Anno 2010 Numero 1
Prove tecniche di narrativa e altre amenitĂ .
Sommario Neon Taccuino di Viaggio White Rabbit Mr. Ikea e Tyler Durden Dello scrivere
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Piccole oscillazioni quotidiane? Amelia Il bisogno di regolaritĂ La Ruota della Fortuna Valvole
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MANIFESTO Taccuino all’Idrogeno è un tavolo con più di qualche bicchiere sopra e qualche carta da gioco, è un tavolo di legno in un vecchio bar quasi dimenticato, dove il barista riesce a servirti “il solito” perché conosce già le tue abitudini. Seduta a quel tavolo qualche anima discute e chiacchiera mentre l’esperienza immediata della vita corre. Produce inconsapevolmente cultura spontanea, di quella che facevano anche i nostri vecchi; quella che deriva dal verbo colére, che indica l’operazione o l’azione di coltivare, atto dal quale nasce l’espressione figurata “cultura animi”. Al tavolo di Taccuino all’Idrogeno si sviluppa la forma e l’essenza umana, con tutte le sue facce. Da tempo. In un bar dimenticato da Dio. Qui nel Taccuino ci consideriamo dei semplici osservatori attivi, molto opinabili, perché in realtà non sappiamo scrivere: crediamo infatti nell’uomo prima che negli alambicchi dello scrittore. Nell’uomo che scrive d’uomini e d’emozioni, di vita, di carne e nervi e sangue, d’organismi, non di sistemi; e che ne scrive da uomo, non da profeta. Non vogliamo essere nulla più che un “qui” ed evitare di agglomerarci in un “noi” di idee comuni. Non ci teniamo a manina; crediamo piuttosto nel contenuto di ogni cosa, di qualunque espressione o forma si tratti. Lo scopo è il viaggio e non la meta. La meta è la tomba. Non abbiamo buoni consigli o teorie illuminanti e le verità assolute sono davvero poche. Ci è voluta una vita per avere le nostre e si contano sulle dita di una mano. Non che non ci interessi il mondo che ci circonda, che costituisce peraltro ciò di cui ci nutriamo, come arte letteratura moda costume società medicina diritti umani natura ambiente scienze musica colonne sonore aperitivi amicizie relazioni e giochi in scatola, ma di quegli argomenti parliamo quando siamo sobri. Siamo stanchi dell’alternatività forzata come fonte di ribellione all’ignoranza. Il resto lo legge il lettore. Il senso dell’umorismo e la consapevolezza di partire dal basso sono quello che più conta, assieme ai dubbi e alle beffarde ironie del caso e della realtà. Ci dissociamo da ogni buriana di schemi, da ogni bufera di codicilli, perchè non si perda il senso ultimo dell’iniziativa, ovvero la dimostrazione della superiorità della sostanza sulla forma. Non vogliamo essere nulla più che avventori seduti al tavolo di un bar, a chiacchierare del più e del meno cercando d’essere i primi degli ultimi, i migliori dei peggiori; a sputare budella mentre guardiamo i fondi dei nostri bicchieri ormai vuoti. Rialziamo gli sguardi per guardarci negli occhi. Insomma, non illuminiamo ma di sicuro facciamo ambiente. Dichiariamo quindi di essere responsabili di ogni scritto da noi prodotto ma non dell’utilizzo che sarà fatto di esso. Anche questo a scelta del lettore.
Taccuino all’Idrogeno
Neon
perché da essa dipende la sua vita e ad essa dedica ogni singola goccia di sudore in allenamento. È la forza misteriosa che lo fa abbassare sotto ad un diretto visto con la coda dell’occhio, o indietreggiare a pochi centimetri da un montante improvviso; è l’intelligenza del corpo, più veloce, elementare, pronta di quella della mente; una sorta di sicurezza condizionata che sopperisce ai meccanismi eccessivamente minuziosi della ragione. Allo stesso modo l’io sommerso di M. ne guidava passi e parole senza errore alcuno, ma ad un osservatore attento non sarebbe potuta sfuggire la singolare disparità tra la sicurezza della sua persona e il vagare incomprensibile del suo sguardo. Della Russia, M. conosceva soltanto due cose,e tra le due l’ultima era quella che conosceva di gran lunga meglio. Era la sua sconfitta quotidiana, un’espansione di coscienza da supermercato somministrata tre dita per volta. Ma funzionava, e quando la vista prolungata del nulla cominciava a vincerlo, quando la consapevolezza forzata del vuoto iniziava a farlo franare, quella era l’unica risposta , l’unico significato sensato che riusciva a darsi. M. lasciava che la vodka allagasse il cervello di una benefica ovatta e impedisse ai singoli pensieri di concatenarsi a formare sillogismi troppo duri da sostenere. Il giorno si mescolava alla notte, la menzogna alla verità, ogni cosa cambiava consistenza e diveniva d’un tratto sopportabilmente reale. E solo allora capiva che le illusioni non hanno inizio né fine. Quando un uomo crede in un’illusione rende l’illusione una realtà tangibile, facendola parte di sé. E quando smette di credervi tramuta quella stessa realtà in illusione. Tutto funzionava in questo modo ridicolo: l’amore stesso, meta e ragione di un’esistenza, altro non era che una balla nella quale aveva finito per credere. Ed era reale, non aveva smesso di credervi. M. si trovava nell’innaturale condizione di osservare il ciglio del baratro nella più totale tranquillità. Gli serviva soltanto un altro bicchiere per portare al collasso il sistema, per uscire dal cerchio e abbandonarsi alle proprie funzioni base, all’animale ben più sensato di sé che il suo corpo conteneva. Prendeva una lunga sorsata reprimendo la fiammata di ritorno, con gesti affinati dall’abitudine, e scivolava nell’alba. “I russi sapevano il fatto loro”, avrebbe detto qualcuno.
di K.S.
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ella Russia, M. conosceva soltanto due cose: Tchaikovski e la vodka. Anni di notti dilatate dall’insonnia gli avevano donato molte ore per dedicarsi suo malgrado a se stesso, o a qualunque cosa gli passasse per la testa lenisse il silenzio troppo mobile che lo avvolgeva. Al primo era arrivato trasportato dal caso, come del resto sembrava essere per ogni cosa buona della propria vita; lo colpiva quel che di divertito che, trasognato, avvertiva in mezzo a quella folle marzialità. Gli pareva quasi che la sua anima, attraversata da quel fragore, ne venisse illuminata ed innalzata; e che una sorta di istinto animale se ne risvegliasse, sorgendo improvviso dalla coscienza intontita dalla necessità. La musica era una fuga. M. abitava infatti una notte sconosciuta a molti, lontana dall’essere il normale vuoto della coscienza che scivola sotto i letti dei sani e degli adatti. Viveva una sorta di stanza piena di specchi, fatta di luci incandescenti e colori troppo forti, nella quale ogni cosa lo costringeva a rivolgere il pensiero a sé stesso e non v’era spazio per nascondere e nascondersì nulla. Conosceva molto bene quell’ora particolare, sospesa tra buio e crepuscolo, che fa gigantesca ogni ombra dell’anima, e nella quale ogni cosa pendola tra gli estremi facendo vacillare la razionalità. Odiandola, temendola aveva imparato ad amarla aspettandosene grandi cose, così come il tenente di un vecchio libro aveva fatto col suo deserto, attendendo l’arrivo di un nemico tanto atteso e dell’ora che illuminasse la sua intera esistenza. Per M. il confine tra sonno e veglia era quasi indefinito. Viveva la zona grigia giusto nel mezzo, una sorta di limbo perenne in cui arrivava a percepirsi in terza persona e nel quale osservava se stesso agire da lontano, d’istinto. Mai pienamente cosciente né sopito del tutto, si muoveva nel mondo delle cose sensibili con la coscienza riflessa di un pugile. C’è infatti nel corpo una sorta di intelligenza passiva, animale, che l’abitudine incide nella memoria d’ogni muscolo: un pugile la conosce bene,
K.S.
