliche. Un caso che illustra molto bene le potenzialità delle non profit è un’esperienza del settore idrico, l’acquisizione dell’operatore gallese privato Welsh Water da parte di una non profit costituita per tale fine. Il settore dei servizi idrici del Regno Unito è stato privatizzato a partire dal 1989. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, alcuni operatori hanno manifestato in maniera crescente problemi reddituali, finanziari e di livello di servizio. Nel 2001 un gruppo di manager, esperti del settore e amministratori pubblici ha elaborato un piano per costituire una non profit privata, Glas Cymru, che acquisisse gli asset di Welsh Water, un’im-

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presa che offriva il servizio a circa tre milioni di cittadini gallesi, per 2700 milioni di euro. L’obiettivo dichiarato è quello di offrire il servizio idrico ai «cittadini del Galles alla miglior qualità e al minor prezzo possibili». La forma societaria è la company limited by guarantee (una forma speciale di società a responsabilità limitata); l’operazione è stata finanziata con l’emissione di obbligazioni (capitale di debito). Il governo dell’impresa, stante l’assenza di azionisti, è assicurato dai soci e dai loro rappresentanti in un consiglio detto Board of Trustees. I soci sono scelti dal presidente in base alle proposte di un comitato indipendente nel mondo delle professioni, dell’amministrazione, dell’associazionismo locale e ambientale, del settore idrico, e non hanno interessi finanziari nell’impresa; essi scelgono i Trustees attraverso regole definite nel memorandum di associazione. La struttura finanziaria è dominata dal capitale di debito, nella forma di obbligazioni a scadenza medio-lunga (3800 milioni di euro), scambiate sui mercati finanziari e valutate da parte di analisti finanziari; tuttavia va notato che gli utili reinvestiti hanno costituito nel tempo una riserva di capitale proprio. Le prestazioni sono lusinghiere, soprattutto in termini di qualità del servizio; prima della trasformazione, Welsh Water era nelle ultime posizioni del benchmarking diffuso dal regolatore, mentre negli ultimi cinque anni è diventata leader del settore. L’impresa sostiene investimenti materiali annui nell’ordine dei 400 milioni di euro e offre un “dividendo” ai clienti, nella forma di uno sconto pari a circa diciotto milioni di euro all’anno. L’efficienza è paragonabile a quella di altre imprese del settore, anche se presenta margini di miglioramento. Una caratteristica qualificante è l’intenso ricorso a fornitori privati eccellenti nelle diverse attività operative, attraverso gare molto competitive; ciò ha permesso fra l’altro di ridurre il servizio del debito.

Conclusioni Significative esperienze internazionali mostrano che utenti, comunità locali e associazioni possono svolgere un ruolo unico nel governo degli investimenti di estensione e modernizzazione delle reti attraverso diverse forme di imprese non profit. La libertà degli utenti richiede che sia sostenuta la possibilità di scegliere l’uno o l’altro fornitore, ma non si limita a questo; la stessa libertà di iniziativa non si riduce alla possibilità per gli investitori for profit di entrare in attività prima riservate allo Stato. In altri termini, il ricorso alla proprietà pubblica delle reti o la regolazione degli investitori privati non sono l’unica possibilità di servire l’interesse pubblico. Proprio i Paesi che hanno la migliore esperienza di regolazione delle utilities private hanno dato spazio anche a soggetti non profit; si noti che ciò non significa impedire altre forme di proprietà delle reti e tanto meno escludere le imprese private dalle attività operative e dai mercati concorrenziali. Occorre verificare quali modalità possano permettere anche all’Italia di sperimentare la presenza delle imprese non profit nella proprietà delle infrastrutture; a una prima esplorazione,

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le fondazioni appaiono un istituto coerente con la partecipazione al governo degli investimenti, di utenti, comunità locali e associazioni con una gestione improntata all’efficienza e con la destinazione delle risorse a uno specifico scopo di servizio. Note e indicazioni bibliografiche 1 Nei Paesi dell’Unione Europea, tali servizi sono definiti «di interesse economico generale», ovvero attività economiche

soggette a obblighi di servizio pubblico (Commissione europea, 2004, Libro bianco sui servizi di interesse generale, COM (2004) 374 def.) 2 I benefici associati all’ampliamento dello spazio della scelta per gli utenti nei servizi pubblici sono illustrati, tra gli

altri, da T. Besley, M. Ghatak, Incentives, Choice, and Accountability in the Provision of Public Services, «Oxford Review of Economic Policy», 19, 2003, pp. 235-249. Con riferimento alle utilities, si veda inoltre G. Nicoletti, S. Scarpetta, Regulation, Productivity and Growth, «Economic Policy», April 2003, pp. 10-72. 3 Gli aspetti problematici della regolazione con particolare riguardo agli investimenti nelle reti sono ben sintetizzati in

S. Cowan, Network Regulation, «Oxford Review of Economic Policy», 22, 2006, pp. 248-259. 4 Si veda l’analisi di O.Hart, A. Shleifer, R. Vishny , The Proper Scope of Government: Theory and Application to Prisons,

«Quarterly Journal of Economics», 112, 1997, pp. 1091–1126. 5 Si vedano tra gli altri: A. Shleifer, State Versus Private Ownership, «Journal of Economic Perspectives», 12, 1998, pp.

133-50; D. Newbery, Privatization, Restructuring, and Regulation of Network Utilities, MIT Press, Cambridge MA 1998. 6 Si veda lo studio di R. Millward, Private and Public Enterprise in Europe: Energy, Telecommunications and Transport,

1830-1990, Cambridge University Press, Cambridge UK 2005. 7 Per un’analisi delle cooperative di utenti e delle non profit nei servizi di pubblica utilità si vedano, tra gli altri: H.

Hansmann, The Ownership of Enterprise, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge MA 1996; J. Bennett, E. Iossa, G. Legrenzi, The Role of Commercial Non profit Organizations in the Provision of Public Services, «Oxford Review of Economic Policy», 19, 2, 2003, pp. 335-347; J.Bennett, E. Iossa, Contracting Out Public Service Provision to Not-For-Profit Firms, «CMPO Working Paper» N. 05/124, University of Bristol, UK, 2005. 8 Le forme di rappresentanza degli utenti sono discusse in J. Birchall, Mutual, non profit or public interest company? An

evaluation of the options for the ownership and control of water utilities, «Annals of Public and Cooperative Economics», 72, 2, 2002, pp. 181-213.

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Energia, sviluppo, ambiente di Renato Angelo Ricci

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Disponibilità e fabbisogno di energia

Nel febbraio 1987, due mesi prima della famosa Conferenza nazionale dell’energia che seguì l’avvio del referendum costato al nostro Paese l’uscita dalla produzione di energia elettronucleare a seguito del disastro di Chernobyl, la Società italiana di fisica, che allora avevo l’onore di presiedere, organizzò un Convegno nazionale sul tema che qui fa da titolo, con numerose e qualificate relazioni tecnico-scientifiche sui vari aspetti delle strategie energetiche e delle questioni economiche e ambientali, che ebbe notevole risonanza. Dal Convegno, discussa e preparata da un panel costituito da Edoardo Amaldi, Fernando Amman, Nicola Cabibbo, Carlo Castagnoli, Donato Palumbo, Renato A. Ricci, Carlo Rubbia, Giorgio Salvini e Claudio Villi, emerse una Dichiarazione sottoscritta da circa novecento fisici italiani, che ancor oggi appare di grande attualità. Ne cito alcuni passi: «La struttura della società moderna, lo sviluppo socioeconomico e culturale, il tenore e la qualità della vita, il livello di civiltà e di indipendenza politica di una nazione dipendono sempre più dal suo potenziale energetico e dall’efficienza dei sistemi di conversione e di utilizzo di esso. L’aspetto dominante dell’attuale fase di sviluppo delle comunità umane è la crescente domanda di energia e l’aumento del suo consumo pro capite. È quindi il valore assoluto di tale fabbisogno che conterà nei prossimi decenni, accentuato peraltro dall’espansione sociale e demografica dei Paesi in via di sviluppo, i quali hanno già compiuto o si accingono a compiere radicali mutamenti di struttura al fine di trasformare la loro esistenza in un sistema di vita più complesso e avanzato. Sulla base di significative previsioni, l’indice demografico mondiale si porterà, nella prima metà del prossimo secolo a 8-9 miliardi di persone e il corrispondente indice di consumo energetico salirà a 15-20 miliardi di Tep (tonnellate equivalenti di petrolio) il doppio, cioè, dell’attuale. Ciò significa che il problema ha dimensioni planetarie e i conseguenti aspetti scientifici, economici, sociali, culturali e politici non possono essere affrontati con pregiudizi, improvvisazioni e schematismi ideologici fuori della portata storica di tale problema». Era ed è tuttora essenziale rilevare, da una parte, la questione strategica della produ-

RENATO ANGELO RICCI È PRESIDENTE ONORARIO DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI FISICA E PRESIDENTE

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DELL’ASSOCIAZIONE GALILEO 2001.


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zione e del fabbisogno di energia in relazione allo sviluppo delle civiltà umane e, dall’altra, la necessità di un’analisi storica dell’evoluzione delle fonti energetiche. In effetti: «Nessun sistema socioeconomico è in grado di svilupparsi al di là dei ristretti limiti della sopravvivenza se la collettività non è in grado di trarre l’energia di cui ha bisogno da fonti diversificate e sempre più avanzate. Ciò richiede l’utilizzo ottimale non solo delle risorse naturali, ma anche delle grandi scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche […]. La rinuncia volontaria all’utilizzazione e allo sviluppo di una fonte quale la fissione nucleare […] costituirebbe una decisione non corrispondente allo sviluppo storico delle risorse energetiche dell’umanità». Il riferimento all’energia nucleare è chiaro, ed è dettato dal motivo contingente della crisi seguente a Chernobyl e alle conseguenze che soprattutto il nostro Paese avrebbe pagato rimettendo in discussione una efficiente politica energetica la cui precarietà è ancor oggi evidente. Un altro rilievo importante, che anticipava i tempi, è la corretta valutazione della questione ambientale non disgiunta dalla questione economica, misurate dall’importanza attribuita al «progresso scientifico e tecnologico», ai fini di una «diversificazione» equilibrata delle varie fonti onde ottimizzarne l’impatto ambientale. Si vede come un esame condotto in sede tecnico-scientifica, libero da condizionamenti politici e da pregiudizi ideologici abbia potuto già da tempo condurre a un’analisi sufficientemente corretta e tuttora condivisibile. Essa fa chiaramente apparire i tre termini (energia, sviluppo, ambiente) che costituiscono gli aspetti essenziali di una grande sfida del secolo XXI. Lo sviluppo come primo termine di riferimento dell’evoluzione delle società umane non può più prescindere dal problema energetico e dalla questione ambientale. Da una parte il problema della disponibilità energetica con le sue implicazioni economiche, sociali, geopolitiche e ambientali è, qualora non se ne fosse ancora percepita l’essenzialità e le caratteristiche planetarie, ormai diventato il “problema dei problemi” e implica più che mai non solo valutazioni e discussioni sociopolitiche, ma anche e soprattutto corrette analisi e interpretazioni tecnico-scientifiche. Una “cultura dell’energia” più fondata su queste basi diventa sempre più necessaria ed è propedeutica a una più corretta cultura ambientale e socio-economica. Modello tipico di un esame obiettivo della situazione energetica mondiale sono le analisi condotte da decenni ormai dallo Iiasa (International Institute for Applied System Analysis) di Laxenburg (Vienna), che mostrano come il ricorso alle diverse fonti energetiche primarie risponda a un processo di competizione e di sostituzione logistica basato su scale temporali, che si riflettono in periodi di coesistenza obbligata, rendendo necessario lo sfruttamento di ogni forma di energia, in particolare quello derivante dalle conquiste scientifiche e tecniche. D’altra parte la questione ambientale, dopo essere stata trascurata per un certo periodo in cui lo sviluppo industriale ha avuto connotati dominanti nei Paesi più progrediti, si è imposta come tematica sociopolitica sempre più impellente, fino a costituire un aspetto perfino ineluttabile, tale da condizionare spesso anche acriticamente e senza una corretta base

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scientifica decisioni politiche di dubbio valore. Si tratta di un punto essenziale per la corretta interpretazione delle conoscenze, e dei vantaggi e dei limiti delle innovazioni tecnologiche, che non può prescindere dall’informazione scientifica, che può suggerire i modi possibili ed efficaci per affrontare tali problemi e valutare le conseguenze positive e negative di ogni scelta sociale o decisione politica, attraverso l’analisi costi/ benefici.

Il problema energetico Una strategia globale della produzione di energia è quindi essenziale per lo sviluppo delle società umane. Un modo di illustrare questo è il ricorso a indicatori di questo sviluppo in funzione dei consumi energetici. Ci si riferisce, in ambito internazionale, a un Indicatore di sviluppo umano, il cosiddetto Hdi (Human Development Index) basato su tre indicatori: Longevità (attesa di vita), Livello di istruzione (alfabetizzazione) e standard di vita (rapporto Pil/abitante). Uno studio effettuato dalle Nazioni Unite su sessanta Paesi (90% della popolazione mondiale) mostra chiaramente una forte correlazione tra Hdi e consumo di elettricità. La media dei consumi energetici mondiali corrisponde a circa 2,3 kW per abitante. Naturalmente ciò nasconde le differenze, anche notevoli, tra Paesi dell’Ocse e Paesi in via di sviluppo (Pvs). Se il consumo medio dei Pvs fosse pari a quello italiano, il fabbisogno salirebbe al doppio di quello attuale. L’analisi dello Iiasa rende conto dell’evoluzione delle varie fonti energetiche in un contesto di crescita dei consumi globali che procede a un tasso di circa il 2% annuo. In valore assoluto tale fabbisogno è già arrivato a oltre 10 Gtep, corrispondenti a una potenza primaria totale necessaria di circa 13 Terawatt (12 miliardi di kW), equivalenti all’utilizzo di 13.000 centrali da 1000 MW, di cui circa il 14% per l’energia elettrica. Le varie fonti primarie, dal legno al carbone, al petrolio, al gas naturale, all’energia nucleare, alle energie rinnovabili, si sono succedute e si succedono convivendo e man mano sostituendosi per motivi di convenienza economica, di adattabilità sociale, di possibilità tecniche e di impatto ambientale. Oggi la convivenza e la competitività delle fonti di energia più utilizzate, utilizzabili e disponibili su larga scala riguardano soprattutto il petrolio, il gas naturale, il carbone e, sia pure in misura ancora meno rilevante, l’energia nucleare da fissione. L’attesa di ulteriori nuove fonti (la fusione nucleare, in particolare) fa parte di questo secolo; l’energia nucleare da fissione ormai è destinata a venire ancora utilizzata e quasi certamente a svilupparsi ulteriormente. In altri termini l’energia nucleare sarà indispensabile soprattutto in questo secolo XXI. Al 2003 la distribuzione delle fonti primarie è riportata nella tabella 1.

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Energia, sviluppo, ambiente di Renato Angelo Ricci

TABELLA 1 Produzione annuale di energia primaria e contributo percentuale delle varie fonti (2003) FONTE Petrolio Carbone Gas naturale Nucleare Idroelettrico Altre rinnovabili TOTALE

ENERGIA PRODOTTA (mtep) 4000 2500 2400 670 680 250 10.500

PERCENTUALE SUL TOTALE 38 24 23 6,5 6,5 2 100

È interessante rilevare che le fonti non rinnovabili oggi fanno la parte del leone e che quelle rinnovabili arrivano a meno dell’8% pur includendo la fonte idroelettrica, che è la frazione di gran lunga preponderante, nonché la produzione di energia geotermica e da Rsu (Rifiuti solidi urbani). Resta meno dell’1% per le cosiddette nuove energie rinnovabili (solare, eolico, biomasse). Una più chiara illustrazione del contributo attuale delle fonti energetiche si ha considerando la produzione di energia elettrica (vedi la tabella 2), ricordando che, per esempio, il nucleare e l’idroelettrico (oltre alle energie rinnovabili) sono essenzialmente utilizzati per produrre elettricità. TABELLA 2 Produzione mondiale di energia elettrica e contributo percentuale delle varie fonti (2003) FONTE Fossili Nucleare Idroelettrico Altre rinnovabili TOTALE

MONDO GW-anno 1180 288 302 30 1.800

% 65 16 17 2 100

EUROPA GW-anno 171 101 55 13 340

% 50 30 16 4 100

Un altro dato incontrovertibile è l’aumento, pur con qualche fluttuazione, dei costi di approvvigionamento degli idrocarburi (petrolio, gas naturale), legati fra l’altro ai grandi problemi degli assetti politici mondiali, come per esempio i problemi del Medio Oriente e le ricorrenti crisi di erogazione del gas russo.

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Energia, sviluppo, ambiente di Renato Angelo Ricci

La questione ambientale La questione ambientale entra nel gioco ormai in modo determinante. Storicamente parlando, tuttavia, l’uomo ha sempre interferito con l’ambiente, fin dalla scoperta del fuoco, almeno per ciò che riguarda la produzione di energia. Il fuoco veniva usato dapprima per distruggere boschi e creare praterie per cacciare gli animali, poi per farne legname da ardere o per la costruzione di navi e rifugi. Lo sviluppo dell’agricoltura ha costituito una vera e propria “rivoluzione antiecologica”. Con le concentrazioni delle attività artigianali e industriali e la conseguente crescita delle popolazioni umane, si resero più interessanti nuove forme di energia e iniziarono le estrazioni di carbone fossile, aggiungendo nuove possibilità di inquinamento: zolfo e catrami liberati nella combustione sotto forma di fumi e anidride solforosa, oltre all’anidride carbonica, gas non inquinante, ma che è tra gli artefici dell’effetto serra. Reazioni sociali comunque non si fecero attendere, anche violente seppure inefficaci: nel 1700, a Londra furono emessi editti per proibire l’uso industriale del carbone, «pena la morte», tuttavia il consumo del carbone crebbe esponenzialmente sostituendo progressivamente la legna. La società del resto funziona come un grande sistema autoregolantesi, che procede per azioni e reazioni cercando di compensare gli eccessi con circuiti di controllo, come l’animismo delle antiche religioni che ammoniva a non tagliare gli alberi abitati dagli spiriti, o l’avvento di leggi e tecnologie di controllo con il cristianesimo e il rinascimento. In Inghilterra l’aumento del consumo di carbone non peggiorò la situazione, grazie a migliori tecniche di combustione, scelta dei carboni e uso di alti camini. Un esempio interessante di sostituzione logistica è riportato da Marchetti: nel 1920, negli Usa, il mezzo più comune di trasporto era il cavallo (venticinque milioni di cavalli) ma cominciava l’era dell’automobile, che tuttavia, per velocità e costo, non era affatto competitiva. Il fatto discriminante fu il problema dei parcheggi notturni e delle “emissioni”: venti chili al giorno per cavallo! Cito il passaggio di Marchetti: «Anche se ai contadini della mia giovinezza e ai Verdi di oggi vengon le lacrime al pensiero, la società nel suo insieme scelse il mezzo meno inquinante (più ecologico): l’automobile!». È inoltre un fatto assodato che l’efficienza nell’uso dell’energia primaria è cresciuta continuamente e secondo leggi precise. Poiché le varie fonti seguono, come abbiamo visto, una dinamica temporale competitiva di tipo darwiniano, e poiché ciascuna fonte inquina in misura diversa, si può prevedere il mix di fonti ottimali, il che ci fa dire che la penetrazione e la stabilizzazione nel mercato di fonti primarie quali il carbone, il petrolio, il gas, il nucleare (da fissione oggi, da fusione forse domani), a parte possibili fluttuazioni, si effettueranno nel migliore dei modi possibili. In questo contesto va vista anche la questione, più strettamente correlata con la produzione di energia, dell’effetto serra di origine antropica e delle sue (presunte) conseguenze, secondo visioni ormai diffuse, addirittura catastrofiche dal punto di vista climatico, quali la teoria del “riscaldamento globale”. Che il pianeta in cui viviamo subisca cambiamenti clima-

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Energia, sviluppo, ambiente di Renato Angelo Ricci

tici anche notevoli legati a variazioni di temperatura di più di 5-6oC nei secoli e nei millenni della propria storia è, o dovrebbe essere, noto ed è ampiamente studiato. Restano le crescenti preoccupazioni che le attività umane possano essere una causa importante delle apparenti alterazioni del clima riscontrabili a livello planetario. Esse tuttavia si confrontano con notevoli incertezze, dovute alla flessibilità dei modelli computerizzati utilizzati per i possibili scenari e alla variabilità dei riscontri nelle misure di temperatura, per esempio a terra, in aree urbane o con strumenti satellitari. Non è del tutto provato che i gas serra antropogenici siano il fattore dominante di questo processo, malgrado ciò sia assunto come opinione comune. Le misure proposte al fine di rimediare e prevenire tale ipotetico rischio sono, come noto, riassunte nel Protocollo di Kyoto. Tale Protocollo, inteso come Patto planetario e costruito sulla base del cosiddetto “principio di precauzione” preso alla lettera, senza una più approfondita analisi del rapporto costi/benefici, sancisce le restrizioni e gli interventi che i vari Paesi si obbligano a rispettare per ricondurre il tasso annuale di emissioni entro il 2012 (più precisamente tra il 2008 e il 2012) a un po’ meno del 95% del livello complessivo del 1990. In ogni caso, comunque lo si giudichi, il Protocollo di Kyoto, anche se interamente applicato, avrebbe risultati poco significativi, visto che la richiesta riduzione di CO2 (che, tra l’altro, non è il principale gas serra, tenuto conto del vapor d’acqua e del metano, per esempio) avrebbe l’effetto di spostare di pochi anni l’entità del riscaldamento globale, qualunque ne sia l’origine, eventualmente prevista per il 2100. Questi obiettivi sono stati ribaditi a più riprese, senza tuttavia portare a una ratifica unanime, con la posizione contraria di Stati Uniti e Australia e l’incertezza di altri Paesi. Inoltre lo zelo europeo non è confortato da politiche virtuose, visto che solo quattro Paesi (Germania, Svezia, Regno Unito e Francia) sembrano in grado di arrivare a rispettare tali limiti, mentre per il resto, Italia compresa, si è già abbondantemente al di sopra (mediamente di più del 7-8%). Non è strano che tra i Paesi più virtuosi vi siano quelli che usano in modo consistente l’energia nucleare, l’unica fonte disponibile su larga scala, esente da emissioni. Sarà pertanto problematico il raggiungimento dell’obiettivo del 5,8% globale per l’Unione Europea: ed è qui che si torna al discorso sull’energia nucleare. Già i Paesi dell’Europa a 15 utilizzano per la produzione di elettricità una quota pari al 35%, che non muterà sostanzialmente con l’allargamento ai nuovi membri, quasi tutti produttori e utilizzatori di energia elettronucleare. Tale quota, se si vuole contemperare un decente sviluppo economico con il rispetto del Protocollo di Kyoto, è semmai destinata ad aumentare.

Il caso dell’energia nucleare Per far fronte ai fabbisogni energetici di tutta la società umana, sempre più legati alla evoluzione dei Paesi in via di sviluppo, si dovrà tener conto di ogni possibile soluzione derivante da una lista completa delle sorgenti di energia (nucleare incluso) utilizzabili dall’uma-

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Energia, sviluppo, ambiente di Renato Angelo Ricci

nità su scala significativa durante il secolo. Del resto basta riflettere sul fatto che, contrariamente a quanto si è spesso propagandato, la produzione di energia nucleare dopo Chernobyl non ha subito un arresto. Dai circa 250.000 MWe del 1985 la potenza nucleare installata è passata ai quasi 400.000 del 2000, con un aumento del 48%, mentre la produzione globale di energia elettronucleare è passata da 1500 miliardi di kWh nel 1989 ai 2620 del 2005, con un aumento del 60%. Nuove centrali sono in costruzione in Giappone, Corea, Cina, Russia e Finlandia, inoltre il fatto che, grazie a significativi progressi tecnologici, la durata della vita di centrali nucleari occidentali (in particolare negli Stati Uniti) sia stata prolungata dai 25-30 anni ai 5060 anni rinvia la loro dismissione, e costituisce un atout economico e competitivo ben significativo rispetto alla costruzione di nuovi impianti. Del resto è alquanto scorretto parlare di uscita progressiva dal nucleare dei Paesi che detengono tale patrimonio e ben si guardano dal privarsene. Ne è prova la Svezia (46% di energia elettrica prodotta da undici centrali nucleari) che, dopo un primo referendum abrogativo, ha chiuso una centrale (Barseback) nel 2000 e rinviato ogni ulteriore decisione «per la mancanza di alternative valide sul piano economico e ambientale». La Svizzera ha da poco tempo bocciato un referendum teso a bloccare e a chiudere le sue cinque centrali nucleari. In Germania la decisione di limitare a trentacinque anni (in pratica fino al 2020) la vita utile degli impianti nucleari trova notevoli opposizioni, ed è difficile pensare che tale Paese possa permettersi di rinunciare a una fonte che copre il 33% del fabbisogno elettrico nazionale. La Francia, con la conferma della sua scelta nucleare, registra il più basso e stabile costo del kWh in Europa e ha ridotto dal 1973 a oggi la sua dipendenza energetica dal 78% al 50%, e le proprie emissioni di CO2 del 30%, riuscendo a rientrare nei vincoli del Protocollo di Kyoto. L’Italia uscita dal nucleare a seguito dell’interpretazione “politica” di un referendum di vent’anni fa, introdotto in modo surrettizio e artatamente inteso, è tuttavia tra i Paesi europei che utilizzano in modo consistente l’energia elettronucleare (18-20% del fabbisogno nazionale di energia elettrica fornita dalle centrali di Francia, Svizzera e Slovenia).

Il caso Italia Vale la pena di concludere con alcune riflessioni sul caso italiano. L’energia primaria necessaria al nostro Paese è in continua crescita (190 Mtep nel 2003). Essa dipende da un’importazione pari all’82% del fabbisogno, con un esborso annuo che nel 2003 ha superato i trenta miliardi di euro. Il fabbisogno nazionale è coperto per il 65% attraverso il ricorso agli idrocarburi (petrolio e gas naturale). La situazione è ancora più grave nel sistema elettrico, dove la dipendenza dall’estero raggiunge l’84% e la dipendenza dagli idrocarburi l’80%. L’energia elettrica prodotta in Italia (in massima parte utilizzando petrolio e gas naturale) costa il 60% più della media europea, due volte quella prodotta in Francia e tre volte

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Energia, sviluppo, ambiente di Renato Angelo Ricci

quella prodotta in Svezia. Sul piano ambientale, secondo le valutazioni del ministero dell’Ambiente, l’attuazione del Protocollo di Kyoto costerebbe all’Italia 360 dollari per abitante contro i 5 della Germania (33% nucleare) e i 3 della Francia (78% nucleare). Quanto alla possibilità di far fronte a tale situazione con il ricorso alle energie rinnovabili, basta ricordare che, a livello nazionale, il ruolo delle fonti rinnovabili è del 17,6% e, all’interno di questa quota, il 96,8% è prodotto con il rinnovabile tradizionale (geotermico e idroelettrico). Le fonti rinnovabili non tradizionali (0,1% in Italia) sono sostanzialmente date dal fotovoltaico e dall’eolico, con qualche contributo delle biomasse. Il quadro è chiaro e il nostro Paese non può prendersi il lusso di stare a guardare il nuovo corso energetico-ambientale che si imporrà nello sviluppo mondiale e che comprende (vedasi le recenti decisioni del Regno Unito, degli Stati Uniti e dei Paesi asiatici) un contributo apprezzabile dell’energia nucleare. Segnali positivi sono la politica dell’Enel (acquisto di centrali nucleari in Slovacchia) e l’accordo Edf-Edison, che permetterà all’Italia di entrare nella filiera del nuovo reattore europeo Epr; ci si aspettano inoltre iniziative per una possibile collaborazione ai progetti dei reattori di quarta generazione all’interno di una vasta collaborazione internazionale. In conclusione, appare chiaro che ogni politica energetica a livello mondiale, europeo e quindi anche nel nostro Paese, non può né potrà prescindere da un’analisi obiettiva e comparata delle possibilità tecnico-economiche in gioco. La stessa questione ambientale non potrà essere affrontata seriamente e consapevolmente senza una base conoscitiva scientificamente corretta. Il binomio energia-ambiente, che sarà la base delle strategie socio-politiche di questo secolo, si trova di fronte a una sfida epocale. Posizioni ideologicamente preconcette e disinformazioni fuorvianti dovranno cedere il passo alle forze della ragione.

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La rivoluzione dei trasporti: la “scatola globale” di Giovanni Grimaldi

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La nascita del container Negli anni Trenta Malcom McLean, autotrasportatore americano, nell’osservare le operazioni di spostamento di un carico di cotone da un camion della sua azienda alla stiva di una nave, pensò di utilizzare una “scatola metallica” di dimensioni fisse che, contenendo il voluminoso materiale, ne avrebbe consentito una movimentazione più agevole. Idea semplice e apparentemente banale che invece, solo qualche anno più tardi si sarebbe dimostrata addirittura rivoluzionaria. La varietà degli imballaggi utilizzati, all’epoca, per il trasporto merci moltiplicava infatti gli effetti negativi delle rotture di carico su un percorso di lungo raggio. Ogni cambio di mezzo imponeva laboriose movimentazioni, complicate dalla necessità di coordinare le attività su involucri di formato diverso. Il passaggio mare-terra, poi, era quello maggiormente penalizzato: molta manodopera, allungamento dei tempi improduttivi, soste forzate nei depositi con incremento dei rischi di furto e danneggiamento. McLean, forte della sua brillante intuizione, anni dopo acquistò la compagnia marittima Pan Atlantic, allestì la cisterna Ideal X per il carico dei contenitori e, il 26 aprile 1956, sulla linea Newark-Port Hudson, organizzò il primo trasporto container della storia. Si calcola che, con questo primo viaggio, riuscì ad abbattere del 90% i costi complessivi. Iniziava così una nuova epoca nel settore del trasporto merci, destinata a produrre riflessi rilevanti sugli assetti geopolitici, economici e culturali di tutto il mondo. L’innovazione, seppur notevolissima, ebbe difficoltà a imporsi perché comportava un vero e proprio sovvertimento delle logiche di distribuzione del lavoro e della configurazione degli spazi operativi in porto. Paradossalmente, proprio le realtà prive di strutture operative già consolidate al loro interno riuscirono a orientare senza difficoltà il proprio sviluppo verso la nuova configurazione che andava delineandosi man mano che si affermava l’idea della “scatola globale”: il porto container. Il caso di Rotterdam è esemplificativo: rasa al suolo dopo la seconda guerra mondiale diventò, in poco più di un decennio, sede di uno scalo portuale merci di rilevanza mondiale, ancora oggi in piena attività.

