Don carlo

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45a Stagione lirica Guida all'ascolto Giuseppe Verdi Don Carlo

con il patrocinio della Provincia di Lecce


LA SOLITUDINE DEI POTENTI

Breve introduzione all’ opera “Don Carlo” di Giuseppe Verdi, primo allestimento nel Cartellone della 45° Stagione Lirica della Provincia di Lecce di Fernando Greco

Il “Don Carlo” di Giuseppe Verdi è opera estremamente complessa, frutto di una creatività artistica giunta nel pieno della sua maturità, che segna l’evolversi dello stile Romantico verso nuove forme musicali e una più moderna drammaturgia. Per dirla con l’impagabile musicologo Massimo Mila, si tratta di “un’opera che esige e dagli esecutori e dal pubblico un alto grado di civiltà artistica”.

UN CASO LETTERARIO

Storica incisione di Maria Callas

Don Carlos principe di Spagna

Pur disapprovando le consuetudini del Grand-Opéra, ovvero quella maniera tutta francese di creare dei kolossal musicali che intrattenessero la ricca borghesia parigina, Verdi accettò dopo non poche reticenze la proposta di comporre una nuova partitura per l’Opéra di Parigi, da eseguirsi in occasione dell’Esposizione Universale del 1867, dodici anni dopo il travagliato successo de “Les Vepres Siciliennes”. Per il soggetto della nuova opera fu lo stesso compositore a proporre ai librettisti Joseph Méry e Camille du Locle il dramma “Don Carlos” di Friedrich Schiller (1787) ispirato alle oscure vicende dell’omonimo Infante di Spagna, figlio del re Filippo II e nipote del leggendario Carlo V. La storia tramanda che nell’Europa del XVI° secolo, stretta nella morsa della Santa Inquisizione e del potere monarchico, Don Carlo iniziasse fin dall’adolescenza a manifestare segni di squilibrio mentale al punto che il padre lo interdisse da qualsiasi incarico pubblico fino a farlo imprigionare (1567) dopo che il figlio aveva congiurato contro il trono e si era autoeletto governatore delle Fiandre. Don Carlo sarebbe morto l’anno dopo, all’età di 23 anni, in circostanze poco chiare: secondo la tradizione sarebbe stato ucciso dallo stesso padre, per aver commesso adulterio con la matrigna Elisabetta di Valois. Gli ingredienti per un caso letterario c’erano tutti, in primis quell’alone di mistero sulle vicende storiche degne di una soap: fu un fiorire di pièces teatrali, da “Il principe Don Carlo” di Diego Jimenez de Enciso (1619) al “Filippo” di Vittorio Alfieri (1783). La scelta di Verdi cadde su Schiller, che peraltro nella trama del suo “Don Carlos” aveva inserito la figura di Rodrigo, marchese di Posa, personaggio di fantasia che avrebbe assunto un’importanza fondamentale nella trasposizione operistica. Mentre il dramma schilleriano termina con la macabra morte dell’Infante e di Elisabetta, accoltellati alle spalle, il libretto verdiano si conclude con una sorta di miracolo: Don Carlo viene portato via dal fantasma del nonno Carlo V comparso in abito da frate all’interno del convento di San Giusto. Questo coup de théatre, non molto chiaro allo spettatore odierno, in realtà fa riferimento a una leggenda dell’epoca, secondo la quale il Sommo Imperatore Carlo V, ritiratosi nel suddetto convento dopo aver abdicato a favore del figlio, sarebbe stato visto aggirarsi in abito da frate per molto tempo dopo la sua morte ufficiale, sopraggiunta nel 1558.