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Sciopero delle ferrovie Pioggia torrenziale Sonno Depressione domenicale ... embra che tutto sia contro questo viaggio (lo so, saranno solo un centinaio di km ma contando che uso la macchina solo per girare in città di solito...beh sono un bel po’). Però un’altra domenica a casa non la posso reggere. Ok, vado. Destinazione: una stupenda libreria in una provincia vicina che proprio oggi ospita la presentazione di un libro sulla mia città. A questo si aggiunge la compagnia di amici librofili. E ormai l’autore bazzica il nostro gruppetto da una settimana. Mi pare che i lati positivi siano di gran lunga più numerosi degli inconvenienti che il destino ha messo sulla nostra strada, se proprio bisogna vederla in maniera un po’ fatalista.
S
Piccola presentazione che già adoro. Fare della cultura il proprio lavoro è un qualcosa a cui noi appassionati di letteratura e arte (lo so, arte è un termine generico che ha quasi un’accezione negativa talvolta. In questo caso lo userò, spero non impropriamente, per indicare scultura, pittura, musica, arti visive. Campi che frequento poco per inesperienza. La mia arte prima è la scrittura. Degli altri.) aneliamo costantemente. Mi piace questo autore. Sta spiegando che ha fatto del recupero delle tradizioni orali veneziane il suo lavoro. La sua passione. E, per inciso, si sente. Si comincia. Si abbassano le luci e percorriamo il Canal Grande. Ci fermiamo ogni tanto per sentire le storie dei palazzi che riconosco, li vedo sempre. Ma non li conosco con i nomi con i quali li chiama lui, per me sono “quel palazzo lì grande”, “quell’altro giallo” e la sede del Guggenheim (questa la azzecco).
Taccuino di Viaggio
Quindi dopo un viaggio interminabile e una quantità di luci di centri commerciali dopo, eccoci. Scendo dalla macchina, bisogna pagare il parcheggio anche la domenica. Anche la domenica? Cavolo. Non ho monete. Doppio cavolo. La pioggia ha già inzuppato i miei stidi vali tortora delicatissimi. Sono zen, sono zen, sono zen. No, non sono per niente zen! Una volta sistemata la faccenda macchina..ecco gli amici. Che sollievo, tutti sorridenti e felici di vederci. Già mi rilasso ed entro in quell’atmosfera autunnale scandita da risate, libri, cioccolata calda e non maledette foglie scivolose, freddo, raffreddore, traffico e dannazione a loro, tutti i tossici da negozi un mese prima di natale. Sorriso inebetito. Ci dirigiamo verso la libreria..che è proprio l’apoteosi. Di tutto. Non solo grande e organizzata in maniera impeccabile, con i libri consigliati dai commessi della libreria, lo spazio per le agende e tutte quegli oggetti di cartoleria che ci attirano inevitabilmente, ma soprattutto con decine di sezioni, migliaia di libri di tutti i tipi: manuali, di cucina con immagine succulente, sui tatuaggi giapponesi con una grafica insuperabile, sui cani con foto di cuccioli che come al solito mi commuovono, mini manuali sulla birra..adoro questo posto. Non faccio a tempo a spulciare per bene tutte le stanze che è già ora di prendere posto nella sala affrescata per l’inizio della presentazione. Alle nostre spalle un pianoforte. Voglio suonare. Voglio scorrere le dita su quei tasti e far uscire tutto quello che ho in mente. Deve essere questo far fluire i pensieri attraverso il corpo e farlo sentire agli altri. Mi dimentico sempre però che non so leggere le note. E non so suonare alcuno strumento tranne il flauto dolce (quello che ti insegnano a suonare alle medie). Devo imparare a suonare qualcosa. La viola magari, visto che è un po’ che me lo riprometto. Torno dal mio viaggio mentale, l’autore è già arrivato.
E riscopro ancora una volta quanto ci sia del mare nel mio sangue. I veneziani, per conto di imperi assolutamente non veneziani, hanno scoperto terre e solcato mari oltre ogni immaginazione, mentre la Serenissima aveva occhi S.A. solo per l’Oriente. Vengo a sapere che Casanova, prima di diventare famoso ovunque per la sua arte amatoria, era destinato a prendere i voti. Sento che anche Rodolfo Valentino ha avuto a che fare con la città. Rodolfo Valentino. Rifiutato dall’Accademia della Marina di Venezia per un centimetro in meno di torace e un occhio un po’ sguercio. La prossima volta che riceverò un no non ne farò una tragedia.
Percorso Fluviale
Ripercorriamo storie di famiglie veneziane estinte, personaggi con nomi che conosco, ma dei quali non conosco le avventure. Mostri marini in laguna e palazzi nati o abbattuti per dispetto sulle rive Decitra o Deultra del Canal grande. Un pomeriggio “all’estero” per sentir raccontare storie bellissime e a me sconosciute sulla mia città. Che sento ancora più mia. Storie che mi fanno pensare che in effetti non so molto del posto che amo. Della mia casa. Ma che, come ogni città storica, ha mucchi di leggende e passati attestati storicamente che nasconde in ogni pietra. Alla fine, una sorpresa: una cioccolata tutti insieme con l’autore. Adoro questi incontri. Adoro ascoltare e assorbire tutto quello che mi viene proposto sulla mia casa e poi innaffiare il tutto con un the, una cioccolata o quant’altro. Scegliamo un locale perfetto: noi tutti sui divani o appollaiati sugli sgabelli e il nostro Virgilio su una poltrona a parlare del suo viaggio in Cina, come un nuovo Marco Polo (forse un po’ scontata come
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associazione mentale, ma tant’è, è automatica). E ancora, segue un nuovo appuntamento. Una terza parte quindi. E un’ottima cioccolata (ok, la nomino per la terza volta... ma visto il tempaccio di ieri..). E risate. E occhi sgranati ancora. Alberto passa da Virgilio a Marco Polo a Fedro in un pomeriggio. E mentre me ne torno a casa dopo questo fantastico incontro, penso al mio quotidiano. Noioso, rabbioso talvolta, un po’ vuoto di quello che ho vissuto in questo pomeriggio. Come vorrei lavorare con le mie passioni. Alzarmi ed essere ansiosa di mettermi all’opera. So che non sarebbe sempre tutto idilliaco ma almeno percepirei un netto miglioramento generale. Mia madre mi fa notare che i due mondi sono separati e non tutti possono rischiare di mischiarli. Saprei gestire un tale carico emotivo? E di
lavoro? Forse la sto facendo più grande di quanto sia ma devo mettere in conto tutto. Cioè, dovrei. Parliamo per un po’ ancora presissime dall’esperienza. Ma non riesce a convincermi. Forse cadrei nel narcisismo spietato, ma come vorrei poter scrivere di quello che amo.