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GIOVANNI GRIMALDI È PRESIDENTE DELL’AUTORITÀ PORTUALE DI GIOIA TAURO.


La rivoluzione dei trasporti: la “scatola globale” di Giovanni Grimaldi

Il porto di Gioia Tauro e la “scatola globale” La storia del porto di Gioia Tauro si intreccia con quella della scatola metallica grazie a un’altra notevole intuizione. All’inizio degli anni Novanta, l’imprenditore ligure Angelo Ravano individua con chiarezza proprio nello scalo calabrese, imponente realizzazione della Cassa per il Mezzogiorno pensata a servizio di un polo siderurgico mai attivato, le potenzialità ancora inespresse di un porto container. La posizione geografica mediana e di minima deviazione lungo la direttrice Suez-Gibilterra, la disponibilità di grandi spazi a ridosso delle banchine portuali, l’ampiezza degli accosti e la profondità dei fondali aprono la strada alla riconversione produttiva di quella che era oramai considerata solo una cattedrale nel deserto. L’attività operativa del porto container di Gioia Tauro inizia nel 1995 e si sviluppa a ritmo vertiginoso fino a elevare, in pochi anni, lo scalo al ruolo di leader tra gli hub portuali del Mediterraneo. Oggi tremila navi all’anno scalano il porto e, nei piazzali a ridosLe compagnie, so delle banchine, squadre superorganizzate di operatori determinando di fatto portuali movimentano tre milioni di contenitori e 140.000 l’itinerario delle merci e veicoli. Un piccolo centro di una regione del Mezzogiorno la localizzazione dei nodi d’Italia, storicamente afflitto da situazioni di arretratezza e di scambio, sono in grado disagio, si trova quindi a essere investito da flussi imponendi condizionare in ti di merci, ma reagisce in maniera controversa. Acquisisce misura determinante elevata specializzazione nelle operazioni di trasbordo navenave (transhipment): si lascia, cioè, attraversare dai traffici l’andamento dei limitandosi, quasi fosse un’isola, a offrire un punto di approvolumi di traffico do e di scambio, senza trasferire al territorio retrostante gli nei diversi scali. indotti che le merci in arrivo sarebbero in grado di generare in misura rilevante. Non può invece sottrarsi alle ferree logiche di quello scenario di economia globale che ha iniziato a configurarsi proprio a seguito della “rivoluzione della scatola metallica”. Il settore del trasporto merci via mare, infatti, sembra quasi amplificare i tipici effetti distorsivi del mercato globale: potenti spinte verso la concentrazione portano poche compagnie di navigazione a controllare la quasi totalità dei traffici planetari e dunque della domanda di servizi portuali. Le compagnie, determinando di fatto l’itinerario delle merci e la localizzazione dei nodi di scambio, sono in grado di condizionare in misura determinante l’andamento dei volumi di traffico nei diversi scali, e quindi acquisiscono potere contrattuale sempre crescente anche nella gestione dei terminal portuali. Queste le dinamiche che, fin dall’inizio, si impongono con forza nel governo dei processi evolutivi degli scali container.

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La rivoluzione dei trasporti: la “scatola globale” di Giovanni Grimaldi

Le politiche dei trasporti nell’era globale Esiste, dunque, una stretta correlazione tra lo sviluppo del traffico container e i modelli di economia globale: laddove i costi di trasporto a lunga distanza sono abbattuti, i produttori di beni industriali non traggono più vantaggi significativi dalla vicinanza geografica al consumatore. I mercati di approvvigionamento, produzione e distribuzione si allargano, le aziende revisionano continuamente le proprie scelte insediative, riorganizzano le catene di divisione del lavoro e devono necessariamente aprirsi a nuove forme di concorrenza. Le rapidissime evoluzioni del mercato incidono profondamente sulla domanda di mobilità, per cui anche le politiche del settore dei trasporti devono repentinamente adeguarsi. Quello che è accaduto negli ultimi anni è significativo: i flussi commerciali provenienti dall’Estremo Oriente sono aumentati in maniera impressionante, anche a seguito della progressiva delocalizzazione dei centri produttivi dal bacino dell’Europa centrale verso le periferie. Le politiche dei trasporti, di riflesso, si sono concentrate su soluzioni di corridoio multimodale, finalizzate a costruire un più fitto tessuto di relazioni tra i nuovi poli produttivi e i mercati europei, africani e orientali. In questo contesto, l’intera fascia mediterranea riacquista una posizione di solida centralità, con rilevanti prospettive di incremento per le interconnessioni a servizio delle aree che

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si affacciano sul bacino. Alcuni Paesi europei, Spagna e Francia in particolare, hanno già da tempo intuito questa notevole occasione di sviluppo e hanno orientato programmi e risorse su progetti di piattaforme logistiche a servizio dei collegamenti mediterranei lungo la dorsale sudnord, unica implementabile in considerazione della loro collocazione geografica. L’Italia, almeno fino a oggi, non sembra invece essere stata in grado di impostare un’azione di contrasto efficace mirata al consolidamento di scenari che la vedrebbero relegata a un ruolo secondario riguardo alle favorevolissime opportunità riconducibili ai flussi mediterranei. Tutto ciò nonostante il fatto che proprio il nostro Paese, in virtù della sua vantaggiosissima posizione geografica, sarebbe il naturale candidato alla leadership nei collegamenti tra Mediterraneo ed Europa centrale, potendo avvalersi della doppia direttrice sud-nord e estovest. È comunque evidente che il vantaggio geografico possa essere pienamente messo a frutto solo lavorando su un sistema complessivo di trasporto nazionale che sia in grado di offrire solide garanzie. I progressi su una sola componente della catena del trasporto non sono sufficienti: strozzature ferroviarie o autostradali in qualsiasi punto della rete, così come intasamenti ai valichi alpini, sono in grado di invalidare in maniera decisiva i risparmi di tempo che potrebbero indurre gli spedizionieri a scaricare nei porti italiani piuttosto che presso gli scali atlantici.

I fattori critici della portualità italiana La portualità italiana, peraltro, nonostante gli obiettivi vantaggi derivanti dalla collocazione geografica e dal rilevante sviluppo costiero, evidenzia segni di debolezza nei riguardi della concorrenza mediterranea e in particolare di quella spagnola. Sembra ormai consolidato che la perdita di competitività del sistema portuale italiano sia dovuta alla scarsa capacità manifestata dagli scali nell’assorbire le quantità di merci in transito. Un evidente segnale di questa inadeguatezza è dato dal fatto che gli scali italiani tendono a rispondere alle sollecitazioni del mercato con una sensibile evoluzione del transhipment, che trova precisa corrispondenza anche nell’estrema frammentazione del sistema, dotato di un elevato numero di porti sparsi lungo le coste. Questa polverizzazione causa notevoli limitazioni nel conseguimento di economie di scala, dei cui benefici godono invece pienamente i sistemi portuali fortemente concentrati. Anche i dati sulla movimentazione dei contenitori evidenziano come, nei porti italiani, sia trattenuta quasi esclusivamente la merce necessaria a soddisfare i consumi e la produzione del mercato interno. Di contro, i sistemi portuali tedeschi e spagnoli spiccano per la capacità di gestire traffici di contenitori sensibilmente superiori ai volumi nazionali di commercio estero, proponendosi nel ruolo di piattaforma logistica a servizio di vaste aree territoriali. Queste realtà sono il prodotto di politiche nazionali già da tempo indirizzate verso la specializzazione logistica del Paese, e perseguite attraverso la costruzione di sistemi intermodali a forte concentrazione,

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governati da soggetti estremamente qualificati. Inoltre lo squilibrio tra gli scali di transito e quelli in grado di trattenere e lavorare merce è destinato ad accentuarsi per effetto della tendenza al gigantismo navale, in sensibile rafforzamento negli ultimi anni. I porti di tutto il mondo saranno infatti attraversati da navi di dimensioni sempre maggiori, in grado di trasportare enormi quantità di merci racchiuse nei containers. Ne conseguirà una ulteriore concentrazione delle rotte delle “navi madri” impiegate nei servizi principali, che le compagnie di navigazione tenderanno ovviamente a orientare sugli scali più competitivi, in grado di assorbire e lavorare maggiori quantitativi di merce. Certamente nei prossimi anni il confronto su questi temi diventerà più intenso e il nostro Paese, se intende parteciparvi con il dovuto slancio competitivo, dovrà puntare, oltre che alla ricerca di nuovi percorsi di sviluppo, a valorizzare pienamente le risorse di cui già dispone.

Gioia Tauro: una risorsa da valorizzare Si può serenamente affermare che, allo stato attuale delle cose, almeno per quel che riguarda il traffico container le sorti del sistema nazionale sono legate a filo doppio al porto di Gioia Tauro. Il porto oggi sembra rifletterne le criticità complessive, non reagendo con la dovuta prontezza alle sollecitazioni del mercato di riferimento. L’andamento dei traffici degli ultimi due anni ha faticato, infatti, a sostenere il trend estremamente positivo dei flussi mediterranei. Sono stati proposti diversi correttivi e, tra l’altro, è stata prospettata l’opportunità di incidere sui parametri tecnici dello scalo: approfondire i fondali, incrementare le lunghezze di banchina, ampliare gli spazi operativi. In realtà un semplice confronto, condotto sulla base degli elementi tecnici più significativi, evidenzia che già oggi lo scalo si colloca in posizione di assoluta preminenza rispetto alla concorrenza mediterranea. Occorre pertanto prestare attenzione a questioni diverse, tenendo comunque bene a mente che le dinamiche della portualità, come sopra è stato evidenziato, sono connesse a molti fattori, alcuni dei quali per nulla orientabili da logiche politiche o dall’attività degli organismi istituzionali. Alcuni dati sono comunque già certi: la spiccata connotazione transhipment del porto calabrese, che nei primi anni di attività dello scalo aveva impresso una spinta propulsiva imponente, nel contesto modificato di oggi rischia di trasformarsi in un vero e proprio elemento di vulnerabilità. Diventa quindi determinante lavorare alla costruzione di un’offerta diversificata di servizi e attività, che sia in grado di conformare le risposte della struttura portuale alle continue variazioni della domanda. Un altro aspetto essenziale riguarda i collegamenti con il territorio retrostante, la cui attuale inefficacia rischia di vanificare anche l’attività di un terminal portuale superfunzionale e altamente qualificato. Polifunzionalità e connessioni: su questi temi deve dunque concentrarsi uno sforzo col-

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lettivo teso a ricollocare il porto nella posizione di assoluta rilevanza che ha già dimostrato di saper assumere e sostenere.

La rivoluzione compiuta Tutte le previsioni di settore annunciano condizioni estremamente favorevoli per i traffici nel Mediterraneo di cui Gioia Tauro è “condannato” a essere uno dei principali beneficiari. I dati positivi dei transiti registrati lo scorso anno attraverso il canale di Suez indicano anche che è in atto un processo di ridistribuzione, su rotte atlantiche, di traffici asiatici che tradizionalmente raggiungevano l’America attraverso il Pacifico, evitando il Mediterraneo. Gli imponenti progetti di ampliamento del canale, in fase di avanzata predisposizione, e gli accordi istituzionali sottoscritti dai governi di Egitto, Cina e Italia, lasciano intravedere un progetto organico teso a richiamare un sensibile incremento di traffico sulla rotta Suez-Gibilterra. Le prospettive favorevoli, peraltro, non riguardano solo il fronte occidentale, cui siamo spesso portati a guardare, forse perché troppo condizionati dai successi della portualità spagnola, ma anche l’area orientale e la fascia del Mar Nero. I Paesi dell’Est Europeo, infatti, pur in presenza di un quadro di connessioni nella sostanza insufficiente, già oggi intrattengono con l’Italia significative relazioni commerciali, suscettibili di ulteriori evoluzioni, anche in considerazione del prevedibile effetto benefico dell’allargamento dell’Unione. Si presenta dunque una ulteriore notevolissima prospettiva di sviluppo: l’Italia non solo “porta sud” per l’accesso ai mercati del Nord Europa, ma anche ponte ideale di connessione tra il Mediterraneo sud-orientale e le regioni europee più evolute, o ancora tra il Mediterraneo occidentale e il Nord Africa. Cogliere appieno questa opportunità significherebbe, per l’intero Paese e per le regioni meridionali in particolare, il definitivo riconoscimento del ruolo di piattaforma logistica del centro del Mediterraneo, a lungo solo ipotizzato nei testi di studio e nei documenti di pianificazione e programmazione. Si compirebbe, così, un altro significativo passo della rivoluzione silenziosa della “scatola globale”.

Bibliografia Autorità portuale di Gioia Tauro, «Piano operativo triennale 2007-2009», ottobre 2006. E. Cascetta, Il Sud isolato, Il Sole 24 Ore Pirola 2006. CENSIS, «III° Rapporto sull’economia del mare», maggio 2006. Ministero affari esteri, Atti del Seminario reti mediterranee «Interconnessioni materiali e immateriali per l’integrazione dei mercati», Milano 10-11 febbraio 2006. F. Rampini, La rivoluzione silenziosa della scatola globale, «La Repubblica», 23 aprile 2006.

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La forza della microeconomia di fronte al declino e le sfide di una classe dirigente nazionale di Pietro Modiano

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La fine della crisi Il dopo crisi è cominciato? Sì, almeno se si parla di congiuntura dell’economia. Dopo più di cinque anni di recessione o ristagno, vanno meglio le esportazioni, come pure il fatturato delle imprese e i loro ordinativi, e un po’ meglio la fiducia di consumatori e imprenditori. Lo dicono le statistiche e lo dice l’informazione aneddotica - ricca in verità - che arriva a chi fa il mio mestiere, il mestiere della banca. Ci chiedono più credito le imprese, un po’ da tutta Italia, e lo fanno finalmente per investire anche in impianti, non solo in immobili. Questo avvio di ripresa è un bene in sé, ma è un bene anche perché ci insegna qualcosa sul passato recente e sul prossimo futuro. Ci interroga sulle nostre virtù, piuttosto che sull’apporto di quelle di altri Paesi, come la Germania, che hanno cominciato a trascinarci positivamente: tutto ciò riguarda il presente e il passato recente, e ci interroga sulle responsabilità delle classi dirigenti di fronte alle opportunità che nell’Italia industriale malgrado tutto ci sono e che possono (e debbono, quindi) non essere sprecate, e questo riguarda il futuro. Il dopo crisi è cominciato: ma, in un quadro europeo che si è fatto più roseo, che Italia trova? Su quali forze, dopo anni difficili, il nostro Paese conta, e quali debolezze sono rimediabili? Che cosa ci si deve aspettare dalle imprese, dalla società civile, per fare un passo in avanti? Ragionerei sul Paese, sulla sua società civile ed economica, e sulle sue imprese, anzitutto. Tralascerei la politica e il governo. Un po’ per saturazione: se ne parla e se ne ragiona troppo. Un po’ per convinzione: alla fine - in un Paese vitale - politica e governi debbono essere pensati come variabili dipendenti, sussidiarie appunto, rispetto a ciò che la società spontaneamente e indipendentemente produce. Chiedere troppo ai governi è segno di una debolezza della società e delle sue élite, che può portare a non assumersi tutti, e in modo consapevole, le giuste responsabilità. Per questo vorrei ragionare sulla nostra economia, per un momento e per una volta, «come se il governo non esistesse».

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PIETRO MODIANO È DIRETTORE GENERALE DI BANCA INTESA SAN PAOLO.


La forza della microeconomia di fronte al declino e le sfide di una classe dirigente nazionale di Pietro Modiano

Il supposto declino economico italiano Ebbene, sono convinto che negli anni del ristagno e dell’avvio del supposto declino si sia prodotta, nel mondo delle imprese, e quindi in una parte importante della nostra società, una trasformazione di grande rilievo, che dà la misura di un’energia sociale al momento sottovalutata, ma tutt’altro che esausta, e che - a certe condizioni, non tutte presenti in verità, e non facili da produrre - può segnare in termini positivi il futuro dell’Italia. Proverò a illustrarne alcuni tratti, cercando di individuarne luci e ombre. Per provare alla fine a trarre una morale da ciò che ne esce. Gli anni dal 2000 in poi sono stati dominati dalla crisi della grande impresa manifatturiera italiana. La crisi della Fiat ne era il simbolo, ma la scomparsa di quasi tutta la grande manifattura che dal dopoguerra aveva trainato lo sviluppo era apparsa - lo è in effetti - come un dato di portata storica. Con la crisi della grande impresa, per la prima volta, l’impresa piccola e media diventava l’unico elemento di tenuta dell’industria. È un fatto di grande importanza. Una cosa è essere uno dei pilastri dello sviluppo industriale, e la piccola impresa lo è sempre stata, un’altra è esserne praticamente l’unico sostegno: questa è la situazione di oggi, inedita per noi e senza uguali nei Paesi sviluppati. Sono sorti presto legittimi i dubbi sulla adeguatezza di questo assetto anomalo rispetto alle sfide del mondo globale (ricordo per esempio prese di posizioni importanti della Banca d’Italia nel 2002 e 2003, o il libro di Luciano Gallino1 sulla crisi della grande industria). Dubbi legittimi, fondati su argomenti molto seri, ma pur sempre dubbi: da sottoporre prima di diventare certezze di senso comune - alla verifica dei fatti. E i fatti danno conto, come cercherò di argomentare, di una situazione fortunatamente un poco diversa e migliore. Lo schema logico della diagnosi “declinista” è il seguente, così semplice, noto e convincente, da potersi riassumere in poche righe. Nel mondo globale ci sono solo due modi di competere: quello basato sui bassi costi e quello basato sulle alte tecnologie. Chi è dotato degli uni, i bassi costi, o delle altre, le tecnologie, sta in piedi e cresce, e può anche appropriarsi delle capacità complementari dell’altra parte. Gli Stati Uniti possono appropriarsi dei bassi costi attraverso la multinazionalizzazione della produzione; la Cina può appropriarsi delle tecnologie attraverso la multinazionalizzazione della ricerca. Chi sta nel mezzo, sta male. L’Italia, che ha alti costi e basse tecnologie sta nel mezzo e sta male; dotata com’è di sole piccole imprese familiari è senza speranze. Questo è così vero, si argomentava e si argomenta - ma qui c’è un salto logico - che già ora l’Italia ha smesso di crescere, cresce meno di tutti, perché non riesce più a esportare i prodotti tradizionali che l’hanno fatta forte nei decenni passati. Il suo modello sociale - fatto di rigidità europee - e il suo modello di specializzazione - fatto di prodotti made in Italy a crescita lenta e poco concorrenziali - si combinano per dar luogo a un andamento della produttività dei fattori, e in particolare del fattore lavoro, divaricato rispetto a tutti i concorrenti, com-

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presi quelli dell’Europa continentale, che già hanno i loro problemi. Prove a sostegno: il Pil, che di anno in anno sta al fondo delle classifiche, così come gli indici di produzione, produttività, quantità esportate. La diagnosi declinista - prima della sua verifica empirica - trova un vasto accordo. Il centrosinistra fa propri i temi del declino, anche per contrapporsi al governo allora in carica, accentuandone le responsabilità sulla crescita zero (peraltro non trascurabili, ma per una cattiva gestione della domanda interna aggregata); lo stesso centrodestra rilancia la paura della fragilità strutturale delle nostre imprese, con una ripresa di pulsioni protezionistiche che rivelano una sfiducia di fondo nelle loro autonome capacità competitive. La difesa dell’italianità delle grandi imprese residue diventa in questo quadro un dogma bipartisan. Lo stesso mondo delle imprese rilancia a sua volta il pessimismo. Un po’ per paura: le difficoltà ci sono, la Cina, le svalutazioni che non possono più aiutare, la domanda interna stagnante, l’indotto della grande impresa che si fa più scarso e incerto, e, sul fronte del rapporto con le banche, l’incombere di nuove regolamentazioni potenzialmente restrittive del credito. Si esaspera talvolta il senso del dramma per mantenere una posizione negoziale forte con il potere politico e il sindacato. La diagnosi era insomma largamente condivisa, quasi unanimemente. Ritengo però che già allora, prima dei segni di ripresa del ciclo, essa non facesse i conti con tutti i dati empirici che pure emergevano. La banca in verità è stata - lo è per natura - un buon punto di raccolta di dati e dubbi razionali. Chi ha responsabilità in una banca in queste condizioni aveva, e ha, un particolare interesse a capire. Se il declino c’è e non si ammette, si sbaglia nel modo peggiore: dando troppo credito. Guai al banchiere ottimista. Ma se non c’è declino e si pensa ci sia, è comunque un male: eccediamo in prudenza, non diamo credito ai meritevoli, e finiamo noi stessi per produrre declino. Guai dunque al banchiere pessimista. La mia esperienza personale di banca negli anni dal 2002 al 2006, fra Unicredito e San Paolo, mi ha suggerito grande cautela nel generalizzare, in verità. In quel periodo ho visto preoccupazione, molta, e anche paura, per un certo periodo, da parte degli imprenditori. Le diagnosi pessimistiche erano generalmente condivise. Tuttavia - ecco il punto - non ne derivava una voglia individuale di battere in ritirata. Tutti gli imprenditori denunciavano problemi e difficoltà, specifiche e generali, ma intanto si ingegnavano, rilanciavano innovazioni di mercato - la Cina - e di prodotto. Tendevano, questo sì, a presentare il loro dinamismo individuale come eccezione in una platea di crisi più o meno generale; non c’era una fiducia collettiva nel futuro. Ma in tanti - ognuno per sé - reagivano. In pochi cedevano. Non c’è mai stata un’evidenza chiara di arretramento generale, anche mentre prevaleva il più diffuso pessimismo. Hanno avuto certamente ragione i banchieri che dal generale pessimismo non si sono fatti condizionare: se le banche italiane hanno avuto buoni profitti in questi anni è stato anche perché la quantità di denaro che hanno dovuto accantonare per far fronte a crisi aziendali è stata, in confronto a fasi cicliche altrettanto difficili, singolarmente modesta.

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Insomma: la logica deduttiva - modello di specializzazione, dimensione delle imprese, forma della globalizzazione, ristagno del Pil - diceva declino; quella induttiva, aneddotica all’inizio, ha stentato a confermarlo.

Come si spiega la ripresa? Oggi, all’avvio della ripresa, credo si possa avanzare un’ipotesi che riconcilia fatti e teoria, e dà qualche conforto sul futuro e sulle cose da fare. In sintesi, le imprese manifatturiere italiane hanno generalmente retto in anni difficilissimi e nonostante le loro conclamate debolezze. I dati che lo confermano cominciano a essere molti, e appaiono le prime analisi scientifiche a sostegno di questa ipotesi. Non è questa la sede per approfondirli, ma basta citare due elementi, per convincersi che qualcosa di inatteso è successo. Il primo è che le esportazioni hanno resistito. Sono andate male le quote di mercato dell’Italia misurate in volumi (il numero di scarpe, i metri di tessuto), molto meno se misurate in valore, il che è ciò che conta. Meglio di noi, sotto questo profilo, va solo la Germania. Nel 2000 avevamo il 3,7% del mercato mondiale; Le imprese italiane nel 2005 il 3,5% (in volume, scendiamo invece dal 3,7% al hanno innovato i prodotti 3,1%). La caduta delle quote si è verificata prima, con un e la distribuzione più dei punto in meno di quota fra il 1996 e il 2000, e negli ultimi anni si è sostanzialmente arrestata. processi produttivi. Secondo elemento: i conti economici della manifattura italiana non sono andati male. I margini operativi sui fatturati sono scesi poco, sempre dal 2000 al 2005, e questo fatto è incompatibile con l’idea che ci sia stata una pressione irresistibile dei concorrenti esteri dal lato dei costi di produzione: se ci fosse stata, i profitti sarebbero stati schiacciati dalla competizione. Nonostante la fissazione delle parità di cambio, nonostante il ristagno della domanda interna, invece, i profitti operativi hanno retto (il che spiega l’altrimenti inspiegabile tenuta dei rischi delle banche). E così via. Siamo insomma di fronte a un caso di grande interesse di divergenza fra una prognosi infausta, fondata in verità su indizi solidi e su una solida visione del mondo, e un decorso invece positivo, ma difficile da “modellare”, da riconciliare in una teoria. Il dovere di adesso è anzitutto quello di capire i fatti. Che cosa sia successo comincia ad apparire abbastanza chiaro: dal 2000 a oggi le imprese italiane hanno fatto quello che avevano fatto in misura limitata e non generalizzata nei decenni precedenti, hanno cioè innovato i prodotti e la distribuzione più dei processi produttivi. La competizione italiana è stata, dal dopoguerra, una competizione basata sull’efficienza e sulla flessibilità, sui prodotti di massa e sull’automazione. La fortuna della nostra industria delle macchine utensili e delle macchine specializzate per industrie tradizionali ne

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è stata una conseguenza. La necessità di far fronte, nelle piccole dimensioni, alle rigidità del lavoro che coinvolgevano le imprese maggiori ne ha costituito lo stimolo. La ricetta ha funzionato, e alla fine ha spiegato la permanenza in Italia di tante imprese efficienti nonostante le piccole dimensioni e l’appartenenza a settori produttivi non di frontiera. È questo il modello di competizione che ha retto fino alla metà degli anni Novanta, e che è saltato negli ultimi anni: non si vive solo di processi efficienti, specie se la tenuta dei prodotti sui mercati esteri richiede dosi successive di svalutazioni, che non sono più praticabili. Il catalizzatore di nuovi comportamenti della microeconomia è stato il cambio, percepito come irrevocabilmente fisso, dopo la grande svalutazione del 1992. Di fronte al cambio fisso e alle nuove sfide, gli imprenditori negli ultimi anni si sono occupati non di processi, ma della qualità del prodotto e della sua distribuzione nel mondo, e quindi di logistica. E ce l’hanno fatta. L’analisi articolata e scientifica di questo nuovo quasi-miracolo è tutta da fare, anche se qualcosa comincia a uscire. I valori per unità di peso delle nostre esportazioni - che costituiscono un’ottima approssimazione del contenuto di qualità dei prodotti - sono aumentati più che in tutti gli altri Paesi industriali, sostenendo valore aggiunto e profitti, e riducendo la reattività della domanda a variazioni di prezzo; il numero di mercati di esportazione dell’impresa media è aumentato sensibilmente; non è aumentato il numero di imprese esportatrici, ma chi c’è è più forte di prima. Al ristagno della domanda interna si è reagito non - come nei cicli passati - comprimendo i margini delle esportazioni, per far lavorare comunque gli impianti, ma aumentandoli, a riprova di una forza di mercato via via meno dipendente da costi e prezzi. Ci sono ancora molte domande senza risposta organica, sulla produttività, i cui indici forse andranno rivisti, sul ruolo dei distretti - che non sembra essere stato determinante - e sulla loro nuova forma organizzativa, per esempio, come anche sul peso dei settori ad alta tecnologia, sui quali abbiamo cominciato ad affacciarci, sia pure partendo da iniziative ancora disperse (si parla di oltre seicento potenziali spin off generati dalla ricerca universitaria in pochi anni).

L’élite di fatto che non diventa classe dirigente Personalmente, vorrei dedicare più tempo e risorse a capire e generalizzare, ma i fatti stilizzati sono grosso modo quelli descritti e ci indicano alcune cose. Sbaglia chi ha dato l’impresa manifatturiera italiana per condannata, e l’Italia destinata a essere solo patria di servizi e di reti; sbaglia chi ritiene che la tipica impresa italiana - familiare, piccola, specializzata sul tradizionale - sia fuori mercato per sua natura, appunto perché non quotata, non grande, non sulla frontiera del ciclo del prodotto. La prova del fallimento di questo modello d’impresa non c’è stata.