IL TIEPIDO SUCCESSO Le prove dello spettacolo, durate ben otto mesi, non soddisfecero mai del tutto il Maestro, che già all’indomani della prova generale si vide costretto dalla direzione del teatro a eliminare una mezz’ora di musica a causa dell’estrema lunghezza dell’opera, come spiegato dall’unico giornalista accreditato per assistere alle prove, corrispondente della “Gazzetta musicale di Milano”: “A Parigi lo spettacolo non può andare oltre la mezzanotte perché l’ultima partenza delle ferrovie suburbane è a mezzanotte e trentacinque minti. Per comodo di coloro che abitano i sobborghi o i dintorni di Parigi, bisogna dunque raccorciar lo spettacolo”. Né si poteva anticipare l’orario di inizio “… perché non si vuol precipitare il desinare della gente che va all’Opéra”. L’11 marzo 1867, davanti a un Verdi decisamente infastidito, il “Don Carlos” andò in scena, alla presenza di Napoleone III e di sua moglie Eugenia che, fervida osservante cattolica, ebbe gesti di franca disapprovazione nel momento in cui Filippo II inveiva contro il Grande Inquisitore. Presenti in sala anche molti musicisti, come Saint-Saens e Bizet, che non mancarono di deplorare il fatto che per una circostanza così importante come l’Esposizione Universale non fosse stato scelto un compositore francese. Il tiepido apprezzamento da parte del pubblico e della critica non impedì al “Don Carlos” di essere replicato per 43 sere, ma non alla presenza del compositore che, lasciata Parigi tre giorni dopo il debutto, scrisse dall’Italia all’editore Léon Escudier per comunicargli che “… ciò mi sembra un paradiso dopo d‘aver avuto a che fare otto mesi all’Opéra!.. Povero Don Carlos! Forse aveva molti elementi di successo, ma hanno fatto tutto il possibile per guastarlo!” Prendendo le distanze dal genere del Grand-Opéra, Verdi approntò Friedrich Schiller


I personaggi

per l’amato Teatro alla Scala un’edizione in lingua italiana che, con il titolo di “Don Carlo”, andò in scena il 10 gennaio 1884: sfrondata dei ballabili cari ai parigini e del primo atto, che costituisce un prologo alla vicenda e non si trova nell’originale schilleriano, l’opera sarebbe stata di fatto tramandata ai posteri in lingua italiana. Più tardi anche il primo atto originario sarebbe comparso nell’edizione italiana in occasione dell’allestimento modenese del 1886.

IL CARATTERE “DECADENTISTICO” Il Novecento ha segnato la definitiva riabilitazione del “Don Carlo” quale opera di estrema raffinatezza compositiva al servizio di una formidabile efficacia drammaturgica. Esemplare il giudizio di Ildebrando Pizzetti (1880 – 1968) che definisce la partitura verdiana “sintesi drammatica scenica di meravigliosa potenza psicologica e rappresentativa”. Aboliti quasi del tutto i pezzi chiusi, il tessuto musicale si dipana in cellule tematiche che, se da un lato vivono di vita propria, cioè non dipendenti dalla linea di canto, dall’altro sono in simbiosi perfetta con un canto che, intercalando liberamente recitativi e versi in rima, si fa concitazione, espressione di un’umanità problematica e tormentata. Massima espressione di questa nuova sensibilità verdiana è la splendida aria di Elisabetta “Tu che le vanità” posta all’inizio dell’ultimo atto, palpitante preghiera in cui la melodia si fa evocazione di un passato felice. Tali qualità drammaturgiche si riassumerebbero, secondo il grande direttore d’orchestra Gianandrea Gavazzeni (1909 – 1996), nel carattere “decadentistico” di quest’opera, ove quest’attributo significhi la perdita delle certezze, un relativismo squisitamente pirandelliano nel giudicare il bene e il male: contrariamente alle convenzioni del melodramma, che distinguono i personaggi in buoni e cattivi, nel “Don Carlo” è molto difficile riconoscere in maniera netta la negatività e la positività, quindi risulta impossibile, per l’autore come per lo spettatore, parteggiare per l’uno o per l’altro.