Marco Polo, Fedro e Virgilio sono Alberto Toso Fei; le storie di cui si fa cenno sono contenute e narrate magistralmente in “I segreti del Canal Grande” (Studio Lt2, 2009). Ringrazio l’autore per l’assoluta disponibilità e cortesia (e per avermi cavallerescamente ceduto la cioccolata – e quarta menzione!).
White Rabbit di I.M. Un romanzo sono tutti i crimini dell’umanità raccontati da qualcuno che non ne ha commesso nessuno. Mark Twain
(…) L’istante dopo Alice attraversava lo specchio e saltava agilmente nella stanza di dietro. La prima cosa che fece fu di guardare se ci fosse il fuoco nel caminetto, e fu tanto contenta di vedere che ce n’era uno vero, pieno di fiamme vive, come quello che aveva lasciato nel salotto. «Così, qui starò calda come nell’altra stanza, - pensò Alice, - più calda, veramente, perchè qui non ci sarà nessuno che mi farà allontanare dal caminetto. Che bellezza, quando mi vedranno attraverso lo specchio e non potranno toccarmi!» (…)
I
libri sono come degli specchi. Tanti tantissimi specchi puliti in superficie. E’ per questo che la maggior parte delle persone li legge. Quelle stesse persone sono accumunate da una spasmodica ricerca di qualcosa di diverso ma allo stesso tempo simile a loro, che eluda la realtà e porti la quasi sicura certezza di arricchirla, qualsiasi sia il punto di partenza e qualsiasi sia la direzione. Gli individui sono in fondo esseri semplici e spesso cercano altrove le loro ragioni di essere e i loro gusti ed odori. Un libro serve nella maggior parte dei casi a dare ai suoi lettori dei valori aggiunti di vario genere, oppure serve al contrario, a toglierli, non ho visto molto altro in giro. Ci
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sono folle intere, piccoli gruppetti, o singoli malinconici ovunque, affacciati a delle pagine piene zeppe di storie, favole, morali e realtà fantastiche o tangibili. Affacciati ad atmosfere, sentimenti, passioni, paure, questioni, casi, destini, terrori, orrori e miserie. Negli ultimi esempi tra l’altro il numero dei lettori diminuisce enormemente. E c’è una sola questione: cosa vi cerchino. I libri sono come degli specchi e guardando le mie scrivanie ho sempre sostenuto e sostengo una cosa, prima di tutte: che ogni libro ha il suo tempo e il suo momento adatto per essere letto. Che ogni libro è ciò che siamo nell’esatto istante in cui leggiamo le sue pagine. E’ la cosa più logica che sono arrivato a capire con il passare del tempo. Davanti a quelle scrivanie non nascondo la mia età, tantomeno nascondo l’impalcatura di cui sono fatto e quello che corre dentro le mie travi. Faccio fronte all’evidenza e non nascondo nemmeno di possedere e di aver letto molti meno libri rispetto non solo a tanti miei coetanei, cosa comunque possibile, ma a tante persone di età anche di molto inferiori alla mia. Fissando le pile sempre troppo basse, o gli scaffali sempre troppo vuoti per il mio spasmodico senso del possedere e di cercarmi in qualche luogo, mi sono accorto di essere incuriosito da un fatto che non intendo definire con aggettivi, ma che esiste e basta. Esiste come esisto io che scrivo in questo momento, come esiste il resto del mondo, razionale e non. Non c’è relativismo: è. Esiste questo fatto che non riesco a capire non tanto come sia possibile una tale differenza matematica nel numero di letture quanto come sia possibile trovare così tanto da leggere e affrontare interi bombardamenti di volumi senza probabilmente
aver nemmeno avuto il tempo di vivere. Perché io credo che i libri siano come degli specchi ma credo anche che in molti non la pensino o sentano come me. Anni fa mia madre mi ha insegnato quello che so riguardo i libri, me l’ha insegnato con una naturalezza ed una innocenza che raramente le persone adulte mostrano senza vergogna. Anni fa, quando ancora facevo vanto dei mie voti in italiano perchè mi pareva di avere un futuro assicurato, mia madre mi disse che non aveva capito la storia di Dorian Gray; aggiunse anche che probabilmente era perché non era una donna colta ed istruita e quindi non avrebbe potuto capirla perché troppo complessa. Mia madre affermava che la sua ignoranza fosse il nocciolo della questione e contemporaneamente che Wilde non era di certo alla portata di una piccola casalinga che guarda La Signora in Giallo mentre stira. Si, lei guardava e guarda La Signora in Giallo, e ben venga quella signora che porta una sfiga incredibile piuttosto che molta altra merda che esce da quel dannato tubo catodico. E credo ce la questione sia non il come fare a capire Wilde se guardi La Signora in Giallo ma perché La Signora in Giallo la capisci e Wilde no. Pare forse una cretinata? Pare forse una cretinata perché La Signora in Giallo la capiamo tutti? Sorrido perché non credo sia così. Non tanto perché credo nel fatto che ci sia qualcuno che non riesce ancora a capire dopo i primi cinque minuti di Murder, She Wrote chi è l’assassino, ma perché credo nel fatto che le due cose siano differenti. Credo che La Signora in Giallo sia paragonabile ad una caccia al tesoro, dove non conosci gli elementi ma piano piano arrivi a scoprirli e se sei abile arrivi alla soluzione, prima di altri. Ma ancora alla partenza sai già che c’è LA soluzione finale e che è lì alla fine. Esiste. Ecco, credo quindi che Wilde non possa essere paragonato ad una caccia al tesoro. Ci sono delle cose nella vita che ci vengono insegnate a tavolino e delle cose che impariamo a tavolino e la questione è ben diversa. Ciò che (ci) insegnano a scuola è ciò che viene trasmesso e stimola la voglia di capire, comprendere e conoscere. Ma ciò che ti insegna la vita lo impari da te senza obbligo alcuno. La vita ti impara. La scuola ti insegna. Il filo è sottile e perennemente in bilico. In entrambi i casi puoi scegliere, nel secondo caso anche il fato gioca le sue carte. Mia madre Wilde lo aveva solo sentito nominare. Mia madre ha i calli sulle mani e l’artrosi per il troppo lavoro. Mia madre ha le unghie che si spezzano. Mia madre è stata in collegio e non ha i genitori. Mia madre ha vissuto la povertà. Mia madre ora sta meglio. Mia madre non sa cosa sia il narcisismo. Mia madre non sa cosa sia la Dolce Vita. Mia madre non ha mai avuto il tempo di guardarsi allo specchio. Mia madre potrebbe farlo in futuro, potrebbe non farlo. C’è anche chi è stato o sta peggio di mia madre. C’è chi sta meglio. Ma ecco perché mia madre non ha capito Dorian Gray. Ecco perché mia madre mi ha confessato che Dorian Gray non le era stato utile. E io ammiro mia madre per questo, non solo perché è mia madre, quella cosa lì ce l’abbiamo tutti - credo - la ammiro per aver riconosciuto davanti a suo figlio di essere semplicemente sé stessa.