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Già all’inizio degli anni Ottanta - mentre da molte parti si parlava di crisi strutturale del capitalismo italiano - la scuola di Ancona e altri ci hanno fatto scoprire l’Italia dei distretti e del modello Nec (Nord Est Centro). Forse siamo di nuovo di fronte a qualche cosa di questo genere, a un nuovo modello in formazione, su cui saremo prima o poi chiamati a ragionare. Nell’attesa, mi permetto di proporre un punto di vista “provvisorio”. L’aver attribuito la debolezza della nostra economia in primis a quella parte di essa che forse più di altre si è rinnovata e ha resistito è stato un errore, un errore tanto più grande in quanto i problemi seri stavano, e stanno, altrove, e su di essi si è tardato a concentrare l’attenzione. I problemi del declino possibile vanno individuati nei settori meno esposti alla competizione. Spesso si afferma a torto che, data la fragilità della nostra industria, dobbiamo accontentarci di difendere dalla competizione internazionale ciò che rimane: non è così. Dove ci sottoponiamo apertamente alla concorrenza ce la facciamo (e sotto questo profilo il successo di Fiat è ancor più significativo, perché rappresenta un esempio, e non un’eccezione o un miracolo). Il punto è che le capacità delle imprese piccole e medie che ce l’hanno fatta sono ancora disperse, difficili da mettere a fattor comune, largamente individuali: stentano come si è

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visto a essere riconosciute anche dagli economisti e dalla politica, e non diventano una forza collettiva e un esempio, da estendere dove la concorrenza e la meritocrazia non vogliono penetrare, cioè nei servizi, nella pubblica amministrazione, nelle reti. I protagonisti che in questa vicenda sono riusciti a cavarsela, e cioè le centinaia di singoli imprenditori manifatturieri del Nord e del Centro del Paese, con qualche straordinaria punta al Sud, non si sono fatti sentire. È un’élite di fatto e di merito, ed è tale per i suoi risultati; è riconosciuta nei luoghi in cui agisce e da cui parte. Nelle nostre piccole e medie città, la figura dell’imprenditore che ce l’ha fatta, che ha da raccontare le sue avventure in Cina, in India, o altrove, torna a essere centrale, ma a livello nazionale la forza di questa élite non è emersa, non se ne avverte il peso propositivo, il senso collettivo di responsabilità, e questo non è un fenomeno positivo. C’è insomma un’élite (neo-élite l’ha chiamata qualcuno) che stenta a farsi classe dirigente. La coscienza di sé dell’Italia industriale che ha resistito ha poco respiro pubblico, non esce dagli ambiti familiari e locali. È un’élite che stenta a farsi classe dirigente perché stenta a elaborarsi e affermarsi come forza propulsiva nazionale e che tende, C’è insomma un’élite anzi, ad alimentare il senso diffuso di mal(neo-élite l’ha chiamata contento, di meriti non riconosciuti e di qualcuno) che stenta a sforzi non assecondati, che tende a limitarsi a rivendicazioni e mugugni sulla farsi classe dirigente. gestione della cosa pubblica, in primis le infrastrutture e le tasse. Assistiamo anche per questo alla riedizione di una curiosa “questione settentrionale”, che ruba la scena al meridione, mentre il Sud riprende a staccarsi e in alcuni casi a sprofondare. È un paradosso. L’Italia può dire di aver passato l’esame della parte più aspra della globalizzazione - gli anni della Cina, della fine delle svalutazioni, del ristagno della domanda interna - dimostrando che la parte più esposta e potenzialmente fragile della sua economia l’industria manifatturiera - sa rinnovarsi e resistere, e che la parte più fragile di questa parte fragile - l’industria manifatturiera tradizionale e familiare - fin qui ce l’ha fatta. Eppure questa Italia non è al centro della scena, che resta propria delle grandi imprese di servizio e di rete, che invece in alcune loro parti, nonostante una concorrenza meno aperta e difficile, hanno segnato il passo. È esattamente qui il problema della formazione di una nuova classe dirigente all’altezza del nuovo mondo, rappresentativa di ciò che l’Italia è e può essere. Da questa classe dirigente non può escludersi o autoescludersi una parte così importante del Paese. Il senso del lavoro, del successo ben guadagnato, sono in buona parte qui, nella piccola e media impresa che ce l’ha fatta. Ma sono qualità ancora troppo combinate con ristrettezze, provincialismi,

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scarso senso di sé e della responsabilità collettiva. Non ce la fa l’Italia senza questa energia, che può dare sostegno a politiche meritocratiche, di innovazione, di liberalizzazione, ma che può anche essere negativa, contribuendo alla disarticolazione del tessuto nazionale. Ritengo che questo tema, che ai miei occhi emerge come esempio di quanto c’è stato di buono nel nostro Paese in questi anni, e di quanto questo buono rischi di essere disperso, coinvolga gli individui - i singoli imprenditori - le loro organizzazioni, le articolazioni della nostra società civile, e la politica. È un tema che, per quanto mi riguarda, coinvolge anche le banche, con l’impegno di fare della più grande banca italiana la banca dei singoli territori e delle Pmi, ma anche della selezione nazionale dei meriti e della loro messa a fattor comune, come pure dell’aggregazione di imprese più grandi. Tutto ciò con l’obiettivo, che dovrebbe essere comune alle classi dirigenti del nostro Paese, a prescindere da schieramenti, ruoli, localizzazioni, di misurarsi con le tre grandi sfide della nostra società nazionale: le regole, la valorizzazione dei talenti trascurati - dei giovani e delle donne - e la nuova, e definitiva, questione meridionale. Ma questo è un altro tema. Note e indicazioni bibliografiche 1 L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003.

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Lo sviluppo dell’impresa familiare: le sfide della sussidiarietà di Giovanni Marseguerra

I

Il problema italiano della competitività

A distanza di due anni dalla nascita di «Atlantide», non è venuta meno la rilevanza del motivo ispiratore del primo numero della rivista (Ce la faremo? Tra precoce declino e rinnovato sviluppo, per riprendere il titolo dell’editoriale di Paolo Blasi e Giorgio Vittadini). Il nostro Paese continua a trovarsi a una svolta, in bilico tra sviluppo e declino. Nello stesso numero di «Atlantide», Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis, nell’esaminare il ruolo delle piccole e medie imprese per lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese, dopo aver riflettuto sulle caratteristiche distintive del sistema produttivo italiano, così cominciavano la parte conclusiva della loro relazione: «I punti di forza fin qui illustrati non ci mettono però al riparo dai pericoli che il nuovo contesto geoeconomico mondiale pone al nostro Paese: oggi l’Italia si trova a dover affrontare un serio problema di competitività»1. Anche questa riflessione e l’avvertimento a prendere sul serio i nostri problemi di competitività rimangono anche oggi più che mai rilevanti. In questo articolo intendiamo esaminare problemi e prospettive del nostro sistema produttivo, basato sulla piccola impresa familiare, cercando di mettere in luce quanto di positivo già c’è, soprattutto in termini di dinamismo e iniziativa imprenditoriale, e quanto di buono si potrebbe fare, evitando le semplificazioni di alcuni teorici del liberismo che, esaltandone le virtù taumaturgiche, ritengono il mercato capace di risolvere qualsiasi problema. Soprattutto ci occuperemo di principi, in particolare di quello di sussidiarietà, con l’intento di mostrare come su di esso si debba fondare lo sviluppo del nostro Paese in generale e del nostro sistema imprenditoriale familiare in particolare. Il nostro contributo intende così fornire una risposta basata sui fatti al marcato scetticismo che, purtroppo, spesso circonda questo principio.

GIOVANNI MARSEGUERRA È PROFESSORE STRAORDINARIO DI ECONOMIA POLITICA ALL’UNIVERSITÀ

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CATTOLICA DI MILANO.


Lo sviluppo dell’impresa familiare: le sfide della sussidiarietà di Giovanni Marseguerra

Le pmi, caratteristica del nostro sistema economico Il punto di partenza della nostra riflessione sui punti di forza e di debolezza dell’apparato industriale italiano è costituito dall’esame della rilevanza numerica del cosiddetto fattore dimensionale. Come è noto, il nostro sistema produttivo è composto per la gran parte da piccole e piccolissime imprese, da un numero estremamente ridotto di grandi imprese e da un crescente, ma ancora esiguo, numero di imprese di medie dimensioni. Questa elevata frammentazione dell’apparato produttivo si rivela una specificità tutta italiana, in un contesto europeo ove pure la piccola dimensione prevale, ma in misura meno marcata. Secondo le recenti rilevazioni pubblicate dall’Istat2, le imprese italiane attive nell’industria e nei servizi sono quasi 4,3 milioni (con una occupazione complessiva di circa 16,5 milioni di addetti). Di queste, le cosiddette microimprese (quelle con meno di dieci addetti) rappresentano complessivamente circa il 95% del totale (oltre quattro milioni di imprese) e occupano il 47% degli addetti, mentre le piccole imprese (da dieci a quarantanove addetti) costituiscono un po’ meno del 5% del totale (quasi 200.000 imprese) e occupano il 21% degli addetti. Per quanto attiene invece ai Paesi dell’Unione Europea a venticinque, secondo i dati Eurostat3 le microimprese rappresentano il 91,5% del totale, forniscono il L’azienda è il modo in cui 29,8% dell’occupazione e il 20,5% del valore aggiunto, menla persona mette in gioco tre gli analoghi dati per le piccole imprese sono il 7,3% (del le sue idee, la sua voglia totale delle imprese), il 29,8% (dell’occupazione totale) e il e capacità di rischiare, 19,1% (del valore aggiunto). Quindi, mentre in Italia le microimprese rappresentano quasi il 50% dell’occupazione, di intraprendere. in Europa non arrivano al 30%, a conferma che in Italia la piccola dimensione è particolarmente accentuata. La maggior parte di queste piccole attività imprenditoriali è caratterizzata dalla sostanziale coincidenza tra proprietà e controllo, nel senso che una medesima famiglia è al contempo coinvolta direttamente in maniera significativa nella gestione e detentrice di una rilevante quota di proprietà. Con una terminologia molto usata perché assai evocativa, ci si riferisce spesso a questa circostanza con l’espressione «capitalismo familiare», versione moderna del cosiddetto «capitalismo personale», che ha una lunghissima tradizione in Italia, specialmente nel mondo artigianale, e che è costituito da tutte quelle attività imprenditoriali in cui impresa e imprenditore si sovrappongono (per esempio, il nome stesso della società è quello dell’imprenditore oppure il marchio sul prodotto riproduce il cognome dell’imprenditore, etc.). L’azienda è il modo in cui la persona mette in gioco le sue idee, la sua voglia e capacità di rischiare, di intraprendere: il vantaggio competitivo dell’azienda è dato soprattutto dalle capacità e dalla reputazione della persona che la guida e che si identifica con essa. Nel capitalismo familiare la funzione imprenditoriale non è più svolta da una sola persona, ma da una o più persone a nome di una famiglia: i principi e lo spirito rimangono tuttavia i medesimi4. Dal punto di vista ideale, queste piccole e piccolissime

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imprese rappresentano una ricchezza senza pari per la nostra economia, perché in esse si concretizzano i valori dell’imprenditorialità e dello spirito di intrapresa, ovvero quella cultura d’impresa che significa capacità di assunzione del rischio, non disgiunta però dalla responsabilità verso chi partecipa all’impresa stessa. Quindi imprenditorialità, libertà e responsabilità: tre termini, tre concetti inscindibili perché l’imprenditorialità ha bisogno di libertà, e d’altronde non c’è vera imprenditorialità senza responsabilità. Accanto a un grande valore economico ne esiste dunque anche uno culturale non meno importante, e a ragion veduta queste imprese sono considerate la principale forza propulsiva dell’innovazione, dell’occupazione e anche dell’integrazione sociale.

Vantaggi e svantaggi della dimensione Nelle piccole imprese di famiglia coesistono la forma dimensionale ridotta e il carattere familiare della proprietà e del controllo, e se evidentemente ciascuna di queste due caratteristiche comporta vantaggi e svantaggi specifici, è tuttavia l’interazione delle due a creare una specificità economica del tutto peculiare5. I vantaggi e gli svantaggi della piccola dimensione sono ben noti: da un lato abbiamo la flessibilità organizzativa (con scambi interpersonali diretti, frequenti e informali), la flessibilità produttiva (possibilità di offrire prodotti personalizzati e di adeguare rapidamente l’offerta alla domanda), lo stretto legame con il tessuto locale (che comporta la conoscenza approfondita del mercato di riferimento e la possibilità di uno stretto contatto con i clienti); dall’altro vi sono però la scarsità di risorse umane qualificate (che comporta una generale debolezza degli aspetti gestionali) e la scarsità di risorse finanziarie (con una generale difficoltà nel reperire risorse per gli investimenti). Le piccole imprese a carattere familiare sono spesso caratterizzate anche da un’altra importante scarsità: quella di cultura di impresa. Il problema culturale consiste, in estrema sintesi, nella difficoltà che incontra l’imprenditore nel separare l’azienda da se stesso e dalla propria famiglia: questa difficoltà si manifesta sia nella riluttanza a perdere porzioni di controllo dell’impresa, che perciò fa fatica a crescere, sia nella scarsa propensione a valorizzare i dipendenti, che perciò patiscono un problema di crescita personale. L’accentramento delle funzioni di direzione e controllo in una stessa persona, l’imprenditore fondatore (o in un ridotto nucleo di persone, i familiari del fondatore) comporta quasi inevitabilmente una forte deresponsabilizzazione delle altre figure presenti in azienda, in primo luogo di quelle dirigenziali: il dirigente-manager esterno alla famiglia tende tipicamente a diventare più un esecutore della volontà del fondatore-proprietario (o dei suoi eredi) che un soggetto dotato di propria autonomia e responsabilità. Si genera così un circolo vizioso in cui, da un lato, l’impresa non riesce a cogliere le opportunità di crescita per insufficienza di competenze, professionalità e motivazioni e, dall’altro, non crescendo, comprime sempre più le professionalità che sono presenti, demotivando i più intraprendenti. La ridotta dimensione delle nostre imprese fa riflettere sotto molti profili e, certamen-

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te, quello della crescita dimensionale del sistema produttivo è uno snodo essenziale per il futuro del nostro Paese. Basti qui ricordare come dalla ridotta dimensione derivino una scarsa propensione ad avviare attività di ricerca e sviluppo formalizzate (caratterizzate da alti costi fissi e da elevata incertezza nei risultati) e una generale difficoltà a intraprendere investimenti formativi (particolarmente onerosi per una struttura organizzativa limitata), con un effetto complessivo fortemente negativo sulla crescita della produttività. La questione della crescita dimensionale deve però essere affrontata all’interno di una riflessione più generale su come costruire un autentico sviluppo capace di valorizzare risorse e capacità in un contesto di crescita economica e di accresciuta coesione sociale. A questo riguardo riteniamo oggi essenziale per il nostro Paese basare il suo modello di sviluppo sul principio di sussidiarietà6: altri modelli, come quello liberista anglosassone o quello nazionalista tecnocrate francese, che pure hanno indiscutibili meriti, non ci sembrano altrettanto appropriati.

Il ruolo della sussidiarietà Ma in che modo la sussidiarietà può concretamente aiutare le piccole imprese del capitalismo familiare nel loro indispensabile percorso di crescita? Come è ben noto, il nucleo centrale della sussidiarietà è costituito dalla valorizzazione della persona, in particolare della sua dignità, autonomia, libertà e responsabilità; la corretta applicazione di questo principio porta alla costruzione di capacità individuali e collettive, favorendo la maturazione e l’accrescimento delle potenzialità dei singoli e delle comunità di gestire in maniera attiva la propria vita sociale, lavorativa, familiare e politica. In un contesto come quello attuale, caratterizzato da una competizione aggressiva e da una dinamica di rapidi cambiamenti, far crescere un’impresa significa permetterle di avere continuità, ovvero permettere che l’impresa stessa si sviluppi «come comunità di uomini»7. Nella moderna economia della conoscenza la dimensione da sola non garantisce forza competitiva. Oggi un’impresa non è grande tanto (e comunque non solo) per il fatturato o per il numero di dipendenti, ma piuttosto per la ricchezza del suo capitale umano e per la sua capacità di creare e aggregare conoscenze e competenze, i veri asset della knowledge economy, da utilizzare poi per perseguire specifici progetti industriali. Per la piccola impresa familiare è dunque assolutamente vitale riuscire a costruire una nuova figura (di imprenditore, di dirigente, di quadro, etc.) che abbia le capacità e le competenze adeguate alle nuove sfide lanciate dalle recenti dinamiche di globalizzazione, caratterizzate dalla rapidità del cambiamento tecnologico unita a una intensa pressione competitiva su mercati internazionali sempre più allargati. In questo contesto, le economie in generale esprimono un fabbisogno crescente di capitale umano, e le piccole imprese familiari in particolare richiedono risorse umane sempre più qualificate e formate. Se infatti è importante un elevato livello complessivo di conoscenze e competenze, è però fondamentale che queste siano in grado di evolversi adattandosi alle continue trasformazioni in atto. A questo scopo, risulta indispensabile innalzare il livello medio dell’istruzione attraverso una opportuna valo-

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rizzazione del sistema scolastico e universitario. Tutto ciò richiede però tempo, perché i vantaggi di queste politiche si vedono con il passaggio di generazioni successive di giovani sempre più formati. È dunque necessario procedere anche in un’ottica di più breve periodo e, a questo riguardo, si impone la necessità che l’apprendimento accompagni tutta la vita delle persone e non si esaurisca con la fase tipicamente dedicata all’istruzione. Assume allora assoluto rilievo la formazione continua dei lavoratori: idealmente, l’istruzione e la formazioRisulta indispensabile ne professionale degli adulti non dovrebbero presentare soluzioni di continuità, così da permettere di soddisfare in modo innalzare il livello medio integrato le richieste del sistema economico e della società in dell’istruzione attraverso generale. Questa impostazione metodologica ha inoltre il meriuna opportuna to di porre al centro dell’analisi l’individuo, la persona, con i valorizzazione del suoi diritti e i suoi doveri. In altri termini, quando si esamini sistema scolastico in modo organico il processo di istruzione e formazione, ovvero di apprendimento, è la responsabilità personale che viene e universitario. ad assumere il ruolo principale, e la corretta applicazione del principio di sussidiarietà consente una vera valorizzazione dell’individuo. Accanto all’accrescimento personale e al perfezionamento professionale, a livello macro questo tipo di approccio, in cui la formazione degli adulti non è più residuale ma centrale, conduce anche a una maggiore coesione sociale e a una più sentita partecipazione alla vita sociale contribuendo, attraverso l’aumento del capitale sociale, a un miglioramento della performance complessiva del sistema.

Affrontare sfide non più rimandabili Il sistema produttivo italiano, caratterizzato da un modello innovativo spesso definito «senza ricerca» per i bassi livelli di spesa in ricerca e sviluppo, è stato tuttavia capace, dal dopoguerra a oggi, di produrre innovazione in modo consistente, generando complessivamente un processo di sviluppo per certi versi unico e straordinario. Nel corso degli ultimi anni, inoltre, le piccole imprese del nostro capitalismo familiare hanno ugualmente dato una straordinaria prova di forza e vitalità, nonostante le molte difficoltà competitive riconducibili alla pressione dei Paesi emergenti, all’euro forte, all’energia più costosa e alle molte inefficienze del sistema Paese. Questo modello deve oggi affrontare sfide non più rimandabili, se vuole imboccare con convinzione la strada dello sviluppo e allontanarsi dal pericolo del declino. Alle tante sfide poste dalle dinamiche dell’economia globale, le nostre imprese devono reagire con mentalità nuova, sfruttando le grandi potenzialità offerte dal capitalismo personale, che deve però imparare a non essere autoreferenziale ma ad aprirsi alla condivisione delle idee e dei progetti, valorizzando le persone per le loro capacità e competenze. Nel momento in cui le risorse naturali e il capitale fisico, un tempo solidi e decisivi vantaggi competitivi, perdono

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importanza rispetto alla conoscenza, all’informazione e al know-how tecnologico, la capacità competitiva di un’impresa, così come anche la sua capacità di crescere ed espandersi, è determinata in maniera sempre più decisiva dal suo investimento in capitale umano, che svolge un ruolo determinante nell’alimentare il cambiamento tecnologico e la sua diffusione8. Se saprà ricordarsi che «la principale risorsa dell’uomo insieme con la terra è l’uomo stesso. È la sua intelligenza che fa scoprire le potenzialità produttive della terra e le multiformi modalità con cui i bisogni umani possono essere soddisfatti»9, allora il nostro piccolo capitalismo familiare potrà garantire la crescita e lo sviluppo del nostro Paese, consentendo anche all’Italia di diventare davvero europea. Note e informazioni bibliografiche 1 A. Quadrio Curzio, M. Fortis, Piccole e medie imprese per lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese,

«Atlantide», n. 1/2005, p. 66. 2 Istat, Struttura e dimensione delle imprese, 6 ottobre 2006. 3 Eurostat, SMEs and Entrepreneurship in the EU, 5 ottobre 2006. 4 Per una efficace analisi socioeconomica del capitalismo personale, cfr. A. Bonomi, E. Rullani, Capitalismo personale.

Vite al lavoro, Einaudi, Torino 2005. 5 Cfr. G.Marseguerra, Le PMI del capitalismo familiare nell’economia della conoscenza, «Impresa & Stato» n. 77, otto-

bre-dicembre 2006; G. Marseguerra, Le imprese familiari: problemi di competitività e prospettive di sviluppo, «Civitas» n. 3/2005, pp. 81-95. 6 Cfr. A. Quadrio Curzio, Sussidiarietà e sviluppo. Paradigmi per l’Europa e per l’Italia, Vita e Pensiero, Milano 2002. 7 Ioannes Paulus P.P. II, Centesimus annus, Roma 1 maggio 1991, n. 35. 8 Lo scarso investimento in capitale umano comporta anche il rischio «che il Paese rimanga intrappolato in un circolo

vizioso, in cui la bassa dotazione di capitale umano induca assetti produttivi poco innovativi, che poi a loro volta distolgono dall’investimento in capitale umano, col risultato finale di rimanere vincolati ad attività obsolete e poco competitive», cfr. Rapporto ISFOL 2005 sulla Formazione continua, p. 2. 9 Ioannes Paulus P.P. II, Centesimus annus, cit., n. 32.

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Dalla società statica delle garanzie alla società mobile delle opportunità di Maurizio Sacconi

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Riconoscere la centralità della persona Una società ha futuro se investe su se stessa e sa immaginare e costruire il domani, se cioè dà prospettive, valori e certezze alle generazioni più giovani, a quelli che saranno gli adulti di domani. La dimensione del futuro è tuttavia debolmente riconosciuta dalla politica, a causa dell’invecchiamento della società e del continuo spostamento in avanti del baricentro anagrafico del corpo elettorale. Eppure la società italiana corre un concreto pericolo di declino in ragione della sua cronica bassa dotazione di capitale umano quale si può leggere negli indicatori relativi, oltre che alla natalità, alla scolarizzazione, all’occupazione, alla mobilità sociale, nonostante i positivi progressi avviati dalle recenti riforme; né può indurre a ottimismo il diffondersi di culture e proposte politiche che possiamo definire nichiliste perché tutte orientate a una ulteriore contrazione del nostro capitale sociale. Si iscrivono tra queste quelle che ottusamente difendono l’attuale assetto del sistema educativo, basato sull’autoreferenzialità corporativa del corpo docente, le tesi che enfatizzano la precarizzazione del lavoro giovanile, attribuendola alla legislazione sul lavoro, e rivendicano per i giovani un deresponsabilizzante salario garantito, le norme che ripropongono forme di prepensionamento precoce e le sanatorie che consolidano e attraggono flussi migratori dequalificati. Tali concezioni sono riconducibili, non a caso, agli stessi ambienti che propugnano il relativismo culturale o che confondono la famiglia nata dal matrimonio e finalizzata alla procreazione con qualsivoglia unione di fatto. Per queste ragioni occorre ripartire dal riconoscimento della centralità della persona, in sé e nelle sue essenziali proiezioni relazionali, come la famiglia e il lavoro. Lo sviluppo della persona, di ciascuna persona come di tutte le persone, lungo l’intero arco della vita, deve costituire l’obiettivo primario di ogni attività, delle istituzioni come dei corpi sociali, secondo principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Solo così sarà possibile offrire opportunità a tutti, ricchi e poveri, più o meno capaci, donne e uomini, residenti nelle aree forti come pure nelle periferie e nelle zone depresse.

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MAURIZIO SACCONI È MEMBRO DELLA COMMISSIONE LAVORO E PREVIDENZA SOCIALE DEL SENATO.


Dalla società statica delle garanzie alla società mobile delle opportunità di Maurizio Sacconi

Investire sui giovani Le politiche sociali devono diventare più ambiziose, non limitarsi cioè a intervenire in termini paternalistici e distributivi sul disagio sociale attraverso il solo sostegno assistenziale al reddito. Occorre dunque che le istituzioni e le parti sociali costruiscano le giuste condizioni nelle quali si possa esprimere il potenziale delle persone, massimizzandolo al livello, almeno, della loro autosufficienza nella società. Le politiche sociali devono dunque prevenire, in primo luogo, il formarsi di uno stato di bisogno intervenendo nel ciclo di vita delle persone, perché ogni sua fase determina le condizioni della fase successiva, a partire dalla prima infanzia. La crescita in famiglie svantaggiate induce più facilmente a incontrare difficoltà nel percorso scolastico, nell’ingresso nel mercato del lavoro, nella stessa salute dell’età adulta e genera riproduzione del disagio nelle generazioni successive. È necessario, allo stesso tempo, assorbire e correggere gli effetti negativi del passato e investire il più precocemente possibile sui giovani di oggi, per evitare che si riproducano nel futuro gli stessi insuccessi. L’investimento sui giovani è infatti determinante ai fini del riequilibrio demografico in quanto, promuovendo una loro più precoce e sostenibile autosufficienza, compresa una ben maggiore inclusione delle giovani donne nel mercato del lavoro, favorisce l’anticipo dell’età di matrimonio e l’incremento della natalità. La ragione del disagio di molti giovani rispetto al lavoro non è riconducibile alle forme contrattuali in sé che, tutt’al più, ne sono il sintomo. Secondo l’Istat i rapporti di lavoro a termine sono solo il 9,5 % del totale degli occupati e, senza calcolare i contratti a contenuto formativo che preludono a un lavoro permanente, rappresentano il 5,7% dei lavoratori dipendenti. In particolare, nel periodico rapporto del Cnel, si stimano a meno di 500.000 le collaborazioni a progetto a rischio di abuso o comunque di dipendenza socioeconomica da un solo committente. Il vero problema è rappresentato dall’età avanzata del primo impatto con il mercato del lavoro, sulla base di competenze spesso poco spendibili e senza nemmeno una minima esperienza lavorativa estiva. L’intrappolamento ai margini del mercato del lavoro si determina così per la somma di queste circostanze, la prima delle quali consiste nella mancanza di un percorso di studi qualificato, alternato con il lavoro e concluso nei tempi idonei. Una generazione giovane più attiva sostiene lo stato sociale - minato oggi dalla insufficiente contribuzione dei pochi attivi e dall’eccesso delle prestazioni assistenziali - attraverso la maggiore partecipazione al mercato del lavoro e alla fiscalità generale. Questo investimento è determinante non solo dal punto vista dello sviluppo sociale, ma anche di quello economico, in quanto accelera la transizione alla nuova economia della conoscenza attraverso la disponibilità delle competenze idonee a sostenere l’internazionalizzazione delle produzioni industriali, lo sviluppo dei servizi a più alto valore, l’innovazione tecnologica. Più in generale, esso promuove una società più disponibile al cambiamento non solo perché nel medio termine ne sposta il baricentro demografico verso le generazioni più inno-

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vative, ma anche perché, gia nel breve periodo, favorisce quel patto politico-sociale che fa gli adulti più consenzienti alle grandi trasformazioni se queste - pur rendendo instabile la loro condizione - offrono opportunità ai loro figli. Una società attiva rimuove ogni conflitto tra generazioni perché genera occupazione distribuita su tutte le fasce d’età attraverso la capacità delle sue istituzioni di offrire a tutti e in modi differenziati continue opportunità di inclusione nel mercato del lavoro.

Un modello fondato sulla responsabilità Istituzioni e famiglie devono offrire ai giovani un modello di comportamento fondato sulla responsabilità, in primo luogo quella di essere utili a sé e agli altri, sostenendolo con forme di protezione che, in un opportuno bilanciamento di diritti e doveri, garantiscano non gratuite e deresponsabilizzanti sicurezze, ma ricorrenti opportunità di inclusione e di crescita. Questo modello responsabile implica l’inversione del circolo vizioso nel quale sono rimasti intrappolati molti giovani posticipando le scelte fondamentali di vita, quali l’età di conclusione degli studi, quella della prima esperienza lavorativa, quella dell’uscita dalla famiglia di origine, quella del matrimonio e della procreazione. Ciascuno nei confronti della società ha il dovere di esprimere le proprie potenzialità, e il diritto di poterlo fare in un contesto che deve essere reso libero da condizionamenti di razza, credo religioso, politico o sindacale, sesso e censo. Il merito e i talenti devono essere riconosciuti e sostenuti, soprattutto quando appartengono a soggetti che provengono da famiglie bisognose, per cui necessitano di supporti utili a rendere pari le opportunità e mobile la società, ovvero dotata di ascensori sociali accessibili a tutti e priva di barriere visibili o “tetti di cristallo”. In questa prospettiva, le politiche pubbliche devono in primo luogo rivolgersi al sostegno - attraverso la leva fiscale, i trasferimenti monetari e, perfino, il voto plurimo - della famiglia in proporzione al numero dei componenti e alla precocità di costituzione, in modo che si alzino i tassi di natalità, tutti i bambini abbiano assicurato il migliore avvio nella vita, e una congrua età di matrimonio non sia inibita alle giovani coppie da ragioni economiche. Lo sviluppo plurale dei servizi di cura dei bambini, oltre ad agevolare la natalità e la conciliazione tra tempi di lavoro e di famiglia dei giovani coniugi, consente un adeguato investimento nell’educazione dell’infanzia attraverso la collaborazione tra genitori e strutture professionali liberamente scelte nella loro matrice culturale o nella loro appartenenza al pubblico come al privato. Ai giovani deve essere garantito e promosso il diritto-dovere ad almeno dodici anni di apprendimento di base attraverso la libertà di scelta delle famiglie, una pluralità di istituzioni educative, pubbliche e private, la personalizzazione e la flessibilità dei percorsi - scolastico e professionale - e il contrasto dell’abbandono precoce degli studi, anche mediante con-

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tratti di apprendistato che comprendano forme alternative di apprendimento. Le giovani generazioni devono poter accedere alla piena conoscenza delle radici identitarie della nostra civiltà e insieme degli elementi fondamentali - a partire dalle lingue più diffuse - per diventare cittadini del mondo, nella prospettiva di un’economia e di una società sempre più aperte alla libera circolazione delle persone, dei beni e dei servizi.

