45a Stagione lirica Guida all'ascolto Giacomo Puccini Tosca
con il patrocinio della Provincia di Lecce
AMORE E MORTE DI UNA DIVA
Breve introduzione all’opera “Tosca” di Giacomo Puccini, secondo allestimento nel Cartellone della 45° Stagione Lirica della Provincia di Lecce di Fernando Greco
Nata all’inizio dell’anno 1900, la “Tosca” inaugura idealmente il XX° secolo, lasciandosi definitivamente alle spalle il melodramma Romantico. Con Giacomo Puccini (1858 – 1924), se da una parte l’opera italiana si apre al sinfonismo orchestrale di matrice mitteleuropea (sulla scia di Wagner e Strauss), dall’altra diventa specchio della nuova drammaturgia di inizio secolo, al contempo decadente e naturalista, dannunziana e piccolo-borghese, influenzata in maniera cospicua dalla nascita del cinema.
DRAMMA D‘AMORE E DI MORTE Fin dal primo impatto con il dramma in prosa “Tosca” di Victorien Sardou, il cui allestimento parigino giunse in tournée a Milano nel 1889, tanto il giovane Puccini quanto l’anziano Verdi rimasero folgorati dall’incisività della trama intessuta d’amore e di morte, interpretata magistralmente dalla grande tragédienne Sarah Bernhardt. Dalla prosa alla musica il passo non fu brevissimo: soltanto sei anni dopo, Puccini ottenne da parte di Sardou quel placet accordato inizialmente a un altro musicista, Alberto Franchetti, che però aveva interrotto il progetto. Nel frattempo trascorsero sei anni decisivi per la carriera del giovane compositore che, con il trionfo di “Manon Lescaut” (1893) e de “La Bohème” (1896), si avviò a diventare il più significativo rappresentante del melodramma italiano del Novecento. E pensare che inizialmente lo stesso Puccini, all’indomani del fiasco riportato con la seconda opera “Edgar” (1889), aveva scritto al fratello Michele emigrato in Argentina di rimediargli un posto di lavoro di qualsivoglia natura, purché gli consentisse di vivere!
UN AFFRESCO DI ROMANITA’ Dal momento che il dramma si consumava nella Roma papalina di inizio XIX° secolo, Puccini in persona, sempre perfezionista, volle soggiornare nella Città Eterna per conoscerne storia, cultura e folklore. Ne venne fuori un affresco di romanità, a cominciare dalla processione nella chiesa di Sant’Andrea della Valle per finire allo stornello romanesco che accompagna il sorgere del sole sugli spalti di Castel Sant’Angelo, con tanto di scampanio mattutino (per i suoni delle campane il musicista annotò le precise tonalità dei campanili romani!). La prima si consumò trionfalmente il 14 gennaio 1900 nel teatro Costanzi di Roma davanti a un pubblico illustre tra cui spiccava la regina Margherita in persona: la sua presenza, considerati gli aspetti rivoluzionari e anticlericali della trama, contribuì non poco all’aumento della temperatura in sala (circa sei mesi più tardi re Umberto I sarebbe stato assassinato). All’indomani del debutto, mentre la critica manifestò alcune riserve “... sull’eccessiva tetraggine del libretto” che “... nuoce allo svolgimento lirico” (“La Perseveranza”, 15 gennaio 1900), il pubblico fu entusiasta al punto che “Tosca” avrebbe assunto un ruolo vieppiù rilevante nell’aneddotica popolare. Qualche giorno dopo la prima, un sonetto in vernacolo, comparso sul settimanale “La Vera Roma”, iniziò a circolare sulle bocche di tutti: “Hanno voja a canta’ sti liberali e chiamacce retrogridi e codini: basta senti’ la Tosca de Puccini pe’ dije che so’ sbaji madornali! Che lavoro d’orchestra e de violini! Che motivi gustosi e origginali! Però li mezzi mejo, li più fini, so’ stati proprio quelli crericali. Puccini ch’è ‘n artista, un bon amico, pe’ vede’ tutti quanti entusiasmati, ha dovuto ricorre ar tempo antico! Li pezzi ch’hanno fatto più impressione, defatti, fijo mio, quali so’ stati? Tre: Campane, Te Deum e Pricissione!” D’altronde lo stesso Puccini si era affidato al poeta romanesco Luigi (Giggi) Zanazzo (1860 – 1911), fondatore del periodico “Rugantino”, per i versi del pastorello che canta all’inizio del terzo atto, in quel meraviglioso affresco musicale che rappresenta l’alba di un nuovo giorno. Victorien Sardou
Castel Sant’Angelo in un dipinto di Giuseppe Zocchi
