45a Stagione lirica Guida all'ascolto Christoph Willibald Gluck Orfeo ed Euridice
con il patrocinio della Provincia di Lecce
AGLI ALBORI DELLA MODERNITA’
Breve introduzione all’opera “Orfeo ed Euridice” di Christoph Willibald Gluck, terzo allestimento nel Cartellone della 45° Stagione Lirica della Provincia di Lecce di Fernando Greco
L’“Orfeo ed Euridice” rappresenta l’opera più celebre composta da Christoph Willibald Gluck (1714 – 1787), musicista che, al tramonto dell’epoca Barocca, formalizzò le regole per una nuova espressività drammaturgica inaugurando una nuova estetica che avrebbe condizionato in maniera decisiva il teatro musicale moderno.
GLI ORPELLI BAROCCHI Tra la fine del Seicento e il primo Settecento, il genere dell’opera seria vide un grande trionfo, connesso con quel gusto tutto barocco per l’artificiosità e l’ornamentazione. La committenza aristocratica gradiva autocelebrarsi nella spettacolarità di allestimenti grandiosi e riconoscersi nei protagonisti delle vicende trattate, che costantemente attingevano alla mitologia classica. Più che di opere si trattava di “feste teatrali” in cui poco importava il senso del dramma, situato sempre in secondo piano rispetto alla bellezza della scenografia, del balletto e del virtuosismo vocale dei solisti. Per dirla con il grande musicologo Massimo Mila: “L’immensa diffusione dell’opera nel Settecento è spesso sproporzionata al suo reale pregio artistico […] Vi signoreggiano elementi extramusicali: virtuosismo canoro – il famoso bel canto, col ben noto seguito di capricci di primedonne, idolatrie di tenori e castrati, il divismo insomma – e magnificenza spettacolosa della scenografia. Musicalmente, la falsità dell’opera seria si manifesta a questo modo: quasi scomparsi i cori, atrofizzata la funzione dell’orchestra, l’opera diventa un alternarsi monotono di recitativi sempre uguali che nessuno ascolta e di arie incuranti dei valori espressivi del testo, banchi di prova per l’ugola dei virtuosi”. La diffusione del pensiero Illuminista, di pari passo con la nascita del ceto borghese, determinò una crescente insofferenza nei confronti dell’arte barocca. Lo stesso Voltaire, nella sua satira “Il mondano” (1736), si divertì a sbeffeggiare la vacuità dell’ambiente operistico del suo tempo, in cui “i bei versi, il ballo, la musica, l’arte di ingannare gli occhi coi colori, l’ancor più felice arte di sedurre i cuori, di cento piaceri fanno un piacer solo”.
LA CERCHIA DEI RIFORMATORI Copertina della prima edizione
Christoph Willibald Gluck
A partire dalla sua prima opera “Artaserse” composta nel 1741 per il Teatro Ducale di Milano, Christoph Willibald Gluck intraprese un’intensa attività di operista che lo portò ad affermarsi in tutta Europa quale “riformatore” dell’opera seria, nonostante i rimbrotti del sommo Handel (1685 – 1759) che bonariamente ebbe a dire di lui: “In materia di contrappunto, ne sa quanto il mio cuoco!”. Originario di Norimberga e figlio di un ispettore forestale, il musicista manifestò per tutta la vita un pragmatismo di fondo, caratteristico delle sue origini proto-borghesi. Si suppone che dal 1732 al 1736 abbia frequentato l’università di Praga guadagnandosi da vivere cantando e suonando violino e violoncello nelle fiere di paese. Musico da camera dapprima a Vienna, alla corte del principe Lobkowitz, poi a Milano, presso il principe Francesco Saverio Melzi, nel 1754 tornò a Vienna con l’incarico di Kapellmeister conferitogli da Giacomo Durazzo (1717 – 1794), sovrintendente dei teatri viennesi. L’esigenza di rinnovamento era molto sentita da Durazzo, fratello di un doge genovese, che a Vienna non esitò a circondarsi di validi collaboratori, quasi tutti di origine italiana e tutti fermamente convinti che bisognasse portare aria nuova a un modo di far musica giunto ormai al capolinea. Si trattava in primis di scalzare il predominio di Pietro Metastasio (1698 – 1782), massimo poeta di corte, i cui innumerevoli libretti, riproposti pedissequamente per una trentina d’anni, avevano perso anima e senso drammatico. A tale scopo Durazzo ingaggiò un nuovo poeta, il livornese Ranieri de’ Calzabigi (1714 – 1795), figlio di commercianti ed egli stesso uomo d’affari senza scrupoli, compagno di avventure del viveur Giacomo Casanova (1725 – 1798) che di lui scrisse “… grande calcolatore, abile in operazioni finanziarie, esperto nel trattare gente di tutti i paesi, provvisto di buona cultura e bel esprit, poeta e gran donnaiuolo”. Il resto della brigata era composto da Gasparo Angiolini (1731 – 1803), ballerino e coreografo di origine fiorentina, desideroso di dare alla danza una funzione espressiva più che decorativa, e dal cantante Gaetano Guadagni (1728 – 1792), contraltista castrato, per il quale l’”Orfeo ed Euridice” di Gluck sarebbe diventato il maggior successo della sua carriera.