Università e lavoro Lo studio universitario richiede un adeguato orientamento correlato alle attitudini della persona e alle esigenze del mercato del lavoro e incentivi-disincentivi connessi al rispetto del periodo legale del corso di laurea prescelto, in modo che la conclusione almeno del primo modulo triennale dia luogo a conoscenze “spendibili” anche in ragione dell’età. L’università ideale, capace di accompagnare le persone all’acquisizione in età idonea di robuste conoscenze di base sulle quali innestare le prime competenze e un percorso di apprendimento continuo, deve essere caratterizzata da tasse di iscrizione più elevate e borse di sostegno ai meritevoli, come a chi sceglie percorsi di studio a carattere tecnico-scientifico, da atenei meno numerosi e più qualificati, non autoreferenziali ma motori di innovazione verso la società e l’economia del territorio, da un numero contenuto di corsi di laurea di “base” triennali che agevolino l’orientamento e le scelte, da un’assidua presenza intra moenia del corpo docente, dal progressivo superamento del valore legale del titolo in modo che venga stimolata la competizione qualitativa dell’offerta e la responsabilità della domanda. A questo proposito sono necessari interventi idonei a creare un mercato competitivo, come pure un più efficace sistema pubblico di valutazione degli “esiti” cui correlare una parte dei trasferimenti dal bilancio dello Stato, la possibilità di raccogliere finanziamenti dal settore privato, la promozione, da parte di enti di ricerca o associazioni imprenditoriali, di guide contenenti punteggi e classificazioni delle istituzioni scolastiche e universitarie. Educazione e lavoro non possono costituire mondi separati, e ciò si può evitare a partire dal riconoscimento del valore delle esperienze lavorative in alternanza agli studi come parte del processo educativo, fino all’organizzazione di moderni uffici di placement negli istituti superiori e nelle università, canali di dialogo biunivoco tra scuola ed economia del territorio, utili anche a spezzare ogni tentazione autoreferenziale e corporativa della docenza.

Un mercato del lavoro per i giovani Un mercato del lavoro trasparente ed efficiente, grazie a infrastrutture quali l’Anagrafe dei lavoratori, la Borsa nazionale del lavoro e una pluralità di fornitori di servizi pubblici e privati, costituisce la necessaria condizione per un più agevole accesso dei giovani al lavoro e per politiche mirate di accompagnamento all’occupazione.

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Solo in questo contesto infatti possono risultare efficaci gli istituti rivolti a facilitare la transizione dalla scuola al lavoro, come i tirocini, i contratti di inserimento per i giovani disoccupati di lungo periodo, i contratti di apprendistato professionalizzante - utili anche a recuperare e riqualificare gli studenti “tardivi” - e quelli di apprendistato per le alte professionalità che consentono, attraverso il lavoro in aziende convenzionate con l’università, di conseguire titoli universitari o post lauream, conciliando così completamento degli studi ed età di ingresso nel mercato del lavoro. I contenuti formativi nei primi contratti di lavoro sono decisivi per stabilirne la buona qualità perché preparano un’inclusione sostenibile nel mercato del lavoro, mentre i rapporti di lavoro di bassa qualità sono la conseguenza di titoli di laurea poco spendibili e conseguiti in età avanzata, quando il primo impatto con il lavoro dà luogo a diffidenza dell’imprenditore e minore disponibilità del lavoratore a una ulteriore fase di apprendimento. Questa via è alternativa alla proposta di forme di salario garantito per gli inoccupati, i quali, più che di pesci, hanno bisogno di canne per pescare, come prestiti d’onore, borse di studio e contratti formativi incentivati. La riforma degli ammortizzatori sociali, già disegnata dal Patto per l’Italia, si rivolge invece ai disoccupati con pregresse esperienze lavorative i quali, per un rientro tempestivo nel mercato del lavoro, Solo giovani hanno bisogno di una stretta correlazione tra sussidio, formacapaci di essere utili a sé zione e servizi di ricollocamento. La probabile necessità di ricorrenti cambiamenti nelsapranno essere l’occupazione diventa opportunità per le persone “occupabiutili agli altri. li”, che hanno saputo e voluto percorrere il circolo virtuoso di una buona educazione di partenza, di precoci esperienze lavorative nello stesso periodo e di un tempestivo ingresso nel mercato del lavoro accompagnato da un’adeguata formazione iniziale, premessa di forme di apprendimento continuo. La libera professione, l’autoimprenditorialità e la connessa cultura del rischio d’impresa meritano apprezzamento sociale e sostegno istituzionale, a partire dal superamento di tutte le barriere che ostacolano questa scelta nei più giovani, dalle ingiustificate protezioni corporative, alle complessità burocratiche, al difficile accesso al credito. È possibile accelerare l’accesso dei giovani alle libere professioni senza rinunciare al filtro dell’esame di Stato, a tutela del mercato, se la pratica professionale si realizza, attraverso tirocini e perfino contratti di apprendistato, già durante il percorso universitario sulla base di convenzioni tra ordini, studi professionali e università. Il sistema finanziario e creditizio deve svolgere con lungimiranza un’insostituibile funzione di investimento nei talenti, dalla fase scolastica a quella delle prime esperienze lavorative, sulla base di dichiarati e trasparenti parametri di comprovata capacità e volontà della persona, e non di impossibili garanzie reali. La prospettiva di una vita lavorativa dinamica, potenzialmente caratterizzata da espe-

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rienze di lavoro di vario genere, tanto dipendente quanto indipendente - conseguenza della breve vita media delle imprese e della legittima aspirazione a migliori espressioni delle proprie potenzialità - , impone un sistema previdenziale pubblico di tipo contributivo, abilitato a cumulare tutti i periodi assicurativi, cui si aggiungono forme complementari, individuali o collettive, che richiedono una responsabile capacità di autoorganizzazione almeno sin dalla conclusione degli studi superiori. Ne diventa condizione una compiuta libertà di scelta, iniziale e continua, rispetto alle diverse soluzioni.

Un nuovo clima culturale Tutte le considerazioni sopra esposte si rivolgono - a maggior ragione - anche ai giovani immigrati che ancor più pagano le conseguenze di istituzioni autoreferenziali, e di una società bloccata da improprie garanzie - tarate sulle generazioni adulte - e da insufficienti stimoli alla mobilità sociale. Essi possono rappresentare una risorsa essenziale in una comunità a bassa natalità, come pure un problema esplosivo ove siano discriminati, emarginati e privati della speranza nel futuro, e vanno sostenuti in modo che sia eliminata ogni barriera nell’accesso al sistema educativo, al mercato del lavoro, alla stessa possibilità di intraprendere: l’autoimpiego è straordinario fattore di integrazione sociale, oltre che di partecipazione allo sviluppo economico. Si deve insomma creare nella società un diffuso clima culturale orientato ad attribuire valore, fiducia, ruoli di responsabilità ai giovani perché questi, attrezzati al futuro, vivano con entusiastica curiosità le molte variabili del nostro tempo, pronti a coglierne tutte le opportunità per il maggiore benessere proprio e della comunità. Tale clima deve investire anche il rinnovamento politico e istituzionale per la evidente disponibilità dei più giovani al pensiero “lungo” e alla progettualità riformatrice. Un autentico ricambio generazionale nelle funzioni pubbliche può essere tuttavia solo la conseguenza della riattivazione dell’ascensore sociale: è una ragione in più per procedere con determinazione alla rimozione di tutti quei freni che lo hanno bloccato, a partire dai nefasti anni Settanta dopo l’intensa mobilità sociale dei due decenni precedenti. Solo giovani capaci di essere utili a sé sapranno essere utili agli altri.

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L’università come fattore di competitività territoriale di Adriano De Maio

I

I compiti fondamentali dell’università «La competizione fra territori è già elevata e, probabilmente, aumenterà ancora». «L’università è uno dei fattori che influenzano in misura rilevante la capacità competitiva di un territorio». Queste due affermazioni si sentono ripetere da molte parti, in molte occasioni e da molto tempo. Non sembra necessario quindi metterle in discussione, ma è importante analizzarne qualche aspetto specifico, incominciando dalle attività “produttive” in senso stretto. L’innovazione, per queste attività, rappresenta il fattore chiave del successo e, di conseguenza, le università sono chiamate ad assolvere a quattro “missioni”, che chiameremo compiti fondamentali. Innanzitutto abbiamo la formazione di professionisti con competenze adeguate, tali da poter giocare un ruolo di innovatori lungo tutto il processo produttivo (includendo ovviamente anche la ricerca e lo sviluppo); in secondo luogo, la ricerca e il continuo approfondimento nei diversi campi del sapere; in terzo luogo il trasferimento delle scoperte al tessuto industriale; in quarto luogo la creazione di nuove imprese. Questi quattro compiti sono, o dovrebbero essere, la base portante innanzitutto di qualsiasi università “tecnica” e delle discipline ingegneristiche, ma anche di quelle scientifiche in senso lato. I confini fra scienza e tecnica, infatti, si sono via via ridotti e così pure, in molti casi, non ha più senso la distinzione fra ricerca “di base” e “applicata”. Questa osservazione è già in sé rilevante e, per tradursi efficacemente nel concreto, richiederebbe sia un cambiamento culturale sia modifiche delle regole universitarie, come analizzeremo più oltre. Inoltre, è ormai chiaro a tutti che, quando si parla di attività produttive, non ci si può limitare agli aspetti tecnologici, ma devono essere considerate anche le competenze di natura economica, finanziaria, giuridica, sociale e così via. Queste attività, infatti, non solo costituiscono i supporti fondamentali alle imprese tecnologiche, ma danno anche luogo, in misura sempre maggiore, a iniziative imprenditoriali, oltre che professionali, autonome. Assistiamo così a un’altra riduzione della differenziazione: in questo caso la maggiore integrazione riguarda il secondario e il terziario. Il secondario tende a una sempre maggiore dematerializzazione, e il terziario ha sempre più bisogno di una forte

ADRIANO DE MAIO È ORDINARIO DI ECONOMIA E GESTIONE DELL’INNOVAZIONE AZIENDALE ALLA

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LUISS DI ROMA E PRESIDENTE DELL’IRER.


L’università come fattore di competitività territoriale di Adriano De Maio

componente scientifico-tecnologica. Gli stereotipi però sono duri a morire e spesso sentiamo riproporre questa separazione quale elemento discriminante; si parla così di società più o meno avanzate in base alla percentuale di attività terziaria. Ma è possibile immaginare una qualsiasi attività terziaria senza tecnologia informatica o, addirittura, una qualche possibilità di disporre di software avanzati senza un hardware coerente?

L’importanza del territorio Un territorio ha tanta più possibilità di competere con altri territori quanto più possiede al proprio interno un insieme di università - scientifiche, tecnologiche, economiche, giuridiche, sociali - di alto livello, che assolvano quelli che abbiamo detto essere i quattro compiti fondamentali. È importante inoltre che tutte queste competenze siano il più possibile presenti congiuntamente, perché uno degli aspetti più interessanti è la capacità di operare in modo sinergico su problemi Il motore di che aumentano di complessità, e questo è possibile nella misura in cui esistono una cultura e un linguaggio comuni: da competitività, successo, qui la necessità di un forte interscambio culturale. sviluppo, è dato dalla Le ricerche, antiche e recenti, sulla competitività e, presenza sul territorio conseguentemente, sull’attrattività dei territori, mettono inoldi persone di alto valore tre in luce che, come è facile osservare, una qualsiasi attività produttiva può svilupparsi e avere successo soltanto se il cone dalla capacità testo nel suo complesso è armonico e coerente. Sono pertandel territorio stesso to richieste infrastrutture adeguate, e qui si ritorna alle prodi attrarre talenti blematiche precedenti, in quanto le infrastrutture “di base”, brillanti. dai trasporti, alla logistica, alla finanza, richiedono lo stesso tipo di competenze prima accennate. Gli studi più recenti hanno anche messo in luce che l’ambiente circostante è tanto più favorevole, quanto più è presente un sistema sanitario e scolastico di alto livello; forti fattori di attrattività sono inoltre la sicurezza, la disponibilità di intrattenimenti di vario tipo, da quelli culturali (musei, musica, teatri) a quelli sportivi e, soprattutto - aspetto questo scarsamente messo in evidenza - la bellezza! È facile a questo punto capire che il ruolo e il compito di determinare la capacità di attrazione di un territorio si può estendere praticamente a tutte le discipline presenti in una università; in tal modo si sta riscoprendo proprio il suo valore di universitas! L’aspetto forse più importante che sta alla base di tutte queste considerazioni è che il motore di competitività, successo, sviluppo, è dato dalla presenza sul territorio di persone di alto valore e dalla capacità del territorio stesso di attrarre talenti brillanti.

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L’università come fattore di competitività territoriale di Adriano De Maio

I problemi delle nostre università L’università è il fattore di richiamo e di crescita di talenti brillanti, che costituiscono il prerequisito per ogni sviluppo; che poi si dia origine a una dinamica virtuosa, per cui tanto più competitivo è un territorio, tanto più aumenta la sua attrattività e, quindi, la sua stessa capacità competitiva, è un fenomeno anch’esso evidente. Se questa analisi è corretta, bisogna dunque chiedersi se, attualmente, la nostra università abbia il desiderio e la capacità di giocare questo ruolo. La risposta è che, tranne alcune eccezioni, che però stentano comunque a emergere perché il contesto complessivo è sfavorevole, se non addirittura ostile, attualmente l’università non solo non gioca tale ruolo e, in molti casi, non è in grado di assumerlo, ma anche, purtroppo, talvolta, non si pone nemmeno il problema. È inutile tentare qui una disamina di tutti gli aspetti negativi, perché ciò implicherebbe anche sottacere quelli positivi che indubbiamente sono presenti e facilmente riconoscibili, non fosse altro per il fatto che i nostri studenti, almeno i migliori, sono apprezzati in tutto il mondo, sia che continuino il loro percorso di studio nei migliori atenei e centri di ricerca, sia che entrino in altri percorsi professionali. Desidero invece mettere in evidenza alcuni aspetti che dovrebbero essere attentamente valutati da parte del mondo politico, delle aziende, della stessa accademia e di tutti coloro a cui sta a cuore il territorio in cui viviamo, sia esso ridotto alle minime dimensioni geografico-amministrative (comune), sia esso dilatato fino a comprendere tutta l’Unione Europea. Il primo richiamo riguarda il fatto che spesso si discute sull’università come se potesse essere considerata un mondo a sé stante, senza tener conto da un lato del contesto sociale e culturale, legato per esempio ai mass media, e, dall’altro, dell’intero processo formativo, a partire dalle scuole primarie. Dal momento che in questa sede non è possibile esaminare aspetti molto importanti legati, per esempio, all’immagine e alla percezione di ruolo degli insegnanti o dei tecnici, vogliamo esclusivamente analizzare gli aspetti relativi alla cosiddetta “filiera formativa”. Come abbiamo avuto modo di analizzare e discutere in molteplici occasioni, quando un giovane arriva all’università, per molti versi è gia formato, nel bene e nel male, non soltanto perché ha acquisito determinate competenze ma, soprattutto, perché ormai ha un’impostazione di metodo e un’abitudine comportamentale che è difficile mutare. Non è detto inoltre che tutti debbano proseguire gli studi all’università e, quindi, la scuola deve fornire gli elementi tali per cui chi non possiede la voglia o la capacità di proseguire gli studi possa accedere al mercato del lavoro in modo decoroso, trovandosi in molti casi ad assumere posizioni altrettanto importanti per assicurare, per esempio, la capacità innovativa in un’impresa o, addirittura, per collaborare attivamente a un’attività di ricerca di frontiera. Troppo spesso si è sottostimata l’importanza di questo problema e sarebbe ora di riflettervi in modo serio. Si parla sovente del deficit di rapporti fra università e impresa, ma quante volte si analizza il deficit fra scuola secondaria superiore e impresa, quando invece per molti decenni questo è stato il plus del nostro sistema scolastico rispetto a quello di altri Paesi? Perché

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non si deve immettere un giovane, nel periodo più stimolante della sua vita, nel lavoro produttivo, sfruttando la sua intelligenza e la sua voglia di fare, e lo si obbliga invece ad annoiarsi, demotivarsi, perdere tempo, nel tentativo, in alcuni casi inutile, di conquistare faticosamente una laurea e un inflazionato titolo di dottore, magari in qualche astrusa disciplina, utile soltanto perché permette di istituire un certo numero di cattedre? Porsi questo problema comporta però la necessità di affrontare argomenti difficili e che si preferisce evitare, quali il significato di termini come diritto allo studio, uniformità e omologazione, selezione, valutazione, merito, prevalenza del metodo sui contenuti specialistici specifici e così via. Sembra che esista una legge non scritta, ma non per questo, o forse per questo, meno severa, che vieti di affrontare questi argomenti; solo a proporli si viene catalogati e immediatamente messi alla berlina. Venendo poi a considerare l’università al suo interno, vogliamo soltanto citare alcuni problemi che riducono le sue potenzialità di assolvere i compiti fondamentali di cui abbiamo parlato. Innanzitutto segnaliamo la scarsa flessibilità e la rigidità delle norme, la più gravosa delle quali riguarda la difficoltà a superare i vincoli disciplinari, quando invece la realtà sta diventando sempre più complessa, dinamica e articolata. Si parla poi, ed è polemica recente, di età media avanzata del personale docente universitario, accusando le baronie di tenere occupate le cattedre senza far largo ai giovani; spesso però alcuni di questi critici si accaniscono anche contro la precarietà del posto di lavoro dei giovani ricercatori, chiedendone a gran

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voce l’inserimento in ruoli fissi: non è proprio questa una delle principali cause dell’età media elevata? Un altro problema è che difficilmente esiste un mercato del lavoro per i ricercatori e gli accademici, al di fuori degli istituti di ricerca e dell’università. Per inciso, non è questo un problema che riguarda anche la pubblica amministrazione? Non bisognerebbe dunque considerare la necessità di formare i giovani ricercatori in modo tale che soltanto alcuni possano fare carriera all’interno dell’università, e gli altri siano messi in condizione di trovare un lavoro esterno, che risulti comunque interessante? Quali possono essere gli interventi più efficaci per facilitare, stimolare, premiare le università che abbiano la voglia e la capacità di assolvere ai propri compiti fondamentali? Se, per esempio, le università devono sostenere anche il compito del trasferimento tecnologico, non è forse necessario organizzarsi in modo tale da prevedere carriere parallele, distinte da quelle accademiche, ma non per questo meno appetibili? Le fondazioni universitarie all’inizio non erano state pensate anche per svolgere questo compito? I continui moniti non soltanto sono inutili, ma possono risultare anche dannosi, in quanto non permettono di affrontare in modo serio i problemi; così pure l’eccessivo peso attribuito a questioni solo parzialSe la liberalizzazione mente rilevanti distoglie l’attenzione dai e la competizione sono le nodi centrali. L’invenzione di modelli di leve principali per un governo delle università è, per esempio, continuo miglioramento, un falso problema, in quanto abbiamo esempi concreti di università che funzioperché questo deve nano bene o male, e che hanno sistemi valere per tutti i contesti simili di governo. Allo stesso modo, è sicua eccezione delle ramente vera l’affermazione che mancano università? risorse, ma il punto più critico riguarda la qualità più che la quantità: fino a quando non saranno individuati efficaci metodi di valutazione, di selezione, di merito, l’aumento di risorse da distribuire inciderà molto poco sul nostro sistema universitario, cosa che invece capiterebbe se si adottassero criteri selettivi. Si è visto però che seri criteri di valutazione della ricerca sono fattibili, ma molto costosi e, soprattutto, richiedono tempi di messa a punto non brevi; inoltre, purtroppo, nel passato abbiamo avuto troppi esempi in cui buona volontà e dichiarazioni di intenti assolutamente condivisibili si sono poi rivelati poco efficaci a causa della straordinaria abilità di alcuni di attivare opportune modifiche. Il ricorso a valutatori stranieri, per esempio, è sicuramente buona cosa, ma ci riporta all’epoca in cui il podestà doveva provenire da un altro comune: sappiamo tutti quale era, in molte situazioni, il suo effettivo grado di autonomia. I nostri accademici hanno molte relazioni con l’estero, e non è difficile trovare un valutatore un poco di parte. Ma anche questo non bisogna dirlo, e occorre fare finta che, purché non sia italiano, ogni accademico sia “perfetto”.

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L’università come fattore di competitività territoriale di Adriano De Maio

Liberalizziamo l’università Vorrei a questo punto indicare una strada che probabilmente non è la migliore, e sicuramente non è l’unica, ma, rispetto a tutte quelle finora proposte, mi sembra la sola praticabile. Liberalizziamo l’università: che ciascuna università si trovi a competere sul libero mercato. Riduciamo il più possibile i vincoli per la selezione, il reclutamento, la carriera, il salario dei dipendenti e, contestualmente, permettiamo che ciascuna università ponga i vincoli che desidera agli ingressi di studenti, e definisca la strategia per attrarre i migliori (studenti, ricercatori, professori) da tutte le parti del mondo, dove la valutazione di migliore è rapportata alla strategia stessa. Quando, in tal modo, l’università si accorgerà di dover competere sul mercato, per prima cosa dovrà individuare il mercato, potenziale e di interesse proprio, e dovrà fare in modo di anticiparne le esigenze, per essere in grado di fornire il prodotto migliore, continuamente innovato, come deve fare chiunque si trovi a competere. Ci si accorgerà allora che esiste il mercato, e che il mercato è molto differenziato, sia come tipologia (le famiglie, l’industria, la ricerca, etc.), sia come richieste (il livello di qualità che si esige non è sempre lo stesso), sia come estensione territoriale. Chi vorrà competere sul mercato locale con determinate caratteristiche prenderà quindi decisioni sicuramente diverse da chi tenterà di competere con le migliori università nel mondo, e da chi avrà come obiettivo quello di essere il fattore trainante di un territorio ad altissima competitività e capacità di attrazione per talenti brillanti e investitori da tutto il mondo, in modo tale da generare sempre nuove iniziative industriali. Se la liberalizzazione e la competizione sono le leve principali per un continuo miglioramento, perché questo deve valere per tutti i contesti a eccezione delle università? In gran parte del mondo occidentale, le università operano appunto in un mondo libero e, laddove questo non avviene, per esempio in Cina, i criteri di valutazione, selezione e merito sono severissimi. Poiché siamo ben lontani da sistemi politici quali quello cinese e pochi - penso - lo ritengono un modello da imitare, la strada che sembra opportuno seguire è proprio quella della liberalizzazione. Vogliamo almeno discuterne?

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Il dibattito estero

LA DISCUSSIONE SU “CHE FARE” NON È CERTAMENTE SOLO ITALIANA E IL DIBATTITO IN CORSO IN ALTRI PAESI PUÒ ESSERE MOLTO UTILE PER FORNIRE SE NON SOLUZIONI, SEMPRE DIFFICILMENTE ESPORTABILI TALI E QUALI, SPUNTI INTERESSANTI PER APPROFONDIRE IL CONFRONTO IN CASA NOSTRA. SOTTO QUESTO PROFILO È PARTICOLARMENTE STIMOLANTE IL CASO DELL’IRLANDA, UN PAESE DALLA STORIA MOLTO TRAVAGLIATA, CHE, DOPO AVER RISCHIATO DI DIVENTARE IL CASO CLINICO DELL’EUROPA, NEGLI ULTIMI ANNI SI È TRASFORMATO NELLA TIGRE CELTICA, RICALCANDO IL SUCCESSO DELLE PIÙ FAMOSE TIGRI ASIATICHE. IMPORTANTE, INOLTRE, È CERCARE DI CAPIRE QUALI SONO LE DIREZIONI PRINCIPALI IN CUI SI MUOVERÀ L’EUROPA SOTTO L’APPENA INIZIATA PRESIDENZA TEDESCA; I DUE INTERVENTI RIPORTATI METTONO IN PRIMO PIANO LA NECESSITÀ DI DIFENDERE IL MODELLO EUROPEO DI STATO SOCIALE DI FRONTE ALLE PRESSIONI DELLA GLOBALIZZAZIONE E L’IMPORTANZA DI ACCELERARE I PROCESSI DI INTEGRAZIONE EUROPEA, PER I QUALI VIENE RIBADITA L’ESTREMA IMPORTANZA DELL’EDUCAZIONE NEI SUOI VARI ASPETTI. LA RIFORMA DEL WELFARE È AL CENTRO DELL’ATTUALE CONFRONTO POLITICO IN ITALIA ED È INTERESSANTE RILEVARE CHE LA RIFORMA SANITARIA È UNO DEI PUNTI, INSIEME ALLA SICUREZZA, SU CUI SI STA SVILUPPANDO LA CAMPAGNA PER LE ELEZIONI PRESIDENZIALI NEGLI STATI UNITI. QUESTO DIBATTITO PARTE DA UNA SITUAZIONE DEL TUTTO DIVERSA E, PER CERTI VERSI, INCOMPRENSIBILE PER NOI EUROPEI, ABITUATI A DARE PER SCONTATO IL PRINCIPIO DELL’ASSISTENZA SANITARIA UNIVERSALE. MA È SIGNIFICATIVO CHE IL CONFRONTO DEI PROGRAMMI DEI VARI CANDIDATI, AL DI LÀ DELLE SOLUZIONI TECNICHE PROPOSTE, PONGA IN LUCE COME IL VERO PUNTO IN DISCUSSIONE SIA PIÙ IN GENERALE IL MODO IN CUI SI CONCEPISCE LA SOCIETÀ E IL RUOLO IN ESSA DELLA PERSONA. QUESTO DIBATTITO, COME MESSO IN EVIDENZA NELL’AMPIO COMMENTO DI MASSIMO GAGGI, FINISCE QUINDI PER PORRE ALCUNE DOMANDE ANCHE SULLE SOLUZIONI DATE A QUESTO PROBLEMA IN EUROPA.


L’eredità del Capotribù grasso. Come l’Irlanda è diventata la Tigre celtica di John Waters

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Una storia strana e misteriosa

La scorsa estate, alcuni giorni dopo la morte dell’ex primo ministro irlandese, Charles Haughey, la rete televisiva nazionale irlandese Rte ha trasmesso, per pura coincidenza, un episodio di una serie in onda da molto tempo chiamata Reeling in the Years (letteralmente “sbobinando negli anni”). Ogni episodio del programma presenta un anno di calendario, mostrando clip di repertorio su importanti eventi di cronaca del tempo, senza commento, ma associati alla musica pop dell’epoca. L’anno illustrato in quell’episodio era il 1987, probabilmente l’anno in cui l’economia irlandese ha toccato il fondo. La maggior parte delle notizie erano negative: elevato tasso di disoccupazione, emigrazione e debito nazionale in pessimo stato, ma un’immagine mostrava il neoeletto Charles Haughey nel bel mezzo di ciò che sembrava un campo fangoso, mentre annunciava che il luogo in cui si trovava sarebbe diventato il fulcro di una nuova Irlanda. All’epoca della sua prima trasmissione, forse al telegiornale della sera in un giorno del 1987, è probabile che lo spezzone sia stato accolto con quell’estenuante scetticismo che caratterizzava allora l’atteggiamento degli irlandesi nei confronti della propria classe politica. Oggi, quasi vent’anni dopo e a pochi giorni dalla morte di questo controverso politico irlandese, esso ha acquisito un nuovo significato. Infatti la previsione fatta quel giorno da Charles Haughey si è nel frattempo avverata: il terreno fangoso nel quale si trovava è diventato oggi il Dublin’s International Financial Services Centre (Centro dei servizi finanziari internazionali di Dublino), e l’Irlanda che lo circonda è completamente differente dal Paese che all’epoca aveva accolto l’impulsiva retorica di Haughey con estremo cinismo e pregiudizio. Nei quindici anni trascorsi da quando lasciò l’incarico nel 1992, Haughey è stato al centro di un dibattito ancora più acceso di quello che ha accompagnato la sua carriera politica. A poco a poco è infatti emerso che facoltosi uomini d’affari avevano sostenuto per molti

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JOHN WATERS È EDITORIALISTA DEL THE IRISH TIMES.


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anni il suo stravagante stile di vita, donando l’equivalente di quarantacinque milioni di euro per consentirgli un tenore di vita mediceo durante i trentacinque anni della sua carriera politica. La partecipazione ai funerali di stato di Haughey è stata notevolmente inferiore alle aspettative, e questo riflette il perdurante senso di indignazione da parte della popolazione per l’abuso di una carica pubblica. Tuttavia, alcuni giorni dopo, il servizio ha sottolineato l’ambiguo contributo di questo straordinario personaggio politico della recente storia irlandese, e mi ha permesso di ricordare una frase utilizzata molti anni prima da mio padre per definirlo. «Haughey - diceva - è “il Capotribù grasso”», e il popolo irlandese si era aggrappato a lui perché, in qualche modo, aveva promesso di farci diventare grassi come lui, e nel profondo volevamo crederci. Lo spezzone sbiadito del 1987 ci ha ricordato che, sia pure in un modo un po’ contorto, Haughey ha mantenuto la promessa. Nel febbraio 1987, Haughey era stato rieletto come leader di un governo Fianna Fail1 di minoranza. Aveva ereditato un’economia allo sfascio, che a detta di tutti aveva contribuito largamente a determinare. Era stato capo di governo più volte tra il 1975 e il 1982, e non era riuscito a far fronte a una crisi economica sempre più profonda, ma dopo quattro anni di una coalizione di centrosinistra che aveva raddoppiato il debito pubblico, vi era la sensazione che, nel caso l’Irlanda avesse avuto l’occasione di invertire il proprio destino economico, Haughey avrebbe potuto essere il migliore in una banda di incapaci. Egli aveva condotto la campagna elettorale opponendosi alla tendenza prevalente di un’economia punitiva, con una piattaforma che prometteva politiche di sviluppo e nessun taglio alle spese. Una volta eletto, tuttavia, egli aveva fatto propria la saggezza economica convenzionale del periodo, introducendo una drastica serie di tagli alla spesa pubblica. L’International Financial Services Centre, la brillante idea di un giovane e affermato uomo d’affari irlandese, Dermot Desmond, che era diventato amico di Haughey a metà degli anni Ottanta, è stata forse l’unica nota positiva in un coro generale di desolazione e pessimismo.

