Ivan Rainini Archeologia di frontiera
Antichitå romane nel Medioevo marchigiano fra i Sibillini e l’Altopiano plestino
Ivan Rainini Archeologia di frontiera Antichitå romane nel Medioevo marchigiano fra i Sibillini e l’Altopiano plestino
A Elisa, che da qualche parte, lass첫, ci guarda e sorride.
Ideazione e direzione progetto editoriale Renzo Borroni Coordinamento Elisa Mori Progetto grafico Paolo Rinaldi - Tadao Studio, Macerata www.tadaostudio.com Referenze fotografiche Ivan Rainini Massimo Zanconi - Fotostudioprint, Macerata Paolo Ficola - ARS Color, Perugia Andrea Barchiesi - Tadao Studio, Macerata Laboratori L.A.M.A. - IUAV, Venezia Cooperativa Archeologia, Sez. Firenze Referenze rilievi grafici Ivan Rainini Amministrazione e distribuzione Raffaella Cinque Stampa Bieffe S.p.A., Recanati (MC) In copertina Veduta aerea dell’area archeologica di Plestia, al centro la basilica di Santa Maria © Carima Arte Srl Via Crescimbeni, 30-32 62100 Macerata editoria@fondazionemacerata.it Tutti i diritti riservati L’Editore dichiara la propria disponibilità a regolarizzare eventuali omissioni o errori di attribuzione. ISBN 978-88-906305-3-8
Presentazione
Gli anni del mio mandato, in qualità di Presidente di un ente come la Fondazione Cassa di risparmio della provincia di Macerata, mi hanno consentito, con la partecipazione degli altri colleghi consiglieri, di promuovere e realizzare numerosi e importanti progetti per il territorio e per la collettività maceratesi. Tra questi si colloca la pregevole attività editoriale che ha contraddistinto la Fondazione nel corso degli anni e che ne ha fatto un punto di riferimento sia per il mondo scientifico, sia per un pubblico più ampio. Nell’ambito delle pubblicazioni, volute e sostenute dalla Fondazione, rivestono un ruolo particolare quelle realizzate grazie al contributo scientifico di Ivan Rainini, Professore Ordinario di Archeologia Classica e Preside di Facoltà di Archeologia dell’Università Ambrosiana di Milano. Allo studioso, infatti, dobbiamo i volumi quali L’Abbazia di Chiaravalle di Fiastra. La cultura dell’antico (2007) e Antiqua Spolia. Reimpieghi di epoca romana nell’architettura sacra medievale del maceratese (2011), cui si aggiunge quest’ultimo lavoro, ancora una volta interamente redatto dall’Autore, che chiude la trilogia archeologica relativa all’intero territorio maceratese. Il volume Archeologia di frontiera. Antichità romane nel Medioevo marchigiano fra i Sibillini e l’Altopiano plestino, di fatto, è il risultato di alcuni anni di studio e di ricerche circostanziate sul territorio da parte di Rainini, come dimostra anche il pregevole apparato iconografico, quello dei rilevamenti grafici e le analisi fisico-chimiche di laboratorio che accompagnano i saggi presenti nello stesso. Attraverso le tre sezioni, che compongono l’opera, l’Autore indaga puntualmente altrettante realtà territoriali, da quella pedemontana relativa alla località di “Monastero” di Cessapalombo a quella inerente la fascia Nord-orientale della catena dei Sibillini, sino ad arrivare a comprendere il confine umbro-marchigiano, coincidente con l’altopiano di Colfiorito e il municipium di Plestia, luogo che ospita uno dei complessi architettonici, quello appunto di Santa Maria di Plestia, tra i più interessanti e significativi. Al Prof. Rainini, dunque, va ancora una volta il mio plauso, non solo in qualità di autorevole studioso ma anche per aver manifestato in questi anni di lavoro una grande passione per il nostro territorio, e per aver consentito di scoprire, o meglio di riscoprire come già accaduto nelle precedenti pubblicazioni, importanti tesori del maceratese, spesso attraversati distrattamente dal nostro sguardo e forse non consapevolmente apprezzati per il loro profondo significato storico. Franco Gazzani Presidente Fondazione Cassa di risparmio della provincia di Macerata
7
Introduzione
Quando si studino le spoglie messe in opera in un qualsiasi monumento medievale, si profila subito la contraddizione tra un approccio fondato sulla cultura materiale che evidenzia i reperti lapidei, la tipologia e lo stile e invece un approccio storico dove gli elementi di reimpiego vengono considerati come risultato di più interventi che si dispiegano nel corso dei secoli, da collegare alla storia degli edifici in cui sono in uso. Insomma, vi è un contrasto tra la necessità di proporre elenchi ordinati di elementi classificati e descritti in modo da capire i momenti della loro produzione e l’entità delle eventuali rilavorazioni subite, e invece l’esigenza sempre più forte di affrontare anche tali elementi nel loro divenire, nelle trasformazioni avvenute, nell’essere testimonianza non di un dato momento storico degli edifici a cui appartengono, ma della loro vita nel tempo che spiega la forma attuale con cui ci sono pervenuti e non una loro determinata fase. Ma gli approcci ora citati non bastano a spiegare la percezione evidentemente immediata che aveva l’osservatore medievale del linguaggio architettonico messo in opera nelle chiese e in altri edifici da lui frequentati anche tramite i materiali di spoglio, siano essi antichi o anche medievali di fasi precedenti degli stessi monumenti in cui sono riadoperate o da altre provenienze: si tratterebbe, in definitiva, di proporre anche un approccio basato sulla semantica per affrontare il tema di quali fossero i “segni” attraverso cui i messaggi passavano allo spettatore. I “segni” evidentemente non presupponevano una conoscenza storica e filologica delle forme degli elementi architettonici, ma possedevano la caratteristica di essere riconoscibili “inconsciamente” come appropriati al contesto religioso e culturale in cui si manifestavano.1 Tali contraddizioni tra gli approcci possibili emergono anche nell’affrontare il tema del reimpiego nel territorio studiato da Rainini: tuttavia la mancanza di conoscenze ha inevitabilmente indirizzato la ricerca sul piano della cultura materiale, quale strumento indispensabile per qualsiasi discorso si voglia sviluppare sul significato delle spoglie e sul relativo contesto storico e architettonico. L’opera che qui si presenta si pone al termine di un lungo percorso di ricerca intrapreso dall’Autore più di dieci anni or sono nella regione marchigiana, partendo dai luoghi segnati dall’incontro fra Antichità classica e Medioevo cristiano. Essa conclude un’ampia trilogia curata dallo
8
studioso sui reimpieghi di epoca repubblicano-imperiale confluiti, con straordinaria dovizia, nell’architettura sacra medievale della provincia di Macerata: una iniziativa ancora una volta promossa e finanziata dalla Fondazione Carima che ha voluto, in questo modo, offrire alla comunità di studiosi e al più vasto pubblico un ulteriore, fondamentale contributo scientifico alla conoscenza del grande patrimonio culturale di queste terre. La ricerca di Rainini, partita dal ricco repertorio di spolia introdotti nel complesso abbaziale di Chiaravalle di Fiastra (2007), e continuata con lo studio dei più importanti insediamenti monastici distribuiti nelle valli del Musone, del Potenza, del Chienti e del Fiastra (2011), approda oggi agli estremi confini dell’esteso comprensorio medioappenninico umbro-marchigiano. “Dai Sibillini all’altopiano plestino”, recita il sottotitolo del libro, ed è infatti proprio qui dove incontriamo realtà monumentali, più o meno già note dal punto di vista architettonico e storico-artistico, ma sconosciute fino a questo momento per quanto riguarda l’inaspettata varietà e abbondanza di antichi reperti di epoca romana riutilizzati al loro interno attraverso le più diverse soluzioni funzionali ed estetiche. Colonne, pilastri, capitelli, frammenti edilizi, epigrafi, sono i mezzi attraverso i quali il passato ci parla rivelandoci una ricchezza di testimonianze che hanno potuto sopravvivere attraverso i secoli e giungere fino a noi in virtù del dialogo continuo e intenso fra cultura classica e spiritualità cristiana. L’affascinante viaggio svolto all’interno dei singoli organismi architettonici, costellato di analitiche e stimolanti riflessioni critiche, ci conduce alla conoscenza non solo delle maglie del tessuto edilizio, ma anche delle singole componenti di quel tessuto, dei caratteri tecnico-morfologici e stilistici di ciascun manufatto, della molteplicità dei complementi che ne hanno condizionato l’origine e la specifica configurazione e, infine, dello stesso substrato geomorfologico su cui l’edificio si è insediato. Tutto questo grazie alla particolare articolazione tematica delle tre sezioni in cui è suddivisa l’opera. Ognuna di esse si sviluppa partendo da un attento esame degli aspetti topografici e viabilistici del territorio nell’antichità, visti attraverso il filtro delle sopravvivenze toponomastiche, delle fonti gromatiche antiche, dei Regesta medievali; ma anche a seguito di ampie ri-
Introduzione
cognizioni lungo valli e crinali delle fasce pedemontane lambite dai corsi del Chienti, del Tenna e del Fiastrone, sulle tracce degli antichi cammini della transumanza. Si giunge così a ricostruire, fino a dove è possibile, un panorama sull’assetto territoriale, sulla rete dei percorsi locali e interregionali e sulla loro organizzazione infrastrutturale entro cui collocare una determinata fondazione cenobitica e comprendere il rapporto di continuità che, per secoli, ha legato indissolubilmente la sua esistenza alle precedenti forme di stanziamento di epoca romana. Ecco dunque come il fenomeno del reimpiego all’interno dei diversi complessi edilizi, alla luce di questo millenario intimo rapporto, insieme conflittuale e simbiotico, fra due mondi di valori e due modelli di civiltà, diventa qualcosa che va ben oltre una semplice operazione pratica e utilitaristica, implicando motivazioni e finalità più alte e profonde. La seconda tappa della ricerca passa, poi, ad una capillare analisi tipologico-strutturale del singolo monumento, ponendo in risalto ogni categoria di materiale antico riutilizzato nei diversi settori. È a questo punto che il percorso di studio, esauriti tutti gli aspetti di natura archeologica che hanno consentito di giungere a circostanziate proposte di datazione dei vari reperti, si estende al di là delle valutazioni di ordine stilistico-formale per prendere in considerazione le diverse qualità dei materiali documentati in ciascun contesto edilizio. Marmi, bianchi e colorati, travertini, rocce calcaree di varia natura, brecce, arenarie vengono per la prima volta esaminati e catalogati dal punto di vista delle proprietà minero-petrografiche. Si risale alle probabili provenienze dai più disparati loci estrattivi delle regioni medio-appenniniche e dei centri di produzione del bacino del Mediterraneo. Nel caso dei materiali più noti, se ne ricostruiscono la storia, gli aspetti distributivi all’interno dei mercati del mondo antico, il raggio di diffusione e gli orizzonti cronologici suggeriti dagli svariati contesti monumentali di riferimento che dai secoli dell’Impero giungono fino al periodo bizantino e alto-medievale. In questo modo, l’indagine archeometrica si intreccia con quella archeologica, topografica, storica, archivistica, ricomponendo un complesso mosaico entro la cui cornice ogni manufatto di spoglio, e le modalità del suo
reimpiego, trovano finalmente un preciso inquadramento ed una più chiara definizione. La fase conclusiva di questo elaborato percorso investigativo fra le maglie, non sempre facili da sciogliere, del processo evolutivo che conduce al passaggio dalla classicità agli albori del Medioevo, rappresenta la parte forse più significativa dell’intera opera. L’Autore affronta, infatti, il difficile compito di ricavare, dall’insieme dei dati raccolti, elementi utili per risalire ai probabili contesti primari di spoglio ai quali possono aver attinto le maestranze edili all’opera nei cantieri monastico-plebani di matrice benedettina capillarmente diffusi nell’area più interna della provincia maceratese. È questo il momento più propositivo dell’intera ricerca, e che ne costituisce l’aspetto qualificante ed innovativo. Si giunge, cioè, ad una ricostruzione ipotetica di quello che, verosimilmente, doveva essere il panorama monumentale e insediativo del territorio. Si risale a potenziali realtà architettoniche, urbane e rurali, pubbliche e private, di natura civile o sacrale, che lo scarso interesse delle Istituzioni, la penuria di esplorazioni e la limitatezza degli studi scientifici al riguardo lascerebbero, altrimenti, nell’ombra, come in effetti è accaduto fino ad ora nelle aree più interne dell’esteso comprensorio piceno. Si apre la strada ad auspicabili inversioni di tendenza da parte del mondo scientifico, spesso refrattario alle periferie territoriali e culturali. Si rilancia infine, in un momento di profonda crisi globale come quello che stiamo attraversando, un richiamo forte a valorizzare un grande patrimonio storico-artistico troppo poco noto e spesso dimenticato; ad investire nel recupero di itinerari del sapere che solo pochi hanno saltuariamente percorso; ad aprire la ricerca, come ha fatto Rainini con questa sua ultima importante opera, verso nuovi orizzonti che sprovincializzino la cultura di questa regione. Patrizio Pensabene Università “La Sapienza” - Roma
1 P.GROS, La sémantique des ordres à la fin de l'époque hellénistique et au début de l'Empire. Remarques prélimininaires, in Splendida civitas nostra. Studi in onore di Antonio Frova (“Studi e Ricerche sulla Gallia Cisalpina”, 8), Roma 1995, pp.23-33.
9
Tabula gratulatoria
Giunto per la terza volta alla pubblicazione di un’opera scientifica inerente l’importante patrimonio archeologico di epoca romana del territorio maceratese, e anche in questo caso ancora per merito della Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata, potrebbe apparire ripetitivo rivolgere il mio profondo senso di gratitudine alle stesse persone che, in tanti anni, hanno premiato con il loro contributo il mio impegno di studioso in questo campo. Pur tuttavia, al di là di una doverosa manifestazione di riconoscenza nei confronti di una Istituzione che tanto ha fatto, e continua a fare, per promuovere la cultura e la ricerca nell’ambito del ricco patrimonio artistico e della plurimillenaria storia di questa Regione, mi è gradito (e il lettore non me ne voglia) ricordare nuovamente alcuni nomi ai quali mi lega, ormai, qualcosa che va oltre i consueti rapporti professionali. Naturalmente, in primo luogo, Franco Gazzani, Presidente della Fondazione, e assieme a lui l’intero Consiglio di Amministrazione. Imprescindibile, anche in questo caso, è stata la figura del Direttore Renzo Borroni il quale è riuscito a condurre felicemente in porto il presente progetto editoriale affrontando e superando con competenza, intuito e coraggio difficoltà e problemi che non hanno mancato di frapporsi in più riprese alla sua riuscita. Il tutto, non senza l’efficiente gestione dell’articolato apparato organizzativo da parte di Elisa Mori, amica e insostituibile collaboratrice che, ancora una volta e con un impegno sempre all’altezza delle sue ben note qualità professionali, è stata costantemente al mio fianco nel corso delle diverse fasi di lavoro. Aperto, come al solito, alla più costruttiva collaborazione è stato il personale delle Soprintendenze per i Beni Archeologici delle Marche e dell’Umbria, in particolare il Soprintendente Dott. Mario Pagano, i funzionari Dott.sse Maria Laura Manca e Nicoletta Frapiccini e il Dott. Maurizio Landolfi, nonchè Laura Bonomi Ponzi, già Soprintendente archeologa a Perugia. All’interno del mondo accademico, numerosi sono stati colleghi ed amici che hanno fornito contributi preziosi alla mia ricerca: fra i tanti, mi preme ricordare Gianfranco Paci e Roberto Perna (Università di Macerata), Lorenzo Lazzarini, Fabrizio Antonelli e Stefano Cancelliere (Università IUAV di Venezia), e Patrizio Pensabene (Uni-
10
versità “La Sapienza” di Roma), alla cui prestigiosa firma si deve l’introduzione al presente volume. Tra gli Enti religiosi, tralasciando i faticosi e vani tentativi di collaborazione con l’Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici dell’Arcidiocesi di Camerino, unica dissonanza nell’armonioso clima di costruttiva sinergia con tutti i soggetti istituzionali coinvolti, meritano una particolare menzione l’Arcidiocesi di Fermo, per la disponibilità e l’indispensabile interessamento di Alma Monelli, incaricato diocesano per i Beni Culturali, e di Pierangela Romanelli, bibliotecaria dell’Archivio Storico Arcivescovile, nonché la Diocesi di Assisi dove il ruolo di Don Angelo Menichelli è stato fondamentale per le informazioni riguardo ai documenti d’archivio della ex Diocesi di Nocera Umbra / Gualdo Tadino dalla quale, un tempo, dipendeva la Basilica di Santa Maria di Pistia, presso Colfiorito di Foligno. In ambito parrocchiale, meritano tutta la mia riconoscenza Don Carlo Maccari, Parroco di Colfiorito, e Don Giampiero Orsini, Parroco di Montefortino. Un sincero ringraziamento va anche ai funzionari dell’Archivio di Stato di Perugia, in particolar modo agli archivisti Maria Grazia Bistoni, Maria Serena Sampaolo e Alberto Sartore; agli Archivi di Stato di Macerata e Camerino e all’Archivio Storico Comunale di Fermo. Ricordo, inoltre, con gratitudine tutto il personale del Museo Archeologico di Colfiorito, in particolar modo la Responsabile del Sistema Museale del territorio di Foligno, Dott.ssa Anna Maria Menichelli, e Maria Angela Testa. Ringrazio ancora, per la loro gentile disponibilità, Mauro Formica, funzionario del Comune di Foligno; Gabriele Santamarianova, Sindaco di Serravalle del Chienti; Isabella Piermarini, Consigliere comunale del Comune di Serravalle del Chienti; Renato Pagliari, bibliotecario presso la Biblioteca Comunale “Mozzi Borgetti” di Macerata; Paolo Ficola, fotografo e titolare della “ARS Color” di Perugia. A Massimo Zanconi (“Fotostudioprint”, Macerata), autore di gran parte della documentazione fotografica inserita nel presente volume, rivolgo, in particolare, il mio pensiero riconoscente per la generosa collaborazione fornita in ogni circostanza, sempre in assoluta sintonia con quanto richiesto.
Dell’alta cifra professionale di Andrea Barchiesi e Paolo Rinaldi, rispettivamente direttore creativo e “art director” del “Tadao Studio” di Macerata, sono eloquente testimonianza la sofisticata ottimizzazione dell’intero apparato illustrativo e la pregevole qualità della veste editoriale. Un vivo apprezzamento a parte spetta, infine, ad alcuni studiosi ed esperti i quali hanno saputo fornire, ciascuno grazie all’alto profilo delle proprie competenze, un apporto di importanza assoluta allo svolgimento delle attività di indagine e di documentazione dei dati raccolti. In primo luogo Giuseppina Piro, da sempre al mio fianco con tenacia e passione durante le complesse e laboriose operazioni di rilevamento grafico dei resti archeologici. Giorgio Pocobelli e Adriano Averini, della Cooperativa “Archeologia” di Firenze, fra i più qualificati specialisti nel campo della fotogrammetria digitalizzata. Adriana Malpiedi, autrice della tesi di laurea, messami gentilmente a disposizione, sulla chiesa di Santa Maria in Insula a Monastero di Cessapalombo: fonte ricchissima di informazioni e di riflessioni critiche sulle vicende storico-edilizie del complesso monumentale che si sono rivelate essenziali per la comprensione di una emergenza architettonico-insediativa di notevole problematicità. Don Mario Sensi, già parroco di Colfiorito negli anni cruciali dei primi scavi archeologici nel sito dell’antica Plestia e dei restauri della chiesa, il quale ha fornito, da protagonista “sul campo”, informazioni utili e inedite sullo status quo ante dell’edificio sacro e dell’area ad esso contermine. Infine Dante Santoni, di Colfiorito, appassionato e profondo conoscitore del territorio plestino e, in virtù di ciò, indispensabile referente per la conoscenza degli aspetti meno noti relativi alla topografia archeologica della zona.
So che questo mio ultimo libro gli sarebbe piaciuto, ed è per ciò che ho voluto ricordare la sua figura, nobile e semplice al tempo stesso, con affetto e stima prima di consegnare alle stampe un’opera che, completando una trilogia da me iniziata ormai quindici anni or sono fra i reperti archeologici della Badia di Fiastra, conclude oggi la mia lunga ed affascinante esperienza scientifica e umana consumata in questi luoghi.
Terminato, così, l’elenco di persone e Istituzioni verso cui mi sento debitore di tanti generosi aiuti e preziosi consigli, non posso, però, ritenere esaurita questa lunga tabula gratulatoria senza rivolgere il mio pensiero, riconoscente e commosso, all’On. Roberto Massi: uomo integerrimo, di rara signorilità e di vasta cultura; un punto di riferimento, per me, in tanti anni di studio e di lavoro nelle terre maceratesi durante i quali ho trascorso, assieme a lui, ore e giornate a parlare e, soprattutto, ad ascoltare le sue parole, sempre intense e colme di saggezza, di sapere e di vita vissuta.
11
Sezione prima Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale Montefortino: la chiesa e la cripta di Sant’angelo in Montespino. Rediviva marmora e Renovatio christiana in un’antica pieve medievale alle falde dei Sibillini
Capitolo 1 Aspetti topografici e organizzazione del territorio in etĂ antica
Aspetti topografici e organizzazione del territorio in età antica
L’assetto geomorfologico del settore più interno del comprensorio ascolo-fermano caratterizzato dalla grande catena appenninica dei Sibillini,(Figg. 1-2) estesa fra il Tronto e l’alta Valtenna, le cui propaggini meridionali, fondendosi con i Monti della Laga, danno vita ad un’unica vasta ed impervia barriera fino al corso del Vomano,(Tav. A) ha da sempre costituito un fattore fortemente condizionante lo sviluppo dei collegamenti stradali. Essi, infatti, hanno spesso dovuto tener conto di scelte forzate sulla base di una precisa gerarchia interna fra direttrici di traffico principali e percorrenze secondarie. Queste ultime, in considerazione di una disagevole realtà fisiografica del
territorio contraddistinta da valli profondamente incise ed incassate tra i versanti acclivi degli imponenti massicci montani,(Tav. B, Fig. 3) hanno ricalcato, nella maggior parte dei casi, vie di transito conformate all’andamento solitamente malagevole e scosceso dei rilievi e dei solchi vallivi di alcuni corsi d’acqua,(Fig. 4) corrispondenti, sovente, ad antichissimi cammini tratturali sfruttati dalla transumanza stagionale. La loro tradizionale connotazione, dunque, è stata quella di tragitti difficilmente carrabili e, per tale motivo, esclusi, nel quadro viabilistico del territorio, da impegnativi interventi infrastrutturali.1 In compenso, però, furono proprio questi gli itinerari più
15
Tav. A Carta geografica del Piceno meridionale comprendente le province di Fermo e Ascoli Piceno, dalla catena dei Sibillini ai Monti della Laga in territorio teramano (scala 1:300.000).
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 1 Panoramica dei Monti Sibillini.
duraturi; quelli che, nel tempo, hanno mantenuto sostanzialmente inalterati i tracciati di valico, di crinale e intervallivi i quali vennero regolamentati in epoca romana, principalmente attraverso opportune interconnessioni che favorivano i collegamenti fra i diversi poli insediativi sparsi nella regione con il sistema primario di arterie di fondovalle e pedecollinari, trovando, poi, continuità in quella che sarà la rete stradale interna del periodo medievale. Ciò si deve al fatto che essi, pur se sfavoriti da una orografia accidentata e da un’incidenza negativa dei fattori climatici, avevano il pregio di attraversare aree morfologicamente stabili. Questo significa che l’assenza, o la marginale presenza al loro interno di infrastrutture (ponti, argini, sostruzioni, opere di drenaggio e canalizzazione) e la conseguente minor necessità, quindi, di una efficiente e costante manutenzione, a cui vanno aggiunte, in generale, peculiarità geofisiche meno esposte agli effetti del degrado ambientale, hanno creato i presupposti per una loro prolungata sopravvivenza in grado di reggere anche ai più traumatici eventi storici e di stravolgimento demografico nel passaggio dalla tarda antichità al Medioevo. Al contrario, nelle zone di pianura e paracostiere caratterizzate da estesi terrazzi alluvionali di fondovalle, si assiste, invece, ad una accentuazione della dinamicità del paesaggio a causa del precario equilibrio idraulico e, quindi, dei fenomeni di divagazione fluviale, di impaludamento
16
e di conseguente alterazione, o addirittura cancellazione, dell’assetto attuato in epoca romana. Tutto ciò aggravato dall’assenza di un adeguato presidio territoriale in grado di garantire una appropriata cura viarum ed evitare l’estendersi dell’incolto.2 Le diverse diramazioni che costituiscono l’ossatura viaria minore del comprensorio subappenninico marchigiano centro-meridionale, hanno dato, dunque, vita ad un microsistema di percorsi secondari certamente più complesso di quanto non lascino trapelare le scarne testimonianze tramandate dalle fonti itinerarie antiche e i pochi dati forniti dalla moderna ricerca topografico-archeologica. Una maglia di tragitti ben consolidati e funzionali allo sviluppo di una economia locale dipendente dall’efficienza dei collegamenti interni, tanto da rimanere in uso anche dopo il crollo del mondo romano e da continuare a svolgere, in certi casi, un ruolo ancora attivo fino all’età moderna. Per quanto concerne, nello specifico, l’area di nostra competenza inclusa fra il versante pedemontano orientale dei Sibillini e i territori di Amandola e dell’alto Tenna, l’asse stradale più importante che, transitando da Sud a Nord, metteva in comunicazione l’ager ascolano con quello faleronese toccando alcune tappe fondamentali disseminate nell’ambito del settore Sud-piceno interno, è sicuramente costituito dal diverticolo Surpicanum – Firmum della Via Salaria.(Tav. C) 3
Aspetti topografici e organizzazione del territorio in età antica
Documentata dalla Tabula Peutingeriana(Tav. D) 4 e ancora nelle mappe settecentesche del Regno di Napoli, 5 la diramazione si staccava dalla Consolare all’altezza dell’abitato di Arquata del Tronto (Surpicanum),(Tav. E) più precisamente nei pressi della chiesa di San Salvatore posta ai piedi della rocca, in una posizione intermedia tra questa e il sottostante paese di Trisungo. É qui dove doveva sorgere anticamente la mutatio che segnava l’inizio del percorso, testimoniato oggi, con ogni probabilità, dal reperimento di alcuni basoli pertinenti al lastricato stradale. Da questo punto esso imboccava la direttrice che, risalendo il “Fosso della Pianella”, raggiungeva le località di Piedilama, sede di significativi rinvenimenti archeologici, e Pretare biforcandosi, poi, in due rami che conducevano verso le pendici del Monte Vettore (m 2476). Quello occidentale, percorso un tratto della Valle dell’Acero, procedeva quasi a mezza costa fino al Valico di Forca di Presta (m 1536) oltrepassato il quale proseguiva in direzione o della strada per Visso, o della Via
Nursina nelle quali confluiva in prossimità della Piana di Castelluccio (m 1452) riallacciandosi, così, alla viabilità dell’alta Valnerina e del territorio umbro. Quello orientale, invece, che principalmente a noi interessa, deviava verso il “Fosso del Moricone” e la Valle Stretta arrivando al Passo del Galluccio (m 1170). Da qui, le ipotesi circa il proseguimento del tracciato sono due: secondo la prima,6 la strada scendeva, attraversando Valle Orsara e Montegallo, e puntava verso Comunanza, sfruttando l’alta Val d’Aso, fino a toccare il centro di Amandola.7 Una proposta più recente, e forse più probabile, invece, 8 onde evitare un inutile allungamento del cammino transitando per i villaggi di fondovalle per poi, nuovamente, guadagnare il fianco del Vettore, suggerisce un itinerario in quota il quale, percorrendo l’avvallamento che separa il Monte Pianello della Macchia dal Colle Pisciano, tagliava le pendici orientali del massiccio montuoso mantenendosi ad una altitudine abbastanza
17
Tav. B Carta corografica con la rappresentazione delle valli e dei fiumi del Piceno meridionale (da Atlante BBCC).
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Tav. C Carta ricostruttiva della viabilità antica nel Piceno meridionale (da CAMPAGNOLI-GIORGI 2007).
Tav. D Dettaglio della Tabula Peutingeriana, segm. V, 2-3 (da RAININI 2007).