Poynter - Orfeo ed Euridice
UN ESITO DIROMPENTE L’“Orfeo” gluckiano venne rappresentato al Burgtheater di Vienna il 5 ottobre 1762 in occasione dell’onomastico di Francesco I, marito dell’imperatrice Maria Teresa. Sulla carta vennero rispettate tutte le formalità del tempo, creando un’azione teatrale che facesse riferimento al celeberrimo mito, descritto da Ovidio e da Virgilio, e modificandone il finale, che da tragico (morte dei due protagonisti) divenne lieto per non guastare l’atmosfera di festa. L’esecuzione dell’opera spiazzò letteralmente gli spettatori, consapevoli di aver assistito a qualcosa di totalmente nuovo rispetto al passato. Per la prima volta eroi e divinità venivano presentati nel loro aspetto squisitamente umano. Orfeo non era più l’aulico e coturnato semidio, ma un giovane addolorato per aver perso l’amata; Euridice, all’uscita dagli Inferi, una ragazzina gelosa e assillante; Cupido non si comportava come un distaccato “deus ex machina”, ma come un tenero complice della coppia. L’iniziale stupore lasciò il posto a un indiscusso apprezzamento: già alla fine della seconda replica l’imperatrice, visibilmente soddisfatta, regalò al compositore una tabacchiera piena di ducati. Nel 1774 l’”Orfeo” approdò all’Opéra di Parigi in una versione modificata dallo stesso autore per appagare il gusto francese: traduzione del testo, ampio apparato di balletti, quattro nuovi brani cantati e trascrizione del ruolo del protagonista per voce di tenore poiché a Parigi non erano ammessi i castrati. L’Ottocento romantico trovò in Gluck il più significativo antesignano: nel 1859 Hector Berlioz rielaborò nuovamente l’opera gluckiana per il famoso contralto Pauline Viardot e nel 1889 l’editore Ricordi approntò una nuova versione dell’opera in lingua italiana per il Teatro alla Scala di Milano, attingendo sia alla versione originaria sia alla versione Berlioz.
Gaetano Guadagni, il primo Orfeo
L’IPNOTICO “QUASI RECITATIVO” Gli aspetti più innovativi dell’“Orfeo ed Euridice” di Gluck, che tanto meravigliarono il pubblico della prima, consistono nell’assoluta novità della scrittura musicale, principale responsabile della scultorea espressività dell’opera. All’ascoltatore odierno la linearità della melodia, priva di ogni virtuosismo fine a sé stesso, sembra già preannunciare il canto belliniano; scomparso definitivamente il recitativo secco, il recitativo accompagnato diventa sincera espressione dei sentimenti dei protagonisti aprendo la strada agli strepitosi recitativi mozartiani. Il tessuto musicale diviene un continuum senza nette suddivisioni tra momenti strumentali e momenti cantati in funzione dell’efficacia drammaturgica alla quale tutto è subordinato, persino la drastica decisione dell’autore di far concludere il primo atto con un semplice recitativo seguito da una coda degli archi (la cabaletta “Addio miei sospiri” sarebbe stata aggiunta per l’allestimento parigino del 1774). Ma l’invenzione più trasgressiva consiste in quel “quasi recitativo” con cui il compositore definisce nel secondo atto il canto di Orfeo: dopo la galvanizzante melodia dei legni che accompagna l’ingresso nella pace dei Campi Elisi, la musica sembra esitare per lasciare spazio al canto di Orfeo con la frase “Che puro ciel!” che lascia l’ascoltatore senza fiato. Che cosa è questo nuovo modo di cantare? Troppo melodico per essere un recitativo, troppo libero per essere una romanza, ma espressivo come non mai. In futuro, tutto il teatro musicale non avrebbe più potuto prescindere dalla lezione gluckiana, inventando esempi ancor più elaborati di “quasi recitativo”, da “Dormono entrambi”, nella “Norma” di Bellini, a “Ritorna vincitor” dell’”Aida” di Verdi, per non parlare dell’intero catalogo di Wagner e di Strauss. Nella prefazione alla partitura dell’“Alcesti”, pubblicata cinque anni dopo l’“Orfeo ed Euridice”, lo stesso Gluck avrebbe formalizzato i punti fondamentali della sua Riforma, riconoscendosi il merito di aver ricondotto la musica “al suo vero compito di servire la poesia per mezzo della sua espressione” rinunciando a “tutti quegli abusi che hanno per troppo tempo deformato l’opera italiana e reso ridicolo e seccante quello che era il più splendido degli spettacoli”.