PERSONAGGI DI GRANDE UMANITA’ Il modernissimo approfondimento psicologico delle umane motivazioni porta dunque non a giudicare, ma piuttosto a capire e trovare un margine di solidarietà. Motore della vicenda è l’amore tra Don Carlo (tenore) e la sua matrigna Elisabetta (soprano), due ventenni colpevoli soltanto di essere stati un tempo promessi sposi, dunque è umanamente impossibile giudicarli in maniera negativa. Forse per tale motivo la coppia non viene fatta morire nel finale dell’opera, al contrario di quanto succede nel dramma originario. L’impianto musicale verdiano rende in maniera geniale le palpitazioni del febbricitante protagonista e della sua amata, che sotto la compostezza del suo status di regina nasconde il tarlo di un amore deluso, ma sempre vivo in lei. Al contempo non si può non giustificare il contrasto esistente tra Don Carlo e Filippo II (basso), padre e figlio. Possiamo ben dire con Massimo Mila che “… nessun musicista ha mai reagito con tanto successo come Verdi alle possibilità d’ispirazione d’una materia apparentemente così prosaica come la politica”. Dopo il Doge Foscari e Simon Boccanegra, Filippo II è l’altra grande figura di basso verdiano sul quale incombe la solitudine dell’uomo di comando: mentre in pubblico il monarca sfodera spavaldamente il suo potere assoluto, nel chiuso della sua camera medita insonne sulla sua condizione di anziano già prossimo alla morte, constatando con amarezza di non essere stato mai amato dalla giovane consorte. Geniale la scena “Ella giammai m’amò”, in cui, eliminate definitivamente le formalità della romanza, uno struggente assolo di violoncello cede il passo al libero flusso dei pensieri del vecchio sovrano, in perfetto equilibrio con un tessuto orchestrale fortemente evocativo. La figura di Rodrigo, marchese di Posa (baritono), creata da Schiller con l’intento di contrapporre al potere assoluto gli ideali illuministici di rivoluzione, acquisisce in Verdi nuova complessità psicologica. L’amore incondizionato per Don Carlo spinge Posa a sacrificarsi per lui, ma al contempo egli è persona stimata dal suo avversario Filippo II: a padre e figlio egli salverà la vita, sacrificando la propria. L’atavica rivalità che qualifica spesso il rapporto tra soprano e mezzosoprano si realizza nel personaggio della principessa Eboli, che con la sua gelosia determina il precipitare della vicenda: a lei Verdi dedica un’altra grande scena (“O don fatale”) in cui ella, maledicendo la propria bellezza, si pente del male compiuto. Il personaggio del Grande Inquisitore (basso) è il più fedele all’originale schilleriano, ma l’insinuante partitura verdiana rende tutta la viscidità di colui che giudica gli altri senza mai porsi il beneficio del dubbio, tronfio del proprio potere.