18
costante, senza significativi saliscendi.9 Il tragitto continuava, quindi,(Tav. F) per Santa Maria in Pantano, San Lorenzo di Vallegrascia e, varcato il fiume Aso, per Montemonaco da dove era possibile proseguire discendendo il corso del torrente Cossudro. Si costeggiavano, così, i rilievi di Montespino e, poco oltre, di Montefortino superati i quali, seguendo la direttrice tracciata dal torrente Ambro, la strada immetteva agevolmente nella Val Tenna e nel territorio di Amandola fino a raggiungere la colonia di Falerio, punto focale di confluenza con la Salaria Gallica, la grande arteria transcollinare medioadriatica proveniente da Ricina – Urbs Salvia. Il tratto terminale raggiungeva, infine, Firmum intercettando, qui, l’altro diverticolo della Salaria che, con un percorso “minore” ma più diretto, proveniva da Asculum lungo una fascia di crinale, già probabilmente sfruttata in epoca pre-romana, che, superato il corso dell’Aso, seguiva il tracciato Petritoli-Monterubbiano.10 Riguardo al fondamentale ruolo di snodo svolto dal centro di Falerone in relazione alla viabilità regionale non mancano alcuni significativi documenti archeologici, costituiti principalmente da quattro milliari che coprono il periodo compreso fra il 305 e il 388 d.C.,11 i quali consentono di ricostruire un sistema itinerario sostanzialmente stabile per tutto il periodo tardo-antico. A testimoniarci il protrarsi nel tempo del percorso Surpicanum – Firmum, conservatosi pressoché inalterato fino all’età post-classica, interviene in nostro aiuto, di fronte ad un panorama archeologico estremamente lacunoso, soprattutto l’insorgenza di numerosi centri religiosi e monastici che iniziano a diffondersi, con particolare frequenza, in età altomedievale. Essi ricoprono spesso, se osservati nella loro distribuzione territoriale, mansioni non tanto dissimili da quelle delle stationes di età antica, a cominciare dalla stessa chiesa di San Salvatore, ad Arquata del Tronto, da dove prendeva le mosse il diverticolo montano, la quale non è escluso possa aver svolto, fin dall’inizio, una funzione ospitaliera perpetuando quella dell’originaria mutatio romana. Da qui si snocciola, lungo il cammino, una fitta sequenza di edifici sacri la cui dislocazione non nasconde una precisa scelta topotetica che ricalca, in molti casi, l’antica organizzazione infrastrutturale viaria di epoca imperiale. Quest’ultima, oltre a prevedere la creazione
Aspetti topografici e organizzazione del territorio in età antica
di organismi di accoglienza e sosta per i viandanti in transito, teneva probabilmente anche conto, come verrà approfondito nel prossimo capitolo, di quelle che furono le tappe di una strada caratterizzata senza dubbio da una millenaria vocazione alla transumanza, considerata la sua percorrenza che dal massiccio dei Sibillini conduceva alle vallate bagnate dal corso dell’Aso, del Tenna e, attraverso il collegamento verso Nord con la Salaria Gallica, del Chienti. Non a caso, infatti, è proprio dalla zona di Montegallo, da dove, cioè, la strada iniziava a volgere verso le aree pascolative dell’alta Val d’Aso, e da lì in direzione del sistema torrentizio (Cossudro, Ambro) che immette nella Val Tenna, che proliferano insediamenti situati in posizioni dominanti e strategiche per il controllo della viabilità locale.(Tav. F) Da Santa Maria in Lapide, quasi un fortilizio a presidio del territorio di Montegallo, e dalla vicina Santa Maria in Pantano, nella quale l’incontro fra cultura pagana e cristiana si traduce in un ciclo pittorico in cui episodi evangelici convivono con le raffigurazioni delle Sibille (Cumana, Delfica, Ellespontina, Agrippina e Frigia), si giunge a San Lorenzo ad tres rivos, in Vallegrascia, che ci accoglie con i suoi splendidi rilievi scultorei. Incontriamo, poi, Santa Maria di Casalecchio, lungo le sponde dell’Asis: eccezionale esempio di “santuario del giuramento” e della fedeltà ai patti, meta di fedeli provenienti dal vasto comprensorio ascolo-nursino. Proseguendo verso Nord, ed approdando alla zona di Montemonaco, ecco la chiesa di San Giorgio all’Isola, spazio in cui si attua una felice sintesi fra tradizione occidentale e bizantina, e quella di Isola San Biagio. Lambita, quindi, l’altura di Montespino, con la sua importantissima pieve di San Michele, si giunge nell’ampio distretto di Amandola dove ben quattro fondazioni, tre abbaziali ed una plebana, testimoniano la persistente vitalità del percorso in età medievale. Qui esso probabilmente si sdoppiava in due rami diretti rispettivamente a Est, come si è già detto, lungo l’asse Falerio-Firmum, dunque verso la fascia costiera adriatica, e a Nord in direzione di Sarnano-Pian di Pieca, quindi dei fondovalle del Fiastra, del Fiastrone e del Chienti. Si tratta dell’antichissima Pieve di San Donato (notizie dall’a. 977), e delle Abbazie dei Santi Vincenzo e Anastasio, di Santa Maria inter rigora presso Piobbico (Sarnano) e, soprattutto,
Tav. E Carta geografica delle valli del Tenna, dell’Aso e del Tronto e del territorio nursino (da CAMPAGNOLI-GIORGI 2007).
Tav. F Carta topografica dei territori di Amandola, Montefortino e Montemonaco (da AVARUCCI 2002).
19
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 2 Il Monte Sibilla.
dei Santi Vitale e Ruffino, al confine tra i territori di Smerillo e Amandola, dislocata proprio ai margini della strada (SS 210) che costeggia la riva destra del Tenna e che corrisponde al tratto terminale del diverticolo della Salaria diretto a Firmum. É questa l’ultima tappa del lungo tragitto che dal versante meridionale dei Sibillini immette nelle estese aree collinari e vallive dell’ager faleriensis e di quello urbisalviensis dove esso confluiva nei tracciati della grande viabilità interna e costiera del Piceno centro-settentrionale.12 In conclusione, è possibile, dunque, riconoscere una sostanziale continuità tra il tessuto stradale romano e quello medievale in questo ampio comparto della provincia ascolo-fermana, e confermare, altresì, come da più parti è stato opportunamente sottolineato, la fondamentale funzione svolta dal sistema di comunicazioni di età antica, specie quello più interno contraddistinto da una particolare stabilità nel tempo, per la diffusione dei centri religiosi (pievani, monastici, abbaziali), principalmente di ispirazione benedettina, nella regione picena del quale la diramazione originatasi dalla mutatio di Surpicanum
20
costituisce una ulteriore significativa prova. Parallelamente, tali fondazioni, irradiatesi soprattutto ad opera dei Farfensi lungo la Consolare e le sue ramificazioni dalla Sabina verso il Piceno, diventano, a loro volta, “indici sicuri per la ricostruzione del sistema viario antico” (Pacini), oltre che un indizio di movimento demografico e di dinamismo socio-economico-culturale.13 Se il diverticolo in oggetto rappresentò, senza alcun dubbio, il principale asse di percorrenza interna NordSud che consentiva alle diverse realtà insediative dell’area subappenninica di collegarsi a Fermo e ad Ascoli senza dover ricorrere ai tracciati delle Salarie, transvalliva (Salaria Gallica) e litoranea (Salaria Picena), doveva sicuramente, però, esistere contemporaneamente anche un microsistema di tinerari tratturali, spesso di remota origine, funzionali tanto alle interconnessioni locali a corto raggio, quanto alle transumanze che stagionalmente transitavano lungo la fascia pedemontana. Questo aspetto della viabilità “minore”, il quale si conformava, come si è detto, alla geomorfologia delle singole zone che attraversava, facendosi strada fra versanti molto ac-
Aspetti topografici e organizzazione del territorio in età antica
clivi, stretti avvallamenti, aree selvose, alvei torrentizi incassati e sfruttando le opportunità che di volta in volta la natura offriva, senza particolari iniziative di modifica ambientale, si accompagnava a quelli che, invece, furono i vasti e complessi interventi di sistemazione territoriale avviati a partire dall’epoca triumvirale. Disboscamenti, bonifiche, regimentazione dei corsi d’acqua, limitatio dei terreni coltivabili, costituirono importanti operazioni agrimensorie attuate su vasta scala e finalizzate alla distribuzione dei fondi agricoli ai nuovi coloni impiantati nella regione. Il fenomeno ci riporta all’epoca della deduzione coloniale di Falerio, avvenuta in età augustea, e, conseguentemente, alla organizzazione centuriale a cui fu sottoposto il suo territorio. Fu questo il momento durante il quale, di fronte all’esigenza di reperire aree disponibili alla sistemazione di un accresciuto carico antropico costituito dai veterani che avevano preso parte alle guerre civili, si giunse ad assegnare anche le zone pedemontane più interne dell’alta valle del Tenna, poste fra Sarnano e Amandola. Decisione, questa, che dipese principalmente dalle peculiarità idro-orografiche della regione le quali imposero la necessità di appoderare anche settori alto-collinari e montuosi.14 A testimonianza dell’avvenuta centuriazione delle fasce subappenniniche confinanti con le propaggini orientali dei Sibillini, intervengono sicure tracce di ordinamento catastale e di insediamenti rurali nei dintorni di Amandola (loc. “Zoccolanti”), oltre al noto cippo gromatico recuperato in contrada “Cerrara”(Fig. 52) 15 che rappresenta, al momento, il documento archeologico più importante della zona in relazione alla partizione agraria augustea realizzata nell’esteso ager faleriensis. I due cippi anepigrafi provenienti dall’alta Valle del Tennacola (fraz. Terro di Sarnano)16 ci pongono, invece, di fronte ad un altro aspetto di estremo interesse riguardante l’assetto territoriale pedemontano. Essi svolgevano, infatti, la probabile funzione di limites che separavano l’ager privatus, cioè le aree parcellizzate e individuate per le assegnazioni viritane, dai loca publica destinati all’esercizio comune dello ius pascendi e dello ius lignandi.17 Si tratta, riguardo a questi ultimi, di terreni di pertinenza statale svincolati da divisioni agrarie, in quanto inutilizzabili a fini agricoli e insediativi, e destinati, pertanto, a forme di sfruttamento collettivo del suolo per pascolo e
Fig. 3 Montefortino: scorcio delle “Gole dell’Infernaccio”.
21
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
legnatico (pascua et silva publica) che conobbero una significativa diffusione nelle fasce montuose interne della regione ascolo-fermana, individuabili specificatamente nel settore dei Monti Sibillini.18 Non a caso, detto per inciso, è proprio in questo settore regionale che si sarebbe, poi, sviluppato, a partire dall’epoca medievale, il sistema economico-fondiario delle “Comunanze”, vale a dire delle aree anticamente censite in montibus, concesse alla pratica della pastorizia e alla fruizione comunitaria delle risorse boschive. A riprova di ciò, è significativa la sopravvivenza, ancora oggi, di interessanti toponimi fra i quali basterà ricordare quelli di Comunanza, Prato Comune, Monte Comunitore, Piobbico (= publicum).19 Le principali fonti gromatiche, fra cui i Libri Coloniarum e Siculo Flacco, 20 vissuto in età traianea, riferendosi alla nostra zona ci parlano di territoria di proprietà del Populus Romanus, denominando questo esteso comprensorio demaniale con il termine di Montes Romani (“…ut est in Piceno et in regione Reatina, in quibus regionibus montes Romani appellantur…”) che gli studi più recenti, basati anche su indicative sopravvivenze di voci toponomastiche, identificano ormai con certezza con la catena dei Monti Sibillini. Essi, dunque, comprendevano ampie porzioni di ager publicus costituito da terreni inalienati, riservati soprattutto alla pastorizia in quanto attraversati dalle rotte di percorrenza delle grandi migrazioni stagionali ovine verso la regione umbra e la Sabina.21 Si tratta, in sostanza, di agri publici scripturarii, ricchi di ampie distese pascolative i cui introiti, derivanti dal loro sfruttamento da parte dei proprietari di greggi transumanti dietro il pagamento di una tassa, confluivano nell’aerarium statale (“…nam sunt populi Romani quorum vectigal ad aerarium pertinet.”, SIC.FLACC.).22 Tale disposizione fiscale si colloca, nello specifico, da quando, a partire dalla seconda metà del II sec. d.C., su di essi il potere imperiale cominciò ad esercitare precise competenze giuridiche ed un controllo diretto, trasformandoli in proprietà rientranti nel patrimonium principis.23 Aree centuriate e ager compascuus, dunque, delineano la fisionomia degli interventi agrimensorii che hanno caratterizzato non soltanto l’organizzazione catastale della regione, ma hanno anche condizionato la morfologia di un paesaggio mantenutosi, in diversi casi, sostanzial-
Fig. 4 “Gole dell’Infernaccio”: un tratto dell’alto corso del Tenna nei pressi della “Stretta le Pisciarelle”.
22
Aspetti topografici e organizzazione del territorio in età antica
mente inalterato fino quasi ai nostri giorni.24 Tutto questo, malgrado le inevitabili trasformazioni antropiche avvicendatesi nel corso dei secoli, consente di ricostruire ugualmente la probabile antica trama di collegamenti viario-tratturali adeguati allo sviluppo del modello economico agro-pastorale della zona. A tale scopo, occorre tener conto proprio delle diversificate forme che, nel tempo, ha assunto la pianificazione del territorio e, di conseguenza, della necessità di prevedere un sistema infrastrutturale in grado di garantire percorrenze adatte, tanto alle comunicazioni fra aree interne e fondovalle, quanto ai flussi stagionali di bestiame ovino transumante. É facile, perciò, comprendere la
piena integrazione del sito di Montespino in una simile realtà, considerando la sua prossimità sia al tracciato del diverticolo della Salaria orientato lungo l’asse Amandola-Fermo, sia alla rete di piste pedemontane dirette verso i valichi transappenninici, e sia, infine, ai corsi fluviali e torrentizi (Aso, Tenna, Cossudro, Vetremastro) rivolti in direzione delle fasce collinari e di pianura del Piceno centro-meridionale. É evidente, dunque, come il luogo abbia da sempre goduto di una dislocazione topografica favorevole ai contatti con quei settori regionali più coinvolti dal processo di romanizzazione nei quali ricercare anche le potenziali fonti monumentali a cui possono aver attinto le mae-
23
Tav. G Cartografia IGM 1:25.000 FF. 325 I Montemonaco – 326 IV Amandola comprendente il territorio di Montefortino, la valle dell’Ambro e dell’alto Tenna.
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
stranze medievali attive nel cantiere plebano.(Tav. G) Un importante contributo, come si vedrà nello specifico più avanti, alla ricostruzione tanto dell’occupazione demica del territorio, quanto della sua antica configurazione ambientale, ci è fornito dalla toponomastica. Persiste infatti in diversi casi ancora oggi, un significativo numero di vocaboli prediali, di antroponimi e fitonimi distribuiti su un’area piuttosto vasta compresa fra il distretto amandolese, la zona gravitante attorno al centro di Comunanza e le propaggini orientali del massiccio dei Sibillini. Ad esclusione di alcuni idronimi (Ambro, Tenna, Tennacola, Aso, Tesino) i quali costituiscono casi a sé stanti per una probabile origine preromana (forse etrusca: Ambre/ Ambra/Ambria/Amra, o anche “antico-europea”: Amaru/ Amarus/Amarum/Ammaro) e latina (Tinna - Tinnaculum – Asis – Tess(u)inus) di incerta interpretazione, 25 una buona percentuale rimanda in modo abbastanza esplicito alla copertura vegetale, soprattutto spontanea. Se ne deduce che essa, anticamente, doveva rivestire notevoli estensioni di ager publicus situate lungo le alte valli dell’Aso e del Tenna fino alla intera fascia pedemontana. Così, fitonimi quali Cerrara/Cerretana/Cerretano/Le Cerrete, oppure Cerquette/S. Iohannes de Cerqua (boschi di cerri e querce), 26 Illice (distese di lecci), Sette Carpini, Consilvano, Ginestreta, Fagieto Rotundo o ancora l’oronimo Monte Farneto (bosco di farnie), tramandano il ricordo dei grandi manti boschivi e di distese prative che occupavano, un tempo, i pendii di quei Montes Romani di cui si è parlato in precedenza, pertinenti al demanio statale e concessi allo sfruttamento collettivo. Attività, quest’ultima, alla quale allude ripetutamente anche il termine Cese ricollegabile alle caesae (silvae) destinate al libero approvvigionamento di legname da parte delle comunità locali.27 Non mancano, inoltre, vocaboli riconducibili alla presenza di alberi da frutto, quali Castania/Castanea/Castania grossa, corrispondenti a San Pietro di Castagna, a metà strada tra Amandola e Comunanza; Caprafico e Colle Alceresia, quest’ultimo identificabile con Colle della Cerasa, sempre nel territorio di Montefortino verso Amandola: una ricca onomastica, questa e quella a seguire, puntualmente riportata in uno dei documenti alto-medievali più importanti riguardante la nostra zona, il Liber Iurium o “Codice 1030” dell’Archivio Storico Comunale di
24
Fermo (ASCOF), del quale ci occuperemo nel prossimo Capitolo.28 Riferimenti alla natura inospitale e accidentata di questi luoghi, non di rado malsani e inadatti, quindi, ad una loro messa a coltura, si colgono in alcune denominazioni riferite tanto a forme di antropizzazione del territorio, quanto alle peculiarità morfologiche di certe contrade. Indicativo, al riguardo, è lo stesso Montespino, da cui trapela il richiamo alla originaria selvaggia vegetazione a macchia di rovi spinosi, altrettanto esplicitamente evocata dal nome Rovitolo (diminutivo da rubetum = roveto) che incontriamo appena a Nord-Ovest di Montefortino, nei pressi della località Colmartese.29 Ricordiamo, poi, Valle Cupa/Fonte Cupa/Cupo (profonda, scoscesa), 30 Fosso delle Moie/Le Moglie (zona acquitrinosa), Cremore (terreno denso, melmoso), Volubrio (forse conca lacustre), 31 al pari del termine geomorfico di Force, che ritroviamo a Est di Comunanza, il quale allude ad un luogo percorso da una ripida gola. Toponimi montefortinesi come La Rota e Fosso, il secondo caratteristico di diverse contrade (Fosso Rio/Fosso Varchi/Fosso delle Rive/della Fornace/delle Chiuse/del Corvo/ delle Vorghere), sono, invece, inquadrabili nell’ambito di quegli interventi volti a regolamentare gli aspetti idrogeologici del territorio attraverso, nel primo caso, la piantumazione lungo le sponde torrentizie allo scopo di rinforzarne la tenuta, e nel secondo con la creazione di fossati che servissero a convogliare le acque piovane nell’alveo del Vetremastro.32 Altrettanto, i vocaboli Tribio (trivium) e Casalicchio (casa-liculum) testimoniano le rare e semplici operazioni messe in atto nelle aree più interne al fine di favorirne, in qualche misura, la percorribilità sia tramite la realizzazione di percorsi tratturali diretti verso le contrade più isolate, sia, anche, la probabile creazione di punti di sosta forse destinati al ricovero in capanni di pastori e greggi lungo le rotte della transumanza.33 Allo stesso modo non si può escludere che la piccola frazione di Sossasso, in contrada “Cossudro”, celi, nella probabile derivazione latina del nome (sub-saxum), un riferimento ai ruderi di qualche costruzione in pietra di età antica.34 Di ben altra natura, invece, si rivela la ricca toponomastica, in parte oggi scomparsa ma, comunque, non dimenticata, che rintracciamo a Est del versante
Aspetti topografici e organizzazione del territorio in età antica
orientale dei Sibillini e che interessa, in particolare, il territorio esteso fra Amandola e Comunanza: quell’ager divisus et adsignatus, cioè, sottoposto a complesse operazioni di sistemazione agraria in vista della attribuzione di appezzamenti coltivabili in proprietà privata. La diffusa presenza di nuclei coloniari, giunti in relazione alle deduzioni decise dallo Stato romano o anche a seguito di migrazioni spontanee,35 ha lasciato un segno profondo che è possibile cogliere tanto nella fisionomia che il paesaggio ha assunto grazie alla capillare opera di centuriazione di ampie porzioni della regione subappenninica picena, quanto in una significativa onomastica prediale. È proprio questa che, non di rado, riporta a gentilizi di origine faleronese appartenenti alla nobilitas locale titolare di proprietà fondiarie. Si tratta, in massima parte, di denominazioni coniate su antroponimi latini desinenti nel caratteristico suffisso –ano (-anum) che sottintendono i termini praedium/fundum/villa36 e che documentano una lottizzazione confinata, salvo isolate eccezioni, entro i limiti della valle medio-alta del Tenna, posta al di qua della immaginaria linea pedemontana a partire dalla quale si estendevano le zone incolte dell’ager publicus. A parte la chiesa di Santa Maria a Piè d’Agello, o in Agello/ in plano Agelli/in contrata Agelli, sita appena fuori Amandola lungo il tratto Nord-Est della SS 210, la quale trae origine dal diminutivo di ager (agellus = piccolo campo) e che risale ad una diffusa terminologia di origine gromatica, 37 vanno segnalati appellativi, oggi caduti in disuso, quali Visiano/Vesciano/Visciano, località sita nel suburbio Nord-orientale di Amandola, a Sud del Carogno, 38 e prossima ad una “contrata Sancti Ippoliti ubi dicitur lo Migliarino” riportata dagli Inventari del monastero femminile di Santa Maria delle Vergini di Amandola39 che ci restituisce, a sua volta, un interessante odonimo riconducibile alla organizzazione viabilistica della zona. Derivato dal gentilizio Vesius/Vessius/Vettius, il toponimo sembra, forse, evocativo di quel Vettius Rufinus, su cui si tornerà a proposito di un analogo “prediale” documentato nel territorio di Cessapalombo, lungo il versante settentrionale dei Sibillini, 40 del quale ci parlano le fonti gromatiche a proposito di una appropriazione indebita da parte sua di terre d’uso collettivo poste proprio nell’area dei Montes Romani.
Incontriamo, poi, Petroniano, ad Ovest di Montefortino, presso Rovitolo, appartenente ad una onomastica riferibile alla gens Petronia originaria di Falerio, 41 e, di incerta derivazione, Lontignano, in contrada “Le Piagge” tra Montefortino e Santa Lucia, anch’esso, forse, da antroponimo antico.42 Ancora ad un ambito prediale sono ascrivibili, lungo la sponda destra dell’alto Tenna in direzione dell’“Infernaccio”, il termine di Rubbiano, risalente alla gens Rub(b) ia, 43 e, spostata più a Nord-Est, la contrada La Roscia, forse coniata su un personale latino Roscius.44 Nel territorio di Smerillo, invece, fa la sua comparsa il vocabolo Castorano, con ogni probabilità non rapportabile al Dioscuro Castore, come proposto da qualcuno, 45 ma coniato verosimilmente su un personale Castor dal quale potrebbe essere derivata, anche in questo caso, una formazione prediale.46 L’ipotesi, malgrado l’assenza di attestazioni di questo nome in tutta la regio V, parrebbe suffragata da una iscrizione proveniente da Cupra Maritima47 nella quale viene menzionato un certo Castorius, senatore e personaggio in vista nella sua città durante la seconda metà del IV sec. d.C., 48 che non è escluso possa riconoscersi all’origine del toponimo in questione. Di notevole interesse, spostandoci verso Est nella giurisdizione di Comunanza, è il termine Gabbiano, prediale assai diffuso in area picena, soprattutto nel Fermano e nell’Ascolano (Montegiorgio, Ripatransone, Castel di Lama, Civitella del Tronto). La sua genesi è da individuarsi nel gentilizio Gavius, ben attestato a Firmum, Falerio e Asculum, 49 dove in qualche caso, come a Firmum, il nome si trova associato a personaggi pubblici di rilievo, quali Marcus Gavius Maximus, alto magistrato vissuto sotto il principato di Antonino Pio.50 Ancora, tra Illice e Tavernelle, la frazione Lisciano consente di riconoscere un antroponimo latino Lisius/Lissius/Lixius forse appartenente ad una gens Lisia documentata anche nella regione umbro-laziale e campana.51 Inoltre, prediali quali Palmiano, 52 nei pressi della direttrice Venarotta-Ascoli, Appoiano, 53 attestato a Nord-Est del precedente, presso il torrente Chiaro, e Caprignano, 54 tra quest’ultimo corso d’acqua e Tavernelle, ci riportano, rispettivamente, ad un personale latino (palumbus?) di incerta identificazione; alla gens Appeia, conosciuta nella regione picena; e ad un antroponimo Caprius documen-
25
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
tato in area umbro-ascolana. Infine, a Sud-Est di Comunanza, le località di Capotornano, posta presso la riva sinistra dell’Aso (contr. “Pian San Pietro”), e Quinzano, 55 sulla destra del torrente Cinante, lungo una deviazione proveniente dal centro di Force, vanno, al pari, interpretati come toponimi fondiari di cui solo il secondo, da Quintius/Quinctius riferibile quasi certamente alla gens Quincia ricorre con una certa frequenza nel Piceno meridionale. Ricomponendo, dunque, i dati fin qui raccolti in un quadro complessivo di sintesi, è opportuno sottolineare come la mancanza di sistematiche attività esplorative in gran parte del settore pedemontano di nostra competenza, ristrette, nel migliore dei casi, ad occasionali rinvenimenti di superficie, privi, purtroppo, la ricerca topografico-archeologica di un indispensabile supporto scientifico per poter delineare un profilo, anche di massima, del livello di antropizzazione dei territori più interni dell’ager faleronese. Come si è visto, la sua conoscenza è, infatti, ancora affidata a considerazioni di ordine viabilistico, alle tracce tuttora riconoscibili di organizzazione catastale del territorio e alle sopravvivenze toponomastiche prediali. Anche queste ultime, seppure abbastanza ricche e studiate, non sono tuttavia sufficienti a precisare forme e durata dei fenomeni di popolamento della vasta zona in esame. Al riguardo, va, però detto che la povertà del panorama archeologico locale è da imputarsi anche alle procedure di sfruttamento del suolo dell’intera regione, caratterizzate da una pratica piuttosto discontinua dell’aratura che non agevola l’affioramento di eventuali resti antichi. A ciò vanno, altresì, aggiunti i diffusi fenomeni di accumulo di detriti per azione eolica e delle acque meteoriche, soprattutto lungo le numerose fasce sotto costa, i quali determinano solitamente consistenti interramenti dei livelli di frequentazione più profondi, impedendo, di conseguenza, il rilevamento di giaciture primarie. É abbastanza probabile, in effetti, che alle estese aree lottizzate ed assegnate a partire dall’età augustea in proprietà privata agli abitanti di Falerio, all’indomani della neodeduzione coloniale della città, afferisse, ad esempio, anche un sistema di microinsediamenti rustici, costituiti da villae/aziende agricole funzionali alle attività produt-
26
tive, presumibilmente sullo stesso modello già applicato nell’entroterra fermano nei decenni finali del I sec. a.C. a seguito delle confische operate da parte dei cesariani dopo Filippi. Il mancato riconoscimento di resti insediativi, tanto come veri agglomerati residenziali, quanto sotto forma di “off-sites”, cioè di materiali dispersi su una vasta superficie56 ma utili come elementi diagnostici per l’individuazione di aree di frequentazione e dei relativi orizzonti cronologici di riferimento, porterebbe, come in certi casi è accaduto, a sottovalutare il processo di romanizzazione della fascia territoriale subappenninica ascolo-fermana. Di conseguenza, la tendenza è stata spesso quella di relazionare le scarse, o nulle, testimonianze archeologiche alla natura disagiata e decentrata di una regione interna legata ad una economia chiusa di tipo agro-pastorale. In un tale panorama, assume, quindi, particolare risalto una emergenza architettonica, come la Pieve di Sant’Angelo in Montespino, fino a questo momento scarsamente studiata nella sua intrinseca rilevanza monumentale e, soprattutto, mai considerata come significativa presenza proiettata in una dimensione territoriale. Sotto tale profilo, essa può forse, infatti, contribuire alla ricostruzione di un paesaggio antico che stenta, a tutt’oggi, a ritrovare una propria identità. La singolare struttura della sua cripta, arricchita e nobilitata dai preziosi e rari materiali antichi di reimpiego, è in grado di offrirci oggi elementi inediti e utili a formulare una serie di ipotesi, di cui si tratterà nel dettaglio nel prossimo capitolo, sui possibili contesti edilizi di provenienza e, quindi, su realtà architettoniche di epoca romana esistenti in questi luoghi delle quali, al momento, manca qualsiasi attestazione di tipo archeologico. Rilevante, infatti, è la dovizia di colonne e capitelli di spoglio che scandiscono le navate dello spazio ipogeo i quali rappresentano il documento di età classica forse più rimarchevole dell’intero comprensorio esteso fra Sarnano e i Sibillini. Non vanno, però, trascurate quelle parti esterne dell’edificio innalzate attraverso l’uso di conci lapidei, quasi certamente in parte anch’essi di recupero, che non nascondono pertinenze edilizie, forse di tipo rurale, di età antica.