Mi perdo quindi ad ascoltare intere conversazioni dedicate al numero di libri letti in un mese, in due, in un anno, al numero di pagine totali, a quale libro sia migliore di altri, riguardo a stile, contenuti, assuefazione. Mi perdo perché mi sento ignorante e impotente davanti a tutto questo. Perché ammetto che non me ne frega nulla. Mi accorgo che mi perdo proprio perché non conto alcuna pagina. Accade però che qualche secondo dopo penso a mia madre e penso che sono come lei. “Lady Day got diamond eyes, she sees the truth behind the lies”- penso. E questo mi basta per guardarmi allo specchio come dico io.
Inflatable Flower and Bunny - Jeff Koons
Il titolo di questo articolo è ispirato al romanzo Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll e liberamente usato come colonna sonora nella versione dei Jefferson Airplane. La citazione iniziale è tratta dal libro Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò di Lewis Carroll. Wilde è stato come sempre di grande aiuto, e pare quasi una casualità. Per chi non lo sapesse ma lo vuole sapere Lady Day è Billie Holiday, la citazione è tratta dalla canzone Angel of Harlem che gli U2 le hanno dedicato. Il resto è tratto da una storia vera.
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“Prima regola del Fight Club: non parlate mai del Fight Club. Seconda regola del Fight Club: non dovete parlare mai del Fight Club.” Tyler Durden
Mister Ikea e Tyler Durden Una riflessione a tiepido su Fight Club di Y.F.
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gli sgoccioli del decennale dell’uscita di Fight Club nelle sale mi sento in dovere di considerare con un martello in mano molte delle menate che qualche fanatico e qualche tardoadolescente troppo esaltato ne ha fatto saltar fuori. Prima di tutto, non è un film di botte, il titolo fa chiaro riferimento al confronto fisico ed esso è il fulcro, ma non necessariamente il nocciolo. Le scene di picchiamento scandiscono l’intreccio del film, ma si guardi oltre. La pellicola è sgradevole da vedere e così come il suo contenuto, già dalle prime immagini non fa nessun tentativo per piacere. I dialoghi sono un punto di forza ed è da uno di questi che voglio iniziare. Ed Norton e Brad Pitt si incontrano per la seconda volta, sono in bar, a Ed è appena saltata in aria la casa e passa in rassegna tutte le cose che stavano per farlo diventare perfetto, completo, ora è spaesato. Brad non lo consola e dice che forse è meglio così, si è sbarazzato di tante cose assurde, inutili comprate su consiglio di personaggi televisivi che dettano gli standard per essere uomini di questa società: Ed: “L’arredatrice Martha Stewart!” Brad: “Fanculo Martha Stewart! Martha sta lucidando i pomelli del Titanic, va tutto a fondo...” L’immagine è bellissima -ci si potrebbe vedere una profezia all’attuale crisi economica- siamo a servizio dei prodotti che consumiamo e che ci appartengono, non solo, questi beni sono quelli che promettono felicità. In forza di questa promessa si è passati dalla pornografia all’arredomania, si passa dall’ingannare un bisogno biologico da riproduzione al chiudersi in bagno col catalogo Ikea, bisogno indotto artificiale. Proprio qui sta il motivo degli incontri fisici: dal momento in cui la società ti propina tante soluzioni fittizie, buone solo a convincere in un qualche modo la mente, la corporeità e i suoi bisogni si rivelano efficaci nodi di senso e di partenza per riprendere possesso della propria umanità in maniera ancestrale (il pensiero occidentale ha abbandonato 2500 anni fa con Platone la parità corpo e mente -io sono corpo, io sono mente- a completo vantaggio e supremazia della mente).
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Immersi dell’ideologia dell’egoismo competitivo si perde il sonno, nasce un malessere. Il film mostra una possibilità di come riprendere la padronanza di se stessi, oltre ogni ossessione di autoperfezionamento. Fight Club auspica una liberarazione da una mentalità che vuole persone sempre in ricerca di una sicurezza di sé e di buona autostima. Esce dalla bocca proprio di Brad Pitt: “l’automiglioramento è masturbazione”, “non si sia mai perfetti, evolviamoci!” Non solo: si propone la necessità di avere coscienza della propria morte e non paura di essa e l’ipotesi che esiste un dio e tu, uomo, non gli possa piacere. L’idea di produrre e rivendere saponette di qualità fatte col grasso umano rubato dalla clinica per liposuzioni è un’idea geniale, metafora di come si possa abbattere il sistema usandone le stesse ligiche, la stessa ideologia. Fin qui il punto il vista è interessante, stimolante, apre le vedute. Ci si potrebbe fermare qui, ma il film va oltre. La libertà che promuove è tale solo se si perde ogni speranza, il prezzo mi sembra un po’ troppo alto. L’autoconservazione è considerata un impedimento al vivere, personalmente l’appoggio, ma ci si rende conto delle conseguenze? Il progetto Meyem è una organizzazione terroristica, certo, senza fini di ammazzamento, ma ha alla base una anarchia fondamentalista. Ci si fermi alla critica sulla società dei consumi, sulla società del cosiddetto benessere, si accolga l’invito a ristabilire le priorità della propria condizione umana. Il film e il libro non vogliono fare propaganda, si apprezzino gli eccessi solo nella finzione cinematografica e letteraria, se proprio si vuole proseguire si scelgano tematiche più sobrie: resta un bel film sull’insonnia, sulla relazione che abbiamo con il nostro io ideale. Si può discutere sulla scelta di aver ingaggiatp Brad Pitt per un film di questo genere e il fatto stesso che abbia accettato. Non sarebbe male soffermarsi sulla figura di Marla, personaggio pieno di fascino, e analizzare la relazione col protagonista diventerebbe interessante... qui smetto, ho già seccato abbastanza.
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gli sgoccioli del decennale dell’uscita di Fight Club nelle sale mi sento in dovere di considerare con un martello in mano molte delle menate che qualche fanatico e qualche tardoadolescente troppo esaltato ne ha fatto saltar fuori. Prima di tutto, non è un film di botte, il titolo fa chiaro riferimento al confronto fisico ed esso è il fulcro, ma non necessariamente il nocciolo. Le scene di picchiamento scandiscono l’intreccio del film, ma si guardi oltre. La pellicola è sgradevole da vedere e così come il suo contenuto, già dalle prime immagini non fa nessun tentativo per piacere. I dialoghi sono un punto di forza ed è da uno di questi che voglio iniziare. Ed Norton e Brad Pitt si incontrano per la seconda volta, sono in bar, a Ed è appena saltata in aria la casa e passa in rassegna tutte le cose che stavano per farlo diventare perfetto, completo, ora è spaesato. Brad non lo consola e dice che forse è meglio così, si è sbarazzato di tante cose assurde, inutili comprate su consiglio di personaggi televisivi che dettano gli standard per essere uomini di questa società: Ed: “L’arredatrice Martha Stewart!” Brad: “Fanculo Martha Stewart! Martha sta lucidando i pomelli del Titanic, va tutto a fondo...” L’immagine è bellissima -ci si potrebbe vedere una profezia all’attuale crisi economicasiamo a servizio dei prodotti che consumiamo e che ci appartengono, non solo, questi beni
io sono mente- a completo vantaggio e supremazia della mente). Immersi dell’ideologia dell’egoismo competitivo si perde il sonno, nasce un malessere. Il film mostra una possibilità di come riprendere la padronanza di se stessi, oltre ogni ossessione di autoperfezionamento. Fight Club auspica una liberarazione da una mentalità che vuole persone sempre in ricerca di una sicurezza di sé e di buona autostima. Esce dalla bocca proprio di Brad Pitt: “l’automiglioramento è masturbazione”, “non si sia mai perfetti, evolviamoci!” Non solo: si propone la necessità di avere coscienza della propria morte e non paura di essa e l’ipotesi che esiste un dio e tu, uomo, non gli possa piacere. L’idea di produrre e rivendere saponette di qualità fatte col grasso umano rubato dalla clinica per liposuzioni è un’idea geniale, metafora di come si possa abbattere il sistema usandone le stesse ligiche, la stessa ideologia. Fin qui il punto il vista è interessante, stimolante, apre le vedute. Ci si potrebbe fermare qui, ma il film va oltre. La libertà che promuove è tale solo se si perde ogni speranza, il prezzo mi sembra un po’ troppo alto. L’autoconservazione è considerata un impedimento al vivere, personalmente l’appoggio, ma ci si rende conto delle conseguenze? Il progetto Meyem è una organizzazione terroristica, certo, senza fini di ammazzamento,
Fight Club - 1999 - Rielaborazione Fotogramma - Y.F.