BRUCIANTE IMMEDIATEZZA Tralasciando l’annosa questione sull’appartenenza o meno di Puccini al cosiddetto “verismo” musicale, concordiamo con lo studioso Sieghart Dohring che evidenzia il formidabile realismo di “Tosca” ottenuto grazie a un perfetto dominio degli effetti musicali e scenici, che dà conto di un andamento decisamente cinematografico della vicenda. Assimilata la lezione wagneriana del leitmotiv, il compositore crea una partitura complessa che, pur senza rinunciare al fascino dei pezzi chiusi, possiede l’immediatezza di un thriller poliziesco in cui alle motivazioni politiche si aggiungono dinamiche care al pubblico di ogni tempo, quali la gelosia della protagonista e il sadismo di Scarpia. Basterebbe la bruciante concisione del secondo atto per fare di “Tosca” un capolavoro di suspence che trova nell’omicidio una risoluzione tanto liberatoria quanto illusoria, in attesa del suicidio della protagonista che, alla fine dell’opera, porterà allo scioglimento definitivo del dramma. Il tutto senza mai tralasciare l’aspetto melodico, che trova i suoi punti di forza nei duetti d‘amore tra Tosca e Cavaradossi e nel luminoso “… E lucevan le stelle”, pregevole invenzione pucciniana che dona insolita passionalità al personaggio tenorile. Infatti, mentre nel dramma originario Cavaradossi attende la fucilazione sonnecchiando con cinica indifferenza, nell’opera ricorda con accenti di disperata nostalgia e sognante sensualità il suo rapporto con l’amata. Una definizione univoca del carattere della protagonista risulta difficile poichè la sua apparenza di “femme fatale” convive con una fragilità di fondo derivante dal suo ambiguo ruolo sociale: al contempo artista di regime e compagna di un rivoluzionario, Tosca oscilla tra private trasgressioni e pubblico perbenismo (il suo “Vissi d’arte” in fondo è una dichiarazione di rigida osservanza cattolica) fino al punto in cui questo compromesso le si ritorcerà contro: la ribellione al sistema determinerà anche la progressiva disgregazione della sua vita, fino al tragico suicidio. Esemplare tutto l’apparato funerario di croci e candelieri che ella mette in scena intorno al cadavere di Scarpia dopo averlo accoltellato: la scena, meticolosamente descritta da Puccini in partitura alla fine del secondo atto, rappresenta l’ennesimo paradosso tra estrema trasgressione e gretto bigottismo. Vizi privati e pubbliche virtù sono anche quelle di Scarpia, personaggio che approfitta del proprio ruolo di comando per esercitare un sadismo di duplice natura, sia psicologica (nei confronti di Cavaradossi) sia sessuale (nei confronti di Tosca).
L’incisione di Maria Callas
UNA PREGEVOLE INCISIONE A più di un secolo di distanza, si può dire che “Tosca” sia una delle opere più rappresentate nel mondo, e di conseguenza anche tra le più incise. A far da spartiacque tra un’interpretazione di stampo eccessivamente verista e il gusto contemporaneo, per il quale il melodramma trova la sua ragion d’essere esclusivamente all’interno della partitura, si pone l’incisione EMI del 1953 che, nonostante gli anni e la monofonia, rimane imbattuta sia per l’accuratezza dell’incisione sia per il valore degli interpreti. A dirigere l’Orchestra del Teatro alla Scala un Victor De Sabata in stato di grazia che da solo giustificherebbe la supremazia di questa “Tosca”. Il direttore sa dare la giusta lievità ai momenti più lirici e la giusta intensità a quelli più drammatici, risultando sempre coinvolgente. E poi: il nitore delle campane all’inizio del terzo atto è strepitoso. Come se non bastasse, una Maria Callas nel massimo rigoglio vocale realizza un personaggio modernissimo, che emerge sì a tutto tondo con le sue contraddizioni, la sua schizofrenia, la sua nevrosi, ma sempre dentro le righe dello spartito, senza effettacci o urla di disgustosa platealità. Sicuramente la migliore Tosca in assoluto. Per apprezzarla in maniera più completa, è consigliabile visionare la ripresa EMI del 2° atto dal Covent Garden di Londra nel 1964 per la regia di Franco Zeffirelli: l’atto di far scivolare il polpastrello dell’indice sui bordi di un calice subito prima di accoltellare Scarpia è gesto da grande attrice (... e da grande regia). Nel ruolo di Scarpia, Tito Gobbi regge il confronto con il duo Callas – De Sabata per indiscusse qualità interpretative abbinate a un timbro vocale non bellissimo, ma intensamente drammatico. Viceversa il Cavaradossi di Giuseppe Di Stefano rimane più indefinito dal punto di vista interpretativo, anche se vocalmente superiore alla media.