Note
1 CAMPAGNOLI-GIORGI 2002, pp. 210-213. 2 Su tali problematiche si vedano CATANI-PACI 1999, pp. 175-192; P.CAMPAGNOLI-E.GIORGI, Alcune considerazioni sulla viabilità romana nelle Marche meridionali, in “JAT” 10, 2000, pp. 105-126; GIORGI 2006, pp. 114-117; 128-144; CAMPAGNOLI-GIORGI 2007, p. 31. 3 Sull’importanza di tale diverticolo nel panorama delle comunicazioni stradali del Piceno meridionale, si vedano i contributi di CONTA 1982, pp. 424-429; CAMPAGNOLI-GIORGI 2002, pp. 217-219; DALL’AGLIO-GIORGI 20001, pp. 171-182; CAMPAGNOLI-GIORGI 2007, pp. 37-39, 41. 4 RAININI 2007, p. 20, Tav. III. 5 GIORGI 2006, p. 138, nota 43. 6 CONTA 1982, p. 425. 7 Sulla toponomastica, di origine altomedievale, relativa a questo percorso cfr. DALL’AGLIO-GIORGI 20001, pp. 180-181; GIORGI 2006, p. 139. 8 DALL’AGLIO-GIORGI 20001, p. 179, tesi sostanzialmente già sostenuta da PAGNANI 1987, pp. 572-573, Tav. XII f.t.; per un percorso alternativo si vedano anche N.ALFIERI-L.GASPERINI-G. PACI, M. Octavii lapis Aesiniensis, in “Picus” V 1985, pp. 37-38. Sull’argomento, più di recente, anche LUNI 2004, pp. 127-129; RAININI 2007, p. 24, nota 9. 9 Tale alternativa non esclude, comunque, la deviazione più a valle sostenuta da Gioia Conta (supra, nota 6) o l’esistenza di uno o più sentieri di collegamento con i centri posti a quote inferiori. 10 Su quest’ultimo diverticolo cfr. M.PASQUINUCCI-S.MENCHELLI-W.SCOTUCCI, Viabilità e popolamento tra Asculum e Firmum Picenum, in CATANI-PACI 2000, pp. 353-370, in particolare p. 359, Fig. 2. Sulla colonna miliare con dedica a Magnenzio (350-353 d.C.) conservata nella chiesa di Santa Maria della Liberata presso Petritoli si vedano CIL IX, 5937; DONATI 1974, pp. 221-222, n. 60. 11 Tre provengono da Falerio e uno da Montegiorgio: DONATI 1974, pp. 221-222, n. 58-59; L.PUPILLI, Un poco noto milliario faleronese nel Museo archeologico di Fermo, in “Picus” I 1981, pp. 317324; DELPLACE 1993, pp. 213-214; CATANI-PACI 1999, pp. 79-80; MARALDI 2002, p. 106; GIORGI 2006, pp. 126-127; R.PERNA, Urbs Salvia. Forma e Urbanistica, (“CAI” 7), Roma 2006, p. 112; RAININI 2007, pp. 17, 24 note 9, 12 e 14. 12 Sugli edifici sacri che costellano buona parte del diverticolo Surpicanum-Firmum si vedano SENSI 1994, pp. 195-218, in particolare pp. 196-199, 202-217; CROCETTI 1994, in particolare pp. 56-99; IDEM, Istituzioni monastiche dei secoli XI-XII ai piè dei
Sibillini. Abbazie e Priorati nell’alta valle del Tenna. Chiese romaniche farfensi nell’alta valle dell’Aso, S.Pietro in Cariano 1995, pp. 47-50 (Santi Vincenzo e Anastasio di Amandola), 186-212 (San Giorgio all’Isola), 212-241 (San Lorenzo ad tres rivos). 13 C.G.MOR, Problematica cittadina precomunale nel Piceno, in La città medievale nella Marca (“StMac” 7, 1973), p. 11; PACINI 1991, pp. 126-127; S.PRETE, Le pievi nella diocesi di Ascoli Piceno. Note aggiuntive per un catalogo, in “StPic” 56, 1991, p. 174. 14 U.MOSCATELLI, Mensuram accipere debebunt. Sulla pratica agrimensoria romana in collina, in “AS” 24, 1993, pp. 103-118; CAMPAGNOLI-GIORGI 2001-2002, p. 44, nota 12; BRANCHESI 2007, pp. 185, 203. 15 CIL I2, 2935; P.BONVICINI, Iscrizioni inedite della Quinta regio Italiae, in “RAL” s. VIII, XXVII 1972, fasc. 5-6, pp. 201-202; IDEM 1978, p. 97, Fig. X; MERCANDO-BRECCIAROLI TABORELLI-PACI 1981, p. 342, n. 411; BONORA MAZZOLI 1987, pp. 425-426; U.MOSCATELLI, Due piccoli catasti nella zona di Pian di Pieca (MC), in “Picus” VII 1987, pp. 157-167; sempre a Moscatelli si deve lo studio più specifico sul reperto: MOSCATELLI 19912, pp. 537-548, Figg. 2-5, Tav. I b. Sull’argomento si vedano anche DELPLACE 1993, p. 183, Fig. 24; DALL’AGLIO-GIORGI 20002, p. 90, Fig. 127; RAININI 2007, pp. 33-34, note 29, 31. 16 S.M.MARENGO, La “pietra di Terro”: proposta di identificazione, in Reperti e Scavi nel Territorio (Atti del I Convegno, Sarnano 28 maggio 1989), Sarnano 1990, pp. 7-17. 17 Cfr. a tale proposito SERENI 1974, pp. 65-66; S.ANTOLINI, Epigrafia e conoscenza del territorio fra Esino e Tronto, in Piceno Romano, p. 97, e BRANCHESI 2007, p. 199, nota 29. 18 Sulle varie definizioni delle terre destinate ad uso collettivo e sulla loro concessione in uso ai privati dietro il pagamento di un vectigal annuo allo Stato, si vedano GABBA-PASQUINUCCI 1979, p. 27 e nota 34; CAMPAGNOLI-GIORGI 2002, pp. 225-226; BRANCHESI 2007, p. 185, nota 3; p. 188 e nota 8 con bibliografia. 19 CAMPAGNOLI-GIORGI 2002, p. 226. 20 SIC.FLACC., De cond. Agr., pp. 136, 20 ; 137, 4 ; Lib Col, I, p. 244, 8-12. 21 BRANCHESI 2007, pp. 197-203. 22 Cfr. supra, nota 20. 23 Cfr. l’analoga situazione determinatasi, probabilmente, anche all’Insula di Cessapalombo: infra, Sez. II, Cap. VI C. In merito a tali aspetti, si vedano GABBA-PASQUINUCCI 1979, pp. 48 ss., 134140, 147-151; U.LAFFI, L’ager compascuus, in “REA” 100, 3-4, 1998, p. 547; CAMPAGNOLI-GIORGI 2001-2002, pp. 35-46; S.SEGENNI, La proprietà imperiale nell’Abruzzo antico (sec. I e II d.C.), in Epigrafia e
27
Note
territorio. Politica e società. Temi di antichità romana, VII Bari 2004, pp. 123-131; P.CAMPAGNOLI-E.GIORGI, Viabilità e uso del suolo tra età romana e alto Medioevo nell’area dei Monti Sibillini e dei Monti della Laga, in L’Appennino in età romana e nel primo Medioevo. Viabilità e popolamento fra Umbria e Marche: approfondimenti e confronti (Atti del Convegno di Studi, San Lazzaro di Savena) 2004, pp. 173200; BRANCHESI 2007, pp. 201-202, 219-220. 24 SERENI 1974, pp. 53-55. 25 PELLEGRINI 1983, pp. 239, 241, 267-268; PACINI 2002, pp. 32-37. Sul nome Ambro, si vedano G.DEVOTO, Gli antichi Italici, Firenze 1967, p. 52; IDEM, Umbri ed Etruschi, in Scritti minori, II, Firenze 1967, pp. 40, 217; DEL LUNGO 2001, p. 696 (S. Petrus Grotte de Ambre, Todi). Un’ampia ed approfondita disamina del problema si trova in D.MAGGI, La Madonna dell’Ambro: nota toponomastica, in AVARUCCI 2002, pp. 43-52. 26 DEL LUNGO 2002, pp. 151, 176, 179; PACINI 2002, pp. 6, 9. 27 PELLEGRINI 1983, pp. 225, 262-263, 284-285. 28 SASF/ASCOF, Lib Iur, cc. 18 v. - 20 r.; PELLEGRINI 1983, pp. 261-262; PACINI 1996, doc. n. 48, p. 93; DEL LUNGO 2002, p. 176 (“Castanea”); PACINI 2002, p. 6. 29 DT, p. 658; PACINI 2002, p. 6. 30 Riguardo all’accezione geomorfica del vocabolo, si veda DEL LUNGO 2001, p. 668 e nota 153; IDEM 2002, pp. 147-148, 151, 184 (S. Iohannes de Vallemcupam). 31 Cfr. al riguardo infra, cap. III E, p. 89 32 BONVICINI 1978, p. 41; PELLEGRINI 1983, pp. 254, 264, 269, 273, 284; TROSCÉ 1987, p. 466. 33 PELLEGRINI 1983, pp. 280 (Trebbio), 283 (Casalicchio); DEL LUNGO 2001, pp. 679, 700 (S. Angelus de Tribio, Gubbio; S. Maria de Tribio, Nocera Umbra; torrente Tribio, presso Massa Martana (PG), che indica lo stacco di una diramazione dalla Consolare Flaminia); DEL LUNGO 2002, p. 184 (S. Petrus in Trivio, Senigallia; S. Martinus de Trivio Acuti, Fermo; S. Iulianus de Tribiantiquo, Pesaro). 34 PACINI 1966, p. 146; CHIAVARI 1991, pp. 210-211. Di diversa natura, per il possibile rimando ad una realtà già più articolata ed evoluta, forse di tipo abitativo, sembra , invece, l’oronimo Monte Civitella che incontriamo subito a Est di Amandola. 35 BRANCHESI 2007, pp. 188-190 e nota 10. 36 Sulla centuriazione del territorio pedemontano cfr. BONVICINI 1978, pp. 49-58; per un’analisi più specifica relativa alla toponomastica prediale si rinvia agli studi di PELLEGRINI 1983, pp. 245-259; MOSCATELLI 19911, pp. 99-140, in particolare app. B, pp. 117-118 e app. C, pp. 123-128 dove vengono individuate nu-
28
merose unità toponomastiche pertinenti alla diocesi di Fermo; CAMPAGNOLI-GIORGI 2002, p. 220; PACI 1988 (2008), pp. 249284, in particolare pp. 251-255, testo importante, quest’ultimo, per una corretta metodologia di approccio al problema. 37 Per l’onomastica marchigiana: RDM, n. 5706, 5858, 5911, 6647, 6745 (Diocesi di Fermo); 5322 (Diocesi di Camerino). Per quella umbra: RDU, n. 1013, 1061, 1290, 1708. 2029 (Diocesi di Perugia); 6070, 6348, 6820, 6823, 6915 (Diocesi di Spoleto); 2456, 2572, 2748, 2807, 3086, 3209 (Diocesi di Gubbio); 8638, 8773, 9485, 9826, 9959, 10092, 10217, 10444 (Diocesi di Todi). Si vedano, inoltre i contributi di PELLEGRINI 1983, p. 266; CROCETTI 1994, pp. 140-141, 143; G.B.PELLEGRINI, Terminologia agraria medievale in Italia, in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell’Alto Medioevo (Settimane di studio “CISAM” XIII, Spoleto 22-28 aprile 1965), Spoleto 1966, pp. 639-641; CHIAVARI 1991, pp. 210-211; DEL LUNGO 2001, p. 711; IDEM 2002, p. 151. 38 MOSCATELLI 19911, app. A, p. 114; AVARUCCI 1996, pp. 526-527, doc. n. 289; PACINI 2002, p. 9. Sul toponimo Visciano/ Viscano (prediale da Vesius/Vessius) documentato anche in Umbria, nella diocesi di Narni, cfr. DEL LUNGO 2001, p. 673 e nota 177. 39 ASAF, Liber sive Quaternus inventariorum, 1450, ms. n. 4 (Amandola), cc. 718 v.-719 r.; inv. 3 giugno 1424, cc. 1072 v.-1073 r. 40 CIL IX, 2838. Vedi infra, Sez. II, cap. V, p. 143. 41 ASAF, Inventari dei Beni Ecclesiastici, cart. di Montefortino, chiesa di San Pietro di Rovitolo, atto del 10/XI/1403 del Notaio Cola di Conte. Per la gens Petronia, cfr. CIL IX, 5416, 5420, 5465, 5477 ecc.; BONVICINI 1978, p. 51. 42 MOSCATELLI 19911, app. A, p. 111. 43 DT, p. 658; SCHULZE 19662, p. 424; PELLEGRINI 1983, p. 257. Sul toponimo e le sue varianti Robiano/Rubiano/Monte Robiano/Monte Rubbiano, cfr. MOSCATELLI 19911, app. A, p. 114; app. B, p. 117; app. C, pp. 125-127. Sulla sua presenza in territorio umbro: RDU, n. 2913, 3008, 3226 (Diocesi di Gubbio); DEL LUNGO 2001, p. 710. 44 DT, p. 654; SCHULZE 19662, p. 176; PELLEGRINI 1983, p. 256. Per un prediale Rosciano, cfr. MOSCATELLI 19911, app. A, p. 113. 45 G.AMADIO, Toponomastica marchigiana. II. Provincia di Ascoli, Zona dei Presidiati, Ascoli Piceno 1953, p. 22; si veda anche DEL LUNGO 2001, p. 645 il quale, a proposito della Vallis Castoriana sita nel territorio di Norcia, propone una derivazione da Castoreus “indicante un luogo e un edificio spettante ai gemelli Castore e Polluce”.
Note
46 DT, p. 210; PELLEGRINI 1983, p. 250 (dal territorio di Smerillo); MOSCATELLI 19911, app. A, p. 110. Il nome sopravvive tutt’oggi nell’omonimo Comune in provincia di Ascoli Piceno: cfr. CONTA 1982, p. 87 ss., in particolare pp. 229-234 relative al materiale archeologico di provenienza. La denominazione del sito Castrum Casturani, invalsa dalla tarda latinità, ha indotto a pensare ad una corruzione da Castrum Anii. 47 CIL IX, 5300. 48 PACI 1988 (2008), pp. 265-266. 49 CIL IX, 5358-5360, 5393, 5408 (Firmum); 5479-5480 (Falerio); 5217 (Asculum). 50 RDM, n. 6087, 7069 (Diocesi di Fermo); SCHULZE 19662, p. 76; PELLEGRINI 1983, p. 252; TROSCÉ 1987, p. 464; MOSCATELLI 19911, app. A, p. 111 (Gabbiano, Gabbiano Fosso, Torre di Gabbiano), pp. 117, 124 (Gabiano); DEL LUNGO 2002, p. 194 (S. Maria e S.Petrus de Gabiano) (Firmum). 51 RDU, n. 1171, 1528, 2021, 2211 (Diocesi di Perugia); DT, p. 419; SCHULZE 19662, pp. 181, 424; PELLEGRINI 1983, p. 252; MOSCATELLI 19911, app. A, p. 111; DEL LUNGO 2001, p. 707. 52 DT, p. 556. 53 SCHULZE 19662, pp. 346, 426; PELLEGRINI 1983, pp. 247248; MOSCATELLI 19911, app. A, p. 109; app. B, p. 118 (Apponiano). 54 PELLEGRINI 1983, p. 250. Sulla variante umbra Capriano, cfr. RDU, n. 889, 1287, 1709, 2045, 2189 (Diocesi di Perugia); SCHULZE 19662, pp. 234, 353; DEL LUNGO 2001, p. 705. 55 RDM, n. 7539, 7543-7546 (Presidiato dell’Abbazia di Farfa); DT, p. 622; SCHULZE 19662, p. 229; PELLEGRINI 1983, p. 256; MOSCATELLI 19911, app. A, p. 110; DEL LUNGO 2002, p. 196. 56 Si veda al riguardo M.PASQUINUCCI-S.MENCHELLI-M.R.CIUCCARELLI, Il territorio fermano dalla romanizzazione al III sec. d.C., in Piceno Romano, pp. 513-516.
29
Capitolo 2 La pieve di Sant’Angelo in Montespino: le origini e il suo ruolo nel contesto appenninico sud-piceno
La pieve di Sant’Angelo in Montespino: le origini e il suo ruolo nel contesto appenninico sud-piceno
Nella Sezione dell’Archivio di Stato di Fermo (Archivio Storico Comunale), si conserva il Liber diversarum copiarum bullarum privilegiorum et instrumentorum civitatis et episcopatus Firmi, generalmente abbreviato col titolo di Liber Iurium e convenzionalmente noto come “Codice 1030”, 57 manoscritto membranaceo risalente alla prima metà del sec. XIV. In esso è contenuta la Chartula Convenientiae: un contratto enfiteutico in cui il Vescovo di Fermo Gaidulfus, nel gennaio dell’anno 977, assegna ampi possedimenti “in montanis”, appartenenti alla propria giurisdizione territoriale, al Conte Mainardo “ filius quidam Sifredi”, riservando a sé la Pieve di San Donato di Amandola, “cum ipsa sua dotalitia”, e, soprattutto, “…plebem Sancti Angeli cum cellis et dotibus et cum libris et oratoria et terris eius”.58 Il documento, dunque, non lascia dubbi sull’esistenza, già a partire dall’ultimo quarto del X sec., della fondazione di Sant’Angelo in Montespino, posta sull’omonimo colle a m 863 s.l.m.(Figg. 5 a-b) e a circa 4 km a Sud di Montefortino,(Figg. 6-7) l’unica con tale intitolazione nell’ambito della diocesi fermana ma del cui primitivo impianto, tuttavia, non sopravvive, a tutt’oggi, ormai più alcuna traccia.59 Altrettanto priva, al presente, di concreti riscontri archeologici è la supposta esistenza di un originario insediamento risalente all’epoca longobarda riconosciuto da Giuseppe Crocetti60 in alcuni ruderi emersi, a detta sua, verso occidente rispetto alla successiva fabbrica romanica, in seguito alle operazioni di restauro svolte nel 1958. Tali interventi avrebbero riportato in luce “una struttura con colonne in pietra calcarea color rosa ed abside molto antica, riferibile all’VIII secolo, come parte integrante della prima chiesa eretta in epoca longobarda”. A questo proposito, l’unico documento meritevole di segnalazione, e a prima vista riferibile ad un potenziale edificio alto-medievale appartenente, almeno, al periodo carolingio, è costituito da due frammenti in pietra calcarea biancastra, presumibilmente pertinenti al medesimo manufatto, murati nella crociera della terza campata della navatella centrale della cripta: l’uno, disposto trasversalmente (lungh. m 0,59; largh. m 0,125) con funzione di chiave di volta; l’altro ortogonale al primo (lungh. m 0,31; largh. m 0,125) e inserito alla base della vela Est.61 Entrambi, in pessimo stato di conservazione, potrebbero essere appartenuti ad una originaria lastrina decorativa contenente, sembra, un motivo
astratto “ad intreccio” intercalato da riquadri lisci diffuso nei repertori ornamentali di VIII/IX sec. Le estese abrasioni rendono, tuttavia, l’identificazione piuttosto dubbia. Al di là di ciò, comunque, non è possibile, al momento, interpretare tale reimpiego come prova riconducibile con sicurezza ad una fondazione preromanica in situ: nulla, infatti, è in grado di accertare la provenienza dei due reperti, per cui non è escluso che essi possano essere ascritti anche a contesti diversi dal nostro. Quest’ultima ipotesi parrebbe, per altro,
trovare sostegno tanto nella loro unicità, quanto nelle modalità del riutilizzo entro un caotico conglomerato di pietrame e laterizi spezzati realizzato in corrispondenza di un punto nascosto, buio e pressoché invisibile della cripta che si direbbe escludere la volontà di recuperare e valorizzare quella che avrebbe potuto rappresentare una significativa memoria storica legata alle lontane origini dell’antica pieve. Non era infrequente, del resto, che all’interno dei cantieri medievali, assieme ai materiali da costruzione raccolti nei luoghi scelti come “cave” di approvvigionamento più idonee ed agevoli, confluissero anche avanzi di elementi decorativi estranei e risalenti ad epoche diverse recuperati nei siti più disparati del territorio circostante. Non dimentichiamo, a questo proposito, che stiamo parlando di una manovalanza edile abituata ad estese operazioni di stoccaggio di tutto ciò che sarebbe potuto risultare utile
31
Fig. 5 a L’altura di Montespino con la Pieve di Sant’Angelo (dalla SP 83 Subappenninica diretta a Montemonaco).
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 5 b Panoramica sulla zona circostante la Pieve (in alto a dx.). In primo piano la fraz. “Cerretana”, sullo sfondo a sx. Montefortino.
in corso d’opera. Nella impossibilità, dunque, di disporre per ora di concrete risultanze stratigrafico-architettoniche riferibili alla fase alto-medievale di vita della nostra istituzione religiosa, la datazione più antica a noi nota ci riporta ad un’epoca non anteriore alla seconda metà dell’XI sec. Tale cronologia, ancora in epoca abbastanza recente, trovava sicura certificazione grazie ad una specifica iscrizione murata, almeno fino al maggio del 1978, sul lato destro del presbiterio di fianco all’altare maggiore62 e successivamente, purtroppo, trafugata, riguardante la consacrazione dell’altare stesso celebrata dal Vescovo Udalrico in onore di Cristo, della Santa Croce (?), di San Michele e di altri santi.(Fig. 8) Il testo epigrafico63 ci riporta all’anno 1064 che può, ragionevolmente, porsi in relazione anche con l’attività del cantiere ed essere, pertanto, altresì riferibile alla costruzione della chiesa. I suoi caratteri stilistici più antichi, in effetti, risultano senz’altro compatibili con un simile orizzonte temporale, specie considerando le peculiarità tipologico-strutturali della cripta e la concezione a doppia abside opposta del corpo ecclesiale di origine germanica,(Figg. 9-10, Tav. I) ambiente al quale sembra rinviare anche l’onomastica del Vescovo fermano. La breve menzione contenuta nel citato Codice 1030 è sufficiente a farci comprendere l’esistenza, fin dalle origini, di una fondazione plebana insolitamente ricca
32
e potente, detentrice di vasti possedimenti terrieri e di beni immobili e in grado di estendere la propria giurisdizione su ben cinquantadue chiese distribuite nei territori pertinenti agli odierni Comuni di Montefortino, Montemonaco, Amandola e Comunanza. Tale privilegio venne conservato fino a tutto il sec. XIII allorché il 22 gennaio 1301, sotto il pontificato di Bonifacio VIII, in seguito all’“Instrumento di Transazione”, una convenzione di spoglio stipulata fra il Vescovo di Fermo Alberico (o Giovanni?) e il pievano Francesco (o Amerio?),64 risultano ridimensionati i tradizionali benefici ecclesiastici goduti dalla Plebs Sancti Angeli in Monte i quali, da questo momento, vengono trasferiti alla libera collazione episcopale. Malgrado ciò, comunque, e a dispetto del trascorrere dei secoli, sembra che il luogo abbia mantenuto molto a lungo un ruolo preminente in ambito regionale, se ancora nel corso della prima metà del XVIII sec., in occasione della visita pastorale svolta nel 1726 dall’Arcivescovo Card. Alessandro Borgia, la “Ecclesia Plebana Sancti Angeli in Monte Spino terrae Montisfortini” viene definita “quae habet primatum omnium ecclesiarum Firmanae Dioecesis”.65 Un ruolo così emergente, piuttosto atipico per una pievania territorialmente decentrata, dislocata in una zona interna e posta ai margini del sistema stradale primario Sud-piceno, trova spiegazione, oltre che nel suo inserimento, come si è visto, all’interno della viabilità minore
La pieve di Sant’Angelo in Montespino: le origini e il suo ruolo nel contesto appenninico sud-piceno
Fig. 6 Il paese odierno di Montefortino.
Fig. 7 Montefortino nella rappresentazione grafica del Catastino Franceschini (1771).