sono quelli che promettono felicità. In forza di questa promessa si è passati dalla pornografia all’arredomania, si passa dall’ingannare un bisogno biologico da riproduzione al chiudersi in bagno col catalogo Ikea, bisogno indotto artificiale. Proprio qui sta il motivo degli incontri fisici: dal momento in cui la società ti propina tante soluzioni fittizie, buone solo a convincere in un qualche modo la mente, la corporeità e i suoi bisogni si rivelano efficaci nodi di senso e di partenza per riprendere possesso della propria umanità in maniera ancestrale (il pensiero occidentale ha abbandonato 2500 anni fa con Platone la parità corpo e mente -io sono corpo,
ma ha alla base una anarchia fondamentalista. Ci si fermi alla critica sulla società dei consumi, sulla società del cosiddetto benessere, si accolga l’invito a ristabilire le priorità della propria condizione umana. Il film e il libro non vogliono fare propaganda, si apprezzino gli eccessi solo nella finzione cinematografica e letteraria, se proprio si vuole proseguire si scelgano tematiche più sobrie: resta un bel film sull’insonnia, sulla relazione che abbiamo con il nostro io ideale. Si può discutere sulla scelta di aver ingaggiatp Brad Pitt per un film di questo genere e il fatto stesso che abbia accettato. Non sarebbe male soffermarsi sulla figura di Marla,
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Dello scrivere di K.S.
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crivere è una strana abitudine. Lo fanno in tanti, in troppi direbbero alcuni, e per diversi motivi; eppure quando devo parlare di me stesso tendo sempre innegabilmente al riserbo, e mi sento vagamente intimorito dai termini. “Scrittore” è colui che scrive: sembra quasi un’onorificenza, una professione. Pare mettere il beneficiario di questa sorta di titolo nobiliare una spanna al di sopra dell’uditorio, sembra ammantarlo di necessaria autorevolezza. Certo, la parola scritta è innegabilmente più forte di quella pronunciata, e lascia intorno una eco maggiore. Funzionano nello stesso modo le foto in bianco e nero: così come ogni castroneria priva di colore sembra perdere tempo e contesto, e diventare concetto puro, ogni schifezza scritta viene considerata con più rispetto di una orale. Tutto ciò spinge chiunque (me compreso) abbia di queste abitudini a cercare di darsi una definizione di scrittore e di aderirvi, o meno. Personalmente, non ho mai desiderato alcuna autorevolezza; ho un’intelligenza sufficiente a capire che i pensieri in transizione non possono averne, a meno che non si parli di scienze esatte o non si faccia del giornalismo acritico. Non ho mai neppure voluto essere letto, se non da pochissimi individui quasi sempre molto vicini, per essere compreso più direttamente: Charles Bukowski sosteneva che il saggio è colui che sa dire cose complesse in modo semplice, ma il tempo mi ha provato che non faccio parte di questo gruppo. Sono tra i tanti che considerano l’equazione Tristezza = Ispirazione tragicomicamente esatta, lo ammetto. La felicità non lascia il tempo di ragionare, si vive e basta, si consuma e si trasforma in qualcosa che non ha nome; e di certo non si celebra scrivendola, perché farlo spesso equivale a smettere di essere ed iniziare a sembrare. L’unico modo coerente per parlare di felicità è quando questa scompare per un periodo di tempo più o meno lungo, credo, e così ho sempre fatto. Cos’è uno scrittore? Non penso riempire pagine e pagine di complicatissimi onanismi scritti e poi mettersi a piangere sulla tomba della Cultura possa bastare. E d’altro canto, se il termine scrittore individuasse solo l’atto dello scrivere, un quattordicenne intento ad infarcire di k un SMS potrebbe essere definito di buon grado come tale. Io trascino avanti la mia esistenza come qualunque altro fesso; vivo persone e luoghi, provo gioie e disillusioni, mi immergo e vengo giudicato. Calcolo, deduco e scremo, e infine metabolizzo dati ed esperienza, come qualunque altro disgraziato calchi la terra stando in verticale. Ma il tempo e le circostanze mi hanno spinto a riconsiderare in maniera radicale il concetto di scrittura. In fondo un scritto è una vetrina, uno spazio pubblico nel quale mostrarsi, come una piazza nella quale parlare ad una folla che può decidere se prestare orecchio o meno.
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È ovvio chiedersi perchè, per chi scrivere: personalmente le ragioni del mio scrivere sono estremamente semplici. Detesto le complicanze, detesto i dilungamenti e le tortuosità, amo chiamare ogni cosa col proprio nome. Non sono uno scrittore, non sono un poeta. Le finzioni, il pathos, la retorica romantica priva di profondità mi disgustano. Amo ricondurre ogni cosa, anche la gioia e il dolore, all’essenza, ad un significato il più possibile univoco e reale. Spesso per farlo utilizzo l’artificio, o lo stilema, per cercare di comunicare qualcosa utilizzando schemi comuni sia a me che a chi legge, ma lo faccio per sopperire alla mia mancanza di capacità. La metafora ha un fine, a differenza della tortuosità. Scrivo per riordinare, catalogare, dare una leggibilità alla catasta altrimenti intelleggibile del pensiero. Scrivo per guardarmi dal di fuori, criticamente, scrivo per contrastare la foga e ricondurre ogni cosa, per quanto possibile, alla ragione. A volte scrivo per non impazzire, per racimolare ogni cosa attorno a me e farne uno scalino per il passo successivo. Scrivo perché quando chiedi a qualcuno di descrivere qualcosa, sia essa una persona, un oggetto o una sensazione, generalmente risponde dicendoti cosa non è. Scrivo perché non so.
K.S.
Piccole oscillazioni quotidiane? di S.A.