Puccini con i librettisti Giacosa e Illica
Puccini a caccia sull’adorato lago di Massaciuccoli
LA TRAMA Cenni storici. Nel 1796 la discesa di Napoleone Bonaparte in Italia aveva annientato le monarchie e determinato la nascita di molte repubbliche filofrancesi (o “volterriane”) tra cui la Repubblica Romana (febbraio 1798) e la Repubblica Partenopea (gennaio 1799). A partire dall’ aprile 1799 le truppe borboniche alleate con quelle austro-russe avevano ripreso il sopravvento sui repubblicani, facendo capitolare sia la Repubblica Partenopea, che ritornò in mano ai Borboni (giugno 1799), sia la Repubblica Romana, che ridivenne Stato Pontificio (settembre 1799).
viene indotta da Scarpia a credere che l’amato intrattenga una tresca con la marchesa Attavanti: il ventaglio sarebbe indizio certo del fatto che qualcuno abbia disturbato la coppia ed ella sia fuggita perdendo l’oggetto. Pertanto Tosca, i cui sospetti iniziali sembrano aver trovato conferma, si avvia decisa e furente verso la villa, sicura di cogliere in flagrante la colpevole coppia. Scarpia la fa pedinare da Spoletta. Nel frattempo la chiesa si è riempita di fedeli. Inizia il Te Deum, mentre Scarpia pregusta una duplice vittoria: da una parte la cattura dei due rivoltosi e dall’altra il possesso di Tosca.
ATTO PRIMO - Roma, chiesa di Sant’Andrea della Valle.
ATTO SECONDO – Roma, la camera di Scarpia al piano superiore di palazzo Farnese.
Estate 1800, da pochi mesi è stato restaurato lo Stato Pontificio. Entra in scena Cesare Angelotti, console della spenta Repubblica Romana, appena evaso dal carcere di Castel Sant’Angelo. Egli si nasconde nella Cappella Attavanti dopo averla aperta con la chiave che sua sorella, la marchesa Attavanti, gli ha fatto trovare in un posto concordato. Giunge il sagrestano portando con sé dei pennelli appena lavati, destinati al pittore Mario Cavaradossi che, entrato in scena subito dopo, scopre il quadro a cui sta lavorando. Si tratta di un ritratto della Maddalena, nelle cui fattezze il sagrestano riconosce, scandalizzato, i tratti di un’ignota donna che recentemente è venuta spesso in chiesa a pregare. Il sospetto viene confermato dal pittore, che spiega di essersi ispirato a lei avendola vista così infervorata nella preghiera. E tuttavia egli, pur ammirandone le sembianze e gli occhi azzurri, non può fare a meno di pensare alla sua amata Tosca, che invece ha gli occhi neri. Il sagrestano nota che il cesto contenente il pranzo del pittore è ancora pieno e, chiesto il motivo di ciò, viene a sapere che Mario non ha fame; quindi esce di scena rallegrandosi all’idea di poter tenere il cesto per sé. Angelotti esce dalla cappella e si fa riconoscere da Cavaradossi, suo vecchio compagno di rivolta e “volterriano” come lui. Dall’esterno si ode la voce di Tosca che chiama Mario con insistenza poiché la porta della chiesa è chiusa. Il pittore fa nascondere l’amico nella cappella dandogli il cesto del cibo affinché egli possa sfamarsi nell’attesa che Tosca vada via. La donna entra in scena furibonda: dall’esterno ella ha udito delle voci e, gelosissima com’è, sospetta che l’amato possa intrattenersi in chiesa con qualche amante segreta. Una volta tranquillizzatasi, ella propone a Mario un progetto per la serata: dopo il concerto di lei (Tosca è una famosa cantante) entrambi avrebbero passato la notte piacevolmente, in campagna, nella villa del pittore. Nell’andar via Tosca, peraltro insospettita dal fare circospetto dell’amato, fa una nuova scenata di gelosia quando riconosce nella donna del dipinto la marchesa Attavanti, pensando che sia lei l’amante segreta del suo uomo. Cavaradossi riesce nuovamente a calmarla, spiegando anche a lei come siano andate veramente le cose. La donna appare soddisfatta della spiegazione, a patto che Mario faccia alla sua Maddalena gli occhi di colore nero. Appena uscita Tosca, Cavaradossi spiega ad Angelotti come raggiungere la sua villa in campagna dove attendere al sicuro la notte per poi poter espatriare; in caso di imminente pericolo, egli avrebbe potuto nascondersi in un antro segreto sito nel pozzo del giardino. Si ode un colpo di cannone: i due capiscono che la fuga di Angelotti è stata scoperta, Mario decide di accompagnare di persona l’amico alla villa. Torna il sagrestano in compagnia di chierici e cantori: bisogna apprestarsi a intonare il Te Deum per festeggiare la battaglia di Marengo che sembra volgere a favore degli austriaci. L’atmosfera festosa si interrompe all’arrivo del barone Scarpia, capo della Polizia Pontificia, che indaga, insieme col fedele Spoletta e altri sbirri, sulla fuga di Angelotti. Con sommo stupore del sagrestano, la cappella Attavanti è aperta e al suo interno viene trovato il cesto del cibo, ma vuoto, e un ventaglio che porta lo stemma della marchesa Attavanti. Scarpia, che per di più ha notato la somiglianza del dipinto con la marchesa, non ha dubbi su come siano andate le cose. Giunge Tosca che, constatando l’immotivata assenza di Cavaradossi,
Scarpia sta cenando nel suo ufficio privato mentre dal piano inferiore, dove si festeggia la vittoria su Napoleone, giungono le note di un’orchestra. Giunge Spoletta, il quale racconta di aver inseguito Tosca fino alla villa di Mario Cavaradossi, ma di non avervi trovato traccia di Angelotti; lo sbirro ha comunque arrestato il pittore a causa dei suoi atteggiamenti sospetti. Mario viene dunque condotto al cospetto di Scarpia che minacciosamente gli chiede dove sia il fuggiasco, senza ottenere risposta. Frattanto dal basso si ode il canto di Tosca la quale, terminata l’esibizione, raggiunge trafelata l’ufficio di Scarpia, dove l’amato le lancia cenni d’intesa affinché non riveli nulla di quanto sa. Mario viene accompagnato in una stanza attigua dove viene sottoposto ad atroci torture: le sue urla strazianti giungono all’orecchio di Tosca che, incalzata da Scarpia, gli rivela finalmente il nascondiglio di Angelotti. Le torture cessano e Cavaradossi viene condotto in stato di semiincoscienza davanti a Tosca. Ad alta voce e in maniera provocatoria Scarpia dà ordine a Spoletta di andare a cercare Angelotti nel pozzo del giardino, suscitando l’ira di Cavaradossi che si scaglia contro Tosca, colpevole di averlo tradito. L’ira dell’uomo si tramuta in gioia isterica quando un gendarme reca la notizia dell’attuale vittoria di Napoleone a Marengo. Irritato, Scarpia lo fa condurre in carcere. Rimasto solo con Tosca, Scarpia esplicita il suo immondo desiderio: salverà la vita a Cavaradossi se la donna si concederà a lui. Giunge Spoletta per avvisare il suo capo che Angelotti, al giungere dei poliziotti, si è ucciso. Tosca comprende che per il suo amato non vi è più speranza e mostra di accettare il patto propostole da Scarpia. Dopo aver dato ordine al suo sottoposto di fucilare il condannato in maniera simulata, Scarpia firma un salvacondotto con il quale Tosca e Cavaradossi sarebbero stati liberi di espatriare. La donna si impossessa furtivamente di un coltello e, nel momento in cui Scarpia fa per abbracciarla, lo uccide pugnalandolo rabbiosamente. Preso con sé il salvacondotto, Tosca fugge via. ATTO TERZO – Roma, la piattaforma di Castel Sant’Angelo. Sta per albeggiare, le campane delle chiese suonano mattutino, mentre dall’esterno si ode il canto di un pastorello. Cavaradossi, nell’attesa di essere giustiziato, scrive l’ultimo addio alla sua amata, ricordando con nostalgica amarezza il tempo felice del loro amore. Improvvisamente compare Tosca la quale spiega all’amato quanto sia successo e quanto dovrà succedere, raccomandandogli di essere credibile come un bravo attore nel momento in cui dovrà fingere di morire sotto i colpi dei fucili. Mario asseconda senza troppa convinzione l’entusiasmo dell’amata, quindi si avvia davanti al plotone d’esecuzione. Tosca rimane a guardare da lontano, meravigliandosi di quanto Mario sia bravo nel farsi creder morto. Purtroppo la donna scopre di lì a poco che il suo Mario è morto veramente, comprendendo troppo tardi l’inganno di Scarpia. Mentre ella piange disperata sul cadavere dell’amato, viene raggiunta dagli sbirri che, avendo scoperto il cadavere di Scarpia, si accingono ad arrestarla. Rapidamente la donna corre al parapetto e si getta nel vuoto gridando: “O Scarpia, avanti a Dio!”