33
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
pedemontana e dei collegamenti intervallivi fra i bacini dell’Aso e del Tenna verso la fascia costiera medio-adriatica, proprio nel suo essere una “punta avanzata” del vescovado fermano,66 la più lontana dalla città all’interno della catena appenninica. La distanza considerevole dalla sede centrale rendeva, infatti, necessario che il pievano di Montespino godesse di ampia autonomia nella gestione di organismi e benefici ecclesiastici, conferendo, di conseguenza, una funzione di rilievo, sul piano sia religioso, sia istituzionale, anche all’intera piccola comunità locale e all’edificio che ne costituiva contemporaneamente il luogo di culto e di residenza per i canonici.67 La confraternita di religiosi, documentata da una carta avellanita fin dal 1182,68 sembra accertato che avesse dimora in una domus, ormai da tempo non più esistente, la quale, stando alle notizie riportate nel sec. XVIII dai pievani Marco Antonio Nardi (1728) e Gaetano Franceschini (1771),69 affiancava il lato Nord del corpo di fabbrica collegandosi al settore absidale Ovest dove si apriva l’originario ingresso alla chiesa:70 quest’ultimo viene concordemente illustrato anche nei tre catastini presenti in entrambi gli “Inventari” settecenteschi redatti dai due rettori della Pievania montespinese.71 (Figg. 11-13) La particolare dislocazione topografica e l’autorità acquisita in virtù del ruolo di avamposto rispetto al centro episcopale, furono fattori determinanti anche in relazione ad un delicato gioco di equilibri politici che vide spesso protagonista la pievania montespinese. L’area di sua pertinenza, infatti, confinava con i possedimenti dell’Abbazia di Farfa, attestati fino alle propaggini meridionali del territorio di Montefortino,72 il che creava, non di rado, accese frizioni con la potente fondazione benedettina su controverse questioni di competenza giurisdizionale per gestire le quali occorrevano un notevole prestigio ed un efficace potere d’azione. Non vi è dubbio, quindi, che anche l’esercizio di una funzione così importante nel quadro dei rapporti con una delle confraternite più influenti del monachesimo medievale, contribuì non poco alla lunga sopravvivenza di questo indispensabile baluardo di frontiera all’interno dell’estesa diocesi fermana. Tale ruolo sembrerebbe, in una certa misura, riflettersi anche nel suo aspetto monumentale: all’esterno austero, sobrio ed imponente come un fortilizio, pur di di-
34
mensioni contenute, quasi a voler sottolineare la propria autorevole presenza nell’ambiente circostante. Nello stesso tempo, però, impreziosito internamente dall’abbondanza di pregiati inserti antichi oggi concentrati, principalmente, nella cripta. Una architettura, dunque, intenzionata ad imporsi come testimonianza della prestigiosa eredità trasmessa dal mondo classico e della legittimazione istituzionale che da esso ne derivava. A questo riguardo, sembra che frammenti di spoglio di epoca romana, sotto forma di lastre marmoree “di varie forme”, rivestissero un tempo, almeno fino allo scorcio finale dell’Ottocento,73 anche i muri laterali interni della chiesa, prima che venissero divelti e trafugati. Questo particolare consente di intravvedere una pratica del reimpiego probabilmente finalizzata non tanto al recupero di semplice materiale edilizio, per il quale poteva essere sufficiente anche l’anonima pietra calcarea locale dei Sibillini, quanto piuttosto alla magnificazione delle parti architettonicamente e liturgicamente più significative. Risulta, infatti, indicativa la destinazione di spolia restituiti da prestigiosi monumenti del passato, sia alle pareti delle navate dove sostavano i fedeli, fra cui quella meridionale designata allo svolgimento del rito battesimale,74 sia alla cripta: sancta sanctorum delle reliquie nominate nella epigrafe di consacrazione dell’altar maggiore, luogo di raccoglimento e di preghiera per i membri della comunità religiosa, e meta, forse, di pellegrinaggio. Riguardo a quest’ultima probabile funzione, non va sottovalutato quello che possiamo considerare un “valore aggiunto” capace di potenziare la rappresentatività dell’edificio sacro nel contesto regionale trasformandolo in un polo di riferimento, tanto sul piano istituzionale, già sancito dal riconosciuto diritto di collazione su più di cinquanta fondazioni religiose del territorio, quanto come centro di devozione michelita. Esso si situava, infatti, all’interno di un ampio ed articolato sistema santuariale nel quale il culto per l’Arcangelo costituiva, fin dalle sue remote origini longobarde, un potente fattore di unità non solo religiosa, ma anche sociale per vasti ed eterogenei strati di popolazione. Stiamo parlando di un’autentica koinè culturale che dalle dorsali appenniniche centro-italiche proiettava la propria area di influenza fino al grande tempio garganico: vera summa, per
La pieve di Sant’Angelo in Montespino: le origini e il suo ruolo nel contesto appenninico sud-piceno
peculiarità architettonico-ambientali, per tipologia insediativa e connessa funzionalità dell’organismo monumentale, nonché per complessità dei rimandi simbolici, delle numerose fondazioni proliferate ad instar Gargani nell’Italia centro-meridionale a partire dall’alto Medioevo, tutte ispirate ad un archetipo ormai indelebilmente fissato nell’immaginario devozionale collettivo.75 Il ruolo di statio micaelica svolto dalla Ecclesia Plebana Sancti Angeli nel quadro della catena medio-appenninica dei Sibillini, riapre il discorso, già affrontato, sulla viabilità antica minore che doveva sicuramente collegare le diverse realtà insediative della zona. Va ribadito che la sua dislocazione montana, ai margini Sud-occidentali dell’episcopato fermano, ha costituito senz’altro un fattore di decentramento rispetto alla rete dei transiti primari, condizionandone la possibilità di innestarsi in modo diretto nel sistema stradale regionale; e ciò ne ha, conseguentemente, se non impedito, almeno in parte limitato anche un inserimento all’interno di importanti peregrinationes coincidenti con itinerari ad elevata percorrenza. In compenso, però, la prossimità, da un lato al noto diverticolo Surpicanum-Firmum staccatosi dalla Salaria Truentina, e dall’altro al probabile tracciato della via cohaerens per Asculum originatasi dalla Salaria Gallica a Sud di Urbs Salvia e tangente il vicino centro di Amandola (odierna SP 78),76 ha fatto sì che la nostra pieve si trovasse inclusa in un microreticolo di percorsi interni a vocazione pastorale, presumibilmente di antica data. Essa divenne, pertanto, un rilevante punto di snodo per le transumanze tra il fondo valle del Tenna e gli altopiani dei Sibillini77 trasformandosi anche in una meta di pellegrinaggi stagionali coincidenti con le due feste dell’Angelo (8 maggio e 29 settembre), alle quali corrispondevano, non casualmente, l’apertura dell’alpeggio e la sua chiusura, a loro volta eredi, molto probabilmente, di antiche nundinae pastorali. Il nesso che collega le periodiche migrazioni di greggi e armenti con la devozione michelita è da ricercarsi in situazioni topografico-ambientali ricorrenti, in particolar modo, nei luoghi di culto “di confine”, o, comunque, non lontani da itinerari o cammini tratturali transvallivi che consentivano i trasferimenti di bestiame dai pascoli invernali di pianura verso quelli estivi in quota, e
viceversa. Lungo la dorsale appenninica umbro-marchigiano-abruzzese, ben documentata risulta la catena di santuari intitolati a San Michele che si snodava in corrispondenza dei tragitti seguiti dalle greggi in transumanza78 in direzione Amiternum-Sulmona-Aesernia o verso il vasto comprensorio paracostiero esteso dal territorio ascolo-teramano fino alla regione marrucina (Chieti). Basti pensare, ad esempio, ai siti di Sant’Angelo di Ripe sul Salinello e di Sant’Angelo in Vulturino, sulla Montagna dei Fiori, posti ai confini fra Marca e Aprutium. Risalendo, invece, dalla parte opposta il massiccio appenninico, oltrepassata la Pieve di Montespino, incontriamo a Ovest Sant’Angelo de Monte Bove (o de Paganico), nei pressi di Casali di Ussita; verso Nord, Sant’Angelo in Prefoglio nella Valsantangelo di Pievetorina, Sant’Angelo de Tazza e, lungo l’alta valle potentina, San Michele Arcangelo di Domora (poi Sant’Eustachio) nel territorio di Sanseverino Marche. Tutti centri, in buon numero di carattere rupestre, a vocazione pastorale che, non a caso, ritroviamo seguendo anche l’altra direttrice di marcia transappenninica che conduce all’altopiano di Colfiorito: luogo per eccellenza interessato da diverse “vie delle pecore” dirette, soprattutto lungo la “Via della Spina” e la “Via Nucerina”, contemporaneamente verso Nocera Umbra, Spoleto e l’antica Consolare Flaminia. Ai margini di tali itinerari si distribuiscono nuovamente
35
Fig. 8 Lastra con dedica (trafugata) già murata nel presbiterio della Pieve di Sant’Angelo (da O.DIAMANTI, Inediti Fortinesi, Amandola 1998).
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 9 La Pieve di Sant’Angelo in Montespino, da Sud.
Fig. 10 La Pieve di Sant’Angelo in Montespino, da Sud-Ovest.
36
interessanti fondazioni micaeliche ad instar Gargani. Fra esse, sarà sufficiente ricordare la Grotta Sant’Angelo di Bagnara, sul versante occidentale del Monte Pennino; Sant’Angelo de gructis (o de cripta, attualmente denominato della “Madonna del Riparo”), in diocesi di Foligno, e spingendosi poco oltre verso Sud, in territorio di Trevi, Sant’Angelo de Lapidia.79 Da quanto si è voluto approfondire, quindi, risulta in tutta la sua evidenza, per comprendere lo sviluppo e la duratura fortuna della fondazione di Montespino, l’importanza determinante rivestita dai caratteri idro-orografici del vasto distretto plebano da essa dipendente. Ad essi si associano, poi, gli aspetti antropici della plurisecolare organizzazione viabilistico-infrastrutturale dell’entroterra Sud-piceno e la sua apertura, tanto verso la regione umbro-laziale, quanto in direzione dei grandi itinerari di collegamento con l’Italia meridionale. E ciò, a nostro giudizio, spiega altresì, come si è già anticipato, l’impegno estetico che ha contrassegnato le scelte progettuali nell’innalzamento del tempio. Esso, certamente austero e concepito come avamposto d’altura a controllo e difesa del territorio, si presenta nel contempo incastonato di pregevoli reperti antichi i quali (e ciò merita di essere ribadito) autorevolmente suggellavano il suo ruolo spirituale ed istituzionale nell’estesa giurisdizione diocesana di pertinenza. Un fenomeno, questo, che, come si vedrà fra breve, coinvolge anche altre realtà plebane sparse in aree contermini. Se fu, dunque, la fitta maglia di strade secondarie, piste e tratturi spesso di non facile identificazione che attraversavano, in età antica e alto-medievale, l’estesa regione subappenninica della Marca centro-meridionale80 il fattore che si colloca all’origine di una “geografia del sacro” caratterizzata dalla stretta interdipendenza fra le antiche rotte della transumanza e il proliferare di fondazioni michelite, fu sempre il medesimo che determinò, di conseguenza, la dislocazione di numerose “cattedrali nel deserto” sorte fra il massiccio della Sibilla e le alti Val Tenna e Val d’Aso.81 A tal proposito è opportuno, tuttavia, ricordare che la loro insorgenza lungo precisi itinerari pedemontani, individuati sulla base di una preordinata scelta topotetica, a parte le specifiche finalità religiose, legate alla devozione popolare, ed ospitaliere, rivolte a pastori e
La pieve di Sant’Angelo in Montespino: le origini e il suo ruolo nel contesto appenninico sud-piceno
Fig. 11 La Pieve di Montespino nella rappresentazione grafica del Catastino Nardi (1728).
viandanti in transito, rispondeva anche alla esigenza di dotare il territorio di una serie di richiami visivi certi i quali, nella loro funzione di baluardi confinari rispetto ai rilievi dei Sibillini, costituivano un complemento fondamentale dello spazio. Tali edifici, insomma, al di là dell’importante connotato sacrale che li trasformava in altrettante tappe all’interno dei percorsi spirituali che attraversavano la catena appenninica umbro-marchigiana, diventavano, contemporaneamente, essenziali punti di riferimento stabili nel paesaggio, confermando la correttezza della direzione seguita durante gli spostamenti. In questo modo, a dispetto degli stravolgimenti geomorfologici cui andavano spesso soggette aree geografiche prive di adeguati presidi territoriali, essi erano in grado di garantire, nel tempo, la sopravvivenza e la riconoscibilità di un tracciato. Decisamente significativa, per le problematiche che qui interessano, è la ubicazione a mezza costa di alcune prestigiose fondazioni, su cui la Pieve di Montespino
aveva, in parte, diritto di collazione.82 Esse sono, forse, interpretabili come “Eigenkirche”, o “Eigenkloster”, cioè chiese e monasteri di famiglia legati alla pastorizia e allo sfruttamento economico di vaste aree pascolative, 83 le quali in più di un caso ci hanno trasmesso autentici gioielli d’arte scultorea e pittorica, frutto di una committenza acculturata e artisticamente aggiornata. Basti pensare al caso emblematico dell’ampio territorio montemonachese: qui sorgono le già citate chiese di Santa Maria di Casalicchio, impreziosita da un importante ciclo di affreschi tardo-medievali. San Lorenzo ad tres rivos di Vallegrascia, che emerge, forse, su tutte per le sue due splendide lastre a basso rilievo, risalenti all’XI sec. e pertinenti, probabilmente, ad una originaria iconostasi, o interpretabili, secondo altri, come plutei di una recinzione presbiteriale. San Giorgio all’Isola, nella quale la pregevole scena di deesis con Apostoli e simboli evangelici dipinta nel catino absidale, costituisce un eccezionale documento di un
37
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 12 La Pieve di Montespino nella rappresentazione grafica del Catastino Franceschini 1 (1771).
pittore bizantineggiante sensibile agli indirizzi dell’arte tardo-comnena. Infine il monastero di Sant’Anastasio di Amandola, sede originaria del “Santo Volto” (ora in San Francesco): un raro esempio di crocefisso ligneo, ascrivibile al XIIIXIV sec., genuina ed originale espressione figurativa di ambiente, forse, benedettino.84 Sono tutte realizzazioni di pregevole livello artistico, e di notevole impegno finanziario, che rinviano ad una presenza monastica economicamente solida, legata allo sfruttamento di consistenti capitali armentizi che rappresentavano la risorsa primaria, e, nel contempo, ai transiti della transumanza. La ristrettezza delle risorse agricole, da sempre endemica in quest’area pedemontana, aggravata da una insufficiente produzione di foraggio, costituito in gran parte da vegetazione spontanea, hanno condotto inevitabilmente a sviluppare una vocazione pastorale fondata sull’allevamento e sulle migrazioni stagionali verso i pascoli
38
d’altura, e viceversa attraverso antichissimi itinerari di sicura origine pre-romana. Lungo il loro cammino non sorprende di incontrare edifici sacri in concomitanza di tradizionali soste delle greggi scelte sulla base di favorevoli situazioni ambientali (presenza di distese erbose e corsi d’acqua) o della prossimità a luoghi legati sia a remoti culti pagani, sia allo svolgimento di sagre dedicate al commercio del bestiame. Il rilievo di Montespino sembra rispondere adeguatamente a tali requisiti, a cominciare dal transito, ai piedi del versante occidentale all’altezza della frazione “Cerretana”, di un segmento del diverticolo stradale proveniente da Surpicanum (l’attuale SP 83 Subappenninica) che, come si è dimostrato, inseriva la nostra fondazione plebana nel sistema viario e tratturale della regione Sud-picena. Si approfondirà, inoltre, nel prossimo capitolo come non manchino assai probabili correlazioni anche con antiche sedi di culti pagani, rintracciabili tanto nell’area conter-
La pieve di Sant’Angelo in Montespino: le origini e il suo ruolo nel contesto appenninico sud-piceno
Fig. 13 La Pieve di Montespino nella rappresentazione grafica del Catastino Franceschini 2 (1772).
mine posta ad Est, lungo il torrente Vetremastro, quanto a Nord e nella immediata zona ad occidente compresa fra il Tenna e il suo affluente Ambro.85 É certo, infine, che il luogo fosse destinato, fin dalle origini, allo svolgimento di periodiche fiere, specie durante le fasi dell’anno interessate dal transito di ovini diretti ai pascoli d’altura, o di ritorno verso le pianure. Lo lascia intendere l’ampio spiazzo aperto che si estende in cima al colle attorno all’edificio sacro, soprattutto in corrispondenza dell’area Sud, adatto ad ospitare ricorrenze del genere.86 A tale proposito, disponiamo di una preziosa testimonianza, trasmessaci ancora una volta dall’Inventario del Pievano Nardi (1728), 87 dalla quale si apprende che, fra gli obblighi dei pievani stabiliti dall’arcivescovo di Fermo, c’era anche quello “…di far celebrare la Messa ne’ giorni festivi in detta chiesa antica situata nel Monte Spino, o Monte di Santangelo, in tutti li giorni festivi, per commodo degli abbitanti delle Ville circonvicine; come pure li 8 Maggio festa di S.Michelarcangelo Protettore del luogo, giorno in cui ivi si
fà la Fiera; e nel giorno dell’Ascensione, costumandosi in tal dì portarvisi processionalmente le VV Compagnie di Monte Fortino”. Il luogo era, dunque, meta di incontri e cerimonie in occasione di precise ricorrenze, alcune delle quali (festa di San Michele, 8 maggio, e dell’Ascensione, 20 maggio) di ampio richiamo per le popolazioni del territorio e coincidenti, non casualmente, con l’apertura dell’alpeggio. Esse istituivano, in tal modo, un nesso significativo fra celebrazione religiosa e mondo pastorale in cui la nundina diventava anche importante momento propiziatorio, oltre che occasione di mercato e di aggregazione sociale.
39
Note
57 SASF/ASCOF, cod. mbr. 1030. 58 SASF/ASCOF, Lib Iur, cc. 18 v. – 20 r.; ASAF, ms. III c 2, cc. 53 v. – 61 r., n. 45 (D.MAGGIORI, Privilegia ac Iura Sanctae Firmanae Ecclesiae, Fermo 1740); F.D.ALLEVI, Mainardi e Offoni. Contributo allo studio della nobiltà franco-salica nel Piceno fra l’alto e il basso medioevo, in “StMac” 6, 1972 (Le Marche nei secoli XII e XIII), pp. 135-136; CROCETTI 1978, pp. 151-155; PACINI 1991, p. 33, nota 6; p. 79; IDEM 1996, doc. n. 48, pp. 90-99, in particolare p. 93; IDEM 2002, pp. 7-8; MORETTI 2009, p. 464, nota 17. 59 L’Inv. Nardi, il più antico documento in nostro possesso che tratta nel dettaglio di Sant’Angelo in Montespino (APMO 1728, f. 2 r.-v.), si limita ad affermare che “Della edificazione di questa chiesa di S.Angelo in Monte Spino, non si ha, né si può avere memoria dell’anno preciso. Vi sono bensì documenti, che questa chiesa è di antico titolo di Pievania, et altresì di antica Dignità tra le Parrocchiali, tanto per ragione de’ Canonici, o Prebendari, che erano in essa uniti, e dipendenti dagli Pievani di quel tempo, quanto per ragione delle facoltà che essi Pievani avevano di conferire liberamente, et indipendentemente dal Vescovo pro tempore di Fermo Cinquanta Benefizi ecclesiastici, o Chiese”. Anche il successivo Inv. Franc. (APMO 1771, f. 3 r.) dichiara che “della edificazione di detta Chiesa non si ha precisa memoria”. Nessuna notizia di rilievo, infine, è contenuta nel più tardo Inventario del Pievano Pacifico Papiri, dell’anno 1842, che si limita a ritrascrivere quanto già esposto nelle due precedenti redazioni settecentesche. 60 CROCETTI 1988, p. 28. 61 Un accenno alla loro presenza si trova in MORETTI 2009, p. 471. 62 Inv. Nardi, ff. 3, 5; SERRA 1929, pp. 61-63. 63 La trascrizione proposta da PACINI 1991, p. 79, nota 81, è la seguente: HOC ALTARE C(on)SECRAVIT O(U)DALRICUS EP(iscopus) IN HONORE D(omi)NI N(ost)RI IHU[Iesu] XPI[Christi] ET (Sanctae) [crucis] ET S(ancti) MICHAHELIS ET S(ancti) PANCRATII MAR(tiris) ET S(ancti) G(eor)G(ii) MAR(tiris) ET S(ancti) SAVINI M(a) R(tiris) ET IULIANI MAR(tiris) ET O(mn)IU(m) S(an)C(t)OR(um) XVII K(alendas) APRILIS ANNO AB INCARNATIONE D(omi)NI MILL(esimo) LXIIII EPISCOPATU(s) SUI VII FELICITER. AMEN. Si vedano al riguardo Inv. Nardi, ff. 2 v.-3 r., 5 r.; CATALANI 1783, pp. 121-122; R.DE MINICIS, Le iscrizioni fermane antiche e moderne, Fermo 1857, p. 297, n. 1077; CROCETTI 1978, p. 132; PIVA 2003, pp. 66-67; MORETTI 2009, p. 465; PIVA 2012, p. 202. 64 Sul testo della transazione e sulle problematiche relative alla identificazione del Vescovo fermano e del Pievano di Montespino si vedano ASAF, A I B, 1, Collationes, cc. 1 r.-2 v.; Inv. Nardi, f.
40
2 v.; Inv. Franc., f. 3 r.-v.; CATALANI 1783, p. 194; LEOPARDI 1783, p. 79 ss. Riguardo alle chiese sulle quali la Pievania di Sant’Angelo esercitava il diritto di collazione cfr. Inv. Nardi, ff. 26 r.-27 r.; PIERUCCI-POLVERARI 1977, p. 199, n. 298; PACINI 1991, pp. 81-82, nota 187. 65 LEOPARDI 1783, pp. 78-79. 66 PACINI 1991, pp. 80-81. 67 PACINI 2002, pp. 7-8. 68 PIERUCCI-POLVERARI 1977, cit. alla nota 64. 69 Inv. Franc., f. 12 r.: “Delle fabriche antiche una volta abbitate dal Pievano e Canonici o Prebendari, che ivi risiedevano, ve n’è al presente rimasta in piedi qualche porzione contigua alla medesima Chiesa dalla parte di tramontana, che denota un Braccio di Cammere, le quali pur si discerne, che aveano la communicazione coll’altro Braccio, che in giro siegue verso l’occaso sopra la Porta Maggiore, e discende poi in Chiesa verso la Porta Meridionale”. Il Franceschini riprende quanto, precedentemente, il Nardi aveva già riferito con qualche particolare in più, descrivendo (Inv. Nardi, f. 2 r.) “…all’intorno [della chiesa] un sito alquanto spazioso ad uso di circonvallazione, coll’esistenza in più parti di alcune Mura fondamentali, con qualche rimasuglio di pietre infrantumate, e di calce, ricoperte da terra, et erba che denotano esservi state anticamente fabbriche di abbitazione…ve n’è qualche porzione al presente in piedi contigua… [da qui in avanti i due Inventari proseguono con identico testo, già sopra trascritto]”. Si vedano anche, in proposito, le informazioni più generiche riportate in LEOPARDI 1783, p. 96, il quale, sostenendo che la fondazione fu abbazia monastica benedettina fino ai tempi di Bonifacio VIII, riferisce che monaci e Abate vivevano nella “…fabbrica contigua al monastero, oggi affatto diruta, benché in vari siti intorno ad essa chiesa se ne vegghino gli avanzi de’ fondamenti”. 70 Sull’originario ingresso dell’edificio, l’Inv. Nardi (f. 4 v.) riferisce che “Detto Tempio ha dalla parte dell’occaso la sua Porta Maggiore per la quale si entra in un picciolo atrio, overo vestibolo…”. Sull’argomento si vedano le osservazioni assai discutibili di MORETTI 2009, pp. 470-471. 71 Inv. Nardi, f. 16 r.; Inv. Franc., f. 11 v.; ASAF, Fondo Curia Arcivescovile, S. “Inventari”, b. 10 Montefortino, f. A 4: Gaetano Pievano Franceschini, Inventario della Pievania di Sant’Angelo in Montespino, 14 gennaio 1772, c. 13 v. 72 PACINI 1991, p. 80. 73 FERRANTI 1891, p. 10. 74 Tale funzione trova conferma, sia nella presenza, nell’absidiola Sud, di un bacino lapideo tuttora incluso nella struttura
Note
muraria e destinato a conca battesimale; sia nella serie di gradini che dall’ultimo arcone presbiteriale aperto sulla navata laterale scendono proprio davanti allo spazio contenente il suddetto bacino; sia, ancora, nella presenza dell’ingresso lungo il fianco meridionale della chiesa il quale, probabilmente, consentiva l’accesso autonomo e diretto al luogo riservato al rito purificatorio per aspersione. Cfr. MORETTI 2009, pp. 466, 469. 75 G.OTRANTO, Genesi, caratteri e diffusione del culto micaelico del Gargano, in P.BOUET-G.OTRANTO-A.VAUCHEZ (a cura di), Culte et pèlerinages à saint Michel en Occident. Les trois monts dédiés à l’Archange (Actes du Colloque international, Cerisy-la-Salle 27-30 septembre 2000), Roma 2003, pp. 12-37 ; SENSI 2007, pp. 241-278, in particolare pp. 245-261 ; MORETTI 2009, pp. 459-462. Sulla diffusione del culto micaelico in ambito medio-adriatico e sulle fondazioni sorte lungo la dorsale appenninica umbro-marchigiano-abruzzese, si veda, ultimamente, RAININI 2011, pp. 251-276, in particolare pp. 272-276. 76 MOSCATELLI 1984, pp. 48, 69, Fig. 22; RAININI 2007, p. 81. 77 J.C.MAIRE-VIGUEUR, La transumanza del bestiame tra l’Umbria e il Patrimonio alla fine del Medio Evo, in Orientamenti di una regione attraverso i secoli, in “ASU” X, Gubbio 1976 (Gubbio-Perugia 1978), pp. 131-137; R.GARBUGLIA, La transumanza umbro-marchigiana nei secoli XV e XVI, Ibidem, pp. 139-147; O. GOBBI, Pastorizie e allevamento negli atti quattrocenteschi dell’Archivio notarile di Amandola, in “QdASAF” III 1988, n. 5, pp. 69-77. 78 Sulle problematiche inerenti pievi e santuari micaelici “di confine” e la loro stretta relazione con i percorsi della transumanza, si vedano QUILICI 1987, pp. 143-164; M.SENSI, Pellegrini dell’arcangelo Michele e santuari garganici “ad instar” lungo la dorsale appenninica umbro-marchigiana, in “Compostella” 27, 2000, pp. 19-50; IDEM 2007, pp. 250-261; RAININI 2011, pp. 272-276. 79 MANCA-MENICHELLI 2014, pp. 66-67; cfr. anche infra, Sez. III, Cap. VIII. 80 Cfr. al riguardo V.GALIÉ, Insediamenti e strade romano-medievali tra il Potenza e il Chienti e lungo il litorale, in “StMac” 16, 1982 (La fascia costiera della Marca), pp. 41-120; R.PACIARONI, La viabilità nell’alta valle del Potenza in epoca romana e medievale, San Severino 1982, passim ; L.QUILICI, La rete stradale del Ducato di Spoleto nell’Alto Medioevo, in Ducato di Spoleto, pp. 399-420; TROSCÉ 1987, pp. 444-448. 81 Cfr. supra, nota 12. 82 Cfr. supra, nota 64. 83 Su tale tematica si vedano W.KURZE, Monasteri e nobiltà nella Tuscia altomedievale, in Lucca e la Tuscia nell’Alto Medioevo
(Atti “CISAM” V, Lucca 3-7- ottobre 1971), Spoleto 1973, pp. 547574; E.ARCHETTI GIAMPAOLINI, Aristocrazia e chiese nella Marca del centro-nord tra IX e XI secolo, (“SFLM” 38, Studi 4), Roma 1987, passim; SENSI 1994, p. 196. 84 Sul ciclo di Santa Maria di Casalicchio: ZAMPETTI 1988, p. 130, Figg. 44-46. Sulle lastre di San Lorenzo di Vallegrascia si vedano M.SENSI, Due lastre istoriate a Montemonaco firmate dai maestri scultori Guitonio e Atto (1039-1050 ca.), in “RIASA” S. III, VI-VII 1983-1984, pp. 221-236; più recentemente IDEM 1994, pp. 202-207; PIVA 2003, p. 34; F.CORTELLA, Un arredo sacro da sempre trascurato. Le lastre scolpite di San Lorenzo in Vallegrascia, in P.F.PISTILLI-F.GANGEMI (a cura di), Il Piceno prima di Fiastra. Topografia, Architettura ed Arte (Giornate di studi sul territorio piceno nell’età di mezzo, Poggio San Costanzo (Macerata) 14-15 maggio 2010), c.s.; PIVA 2012, p. 22. Per la deesis di San Giorgio all’Isola: ZAMPETTI 1988, pp. 58-59, Figg. 5-8; SENSI 1994, pp. 213, 215; C.DOLENTE, La decorazione pittorica medievale della chiesa di S.Giorgio all’Isola presso Montemonaco (AP), in “SMM” 2, 1999, pp. 249-285; A.MARCHI, Considerazioni su alcune pitture medievali del territorio dei Sibillini, in AVARUCCI 2002, pp. 355357; PIVA 2003, p. 36, Fig. XLIII. Sul crocefisso ligneo di Sant’Anastasio in Amandola: F.PERTUSI PUCCI, I crocefissi tunicati di Force e di Amandola nell’Ascolano, in “RIASA” S. III, VIII-IX 19851986, pp. 365-398; SENSI 1994, pp. 215-218. Un fenomeno singolarmente analogo è riscontrabile lungo la Valnerina, ai margini di un tracciato viario che univa Norcia al Tevere: L.PANI ERMINI, Gli insediamenti monastici nel ducato di Spoleto fino al secolo IX, in Ducato di Spoleto, pp. 541-577. 85 Cfr. infra, Cap. III e. 86 J.E.SKYDSGAARD, Transhumance in Ancient Italy, in “ARID” 7, 1974, pp. 7-36; E.GABBA, Mercati e Fiere nell’Italia romana, in “SCO” XXIV 1975, pp. 141-163; QUILICI 1987, pp. 148-150. 87 Inv. Nardi, f. 3 r.