Alcuni fattori del successo Ho raccontato questi avvenimenti in modo così dettagliato nella speranza di trasmettere il senso di ambivalenza che il popolo irlandese ora considera come l’origine del successo continuo di quella che da un decennio viene definita la Tigre celtica. Occorre qualcosa in più di un’analisi economica per spiegare perché l’economia irlandese, nell’arco di qualche anno soltanto, è passata dall’essere un caso disperato a ciò che la rivista «The Economist» definiva, nel 1997, «una stella europea che brilla di luce propria». È una storia strana e misteriosa, che sotto certi punti di vista sembra un miracolo, un fenomeno che è quasi impossibile analizzare in termini convenzionali, poiché non è possibile separarlo dai sentimenti tribali e moralistici di una cultura politica che resta radicata nella lotta del Paese, durata otto secoli, per liberarsi dalle indesiderate attenzioni del suo vicino.

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Alcuni ingredienti fondamentali hanno indubbiamente contribuito, negli anni Novanta, a creare condizioni estremamente favorevoli. Tra questi, il fattore più a lungo termine è rappresentato dai risultati di una serie di politiche in materia di istruzione risalenti agli anni Sessanta, quando un precedente governo Fianna Fail introdusse l’istruzione scolastica di secondo grado e il trasporto scolastico gratuiti. Insieme al boom demografico, che si sviluppò con un po’ di ritardo rispetto al resto dell’Europa, questo fattore ha dato origine a una generazione di giovani con un elevato grado di istruzione proprio nel momento giusto per raccogliere i frutti della prima ondata di una nuova e più radicale forma di globalizzazione. Questa generazione, che nel corso degli anni Ottanta aveva lasciato in massa il Paese alla ricerca di lavoro negli Stati Uniti o nel Regno Unito, negli anni Novanta ha potuto far ritorno in patria, e oggi l’Irlanda possiede il più alto livello pro capite di immigrazione in Europa, accogliendo centinaia di migliaia di europei dell’Est per soddisfare la domanda costante dell’economia irlandese di lavoratori specializzati e istruiti. All’improvvisa trasformazione dell’economia nazionale ha contribuito anche l’elevato livello dei finanziamenti dai fondi strutturali e di coesione, di cui l’Irlanda ha potuto disporre soprattutto all’inizio degli anni Novanta, fondamentali nella modernizzazione di un sistema di trasporti e di una rete stradale tra i più antiquati in Europa. Un altro importante elemento del puzzle è stata l’introduzione, alla metà degli anni Novanta, di un’imposta sulle società (12,5%), che rimane tuttora la più bassa in Europa, e che fa dell’economia irlandese un luogo estremamente attraente per le imprese americane transnazionali. Questa aliquota ridotta ha ovviamente suscitato qualche polemica da parte di alcuni partner europei, ma finora il governo irlandese è riuscito a respingere ogni tentativo di imporre un ritorno alla conformità. In un Paese che si è molto agitato per questioni di etica politica, soprattutto per la vicenda di Charles Haughey, questa imposta è rimasta sorprendentemente immune da ogni controversia.

L’economia è sostanzialmente una questione di fiducia È ovviamente interessante indagare gli elementi concreti dell’economia irlandese alla ricerca di un “segreto” del successo, ma la vera e completa natura della sua ripresa non è spiegabile con la semplice somma dei suoi ingredienti più evidenti. Si potrebbe affermare che siamo in presenza di una sorta di alchimia. La verità è che se l’Irlanda non era stata in grado di essere autosufficiente, e probabilmente non lo è ancora, in un mondo in cui le economie dipendevano dall’iniziativa e dalle risorse locali, si trovava tuttavia nella posizione ideale per trarre vantaggio da un mondo in cui i capitali e l’industria multinazionale si stavano spostando alla ricerca di luoghi ospitali. L’Irlanda ha scarse risorse naturali, nessuna base industriale e, per di più, otto secoli di incisiva ingerenza da parte dell’Inghilterra hanno fornito scarso nutrimento all’iniziativa e all’imprenditorialità locali. Fino a circa un decennio fa, l’economia irlandese si basava quasi

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interamente sull’agricoltura e sul turismo, ed entrambi questi settori lottavano per sopravvivere. Sebbene da un decennio sia una delle economie che registra i migliori risultati al mondo, l’economia irlandese indigena - al contrario dell’economia “infiltrata” che comprende capitale e industria transnazionali - continua a registrare livelli banali di produttività e di crescita. È ospitando un’attività internazionale nomade che l’Irlanda è riuscita a trarre vantaggio dalle proprie capacità e risorse umane. Da lungo tempo gli irlandesi, come lavoratori, sono ammirati in tutto il mondo e, come emigranti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, si sono guadagnati una reputazione invidiabile per la loro energia e dedizione. Lo sviluppo dell’economia globale e la concomitante disponibilità di una generazione di giovani irlandesi con un elevato grado di istruzione hanno fatto sì che, per la prima volta, fosse possibile utilizzare queste qualità nel proprio Paese. Per un po’ di tempo sono state sollevate critiche a questo tipo di economia, evidenziando i rischi connessi a un così alto grado di dipendenza da attività straniere, che potrebbero lasciare il Paese se si presentassero altrove condizioni più favorevoli. Vi sono però pochi segnali effettivi che questo stia accadendo. L’Irlanda non dipende da un’economia a basso costo: i costi, compresi quelli di manodopera, sono tra i più alti in Europa. Il boom dell’edilizia dello scorso decennio ha per esempio visto il prezzo di un’abitazione media aumentare di circa il 500%. Le tipologie di settori che l’economia della Tigre celtica ha attratto - soprattutto elettronica, industria farmaceutica e servizi finanziari - tendono a essere quelle in cui il costo della manodopera rappresenta un fattore marginale. Questo ha garantito all’economia irlandese una notevole protezione dalle pressioni della concorrenza dell’Europa orientale e di altri Paesi. L’economia è sostanzialmente una questione di fiducia, e questo è forse il cambiamento

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più importante avvenuto in Irlanda. Come società postcoloniale, la vecchia Irlanda non aveva assolutamente il senso delle proprie forze e dei propri talenti. L’idea che l’Irlanda sarebbe diventata una delle economie di maggior successo a livello mondiale sarebbe sembrata un decennio fa una barzelletta di pessimo gusto. E tuttavia questo è ciò che si è verificato. La fiducia genera fiducia e, senza dubbio, si sta ora creando la possibilità che anche l’economia indigena acquisisca la medesima forza e capacità delle componenti transnazionali in Irlanda. In ultima istanza, nel prossimo decennio questo potrebbe assicurare il completamento della trasformazione dell’economia irlandese, via via che una nuova generazione di imprenditori comincerà a creare un modello di sviluppo economico più adeguato alla personalità e alla realtà nazionale. Ma qualcosa doveva succedere per creare l’iniziale senso di ottimismo e vi è chi - pochi a dire il vero e con moderazione - continua ad additare il contributo di Charles Haughey al cambiamento di rotta dell’economia. Perfino gli aspetti della sua vita politica ora ritenuti corrotti - comprese le ingenti somme ricevute da uomini d’affari per finanziare il suo pretenzioso stile di vita - possono aver giocato un ruolo in questa trasformazione. Perché, a prescindere dal modo in cui ha acquisito la propria ricchezza, in retrospettiva appare innegabile che il Capotribù grasso abbia mantenuto la propria promessa di far diventare il suo popolo grasso come lui. Note e indicazioni bibliografiche 1 Partito nazionalista irlandese.

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Il modello di stato sociale europeo di Angela Merkel

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Ciò che i cittadini si attendono dall’Europa e dai loro governi è che essi assicurino il benessere, promuovano la crescita, creino occupazione e garantiscano la sicurezza sociale: in breve, che salvaguardino e sviluppino il nostro modello europeo di stato sociale. L’economia è in crescita, e questa tendenza è destinata ad accentuarsi. Naturalmente, la crescita non è un fine di per sé, quindi quando sento la parola «crescita‚» penso ai posti di lavoro. Sono convinta che l’occupazione debba essere la nostra prima e principale preoccupazione, perché questo significa Europa sociale. Tuttavia, la globalizzazione ha messo sotto pressione anche in Europa il modello di Stato sociale. Per questo motivo dobbiamo pensare a come poter continuare a garantire benessere alla gente, un compito a cui non sarà facile adempiere. Nel 1926, il 26% della popolazione mondiale era europea; oggi siamo a circa il 1214%. Per l’inizio del XXII secolo gli europei saranno solo il 4 o il 5%: dobbiamo chiederci come possiamo conservare ciò che abbiamo guadagnato mediante un duro lavoro. Il Consiglio ha già adottato una risoluzione secondo cui dovrà essere effettuata, anche nell’ambito sociale, una valutazione d’impatto; il Consiglio desidera infatti invitare a sfruttare più intensamente questo strumento, facendolo diventare di normale impiego. L’esperienza dell’economia sociale di mercato in Germania dimostra la possibilità di conciliare il capitale con il lavoro: bisogna, dunque, evitare che questi due fattori vengano messi in opposizione. Da una parte si schierano coloro che vogliono deburocratizzare, dall’altra quelli che vogliono salvare il sociale, ma in realtà non esiste alcun contrasto: fa tutto parte del modello sociale europeo. La libertà è molto imperfetta, e addirittura ingodibile senza le necessarie condizioni. Solo attraverso libertà, concorrenza e fiducia negli altri si possono stimolare gli uomini a creare ancora qualcosa che comporti un effettivo benessere per tutti i cittadini. Il termine «sociale» indica sempre una compensazione per chi è più debole, e questo non può essere messo in discussione, altrimenti l’economia sociale di mercato e il modello di stato sociale europeo non sarebbero neppure immaginabili. La questione del modo in cui creare occupazione ed essere più efficienti e competitivi è indissolubilmente legata alla riduzione della burocrazia superflua, altro compito a lungo termine dell’Unione Europea.

ANGELA MERKEL È CANCELLIERE TEDESCO E PRESIDENTE DI TURNO DELL’UNIONE EUROPEA.

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Il modello di stato sociale europeo di Angela Merkel

Non vi sono dubbi sul fatto che un’Europa lenta, divisa e burocratica non sarà in grado di svolgere i compiti che ha di fronte, che si tratti di politica estera e di sicurezza o di politica climatica ed energetica, di politica europea di ricerca, di riduzione della burocrazia o di politica di allargamento e di vicinato. Tutte queste sfide esigono un’azione unita da parte dell’Europa, richiedono regole che permettano di intraprendere tale azione, richiedono sforzi supplementari e la disponibilità ad accettare il cambiamento e il rinnovamento. La riduzione della burocrazia è compito anche dei vari Stati nazionali, che sanno bene cosa devono fare in questo campo, e non serve continuare a scaricare le colpe gli uni sugli altri. Bisogna prendere atto che il tanto lodato acquis communautaire1 con il passare degli anni non è diventato più ristretto, ma anzi si è ampliato. Solo attraverso libertà, Con l’avvento dell’unità tedesca ho avuto modo di viveconcorrenza e fiducia re la positiva esperienza dell’entrata in vigore in un solo colpo negli altri si possono del sistema giuridico comune tedesco. Se io ora rappresentasstimolare gli uomini a si uno dei nuovi stati membri, che hanno avuto la fortuna di ricevere l’acquis communautaire, servito, per così dire, già creare ancora qualcosa pronto, oserei sollevare qualche questione. Non è certo in che comporti un effettivo opposizione all’Europa il desiderio di verificare se alcune prebenessere per tutti scrizioni giuridiche siano ancora attuali, se con il passare del i cittadini. tempo non si siano sovrapposte tra loro, se oggi non sia possibile evitare che un modulo di domanda sia lungo dieci pagine. Non dimenticherò mai quando i pescatori di Ruegen, nel mio distretto elettorale, hanno buttato nel cestino della carta straccia i primi formulari per richiedere i contributi alla pesca. Per loro era inconcepibile solo l’idea di dover compilare tutti quei fogli. Non si tratta di rinunciare alla sicurezza, ma di rendere l’Europa, malgrado queste disavventure burocratiche, vivibile e attraente. Note e indicazioni bibliografiche 1 Termine che indica la piattaforma comune di diritti e obblighi che si sono sviluppati nel corso del processo che ha dato vita all’Unione Europea, e che pertanto vincolano gli stati membri. In sede di nuove adesioni sta a indicare l’insieme di diritti e obblighi che, in quanto acquisiti per la Comunità, il nuovo stato membro si impegna a rispettare. Il contenuto è in continua evoluzione in quanto si amplia con il rinforzarsi delle competenze dell’Unione.

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Rafforzare la coesione sociale, economica e politica dell’UE di Annette Schavan

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Tre sfide per l’Europa

Cinquant’anni dopo la firma dei Trattati di Roma, l’Europa si trova ad affrontare importanti sfide. Vorrei citarne solo tre: la necessità di accordarsi su valori e obiettivi comuni, la necessità di continuare con fermezza il processo costituzionale, la necessità di rafforzare la coesione economica, sociale e politica tra gli stati membri. Lo sviluppo futuro dell’Unione Europea dipenderà soprattutto dal modo in cui saranno affrontati i temi dell’istruzione e della ricerca, dell’innovazione e della tecnologia, che sono le fonti del benessere futuro e costituiscono i prerequisiti fondamentali per l’attuazione della Strategia di Lisbona. Secondo il Rapporto Gago1, l’Europa necessita di altri 700.000 ricercatori per poter rispettare l’obiettivo del 3% della Strategia di Lisbona2. I giovani di talento optano troppo sporadicamente per una carriera nel settore della ricerca, e, se lo fanno, presto la abbandonano a causa di sfavorevoli condizioni di base, tra cui gli investimenti inadeguati. Dobbiamo inoltre migliorare la mobilità e i trasferimenti tra le università, gli istituti di ricerca e l’industria, affinché possano aprirsi nuove prospettive. Considerata la crescente globalizzazione, ci si dovrà concentrare in particolare sulla mobilità internazionale - all’interno dell’Ue come al di fuori di essa - per garantire la competitività dell’Europa.

Istruzione, formazione professionale ed educazione permanente L’istruzione, la formazione professionale e l’educazione permanente sono di importanza fondamentale per la competitività dell’economia europea e giocano un ruolo fondamentale anche nei processi di integrazione societari. Sono ancora questi tre fattori a promuovere un accordo comune sulla democrazia, sulla legalità e sui valori come fondamento della crescita

ANNETTE SCHAVAN È MINISTRO TEDESCO DELL’ISTRUZIONE E DELLA RICERCA.

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Rafforzare la coesione sociale, economica e politica dell’UE di Annette Schavan

collettiva degli stati membri. Come disse una volta Jean Monnet: «Non stiamo unendo degli stati, stiamo unendo delle persone». Pensando a questo traguardo, e perseguendo in materia di istruzione gli obiettivi della politica appena descritta, la presidenza tedesca dell’Unione Europea cercherà di promuovere i punti fondamentali della cooperazione europea in tema di istruzione. Sotto questo profilo è da considerare molto positiva l’adozione del Programma di formazione permanente, iniziato come previsto l’1 Gennaio 2007, cioè l’anno in cui si celebra il ventesimo anniversario del Programma Erasmus, una delle iniziative europee più famose e riuscite. Di questo programma hanno già beneficiato oltre un milione e mezzo di ricercatori, docenti e studenti universitari. Assieme ai programmi per l’educazione scolastica, la formazione professionale e l’istruzione per adulti - Comenius, Leonardo da Vinci e Grundtvig - esso rientra ora nel nuovo Programma integrato di formazione permanente, che sarà presentato ufficialmente a Berlino il 6 e il 7 maggio 2007, in occasione di una conferenza europea organizzata congiuntamente dalla Presidenza del Consiglio e dalla Commissione. Questo nuovo programma, che può contare su quasi sette miliardi di euro, contribuirà a trasformare l’Europa in una moderna economia della conoscenza, dimostrando quanto può essere ottenuto attraverso un’azione comune a livello europeo. Un altro importante tema è il Quadro europeo delle qualifiche3 (Qeq) che, oltre a promuovere la trasparenza e la mobilità transnazionale, offre uno strumento efficace per classificare e confrontare in maniera più semplice gli esiti formativi a livello nazionale ed europeo. L’obiettivo è garantire che il Quadro copra l’intero spettro dell’educazione e della formazione, dall’istruzione formale a quella non formale, dalle qualifiche professionali alle lauree di dottorato, alle competenze professionali. Il Qeq riveste quindi un’importanza particolare non solo per l’istruzione superiore, ma anche per la formazione e l’istruzione professionale.

L’obiettivo di Lisbona e il processo di Bologna Sappiamo ciò che vogliamo conseguire: l’obiettivo di Lisbona, che è quello di fare dell’Europa l’economia della conoscenza più innovativa al mondo. Dobbiamo quindi modernizzare l’istruzione superiore in Europa, perché solo allora le università saranno in grado di offrire il loro contributo agli sforzi europei di innovazione, e di mettere a frutto le loro enormi potenzialità. Occorrono cambiamenti profondi e coordinati nei sistemi di istruzione superiore se vogliamo fare buon uso di queste ampie risorse in termini di conoscenze e competenze. Non si tratta solo del modo con cui i sistemi sono controllati e amministrati, ma anche del modo con cui sono finanziate e gestite le istituzioni di istruzione superiore. Attualmente, quarantacinque Paesi da tutta l’Europa stanno partecipando al Processo

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di Bologna4. In questo campo sono stati registrati progressi considerevoli e nella prossima Conferenza di Londra5 verranno discusse ulteriori misure per istituire un’Area europea dell’istruzione superiore, compresa una maggiore autonomia per le università e il finanziamento dell’educazione superiore. Nell’ambito del percorso del Processo di Bologna è stato elaborato con successo un Sistema europeo di trasferimento dei crediti per l’istruzione superiore, allo scopo di aumentare la mobilità degli studenti universitari. Dovremmo ora cominciare a mettere a punto un sistema di crediti simile per l’istruzione e la formazione professionale. Vi è un generale accordo sulla necessità di aumentare la trasparenza, la comparabilità e il riconoscimento delle competenze e delle qualifiche e la loro trasferibilità tra diversi Paesi e livelli, come è stato riconosciuto anche nel quadro del Processo di Copenhagen6 per l’istruzione e la formazione, che affianca il Processo di Bologna. Nella loro Dichiarazione su una maggiore cooperazione europea in materia di istruzione e formazione professionale, i ministri europei dell’Istruzione riunitisi a Helsinki hanno recentemente confermato l’importanza dell’istruzione e della formazione professionale per la competitività europea. La Presidenza si concentrerà quindi su ulteriori provvedimenti da adottare per mettere a punto un Sistema europeo di crediti per l’istruzione e la formazione professionale. La mobilità nell’ambito della formazione professionale è ancora in larga parte insufficiente rispetto all’istruzione superiore; tale sistema di crediti può eliminare gli ostacoli alla mobilità che impediscono ancora ai tirocinanti di andare all’estero. I primi risultati di questo processo saranno discussi in occasione di una conferenza europea sulla formazione professionale dal titolo Realizing the European Learning Area che si terrà a Monaco il 4 e il 5 giugno 2007. Infine, vale la pena di spendere qualche parola sulla proposta relativa all’istituzione di un Istituto europeo per la tecnologia (Eit). Sebbene l’Eit non sia direttamente legato all’istruzione, riveste un’importanza indiretta per l’educazione, in quanto si propone l’obiettivo di colmare il divario esistente tra l’Ue e i suoi principali concorrenti, attraverso l’integrazione tra i settori dell’istruzione, della ricerca e dell’innovazione. Sulla base di un sistema di cosiddette comunità dell’innovazione e della conoscenza, l’Eit promuoverà7 le innovazioni basate sulla ricerca attraverso un’analisi strategica transdisciplinare e interdisciplinare nei principali settori dell’industria e della società.

Una collaborazione essenziale Altri temi all’ordine del giorno del Consiglio sull’istruzione sono l’istruzione della prima infanzia, quella degli adulti e l’importanza dell’istruzione per i valori europei comuni. Per il raggiungimento di tutti questi obiettivi è essenziale il proseguimento della stretta e proficua collaborazione con il Parlamento europeo. In anni recenti, l’istruzione e la for-

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mazione sono stati un tema di grande attualità nell’agenda politica sia a livello nazionale che a livello europeo nell’ambito della Strategia di Lisbona. Una stretta e produttiva collaborazione in materia di istruzione tra gli organi europei Parlamento, Consiglio e Commissione - riveste un’importanza crescente in considerazione delle sfide che l’Europa già oggi si trova ad affrontare e che saranno ancora più grandi in futuro. La presidenza tedesca compirà ogni possibile sforzo per mantenere proficua questa collaborazione. Come affermò ancora Jean Monnet: «Non possiamo restare fermi mentre il mondo attorno a noi si muove». Note e indicazioni bibliografiche 1 Documento finale del gruppo di studio sulla scienza e la tecnologia della Commissione europea, presieduto dal mini-

stro portoghese Josè Mariano Gago. 2 In occasione del Consiglio europeo di Lisbona (marzo 2000) i capi di stato e di governo hanno avviato una strategia

detta “di Lisbona” allo scopo di fare dell’Unione Europea l’economia più competitiva al mondo e di pervenire alla piena occupazione entro il 2010. L’impegno più importante riguarda il raggiungimento di un livello di investimenti in ricerca e sviluppo, pari al 3% del Pil. 3 Il Quadro europeo delle qualifiche aiuterà gli stati membri, i datori di lavoro e gli individui a confrontare le qualifiche

dei diversi sistemi di istruzione e di formazione nell’Ue, attraverso otto livelli di riferimento che descrivono le conoscenze e le capacità di chi apprende, indipendentemente dal sistema in cui è stata acquisita la qualifica. 4 Il processo di Bologna, avviato nel 1999, è un processo di riforma a carattere europeo al quale partecipano quaranta-

cinque Paesi europei, con il sostegno di alcune organizzazioni internazionali. L’obiettivo perseguito è organizzare, entro il 2010, i sistemi di istruzione superiore dei Paesi europei e le singole istituzioni in maniera tale da garantire: la trasparenza e la leggibilità dei percorsi formativi e dei titoli di studio; la possibilità concreta per studenti e laureati di proseguire agevolmente gli studi o trovare un’occupazione in un altro Paese europeo; una maggiore capacità di attrazione dell’istruzione superiore europea nei confronti di cittadini di Paesi extraeuropei; l’offerta di un’ampia base di conoscenze di alta qualità per assicurare lo sviluppo economico e sociale dell’Europa. 5 Conferenza che si svolgerà a Londra nel maggio 2007 sullo stato di avanzamento del Processo di Bologna. 6 Il 30 novembre del 2002, i ministri dell’istruzione di trentuno Paesi europei e la Commissione europea hanno adotta-

to la Dichiarazione di Copenaghen sulla promozione di una maggiore cooperazione europea in materia di istruzione e formazione professionale, finalizzata ad alcuni risultati concreti quali: un quadro unico per la trasparenza di competenze e qualifiche; un sistema di trasferimento di crediti per l’istruzione e la formazione professionale; l’adozione di principi qualitativi comuni in materia di istruzione e formazione professionale; la creazione di principi comuni per la convalida dell’istruzione formale e informale; un orientamento professionale permanente. 7 Se il regolamento dell’Eit verrà approvato entro fine anno, l’istituto potrà diventare operativo nel 2008, mentre nel

2010-2011 potrebbero entrare in funzione le comunità della conoscenza e dell’innovazione.

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Il dibattito sulla riforma sanitaria in USA di Massimo Gaggi

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Un sistema sanitario da riformare

Se, come è ormai molto probabile, nel 2009 il successore di George Bush inizierà il suo mandato presidenziale col varo di una riforma del sistema sanitario basata sull’introduzione della copertura universale di tutti i cittadini, gli americani dovranno ringraziare soprattutto due repubblicani “anomali”. Il primo, Mitt Romney, l’ex governatore del Massachusetts che contende a Giuliani e a McCain la nomination repubblicana per le elezioni del 2008, è un mormone che crede nei valori tradizionali ma che, avendo dimostrato di saper gestire la cosa pubblica con efficienza e pragmatismo, è riuscito a conquistarsi la fiducia dello stato più progressista d’America: il democraticissimo Massachusetts, appunto. Qui Romney ha rotto un tabù, quello degli interventi strutturali sulla sanità, che durava dal 1994, anno in cui fallì la riforma impostata da Bill Clinton (e materialmente gestita da Hillary). Da allora la condizione del sistema sanitario non ha fatto che peggiorare: nel Paese più ricco e tecnologicamente più avanzato del mondo le strutture di eccellenza, ovviamente, non mancano, ma il sistema, nel suo complesso, ha costi astronomici (la sanità Usa assorbe quasi il 16% del Pil, il doppio rispetto alla media dei Paesi europei) e lascia 47 milioni di cittadini senza alcuna copertura. Nonostante l’evidente drammaticità del problema, nessuno fin qui ha avuto il coraggio - o la forza - di affrontarlo alla radice: troppo fresco il ricordo di Hillarycare, la più cocente sconfitta politica subita da Bill Clinton nei suoi otto anni alla Casa Bianca, e troppo delicati gli equilibri finanziari di un sistema basato su gruppi assicurativi che fanno ormai parte della struttura portante del capitalismo americano.

Due repubblicani “anomali” Il primo a muoversi è stato proprio Romney: nell’inerzia del governo federale di Washington, un anno fa ha deciso che toccava ai singoli stati farsi avanti, e ha elaborato una riforma sanitaria che cerca di raggiungere tutti i cittadini senza scardinare il sistema delle assicurazioni private, riuscendo a ottenere anche il consenso dei democratici, il partito che controlla il parlamento del Massachusetts. Divenuta legge nell’aprile scorso, la riforma

MASSIMO GAGGI È INVIATO DE «IL CORRIERE DELLA SERA» NEGLI STATI UNITI.

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Il dibattito sulla riforma sanitaria in USA di Massimo Gaggi

Romney sta ora incontrando i suoi primi ostacoli nell’iter di attuazione, il principale dei quali è rappresentato dal costo delle polizze assicurative del sistema “riformato”, molto più elevato di quello ipotizzato da Romney. Intanto però, nel perdurante silenzio della Casa Bianca, questa riforma è diventata un modello per altri stati: l’ha copiata il Maine e a essa si stanno ispirando anche Pennsylvania, Vermont e Maryland. La vera svolta, però, l’ha impressa Arnold Schwarzenegger, il secondo personaggio della nostra storia, quando, il 9 gennaio scorso, ha deciso di entrare nella battaglia per la sanità universale col peso dello stato più popoloso e ricco d’America. L’attore, diveIl dibattito, pur nuto governatore della California sulle orme di Ronald Reagan, ha buttato alle ortiche ormai da tempo la piattaforma liberista nella prevedibile e antitasse del suo grande predecessore: nel novembre scorso contrapposizione tra è stato rieletto governatore strappando al suo avversario demoun Congresso ora cratico molti argomenti politici della sinistra. All’inizio del a maggioranza nuovo anno lo scarto più clamoroso: il Terminator, ex profeta dei conservatori “duri e puri” ha annunciato una riforma sanidemocratica e un taria del costo di 12 miliardi di dollari l’anno, che ricalca i presidente repubblicano, meccanismi di quella di Romney, con l’aggiunta di un’impoha imboccato binari stazione più populista, la rivendicazione di un contributo dalle abbastanza costruttivi. casse federali per circa la metà del fabbisogno (5,9 miliardi) e la promessa di offrire copertura medica anche agli immigrati clandestini privi di documenti. Ce n’era abbastanza per sollevare le reazioni infuriate dei circoli conservatori di tutta l’America, e per guadagnarsi qualche scrosciante applauso a sinistra. Dalla lontana Italia sono arrivati perfino quelli del quotidiano di Rifondazione comunista che fino a ieri considerava Schwarzy un reazionario inguaribile e pericoloso.