Locandina dell'edizione francese

L'Imperatore Carlo V in un ritratto di Tiziano


LA TRAMA ATTO PRIMO Parte Prima – Il chiostro del convento di San Giusto. Un gruppo di frati prega davanti alla tomba dell’imperatore Carlo V, scomparso di recente. Giunge Don Carlo, Infante di Spagna, disperato per aver perso l’amata: si tratta di Elisabetta di Valois, figlia del re di Francia Enrico II, la quale, in pegno di pace tra Francia e Spagna, è andata sposa non già a Carlo, ma a suo padre Filippo II re di Spagna. Il giovane crede di riconoscere nella voce di un frate quella del nonno Carlo V. Entra in scena Rodrigo, marchese di Posa, al quale Carlo confida il suo colpevole amore per Elisabetta, sua matrigna. L’amico lo esorta a farsi nominare dal padre governatore delle Fiandre al fine di allontanarsi da Elisabetta e al contempo favorire quella popolazione, attualmente oppressa dal potere della corona. I due si salutano calorosamente, giurandosi eterna amicizia. Parte Seconda – Un giardino alle porte del Chiostro di San Giusto. Per le dame di corte il tempo trascorre in maniera amena, mentre attendono l’arrivo della regina. La principessa Eboli canta un’ ammiccante canzone moresca accompagnata al mandolino dal paggio Tebaldo. L’atmosfera festosa si interrompe alla comparsa di Elisabetta che, mesta in volto, ricorda nostalgicamente il suo felice passato. Giunge Rodrigo che, dopo aver rivolto a Eboli parole galanti, prega la Regina di voler ricevere Carlo, poiché soltanto lei potrà risolvere la sua perenne tristezza. All’udire ciò, l’ignara Eboli immagina che Carlo si sia innamorato di lei. Tutti i presenti si fanno in disparte. Carlo si presenta a Elisabetta per chiederle di intercedere presso Filippo affinché il padre lo invii nelle Fiandre. Nel dialogo tra i due, ben presto le formalità lasciano il posto alle brucianti parole d’amore di Carlo, che dopo aver abbracciato l’amata, fugge disperato. Improvvisamente giunge Filippo che, trovando la regina da sola, rimprovera la sua dama di compagnia licenziandola dalla Corte. Elisabetta, offesa dal comportamento del consorte, consola affettuosamente la fanciulla, ricordando i tempi felici in cui entrambe vivevano alla Corte di Francia. Filippo si intrattiene con Rodrigo, che gli chiede invano di essere clemente con le Fiandre e concedere la libertà a quel popolo oppresso da un regime troppo dispotico. Per tutta risposta il Re lo mette in guardia dal Grande Inquisitore, al quale tali idee liberali potrebbero risultare moleste. Confidando a Rodrigo i suoi sospetti nei confronti di un’eventuale tresca tra suo figlio e sua moglie, Filippo gli chiede di indagare a suo favore, senza sapere che il marchese conosce già tutto e copre i due amanti. ATTO SECONDO Parte Prima – I giardini della Regina, a Madrid. E’ notte. Carlo legge un biglietto in cui qualcuno, che egli crede essere Elisabetta, gli dà appuntamento a quell’ora in quel giardino. Giunge una donna velata. I due si scambiano tenere parole d’amore fino a quando la donna, scoprendo il volto, si rivela essere la principessa Eboli. Grande è l’imbarazzo dell’uomo, mentre Eboli, da parte sua, comprende che egli è innamorato della Regina. L’alterco tra i due viene interrotto dal sopraggiungere di Rodrigo. Eboli, furibonda, si allontana meditando di dare una lezione alla rivale. Rodrigo convince Carlo a farsi consegnare eventuali documenti che attestino la sua attività di sovversivo. Parte Seconda – Una gran piazza davanti a Nostra Signora di Atocha. I condannati del Santo Uffizio stanno per essere arsi sul rogo alla presenza del popolo in festa, del re e della sua consorte, di tutta la corte reale e dei rappresentanti di tutte le province dell’impero. Elisabetta si mostra turbata quando scopre Carlo tra i presenti. Sei deputati fiamminghi vengono condotti da Carlo al cospetto di Filippo: essi implorano clemenza per il popolo delle Fiandre, ma il sovrano si mostra sordo alle loro richieste. In un’esplosione di collera, Carlo sguaina la spada davanti al padre giurando di farsi salvatore del popolo fiammingo. Nessuno osa intervenire per disarmare il principe tranne Rodrigo, che per tale azione