41
Capitolo 3 La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
A . Introduzione L’ipogeo della Pieve di Montespino rientra nella categoria delle “cripte ad oratorio” appartenenti ad una tipologia che si afferma, e inizia la propria diffusione, a partire dall’XI sec. avanzato dando vita ad una delle espressioni più tipiche ed appariscenti dell’architettura sacra “riformata” del territorio marchigiano. La sua eccezionalità, considerando le caratteristiche planimetriche del modello generalmente adottato nel contesto regionale, consiste nella particolare collocazione che, nel nostro caso, corrisponde solo alla navata centrale della chiesa allo scopo di sopraelevare unicamente il corpo mediano del presbiterio, funzionale ad un coro di canonici. Tale aspetto sembra richiamare prototipi nordici di area lombardo-veneta: San Pietro al Monte di Civate (LC), San Vincenzo a Galliano, presso Cantù (CO), San Carpoforo a Como, San Giorgio di Valpolicella (VR),88 dipendenti, a loro volta, da icnografie elaborate nel mondo germanico (Abbaziale di San Michele di Hildesheim (Sassonia), 1010-1022) al quale rinvia la figura del Vescovo “imperiale” Udalrico (1057-1074), di probabile origine tedesca e artefice della citata consacrazione del 1064.89 Ce lo confermano, tanto la tipologia ecclesiale ad absidi opposte, con originario ingresso principale ricavato in quella occidentale,(Tav. I) quanto la soluzione, applicata nella cripta, delle volte a crociera costruite su sottarchi di forma falcata e su archi “formerets” incastrati nelle pareti perimetrali su piedritti a semicolonna.(Figg. 14-15) Soprattutto queste ultime peculiarità strutturali orientano verso una datazione compresa fra la fine dell’XI e l’inizio del XII sec.: inquadramento già proposto con convincenti argomentazioni da Alvise Cherubini, Hildegard Sahler e Paolo Piva90 e solidale, dunque, con l’arco temporale al quale la storiografia specialistica più recente fa risalire l’attività di cantiere dell’intero complesso edilizio. Tale orizzonte cronologico inserisce, pertanto, la sua edificazione nel quadro di una probabile committenza germanica, già impegnata, in questo periodo, in una operazione di potenziamento dell’episcopato fermano attraverso significativi interventi sia nella cattedrale della città, sia nell’innalzamento della fondazione plebana più settentrionale della sua diocesi, quella di San Claudio al Chienti, ai quali si affianca, ora, il program-
ma di monumentalizzazione della pieve canonicale di maggior rilievo nell’area della sua espansione a Sud. Il nuovo tempio micaelico viene, infatti, dotato, come si è detto in precedenza, di funzioni battesimali, ma, soprattutto, se ne valorizza l’impatto architettonico nel contesto territoriale trasformandolo, nel contempo, in meta di pellegrinaggio. Il progetto viene affidato alla creazione di uno spazio sotterraneo, commisurato ai moderati e periodici flussi di devoti, ma sacralizzato da venerate reliquie e carico di suggestione nelle forme e nei colori. Particolare attenzione viene, infatti, rivolta all’utilizzo di preziosi materiali di spoglio, appositamente selezionati e distribuiti, come si vedrà più avanti, solo in apparenza in modo caotico e casuale ma, in realtà, seguendo un percorso ideologico attentamente ponderato in relazione a finalità simboliche precise e ad una rigorosa semantica applicata al riuso dell’antico.91 L’ambiente, planimetricamente contenuto entro i limiti della soprastante area presbiteriale,(Tav. II) si sviluppa per una lunghezza complessiva di m 10,09, mentre la larghezza raggiunge una estensione massima di m 5,51. Ad esso si accede attraversando due distinti ingressi simmetrici,(Tav. III, sez. A-A’, B-B’, Fig. 19) entrambi sormontati da archetti a tutto sesto a doppia ghiera: quello aperto a Nord, con una luce di m 0,91 e quello a Sud di m 1,05, dai quali scendono due scalette costituite, ciascuna, da tre ampi gradini irregolari (a Nord, primo gradino: m 1,60 x 0,74; secondo gradino: m 1,60 x 0,32; terzo gradino: m
43
Tav. I Pieve di Sant’Angelo in Montespino: planimetria generale (da PIVA, 2012).
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 14 Cripta: inquadratura da Sud-Ovest.
1,60 x 0,31. A Sud, primo gradino: m 1,50 x 0, 55; secondo gradino: m 1,50 x 0,30; terzo gradino: m 1,50 x 0,30) i quali giungono all’imbocco del vano con un ingombro, rispettivamente, a Nord di m 1,37 e a Sud di m 1,15. Tutti risultano realizzati con antichi pezzi lapidei di reimpiego, costituiti da grosse lastre monolitiche in pietra calcarea salvo nella scala Sud, dove incontriamo materiali anche più pregiati: marmo bianco (terzo gradino) e rosso (gradino esterno all’arco d’ingresso). Soltanto il gradino superiore della scala settentrionale ci è giunto in condizioni più precarie, mostrando i segni di un assemblaggio
44
posticcio e piuttosto impreciso di frammenti di varie dimensioni disposti lungo il perimetro che risparmiano gran parte della superficie mediana, lasciata in semplice terra battuta mista a pietrisco. Lo spazio si presenta ripartito in tre navatelle, separate da due file di quattro colonne ciascuna. Queste ultime sono intervallate da distanze irregolari: lungo quella Nord, procedendo dalla parete d’ingresso in direzione dell’abside, si registrano intercolumni di m 1,57; 1,65; 1,62; 1,75. Lungo la fila Sud, di m 1,63; 1,69; 1,73; 1,83. Tali anomalie, imputabili in parte alle differenze, a volte
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
marcate, dei diametri delle singole colonne, si ritrovano con analoghe accentuazioni anche in senso trasversale: la navata settentrionale, mediamente ampia m 1,50, si contrae, infatti, di circa m 0,12 rispetto a quella meridionale, dove la media si attesta invece su m 1,62. Contraddistinta da una maggiore regolarità dimensionale, al contrario, si presenta la navata centrale, larga poco più di un metro e mezzo (m 1,52), tranne che nella parte terminale a Est dove la mole particolarmente consistente delle due ultime colonne (n. 7-8) riduce lo spazio a m 1,38. Rilevanti discontinuità interessano anche gli intercolumni che separano le semicolonne perimetrali(Figg. 16-19) le quali, in numero di quattordici, si distribuiscono lungo i quattro muri fungendo da piedritti di scarico del sistema di archi longitudinali e traversi che costituisce l’ossatura delle crociere di copertura. La estrema variabilità delle distanze, che vanno da un minimo di m 1,41 nel tratto Nord della parete occidentale, ad un massimo di m 1,88 all’estremità Est di quella settentrionale, complici anche le frequenti oscillazioni nelle ampiezze dei diametri, è responsabile della conseguente perdita di assialità rispetto alle colonne di separazione fra le navate, il che comporta difformità dimensionali, in qualche caso anche vistose, nell’ampiezza delle dodici campate. Altrettanto disomogenee risultano le loro altezze, dal momento che i piani di imposta dei piedritti da cui si staccano le crociere si collocano a quote differenti, come risultato del diverso sviluppo degli otto sostegni centrali. Riguardo a questi ultimi, si registrano, infatti, altezze minime (comprensive di basi e capitelli) di m 1,72 (colonna 2) fino ad un massimo di m 1,965 (colonna 3), con valori intermedi di m 1,835 (colonna 7); m 1,84 (colonna 5); m 1,855 (colonna 8); m 1,87 (colonna 1); m 1,90 (colonne 4 e 6). Nelle campate si passa, invece, da una quota minima di m 2,89 (prima Sud-Ovest), ad una massima di m 3,02 (terza e quarta Nord-Est), con variazioni che, procedendo lungo l’asse longitudinale scandito da continui scarti centimetrici, determinano una media pari a m 2,952. Soffermandosi, poi, sulle dimensioni dei fusti, e tralasciando, per il momento, l’ampia gamma dei materiali litici che li caratterizzano, a cui sarà dedicato, più avanti,
Fig. 15 a Cripta: inquadratura da Ovest.
Fig. 15 b Cripta: inquadratura da Est.
45
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
uno studio specifico, ciò che colpisce sono, ancora una volta, le accentuate discordanze dei diametri. Partendo dalla colonna 1, la più piccola, che si limita ad una misura di soli 23 cm (m 0,229), si giunge alla colonna 8 dove si tocca quasi il mezzo metro di ampiezza (m 0,477), al pari della eterogeneità volumetrica dei capitelli e delle basi di appoggio, queste ultime presenti con differenti articolazioni solo saltuariamente. La mancata corrispondenza fra gli elementi strutturali portanti che contraddistingue l’ideazione progettuale dell’intero vano, dà, pertanto, origine ad un ambiente previsto per essere colto dal fedele attraverso un impatto visivo d’insieme, dove era la suggestione trasmessa da luce, forme e colori, e non la percezione di uno spazio isotropo governato da precise ed armoniche corrispondenze euritmiche e geometriche, l’effetto che si intendeva raggiungere. Sotto questo aspetto, principalmente, la cripta di Montespino si configura, dunque, come un autentico spaccato di renovatio ideologica dell’Antico; quasi una imago mundi che, sull’onda dei nuovi indirizzi elaborati dalla Chiesa riformata in tema di palingenesi spirituale del genere umano e di fruizione degli spazi consacrati, conduce ad un progressivo allontanamento dai fondamenti estetici della tradizione architettonica classica a favore di un diverso accostamento al mondo antico, motivato, ora, da precise istanze mistico-simboliche. É a queste ultime che si affida il compito di instaurare un nuovo rapporto tra uomo e Dio, alimentato anche da un rinnovato atteggiamento nei confronti dei tramontati splendori della civiltà romana. Ad essa si contrappongono certamente i valori del messaggio cristiano, ma sempre da essa si recepisce, contemporaneamente, anche il senso profondo della storia intesa come veicolo in grado di trasferire nel presente il prestigio di un passato evocativo dei primordi della cristianità e ricco di bellezza e di insegnamenti che sono all’origine della fede e del pensiero moderno.
B . Le procedure investigative e documentarie informatizzate applicate alle analisi condotte nella cripta della pieve di montespino Entriamo, dunque, ora all’interno dell’ipogeo dove è stato necessario condurre un’analisi attenta e dettagliata di ogni singolo elemento, avvalendoci dei più moderni ed aggiornati strumenti investigativi che la tecnologia è in grado, oggi, di mettere a disposizione della ricerca archeologica. I risultati raggiunti si sono rivelati di estrema importanza, anche in virtù delle metodologie innovative applicate, fornendoci una ricca e inedita messe di dati utili per comprendere l’iter progettuale e le diverse fasi esecutive che hanno indirizzato le maestranze pievane nella messa a punto di soluzioni estetiche e di rimandi simbolici di grande effetto e di inaspettata elaborazione intellettuale. Al fine di impostare nel modo più rigoroso un percorso investigativo rivolto allo studio degli aspetti strutturali e stilistici che caratterizzano una delle sintesi più originali ed affascinanti fra antichità classica e medioevo cristiano dell’intera regione marchigiana, si è puntato molto sulla qualità della documentazione grafica e fotogrammetrica ritenuta il mezzo scientifico più idoneo ed efficace per conseguire risultati finali concreti. In quest’ottica, si è, dunque, fatto ricorso alla collaborazione di una fra le più qualificate “équipe” di operatori92 altamente specializzati nel settore informatico, specificatamente dedicato alla elaborazione dei dati ortofotografici e assonometrici raccolti sul posto. Le metodologie applicate rientrano in una sperimentazione all’avanguardia che va ben oltre i sistemi di “renderizzazione” attualmente in uso. Pertanto, oltre a pubblicarne gli esiti finali, apprezzabili attraverso tavole e immagini inserite nel testo, si è deciso di illustrarne anche le procedure esecutive tramite una breve relazione tecnica contenente i passaggi fondamentali seguiti nel corso delle diverse fasi di lavoro. Le ortofoto e le assonometrie ad alta risoluzione fotografica presentate in questa sede sono state effettuate utilizzando i più moderni processi di acquisizione digitale sviluppati nel campo della fotogrammetria terrestre.93 In sostanza il sistema, elaborando tramite uno speci-
46
A
B’
A
B’
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
Tav. II Cripta: planimetria generale (scala 1:250).
C I
L
8
7
G
6
5
N
F
4
3
O
E
2
1
P
C
H
C
D
B
M R
Q
S
T
A
C’ C’
B
A’
B
A’
A
A m 1 dal pavimento della chiesa
Tav. III Cripta: sezioni longitudinali e sezione trasversale (scala 1:250).
A’
A’
piano pavimentale della chiesa
piano di campagna piano pavimentale della cripta B
B’
B
B’
m 1 dal pavimento della chiesa piano pavimentale della chiesa
piano di campagna piano pavimentale della cripta
C
C’ absidiola navata Sud
C gradini di collegamento
m 2 dal pavimento della chiesa
C’
piano pavimentale del presbiterio piano di campagna 0
5
0
10
5
piano pavimentale della cripta
10
15
piano pavimentale della chiesa
15
piano di campagna 20 m
20 m
47
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 16 Ortofotomosaico digitale delle semicolonne lungo la parete Nord. Fig. 17 Parete Sud.
Fig. 18 Parete Est (abside). Fig. 19 Parete Ovest (ingressi).
48
fico algoritmo una sequenza di immagini fotografiche geometricamente corrette e misurabili, ha permesso di produrre una “nuvola di punti” analoga a quella generata da un normale “laser scanner”. La differenza fra le due procedure risulta dalla qualità finale del rilievo che, in questo modo, da immagini fotografiche ad alta risoluzione ha permesso di restituire inalterato il cromatismo delle architetture rappresentate. Il percorso di elaborazione è consistito nella ripresa fotografica digitale di dettaglio degli alzati murari, delle colonne della cripta e della navata Sud della Pieve e nella successiva creazione di un modello 3D dell’intero contesto, scalato e georiferito in base alle misurazioni effettuate attraverso una “Stazione Totale”. “Step” successivo è stata la realizzazione degli ortofotomosaici, generati automaticamente dal “software” attraverso il raddrizzamento di riprese fotografiche selezionate e la fusione dei dati in “files” di immagine unici. Quindi, dopo una verifica dell’affidabilità geometrica del prodotto, si è lavorato sulla qualità e la pulizia delle immagini ottenute, nonché sulla modellazione grafica di queste utilizzando le assonometrie generate con precisione dal modello tridimensionale informatizzato. Le riprese fotografiche sul posto sono state eseguite, dopo aver posizionato alcuni punti di riferimento (mire) sulle superfici interessate, in numero proporzionale all’ampiezza. Sono stati realizzati circa 1100 scatti (976 nella cripta e 112 nella navata Sud), ad alta definizione e ad una distanza dal soggetto di circa 2 m. La camera utilizzata è una Canon EOS 600 D con risoluzione da 18 megapixels, corredata di obiettivo Canon EF da 20 mm calibrato direttamente dalla ditta “Menci Software”, collegata ad un “tablet” con installato il programma “U-Chek” che permette la giusta inquadratura per la sovrapposizione delle immagini. Contemporaneamente, si è effettuato il rilievo topografico con “Stazione Totale” finalizzato alla contestualizzazione delle mire rispetto alla planimetria generale dell’edificio. Le riprese sono state realizzate con una sovrapposizione di almeno il 50% tra fotogrammi contigui, per garantire l’analisi stereoscopica delle immagini da parte del programma. Tali immagini, suddivise in sessioni fotografiche per soggetto (ad es.: parete Nord, colonna 1 , ecc.), sono state successivamente elaborate con il programma “U-Map”
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
che, confrontando i punti di sovrapposizione e i dati metrici di coppie stereoscopiche successive, ha generato automaticamente un modello tridimensionale a “nuvola di punti”, proporzionato ma non ancora scalato su base metrica. Quest’ultimo passaggio è stato effettuato direttamente dall’operatore attraverso la collimazione dei punti di mira presenti sugli scatti con i corrispettivi punti di coordinate note rilevati con la “Stazione Totale”. In un secondo momento, il “software”, con un procedimento automatico, ha rielaborato le fotografie sulla “nuvola di punti” infittendo sensibilmente la rete di punti tridimensionali di base e aggiungendo il dato cromatico che ha consentito la creazione finale di un modello tridimensionale metrico renderizzato, fruibile in ambiente virtuale. Tale processo è stato ripetuto per ogni singola sessione, e l’unione dei vari “files” a “nuvola di punti” renderizzati ha generato il modello tridimensionale complessivo, sul quale si è basata la successiva elaborazione degli ortofotomosaici e delle assonometrie. Importato il modello 3D nel programma “Z-Map”, si è selezionato per ogni sessione il numero minimo di scatti necessario a coprire la superficie rilevata; le immagini, quindi, sono state automaticamente trasformate allo scopo di ottenere il raddrizzamento prospettico basato sul modello tridimensionale. Sono stati, infine, generati gli ortofotomosaici bidimensionali ad alta risoluzione dei diversi elementi rilevati, già del tutto fruibili come rilievi prospettici fotografici in scala. Per l’elaborazione delle assonometrie, si è proceduto alla selezione delle viste ottimali dell’intero contesto, generate come “snapshots” ottenuti orbitando in ambiente virtuale il modello 3D. Sulla base metrica e prospettica di queste, si è giunti alla ricostruzione degli elaborati finali, modellandovi sopra, con adattamenti grafici, i fotomosaici ad alta risoluzione.
Fig. 20 Colonna 1.
Tale procedimento può considerarsi l’esito di una sperimentazione avanzata di fotorilievo tridimensionale all’avanguardia e di ottimizzazione grafica tradizionale, necessaria, quest’ultima, per mantenere la risoluzione di qualità fotografica che le metodologie automatizzate di renderizzazione dei modelli tridimensionali ancora non riescono ad offrire.
49
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
C . Analisi dei materiali di epoca romana
Fig. 21 Base della colonna 1.
Colonna 1.(Fig. 20) Fusto: h. m 1,11; Ø m 0,229. Marmo rosso Ammonitico. Base: h. m 0,34; Ø fusto m 0,369, alla modanatura torica m 0,417. Marmo rosso venato di Chios. Capitello: h. m 0,42; Ø m 0,366. Marmo Lunense.
Fig. 22 Capitello della colonna 1.
Il fusto, liscio e molto ben conservato, è concluso in alto da un basso collarino, composto da una coppia di tori schiacciati (il superiore spesso m 0,025 e l’inferiore m 0,01) separati da una stretta gola, dove si notano evidenti i segni dei danni provocati al momento dell’asportazione del pezzo dal contesto originario. L’esemplare insiste su un’alta base in marmo greco di Chiota(Fig. 21) costituita da un frammento di imoscapo, di diametro maggiore, collocato in posizione rovesciata in modo da trasformarne l’espansione dello spesso toro conclusivo (m 0,04) in un piano di sostegno per il fusto. Identica qualità di marmo caratterizza anche un frammento erratico (h. m 0,29; Ø m 0,343),(Fig. 78) gravemente danneggiato e oggi depositato a terra presso la parete Ovest, il quale potrebbe aver fatto parte, assieme al precedente, della medesima colonna di spoglio. Al di sopra si appoggia un capitello corinzio,(Fig. 22) non pertinente, gravemente danneggiato lungo l’intera metà superiore del kalathos dove gli elementi naturalistici, al pari della struttura dell’abaco, risultano quasi completamente distrutti da pesanti interventi di scalpellatura che ne hanno parzialmente risparmiato una porzione solo sul lato Sud. Qui, si scorge una duplice corona di acanto molle, articolato in foglie dalle estremità tondeggianti percorse da sottili e profonde nervature parallele. Ad esse si accompagnano radi occhi d’ombra “a goccia” poco profonda, formati dalla sovrapposizione di fogliette vicine, sistemati simmetricamente e appena inclinati in corrispondenza dell’aggetto del fogliame. Dalla seconda corona spunta, in posizione leggermente obliqua, un caulicolo scanalato, concluso da uno stretto collarino, dal quale sembrano fuoriuscire vaghi residui di un calice e di elici a volute il cui contorno, tuttavia, svanisce perdendosi in confusi andamenti irrimediabilmente compromessi dai vistosi danni inferti all’intero apparato ornamentale.
50
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
La circoscritta presenza, infine, di vaghe e sbiadite tracce di aloni color ruggine, sembra maggiormente imputabile ad alterazioni superficiali piuttosto che a resti di sovraddipintura. Si comprende, dunque, come la difficoltà di ricostruire la tettonica degli elementi decorativo-strutturali e la configurazione complessiva del repertorio naturalistico renda problematica e incerta una precisa classificazione stilistico-tipologica del nostro esemplare. Ciò che rimane dei motivi fitomorfi e delle superstiti tracce di infiorescenze lascia, comunque, intuire una certa animazione compositiva. Altrettanto legittima è la ricostruzione di un profilo del capitello piuttosto slanciato, suggerito dalla distribuzione dei registri inferiori nei quali la seconda corona di foglie acantacee non risulta oltrepassare la metà dell’altezza del kalathos, destinando, in tal modo, una maggiore ampiezza allo spazio riservato al dispiegarsi di volute ed elici. Tali aspetti, ancorché da accogliersi con la necessaria cautela, parrebbero sottintendere un’influenza esercitata da “cartoni urbani” individuabili, in modo particolare, nei modelli elaborati per il tempio di Marte Ultore nel Foro di Augusto e per la “Maison Carrée” di Nîmes.94 A questi ultimi prototipi, soprattutto, rinviano il morbido trattamento dei cespi d’acanto, dalle foglie carnose e sottoposte a controllati interventi di intaglio che smorzano l’accentuazione chiaroscurale, e, stando a quanto è possibile ancora distinguere nella zona superiore quasi a ridosso dello stacco dell’abaco, l’ispessimento a listello del profilo delle elici. L’orizzonte cronologico di riferimento, dunque, potrebbe individuarsi nel periodo augusteo, ma una esecuzione apparentemente corsiva dei dettagli, cui si accompagna un uso del trapano poco insistito che penalizza il risalto plastico d’insieme, sembra orientarci, invece, verso una corrente artistica provinciale collocabile in un’epoca un po’ più avanzata del I sec. d.C., verosimilmente di età giulio-claudia. Considerando, in conclusione, le varietà morfologiche e cromatiche dei frammenti di spoglio costituiti da materiali antichi di così diversa natura ed estrazione, la colonna 1 può considerarsi l’originale risultato di un caleidoscopico assemblaggio che nella libera e fantasiosa associazione di rossi di diversa tessitura ed intensità
Fig. 23 a Colonna 2.
cromatica, accostati al candore cristallino del bianco, rappresenta la suggestiva premessa di un percorso visivo destinato ad accompagnare il fedele nel suo transito attraverso la spazio consacrato. Colonna 2.(Figg. 23 a-b) Fusto: h. m 0,98; Ø m 0,296. Biomicrite appenninica grigio chiaro tendente al beige-avorio (segmento tortile); calcare compatto nocciola (sommoscapo). Base: h. m 0,42; Ø fusto m 0,369, alla modanatura torica m 0,417. Pietra calcarea appenninica color bianco sporco. Capitello: h. m 0,398; Ø m 0,402. Marmo Pentelico.
51
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 23 b Particolare delle scanalature tortili del fusto. Fig. 24 Chiesa, navata destra: semicolonna T.
Il fusto si presenta suddiviso in due parti: la principale, quella inferiore, è costituita da un segmento di colonnina (h. m 0,83), invaso sulla faccia Est da un esteso annerimento dovuto a formazioni algo-lichenose, con ventiquattro scanalature tortili a dorso piatto(Fig. 23 b) 95 larghe m 0,012 e profonde m 0,005. Il frammento risulta all'apparenza del tutto simile, anche per quanto riguarda la qualità del calcare biomicritico, a quello inserito nella semicolonna T della navata destra della chiesa.(Fig. 24) Tuttavia, l'impressione che essi appartenessero anticamente al medesimo fusto viene smentita, in primo luogo dall'opposto andamento delle scanalature; secondariamente dalla diversità dei rispettivi diametri (m 0,296/m 0,268), e infine dalla presenza del piedestallo alla base della semicolonna T che ne rende incompatibile, data la sua misura inferiore di 30 cm, una originaria collocazione al di sotto della colonna 2. La seconda parte, aggiunta come porzione terminale fino all’attacco con il capitello, si compone di due semicilindri accostati alti m 0,15. Come nella colonna 1, anche in questo caso il fusto insiste su un’alta base(Fig. 25) ottenuta ribaltando l’imoscapo di una colonna liscia, la cui larga modanatura torica piatta (spess. m 0,06) ed estroflessa di circa 5 cm, funge da piano d’appoggio dell’intero sostegno. Il sovrastante capitello,96 di tipo corinzio,(Fig. 26) è diviso in due: la zona inferiore, alta mediamente circa 8 cm (m 0,0815), e la superiore, di m 0,317, sono riunite tramite una sutura cementata con andamento leggermente obliquo e irregolare che compromette la precisione delle connessioni fra i motivi decorativi vegetali i quali, in alcuni
52
punti, risultano vistosamente sfalsati e incongruenti fra loro. Tale anomalia non esclude l’ipotesi che le due metà potessero, in origine, appartenere a due parti distinte e non contigue dello stesso capitello, se non, addirittura, a due esemplari diversi, ma di identica qualità marmorea, assemblati arbitrariamente allo scopo di aumentare l’altezza del kalathos e di pareggiare, così, il piano di imposta del piedritto di volta rispetto a quelli delle campate vicine. Ciò potrebbe spiegare anche la bombatura leggermente sporgente del corpo inferiore che mal si accorda con il profilo, invece, rientrante di quello superiore. La massa del kalathos ci è giunta gravemente danneggiata a causa di estese lesioni provocate da intenzionali scalpellature che ne hanno aggredito in maniera più devastante la zona centrale. Risparmiati, solo in parte, il terzo inferiore rivolto a Est e un tratto del fogliame terminale desinente in sottili elici a volute, peraltro limitatamente coinvolte da formazioni di muffe verdognole. Analoghi interventi distruttivi hanno quasi del tutto compromesso anche l’abaco: se ne conserva un breve tratto sul lato Ovest (h. m 0,08), a profilo concavo distinto da un sottile labbro stondato, dove si scorge un frammento di ornamentazione assiale sporgente (corolla floreale o scamillus). Il montaggio difettoso e impreciso dei due frammenti del capitello non agevola una esatta ricostruzione dei repertori naturalistici ancora distinguibili nel settore basso: l’ornamentazione acantacea, infatti, si sviluppa in modo incoerente, senza nessi formali fra la fascia occupata dagli ima folia e gli elementi fitomorfi della corona mediana, dove si conservano tracce evanescenti di colorazione rosso cinabro. Unico dato certo è rappresentato dalla tipologia a “cardo spinoso” aderente al kalathos, con estremità appuntite tangenti fra cespi contigui che danno luogo a figure geometriche di forma triangolo-rettangolare. L’intaglio, piuttosto sbiadito, appare sottile e poco profondo, per cui risultano smorzati gli effetti plastico-chiaroscurali. Anche le zone d’ombra, affidate ad un uso moderato del trapano, si riducono a radi occhi oblunghi molto stretti, solo vagamente allusivi ai vuoti formati dal dispiegarsi del fogliame. Nella metà superiore si distinguono le sagome indistinte di foglie lisce incurvate, disposte di profilo e con estremità appuntite ricadenti, sulle quali si adagiano due coppie
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
di elici linguiformi e sottili, concluse da volute semplici, rilevate piuttosto sommariamente e prive di autonomia tettonica. L’esemplare sembra caratterizzato da una struttura ancora massiccia, ma la concezione degli acanti con foglie aguzze a sezione angolare e la conformazione esile di volute ed elici tendenti ad un linearismo un po’ astratto, povero di effetti volumetrici, rivelano la sua appartenenza alla categoria dei “corinzi asiatici” tardo-imperiali accostabili, nello specifico, a produzioni inquadrabili nell’avanzato III sec. d.C., o al più tardi agli inizi del IV, ed ampiamente diffuse in gran parte del mondo romano.97 Come il capitello 7 di cui ci occuperemo più avanti, quello in esame può catalogarsi nel “tipo 14” della classificazione Pensabene dei capitelli corinzi asiatici ostiensi, forse riconducibili a botteghe di Afrodisia per la presenza di diverse zone d’ombra di sagoma triangolare.98 Consistenti documentazioni sono attestate in area medio-adriatica,99 a Roma,100 a Ostia,101 in territorio umbro (Perugia, Assisi, Spoleto, Nocera Umbra),102 nell’Italia settentrionale103 e in buona parte delle province dell’Impero, tanto da giustificare la tesi già sostenuta dal Kähler,104 e di recente ripresa da Pensabene,105 dell’esistenza di un grande opificio orientale, da collocarsi nell’isola di Proconneso, specializzato nella esecuzione in serie di manufatti, giunti a vari stadi di lavorazione o già completamente rifiniti, da esportare nei principali mercati e cantieri attivi entro i vasti confini dell’Impero.106 Nel nostro caso, il persistere di una certa plasticità del rilievo negli acanti, che ritroviamo ancora in esemplari dioclezianei del Teatro di Ostia,107 sembrerebbe orientare verso un orizzonte di età tetrarchica medio-tarda o protocostantiniana. Se tale inquadramento cronologico trova ampia conferma sulla base delle stringenti affinità riconosciute con massicce attestazioni documentate nei più disparati centri del mondo antico, l’eventualità di poter ascrivere anche il capitello montespinese a settori produttivi di ambiente microasiatico contrasta, però, con l’evidenza petrografico-isotopica restituita dalle analisi archeometriche eseguite sul campione da esso prelevato. I risultati emersi hanno accertato, infatti, che il materiale utilizzato è il marmo greco del Pentelico, nella varietà a leggere venature orizzontali bluastre, e non il marmo Proconnesio che caratterizza, invece, la produzione delle grandi bot-
Fig. 25 Base della colonna 2. Fig. 26 Capitello della colonna 2.