Riforma sanitaria e dibattito elettorale Quello di Terminator avrebbe anche potuto rivelarsi un passo falso: proporre una riforma costosa e con alcuni aspetti demagogici tentando di scaricarne i costi sul governo federale (cioè sui contribuenti di altri stati, meno ricchi della California) avrebbe anche potuto sollevare un’ondata di indignazione tale da seppellire di nuovo, a livello nazionale, lo spinoso tema della riforma sanitaria. Ma in un’America in cui i meccanismi dell’economia liberale stanno funzionando molto bene in termini di aumento della produzione di ricchezza, ma non per quanto riguarda la sua distribuzione, la domanda di interventi sociali perequativi sta crescendo anche tra i moderati. Così quello della sanità è divenuto - insieme all’Iraq - il tema-guida della campagna elettorale dei principali candidati che hanno già cominciato la corsa verso la Casa Bianca: da

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Hillary Clinton allo stesso Romney, da John Edwards a Barack Obama. Pochi giorni fa il senatore nero dell’Illinois si è solennemente impegnato, se sarà eletto, a varare la riforma già all’inizio del 2009, appena insediato alla Casa Bianca, e a estendere la copertura sanitaria a tutti i cittadini americani entro la fine del primo mandato presidenziale (2012). Infine, è toccato allo stesso Bush, che nel discorso sullo stato dell’Unione di fine gennaio ha formulato, a sua volta, una proposta di riforma diversa (volta a rendere il sistema più efficiente e le prestazioni meno costose, allargando la platea degli assicurati senza porsi, però, l’obiettivo dell’universalità), ma dietro la quale c’è, comunque, il riconoscimento della necessità di rivedere in profondità il modo in cui negli Stati Uniti le prestazioni sanitarie vengono prodotte ed erogate. Le proposte di un Bush ormai a fine mandato e inviso anche a molti parlamentari repubblicani hanno ben poche possibilità di tradursi, in questa fase, in una legge approvata dal Congresso. Per ora verranno approvati interventi limitati sui quali sta emergendo un consenso bipartisan come l’estensione della copertura sanitaria a tutti i bambini (oggi il sistema pubblico copre solo i figli di chi ha un reddito inferiore alla soglia della povertà, circa 20 mila dollari l’anno per una famiglia di quattro persone). Effettuare la riforma sarà compito del prossimo presidente, ma le basi si costruiscono ora. Il dibattito, pur nella prevedibile contrapposizione tra un Congresso ora a maggioranza democratica e un presidente repubblicano, ha imboccato binari abbastanza costruttivi. Il liberismo eccessivamente ideologizzato di qualche anno fa, proprio soprattutto degli intellettuali neocon sfornati dall’American Enterprise Institute, sta lasciando spazio a impostazioni più pragmatiche e più consapevoli della dimensione sociale dei problemi. Così, mentre la riforma californiana, liquidata dal «Wall Street Journal» con l’epiteto di Terminatorcare, viene bocciata senza appello da David Henderson, che fu consigliere economico del presidente Reagan (il grande ispiratore di Schwarzenegger), e da Michael Tanner del Cato Institute, il centro studi conservatore più attento al buon funzionamento della cosa pubblica e al contenimento del deficit, il tentativo più serio - quello di Romney - riscuote applausi anche a destra, e anche da parte di esperti dell’American Enterprise Insistute, come Joseph Antos e Mark Pauly.

La riforma Romney Si tratta di un riconoscimento della validità dell’impostazione e della fondatezza delle preoccupazioni di Romney, più che di un’approvazione incondizionata della sua riforma. Essa del resto comincia a sollevare anche i dubbi di un commentatore autorevole e insofferente di ogni etichetta politica come David Broder, che sul «Washington Post» nota come il costo doppio rispetto alle previsioni - delle polizze per i nuovi assistiti di reddito medio-basso rischi di rendere difficilmente applicabile la ricetta studiata per il Massachusetts. La riforma Romney offre, oltre all’assistenza sanitaria di base gratuita ai più poveri, anche una serie di aiuti e agevolazioni a favore di chi ha un reddito fino a tre volte superiore

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alla soglia di povertà (vale a dire 60 mila dollari per una famiglia media). Ovviamente gli incentivi fiscali decrescono man mano che si sale verso livelli di reddito medi. La scommessa però era quella di convincere i cittadini ad assicurarsi non solo attraverso sussidi, ma anche grazie al minor costo delle polizze: Romney si aspettava che, a fronte di un allargamento del mercato, le assicurazioni avrebbero offerto la polizza di base, quella che copre solo le prestazioni essenziali a 2400 dollari l’anno per il singolo assicurato. In realtà le cose stanno andando in modo assai diverso: la polizza più economica che le compagnie stanno offrendo non scende sotto i 4560 dollari l’anno, il doppio del previsto, e per molti lavoratori spendere quasi 400 dollari al mese per la sanità è assai difficile, pur tenendo conto degli incentivi offerti.

Stati Uniti ed Europa Far quadrare il cerchio della sanità made in Usa non sarà facile per nessuno. Per un europeo, abituato a sistemi non solo universali, ma governati da un’unica mano pubblica, coi privati spesso ridotti a gestire un circuito parallelo per benestanti e a svolgere una funzione “di supplenza” attraverso le strutture convenzionate, non è facile orientarsi nel mosaico della sanità americana: un Paese di 300 milioni di abitanti nel quale 147 milioni di cittadini sono coperti da un’assicurazione privata, 55 milioni hanno Medicaid, la mutua pubblica per i poveri, 43 milioni possono contare su Medicare, l’assistenza federale per gli anziani e 47 milioni (per un quarto bambini) non hanno alcuna forma di copertura sanitaria. Pur avendo il pregio dell’universalità, i sistemi sanitari europei sono però anch’essi enormemente inefficienti e trasferiscono l’iniquità - che in America tocca il diritto stesso alla prestazione - ai tempi di attesa, spesso lunghissimi, per chi è costretto a fare ricorso a strutture pubbliche, che non di rado sono fatiscenti e in precarie condizioni igieniche. Il dibattito americano va quindi seguito con attenzione anche dall’Europa, perché in ballo non c’è solo il desiderio di estendere un certo livello di assistenza a tutti i cittadini, ma anche il tentativo di correggere gli errori che hanno fin qui impedito ai meccanismi dell’economia di mercato di funzionare in campo sanitario. Paradossalmente, il principale contributo in questa direzione potrebbe venire proprio dalla proposta avanzata da Bush: il presidente vorrebbe trasformare un sistema che oggi spinge le imprese a fornire ai loro dipendenti un’assicurazione sanitaria, in un sistema centrato su polizze individuali acquistate sul mercato da ogni singolo assistito, che otterrebbe a tal fine un forte incentivo fiscale (detrazioni o crediti d’imposta fino a 15000 dollari l’anno per una famiglia media). Gli stessi democratici affermano che questo meccanismo non ridurrebbe affatto le disparità, ma riconoscono che potrebbe contribuire a incrementare l’efficienza della spesa: ogni singolo assicurato avrebbe, infatti, una visione diretta dei costi della prestazione e di come gli elevati oneri sanitari incidono sul prezzo pagato per la sua polizza.

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Necessità di una copertura sanitaria universale A più di sessant’anni dal giorno in cui il presidente Truman avanzò per primo la richiesta di un’assicurazione medica nazionale, gli Stati Uniti si trovano in un momento storico per la sanità. Dal Maine alla California, dalle imprese ai sindacati, dai democratici ai repubblicani, l’emergere di nuove e coraggiose proposte lungo tutto lo spettro delle posizioni ha chiuso efficacemente il dibattito sull’opportunità per questo Paese di avere o meno un servizio sanitario universale. I programmi che cercano rimedi e le misure a metà strada appartengono al passato. L’ultima proposta del presidente Bush, che fa poco per abbassare i costi o per garantire la copertura sanitaria, fa parte di questa categoria. Nella campagna per la Casa Bianca del 2008, il problema non sarà se realizzare o meno una copertura sanitaria conveniente e universale, ma come attuarla. Abbiamo le idee e le risorse, dobbiamo solo trovare la volontà di approvare un piano entro il prossimo mandato presidenziale. So che circola scetticismo sul fatto che questo possa realmente accadere, e non senza ragione. Ogni quattro anni in campagna elettorale ci vengono presentati piani di riforma sanitaria con grande enfasi e promesse, ma una volta finita la campagna, i programmi crollano sotto il peso delle politiche di Washington, lasciando il resto dell’America a lottare contro i prezzi che schizzano alle stelle. Per troppo tempo il dibattito è stato ritardato da quelle che io chiamo le piccolezze della nostra politica: l’idea che non ci sia molto che possiamo fare o su cui possiamo metterci d’accordo per affrontare le sfide più importanti che si presentano al nostro Paese. Quando poi qualcuno prova a proporre qualcosa di coraggioso, i gruppi di interesse usano la paura, le discordie e altri trucchi per far passare le loro posizioni, anche se in questo modo si finisce per rinunciare alla soluzione dei problemi. Nel 2008 non ci possiamo permettere un’altra deludente sciarada. Non è solo stancante, è sbagliato. È sbagliato quando un’azienda deve licenziare un lavoratore perché non si può assumere la copertura sanitaria di un terzo, quando un genitore non può portare dal dot-

BARACK OBAMA È SENATORE DELL’ILLINOIS E CANDIDATO ALLE PRIMARIE PRESIDENZIALI PER I DEMOCRATICI.

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tore il figlio malato perché non può permettersi di pagare la parcella medica, ed è sbagliato che quarantasei milioni di americani non abbiano alcuna copertura sanitaria. In un Paese che spende nella sanità più di ogni altra nazione al mondo, è puramente e semplicemente sbagliato.

Un problema non solo morale, ma anche economico Tuttavia, negli ultimi anni, ciò che ha attirato l’attenzione di chi non è sempre stato in favore della riforma è stata la presa di coscienza che questa crisi non offende solo la morale, ma è economicamente insostenibile. Per anni, quelli del “non si può fare” hanno impaurito gli americani facendo loro credere che l’assistenza sanitaria per tutti avrebbe voluto dire medicina statalizzata e tasse pesanti, e che quindi avremmo dovuto evitarla, attuando solo correzioni marginali al sistema esistente. Le statistiche sono note: i premi assicurativi pagati dalle famiglie sono aumentati di quasi l’87% negli ultimi cinque anni, crescendo a una velocità cinque volte superiore a quella degli stipendi dei lavoratori; i costi deducibili sono aumentati del 50%; i contributi per l’assistenza e per le ricette mediche sono alle stelle. Lo scorso anno, quasi undici milioni di americani già assicurati hanno speso più di un quarto del loro stipendio in servizi sanitari. Più della metà delle famiglie che vanno in bancarotta indicano come causa principale i conti medici. Quasi la metà delle piccole imprese non offre più copertura sanitaria ai loro dipendenti e tanti altri hanno risposto ai costi che continuano ad aumentare licenziando lavoratori o chiudendo i battenti. Alcune delle più grandi società americane, giganti industriali come GM e Ford, si vedono accerchiati da concorrenti stranieri che hanno sede in Paesi con un sistema sanitario universale: così un’automobile della GM sopporta costi sanitari doppi di quelli di un’auto giapponese. Eppure c’è ancora chi sostiene che cambiare sia troppo rischioso. Ci dicono che è troppo caro assicurare chi non lo è, ma non dicono che ogni volta che un americano senza assicurazione entra in un pronto soccorso paghiamo perfino di più. I premi pagati dalle nostre famiglie sono più alti di 922 dollari, dovendo provvedere anche al costo dell’assistenza per i non assicurati. Paghiamo quindici miliardi di dollari di tasse in più a causa del costo sanitario dei non assicurati, intrappolandoci in un circolo vizioso: l’aumento dei lavoratori non assicurati causa l’aumento dei premi assicurativi, quindi i datori di lavoro cessano di fornire l’assicurazione, ma più datori di lavoro lasciano cadere la copertura assicurativa, più persone perdono l’assicurazione, facendo così aumentare ulteriormente i premi.

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Una riforma troppo costosa? Gli scettici tuttavia affermano che la riforma è troppo costosa, troppo rischiosa, assolutamente impossibile per l’America. Sembra che costoro vivano altrove, perché se si guarda a ciò che la crisi del sistema sanitario sta causando alle nostre famiglie, alla nostra economia, al nostro Paese, ci si rende conto che costoso è il mantenimento dello status quo e che rischioso è il non agire. Non è possibile, parlando di sanità in America, non fare niente. È tempo di agire e non è un problema di fondi, ma di volontà, di mancanza di leadership. In questo Paese spendiamo già 2,2 trilioni di dollari all’anno per l’assistenza sanitaria. Il senatore Ron Wyden, che ha sviluppato di recente un ambizioso programma sanitario, afferma che, con i soldi spesi dagli americani per la sanità, avremmo potuto assumere medici esperti, pagare ciascuno di loro 200.000 dollari per occuparsi solo di sette famiglie, e garantire a ogni americano un’assistenza sanitaria a buon prezzo e di buona qualità. Ma dove vanno invece tutti quei soldi? Sappiamo che il 25% degli investimenti nella sanità viene speso per costi non connessi alle prestazioni, come per esempio fatturazioni e lavori d’ufficio. Sappiamo anche che tale spesa potrebbe essere evitata, visto che quasi la metà delle aziende nel mondo ha spostato queste funzioni su internet, risparmiando miliardi sui costi amministrativi. Ogni operazione che oggi facciamo attraverso le banche costa loro meno di un penny. Perfino alla Veterans Administration1, dove avere la propria cartella medica costava nove dollari, le nuove tecnologie permettono ora di ottenerla on line praticamente a costo zero. Ma, poiché non abbiamo aggiornato le tecnologie nel resto dell’industria sanitaria, ogni transazione costa ancora fino a venticinque dollari, di cui neppure un centesimo viene impiegato per aumentare la qualità dell’assistenza. Tutto questo è ingiustificabile e se noi portassimo l’intero sistema sanitario on line, come molti, da Ted Kennedy a Newt Gingrich, pensano che dovremmo fare, risparmieremmo più di 600.000 dollari all’anno in costi sanitari. Il governo federale dovrebbe porsi come guida di questo processo che, secondo gli esperti, è del tutto possibile. Un altro aspetto da considerare, più controverso, è quanto della nostra spesa sanitaria stia andando a favore dei profitti record dell’industria farmaceutica e della salute. È perfettamente comprensibile che una società cerchi di realizzare profitti, ma quando questi salgono vertiginosamente ogni anno mentre milioni di americani perdono la loro copertura assicurativa e i premi raggiungono cifre da capogiro allora abbiamo la responsabilità di chiederci il perché.

La via più costosa è quella del non agire In un momento in cui le imprese stanno affrontando una crescente concorrenza e i lavoratori raramente restano nella stessa azienda per tutta la vita, dobbiamo anche domandarci se un sistema di assistenza sanitaria basato sui datori di lavoro sia ancora il migliore per fornire

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una copertura assicurativa agli americani. Dobbiamo chiederci cosa fare per garantire a più americani una maggiore prevenzione, che significherebbe meno visite dai dottori e quindi meno costi nel corso degli anni. Dovremmo accertarci che ogni singolo bambino che ne ha diritto sia realmente iscritto al programma di assicurazione sanitaria e il governo federale dovrebbe verificare che i nostri stati abbiano a disposizione i fondi necessari. E dobbiamo cominciare a prendere in considerazione alcune delle proposte interessanti su una riforma globale che vengono da stati come il Maine, l’Illinois e la California, per vedere quali elementi siano riproponibili su scala nazionale, e cosa ci può far muovere verso l’obiettivo della copertura universale. A prescindere da quale combinazione di politiche e proposte ci farà raggiungere questo obiettivo, noi dobbiamo agire coraggiosamente. Come qualcuno ha recentemente affermato: «La via più costosa è quella del non agire». Non è stato un democratico liberal o il leader di un sindacato a esprimersi in questi termini, ma il presidente di quell’associazione di imprese attive nella sanità che finanziò la famosa campagna pubblicitaria Harry and Louise2, progettata per far fallire il progetto di riforma sanitaria Clinton negli anni Novanta. In questo Paese, il dibattito sulla riforma sanitaria è cambiato. Il sostegno per una riforma integrale, su cui organizzazioni come Families Usa3 hanno lavorato così duramente, si è ora diffuso, e ne dimostra il successo la partecipazione alla Health Care Coverage Coalition4 di un composito gruppo di interessi dell’industria della salute. Quindi Washington non ha più scuse. I leader non hanno più motivi per essere timidi e l’America non si può più permettere di non agire. Questo non corrisponde a ciò che siamo e alla storia del sorprendente progresso del nostro Paese.

È in nostro potere dare forma alla storia Mezzo secolo fa l’America si è trovata nel mezzo di un’altra crisi del sistema sanitario. Per milioni di anziani la maggiore causa di povertà e stenti erano i tremendi costi sanitari e la mancanza di un’assicurazione a prezzi ragionevoli. Due anziani su tre avevano un reddito annuale inferiore ai mille dollari e solo uno su otto aveva una copertura sanitaria. Con il continuo aumentare dei costi sanitari e ospedalieri, un numero sempre maggiore di assicurazioni private si rifiutavano di provvedere alle copertura dei nostri anziani, ritenendo il rischio troppo elevato. La resistenza all’azione fu feroce e i sostenitori della riforma sanitaria erano contrastati da gruppi d’interesse finanziariamente forti e con buone relazioni, che non badavano a spese per dire agli americani che quegli sforzi erano pericolosi, antiamericani, rivoluzionari e persino fatali. Nonostante questo i riformatori andarono avanti, portarono prove al Congresso, presentarono il caso al Paese e proposero dozzine di differenti soluzioni, ma rimasero sempre fermi nel loro obiettivo di fornire la copertura sanitaria per ogni anziano americano. Finalmente, dopo anni di negoziazioni e discussioni e molti passi indietro, il presidente

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Lyndon Johnson dichiarò il Medicare legge il 30 luglio del 1965. La cerimonia di firma della legge si tenne nel Missouri, in una città chiamata Independence, alla presenza del primo uomo che ha avuto il coraggio di chiedere l’assistenza sanitaria per tutti, il presidente Harry Truman. Mentre con Truman al suo fianco firmava quello che sarebbe diventato il programma di governo di maggior successo nella storia, un programma che era sembrato impossibile per così tanto tempo, il presidente Johnson guardò la folla e disse: «La storia forma gli uomini, ma un leader deve credere nella capacità degli uomini di aiutare a fare la storia». Non dobbiamo mai dimenticare che è in nostro potere dare forma alla storia di questo Paese. Non è nel nostro carattere starcene seduti senza far niente, come vittime del caso e delle circostanze, perché noi siamo un popolo di azioni e innovazioni, che si spinge sempre oltre le barriere del possibile. Ora è il momento di spingersi ancora una volta oltre quei confini. Siamo arrivati fino a qui nel dibattito sulla sanità in questo Paese, ma ora dobbiamo rispondere alla richiesta fatta da Truman per primo, portata avanti da Johnson e per la quale hanno combattuto tanti leader e cittadini americani durante il secolo scorso. È arrivato il momento di un’assistenza sanitaria universale in America, e sono ansioso di lavorare per affrontare questa sfida nelle settimane e nei mesi futuri. Note e indicazioni bibliografiche 1 Si tratta di un dipartimento di gabinetto del governo americano, responsabile della gestione di programmi di benefits

per i veterani di guerra, le loro famiglie e i sopravvissuti. 2 Harry and Louise è il nome di una campagna pubblicitaria, lanciata nel 1993, della Health Insurance Association of

America (associazione nazionale delle compagnie assicuratrici nel campo sanitario) contro la riforma sanitaria proposta dall’allora presidente Clinton. Negli spot, una coppia della classe media, interpretata dagli attori Harry Johnson e Louise Claire Clark, si lamentava della presunta burocraticità della riforma, invitando gli spettatori a contattare i loro rappresentanti al Congresso. 3 Organizzazione non profit apolitica che ha come obiettivo il raggiungimento di un sistema sanitario di alta qualità per

tutti i cittadini americani. 4 Insieme di diverse associazioni che propongono l’estensione della copertura sanitaria per tutti i cittadini non assicu-

rati.

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La riforma sanitaria in California di Arnold Schwarzenegger

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Credo che quest’anno a Sacramento passeremo alla storia. Utilizzando un approccio che si basa sulla condivisione delle responsabilità dove ognuno farà la sua parte, aggiusteremo il sistema sanitario e creeremo un modello che potrà essere adottato da tutto il resto della nazione. So che in molti aspettano con ansia la nostra proposta. Per gran parte dello scorso anno ci siamo incontrati con esperti sanitari, assicuratori, medici, capi di laboratori, gruppi associazioni di consumatori e lavoratori californiani, tutti decisi a risolvere il problema. La California offre la migliore assistenza e tecnologia medica a livello mondiale, ma il modo in cui prestiamo e paghiamo queste cure è pessimo. Abbiamo più di 6,5 milioni di persone, quasi un quinto degli abitanti, senza assicurazione, con la conseguenza che il resto della popolazione deve pagare le loro cure. Quando hanno bisogno di assistenza medica, le persone non assicurate si recano alle sedi del pronto soccorso, che sono diventate così affollate che a volte occorre aspettare più di sette ore per essere visitati da un medico. Più di sessanta sedi hanno chiuso negli ultimi dieci anni perché non volevano più assistere questa massa di non assicurati. Con tale sistema paghiamo maggiori detrazioni e abbiamo costi più alti per le cure, per i premi e per i contributi. I prezzi per la sanità e le assicurazioni stanno aumentando due volte più velocemente dell’inflazione e due volte più velocemente degli stipendi: è un terribile drenaggio di risorse per i singoli cittadini e per la nostra economia. La mia soluzione è che tutti in California debbano avere un’assicurazione. Se uno non se la può permettere, allora lo Stato lo aiuterà a pagarla, ma tutti devono essere assicurati. La maggior parte dei datori di lavoro già offrono copertura assicurativa ai loro dipendenti, ma quelli che hanno almeno dieci dipendenti e non forniscono l’assicurazione saranno tenuti a versare il 4% del monte salari in un fondo statale, in modo da garantire a chi è senza assicurazione almeno una copertura di base. Vorrei essere chiaro su una questione: non vi è discussione sul fatto se si debba fornire o meno l’assistenza sanitaria a chi risiede in California illegalmente. So che è discutibile, ma la legge federale ci chiede comunque di assistere chiunque si presenti in un pronto soccorso. Così la decisione che ci si è posta di fronte è: ci prenderemo cura di loro al pronto soccorso sostenendo costi elevati o vogliamo farlo in modo completo ed efficiente?

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ARNOLD SCHWARZENEGGER È GOVERNATORE DELLA CALIFORNIA.


La riforma sanitaria in California di Arnold Schwarzenegger

Un altro grave aspetto del problema è che in questo momento vi sono società di assicurazioni che selezionano e scelgono chi coprire, escludendo chi è malato o al di sopra di una certa età. Il mio piano vuole mettere fine a questa situazione, e impedire alle assicurazioni di negare la copertura sanitaria per motivi di età o di salute. Chiederemo inoltre agli assicuratori di impiegare almeno l’85% dei premi nell’assistenza dei pazienti, piuttosto che nell’amministrazione e nei profitti. Le società di assicurazioni private avranno comunque vantaggi perché le polizze obbligatorie porteranno loro dai quattro ai cinque milioni di nuovi clienti. Con l’attuale sistema, medici e ospedali non vengono pagati abbastanza per poter trattare i cittadini con Medi-Cal1, dato che viene pagato meno della metà del costo dell’assistenza: il mio programma vuol porre rimedio a questa situazione stanziando per Medi-Cal altri quattro miliardi di dollari. Anche gli ospedali e i medici ci aiuteranno ad assicurare tutti versando un “dividendo di copertura” nel fondo statale che offre l’assicurazione a chi ne è sprovvisto, contributo che sarà pari al 4% delle entrate per gli ospedali e al 2% per i medici. Tuttavia, anche ospedali e medici avranno dei benefici, perché i loro pazienti d’ora in poi saranno assicurati. La mia proposta richiede ulteriori riforme che si pongoLa mia soluzione è no i seguenti obiettivi: premiare gli stili di vita più sani; tagliache tutti in California re le barriere regolatrici; diffondere le tecnologie di informadebbano avere zione sulla salute; ridurre gli errori medici; usare il nostro un’assicurazione. Se uno enorme potere di acquisto attraverso Medi-Cal, per migliorare assistenza, qualità ed efficienza della nostra sanità. non se la può permettere, Quello che sto proponendo non è un programma gestiallora lo Stato lo aiuterà a to dal governo, ma un programma globale, dove il governo stapagarla, ma tutti devono bilisce le direttive e le regole di base. Mi auguro che ne nasca essere assicurati. un dibattito vivace e aperto: metteremo tutte le carte in tavola e vorrei sentire il parere di tutti. So che possiamo farcela. L’intera Amministrazione è concentrata a risolvere questo problema, e sono già state formulate parecchie proposte. Se ne abbiamo la volontà, e credo che l’abbiamo, possiamo guarire questo nostro malandato sistema e rendere l’assistenza sanitaria più efficiente, accessibile e giusta per tutti. Note e indicazioni bibliografiche 1 Sistema sanitario dello stato della California.

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La mitologia della riforma sanitaria d i M i c h a e l Ta n n e r

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Il piano del governatore Romney

Il 12 aprile 2006, il governatore repubblicano del Massachusetts - e potenziale candidato alle presidenziali del 2008 - Mitt Romney ha ratificato la legge di riforma del sistema sanitario che pone il suo stato all’avanguardia nel dibattito nazionale su come migliorare il sistema sanitario statunitense ed estendere la copertura ai quarantasei milioni di cittadini degli Usa che, secondo le stime, sono privi di assicurazione1. Il piano ha ottenuto approvazioni ad ampio raggio nel panorama politico, dalla conservatrice Heritage Foundation ai senatori democratici liberal Hillary Clinton, Ted Kennedy e John Kerry. Eppure, ci sono molte ragioni per essere scettici.

Una polizza assicurativa per ogni residente

L’atto forse più pubblicizzato della riforma è la normativa che prevede che ogni residente abbia una propria assicurazione sanitaria, fornita dal datore di lavoro, dal governo o acquistata personalmente. Questa prescrizione è stata inserita per far fronte a un problema legittimo, anche se sovrastimato: il mancato pagamento dei servizi destinati ai cosiddetti freeriders2 nell’attuale sistema sanitario. La normativa è inoltre un tentativo di «rafforzare e stabilizzare il funzionamento dei fondi di emergenza per l’assistenza sanitaria» all’interno del mercato assicurativo3, ed è anche percepita come un passo verso la copertura assicurativa per tutti. L’assistenza non garantita, sebbene sia un problema reale, è comunque gestibile e non sembrerebbe richiedere un passo così radicale. Del resto, neppure la normativa individuale può risolvere il problema. Per farla funzionare, infatti, lo Stato dovrebbe essere in grado di sapere se i residenti sono assicurati o no, penalizzando quelli che non hanno rispettato gli obblighi di legge. L’esperienza dice che lo Stato non ha gli strumenti per farlo. La nuova legge, infatti, obbliga ogni contribuente del Massachusetts a indicare nella dichiarazione dei redditi che lui e tutti i familiari a suo carico avevano una copertura sanitaria nell’anno precedente. Ma la legge non dice come lo Stato possa verificare la copertura assicurativa dei residenti a basso reddito, che non hanno l’obbligo di presentare la dichiarazione, degli immigranti ille-

MICHAEL TANNER È DIRETTORE DEL DIPARTIMENTO SALUTE E WELFARE DEL CATO INSTITUTE DI

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WASHINGTON.


La mitologia della riforma sanitaria d i M i c h a e l Ta n n e r

gali, di coloro che hanno il diritto alla copertura prevista dal programma Medicaid4 o degli anziani, dei senza tetto e dei malati mentali. Presumibilmente molti di loro risulterebbero comunque esclusi dal sistema impositivo; senza dimenticare che ci sono dei residenti che sarebbero tenuti a presentare la dichiarazione dei redditi, ma non lo fanno. A partire dal secondo anno del programma, la multa per non essere stati in possesso di un’assicurazione sarà pari al 50% del costo di una polizza di base. Ciò avrà l’effetto perverso di imporre multe senza dubbio pesanti, ma comunque più basse del costo di acquisto di un’assicurazione. Il risultato finale sarà il probabile non raggiungimento dell’obiettivo della legge: fare in modo che ogni residente del Massachusetts sia assicurato. Sebbene una normativa sui singoli individui abbia scarse probabilità di conseguire la copertura universale o di ridurre significativamente i costi della sanità, segna tuttavia un passo importante nell’accogliere il principio per cui la responsabilità di garantire che ogni americano abbia la copertura assicurativa spetta al governo. Nel fare questo, tale normativa apre le porte a una regolamentazione ancora più estesa dell’industria della sanità e a interferenze politiche sulle decisioni personali in materia di salute. Il risultato sarà un lento ma costante avvitamento verso un sistema sanitario gestito dal governo. Quale che sia la consistenza del pacchetto iniziale di benefici minimi, c’è da aspettarsi un’attività lobbistica da parte di gruppi di interesse particolari, rappresentanti i vari fornitori di servizi medici e le associazioni dei malati, per introdurre servizi o coperture aggiuntive all’interno dei pacchetti di benefici definiti per legge: più servizi saranno aggiunti, più aumenterà il costo dell’assicurazione. La sola alternativa per il governo sarebbe intervenire direttamente calmierando i premi assicurativi, ma il risultato alla fine sarebbe il razionamento e l’insufficienza di beni e servizi sanitari. La normativa individuale, quindi, non dovrebbe essere considerata come una cosa a sé stante, ma come l’inizio di un effetto domino. Distorcendo il mercato sanitario, la regolamentazione individuale dà invece inizio a una cascata di regolamentazioni e norme aggiuntive che rischiano di portare, appunto, a un sistema sanitario gestito dal governo.

Sussidi per i bassi e medi redditi Il motivo principale per cui la gente non acquista un’assicurazione è che non se la può permettere. L’applicazione della legge del Massachusetts, che obbliga tutti i cittadini ad acquistarne una, comporterà l’erogazione di qualche sussidio per i lavoratori a basso e medio reddito. In effetti, la legge prevede una progressione decrescente di sovvenzioni per i redditi fino al 300% del livello federale di povertà. Tali sussidi costeranno circa 725 milioni di dollari l’anno che, considerando altri aspetti del programma, arriveranno a circa un miliardo e mezzo. Ci sono due pericoli significativi derivanti da sovvenzioni di questa portata: in primo luogo, l’ampiezza dei sussidi incrementerà il numero dei cittadini “dipendenti” dal governo;

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in secondo luogo, i sussidi possono portare a una diminuzione delle coperture non sovvenzionate, incoraggiando le aziende a eliminare la copertura per il proprio personale, spostando così il costo dell’assicurazione sui contribuenti. Quest’ultimo punto evidenzia un altro problema: manca una precisa delineazione degli obiettivi; molti di quelli che avrebbero diritto alla copertura hanno già un’assicurazione contro le malattie. Bisognerebbe perciò considerare le sovvenzioni non solo come uno strumento per aumentare la copertura assicurativa, ma come un modo per spostare una grande fetta dei costi assicurativi dai singoli al sistema fiscale generale. I sussidi diventerebbero semplicemente un’altra forma di ridistribuzione del reddito. Molti contribuenti potrebbero accettare tale ridistribuzione a favore dei veri poveri, ma cosa penseranno di fronte a finanziamenti alla classe media?