D
ell’università non posso dire di avere ricordi vaghi e confusi, ma naturalmente alcuni concetti e immagini sono rimasti sepolti sotto carichi di nozioni e all’epoca sono stati salvati con nomi ora un po’ sbiaditi. Altri invece tornano sempre, basta un piccolo spunto, una scintilla e riappaiono, davanti agli occhi le medesime forme di quando le ho ascoltate la prima volta.
l’amore per una donna, la volontà di compiacere il padre. Non riesce a decidere quale sia la sua sfera, perché quando afferra l’una gli sfugge inevitabilmente l’altra. Quasi sembra voglia afferrare l’acqua. Potremmo pensare che chiunque avrebbe potuto dare un consiglio: cercare di equilibrarsi, non lasciare né l’una né l’altra senza per questo generare un conflitto. Ma mi sento invece di ammirarlo per essere riuscito a sbirciare in quel mondo a cui non tutti necessariamente abbiamo accesso. Capisco la sua indecisione. Capisco il voler vivere di arte ma di dover sempre buttare un occhio, una gamba, un braccio alla vita. Non posso di certo paragonarmi a un mostro sacro come Kafka, ma posso dire, senza volermi vittimizzare, di sentirmi a volte come il suo scarafaggio. Piccolo, inutile. Kafka non dimentica che anche uno scarafaggio ha una sua realtà e una sua dignità. Ma che nessuno vuole vedere.
Una di queste riguarda Kafka. Su di lui persone molto più onniscienti di me hanno scritto di tutto ma non credo ci si possa azzardare a considerarlo un argomento chiuso, o le critiche del tutto esaustive. Fortunatamente ci sarà sempre qualcosa da rivedere, analizzare e considerare a riguardo. Quello che mi si pone sempre di fronte, quando penso a Kafka, non è il suo malessere. E ne aveva parecchio, perché nasce a Praga quando la città è ancora parte dell’impero austro-ungarico e capitale della Boemia. Linguisticamente tedesco, è immerso in una ambiente cecoslovacco. È un piccolo insieme (la borghesia tedesca) in un insieme maggiore (la Boemia cecoslovacca) incluso a sua volta in un altro insieme che ne contiene decine di più piccoli (già questa idea degli insiemi mi piace..conferisce un certo ordine all’idea). Kafka non si integrerà mai in questa realtà, né tantomeno in un altro insieme del quale fa parte, la comunità ebraica. Per non parlare dei conflitti con il padre, commerciante che gli rimprovera la sua passione per la scrittura...non male come inizio. Quello che più di tutto mi è rimasto di Kafka è il suo vivere in una terra di mezzo, mutuando l’espressione da Tolkien. Kafka coltiva la sua grande passione per la scrittura al buio. Subisce il fascino della letteratura, viene irretito da questa passione. A ragione può essere chiamato un vero e proprio artista. Uno dei pochi in verità, che riesce a descrivere la realtà, a indagarla. Magari una piccola realtà come ne “La metamorfosi” o una realtà più estesa come ne “Il processo”. E i suoi non sono i grandi romanzi mimetici dell’800. Non racconta di saghe famigliari e grandi battaglie. Però. Però non riesce a staccarsi dalla vita. Non riesce a girarsi completamente e guardare avanti. C’è sempre la sua umanità a riportarlo a terra, a farlo oscillare verso
S.A.
Voler vivere per l’arte e di arte senza però riuscire ad evitare di voltarsi indietro e cercare delle soddisfazioni e un posto nella realtà che circonda. Come nei suoi scritti, i paragoni, le metafore, Kafka li scopre a posteriori; si rende conto che la sua mente ha ordito tutta una trama secondaria che si tesse appunto dentro alla storia. Allo stesso modo, mi sembra, la sua inadeguatezza trova posto in ogni sua parola, senza che lui stesso voglia sbatterla in faccia al lettore. Un artista che parla di vita, ne coglie l’essenza e tutto questo mentre mette in scena la sua mancanza. La stessa forza di oscillazione che trovo in altri, ma con caratteristiche completamente diverse. Tutto questo mi lascia con tanti interrogativi e senza risposta.
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Amelia di I.M.
A
doravo il suo nome, il gioco di sensazioni molli che creava sulle corde vocali e sulle labbra, che ti colpiva poi al viso e alle orecchie con un tepore un po’ stridulo lasciandoti in mente un gusto indefinibile che durava a lungo. Lei era alta e snella, una corda di un arpa tesa verso qualcosa oltre la naturale fisicità del suo corpo e l’avevo conosciuta ad un mercatino dell’usato che si tiene ancora oggi ogni prima e terza domenica del mese giù al paesotto vicino. Serviva ad un banco di vecchi orologi di qualsiasi forma e tipo messa lì come un’ulteriore lancetta a segnare gli sguardi degli acquirenti di passaggio. Adoravo il suo nome e adoravo lei, erano un assieme perfetto nel tempo e nello spazio. Accanto un banco di stoffe e filati, sempre vuoto di compratori. Da quando l’avevo conosciuta ogni mese attendevo con ansia le domeniche quando, ancora sbronzo dal giorno prima, sforzandomi per alzarmi dalla conca del letto, mi vestivo come dovessi andare all’altare e facevo un salto giù al paese, dirigendomi quasi subito al banco degli orologi. Riuscivo ogni prima e terza domenica a strapparle qualche parola fingendomi un collezionista di lancette e ogni domenica tornavo a casa con tre o quattro orologi di varie forme e fattezze. Prima arrivò il cucù, poi quello da taschino, poi quello da parete, poi un cipollotto, uno da polso, un altro da polso, una sveglia, due sveglie, tre sveglie, un altro cucù, un pendolo, una sveglia con radio incorporata, un altro da taschino. E così via. Per un anno intero. Un intero giro della terra attorno al sole, senza manco più contare le sbronze da solo o in compagnia, pensando solo a quei dannati orologi e alle sue mani che me li sporgevano sorridendo assieme alle sue labbra. Ormai non ci dormivo proprio più per colpa di quegli orologi. Un po’ per lei, un po’ per loro. Dannati cucù e non solo. Poi un giorno, l’ennesima domenica, mi sento più grande e pieno del solito. La nottata non è andata male, non ricordo nulla, so solo che ci ho bevuto su parecchio per svariati motivi e ho fottuto quei dannati tic tac e tic e tac e tic e tac. Mi sveglio e mi preparo. Dopo l’ennesima notte in un bar qualche isolato più in là ho deciso di vedere Amelia e di dirle la verità. Amelia, mi sento in bocca il tuo nome e vorrei averti davanti per strapparti la carne dalle ossa e cavarti gli occhi per averli sempre in mano e sentire che sono miei. Amelia, mi pare già di vederti mentre oggi ti dirò che non me ne fotte niente degli orologi ma solo di te. Forse ti offenderai. E se gli orologi fossero davvero il tuo mondo? Guarda Amelia, vieni qui, a casa mia, da me, me lo son comprato io il tuo mondo, son
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I.M.
pieno di orologi, ne ho quanti ne vuoi. Amelia. Amelia, dove te ne vai quando non stai fra i tuoi orologi, le altre domeniche? Scendo giù e mi esce da ridere anche se non vorrei ma c’è qualcosa che da dentro il cavo orale mi spinge fuori la risata. Ci son due mani che la mandano su come un masso e scivola fuori che è un piacere. Arrivo al banco Amelia, è lì in fondo, aspettami, arrivo, ma stavolta non per comprare lancette e ticchettii vari, che non ne posso più. Amelia, sono arrivato. Oggi compro te. Ma dove sei? – e nel mentre le stesse mani di prima mi escono dalla bocca, si prendono la mia aria e se la riportano dentro tirandola più giù dei polmoni fermandomi il corpo in un attimo e lasciandomi senza forze a sentire le viscere che si contorcono senza aria. Signora, signorina, lei del banco a fianco, di stoffe e filati – non doveva avere più di trentacinque anni ma ne dimostrava almeno quindici di più, i capelli ispidi legati in una crocchia, i denti sporchi, le narici larghe, gli occhi piccoli e infossati, la pelle brutta e rugosa – lei del banco vicino, sa che ne è stato di Amelia oggi? Le parte un piccolo ghigno e le vedo i denti davanti spezzati e logori. Amelia? Mi spiace. Ho sentito dire che si è punta con un fuso e non tornerà.