53
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
teghe lapicide orientali, specializzate in questo settore, attive sulle sponde del Mar di Marmara da dove i manufatti venivano commercializzati in gran parte dell’Occidente Mediterraneo. Dal momento che le cave da cui questa pietra veniva estratta coincidevano con il luogo stesso di fabbricazione e di vendita,108 sembra delinearsi la possibilità che ad essere esportati non fossero soltanto esemplari immessi nei circuiti internazionali già completi, o quasi, dell’apparato decorativo e, quindi, pronti all’uso, ma anche modelli, imitati o rielaborati, poi, a livello locale. Nel nostro caso, però, oltre che sulle peculiarità inconfondibili del marmo, occorre basarsi su quanto è tipologicamente valutabile della tettonica del kalathos e sulla cifra stilistica che, in parte, si può ancora apprezzare in circoscritte porzioni dell’ornato naturalistico. Non può, infatti, sfuggire una aderenza ai modelli orientali talmente stretta da far dubitare che possa trattarsi di un capitello eseguito localmente su cartoni importati. Piuttosto, è preferibile pensare a dinamiche produttive e di mercato diverse, organizzate sulla circolazione di maestranze microasiatiche, o attiche, specializzate trasferitesi a Roma, non di rado anche al seguito dei carichi di marmi che dai luoghi di imbarco dovevano accompagnare fino a destinazione.109 Furono esse a dar vita ad un artigianato perfettamente addestrato nella fedele riproposizione dei prototipi d’origine ormai di largo consumo, realizzati, però, con pietre diverse che la cantieristica metteva a loro disposizione, o che la ricca committenza locale gradiva maggiormente.110 A tale proposito, comunque, maggiori possibilità di giudizio saranno disponibili tra breve, quando si passerà all’analisi del capitello 7, pervenutoci in condizioni decisamente migliori, il quale, considerata l’identità stilistica, è presumibile possa in origine aver fatto coppia col nostro all’interno del medesimo contesto edilizio. Considerando, in conclusione, nel suo insieme la colonna 2, con particolare riferimento all’operazione di montaggio di pezzi eterogenei da cui essa ha avuto origine, malgrado la tonalità piuttosto spenta e giocata, in parte, su declinazioni nocciola-biancastre del fusto, essa si impone all’attenzione in virtù dei contrasti di forme e tessiture superficiali, oltre che per gli accostamenti dei colori nella zona sommitale. La uniforme opacità della base si giu-
54
stappone, infatti, al grigio-avorio delicatamente chiaroscurato del fusto tortile che, a sua volta, contrasta con il timbro nocciola carico del sommoscapo per passare, infine, allo stacco deciso del capitello. É quest’ultimo che, attraverso il gioco naturalistico degli acanti, un tempo vivacizzati dalla colorazione rosso vivo, rappresentava il momento conclusivo, sia morfologico che cromatico, dell’intero supporto. Colonna 3.(Fig. 27) Fusto: h. m 1,68; Ø m 0,242. Marmo rosso Ammonitico. Capitello (base rovesciata): h. m 0,285; Ø (modanatura torica) m 0, 439. Biomicrite appenninica grigio chiaro tendente al beige-avorio con intonazione un po’ più scura rispetto alla colonna 2. Il fusto, del tipo “a stilobate”, è completamente liscio e identico a quello della colonna 1. Alla base della faccia rivolta a Est la superficie si presenta interessata da un parziale annerimento. Il sommoscapo è concluso da un basso collarino, composto da due stretti tori appiattiti (superiore: spess. m 0,03; inferiore: spess. m 0,01) separati da una sottile gola (m 0,005). Alcune rotture coinvolgono il bordo Nord e Sud-Est. Il capitello è stato ottenuto ribaltando una base di colonna(Fig. 28) della quale è stato conservato un breve frammento dell’imoscapo, con tracce di una parziale scanalatura a tortiglione, il cui profilo leggermente svasato è risultato funzionale a raccordare più organicamente la sporgenza dei tori con il diametro più stretto della sottostante colonna di spoglio. Si tratta di una base di tipo ionico-attico, modellata in modo piuttosto sommario, costituita da: un plinto quadrato (spess. m 0,075) trasformato in abaco; uno spesso toro a profilo convesso (spess. m 0,07) distinto, tramite un sottile listello (spess. m 0,005), da una bassa scozia profonda m 0,03; un secondo toro di spessore ridotto (m 0,053); e infine un breve segmento dell’attacco del fusto (h. m 0,05) segato con un regolare taglio orizzontale. Entrambi i tori appaiono parzialmente sbocconcellati; quello inferiore è interessato, sul lato Sud, da formazioni di colonie cloroficee. Il plinto, invece, è elemento non pertinente: lo dimostrano lo spesso strato cementizio grossolanamente inserito per fissarlo alla modanatura di base, e le differen-
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
ti caratteristiche cromatiche del calcare biomicritico. L’esemplare può ascriversi alla variante 5 delle basi attiche della classificazione Ginouvès111 per la limitata inflessione dello sguscio del trochilo e la conseguente minor sporgenza del toro inferiore. L’accenno superstite delle scanalature tortili non trova alcuna connessione né con il fusto della colonna 2, né con il frammento utilizzato nella semicolonna T della navata Sud della chiesa, sia per il loro numero, sia per la differente profondità, malgrado l’impressione di una qualche compatibilità possa essere suscitata, a prima vista, oltre che dall’aspetto spiraliforme del fusto, anche dall’identità del materiale. In tutti e tre i casi, infatti, esso è costituito da un calcare biomicritico grigiastro-beige, poroso e ricco di bioclasti, di origine appenninica locale.112 Va considerata, infine, la limitata estensione, di appena 15 cm, delle scanalature lungo il bordo del fusto che ne coinvolge soltanto 1/8 dell’intera circonferenza: misura inconciliabile anche con una eventuale originaria funzione del pezzo come semicolonna. Se alla parzialità della lavorazione aggiungiamo, poi, lo stadio ancora piuttosto grezzo e sommario del trattamento superficiale, l’impressione che ne ricaviamo è quella di un esemplare rimasto incompiuto già in antico e lasciato allo stato di abbozzo in vista, forse, di utilizzi futuri mai avvenuti. Quella delle basi, generalmente ionico-attiche, ribaltate in modo da essere trasformate in capitelli, può essere considerata una tipica “invenzione” medievale all’interno del variegato panorama delle procedure di reimpiego di materiali antichi. La scelta si rivela, in effetti, un comodo surrogato, non privo, peraltro, di una certa accattivante originalità, alla apposita esecuzione di capitelli: manufatti certamente impegnativi per le abilità tecnico-creative che richiedevano da parte di una manovalanza di lapicidi, spesso di matrice monastica, non sempre all’altezza del compito. Non va dimenticato, infatti, che in casi del genere ci muoviamo entro ambiti provinciali dove scarseggiava una manodopera specializzata in grado di realizzare prodotti di qualità. Inoltre vanno anche considerate le difficoltà di reperimento di capitelli antichi da poter riutilizzare, essendo oggetti più rari, più ingombranti e fragili per i danni a cui era esposta l’ornamentazione durante il trasporto, più difficili da estrarre dai contesti architettonici primari, e, infine, più laboriosi da
55
Fig. 27 Colonna 3.
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 28 Capitello della colonna 3.
adattare alle nuove sedi a cui erano destinati. É pur vero che, dal punto di vista dei canoni estetici classici, che sono poi ancora quelli ai quali facciamo, bene o male, riferimento anche noi al giorno d’oggi, l’effetto di una base rovesciata non è assolutamente paragonabile all’impatto visivo trasmesso dalla elegante concezione plastica di un “corinzio fiorito”. Dobbiamo, tuttavia, tener presente al riguardo il prevalere di comprensibili esigenze pratiche volte al vantaggioso adattamento di elementi strutturali, già predisposti e facili da rifunzionalizzare, con conseguente risparmio in termini di costi e di tempi. In secondo luogo, occorre ricordare, come è già stato in altra sede approfondito da chi scrive,113 i particolari connotati che assume l’estetica medievale, soprattutto, ma non esclusivamente, in seno a quegli Ordini monastici di matrice benedettina artefici di una inedita concezione dell’architettura e dell’arte. É da qui che parte una profonda meditazione su quali dovevano essere i fondamenti di una rinnovata visione dei codici espressivi e formali che trovano la loro sintesi nel concetto di “varietas”. Siamo, cioè, di fronte ad una “estetica della rottura”, opposta rispetto ai millenari valori della tradizione greco-romana, in cui “il rifiuto delle regole diventa esso stesso regola”.114 Una regola che si basa, ora, non soltanto su un uso
56
disinvolto di manufatti e frammenti appartenenti alle più disparate vestigia del mondo classico, ma anche su una loro fantasiosa mescolanza attraverso abbinamenti del tutto arbitrari e contestualizzazioni assolutamente estranee a quelle d’origine, alterando, molto spesso, la concordanza dei rapporti stilistico-strutturali fra le parti, e fra queste e il tutto. La combinazione, apparentemente casuale, di capitelli, colonne e basi di ordini diversi e differenti misure, collocati “fuori posto” e destituiti della loro originaria funzionalità, rappresenta, senza dubbio, la negazione esplicita dei principi di armonica coerenza proporzionale ed esprime il contrasto più stridente rispetto alla comune percezione di forme e regole fissate, nei secoli, dall’ingegno e dalla creatività umana. Ma è proprio in virtù di queste dissonanze che il manufatto di spoglio assume, per contrasto, maggiore enfasi ed una valenza che trascende la sua originaria vocazione architettonica. Esso si trasforma, infatti, in qualcosa di più e di diverso, in una nuova proposta estetica concepita per comunicarci un’idea di “bellezza simbolica” che ci spinge ad andare al di là delle apparenze e a cogliere, attraverso l’imperfezione dell’agire umano, la superiore perfezione divina. In quest’ottica, si comprende, dunque, come predeterminati atti di manipolazione del reperto antico finalizzati ad adulterarne l’uso primario, siano tutt’altro che infrequenti nell’edilizia sacra medievale. Essi sono determinati, a seconda dello stadio di consapevolezza raggiunto nell’approccio alla tradizione classica, da spinte e da propositi di volta in volta diversi: di evocazione del passato; di esorcizzazione della cultura pagana; di autocelebrazione della Chiesa come erede e continuatrice del messaggio apostolico; oppure da scopi esclusivamente utilitaristici e, quindi, del tutto indifferenti alla natura e alle potenzialità semantiche dell’oggetto riutilizzato. Casi del tutto analoghi al nostro, limitando l’osservatorio alla regione marchigiana e soffermandoci solo su alcune situazioni emblematiche, si segnalano lungo la bassa valle del Cesano, nella chiesa di San Gervasio in Bulgaria;115 in quella del Musone, nei resti dell’antico monastero benedettino di San Vittore di Cingoli;116 ai margini del corso del Fiastra, nel Refettorio e nella Foresteria della Badia di Chiaravalle117 e nella cripta di Santa Maria delle Macchie a San Ginesio;118 infine, nella cripta della
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
Cattedrale di Ascoli Piceno.119 Si tratta, comunque, di un fenomeno abbastanza diffuso, in generale, nella cantieristica medievale dell’area centro-italica e campana, come dimostrano procedure assai simili di reimpiego attestate, ad esempio, nel Reatino (Monteleone Sabino), in territorio tiburtino (Tivoli) e nel Casertano (Alife).120
Fig. 29 Colonna 4.
Colonna 4.(Fig. 29) Fusto: h. m 1,90; Ø m 0,372. Marmo Cipollino verde, calcare compatto nocciola, arenaria grigia, laterizi. Base: h. m 0,12; Ø m 0,484. Biomicrite calcarea grigio chiaro, tendente al beige-avorio. Il fusto è il risultato del montaggio di una serie di rocchi e frammenti di diverse misure costituiti da eterogenee qualità di materiali: marmo (h. m 0,55), pietra calcarea e arenaria (h. m 0,365), mattoni (h. m 0,985). L’alternanza non presenta alcun carattere di regolarità, anche nell’aspetto del tutto anonimo dei vari pezzi disposti in casuale successione. Fa eccezione l’imoscapo, costituito da un unico frammento monolitico in marmo Cipollino verde euboico,(Fig. 30) interessato da piccole sbocconcellature e fessurazioni di scarsa entità e cementato alla buona lungo una discontinua linea di rottura. Al di sotto, si conclude con uno spesso toro piatto (m 0,06), molto sporgente e con profilo esterno rigido e rettilineo, corrispondente al piano di appoggio dell’originaria colonna di appartenenza. La base, non pertinente, malgrado i gravi danni, visibili soprattutto lungo il lato Est, non nasconde la sua derivazione tipologica da modelli ionico-attici caratterizzati dalla canonica sequenza di due coppie toro-listello, di cui il primo percorso da una leggera scanalatura mediana, separate da un’ampia e profonda scozia.121 All’interno della cripta di Montespino, il pezzo in esame, considerato nel suo insieme, rappresenta senz’altro quello in cui l’istanza estetica e i sottintesi simbolici non hanno giocato, si può dire, alcun ruolo. Esso costituisce, infatti, il classico esempio di una operazione dettata da esclusive esigenze pratiche di innalzare una colonna facendo ricorso ad una mescolanza di avanzi e frustuli lapideo-laterizi giacenti negli stoccaggi di cantiere. Il sistema adottato è quello di un riutilizzo comunemente definito “per segmenti”, disordinatamente combinati tra loro e sovrapposti fino a raggiungere l’altezza desiderata. L’unica regola
imposta da una elementare esigenza statica, e rispettata al fine di garantire la tenuta del supporto, consiste nell’aver collocato in basso il robusto frammento monolitico in Cipollino: il solo, assieme alla base d’appoggio, a conferire un minimo di valore estetico ad una struttura di per sé assolutamente anonima e realizzata con tecnica scadente e frettolosa. Ne fornisce una conclusiva ed evidente prova l’abolizione, addirittura, del capitello, ridotto ad un sommario accenno attraverso schematiche facce trapezoidali sporgenti che malamente simulano il noto repertorio decorativo “a semicerchi penduli”, tipico dei capitelli medievali a cubo scantonato. L’abaco, infine, è una semplicissima lastra quadrata (m 0,38 x 0,38; spess. m 0,06) in calcare grigio, priva di lavorazione. Un’unica osservazione, forse, merita il rocchio marmoreo di base: il taglio superiore, molto irregolare ed ap-
57
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 30 Imoscapo e base della colonna 4.
prossimativamente risarcito a malta grezza, potrebbe deporre a favore di uno stato di conservazione già anticamente compromesso da un evento distruttivo; ciò significherebbe, pertanto, che il pezzo non provenga da un contesto edilizio di spoglio ancora in situ, ma che sia stato così reperito in condizione erratica, o, tutt’al più, nei livelli superficiali di un crollo strutturale. Colonna 5.(Fig. 31) Fusto: h. m 1,57; Ø m 0,238. Marmo verde Tessalico (“Verde Antico”). Capitello: h. m 0,27; Ø max. m 0,382. Marmo Proconnesio. Fusto “a stilobate”. L’ipotrachelio è coronato da un ampio collarino, particolarmente danneggiato sul lato orientale, composto da uno spesso listello piatto superiore (m 0,06) distinto, con un leggero dente, da un sottostante listello assottigliato (spess. m 0,015). Per quanto concerne i danni superficiali coinvolgenti, soprattutto, la metà
58
inferiore, si rinvia all’analisi svolta in merito nel Cap. IV C. 2. b. Un sottile strato di malta separa la modanatura del sommoscapo dal capitello di tipo corinzio(Fig. 32) il quale è stato lasciato in uno stadio di semilavorazione, per cui le foglie appaiono lisce. In buon numero esse hanno la punta fratturata e sono interessate da estese formazioni lichenose verdi che conservano, soprattutto sulla faccia Est, evidenti tracce di color rosso cinabro, analogo a quello ravvisato negli acanti del capitello della colonna 2. In questo caso, però, esse sembrano estendersi anche sul corpo del kalathos, come rivelano alcuni residui individuabili sul lato Sud. Le foglie si distribuiscono su due corone, in numero di sei per ciascuna, e si concludono con apice appuntito e ricadente. Negli spazi interfoliari della seconda corona si inseriscono stretti e lunghi caulicoli lisci, desinenti in uno stretto orlo ad anello rilevato da un solco debolmente inciso. Limitatamente alla faccia Est, si riconosce anche un calice a margine svasato dal quale si dipartono sottili elici marcatamente sporgenti, con gambo a sezione rettangolare, concluse da una piccola voluta stilizzata. Dell’abaco (m 0,36 x 0,36; spess. m 0,07) è visibile, sempre solo sul lato orientale, un tratto a profilo concavo, modanato a duplice tondino distinto, con al centro un frammento fratturato del motivo floreale. Il nostro esemplare è catalogabile, come si è anticipato, nella classe dei capitelli “corinzi asiatici” privi della rifinitura finale: una tipica categoria di manufatti realizzati, anch’essi, nelle cave del Proconneso, come conferma la qualità del marmo, ed esportati in tali condizioni in previsione di successivi interventi di completamento, principalmente del fogliame acantaceo, da realizzarsi nelle botteghe specializzate dei luoghi di destinazione. É da qui che partivano le ordinazioni verso i centri di raccolta e di produzione, direttamente collegati alle cave estrattive, dove funzionavano vere e proprie “agencies overseas” incaricate di ricevere ed evadere le richieste provenienti dalle più svariate committenze private o municipali. Tale fenomeno trova spiegazione principalmente nello sviluppo di una massiccia produzione in serie in grado di imporsi, forte dei costi più competitivi, sui mercati interni e internazionali del bacino del Mediterraneo.122 Non va, però sottovalutata l’incidenza che ebbe su di esso an-
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
che il progressivo declino delle importazioni del marmo Lunense a favore del marmo Proconnesio.123 Ciò comportò, infatti, un conseguente incremento dell’afflusso di prodotti semilavorati (non solo capitelli, ma anche basi di colonne, elementi architettonici e di arredo, sarcofagi ecc.) dalle cave microasiatiche, e, in parte, anche dall’Attica e da Thasos, le cui dimensioni si possono cogliere nell’abbondanza, soprattutto di capitelli corinzi a foglie lisce, sia introdotti nell’edilizia privata tardo-imperiale, sia spesso reimpiegati successivamente negli edifici religiosi paleocristiani e alto-medievali. Nell’esemplare di Montespino l’impostazione assunta dal repertorio decorativo, a larghe foglie distanziate e percorse da una sottile nervatura centrale, accompagnata da una tettonica rigida ed essenziale del kalathos con lunghe elici filiformi accentuatamente estroflesse, delineano un
indirizzo stilistico ascrivibile alla seconda metà del II o agli inizi del III sec. d.C., come sembrano confermare convincenti confronti documentati, ad esempio, a Ostia nelle “Terme del Mithra”.124 La colonna 5, per la preziosità del marmo greco verde di Tessaglia, eccezionale nei contesti archeologici della regione picena meridionale, e per la originaria vivacità cromatica del capitello naturalistico,125 rappresenta uno dei pezzi più interessanti fra quelli conservati nella cripta. Esso ci testimonia, al pari di altri esemplari, una palese finalità estetica, certo non fine a se stessa ma determinata a trasmettere al fedele una particolare emozione visiva. Tutto è giocato sul contrasto fra la gradevole naturale tonalità verde del fusto, modulata su passaggi da zone più intense e scure ad altre più luminose tendenti a delicate gradazioni smeraldine, il tenue candore appena variegato
59
Fig. 31 Colonna 5. Fig. 32 Capitello della colonna 5.
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
del marmo Proconnesio del capitello e l’accesa sovraddipintura color rosso cinabro del fogliame che ne rivestiva, un tempo, il kalathos. Un risultato, oggi, purtroppo, scarsamente apprezzabile a causa dei diffusi danni e delle vistose alterazioni cromatiche superficiali, raggiunto con semplicità di mezzi, senza ricorrere ad esuberanti decorativismi o a complesse metafore simbolico-sacrali. Lo sforzo è tutto rivolto, infatti, a suscitare suggestioni percettive, potremmo dire “retinali” e non “concettuali”, commisurate, quindi, alla modesta cultura di un mondo agro-pastorale poco avvezzo a sofisticati approcci iconologici, estraneo a linguaggi figurativi complessi ed incapace, pertanto, di cogliere i difficili nessi esistenti fra immagini e verità teologico-dottrinali.
Fig. 33 Colonna 6.
Colonna 6.(Fig. 33) Fusto: h. m 1,62; Ø m 0,248. Marmo Cipollino verde. Capitello: h. m 0,28; Ø max. m 0,324. Marmo Proconnesio. La colonna, anche in questo caso del tipo “a stilobate”, versa in un cattivo stato di conservazione, rilevabile, in misura preponderante, nella metà inferiore del fusto, sulle cui cause si rinvia al Cap. IV C. 2. c. Sopra l’ipotrachelio è presente un collarino, del tutto analogo a quello della colonna 5 ma leggermente più schiacciato, formato da un doppio listello piatto con moderato aggetto (spess. sup. m 0,045; spess. inf. m 0,01), distinto da una sottile gola. Il capitello(Fig. 34) appartiene alla medesima tipologia individuata per l’esemplare precedente, al quale è accostabile anche per quanto concerne sia la qualità del marmo, sia le misure, di poco inferiori solo nel diametro massimo rilevato nella metà superiore a causa delle lesioni inferte da un pesante intervento di scalpellatura che ne ha ridimensionato il volume. Molto gravi si rivelano, sulle facce Est e Sud, le alterazioni superficiali provocate da estese colonie muschiose verdastre che hanno deteriorato in maniera accentuata l’aspetto cromatico del fogliame, seriamente compromesso anche da rotture coinvolgenti, soprattutto, gli apici sporgenti. Sulla faccia Ovest, invece, la doppia corona di foglie lisce non risulta significativamente danneggiata, se non in minima parte nella estroflessione delle punte della seconda corona.
60
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
Come si è accennato, importanti abrasioni hanno anche coinvolto la parte sommitale del kalathos pregiudicandone irrimediabilmente la lettura: solo nella zona Sud-Ovest si riconoscono deboli tracce di un caulicolo liscio e appena inclinato, con stretto collarino a orlo sporgente e distinto, dal quale si origina, sulla sinistra, lo stelo piatto, sottile e a sezione rettangolare di un’elice priva di voluta terminale. Sempre sul medesimo lato, si scorge un breve segmento dell’abaco, identico per conformazione e dimensioni (m. 0,36 x 0,36; spess. m 0,07) a quello del capitello precedente: il profilo concavo, con modanatura a duplice tondino e cavetto intermedio, è anche qui interrotto al centro dalla sporgenza di uno scamillus liscio. Al di sotto, si intuisce un labile residuo del bordo superiore del kalathos. L’esemplare trova lo stesso inquadramento stilistico e cronologico già individuato per il gemello n. 5, al quale si rinvia. Pressoché del tutto scomparsi, invece, risultano gli interventi posticci di sovraddipintura del fogliame, la cui originaria esistenza, tuttavia, sembrerebbe ipotizzabile osservando una debole macchia rossiccia ancora riconoscibile negli ima folia della faccia Sud-orientale. Da ciò ne potrebbe conseguire un identico interesse rivolto alla ricerca di effetti coloristici, nuovamente basati sul contrasto complementare rosso/verde. Oltre a ciò, comunque, l’abbinamento fra il fusto in marmo Cipollino, nella variante a striature verdi piano-parallele alternate a inserti bianco-avorio, e il capitello in un Proconnesio dai toni lievemente ambrati e pastosi, riesce ad infondere all’insieme un’armoniosa gradazione cromatica, meno vivace rispetto a quanto appare nella contigua colonna 5, ma in grado di raggiungere un analogo risultato esteticamente appagante e suggestivo. Quest’ultimo, allo stato attuale, si limita però solo alla faccia Ovest, quella, cioè, come nella quasi totalità dei sostegni presenti in cripta, che appare meno aggredita dall’azione nociva dei fattori ambientali veicolata dalle tre monofore aperte lungo l’emiciclo absidale. Qui, infatti, sono assenti formazioni di efflorescenze muschiose responsabili, non soltanto delle alterazioni cromatico-tessiturali, ma anche dei fenomeni di parziale disgregazione strutturale di quelle parti, come gli apici fogliari, più vulnerabili agli effetti corrosivi prodotti dalle sostanze acide.
Colonna 7.(Fig. 35) Fusto: h. m 1,41; Ø m 0, 372. Breccia Corallina (Marmo Sagario). Capitello: h. m 0,38; Ø max. m 0,398. Marmo Lunense. Fusto “a stilobate”.126 Un esteso annerimento superficiale coinvolge circa tre quarti della metà inferiore. L’ipotrachelio è sormontato da uno spesso collarino (m 0,05) costituito da un semplice listello gravemente danneggiato da diffuse rotture. Con identico tipo di marmo è realizzato un rocchio frammentario (h. m 0,50; Ø ~ m 0,328), cementato sul pavimento della chiesa superiore all’imbocco dell’abside Ovest, presso il muro meridionale; a causa dell’avanzato stato di deterioramento, non è possibile accertarne la pertinenza, o meno, alla colonna in oggetto.
61
Fig. 34 Capitello della colonna 6.
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 35 Colonna 7.
Al di sopra, fissato con un sottile strato di malta, si appoggia il capitello,(Fig. 36) anche in questo caso appartenente alla medesima categoria di “corinzi asiatici” già individuata a proposito dell’esemplare n. 2. Le condizioni di conservazione risultano discrete, salvo che sulla faccia Nord-Est e nella struttura dell’abaco che si presenta fratturato lungo buona parte del perimetro. La superficie appare quasi interamente rivestita da una tenue patina rosa, ancora tenacemente aderente, interpretabile, forse, o come residuo di una imprimitura posticcia destinata al fissaggio di una successiva colorazione, della quale non rimane, però, alcuna traccia, oppure come alterazione dovuta all’uso di particolari solventi impiegati nel corso di più o meno recenti ipotetiche operazioni di pulitura e restauro.127 Il kalathos, massiccio e moderatamente svasato, è composto da una duplice corona di otto foglie di acanto spinoso che occupano i 2/3 dell’altezza complessiva. Quelle della corona inferiore hanno le punte dei lobi marcatamente estroflesse e tangenti fra loro, dando vita ad una caratteristica successione di figure geometriche a forma, partendo dal basso, di triangolo, rettangolo, rombo, triangolo, che semplificano, in tal modo, il processo di rifinitura al dettaglio dell’ornato naturalistico. L’acanto è percorso da un’unica costolatura mediana, con nervatura in rilievo, attorno alla quale si radunano in file serrate i lobi laterali, due per ogni lato; quello centrale si conclude con apice ripiegato e sporgente sugli altri i quali si dispongono aderendo, invece, alla superficie. Nella seconda corona, le foglie sono meno articolate e si distribuiscono in posizione sfalsata rispetto a quelle inferiori. Le punte dei penultimi lobi mediani si toccano dando vita a zone d’ombra triangolari che riprendono una soluzione decorativa ritenuta da Pensabene128 caratteristica degli “ateliers” di Afrodisia. La ridotta elaborazione plastica, riconoscibile alla radice dei lobi inferiori, è funzionale alla valorizzazione degli effetti di sfumato proiettati dai fasci degli ima folia. Questi ultimi, oltre che attraverso gli spazi geometrici originati dalle tangenze delle corone acantacee, vengono esaltati da occhi di forma oblunga, o a fessura obliqua, ottenuti con intaglio a trapano corrente utilizzato anche per la resa dei sottili canali delle nervature convergenti alla base delle fogliette.