Il “connettore”: un ente per unificare il mercato Un altro degli aspetti più significativi della legge è la creazione del Massachusetts Health Care Connector, un ente che ha lo scopo di unificare gli attuali mercati frazionati per piccoli gruppi e individui sotto un unico insieme di leggi. Il “connettore” non svolgerà tuttavia le funzioni di compagnia assicurativa: l’assicurazione, infatti, sarà ancora fornita dal settore privato. Piuttosto, il “connettore” funzionerà come una stanza di compensazione, una sorta di grossista o intermediario, che farà incontrare i clienti con gli assicuratori e i loro prodotti. A cominciare dal 2007, ogni individuo residente in Massachusetts può acquistare una polizza assicurativa individuale attraverso questo strumento; inoltre, ogni azienda con cinquanta o meno impiegati potrà scegliere il connettore per il proprio piano assicurativo sanitario collettivo. Infine, a partire dal luglio 2009, verranno spostate su questo canale le persone che, appartenendo alla fascia bassa di reddito, attualmente ricevono i servizi sanitari attraverso i programmi di assistenza pubblica dello Stato. La legge è, però, scritta in modo vago e ciò è senza dubbio fonte di preoccupazione. Il “connettore” è autorizzato a fornire un “sigillo di approvazione” per i prodotti che offrono «alta qualità e utilità». A prescindere da quali prodotti potrà teoricamente offrire, molti di coloro che acquisteranno una polizza attraverso il “connettore” vedranno la loro possibilità di scelta seriamente ristretta, perché chiunque riceva un qualsiasi tipo di sussidio sarà costretto a scegliere all’interno di un ventaglio più ristretto di opzioni assicurative, a bassa deducibilità e limitata partecipazione ai costi. La vendita di assicurazioni individuali o per piccoli gruppi al di fuori del “connettore” non è proibita; tuttavia, dato che i sussidi e i benefici fiscali sono usufruibili solo al suo interno, e dato il vantaggio competitivo derivante dalle economie di scala, esso finirà per schiacciare ogni mercato esterno. Alla fine, diverrà un compratore monopolista di assicurazioni sanitarie, simile ai fondi d’acquisto comunitari previsti dal piano sanitario Clinton del 1993. Essenzialmente, si tratta di una forma di “concorrenza controllata” (managed competition)

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con l’assicurazione fornita dal settore privato, ma all’interno di un mercato artificiale creato e controllato dal governo. Le compagnie di assicurazione del Massachusetts, poiché non saranno in grado di differenziare i loro premi in base a età, sesso, stato corrente di salute, o altri fattori di rischio, si troveranno a competere su una base molto ristretta. Ci sarà una limitata concorrenza nei prezzi e, dal momento che i piani non potranno ridurre i costi attraverso la gestione dei rischi, sarà anche difficile ridurli attraverso i benefici offerti. La concorrenza potrà quindi verificarsi solo nei margini.

Nuovi obblighi per le aziende La legge prevede diversi nuovi obblighi per le aziende. Innanzitutto, tutte le imprese con più di dieci dipendenti che non forniranno un’assicurazione sanitaria ai lavoratori dovranno versare un contributo fino a 295 dollari l’anno per ciascun impiegato. Il governatore ha posto il veto su questa norma, di cui il Parlamento non ha tenuto però conto. Una penale aggiuntiva è prevista per i recidivi. Infine, tutte le aziende con dieci o più addetti dovranno offrire ai loro dipendenti la possibilità di accedere al piano di pensionamento regolato dalla sezione 125 dell’Internal Revenue Code federale5.

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Sebbene non si tratti di una componente centrale della riforma, val la pena notare che la legge del Massachusetts espande notevolmente la burocrazia statale nel settore sanitario, creando non meno di dieci nuovi consigli d’amministrazione, commissioni, e altre istituzioni. Vien da chiedersi perché una riforma sanitaria «basata sul mercato» abbia bisogno di così tanta amministrazione.

Conclusioni Le riforme del Massachusetts sono un tentativo di risposta ad alcune legittime preoccupazioni. Il problema della mancata copertura finanziaria per l’assistenza dei non assicurati è reale, anche se di portata molto minore rispetto a quanto assunto da chi ha proposto la riforma. Una regolaSe lo scopo è la copertura mentazione frammentaria ha aumentauniversale, questa legge to i costi delle assicurazioni per i singoli e i piccoli gruppi, e la politica non lo raggiunge, fiscale federale costringe i lavoratori a e l’obbligo imposto un’assicurazione sanitaria fornita dai ai singoli apre le porte datori di lavoro, invece di permettere a un’estesa loro di acquistare un’assicurazione perregolamentazione sonale non vincolata al posto di lavoro. La legge contiene anche alcune dell’industria sanitaria e buone idee. Per esempio, prevede la all’interferenza politica deducibilità fiscale degli Hsa6 (Health nelle decisioni personali Savings Accounts) ed esenta le polizze relative alla sanità. vendute attraverso il “connettore” da alcuni obblighi imposti dagli stati. In generale, però, la legge ci porta nella direzione sbagliata. Se lo scopo è la copertura universale, questa legge non lo raggiunge, e l’obbligo imposto ai singoli apre le porte a un’estesa regolamentazione dell’industria sanitaria e all’interferenza politica nelle decisioni personali relative alla sanità. Se lo scopo è fornire la copertura per coloro che non possono procurarsela coi propri mezzi, questo approccio è del tutto inefficiente. Tra gli assistiti vi saranno persone che stanno già pagando la propria assicurazione. I sussidi incoraggeranno le aziende a ridurre la copertura che attualmente forniscono, scaricando i costi sui contribuenti, e incrementeranno la dipendenza dal governo per migliaia di cittadini della classe media. Inoltre, la legge impone nuovi oneri sulle aziende e crea una moltitudine di nuovi uffici burocratici per dirigere il sistema sanitario. Soprattutto, la legge spiana la strada verso un mercato a concorrenza controllata, simile a quanto previsto dal piano sanitario Clinton del 1993. Piuttosto che una riforma fondata

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realmente sul libero mercato, la legge crea un mercato artificiale che ultimamente restringerà la libertà di scelta e la libertà stessa del consumatore. Qualunque sia la buona intenzione dei proponenti, il “connettore” avvia un processo legislativo che regola e restringe il mercato assicurativo. Ciò di cui la sanità ha bisogno è un maggior controllo da parte del consumatore e un mercato più libero, non una maggiore gestione dall’alto.

Note e indicazioni bibliografiche 1 È importante tenere presente che quando si parla di 550.000 cittadini non coperti dall’assicurazione sanitaria in

Massachusetts, o dei quarantasei milioni negli Usa, ci si riferisce a un fenomeno meramente temporaneo, in quanto la maggior parte è priva di copertura assicurativa solo per un periodo relativamente breve. Per esempio, i lavoratori perdendo l’impiego possono perdere la loro polizza, che riacquistano nel momento in cui trovano una nuova occupazione. 2 Quando un individuo senza assicurazione sanitaria si ammala o si infortuna, riceve in ogni caso prestazioni sanitarie.

Infatti, agli ospedali è richiesto dalla legge di provvedere alle cure indipendentemente dalla possibilità di pagamento. I medici non hanno lo stesso obbligo, ma pochi rifiutano di prestare cure perché un paziente non ha un’assicurazione. Comunque, tali prestazioni non sono gratuite. Il costo è semplicemente scaricato su altri, gli assicurati o, più spesso, i contribuenti. 3 La legge del Massachusetts prevede una forma modificata di community rating, cioè di valutazione media dei rischi,

che impedisce alle compagnie assicurative di fissare i premi in base all’età e allo stato di salute. Questo comporta costi assicurativi elevati per i giovani e in generale per coloro che godono di buona salute, per sostenere invece i premi di anziani e ammalati. Lo stato, inoltre, impone che le polizze assicurative includano quaranta distinte, e spesso onerose, prestazioni (tra cui anche le protesi per i capelli), il che contribuisce a elevare ulteriormente i costi delle polizze. 4 Programma federale di assistenza sanitaria per i cittadini con reddito basso. 5 Si tratta di piani “self-service” che consentono ai dipendenti di accantonare somme esentasse per il pagamento di

premi assicurativi per l’assistenza medica. 6 Fondi individuali esentasse destinati alle spese sanitarie successive alla cessazione dell’attività lavorativa.

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È EVIDENTE CHE PONENDO QUESTA DOMANDA A DEI PRESIDENTI DI BANCA LA RISPOSTA NON POSSA CHE ESSERE: UN RUOLO ESSENZIALE. NÉ POTREBBE ESSERE ALTRIMENTI, VISTO CHE NESSUNO PUÒ CONTESTARE L’IMPORTANZA CHE RIVESTE LA DISPONIBILITÀ DI CAPITALE PER QUALSIASI AZIENDA. NELLE INTERVISTE CHE SEGUONO VI SONO TUTTAVIA ALCUNE SOTTOLINEATURE CHE VANNO OLTRE QUESTO IMPORTANTISSIMO, MA SCONTATO, RUOLO DELLA BANCA. LA PRIMA È LA RILEVANZA ATTRIBUITA ALLA STRETTA RELAZIONE CON IL TERRITORIO, FONDAMENTALE PER LE BANCHE TRADIZIONALMENTE RADICATE IN ESSO, COME LE BANCHE COOPERATIVE E POPOLARI, MA NECESSARIA ANCHE PER LE GRANDI BANCHE CHE NON POSSONO PRESCINDERE DALLA PECULIARITÀ DEL NOSTRO SISTEMA PRODUTTIVO, IN CUI GIOCANO UN GRANDE RUOLO LE PMI. A QUESTO PROPOSITO, I NOSTRI INTERLOCUTORI INDIVIDUANO UN TIPO DI COLLABORAZIONE CHE VA OLTRE IL SEMPLICE ACCESSO AL CREDITO, E CHE COINVOLGE LO SVILUPPO PROFESSIONALE E LA CRESCITA DELLE IMPRESE. QUALCHE DIFFERENZA DI OPINIONE SI RILEVA SULLA CAPACITÀ DI ACCOMPAGNARE IL PROCESSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE NOSTRE IMPRESE: PER MAZZOTTA LE NOSTRE BANCHE NON SONO ANCORA, NELLA LORO GENERALITÀ, SUFFICIENTEMENTE ATTREZZATE, PUR IN VIA DI NOTEVOLE MIGLIORAMENTO, MENTRE PER GERONZI IL PROCESSO È GIÀ SUFFICIENTEMENTE AVANZATO. ENTRAMBI, PERÒ, NON SONO PREOCCUPATI DI UNA INCOMBENTE COLONIZZAZIONE DEL NOSTRO SISTEMA BANCARIO E CONSIDERANO LA PRESENZA SEMPRE MAGGIORE DI BANCHE STRANIERE COME UNO STIMOLO A UNA MAGGIORE APERTURA ED EFFICIENZA. LA STESSA FIDUCIA RIPONGONO ENTRAMBI GLI INTERVISTATI NELLE POTENZIALITÀ DEL NOSTRO SISTEMA PRODUTTIVO E SULLA SUA CAPACITÀ DI RESISTERE IN UN’ECONOMIA GLOBALIZZATA, PURCHÉ SI ACCRESCA LA CAPACITÀ COMPETITIVA DEL PAESE, AUMENTANDO L’EFFICIENZA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, AMPLIANDO IL GRADO DI CONCORRENZA, INVESTENDO IN INNOVAZIONE, INFRASTRUTTURE E, SOPRATTUTTO, SU QUELLO CHE MAZZOTTA DEFINISCE LA NOSTRA MATERIA PRIMA PIÙ IMPORTANTE: L’UOMO.

ROBERTO MAZZOTTA È PRESIDENTE DI BANCA POPOLARE DI MILANO. CESARE GERONZI È PRESIDENTE DI CAPITALIA.

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ATLANTIDE: Il processo di concentrazione in atto nel sistema bancario, pur con aspetti indubbiamente positivi, non rischia di ridurre notevolmente il tradizionale radicamento delle nostre banche sul territorio? Roberto Mazzotta Presidente di Banca Popolare di Milano Il processo di concentrazione del sistema bancario è avvenuto attraverso due fasi. La prima, incominciata negli anni Novanta con la legge Amato e proseguita con l’approvazione del Testo unico bancario, è stata una fase di trasformazione, privatizzazione e aggregazione, indotta dal recepimento delle direttive comunitarie. La seconda, ancora in corso, ha visto la modifica delle competenze assegnate alle diverse autorità di vigilanza e controllo dei mercati bancari e finanziari, in seguito al cambio dei vertici della Banca d’Italia e all’approvazione della legge sul risparmio. Tale processo ha portato a un formidabile ammodernamento del sistema bancario italiano e, indubbiamente, il giudizio complessivo su di esso non può che essere positivo, nonostante alcune operazioni industriali che non hanno avuto buon esito. Grazie a questo processo di concentrazione, oggi si sono configurate due realtà bancarie con potenzialità innovative, che possono ulteriormente svilupparsi. La prima tipologia di banca riguarda i due grandi gruppi nazionali, uno più attento alla realtà domestica, l’altro già proiettato verso i mercati della moneta unica. La seconda tipologia, dotata di potenzialità espansive, rappresenta le banche nate dalla razionalizzazione, dall’ammodernamento, dalle aggregazioni che si sono realizzate, e si stanno realizzando, nel comparto delle banche popolari. Da queste due realtà potranno nascere elementi utili per ulteriori trasformazioni e per il rafforzamento del settore bancario

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del nostro Paese. Detto questo, non credo affatto che il processo di concentrazione intervenuto abbia diminuito il tradizionale radicamento delle nostre banche sul territorio. Ritengo, invece, che abbia creato una diversificazione di funzioni. Da una parte, i grandi gruppi, infatti, saranno naturalmente proiettati verso due indirizzi: far parte sempre più di grandi gruppi finanziari, in cui saranno presenti componenti bancarie, assicurative e finanziarie; guardare fuori dai confini nazionali, soprattutto in Europa. In tal modo, i due grandi gruppi italiani avranno la possibilità di diventare due grandi gruppi europei, con baricentro italiano, avendo una capitalizzazione di Borsa intorno ai 70 miliardi di euro, in linea con i competitori a livello di mercato unico europeo. Dall’altra parte le banche popolari hanno una loro vocazione, che è quella di essere intermediari moderni e fortemente avanzati nel radicamento territoriale, funzionando da banche dei distretti industriali. Il loro futuro sarà dunque quello di banche moderne, legate al territorio. Cesare Geronzi Presidente di Capitalia Questa è ancora una tesi ricorrente sul piano scientifico, anche se le evidenze empiriche, in studi effettuati anche in altri Paesi, si sono quasi sempre rivelate piuttosto deboli. In realtà, a una concentrazione segue normalmente una fase di ristrutturazione organizzativa, che può avere inizialmente effetti di ricomposizione del portafoglio clienti, ma sono effetti limitati che tendono a rientrare quando la nuova macchina funziona a regime. Sicuramente oggi in Italia le comunità locali traggono vantaggio da una maggiore presenza e concorrenza bancaria e nelle aree più deboli sono proprio le banche maggiori a espandere maggiormente gli impieghi e a investire nel territorio una quota più elevata della raccolta. In


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queste aree le concentrazioni hanno prodotto più concorrenza, più efficienza e migliore qualità dei servizi. Contano molto, inoltre, anche le modalità con cui si realizza una concentrazione. Un gruppo come Capitalia, per esempio, nasce come aggregazione di banche di media dimensione, aventi tutte un forte radicamento territoriale, come la Banca di Roma, il Banco di Sicilia e Bipop. In questo caso il radicamento territoriale rappresenta un plus concorrenziale che si vuole mantenere ed esaltare nel nuovo gruppo. Si assiste quindi a un potenziamento dell’offerta e non a un arretramento, perché il gruppo realizza economie di scala e dispone di una gamma di prodotti e servizi - nel risparmio gestito, nei mutui e nel credito industriale - di cui non dispongono le banche originarie.

ATLANTIDE: Sotto questo profilo, come va giudicata la tendenza a omologare al modello delle società per azioni le forme bancarie più legate al territorio, come le banche popolari e le banche di credito cooperativo? Roberto Mazzotta: Credo che innanzitutto vada fatta una distinzione tra le banche di credito cooperativo e le banche popolari. Le prime hanno una dimensione ridotta, un forte localismo e una mutualità diretta, cioè un rapporto ancora forte con la propria base di soci. Le banche popolari, invece, pur avendo la natura giuridica di società cooperative, sono molto più simili alle altre banche e sono caratterizzate da una mutualità indiretta. Nei processi di aggregazione o trasformazione devono quindi tener presente la loro scelta professionale, che è quella di essere legate e attente all’economia dei territori di appartenenza (che possono essere anche vasti), popolati da imprese

piccole, piccole-medie e medie, a cui vanno offerti prodotti tipicamente commerciali. Le banche “tradizionali” non sono caratterizzate da questa scelta professionale. Non credo esista un rischio legato alla tendenza a omologare al modello delle spa le banche popolari. La forma giuridica è un elemento di rafforzamento e di difesa della scelta professionale. C’è un rischio, perciò, nel caso in cui la banca popolare decida di cambiare la sua scelta professionale. Se decide di farlo, credo possa diventare conseguente cambiare anche la forma giuridica. In ogni caso, ritengo che i dissesti delle banche popolari verificatisi negli ultimi anni siano il frutto di questo cambiamento della loro “missione”. Cesare Geronzi: Nelle piccole banche popolari e nelle banche di credito cooperativo i vantaggi dei principi cooperativi sono in grado di esaltare un apporto all’economia locale che resta importante e insostituibile. Per le maggiori banche popolari il discorso è in parte diverso, perché lo specifico modello di governance tende in alcuni casi a creare ostacoli a una gestione efficiente, nonché a sottrarle agli effetti disciplinanti di una concorrenza sugli assetti proprietari che invece le altre maggiori banche subiscono. I ritardi che il nostro sistema bancario denuncia al confronto con le altre principali economie, in termini di ristrutturazione e consolidamento nella fascia delle banche medie, sono probabilmente attribuibili a questo problema. Lo stesso governatore della Banca d’Italia ha ancora di recente ribadito che è matura l’esigenza di rivedere la governance delle banche popolari proprio per affrontare quest’ordine di problemi.

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ATLANTIDE: A parere di molti, il sistema economico italiano è minacciato da una irreversibile deindustrializzazione. Lei concorda con questa analisi e, nel caso, quali contromisure o alternative esistono per non compromettere lo sviluppo del Paese?

Roberto Mazzotta: Non credo che il sistema economico italiano stia andando nella direzione di un’irreversibile deindustrializzazione. Condivido, invece, la preoccupazione di chi, partendo dall’infelice esperienza delle cosiddette privatizzazioni, ritiene che abbiamo perso alcuni importanti comparti produttivi. Grazie a tali manovre, infatti, ci siamo giocati due o tre comparti produttivi internazionali. Oggi, a mio avviso, ci troviamo in una situazione in cui il nostro Paese ha notevolissime capacità di reindustrializzazione, perché è un Paese attivo, che ha risorse, ha intelligenza. La scommessa di poter ritornare a essere un’economia con una componente industriale importante non è perciò affatto persa. Naturalmente occorre lavorare sulle condizioni che possono favorire questa eventualità, e credo che la più importante sia l’apertura alla concorrenza. È dannoso pensare che un sistema concorrenziale aperto possa danneggiarci: è il protezionismo, che si viene a creare più per ragioni di comodo e di potere che di interesse generale, a costituire una minaccia per la nostra economia. Cesare Geronzi: Parlare di deindustrializzazione ha un significato negativo, che non corrisponde alla realtà. L’Italia, come tutti i Paesi industrializzati, è entrata da alcuni anni in quella fase che vede la quota dell’industria sul valore aggiunto ridursi progressivamente a favore della quota dei servizi, che infatti rappresentano

attualmente il 70% del Pil e sono destinati a espandersi ulteriormente. In questo senso, il calo dell’industria è un fatto fisiologico, che si accompagna anche allo spostamento di parte della produzione al di fuori dei confini nazionali sia per ragioni di costo sia per la penetrazione in nuovi mercati. La riduzione della quota “interna” dell’industria non è quindi un fattore che di per sé compromette lo sviluppo del Paese. L’importante è che le imprese industriali si riposizionino su una gamma di prodotti ad alto valore aggiunto e siano quindi in grado di far fronte alla concorrenza internazionale. Contemporaneamente, deve crescere anche la capacità competitiva dei servizi, sia privati che pubblici, in modo da trasformare in senso moderno la nostra economia. Io credo che, sia pur lentamente, entrambe le cose stiano avvenendo. Si è temuto, in questi ultimi anni, che, di fronte alle nuove sfide dei mercati mondiali, la nostra industria non riuscisse a rimanere competitiva e fosse destinata a un inarrestabile declino. Non vi è dubbio che tale preoccupazione abbia avuto il pregio di riportare l’attenzione sulle debolezze del sistema Paese: la scarsa produttività dei servizi, e prima di tutto della pubblica amministrazione; un’elevata evasione fiscale, il cui combinato disposto è l’alta imposizione fiscale, particolarmente su grandi imprese e lavoro dipendente; la carenza di infrastrutture; un sistema universitario inadeguato; un sistema istituzionale paralizzato da poteri di veto diffusi e incapace di ringiovanirsi. Tuttavia, il timore del declino economico ha sempre più ceduto il passo alla consapevolezza che le nostre imprese, banche incluse, hanno saputo reagire positivamente, nonostante le tante difficoltà di contesto. Siamo stati tra i primi, già nell’autunno del 2005, a cogliere, con le nostre indagini sulle imprese, questi segnali di reazione.

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ATLANTIDE: In generale, quali sono le iniziative fondamentali che dovrebbero essere intraprese per rilanciare l’Italia? Roberto Mazzotta: Ritengo che siano fondamentalmente due, e fanno riferimento alla nostra materia prima più importante: l’uomo. C’è bisogno, in primo luogo, di migliorare le capacità di relazioni fisiche e tecnologiche. Occorre, quindi, intervenire sulle comunicazioni, sulle reti, sulle infrastrutture, migliorando quelle già esistenti e creandone di nuove. In secondo luogo, bisogna intervenire sulla qualità della scuola, dell’università, della ricerca. Infrastrutture ed educazione: queste sono le realtà in cui il nostro Paese è arretrato e che costituiscono il nostro vincolo oggettivo alla crescita. Non c’è bisogno di un governo che aiuti a fare l’industria e che dia i contributi; serve, invece, che si impegni a fornire comunicazioni efficienti e una scuola all’avanguardia a livello internazionale. Cesare Geronzi: La risposta è difficile perché qualsiasi lista di iniziative potrebbe apparire eccessiva e indurre, quindi, allo scoraggiamento, oppure potrebbe apparire insufficiente e inadeguata rispetto alla dimensione dell’obiettivo. Non vi è dubbio che prima di tutto va garantita la stabilità finanziaria, e quindi messa e mantenuta in ordine la finanza pubblica. Fatto questo, una maggiore efficienza della pubblica amministrazione può consentire di ridurre la spesa pubblica e di abbassare permanentemente la pressione fiscale. È certo opportuno, inoltre, porre in cima alle priorità l’esigenza di liberare ed esaltare l’azione delle forze della concorrenza, perché esse sono le uniche in grado di ampliare il grado di innovazione e di garantire l’accesso al sistema delle risorse professionali migliori. Questo

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però significa ridurre i vincoli e non aggiungere altre prescrizioni che limitano la capacità gestionale degli operatori, magari a vantaggio di qualcuno, ma certo non dell’efficienza del sistema. A volte è meglio non fare, piuttosto che intervenire impropriamente o in modo pasticciato. Sarà forse necessario, infine, firmare un nuovo patto sociale, che coinvolga tutte le parti in causa - imprenditori dell’industria e dei servizi, lavoratori, pubblica amministrazione - per accrescere, al tempo stesso, la produttività e l’occupazione, in senso quantitativo e qualitativo. Soltanto dalla crescita stabile e duratura di queste due variabili può derivare una solida espansione del prodotto interno lordo nel lungo periodo.

ATLANTIDE: In quali precisi e concreti modi può il sistema bancario aiutare le Pmi, particolarmente per quanto riguarda l’accesso al credito e l’aumento di competitività? Roberto Mazzotta: Le banche possono aiutare le Pmi facendo funzionare bene il sistema bancario, che tra l’altro si trova alle soglie di un importante cambiamento: la riforma strutturale della vigilanza prudenziale, meglio conosciuta come normativa Basilea2. Tale riforma rivoluzionerà il rapporto tra banca e impresa, attraverso due elementi importanti: la conoscenza dei dati e la capacità di valutazione del merito di credito dell’impresa. Si tratta di una sfida molto importante, più per le banche che per le imprese. Infatti, l’istituto bancario che non sarà capace di valutare il merito di credito, di avere un rapporto stretto con le aziende, di saperle premiare aumentando, quando è il caso, l’erogazione di credito a condizioni competitive, sarà inevitabilmente destinato a per-


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dere quote di mercato. L’introduzione della normativa comporterà una rivoluzione culturale e organizzativa per le banche e l’obbligo di una contabilità trasparente e in ordine, oltre alla limitazione del rapporto pluribancario, per le imprese. Finalmente il rapporto con le Pmi uscirà dai tavoli dei convegni, per arrivare su quelli di lavoro. In attesa di questo cambiamento, le banche potranno aiutare le Pmi migliorando la loro qualità professionale e le imprese potranno agevolare questo miglioramento facendo altrettanto. Cesare Geronzi: Non esistono ostacoli all’accesso al credito delle Pmi. Lo dimostrano i dati di questi ultimi anni: nonostante la recessione industriale, il credito alle Pmi è cresciuto, dando a esse il tempo necessario per ristrutturarsi e recuperare competitività. Questo è successo anche perché le banche, pur non frapponendo ostacoli all’accesso al credito, hanno svolto un ruolo attivo, contrattando i piani di ristrutturazione, il rafforzamento della governance, e il rinnovamento del management delle aziende in difficoltà che accedevano al credito. Ora si può affrontare il problema anche per la “via maestra”, che è quella di far crescere le imprese. Nel suo modello di intervento Capitalia intende favorire questa opzione e individua un approccio che vuole affrontare a 360 gradi i problemi della crescita dimensionale, dell’innovazione e dell’internazionalizzazione delle imprese nel rispetto delle scelte imprenditoriali. Il nostro gruppo ha infatti proposto in fase di sperimentazione diversi prodotti di finanziamento alle piccole e medie imprese volti sia a dare stabilità alla struttura finanziaria delle imprese e, quindi, a porre le condizioni della crescita, sia a supportare i processi di innovazione e internazionalizzazione.

ATLANTIDE: Il nostro sistema bancario è sufficientemente internazionalizzato per sostenere in modo efficace le nostre imprese all’estero? Roberto Mazzotta: No, credo che non sia sufficientemente internazionalizzato, anche se sta incominciando a esserlo. Non bisogna dimenticare che fino a pochissimo tempo fa la logica di crescita del sistema bancario italiano era esclusivamente domestica. Il processo di concentrazione attualmente in atto, di cui ho parlato in precedenza, sta creando tutte le condizioni per affrontare positivamente anche questa sfida. Ovviamente i due grandi gruppi bancari italiani hanno la piena possibilità di proseguire la loro azione di internazionalizzazione anche mediante acquisizioni di banche in mercati diversi da quello nazionale. Le banche a carattere regionale e interregionale, invece, seguiranno una logica diversa: non avendo le risorse e le dimensioni necessarie per compiere operazioni acquisitive, potranno realizzare forme di partnership con altre realtà regionali o interregionali europee o di altri Paesi. Cesare Geronzi: Nell’attuale quadro dell’economia globale le banche veramente “internazionali” sono pochissime. L’acquisizione da parte di una banca di una partecipazione all’estero rappresenta una decisione molto onerosa, giustificata solo da elevate prospettive di redditività, e di per sé non necessariamente funzionale ad accompagnare la propria clientela in quel mercato. A questo scopo è perfettamente adeguata una rete di filiali e di uffici di rappresentanza, ben assistita da accordi di cooperazione con banche estere. Sotto questo profilo direi, quindi, che il grado di internazionalizzazione delle banche italiane è più che adeguato, considerato che ogni banca individua delle aree di privilegiata attenzione in relazione agli interessi della propria

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clientela. Attualmente per Capitalia tali mercati sono soprattutto la Romania, la Cina e l’India. In subordine vengono i Paesi balcanici, l’Europa dell’Est e la Turchia. Queste sono anche le aree che ci vedono maggiormente impegnati sia in un’attività di screening di opportunità, sia di collaborazione con le banche locali.