viene nominato duca da Filippo. Carlo viene tratto in arresto. ATTO TERZO Parte Prima – Il gabinetto del re a Madrid. Filippo, insonne, medita sulla sua solitudine. Pur uomo di potere, egli non ha l’amore di sua moglie né di suo figlio, mentre il tradimento è sempre in agguato; non gli resta che rassegnarsi ad attendere la pace della tomba. Giunge il Grande Inquisitore, vecchio e cieco, sorretto da due frati più giovani. Il sovrano lo ha mandato a chiamare per chiedergli un parere circa l’eventuale uccisione di Carlo, figlio troppo ribelle. Il vecchio non ha dubbi: anche Dio ha sacrificato il Suo unico figlio per il bene del popolo. In aggiunta, l‘Inquisitore chiede a Filippo di eliminare anche Rodrigo, stupito del fatto che un uomo dalle idee così liberali possa essere addirittura consigliere del re. Filippo oppone un netto rifiuto poiché a suo parere Posa è l’uomo più leale che ci sia a corte. Il Grande Inquisitore si mostra molto contrariato e parte. Rimasto solo, il sovrano constata che “... dunque il trono piegar dovrà sempre all‘altar!”. Entra Elisabetta che, gettandosi ai piedi del marito, denuncia il furto di uno scrigno. Ella impallidisce quando Filippo dapprima le mostra l’oggetto e poi, aprendolo, scopre tra i gioielli un ritratto di Carlo. Elisabetta lo assicura di essergli rimasta sempre fedele, pur essendo stata un tempo promessa sposa di Carlo; alle persistenti accuse di adulterio da parte del marito, la regina sviene. Giunge Eboli che, intuendo quanto sia successo, è presa dal rimorso e confessa a Elisabetta di essere stata lei l’artefice del furto a causa della sua gelosia nei confronti di Carlo. La regina la congeda freddamente permettendole di scegliere l’esilio o la vita monastica; rimasta sola, Eboli maledice la propria bellezza, meditando di scontare la sua colpa in un convento, non prima di aver salvato la vita a Carlo. Parte Seconda – La prigione di Don Carlo. Rodrigo giunge in carcere per annunziare a Carlo la sua imminente liberazione: ormai l’accusa di essere il sobillatore delle Fiandre non pende più sul capo del principe, ma dello stesso Rodrigo, che ha fatto trovare su di sé le carte compromettenti che Carlo gli aveva consegnato. Per tale motivo, Rodrigo è rassegnato all’idea che presto verrà ucciso. Nel frattempo, i due amici non notano la furtiva comparsa di due uomini, di cui uno indossa l’abito del Santo Uffizio e l’altro, armato di un archibugio, ferisce Rodrigo a morte. Spirando tra le braccia dell’amico, Rodrigo fa in tempo a dirgli che Elisabetta lo attenderà l’indomani nel convento di San Giusto. Filippo II, giunto per ratificare la liberazione del figlio, si arresta commosso davanti al cadavere di Rodrigo, mentre Carlo lo accusa di essere il colpevole della morte dell’amico. Dall’esterno, il popolo in rivolta chiede la liberazione di Carlo; il Re fa aprire le porte del carcere per affrontare i ribelli, che però vengono messi a tacere dall’intervento del Grande Inquisitore. Frattanto Eboli mascherata aiuta Carlo a fuggire. ATTO QUARTO Il chiostro del convento di San Giusto. Elisabetta prega davanti alla tomba di Carlo V, ricordando con nostalgia la sua giovinezza e il suo sfortunato amore, augurandosi che Carlo, partendo per le Fiandre, trovi la serenità. Giunge Carlo per salutare Elisabetta un’ultima volta, prima della partenza. Il dialogo tra i due è solenne: la regina gli chiede di sublimare il suo amore trasformandolo in eroismo a vantaggio dei popoli oppressi, in attesa del giorno in cui entrambi si rincontreranno in un mondo migliore dove “… troverem nel grembo del Signor il sospirato ben che fugge in terra ognor!” I due vengono colti in flagrante da Filippo II e dal Grande Inquisitore che, giunti all’improvviso con altri membri del Santo Uffizio, si accingono ad arrestare entrambi. Carlo cerca di opporsi all’arresto, indietreggiando verso la tomba di Carlo V. Colpo di scena: si apre il cancello della tomba e compare il misterioso Frate del primo atto, nel cui aspetto e nella cui voce tutti riconoscono il Sommo Imperatore Carlo V, che, nel generale sbigottimento, trascina via con sé lo sfortunato nipote.


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