62
Nel terzo superiore, si sviluppano elici linguiformi concluse da sottili e ridotte volute le quali terminano, al di sotto degli spigoli dell’abaco, con una spirale a bottone poco pronunciata e sorretta dall’apice ricurvo e pendulo di foglie lisce affrontate in coppia. Abaco a facce leggermente concave (h. m 0,045), modanate con due fascette piatte (la più bassa di altezza doppia rispetto a quella superiore) e separate da un cavetto poco profondo a sezione rettangolare; a Est, in posizione assiale, si distingue la traccia di una ornamentazione floreale sporgente. Gli aspetti tipologico-stilistici ora descritti ci riportano nel solco di una nota e diffusa produzione di matrice microasiatica, contraddistinta da un motivo acantaceo
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
a cardo spinoso, dispiegato sulla superficie del kalathos con effetto marcatamente geometrico e decorativo ottenuto in virtù della ritmica partizione delle fogliette aderenti, simili ad un fregio a basso rilievo continuo. Le condizioni decisamente migliori in cui ci è pervenuto l’esemplare, in confronto al gemello n. 2, consentono di valutare con maggior completezza e attendibilità aspetti morfologici e compositivi che confermano quanto, più genericamente, si era osservato in precedenza a proposito, soprattutto, degli elementi accessori appartenenti al repertorio naturalistico. A cominciare da elici e volute le quali mostrano di aver ormai perso completamente la loro tradizionale funzione “architettonica” di sostegno dell’abaco, trasformandosi in semplici e schematiche sagomature esornative avulse dal contesto dei motivi fitomorfi sottostanti. All’interno di questo palese processo di semplificazione e di convenzionalità espressiva, rientrano tanto la eliminazione dei caulicoli, quanto la scomparsa dei calici, qui solo parzialmente sostituiti da stilizzate foglie lisce disposte di profilo con punte ricadenti. Si è già sottolineata in precedenza, la capillare irradiazione di questo modello dal Proconneso, originario polo produttivo e propulsore, verso gran parte dell’Oriente mediterraneo (Fenicia, Palestina, Siria, Egitto, Tripolitania, Numidia, Mauretania, Cilicia)129 fino a toccare la Dalmazia e le più lontane province dell’Europa Nord-Occidentale attraversate dal corso del Danubio.130 Nello specifico, di particolare interesse si rivela, per le stringenti affinità delle soluzioni plastico-decorative, un buon numero di attestazioni distribuite, da Nord a Sud, in svariati contesti della penisola italiana: ad Aquileia,131 Verona,132 nella regione padana,133 in territorio laziale134 e apulo-campano135 e in Sicilia.136 Per confronti specifici in situazioni di reimpiego documentati in area medio-adriatica (Monte Sorbo, Sarsina, Valle del Cesano, Osimo), si rimanda, invece, all’analisi del capitello 2.137 Anche in questo caso, però, l’impiego di un materiale, il marmo di Luni e non il Proconnesio comunemente in uso, come abbiamo ribadito, nell’ambito delle officine di produzione medio-orientali, riapre ancora una volta il problema circa l’origine del manufatto in questione: un’origine che, lo si è già ipotizzato, può avere avuto
come protagoniste maestranze microasiatiche, o attiche, itineranti ed attive nell’Urbe in età imperiale medio-tarda.138 Tuttavia, considerando le specifiche proprietà minero-petrografiche del marmo, poste in evidenza dagli esami archeometrici svolti sul campione MS 7,139 si affaccia anche una seconda possibilità che potrebbe chiamare in causa un diverso centro di provenienza. Quest’ultimo giustificherebbe, tra l’altro, l’assoluta identità tipologica esistente fra il nostro capitello e i numerosi confronti reperibili in gran parte del versante egeo dell’Asia Minore. Le analisi di laboratorio condotte su un consistente numero di frammenti, hanno dimostrato che il “Lunense”, in casi molto particolari, può confondersi con il marmo bianco di Göktepe (provincia di Muĝla, Turchia Sud-occidentale costiera), località dell’antica Caria sita
63
Fig. 36 Capitello della colonna 7.
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
non lontano dall’importante centro ellenistico-romano di Afrodisia.140 A tal riguardo, sembra che il campione montespinese possa rientrare all’interno di questa casistica, dal momento che è stata riscontrata una parziale sovrapposizione fra le due “nuvole” isotopiche di riferimento. Questo dato, basato su precisi riscontri scientifici, amplia, pertanto, il ventaglio delle ipotesi includendo anche quella della provenienza del manufatto in questione da un “atelier” specializzato gravitante nell’orbita della “scuola” afrodisiense141 da dove potrebbe essere stato esportato in Italia, approdando ad uno degli scali marittimi della fascia costiera medio-adriatica. A corroborare, in una certa misura, una simile interpretazione, sembra concorrere un particolare stilistico, già poco sopra segnalato, riconoscibile nel fogliame acantaceo della seconda corona del kalathos dove la tangenza delle punte dei penultimi lobi mediani dà origine a zone d’ombra di forma triangolare: dettaglio che riconduce ad una soluzione decorativa caratteristica delle botteghe scultoree sorte in quest’area e consolidatesi sui mercati internazionali soprattutto nel corso del Medio e Basso Impero. Più specificatamente, l’orizzonte cronologico indicato dal discreto stato di conservazione dell’ornato naturalistico e dal permanere di una certa plasticità del rilievo, destinata a scomparire nelle edizioni tardo-antiche a favore di un generale astratto appiattimento, può collocarsi nell’avanzato III sec. d.C., più precisamente fra l’età tetrarchica e, al più tardi, primo-costantiniana. Qualche considerazione conclusiva si rende, infine, necessaria a proposito agli aspetti contestuali del nostro esemplare: non può sfuggire, infatti, come le sue peculiarità stilistico-formali, accanto alle caratteristiche del fusto marmoreo che lo sostiene, siano perfettamente in sintonia con la specifica posizione occupata dalla colonna 7 all’interno della cripta. Ci troviamo, qui, nel suo settore conclusivo, alla destra di quell’altare, oggi scomparso, che oltre ad essere la struttura liturgicamente centrale dell’intero spazio consacrato, era anche il luogo destinato alla conservazione delle reliquie di qualcuno dei santi martiri, menzionati nella già ricordata lapide del 1064 murata “in cornu epistolae”, ai quali venne dedicato l’altar maggiore della chiesa.142 Appare evidente la volontà di enfatizzare visivamente la meta del percorso diretto verso il sancta sanctorum del
64
tempio micaelico, sia attraverso le dimensioni dell’antico spolium posto di fianco, decisamente superiori alla media, sia in virtù delle qualità estetiche dei materiali (la “Breccia Corallina” del fusto e il Marmo Lunense del capitello) e del repertorio decorativo. Prescindendo, infatti, dai danni che col trascorrere del tempo hanno, purtroppo, aggredito la colonna annerendone di efflorescenze lichenose ampie porzioni della metà inferiore, è innegabile che l’originario impatto visivo dovesse essere di notevole effetto. Semplici ma efficaci i mezzi per raggiungerlo: da un lato l’emergere dalla diffusa penombra dell’ambiente di un pregevole elemento architettonico posto in piena luce di fronte alle tre monofore absidali; dall’altro, l’armoniosa combinazione fra la delicata intonazione rosa corallo del marmo Sagario e la purezza del bianco Lunense. Se a ciò aggiungiamo, poi, la eventuale colorazione sovraddipinta, ipotizzabile interpretando come imprimitura il residuo di patina rosea ancora visibile sulla superficie, si può immaginare un esito finale ancor più accentuatamente vario e vivace. Ci troviamo, dunque, nuovamente in presenza di una oculata operazione in tema di reimpiego di materiali antichi, molto attenta nella selezione dei manufatti, alle loro qualità intrinseche e al preciso contesto in cui riutilizzarli. Scelte e interventi si inseriscono in un preciso programma rivolto non ad un appagamento estetico fine a se stesso, ma al raggiungimento di un consapevole intento simbolico in grado di essere colto dal fedele principalmente attraverso l’emozione e lo stupore suscitati da un tangibile richiamo all’autorevole bellezza del mondo classico. Colonna 8.(Fig. 37) Fusto: h. m 1,40; Ø m 0,477. Marmo Troadense. Capitello: h. m 0,40; Ø max. m 0,394. Marmo Lunense. Fusto a stilobate, danneggiato lungo quasi tutta la fascia dell’ipotrachelio che si presenta scalpellata e parzialmente invasa da efflorescenze responsabili di un processo degenerativo visibile sotto forma di un diffuso annerimento superficiale. Tale alterazione appare accentuata in corrispondenza del segmento perimetrale rivolto verso le finestrelle absidali da dove luce, umidità e fattori di biodeterioramento hanno potuto penetra-
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
re nell’ambiente, esercitando in maniera più diretta la loro azione aggressiva. Il soprastante collarino (spess. m 0,07), gravemente frammentato soprattutto sulle facce Sud e Nord-Est, è costituito da un semplice listello piatto e poco sporgente. Al di sopra si appoggia un bel capitello corinzio,(Fig. 38) palesemente non pertinente per le dimensioni di molto inferiori rispetto al diametro della colonna ed accuratamente fissato con un sottilissimo strato di malta privo di sbavature. Lo stato di conservazione, nel complesso, è abbastanza buono sulle facce Est e Sud dove isolate scalfitture compromettono, solo parzialmente, gli apici degli acanti e porzioni un po’ più consistenti dei calici. La restante superficie, invece, risulta compromessa da estese fratture che giungono ad interessare anche la struttura dell’abaco, limitatamente leggibile solo lungo il profilo Est. Come nel capitello precedente, è nuovamente visibile un diffuso e sfumato alone color rosa pallido che, al pari, è incerto se sia da interpretarsi come avanzo dello strato di preparazione destinato ad una successiva sovraddipintura, oppure come effetto prodotto dall’impiego di sostanze chimiche durante un ipotetico intervento di restauro.143 L’esemplare sviluppa due corone di acanto molle, di otto foglie ciascuna, che giungono a metà dell’altezza totale del kalathos, con digitazioni accorciate ed appiattite aderenti alla superficie e parziale sovrapposizione fra ima e media folia. Gli acanti si articolano in otto lobi a punta stondata percorsi da sottili canali di trapano, poco profondi, che individuano costolature esili e slanciate. Diffuse zone d’ombra, a piccole gocce oblunghe e sub-triangolari, si distribuiscono in posizione rigorosamente simmetrica e appena inclinata rispetto all’asse della foglia, dando vita ad una contenuta animazione chiaroscurale. Negli spazi interfogliari della seconda corona si inseriscono i cauli, in posizione obliqua, segnati da una duplice sottile scanalatura longitudinale e conclusi da una modanatura rilevata a tondino. Da quest’ultima si aprono i calici costituiti da corte foglie acantacee raccolte in una corolla chiusa e con estremità tangenti a formare zone d’ombra a goccia e a piccolo triangolo isoscele. La composizione è completata dal dispiegarsi di spesse elici a nastro piatto, concluse da volute semplici
Fig. 37 Colonna 8.
con occhiello centrale appoggiate sull’apice ricurvo di una foglia liscia verticale, percorsa da una netta nervatura mediana. Tale motivo campeggia al centro dell’ampia superficie vuota del kalathos creata dall’inclinazione dei cauli e delle corolle. Al di sopra, separato da un breve orlo piatto a sezione rettangolare, insiste il poco che resta dell’abaco, conservato solo sul lato orientale (spess. m 0,055), dal profilo lievemente arcuato. Nel terzo superiore, esso si presenta suddiviso da uno stretto cavetto in due fasce di diverso spessore, mentre al centro, in corrispondenza del punto di tangenza delle due elici affrontate, è riconoscibile un frammento del tutto abraso di un originario decoro floreale, moderatamente aggettato e con breve peduncolo a triangolo rovesciato. Il capitello 8 merita un’analisi dettagliata per le peculiarità tipologiche che lo caratterizzano, anche se non sempre del tutto accompagnate da una cifra stilistica
65
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 38 Capitello della colonna 8.
all’altezza dei modelli di riferimento, e per le qualità del materiale impiegato. É necessaria, innanzi tutto, una valutazione oggettiva di quegli aspetti inerenti la concezione strutturale d’insieme e la scelta di precise soluzioni formali, che si rivelano indispensabili per circoscrivere un orizzonte cronologico entro il quale rintracciare riscontri pertinenti dai quali partire per risalire ad un possibile ambiente di origine o, quanto meno, ai prototipi ispiratori. I caratteri maggiormente significativi si riconoscono: nella tettonica ancora massiccia del kalathos; nell’introduzione di cauli a scanalature verticali e di acanti a nervature centrali stondate; nel modellato di elici e volute tendente ad esaltare effetti disegnativi piuttosto che volumetrici; nella resa a trapano leggero di occhi d’ombra geometrici e disposti secondo un rigido schema simmetrico; nella
66
animazione naturalistica controllata che risparmia porzioni lisce di superficie. Nel loro insieme, tali particolarità rinviano in maniera abbastanza esplicita a produzioni risalenti al periodo del secondo triumvirato e in voga nel corso dei due decenni finali del I sec. a.C.144 Si vedano, in proposito, esemplari affini documentati a Roma nel tempio del Divus Iulius nel Foro Romano, e in quelli di Saturno, di Apollo Palatino e di Apollo in Circo.145 Fra quanto posto in evidenza, significativa si rivela, soprattutto, l’assenza sia di un criterio compositivo basato sulle asimmetrie, specie nei motivi degli occhi d’ombra, sia di costolature fogliari mediane larghe e piatte; il che, unito ad una scarsa sensibilità plastico-chiaroscurale, esclude mode più recenti destinate ad affermarsi con l’età augusteo-tiberiana.146 Alcuni dettagli tecnico-stilistici, tuttavia, denunciano, come si è anticipato, procedure esecutive a volte un po’ più frettolose e corsive le quali, in parte, smorzano l’intonazione aulica che caratterizza il raffinato repertorio ornamentale d’insieme. Si osservino, ad esempio, la semplificazione geometrica del peduncolo che sostiene il motivo decorativo dell’abaco e, al di sotto di questo, l’andamento piuttosto irregolare dell’orlo del kalathos dal profilo sovente deformato. Da notare, inoltre, la marcata stilizzazione della lunga foglia liscia che si innalza dalla seconda corona acantacea, infilandosi nell’angolo di unione delle volute delle elici, e come queste ultime si avvolgano in una spirale “a bottone” piatto, prive di listello e canale. Non può sfuggire, infine, una certa approssimazione nell’intaglio di alcune zone d’ombra, specie nelle corolle dei calici. É interessante rimarcare come le soluzioni plastico-decorative poste in evidenza siano concentrate sostanzialmente nella metà superiore del capitello, dal limite dei caulicoli in su. Al contrario, nel dispiegarsi delle due sottostanti corone fogliari il linguaggio stilistico cambia: è riconoscibile qui, infatti, un tono più ricercato che è possibile cogliere nella morbidezza delle digitazioni, nella delicatezza dell’intaglio delle nervature slanciate e nella sobrietà delle gocce d’ombra create dal calcolato disporsi dei lobi che obbedisce ad un equilibrato criterio di simmetria, coerente e preciso ma privo di rigidità. Sembra, dunque, che il nostro esemplare possa essere scaturito dalla collaborazione di due artefici appar-
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
tenenti alla medesima officina lapidaria: più esperto e dotato, forse il capo bottega, quello responsabile della esecuzione dell’ornato vegetale che occupa la zona mediana e inferiore del kalathos ; un po’ più rigido il secondo, meno incline al decorativismo e propenso verso soluzioni formali semplificate, a volte anche a scapito del rigore tecnico. Siamo, comunque, in presenza di un manufatto di buona qualità, uscito da un “atelier” specializzato operante in una dimensione urbana, ma verosimilmente di area provinciale, e chiamato a soddisfare una committenza abbastanza esigente, anche se forse non di prim’ordine, la quale pur non accontendandosi di facili surrogati (prova ne sia anche la qualità pregiata del “Lunense” selezionato), non era in grado di accedere a circuiti produttivi di più alto livello. Venendo, anche in questo caso, ad esaminare ora la nostra colonna nel contesto più generale dello spazio ipogeo, appare evidente che ci troviamo di fronte ad una situazione del tutto assimilabile a quella della colonna 7. Rispetto a quest’ultima, infatti, essa costituisce l’esatto “pendant” non solo in quanto elemento architettonico, ma anche dal punto di vista della esplicita valenza simbolica che assume il suo inserirsi in quella precisa collocazione e con quelle specifiche caratteristiche morfologiche e qualità estetiche. Alla sinistra dell’altare, venerata lipsanoteca del tempio micaelico montespinese, si innalza, dunque, una seconda possente colonna, di quasi mezzo metro di diametro e in un bel marmo Troadense grigio-violetto, la quale, con il suo svettante capitello corinzio adorno di una elegante ornamentazione in candido marmo Lunense, viene a costituire, assieme alla gemella di destra, un tangibile séma sacrale che enfatizza visivamente il luogo e ciò che al suo interno si celebra. Ancora una volta sono le dimensioni del fusto e la particolarità del capitello, con la sua esplosione decorativa, gli elementi ai quali si affida il compito di esaltare lo spazio consacrato e di “spettacolarizzare” la solennità liturgica, quasi fossero quinte teatrali sulla ribalta del piccolo presbiterio. Non importa la precarietà dello stato di conservazione, in origine, comunque, senz’altro minore di quella attuale, così come del tutto secondaria è la macroscopica sproporzione fra colonna e capitello, peraltro realizzati con materiali molto diversi.
Quello a cui assistiamo è, se paradossalmente così si può dire, un recupero anticlassico della classicità, indifferente al rispetto di canoni formali consolidati da millenarie esperienze maturate nel campo dell’architettura e della scultura e trasmesse dalla grande eredità lasciataci dal mondo antico. É una nuova proposta estetica quella a cui ci troviamo di fronte, come si è più volte sottolineato, rivolta al superamento della ingannevole umana percezione della realtà e al recupero, invece, di una dimensione emotiva, interiore, spirituale che ci renda capaci di cogliere il senso profondo delle cose e i messaggi che in esse si celano. Giunti, così, al termine dell’analisi specifica delle otto colonne che suddividono le navate della cripta, occorre occuparsi, ora, dell’ultimo aspetto strutturalmente importante nella articolazione dello spazio architettonico, costituito dalle quattordici semicolonne addossate alle quattro pareti sulle quali scaricano gli archi incastrati nei muri perimetrali e quelli traversi delle campate. Oggetto di interesse sono soltanto tre semicolonne: la terza della parete Nord (G)(Fig. 16) e le prime due della parete Sud (M-N)(Fig. 17) nelle quali si segnala la presenza di frammenti di spoglio inseriti, secondo il sistema di montaggio “per segmenti”, al fine di pareggiare, approssimativamente, la ricaduta degli archi traversi rispetto ai piani di imposta delle colonne centrali. Semicolonna G.(Fig. 39) Composta da due rocchi: rocchio inferiore: h. m 0,56; Ø m 0,216. Marmo Proconnesio. rocchio superiore: h. m 0,60; Ø m 0,216. Marmo Proconnesio. Al sommoscapo si conservano tracce estremamente consunte della modanatura semplice di un collarino dello spessore di m 0,03. Il fusto, sostenuto da una rozza base medievale in pietra calcarea, si compone di due rocchi, entrambi in marmo Proconnesio ma di diversa qualità: quello inferiore, appartenente ad una facies che potremmo definire “classica”, è contraddistinto da una colorazione biancastra attraversata da larghe e nette striature grigio-azzurro-
67
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
rocchio in pietra calcarea compatta (biomicrite appenninica ?), color grigio nocciola intenso (h. m 0,015; Ø m 0,197), le cui caratteristiche petrografiche, apparentemente assai simili a quelle riscontrate nel capitello della colonna 3, inducono ad interpretarlo come pezzo di spoglio.
Fig. 39 Parete Nord: semicolonna G.
Semicolonna N All’imoscapo è inserito un piccolo rocchio (h. m 0,020; Ø m 0,268) in marmo bianco molto danneggiato, probabilmente Proconnesio. Di analoga natura risulta l’ottavo rocchio dal basso, con diametro identico ed altezza di m 0,018.
gnole verticali isoparallele. Nel segmento superiore, invece, predomina una tonalità avorio-rosata percorsa da sottilissime venature grigie ad andamento irregolare.147 Le palesi discordanze cromatico-tessiturali dei due frammenti, assieme a differenti manifestazioni dei danni superficiali, confermano la loro originaria appartenenza a due distinti fusti di colonnina, anche se l’identità dei diametri potrebbe sottintendere teoricamente una provenienza dal medesimo contesto edilizio. Semicolonna M Nella metà superiore è inserito un breve frammento di
68
Nei tre esemplari considerati, gli unici a conservare reimpieghi antichi chiaramente costituiti, qui, da scarti o avanzi di cantiere e destinati, pertanto, a strutture secondarie e scarsamente visibili, si possono osservare continue variazioni sia nelle altezze, sia nell’ampiezza dei diametri, come peraltro accade in pressoché tutte le restanti semicolonne parietali. Questi ultimi riscontri relativi ad una accentuata irregolarità proporzionale degli elementi portanti, e coinvolgente, come si è già detto, la quasi totalità delle parti costitutive l’intera organizzazione spaziale, confermano le finalità progettuali, e le conseguenti procedure tecnico-costruttive, che hanno guidato le scelte della manodopera locale. L’interesse principale, in questo caso, viene rivolto alla creazione di un ambiente in cui l’obbiettivo fondamentale perseguito non è la coerente applicazione dei principi che regolano una equilibrata sintassi delle componenti strutturali. É in seno, infatti, a queste anonime maestranze, forse itineranti, motivate da una intensa spiritualità, che l’attenzione si sposta dallo spazio costruito allo spazio vissuto, cioè alla capacità che esso deve avere di comunicare con il fedele e di infondergli quella tensione spirituale ed emotiva utile ad un suo accostamento intimo e partecipato alla sacralità del luogo. Si è parlato, a questo proposito, della funzione centrale svolta, sul piano visivo e concettuale, dall’altare, oggi non più esistente ma ancora intatto e al suo posto fino alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, allorché venne distrutto, a quanto si dice, in seguito ad un atto van-
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
dalico. Di esso ci rimangono soltanto alcune vecchie e sbiadite fotografie,(Figg. 40 a-b; Tav. IV) due risalenti all’estate del 1891, scattate da R.Salvatori, e altrettante eseguite dal Pievano Rossetti nel 1940, conservate nell’Archivio della Pievania di San Michele Arcangelo di Montefortino, più una parziale inquadratura dell’agosto 1968, la più recente in nostro possesso, illustrata nell’opera di Pompilio Bonvicini.148 Tutte ci mostrano una massiccia struttura realizzata, sembrerebbe, con l’uso di masselli a vista, lunghi e schiacciati, di dimensioni varie e dall’aspetto anonimo, assolutamente priva di pregi estetici. Pressoché impossibile determinarne una datazione, che potrebbe, in teoria, essere anche più recente rispetto alla edificazione del sacello. Gli unici dati certi riguardano la sua collocazione, a ridosso delle due colonne terminali n. 7 e 8, e la perfetta coincidenza dimensionale con l’ampiezza della navatella centrale. La sola parte attualmente superstite è costituita da alcuni frammenti della grande lastra marmorea di spoglio che fungeva da mensa,149 spaccata in quattro pezzi(Fig. 41) che giacciono uno (m 1,19 x 0,95; spess. max. m 0,08) sul pavimento fra le due ultime colonne, e gli altri tre (m 0,71 x 0,70; 0,64 x 0,45; 0,37 x 0,34) appoggiati alla parete absidale. Lo scorcio fotografico del Bonvicini, molto parziale ma inquadrato da distanza ravvicinata, consente di distinguere il bordo anteriore il quale presentava originariamente una semplice modanatura, mentre le analisi archeometriche eseguite per determinare la natura del materiale litico (campione MS 9, Figg. 74-75, 89), hanno restituito rapporti isotopici δ13C – δ18O che lo identificano come raffinato marmo greco insulare di Paros,150 anche se non appartenente all’olotipo in assoluto più pregiato. Di notevole interesse risultano le notizie sull’ara, più ancora che sulla cripta, riferite dai più volte nominati “Inventari” settecenteschi appartenenti all’Archivio parrocchiale di San Michele Arcangelo di Montefortino (APMO). Il più antico, e il più dettagliato sull’argomento, l’Inv. Nardi (1728), ci informa (f. 3 v.) che “…Sotto esso Presbiterio vi è lo Scurolo, o siasi Sacello sotterraneo, al quale si discende per due scale di Pietra laterali, che conducono al piano di esso, dove si vede la Struttura dell’Archivolto sostenuto da otto Colonne tutte ineguali, e di diverse pietre, e marmi, disposte in modo che formano tre picciole Navate dell’ampiezza del Presbiterio Superiore sostenuto da esse. A capo della
Navatuccia di mezzo si vede un antica Struttura di Ara, overo Altare di lunghezza palmi romani sei, e oncie quattro, di altezza palmi cinque, e mezzo; di larghezza palmi quattro meno un oncia. Sopra di esso vi è una Lapide marmorea bianca, che forma la mensa dell’Ara di grossezza oncie tre, e mezza; di lunghezza palmi sette, e oncie nove; di larghezza palmi quattro, e oncie due, spogliata d’ogni sagra Suppellettile”.
69
Fig. 40 a Foto d’epoca della cripta con l’antico altare collocato nella zona absidale: scorcio da Sud- Ovest. Fig. 40 b Inquadratura dall’ingresso.
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Tav. IV Assonometria della zona absidale con inserimento virtuale dell’antico altarino.