Leighton - Orfeo ed Euridice
Francobollo creato per il bicentenario della scomparsa di Gluck
LA TRAMA Premessa. Orfeo, figlio del dio Apollo e di Calliope, musa della poesia, ha il potere di incantare con il suo canto melodioso qualsiasi creatura si trovi ad ascoltarlo. Il giovane suole accompagnarsi con il suono di una lira che gli è stata donata dal padre. A detta di Seneca “… perfino le belve accorrevano dalle loro tane al melodioso canto di Orfeo”. *** ATTO PRIMO Scena Prima – Orfeo piange sulla tomba di Euridice sua sposa, morta in seguito al morso di un serpente. Pastori e ninfe si uniscono al lamento del giovane, che impreca contro gli dei e vorrebbe egli stesso raggiungere l’amata nell’Oltretomba. Scena Seconda – Compare il dio Amore il quale fa sapere ad Orfeo che gli dei, impietositi, gli concedono di varcare la soglia dell’Aldilà per recuperare l’amata, ma a una condizione: durante il tragitto verso l’uscita dagli Inferi il ragazzo non dovrà mai rivolgere lo sguardo all’amata né spiegarle alcunché, altrimenti la perderà definitivamente. Orfeo, pur prevedendo la grande difficoltà di una tale impresa, accetta la proposta. ATTO SECONDO Scena Prima – Orfeo si trova davanti a un’orrida caverna che rappresenta la soglia degli Inferi. Il luogo è sorvegliato da Spettri e Furie che cercano di spaventare il giovane per scacciarlo via, ma egli con il suo canto e con il suono melodioso della sua lira riesce vieppiù a impietosirli. L’ira dei mostri si placa e finalmente “le porte stridono sui neri cardini e lasciano il passo sicuro e libero al vincitor”. Scena Seconda – Orfeo rimane estasiato dalla placida atmosfera
dei Campi Elisi, popolati da un coro di Eroi ed Eroine che gli consegnano la bella Euridice. ATTO TERZO Scena Prima – Orfeo conduce Euridice lungo il tortuoso cammino che porta verso l’uscita dagli Inferi. Attenendosi alle raccomandazioni di Amore, il giovane cammina sempre avanti alla sua sposa, evitando di guardarla e di parlarle. Tale atteggiamento intristisce Euridice che, sospettando che il giovane non la ami più come un tempo, manifesta assillanti lamentele e alla fine si getta a sedere sopra un sasso, affranta dal dolore. La donna si convince che sia inutile tornare in vita se non avrà più l’amore del suo Orfeo. Il giovane, impietosito, non può più resistere allo sconforto e si volta con impeto per guardarla. Euridice lo abbraccia con fervore, ma all’istante cade morta al suolo. Orfeo, conscio del suo irreparabile errore, estrae un pugnale per uccidersi. Scena Seconda – Il dio Amore blocca la mano del giovane, poiché ha deciso di premiare la sua fedeltà: Orfeo con il suo grande affetto per la sposa ha dimostrato ampia fedeltà al dio stesso, che pertanto fa risorgere Euridice. A un cenno di Amore la scena cambia con la comparsa di un magnifico tempio in cui Orfeo ed Euridice, accompagnati da un corteo di pastori e ninfe, si abbracciano felici inneggiando al dio Amore.
Corot - Orfeo ed Euridice