Mercati umani – I.M
Il bisogno di regolarità ovvero la ricetta perfetta di S.A.
L
’arte e la letteratura in particolare, per come me le sono sempre immaginate, sono il trionfo di quella parte che è a metà tra l’istinto e l’intuizione, la sregolatezza, le idee fulminee di un secondo. Ma allora come la mettiamo con la scultura greca? E la classicità in generale? A scuola ho imparato Forma ex norma. La bellezza nasce dalla regolarità. Mi viene naturale accostare a questo principio Thomas Mann ne “La morte a Venezia”. Gustav von Aschenbach, alter ego di Mann stesso nella storia, scrive pagine perfette ogni mattina. Si alza e, con precisione da impiegato delle poste (tedesche), produce. Si mette al tavolino (presumibilmente adibito esclusivamente alla scrittura) e scrive. Magari con l’orologio alla mano. Magari con una pausa caffè già precisa nella sua mente. Che la voglia di ordine e regolarità entri nell’arte potrebbe sembrare la razionalizzazione dell’ultima frontiera. È vero che l’arte è frutto di un impulso, ma l’umanizzazione della produzione artistica trovo faccia sembrare quest’ultima più umana, a portata di tutti, o di
chiunque la voglia avvicinare. Per la verità, ora che ci penso, mica sarò la prima che si interroga sulla natura di quella che potrebbe sembrare una produzione superflua perché non richiesta, non obbligatoria. Ci sarà pur stato qualcuno che, svegliandosi avrà pensato “oggi misuro, base per altezza”. E come al solito mi vengono esempi collegati a quest’idea, a volte anche solo per un filo. Le contrapposizioni parte dello stesso insieme, che contribuiscono a crearlo e a caratterizzarlo di riflessi. Come una ricetta. Puoi fare di testa tua, ma una certa regolarità di ingredienti è necessaria. E la prova del 9 è il risultato. Cavolo. Bisogno di fare ordine, di rinchiudere in insiemi. Di delimitare anche le sfumature tra gli spazi. Dettato dalla paura di confondere. Per dormire e prima di chiudere gli occhi ripetersi che sì, le cose diverse sono state divise. Forse anche Einstein soffriva di insonnia prima di dividere l’atomo.
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La Ruota della Fortuna di I.M.
M
i piace il suono della Carmina Burana. Sono un ignorante in fatto di musica classica, non perché sia musica colta, ma piuttosto perché conosco due cose in croce. Sono un ignorante e basta, non c’è da discuterne. Però quella Carmina Burana lì mi piace. Veramente non è che mi piace. E’ che mi smuove gli intestini, è diverso. Il colore verde mi piace. La neve mi piace. La pizza mia piace. Ma in tutti questi casi, se tutto va bene, non mi si smuovono gli intestini. Invece la Carmina mi fa lo stesso effetto di Cassius Clay che se la prende con le mie budella per ore, senza nemmeno darmi la possibilità di difendermi. Davanti a lei – la grande signora (ma la s la lasciamo minuscola) - mi sento indifeso. Non c’è storia. E ammetto pure che più di qualche volta vorrei avercela a tutto volume attorno a me, proprio in quei momenti in cui vorrei spaccare quell’attorno. Nei momenti in cui V per Vendetta mi fa un baffo, però alla fine il fico resta sempre lui perché io non posso fare un cazzo dato che sono un pedone civile qualunque. Lui aveva scelto Tchaikovsky e quella meravigliosa Overture 1812 e non possiamo dargli torto. Io mi son scelto la mia, la mia signora, ed è ancora lei. Ci ho perfino pianto assieme, pareva suonasse solo per me certe sere in auto, mentre rientravo bello alticcio ma non completamente fatto perché sono un pedone civile qualunque e pure sfigato quindi è sempre meglio non sfidare la sfiga. Nel mio caso ci ho sempre perso. Nel prologo della Carmina c’è un’invocazione alla Dea Fortuna. Ho capito solo dopo varie cazzate che me ne davano la riprova che la Fortuna non è solo cieca ma anche stranamente incorruttibile – fosse stata una signora umana in carne ed ossa le cose sarebbero state più semplici, magari due cioccolatini e tre rose rosse se ci andava delle buone – e che quella lì nella maggior parte dei casi è irreperibile e ti risponde sempre il messaggio “Fortuna, messaggio gratuito, la dea da lei chiamata non è al momento raggiungibile, la preghiamo di richiamare più tardi, grazie.” E infatti nel gioco dell’opera l’intera parte che la invoca è un crescendo di incazzatura, rabbia, rassegnazione prima e disperazione poi. E ci credo. Ero in auto anche quella sera. Fortuna, porca miseria, ma ci sei o ci fai? Fortuna, ma dove cazzo sei quando servi? Se davvero sei lì per noi esseri umani guardami cazzo! Sono un essere umano che non desidera altro che schiantarsi con l’auto solo per vedere l’effetto che fa, perché ormai ho perso tutto! Sono un misero mucchietto di ossa incollate tra loro, senza tendini e senza nervi, senza cartilagini a tenere unito lo scheletro e a reggere il cervello. Mi casca il cuore fortuna, le vene non stanno su da sole e mi sento le dita dei piedi che si staccano. Mi pare di svenire e di essere pieno d’acqua nelle interiora,
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che va su e giù, che mi riempie di niente, che non ha calorie. Il petto mi brucia e mi scava i polmoni, la gola mi arde dell’alcol e del fumo che mi consumano le corde vocali. Non lo senti Fortuna? Fortuna, merda, mi esce l’acqua dagli occhi e mi sento l’essere più schifoso di questo dannato mondo! Si, mi faccio schifo, mi faccio schifo perché sono pieno di sta cosa ma non so a chi darla. Non so manco da dove sia venuta fuori, è scoppiato un serbatoio, più di uno, ero fatto di bombole, ora l’ho scoperto. Fortuna non mi lasciare! Fortuna non mi tradire! Fortuna sono qui! Guardami cazzo! Ti vuoi accorgere di me? Che cazzo devo fare perché tu ti accorga di me? Merda, non ci vedo! Vorrei tanto schiantarmi ora, un palo, un auto, non ha importanza, vorrei solo vedere l’effetto che fa. Vorrei lanciare enormi biglie di metallo contro i vetri per spaccarli in mille pezzi e fare un casino bestiale fregandomene del resto perché tanto sono scusato, non è possibile il contrario. Vorrei guardare negli occhi qualcuno che passa per strada e che lui mi abbracciasse dicendomi che andrà tutto bene, che ci vuole tempo. Vorrei crederci. Vorrei bruciare case intere, vorrei tagliarmi le vene ma non ne ho il coraggio, non vorrei pensare quello che sto pensando! Vorrei solo sentire che sono vivo! Perché lo so che sono vivo, perché fa un male cane, merda se fa male, ma mi pare di essere morto! Non capisco più un cazzo. Dio, sono qui! Almeno tu! Uno dei due. Vi prego! E poi accade che mi sveglio il giorno dopo, l’alito indefinibile, i capelli inadatti a qualsiasi rapporto sociale, il corpo che odora e puzza allo stesso tempo, gli occhi incrostati, il vuoto sopra di me. Ma portando le mani alla faccia sento che sono intero, mi fa male dappertutto ma sono una pulsazione costante. Metto i piedi a terra su una distesa di libri rovesciati dagli scaffali, profumi rotti, i pugni mi dolgono. Non (mi) ricordo. Mi piace il suono della Carmina Burana. Deve essere stato quello che mi ha fatto tirare avanti un’altra notte.