ATLANTIDE: Secondo Lei, è reale il rischio di una pericolosa “colonizzazione” dall’estero del nostro sistema bancario? Roberto Mazzotta: Più che nella colonizzazione, io vedo rischi nella protezione, perché quando si è abituati a essere protetti si diventa deboli e quando si è deboli si è inevitabilmente esposti alla colonizzazione. Nel nostro settore, inoltre, esistono due grandi gruppi con oltre 70 miliardi di euro di capitalizzazione: chi potrebbe colonizzarli? Insisto sul rischio della protezione, perché chi si chiude per non essere “colonizzato”, diventa asfittico. È inutile che si facciano tante conferenze sulla globalizzazione, se poi si sceglie di chiudersi in sé stessi. Se, invece, decidiamo di aprirci alla concorrenza, diventiamo più forti e più attivi sul mercato, cresciamo e riduciamo il rischio di essere colonizzati. Se poi qualcuno ci colonizza, è perché ci porta qualche elemento innovativo, ma in questo caso non si tratta più di un rischio, ma di un arricchimento. Cesare Geronzi: In un sistema europeo che punta alla piena integrazione, non si può parlare di pericolosa “colonizzazione”. Inoltre, l’apertura al capitale estero garantisce una vera contendibilità della proprietà delle aziende, che è un bene perché rappresenta uno stimolo essenziale alla gestione efficiente e dinamica.

Certo è che la presenza di capitale estero nel nostro sistema e il grado di apertura degli assetti proprietari delle nostre banche sono elevati al confronto europeo. Questo è anche un segno della attrattività delle nostre banche; il divario dimensionale ancora presente accentua però la vulnerabilità di molte di esse. Non parlerei, quindi, di pericolosa “colonizzazione”, semmai del rischio di vedere ridursi il grado di autonoma determinazione di scelte finanziarie che in altri Paesi si preferisce ancora mantenere sotto il controllo nazionale. Il modo comunque migliore per difendersi è quello di mantenere al massimo l’efficienza gestionale e le prospettive reddituali.

ATLANTIDE: A un anno dalla entrata in vigore della nuova legge sul risparmio, si può affermare che le famiglie sono più tutelate nell’investire i loro risparmi? Roberto Mazzotta: Credo che nel passato le famiglie siano state vittime di tre elementi negativi: la disonestà di alcune banche internazionali; la parziale complicità di qualche banca domestica; l’essersi fatte ingolosire da rendimenti elevati senza tener conto che dietro a ogni rendimento elevato c’è un rischio elevato. Sui primi due elementi stanno indagando le autorità preposte, anche se ritengo che la colpa più grave non sia stata delle banche italiane. Sul terzo punto vorrei che fosse chiaro agli italiani che il risparmio non si può gestire attraverso le informazioni tratte dai giornali o dalle discussioni con gli amici, occorrono strumenti specializzati. Quando si cerca di fare da sé, il rischio è elevatissimo. Oggi la legge tutela di più i risparmiatori, offrendo garanzie maggiori. Gli intermediari hanno l’importante compi-

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to di offrire con professionalità buoni strumenti di risparmio, e il nostro mercato è ricco di prodotti con un livello qualitativo accettabile e rispettabile. Cesare Geronzi: La nuova legge sul risparmio ha certamente rafforzato la tutela del risparmiatore sotto molti profili, che vanno dalla disciplina degli emittenti, alle regole di trasparenza, ai conflitti di interesse, al sistema sanzionatorio e all’assetto delle autorità di controllo. Su questo stesso terreno si muoverà il recepimento della Direttiva europea Mifid. Credo però che il vantaggio più consistente di tale legge sia stato un effetto “indiretto”, cioè quello di accelerare un processo che era già in atto con la crescente responsabilizzazione degli operatori, la diffusione ed estensione dei codici di comportamento, l’assunzione della tutela del cliente come elemento centrale del contesto competitivo. In questa stessa direzione vanno gli orientamenti che rafforzano la posizione contrattuale dei risparmiatori, come per esempio l’attribuzione di un ruolo alle associazione dei consumatori - Capitalia li ha addirittura portate nelle proprie filiali - e anche l’alfabetizzazione finanziaria del pubblico, sulla quale molto stanno facendo la Fed statunitense e la Fsa britannica (Financial Service Authority) e su cui dovremmo impegnarci anche in Italia. Non vanno invece in questa direzione, anzi la contraddicono, interventi diretti su prezzi o che inibiscono forzatamente alcune soluzioni contrattuali che possono essere liberamente stipulate tra le parti.

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ATLANTIDE: In passato il ruolo delle Fondazioni Bancarie è stato al centro di vive discussioni: quale ritiene debba essere la loro funzione istituzionale? Roberto Mazzotta: Le fondazioni bancarie, figlie della legge Amato, anche se per essere storicamente precisi bisognerebbe parlare di legge Andreatta-Amato, hanno attraversato un lungo iter conflittuale prima di vedersi riconosciuti i diritti di soggetti rispettabili. Oggi esse svolgono un ruolo importantissimo che spero possa crescere ancora. Man mano che le operazioni di consolidamento bancario si saranno stabilizzate, le fondazioni diminuiranno la loro quota di partecipazioni bancarie in portafoglio e diventeranno grandi investitori istituzionali, specie in quei settori di fabbisogno per la crescita del Paese che, lo ripeto, sono le infrastrutture e il sistema educativo. Già le fondazioni bancarie si sono attivate nello svolgere questo importantissimo compito e spero che possano continuare a farlo in maniera crescente in futuro. Cesare Geronzi: Con le fondazioni bancarie sono nati nella nostra economia dei protagonisti del settore non profit che realizzano un equilibrio fra responsabilità della funzione pubblica e responsabilità della società civile che nel nostro Paese - dove erano assenti le fondazioni private tipiche della cultura anglosassone - non si era mai vista. Dopo la progressiva dismissione delle partecipazioni di controllo nelle banche conferitarie, attuata con equilibrio, le fondazioni sono ora pienamente attrezzate patrimonialmente per divenire un riferimento fondamentale per tutta l’attività del terzo settore in Italia. Le partecipazioni bancarie delle fondazioni sono oggi considerate un elemento di stabilità in un mercato nazionale che da sempre denuncia una carenza di capitale privato a vocazione finanziaria.


Il ruolo delle banche nello sviluppo del Paese Forum

ATLANTIDE: Per concludere, a Suo parere il nostro sistema bancario è troppo politicizzato o i rapporti banca-partiti si possono considerare sostanzialmente corretti? Roberto Mazzotta: Rispondo molto rapidamente. Ci troviamo in una situazione di squilibrio nei rapporti tra banche e politica, anche se, rispetto al passato, si è invertito il senso dello squilibrio. Siamo passati, da una situazione che vedeva troppa forza nella politica e poca nella finanza, a una con troppa forza nella finanza e poca nella politica. Mi auguro che si possa raggiungere al più presto una situazione di equilibrio. Cesare Geronzi: Credo che sia sempre opportuno mantenere desta l’attenzione sull’autonomia delle banche dalla politica. La politica determina il contesto nel quale le aziende, e tra esse le banche, operano. Le grandi banche, proprio per la dimensione che hanno e il ruolo che svolgono nel Paese, hanno responsabilità verso tutta la società e quindi la politica. Sono anche convinto che le maggiori banche in questo Paese siano state spesso troppo assenti dal dibattito di politica economica o vi abbiano interpretato il proprio ruolo troppo timidamente, con il risultato di essere sistematicamente considerate come le “vittime sacrificali” privilegiate quando, nelle periodiche manovre di restrizione, si è trattato di ripartire i sacrifici.

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Approfondimenti Approfondimenti Il ruolo dell’impresa per uno sviluppo equilibrato di Bruno Ermolli

Sviluppo equilibrato Il concetto di sviluppo sostenibile è presente in ogni discussione riguardante i Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo, in quanto troppo spesso il loro cosiddetto sviluppo è avvenuto in modo sbilanciato, privilegiando gli aspetti puramente economici. Non si può tuttavia parlare di vero sviluppo se in esso non vengono coinvolti tutti gli aspetti fondamentali della persona: l’aspetto economico, certo, ma anche quello religioso e quello sociale; né si può prescindere dall’obiettivo da raggiungere, che deve essere il bene comune, mentre troppo spesso si favoriscono solo interessi individuali o di gruppo. È questa la storia, ricca di luci, come pure di ombre anche pesanti, del colonialismo, che ha finito per impoverire le tradizioni, le culture e le risorse, non solo economiche, dei Paesi colonizzati: il progresso economico e l’accresciuto benessere non sono sempre andati di pari passo con la crescita delle persone, delle loro libertà, di pensiero e di azione, della loro identità, non riuscendo a portare insieme allo sviluppo economico anche la pace. Pace e sviluppo sono strettamente connessi tra loro, ma se quest’ultimo non è inteso come sviluppo completo della persona e della società di cui essa fa parte, se non comprende in sé anche la libertà nella sua totalità, difficilmente potrà portare a una vera pace. Questo compito non può essere delegato solo alla politica, ma deve essere assunto da tutti i protagonisti della vita civile, come governo, istituzioni pubbliche,

imprese e tutta la cosiddetta società civile, basti pensare al complesso mondo del volontariato e del non profit. Non si può inoltre dimenticare la Chiesa con le sue encicliche sociali, in particolare la Populorum progressio, di cui ricorre il quarantesimo anniversario, e con il suo impegno concreto nelle situazioni reali in tutto il mondo. Se lo sviluppo deve essere equilibrato richiede l’azione congiunta e possibilmente concorde di tutti gli attori per il raggiungimento dell’obiettivo comune. Intervenire nello sviluppo dei Paesi più bisognosi significa portare a essi valore aggiunto, e non sottrargliene, ma questo implica in primo luogo la necessità di lavorare sul proprio sistema Paese, di rendere forte e solida la propria realtà economica e sociale, perché solo così si può essere in grado di trasferire agli altri le proprie conoscenze, le proprie esperienze e specializzazioni. Appare quindi chiaro che il problema dello sviluppo equilibrato e il concetto di bene comune non sono limitabili ai soli Paesi poveri, ma sono estendibili a ogni società, anche a quelle avanzate, e devono essere al centro delle relazioni tra tutti i Paesi, qualunque sia il loro grado di sviluppo economico. Il sistema Paese Senza voler entrare in definizioni teoriche, si può molto concretamente intendere lo sviluppo di un sistema Paese come equilibrio e ricerca di progresso del siste-

BRUNO ERMOLLI È PRESIDENTE DI SYNERGETICA.

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Approfondimenti Il ruolo dell’impresa per uno sviluppo equilibrato di Bruno Ermolli

ma politico, delle istituzioni pubbliche e private e delle imprese in chiave di: - capitale umano; - competitività e imprenditorialità; - internazionalizzazione; - innovazione; - diritti umani, democrazia ed etica. Ogni Paese, e l’Italia non sfugge a questo schema, viene per così dire controllato e gestito principalmente dal governo, dalle grandi imprese e dai sindacati, sistemi e realtà che dovrebbero mirare a garantire prevedibi-

Ogni imprenditore dovrebbe avere la possibilità di crescere, innovarsi e riconoscersi parte di questo Paese nella sua crescita, naturalmente creando valore aggiunto.

lità e certezze, tutelare i cittadini nei loro diritti del lavoro, etc. Oggi tuttavia il vero conflitto sembra ancora essere quello tra capitalismo burocratico e capitalismo imprenditoriale, cioè tra un mercato prevalentemente controllato dallo stato e un libero mercato più attento alla libertà di intrapresa individuale. Sarebbe opportuna la ricerca di un profittevole equilibrio tra queste due concezioni, cosa senz’altro non semplice ma capace di produrre notevoli risultati per il Paese. Ogni imprenditore dovrebbe avere la possibilità di crescere, innovarsi e riconoscersi parte di questo

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Paese nella sua crescita, naturalmente creando valore aggiunto. Ogni governo dovrebbe incentivare la competitività e l’imprenditorialità, rendendo la burocrazia snella ed efficiente, fornendo servizi adeguati, promuovendo l’apertura a nuove tecnologie, per esempio partendo dalla digitalizzazione dei servizi della pubblica amministrazione per renderla più rapida e funzionale. La creazione di un ambiente favorevole è premessa necessaria perché le imprese siano competitive e possano investire in ricerca e innovazione, un’attività che deve essere svolta costantemente, individuando giorno per giorno soluzioni nuove, strumenti e mezzi che prima non era nemmeno concepibile possedere o saper utilizzare. La competizione, tuttavia, non è solo quella per la percentuale di mercato o per un prodotto o un servizio migliore, ma anche quella per lo sviluppo del proprio territorio, trovando soluzioni e iniziative che agevolino lo sviluppo imprenditoriale e delle risorse del proprio Paese, mettendolo in grado di entrare nel mercato mondiale con l’autorità necessaria per intervenire a livelli sempre più alti. Tra l’altro, come già visto, solo così si potranno trasferire aiuti, conoscenze ed esperienze agli altri Paesi, particolarmente ai più bisognosi. Ogni piccola o grande realtà formata da persone, famiglia o azienda che sia, ha bisogno di crescere, esprimersi, rischiare, organizzarsi, ristrutturarsi, e soprattutto di innovarsi e integrarsi continuamente, potendo contare sull’interesse e l’aiuto dei governi, delle imprese e dei cittadini. Tutto questo può avvenire solo nel totale rispetto di democrazia, giustizia sociale ed etica. La Chiesa predica e rende evidenti i valori da seguire, lo Stato e il governo partecipano nella creazione delle regole per i cittadini.


Approfondimenti Il ruolo dell’impresa per uno sviluppo equilibrato di Bruno Ermolli

Tutto ciò è necessario affinché ogni cittadino si senta protetto e sicuro nell’investire e nel credere nello sviluppo del proprio Paese, dove esistono delle leggi, dei diritti e dei doveri validi, senza distinzione tra ricchi o poveri, religiosi o laici, come deve accadere per tutti i cittadini che vivono in un Paese democratico dove giorno per giorno si vince, si perde, ma dove vale la pena partecipare. La dimensione internazionale Capitale umano, innovazione tecnologica e capacità imprenditoriale portano alla creazione di imprese che producono possibilità di crescita e apertura economica, arrivando a internazionalizzare il proprio Paese: questo è un punto essenziale per l’Italia. Pensiamo all’area del Mediterraneo, a due passi da noi, a quante possibilità di scambi commerciali e culturali si possono attuare da ambo le parti, investendo in nuove attività imprenditoriali che siano di supporto, non solo a livello di infrastrutture o di sviluppo urbano e rurale, ma anche nel trasferimento di conoscenza ed esperienza della formazione del capitale umano, nell’incentivarne la crescita. È interesse e responsabilità nostra e dell’Europa supportare e incentivare l’equilibrio politico, economico e religioso nel Mediterraneo, comunicando in maniera efficace tra un Paese e l’altro, rendendo l’integrazione e il dialogo più semplici, nel tentativo di portare una pace generata da una crescita e un livello di vita soddisfacenti. Accordi come quello di Lisbona e Barcellona, per quanto riguarda l’area del Mediterraneo, ci insegnano per esempio che l’autentico sviluppo di un Paese e del mondo intero si basa sul tentativo di creare un libero mercato in grado di valorizzare civiltà diverse, sviluppandone le risorse umane, favorendo il dialogo intercul-

turale e interreligioso, e investendo su progetti e imprese per il futuro, grazie a fondi privati e pubblici. La partecipazione delle istituzioni pubbliche e private è fondamentale per raggiungere questo obiettivo comune, non solo per un dovere etico di governi e istituzioni, ma anche perché la nascita di nuove imprese scaturisce dall’addizione tra capitale umano formato e capitale finanziario a basso costo. L’etica produce ricchezza, benessere sociale, regole applicabili e, nel tempo, sviluppo. Un esempio è dato dai programmi che Promos attua sulla base delle strategie che hanno come obiettivo comune lo sviluppo economico delle Pmi. La ricetta è semplice: “sprovincializzare” la piccola media impresa italiana mediante: - uno sviluppo delle proprie risorse umane e di quelle dei Paesi in via di sviluppo, che potrebbero ospitare nuove imprese a capitale parzialmente italiano, portando lavoro e benessere sociale mediante una formazione ad hoc; - un apporto nel capitale iniziale di un Fondo, nel caso del Mediterraneo, Euromed, che grazie all’iniziativa della Camera di Commercio di Milano è composto da risorse finanziarie di Bei, Banca Intesa San Paolo, Fondazione Cariplo, Unicredito, Regione Lombardia. Tale partecipazione cesserà dopo un periodo dai tre ai cinque anni, quando la nuova impresa sarà decollata. Si tratta solo di una delle tante possibilità che ogni Paese, ogni governo responsabile dell’andamento e dello sviluppo del mondo, può attuare da subito. Non è con le parole o le promesse che si migliora, né con il continuare a posticipare a domani quello che era tempo di fare già da ieri e l’altro ieri.

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Approfondimenti

Libertà economica e democrazia di Alberto Bombassei

Democrazia e libertà economica talvolta non bastano Lo sviluppo economico è condizione necessaria, ma non sufficiente, per garantire una piena tutela dei diritti umani. Per compiere qualche passo avanti nell’analisi, cominciamo a sfatare un principio in passato ritenuto una sorta di assioma dai sostenitori del liberismo: senza iniziativa privata e libertà di mercato non possono esserci libertà politiche e democrazia. Questo principio è clamorosamente smentito dall’esperienza di diversi Paesi nei quali esistono, al contempo, libertà economica e autoritarismo. La Cina, l’esempio più eclatante e, in misura minore, la stessa Russia, coniugano sistemi economici sostanzialmente simili ai capitalismi concorrenziali occidentali con regimi politici che negano diritti individuali e controlli democratici. La correlazione tra economia di mercato e democrazia è invece decisiva, perché solo dalla compresenza dei due sistemi possono trovare compiuto dispiegamento e valorizzazione i diritti umani e civili. Se un Paese è organizzato democraticamente, con i diritti civili e politici normalmente intrinseci a questa forma di governo, anche l’economia è fondata sul libero mercato, mentre abbiamo visto che spesso non accade il contrario. Un primo punto fermo è quindi che l’unione di democrazia e libertà economica è sempre una garanzia valida, anche se non assoluta, di tutela dei diritti umani e della libertà in generale. Infatti i Paesi che rientrano in questa categoria, praticamente l’Occidente e il

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Giappone, non presentano problemi che esistono invece nei Paesi governati in forme dittatoriali o comunque autoritarie. In essi, anche se viene riconosciuta la libera iniziativa economica, i diritti umani sono tutt’altro che al sicuro. Il caso della Cina, dove la mia azienda, la Brembo, è presente da diversi anni, è emblematico, in quanto rappresenta un caso unico di Paese con tassi di sviluppo prodigiosi in un contesto di costrizione delle libertà. Questo Paese può vantare performance economiche di valore incredibile: in pochi anni trecento milioni di cinesi sono arrivati a livelli di vita non lontani da quelli occidentali e almeno cento milioni possono considerarsi ricchi come pochi in Italia. Allora la formula vincente è quella di aggiungere la democrazia all’economia di mercato? La risposta è negativa. Innanzitutto, non si possono paragonare Paesi di antica tradizione democratica e di radicato capitalismo concorrenziale a Paesi con culture spesso profondamente diverse, con economie fragili, redditi pro capite bassi, spesso ai limiti della sussistenza. Ciò vale anche per Paesi, e penso all’India, alla Russia, al Brasile, che, pur approdati a regimi almeno formalmente democratici, devono fare i conti con vaste aree di povertà e di sottovalutazione dei diritti umani e civili. Come insegnano esperienze anche recenti, la democrazia non può essere considerata come una merce che, grazie alla liberalizzazione degli scambi, si può esporta-

ALBERTO BOMBASSEI È PRESIDENTE DELLA BREMBO E VICEPRESIDENTE DI CONFINDUSTRIA.


Approfondimenti Libertà economica e democrazia di Alberto Bombassei

re, magari con l’aiuto della forza. Rimane quindi la domanda: perché non si trovano soluzioni a un problema da tutti conosciuto e qualificato come intollerabile? Responsabilità globali L’assenza di diritti umani, la povertà, la mancanza di cure sanitarie, lo sfruttamento, gli eccidi, le pulizie etniche, le migrazioni dei disperati, la degradazione dell’ambiente, lo scempio della biodiversità. I media documentano da tempo con crudezza estrema questi problemi, in larghissima misura concentrati in Africa. Il ricco mondo occidentale risponde essenzialmente con belle dichiarazioni d’intenti e poco più. È vero che il colonialismo e l’apartheid sono stati praticamente sconfitti, più dai popoli che dai governi, ma lo sfruttamento selvaggio dell’ambiente naturale, il controllo economico sulle risorse dei Paesi poveri, le politiche imposte dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale quali conseguenze hanno avuto sulle condizioni dei Paesi coinvolti e sul loro sviluppo? Che dire poi delle enormi sovvenzioni che Europa e Stati Uniti continuano a elargire ai propri produttori agricoli? Non ha alcun senso concedere aiuti finanziari, per giunta al di sotto degli impegni assunti, e poi ostacolare le esportazioni agricole dei Paesi sottosviluppati, accrescendo la loro povertà. Il rapporto 2006 della Fao sulla fame nel mondo denuncia che in dieci anni, dalla famosa conferenza di Roma, la situazione è drammaticamente peggiorata nell’Africa sub-sahariana. Altrove le cose vanno meglio. Oggi comunque, sul pianeta Terra 854 milioni di persone sono denutrite e rischiano a breve termine di morire. L’obiettivo di dimezzare questa spaventosa cifra entro il 2015 sembra irraggiungibile. Le responsabilità degli Stati e delle istituzioni internazionali sono dunque grandi. Pur essendo guidato soltanto dal buonsen-

so, ritengo che gli sforzi più urgenti della solidarietà internazionale dovrebbero concentrarsi su scuola, sanità, approvvigionamento idrico, agricolture locali e valorizzazione delle risorse proprie dei Paesi in via di sviluppo. Solo su queste basi si può aiutare un processo interno e spontaneo di crescita culturale che, nel rispetto delle radici e delle tradizioni, sappia condurre a forme democratiche in grado di impedire gli abusi, gli sprechi e le ingiustizie diffusi in quasi tutti i Paesi sottosviluppati. Penso invece che impedire ai Paesi che violano i diritti umani l’ingresso in istituzioni internazionali, l’accesso a determinate forme di aiuto internazionale o, addirittura, la continuità di rapporti con altri membri della Comunità mondiale non aiuti la crescita della democrazia e la tutela dei diritti. A parte le difficoltà di attuazione di queste decisioni, il rischio maggiore è quello di colpire ancora di più i poveri e gli oppressi. Credo, inoltre, che non sia neppure giusto attribuire tutte le colpe ai governi dei Paesi ricchi e alle istituzioni internazionali, perché non si possono neppure tacere le colpe dei governi dei Paesi poveri, nei quali la corruzione è dilagante e le risorse sono sperperate in armamenti e guerre fratricide. Creare ricchezza per il benessere di tutti Molti obiettano che la responsabilità è da attribuire al colonialismo economico. In parte è vero: proprio in qualità di imprenditore, non nascondo che alcune multinazionali ricorrono nelle aree sottosviluppate all’insediamento di produzioni inquinanti, all’uso di forza lavoro minorile, allo sfruttamento predatorio delle materie prime strategiche largamente presenti in quelle aree. Sono tuttavia orgoglioso di affermare che in tutte le molteplici iniziative di internazionalizzazione intraprese dalla mia azienda non ho mai permesso simili compor-

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Approfondimenti Libertà economica e democrazia di Alberto Bombassei

tamenti; sono infatti convinto che lo sviluppo economico sia la via obbligata per creare ricchezza, da finalizzare però al benessere delle persone. Codici spontanei di condotta da parte delle imprese dovrebbero far parte di un concetto allargato di sviluppo: si parla ormai di sviluppo sostenibile, e ciò significa che non basta aumentare le risorse per poi distribuirle più equamente. La costruzione della crescita dovrebbe

È in nostro potere spingere in avanti le frontiere del possibile. Resta però la necessità principale per il mondo occidentale di definire modelli di consumo compatibili con uno sviluppo diffuso e attento all’uomo e all’ambiente. incorporare maggiormente la dimensione umana. La crescita - dice il programma delle Nazione Unite per lo sviluppo - non è un’opzione, è un imperativo. La questione non è solo quanto crescere, ma in che modo. I modelli dei Paesi in via di sviluppo e industrializzati dovrebbero diventare modelli di sviluppo umano sostenibile. L’orientamento dell’Onu si fonda appunto sull’idea centrale di sviluppo umano, definito come «il processo di ampliamento delle possibilità di scelta delle persone, che aumenti le loro opportunità di istruzione, assistenza sanitaria, reddito e occupazione; che ricopra l’intera gamma di scelte, da un ambiente fisico sano, alle

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libertà politiche ed economiche». È dunque evidente che i diritti universali, propri cioè di ogni abitante del pianeta, possono realizzarsi solo all’interno di una società giusta, che dia a ciascuno pari opportunità di crescita. Non si può non riflettere su ciò che questi entusiasmanti obiettivi comportano. Spesso non si dà il giusto peso al vincolo rappresentato dalle risorse disponibili: se i Paesi in via di sviluppo dovessero ulteriormente avvicinarsi ai nostri standard di vita, e quindi di consumo, sarebbe indispensabile ridurre i nostri consumi, almeno sulla base delle attuali conoscenze scientifiche e tecnologiche. Si pensi soltanto ai due problemi più rilevanti di oggi: l’ambiente e l’energia. Assistiamo già a fenomeni che comportano un livello di allarme serio, spesso sottovalutato al di fuori della comunità scientifica. I cambiamenti climatici, indotti dalle emissioni di anidride carbonica, posseggono una carica distruttiva di proporzioni gigantesche: innalzamento dei livelli del mare, desertificazioni, dissesti idrogeologici, catastrofi meteorologiche e via dicendo. Anche l’approvvigionamento di energia, se non si realizzeranno progressi nell’individuazione di fonti alternative non inquinanti, presenta il duplice vincolo dell’aggravamento dei problemi ambientali e della materiale impossibilità di soddisfare le richieste sempre crescenti, per sostenere il maggiore sviluppo economico complessivo del pianeta. Sono ottimista sulla capacità che la scienza, come accaduto in passato, dimostrerà di avere nel fronteggiare le nuove esigenze. È in nostro potere spingere in avanti le frontiere del possibile. Resta però la necessità principale per il mondo occidentale di definire modelli di consumo compatibili con uno sviluppo diffuso e attento all’uomo e all’ambiente.


Approfondimenti Libertà economica e democrazia di Alberto Bombassei

Lo sviluppo è il nuovo nome della pace Il magistero sociale della Chiesa cattolica sostiene efficacemente questa visione. Dalla Rerum novarum di Leone XIII alla Mater et magistra di Giovanni XXIII; dalla Laborem exercens di Giovanni Paolo II alla Deus caritas est di Benedetto XVI, le encicliche papali esaltano sempre più il legame tra sviluppo economico e condizioni sociali. Mi sembra soprattutto innovativa e premonitrice la Populorum progressio di Paolo VI, del lontano 1967. Mi ha colpito la lucidità di alcuni passaggi: «Gli sforzi, anche considerevoli, che vengono dispiegati per aiutare sul piano finanziario e tecnico i Paesi in via di sviluppo, sarebbero illusori, se il loro risultato fosse parzialmente annullato dal gioco delle relazioni commerciali tra Paesi ricchi e Paesi poveri. La fiducia di questi ultimi verrebbe profondamente scossa se avessero l’impressione che si toglie loro con una mano quel che si porge con l’altra. Le nazioni altamente industrializzate esportano in realtà soprattutto dei manufatti, mentre le economie poco sviluppate non hanno da vendere che prodotti agricoli e materie prime. Grazie al progresso tecnico, i primi aumentano rapidamente di valore e trovano sufficienti sbocchi sui mercati, mentre, per contro, i prodotti primari provenienti dai Paesi in via di sviluppo subiscono ampie e brusche variazioni di prezzo, che li mantengono ben lontani dal plusvalore progressivo dei primi. […] Ciò significa che la legge del libero scambio non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazionali. I suoi vantaggi sono certo evidenti quando i contraenti si trovino in condizioni di potenza economica non troppo disparate: allora è uno stimolo al progresso e una ricompensa agli sforzi compiuti. Si spiega quindi come i Paesi industrialmente sviluppati siano portati a vedervi una legge di giustizia. La cosa cambia, però, quando le condizioni

siano divenute troppo disuguali da Paese a Paese: i prezzi che si formano “liberamente” sul mercato possono, allora, condurre a risultati iniqui. Giova riconoscerlo: è il principio fondamentale del liberalismo come regola degli scambi commerciali che viene qui messo in causa»1. Il significato più importante, di valore storico, è che per la prima volta un Papa dà alla giustizia sociale una dimensione mondiale, riconoscendo l’esistenza di un grave problema di diseguale distribuzione dei mezzi di sussistenza. Ne consegue l’esortazione a risolvere la questione dello sviluppo nella prospettiva dell’interdipendenza universale. Il vero sviluppo non può perciò consistere nella semplice accumulazione di ricchezza e nella maggiore disponibilità di beni e servizi, se ciò si ottiene a prezzo del sottosviluppo delle moltitudini, e senza la dovuta considerazione per le dimensioni sociali, culturali e spirituali dell’essere umano. La novità rivoluzionaria per la Chiesa di allora è ravvisabile in una frase, che si legge nel paragrafo conclusivo del documento e che può essere considerata come la sua formula riassuntiva, oltre che come la sua qualifica storica: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace»2. In realtà, se la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, è perché l’esigenza di giustizia può essere soddisfatta solo su questo stesso piano. Disattendere tale esigenza potrebbe, affermava Paolo VI, generare tentazioni di violenza mettendo in pericolo la pace. Una profezia che si sta realizzando sotto i nostri occhi. Note e indicazioni bibliografiche 1 Paulus P.P. VI, Populorum progressio, Roma 26 marzo 1967, nn. 56-

57-58. 2 Ibid., n. 87.

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