Venice Biennale 2008 - Singapore Supergarden - You are Here foto di I.M.
Valvole Eine kleine Nachtmusik di K.S. “Hi, i’m Sonia Soul, from MTV News”.
I
mpossibile non sentirsi cariatidi pluricentenarie mentre si spiega ad uno sbalordito nipote di nove anni che, ai tempi dello zio, Mtv parlava solo inglese. Certo è che il sentire questa litania pronunciarsi tutti i giorni alle 14 per anni, innegabilmente, non può che avere avuto dei propri ben circostanziati effetti: lo stabilirsi di un’abitudine, di un imprinting, di una forma mentis ben definita cui a metà degli anni ‘90 era oggettivamente difficile sfuggire, specie per un adolescente alla ricerca di figure da mitizzare. A quei tempi i jeans strappati e le maglie gigantesche finivano per tatuartisi addosso, i capelli crescevano e cresceva anche la voglia di urlare ribellioni a caso, ad istinto. Lo si faceva volentieri, anche solo per reagire al deserto musicale di allora e all’orrore plastipop che vi regnava; l’alternativa erano il chiodo, gli anfibi e la felpa nera con teschi insanguinati e budella purulente sormontate da serpenti, ma avevo già deciso da tempo per l’altra strada. Impossibile non riconoscermi come il frutto di “radici” musicali abbastanza ben definite. Sono l’adulto che è cresciuto dentro ai panni del ragazzino capellone & iperbrufoloso del liceo; la pubertà ha smesso ormai da tempo di tramutarmi la faccia in un testo braille e miei ormoni hanno finalmente imparato l’educazione. Tuttavia anni di rock classico, alternative e punk lasciano il segno dentro e, pur non impedendomi di ascoltare e amare altro, mi hanno portato e mi portano tutt’ora inconsapevolmente a cercare un determinato “feeling” in tutto ciò cui musicalmente mi accosto, senza distinzione. Ognuno, a meno che non rinneghi il suo percorso, affonda le radici in qualcosa, nella musica e nella vita. Ciò detto, però, è impossibile spiegare allo stesso nipote con quale logica lo zio possa ascoltare No Feelings dei Sex Pistols e con assoluta nonchalance passare subito dopo all’Ouverture del Flauto Magico di Mozart. E non soltanto a lui. Suona infatti strano a molti che due linguaggi tanto differenti possano coabitare lo stesso cranio; e più volte amici e vicini, probabilmente credendomi (anche a causa degli altissimi volumi d’ascolto) posseduto dal demonio, si sono interrogati sulla questione. Ebbene: nonostante alle orecchie dei più (e a ragione aggiungerei) quello che sto per dire possa giungere come una tra le più bestiali boiate mai pronunciate, non ho mai potuto fare a meno di pensare che Amadeus Mozart presenti un numero insospettabile di analogie con quella che è la mistica predefinita della rockstar. Mi spiego: la storia della musica, come quella della
civiltà, è per sua natura ciclica; conosce mutamenti che si ripetono, secondo simili dinamiche, in ogni epoca. Partendo da questo verificabilissimo assioma si può dire che ogni epoca musicale ha avuto il suo rock, il suo progressive, il suo punk, e il suo metal. Ed eccoci al punto: è così scorretto definire Mozart un Chuck Berry, un Johnny Rotten ante litteram? Eppure le similitudini ci sono: Mozart ha tentato di rappresentare una figura nuova d’artista, svincolata dai meccanismi di committenza del suo tempo; ha costituito una controversa “rottura” col linguaggio musicale del suo tempo pur ispirandosene ampiamente, ai limiti del plagio; ha inaugurato una nuova tipologia di rapporto coi propri ascoltatori portando la musica da un livello elitario ad uno (compatibilmente col tempo) più popolare; provava un’insofferenza proverbiale verso l’autorità e l’establishment, e verso i ministri di culto. E non nascondeva infine una certa giocosa passione per il turpiloquio e per uno stile di vita assolutamente incompatibile con le sue finanze, pur floride. Non ultimo, è morto giovane e povero in canna, tutte cose che lo accomunano di fatto con una qualsiasi rockstar. Certo, dubito che Johnny Rotten sarebbe stato in grado di trascrivere il Miserere di Allegri dopo un solo ascolto a quattordici anni; dubito anche sarebbe mai stato in grado di suonare un qualunque strumento decentemente, ma è innegabile una certa analogia d’intenti. Mozart frequentava spesso, nel suo tempo libero, Joseph Haydn; Il “vecchio” Haydn (compositore già affermato che già allora veniva studiato e che nulla aveva più da dimostrare) amava la compagnia del giovane Mozart, il quale dal canto suo non perdeva occasione per discutere con lui di qualunque cosa riguardasse il proprio lavoro, finendo immancabilmente per avere ragione della sua compassatezza. Un giorno Mozart gli portò uno spartito per pianoforte che descrisse come “impossibile”, invitando il vecchio “maestro” a suonarlo. In un punto della partitura, mentre le mani suonavano freneticamente alle estremità della tastiera, bisognava suonare una nota che stava proprio nel mezzo di questa. Haydn quindi si interruppe, riconsegnando lo spartito al giovane amico. Mozart si mise a suonare ridendo, e arrivato al punto incriminato abbassò la testa e suonò la nota col la punta del naso. È il suonare coi denti di Hendrix, il Windmill di Pete Townshend, il piano infuocato di Jerry Lee Lewis, le contorsioni di Iggy Pop o le smorfie allucinanti di mick Jagger.. ma allora cos’era? Quando ascolto Mozart, ascolto Rock; e questo perché, a dispetto degli onanismi della classificazione, a discapito degli etichettatori e degli analisti, i sentimenti alla base di un prodotto d’arte sono universali. E l’arte vera, quella che nasce fuori dai meccanismi del commercio, rimane fuori dal tempo.
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Ceci n’est pas un Sapin de Noël I.M.
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Non inseguire la sbronza con troppa foga, altrimenti lei si girerĂ e ci sbatterai contro.
Taccuino all’Idrogeno Bimestrale di Cuori al Neon
foto in copertina di A.M.
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