L’abbondanza delle informazioni riferite dal Nardi ci consente di risalire, con buona approssimazione, alle dimensioni originarie tanto dell’altare, quanto della sovrastante lastra. Il primo doveva presentarsi, all’incirca, lungo m 1,65; alto m 1,43 e largo m 1,02. Della seconda, invece, è possibile ricostruire una lunghezza di m 2,02 x m 1,08 di larghezza ed uno spessore di m 0,077, coincidente, in pratica, con quello ancora oggi rilevabile (m 0,078/80).151 Sulla base di tali misure, la lastra di copertura, con una originaria superficie, dunque, di oltre 2 m2 (2,18) ma con uno spessore di soli 8 cm, sembra potersi interpretare come parte di un antico rivestimento marmoreo destinato, presumibilmente, alle pareti interne di un edificio di una certa importanza, se poteva fregiarsi di un antepagmentum in marmo Pario tagliato in lastre monolitiche di grande modulo. Meno probabile è da ri-
70
tenersi, a nostro avviso, l’ipotesi della sua appartenenza ad una pavimentazione, considerando, soprattutto, il basso coefficiente di MGS, cioè la struttura a grana fine (inferiore ai 2 mm) della componente dei cristalli di calcite, che denota una fragilità del pezzo poco adatta ad un piano di calpestio.152 Sempre il nostro “Inventario”, poi, parlando poco più avanti (ff. 3 v.-4 r.) della prima visita pastorale svolta nel 1726 a Montespino dall’Arcivescovo di Fermo Mons. Alessandro Borgia, afferma che, una volta entrato nella cripta, “…fermatosi egli con diligenza, e riflessiva ispezzione dettatagli dal suo pio cuore, ebbe all’occhio, che il muro di detta Ara dalla parte posteriore verso l’occaso era in un luogo sciolto…Per lo chè raddoppiando le sue ispezzioni fece adito all’occhio, indi alla mano di penetrare al di dentro, dove vide, e toccò nel mezzo di esso muro una Pietra con tutte le parti
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
discontinuata da esso, di figura quasi quadrata, et incavata dalla parte che veniva coperta dalla gran pietra di sopra, che forma la Mensa, come s’è detto:…colla credenza, che quella fosse un Sepolcro di Reliquie solito collocarsi sotto la Mensa degli Altari, allorché si consagrano,…con indicibile Carità tirò fuori coll’ajùto del Clero assistente (non potendo da se solo) quel Sepolcro, dentro il quale si vidde esservi alcuna poca polvere mischiata con qualche pezzetto palpabile e visibile di Legno, che può credersi, fosse un scattolino, che racchiudesse le sagre Reliquie dei Santi”. La testimonianza ci fornisce una circostanziata ed esplicita descrizione del ritrovamento dei resti di sacre reliquie, forse custodite in un contenitore di legno, che furono successivamente trasferite dal Pievano Nardi in una nicchia ricavata sotto la predella dell’altare maggiore della chiesa.153 Si tratta di un documento particolarmente utile ed interessante in quanto, assieme all’atto di consacrazione della pieve nel 1064 a ben quattro Santi martiri (Pancrazio, Giorgio, Savino e Giuliano) specificatamente nominati, oltre all’Arcangelo Michele, conferma lo svolgimento di cerimonie lipsanolatriche all’interno della cripta e la sua funzione di luogo di devozione collettiva e di pellegrinaggio. Si comprende, dunque, il perché delle specifiche forme architettoniche che lo caratterizzano finalizzate ad offrire ai fedeli un ambiente carico di suggestione, un prezioso scrigno di memorie classiche tanto più percepibili nelle loro qualità estetiche, quanto più in contrasto con la spoglia essenzialità del contesto monumentale. Il vano ipogeo con il suo antico altare vengono illustrati, in modo però più sommario, anche dal più tardo Inventario Franceschini (1771) il quale, riprendendo quasi alla lettera il precedente testo del Nardi, ci informa che “A capo della Navatuccia di mezzo si vede u(n)a antica struttura di Altare con sopra una Lapide di Marmo bianco, che forma la Mensa dell’Ara, spogliata però d’ogni Sagra Suppellettile, trovandosi soltanto ivi appeso un piccolo quadrucciolo rappresentante Gesù Cristo Crocifisso”.154 Nonostante l’essenzialità della descrizione, dovuta alla loro natura di semplici registrazioni di oggetti e beni appartenenti alla pievania, entrambe le fonti concordano nel concentrare l’attenzione, più che sull’ambiente in sé e sugli antichi materiali di spoglio di epoca romana reimpiegati all’interno, soprattutto sulla struttura dell’ara
Fig. 41 Un frammento superstite della mensa d’altare.
e sulla grande lastra di copertura avvertite, evidentemente, come prezioso reliquiario votato alla pubblica venerazione. Questa fu, molto probabilmente, la sua funzione primaria, più che di arredo destinato alle normali celebrazioni liturgiche per il cui svolgimento risultavano, evidentemente, assai poco idonee le sue notevoli dimensioni, soprattutto in altezza (m 1,43).155
D. I reimpieghi antichi e lo spazio consacrato Con l’analisi dell’antica ara montespinese, condizionata purtroppo dal limitato ventaglio dei dati di cui oggi disponiamo, si è concluso lo specifico studio storico-archeologico dei materiali di spoglio reimpiegati nella cripta. É giunto, perciò, il momento di procedere, ora, all’esame delle modalità del loro riutilizzo nel nuovo contesto edilizio, alla valutazione dei sottintesi simbolici che connota ciascuno di essi in rapporto alla precisa collocazione e alle reciproche relazioni che li uniscono, e quindi, in definitiva, alla comprensione dell’intimo legame che unisce il pezzo antico allo spazio consacrato. É questo, infatti, il luogo in cui non soltanto si attua una autentica rivoluzione estetica, ma prende forma anche un profondo messaggio spirituale dall’incontro/scontro, dall’osmosi/antitesi fra brandelli della grande civiltà greco-romana e istanze religiose del pensiero cristiano medievale. Osservando con attenzione come si caratterizzano e il modo in cui si distribuiscono le otto colonne, con relativi capitelli, che scandiscono le tre navatelle, è indubbio che
71
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
solo eccezionalmente siamo in presenza di soluzioni affidate al caso o scaturite da improvvisazioni prive di finalità. Esiste, infatti, una precisa regia in base alla quale ogni elemento trova la sua giustificazione contestuale all’interno di un progetto unitario e mirato che governa l’intero organismo architettonico. Si viene, cioè, a determinare al suo interno una sorta di percorso visivo destinato ad assumere, agli occhi del fedele, un valore anagogico nel graduale avvicinamento dall’angusto ingresso verso l’altare, meta finale del cammino spirituale. Appare, così, in tutta la sua evidenza come l’organizzazione dello spazio e il posizionamento delle diverse parti che lo compongono, siano stati studiati e programmati secondo un criterio gerarchico finalizzato al raggiungimento di tale scopo.156 Considerando, dunque, il piccolo presbiterio come punto di arrivo fisico e simbolico lungo il cono prospettico della cripta,(Tavv. V-VI) si può notare, innanzi tutto, un progressivo crescendo dimensionale dei fusti il cui diametro, mediamente contenuto entro il limite di m 0,268, si avvicina, invece, al mezzo metro nelle due colonne finali che fiancheggiavano l’altare, monumentalizzando in questo modo, come si è già accennato, l’ara con il suo contenuto di sacre reliquie e le funzioni religiose che, in determinate circostanze, qui si celebravano. Un analogo climax, questa volta qualitativo, sembra a prima vista potersi individuare, in parte, anche nei capitelli, in particolare per quanto concerne il loro stato di conservazione che, procedendo sempre dall’ingresso in direzione dell’abside, sembra evolversi verso condizioni di maggiore integrità strutturale. Ad eccezione della colonna mediana sinistra n. 4, nella quale la sommarietà dell’esecuzione è giunta, addirittura, a sostituire il capitello con schematiche sagome geometriche in laterizio, in tutte le altre sette ci troviamo, in effetti, di fronte ad una sequenza di tipologie corinzie che partendo dagli esemplari, apparentemente, più danneggiati (n. 1-2), passano via via a quelli meno deteriorati (n. 5-6), compresa la variante della base ionico-attica rovesciata della colonna 3, fino a giungere ai due capitelli delle colonne terminali (n. 7-8), in assoluto i più appariscenti e i meglio conservati. Questi ultimi, pur rientrando entro orizzonti tipologico-cronologici tra loro lontani, trovano nella ricchezza ornamentale, giunta in uno stato di limitato degrado e di discreta leggibilità, un evidente denominatore comune che li colloca in perfetta sintonia con
72
l’importanza contestuale e ideologica della sede da essi occupata. Assistiamo, in altre parole, al riproporsi, in scala ridotta, di una consolidata linea di tendenza affermatasi nelle pratiche di reimpiego all’interno, soprattutto, delle navate degli edifici religiosi dove non è infrequente osservare una stretta relazione fra varietà stilistiche dei capitelli, unitamente alle differenti condizioni di integrità di ognuno, e la loro dislocazione lungo l’asse longitudinale del corpo di fabbrica. A quella che viene comunemente definita “gerarchia degli ordini”, se ne aggiunge, dunque, una seconda che potremmo definire “gerarchia formale”:157 è da entrambe che dipende la distribuzione dei manufatti nell’ambito dei diversi settori del luogo consacrato, attraverso un crescendo culminante nello spazio presbitero-absidale dove il pezzo antico, con la dovizia e la perfezione estetica dei repertori decorativi, diventa metafora di eterna glorificazione della fede, di rinnovamento spirituale e di salvezza.158 Quanto affermato fin qui, pur rimanendo sul piano interpretativo una valida e probabile chiave di lettura delle scelte operate dalle maestranze medievali, va, tuttavia, valutato con la dovuta prudenza. La situazione, infatti, così come oggi si presenta ai nostri occhi, potrebbe anche essere il risultato di manipolazioni ed interventi distruttivi avvicendatisi nel tempo. Pertanto, esiste la concreta possibilità che a deteriorare l’aspetto originario dei vari capitelli, indipendentemente dall’azione dei fattori ambientali responsabili solo delle più recenti alterazioni cromatiche superficiali, siano stati, in certi casi, anche atti di vandalismo perpetuati in epoche non lontane e che, quindi, le loro condizioni, al momento della edificazione del sacello, fossero diverse da come appaiono attualmente. Del tutto assente, invece, come è logico aspettarsi durante secoli e in ambienti privi del necessario retroterra di esperienze e conoscenze sulla produzione artistica del mondo antico, la consapevolezza del valore intrinseco dei materiali impiegati in epoca romana. Di conseguenza risultano, in questo caso, inevitabilmente mescolati e al di fuori di ogni ordine gerarchico prestabilito, il marmo bianco Lunense e il Proconnesio, il Pentelico e il Pario, non senza inserti anche in più comune pietra calcarea locale. Per lo stesso motivo, non esiste, ovviamente, nemmeno alcun tentativo di abbinamento tipologico fra le varietà dei “corinzi” qui riutilizzati. Così, dunque, accade che manufatti cronologicamente coevi, o da ascriversi ad orizzonti
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
Tav. V Assonometria dalla zona absidale verso l’ingresso. Tav. VI Assonometria dall’ingresso verso la zona absidale.
di poco distanti, accomunati da affini peculiarità stilistiche e dalla dipendenza da analoghe tipologie mediorientali, si trovino posizionati alle estremità opposte senza alcun coordinamento reciproco: esemplare dimostrazione ci è offerta, al riguardo, sia dai capitelli più antichi, collocati il primo sulla colonna 1 e il secondo sulla colonna 8, sia da
quelli di età imperiale medio-tarda, riconducibili a produzioni microasiatiche, posti a coronamento rispettivamente della colonna 2 e della colonna 7. Soltanto con gli esemplari n. 5 e 6, posizionati l’uno di fronte all’altro, ci troviamo in presenza di un abbinamento basato sul cosiddetto “principio della simmetria
73
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
delle coppie”,159 con due capitelli di tipo “corinzio asiatico” a foglie lisce con apice ricurvo e pendulo usciti da botteghe proconnesie di II sec. d.C. avanzato, o degli inizi del successivo. Con tutta probabilità si tratta di una coincidenza, favorita forse dalla loro compatibilità dimensionale rispetto ai diametri dei fusti calcolabile, in entrambi i casi, in un rapporto compreso fra 5:3/5:4. Tuttavia, non si può escludere del tutto che, questa volta, la scelta sia stata dettata anche dalla volontà di accostare, sull’asse trasversale, due manufatti tipologicamente quasi identici. Il fogliame, privo della rifinitura finale, si prestava, tra l’altro, ad essere facilmente sovraddipinto di rosso vivo creando, così, un vivace contrasto con la colorazione verde di tutte e due le colonne: la prima in marmo verde Tessalico, la seconda in Cipollino verde Euboico. Se così fosse, avremmo allora a che fare con una forma di elaborazione mentale più sofisticata, in grado di compiere una precisa scelta che, ad un parziale recupero del canone classico fondato sull’organicità stilistica degli elementi architettonici e sulle loro corrispondenze ritmiche, introduce una nuova estetica basata sugli abbinamenti cromatici la quale, come si approfondirà tra breve, ha concorso ad indirizzare l’operazione di recupero e adattamento dei pezzi antichi. Comunque sia, appare abbastanza evidente come il fattore dominante dell’impianto progettuale sia costituito da un significato metaforico attribuito all’architettura sacra, nella quale lo spazio reale si trasforma in un nuovo spazio interiore. Al suo interno, la selezione dei materiali di spoglio, pur prevedendo certamente anche criteri qualitativi, non si esaurisce, però, nella valutazione delle peculiarità formali intrinseche dei singoli manufatti. La bellezza, infatti, non costituisce un valore assoluto in sé, ma è sempre dipendente dal significato che l’oggetto può assumere in rapporto a dove esso viene riutilizzato e alle relazioni che si vengono ad istituire con il contesto d’insieme. A Montespino è chiara, infatti, un’attenta gerarchizzazione dei vari reperti antichi, la cui diversa qualità, e forse anche il differente stato di conservazione, diventano gli agenti determinanti nell’assegnare a ciascuno di essi una sede particolare in funzione del percorso materiale e spirituale compiuto dal credente nel suo avvicinarsi al
74
cuore del luogo consacrato. Conseguentemente, il valore che viene riconosciuto allo spolium dipende dal ruolo assegnatogli sulla base di un principio del tutto estraneo al mondo classico dove il particolare architettonico o decorativo era considerato in relazione, non al contenuto simbolico che era in grado di trasmettere allo spazio fisico, ma al potenziale estetico che poteva derivargli dalla singolarità degli aspetti figurativi, dalla qualità della tecnica esecutiva e dal prestigio di cui godevano il luogo d’origine e le officine specializzate di produzione. Occorre, a questo punto, soffermarsi con attenzione particolare su un aspetto, a cui è già stata dedicata qualche anticipazione, il quale, oltre alle caratteristiche dimensionali delle colonne e alla caratterizzazione estetica e simbolica dei capitelli, contraddistingue in modo accentuato e singolare gli otto sostegni. Si tratta della non comune importanza assegnata ai colori e ai loro accostamenti deliberatamente ricercati fra fusti, o parti di essi, e capitelli, quasi sempre affidati alla policromia naturale dei materiali ma, in certi casi, ottenuti anche attraverso interventi di sovraddipintura degli elementi ornamentali dei kalathoi che meglio si prestavano a tale operazione. Questo discorso chiama, naturalmente, in causa la ricca varietà di litotipi, italici o di importazione greca e microasiatica, ai quali è dedicata l’ampia trattazione del Cap. IV. In questa sede, quindi, essi verranno presi in considerazione solo in rapporto alle specifiche qualità cromatiche e, soprattutto, al risultato estetico che scaturisce, tanto dai reciproci abbinamenti, quanto dagli effetti che si riverberano nella luce e nell’atmosfera mistica del piccolo vano ipogeo. A tale scopo, onde agevolare una visione d’insieme sulla vasta gamma di pietre e marmi, bianchi e colorati, che compongono le diverse parti di ciascuna colonna, si ritiene utile introdurre la seguente tabella, abbinata alla restituzione assonometrica della cripta corredata da apparato didascalico di riferimento,(Tav. VII) in cui si fornisce uno schema distributivo che relaziona le diverse qualità litotipologiche al contesto di reimpiego. Ciò, tra l’altro, offre anche l’opportunità di valutarne l’inconsueta concentrazione, sorprendente se si considera la ristrettezza dell’ambiente, e di rilevare l’ampia distribuzione delle aree geografiche di provenienza.
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
Marmi colorati
Colonne
Semicolonne
Rosso Ammonitico (B)
1, 3
Q (3 frr.) chiesa, navata Sud
Capitelli
Basi
4° gradino scala Sud?
Rosso venato di Chios (C)
1
Verde Tessalico (M)
5
Cipollino Verde Euboico (I)
4 (imoscapo) 6
Breccia Corallina (N)
7
Troadense (O)
8
Frammenti vari
fr. erratico muro Ovest
chiesa, abside Ovest: fr. erratico muro Sud
Marmi bianchi Lunense (A)
1, 7 – 8
Pario (P)
4 frr. mensa ex ara e 3°gradino scala Sud?
Pentelico (D)
2
Proconnesio (L)
G, N
5–6
Calcari R (imoscapo) chiesa, navata Sud
Calcare Appenninico Bianco Sporco (G) Biomicrite Appenninica Grigio/Avorio (F)
2
Calcare Appenninico Nocciola (E)
2 (sommoscapo) 4 (frr. mediani)
T (imoscapo) chiesa, navata Sud
2 3
4
Arenarie Arenaria Compatta Grigia (H)
4 (rocchio superiore)
(N.B.: le lettere alfabetiche inserite fra parentesi nella prima colonna, di fianco a ciascun litotipo, si riferiscono a quelle riportate sull’assonometria digitale della Tav. VII, p. 78).
La sinossi qui illustrata ci fornisce alcuni dati interessanti relativi anche alla compresenza, nella medesima colonna, di molteplici varietà marmoree e di pietre calcaree caratterizzate da colorazioni che riescono a fondersi, o in certi casi a contrastare, dando origine spesso a soluzioni di inusuale vivacità cromatica. Un aspetto, questo, che appare in controtendenza rispetto a quanto, più comunemente, si verifica nelle operazioni di reimpiego dove sono soprattutto le varietà tipologiche e funzionali delle diverse parti, liberamente abbinate fra loro, ad arricchire il supporto di animazione plastica e di originali qualità estetiche. Riconsiderando, sotto questo profilo, la colonna 1,(Fig. 42) colpisce la sua articolazione in tre parti distinte: il fusto, in marmo Rosso Ammonitico dai toni accesi e variegati;
la base, ricavata dall’imoscapo di una colonna in pregiato marmo Rosso venato di Chios, e il capitello, scolpito nel candido marmo Lunense. L’effetto, dunque, si rivela duplice: di stacco abbastanza netto fra capitello e fusto, e di delicata integrazione fra quest’ultimo e la base di appoggio, appena movimentata dalla presenza di noduli rosato-rossicci su cemento marnoso rosso brillante nel primo, e di maculazioni e venature irregolari bianche e avorio su matrice rosso bruno intenso nella seconda. Decisamente diversa, invece, risulta la modulazione cromatica che caratterizza la colonna 2:(Fig. 43) si susseguono qui, infatti, gradazioni più chiare giocate su morbide varietà grigio-bianco-beige di ben quattro tipi diversi di materiali distribuiti con un ritmo alternato: dal biancore, percorso da lievi striature a cristalli bluastri, del
75
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 42 Colonna 1. Fig. 43 Colonna 2. Fig. 44 Colonna 3. Fig. 45 Colonna 4.
marmo Pentelico del capitello, si passa ai toni pastosi del calcare nocciola del sommoscapo, per transitare, successivamente, al grigio-avorio della biomicrite appenninica del fusto, per altro valorizzato dal tenue chiaroscuro delle scanalature tortili, ed infine al bianco sporco dell’alta base liscia d’appoggio. Il risultato complessivo, in questo caso, è costituito da una intonazione apparentemente mono/bicromatica, ma in realtà modulata su garbate sfumature che transitano da “nuance” calde del nocciola/avorio fino ai punti cromatici più freddi del bianco azzurrognolo. Fu probabilmente questo il motivo per cui si decise di vivacizzare l’insieme attraverso un intervento di sovraddipintura del fogliame del capitello in rosso cinabro, così da ottenere, almeno nella zona sommitale, un contrasto più deciso in parziale sintonia con la adiacente colonna 1. Passando alla colonna 3,(Fig. 44) assistiamo ad un ritorno, pur se in forma più attenuata, al tipo di abbinamento applicato nella prima colonna. Incontriamo, infatti, la brillante cromia del Rosso Ammonitico del fusto, qui, però, a stilobate e quindi senza supporto distinto da diversa colorazione, sopra il quale si imposta, con funzione di capitello, la base ionico-attica capovolta, nuovamente in
76
biomicrite grigio chiaro tendente ad un avorio un po’ più scuro, che ripropone un analogo accostamento caratterizzato da un timbro meno acceso. Come si è detto in precedenza, la successiva colonna 4(Fig. 45) è l’unica dell’intera cripta ad essere contraddistinta da aspetti strutturali del tutto insignificanti, anche se, a modo suo, ma assolutamente senza alcuna intenzionalità, la cospicua parte del fusto e dello pseudo-capitello realizzati in laterizio rosso scuro, riesce a raggiungere un qualche effetto cromatico nella combinazione, peraltro frammentaria, con l’arenaria grigia del rocchio superiore, col Cipollino Verde dell’imoscapo e con il grigio-avorio della base d’appoggio. Ben altro interesse, invece, suscita la colonna 5,(Fig. 46) soprattutto in virtù del pregiato marmo Verde di Tessaglia (“Verde Antico”) dal quale è stato ricavato il fusto. Delicatissima risulta la maculazione lattea e nera dei clasti di sagoma amigdaloide e globulare, amalgamata al verde chiaro della matrice che restituisce un variopinto effetto brecciato di grande fascino estetico.(Fig. 79) Protagonista, in origine, doveva poi essere lo smagliante contrasto con la tinteggiatura rosso vivo del kalathos a foglie lisce, ottenuto tramite l’accostamento di due colori comple-
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
Fig. 46 Colonna 5. Fig. 47 Colonna 6. Fig. 48 Colonna 7. Fig. 49 Colonna 8.
mentari i quali erano sicuramente in grado di accendere una nota di brillante luminosità nella soffusa penombra dell’ambiente sotterraneo. Un contrasto arricchito, contemporaneamente, dal candore del marmo Proconnesio del capitello che doveva emergere nelle zone risparmiate dall’intervento pittorico. Purtroppo, questa varietà di abbinamenti risulta, oggi, irrimediabilmente compromessa dall’avanzato stato di deterioramento superficiale, a volte penetrato anche più in profondità, che ha abbondantemente ricoperto di Cloroficee la struttura porosa del kalathos uniformandone la originaria bicromia rosso/bianca su una innaturale tonalità spenta color verde marcio. Analoga sorte, almeno in parte, è toccata anche al capitello della adiacente colonna 6(Fig. 47) nel quale le estese efflorescenze, attecchite principalmente sulle facce Est e Sud, hanno quasi del tutto alterato quella che, in origine, doveva essere la gradevole combinazione fra il bianco del Proconnesio, forse anche in questo caso vivacizzato da una colorazione rossa, con il verde del marmo Cipollino euboico della colonna. Quest’ultimo, presente nella facies a striature verde chiaro intervallate da inserti biancastri, doveva costituire quasi il “pendant” della co-
lonna 5, confrontabile altresì per le dimensioni del fusto, praticamente coincidenti, e per la resa del collarino. Ci troviamo, infatti, in presenza di due sostegni pressoché identici (corredati per di più da capitelli tipologicamente uguali) assimilabili per una colorazione caratterizzata, in entrambi, da una dominante verde intenso variegata da screziature bianche modulate su gradazioni da lattee a eburnee. Anche sul piano delle corrispondenze cromatiche, oltre che morfologiche, sembra, dunque, confermarsi l’applicazione del “principio della simmetria delle coppie” che, in questo caso specifico, rispondeva probabilmente a una duplice finalità: la prima, di rivolgere al fedele un richiamo visivo in prossimità di quello spazio presbiteriale che costituiva il punto di arrivo, percettivo e simbolico, del progressivo avvicinamento all’altare; la seconda, di delimitare, forse, due distinte zone fungendo quasi da linea di demarcazione fra il settore riservato ai membri della comunità religiosa, e quello collocato in posizione più arretrata destinato, invece, ai fedeli. Pervenuti, così, nel cuore della cripta, è possibile osservare un interessante cambio di indirizzo nella scelta dei materiali di spoglio, attenta ora non più unicamente alle tonalità di pietre e marmi e agli effetti derivanti sia dai
77
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Tav. VII Assonometria con riferimenti alfabetici alle diverse qualità di marmi utilizzate (vedi tabella pag. 75).
reciproci abbinamenti, sia dagli interventi di pigmentazione dei kalathoi, ma soprattutto al senso di opulenza e solennità che il manufatto doveva trasmettere sulla base di due fondamentali requisiti: dimensioni dei fusti e prerogative estetiche dei capitelli. Queste ultime, in particolare, sembrano aver svolto un ruolo primario in relazione, tanto alla qualità dei litotipi, quanto al buon livello della tecnica esecutiva. Non secondario sembra sia stato, a questo proposito, come criterio selettivo anche un soddisfacente stato di conservazione, ritenuto evidentemente un valore aggiunto adeguato alla specifica contestualizzazione dei singoli pezzi. Evitando di soffermarsi su tali aspetti, già approfonditi a sufficienza nelle pagine precedenti, è utile osservare nella colonna 7(Fig. 48) il riuscito accostamento fra la delicata colorazione rosa-corallo del marmo Sagario, rotta dalla frequente intromissione di grossi clasti biancastri e avorio, e la purezza del bianco Lunense. Tuttavia, nonostante il tono gradevole dell’insieme, è abbastanza probabile supporre che non fossero simili sofisticati cromatismi, giocati sulle smorzate gradazioni delle due matrici marmoree, a svolgere un ruolo catalizzatore nei confronti di
78
chi sostava di fronte all’altare/reliquiario. Come, infatti, si è già rimarcato, la uniforme presenza di diffusi e delicati aloni rosati sul fogliame acantaceo potrebbe suggerire, se interpretata come residuo di imprimitura, l’ipotesi di un intervento di colorazione andata completamente perduta a causa degli agenti climatico-ambientali la cui negativa incidenza sarebbe, in teoria, responsabile della perdita del potere colloidale della sottostante preparazione. Non si può escludere, tra l’altro, che proprio quest’ultima abbia indirettamente creato una sorta di pellicola protettiva capace di preservare la superficie, come nell’adiacente capitello 8, da quelle forme di degrado che negli esemplari n. 2, 5 e 6 è stato, invece, all’origine non solo del processo di depigmentazione, ma anche degli avanzati stadi di alterazione cromatica dei marmi e, in qualche caso, dei fenomeni della loro parziale destrutturazione.160 Non dimentichiamo infatti, a questo proposito, la particolare prossimità dei due ultimi supporti alle monofore absidali aperte verso l’esterno e, quindi, la loro esposizione diretta a fattori altamente patogeni, identificabili principalmente nelle variazioni termo-igrometriche e nella conseguente formazione di colonie di microrganismi.
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
Nonostante ciò, la loro prolungata azione dannosa, che per secoli ha messo a repentaglio l’incolumità dei manufatti, non è riuscita, di fatto, a lasciare tracce evidenti degli effetti degenerativi. Concludendo la nostra analisi con l’ultima colonna (n. 8),(Fig. 49) e rinviando, anche in questo caso, a quanto è già stato detto a proposito degli aspetti dimensionali e della cifra stilistica dell’ornato naturalistico, meritano ancora una volta particolare attenzione le varietà marmoree che ne caratterizzano le parti che la compongono. Riguardo al fusto, si tratta di un classico esempio di marmo Troadense, dalla tipica consistenza granitoide di color grigio-violetto, fino a questo momento privo di una accertata documentazione nella regione picena. La morfologia di degrado, molto contenuta e circoscritta alla fascia dell’ipotrachelio, ha garantito al manufatto uno stato di conservazione abbastanza buono, senza significative alterazioni delle peculiarità tessiturali e dell’originale intonazione cromatica. La colorazione delicatamente violacea si armonizza perfettamente col candore dell’ottima qualità del marmo Lunense del capitello, dalla superficie lucida e quasi trasparente, avvolta da un leggerissimo velo rosa pallido della cui possibile natura si è in più occasioni parlato, destinato a conferire all’insieme un rilevante potenziale estetico. Le problematiche inerenti la selezione dei reperti di spoglio, e la loro diversa dislocazione sulla base di un preciso programma basato sulla semantica che acquisisce il pezzo antico all’interno dello spazio consacrato, non possono, però, ritenersi esaurite senza aver preso in considerazione un ultimo aspetto relativo, questa volta, alle sequenze dei supporti che scandiscono le tre navate.(Tav. VII) Si tratta di come le due file di colonne si dispongono lungo l’asse longitudinale secondo due diversi criteri distributivi: quella di destra (Sud) contraddistinta, oltre che da una regolare progressione dimensionale (diametri di m 0,23-0,24-0,24-0,37), anche dalla qualità dei singoli pezzi, tutti, o quasi, ricavati da marmi di pregio; quella di sinistra (Nord), invece, priva di una successione coerente nelle proporzioni dei fusti e costituita in alcuni casi da sostegni più eterogenei (colonne 2 e 4), composti da segmenti disparati e, non di rado, di valore assai più modesto. La fila meridionale, infatti, partendo dall’ingresso
Tav. VIII Chiesa: assonometria della navata destra (settore presbitero-absidale).
79
Tav. IX Navata destra: ortofotomosaico digitale della parete Nord (particolare della scala discendente dal presbiterio).
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 50 Chiesa: tratto terminale della navata destra.
si colora di vivace Rosso Ammonitico, presente con ben due esemplari consecutivi, di Rosso venato Chiota, di pregiato Verde di Tessaglia e di Breccia Corallina. Nella fila Nord, al contrario, oltre a frequenti inserti in calcari opachi di varia natura, arenarie grigie e semplici laterizi, spiccano unicamente il fusto 6 in Cipollino Verde, peraltro di una varietà listata piuttosto commerciale, e il n. 8 in marmo Troadense, raro, come si è detto, a livello regionale, ma di per sé un granito di non elevata qualità. Diversa anche, tra i due filari, la scelta degli accostamenti cromatici, decisamente più vivaci ed appariscenti a destra che a sinistra. Meno accentuata, invece, sembra la diversificazione dei capitelli dal punto di vista sia delle tipologie, sia delle varianti marmoree, anche se a Nord più precario sembra, mediamente, lo stato di conservazione e, soprattutto, più discontinua la loro sequenza in seguito all’introduzione di un sostegno (colonna 4) contraddistinto da una struttura molto rudimentale che addirittura ne ha eliminato la presenza. Una ripartizione così particolare degli elementi portanti sembra piuttosto improbabile che possa imputarsi semplicemente ad un caso, senza che alle spalle sia intervenuto, in seno al cantiere, un meditato e consapevole progetto dettato da precisi intendimenti simbolico-liturgici. Considerando, dunque, la plausibile intenziona-
80
lità di una scelta indirizzata, ancora una volta, ad una forma di gerarchizzazione del contesto architettonico, rimane da chiedersi in che modo interpretare tale operazione e quali finalità ne furono all’origine. In linea generale, è del tutto verosimile che esso rientri nell’ambito di quel processo di stravolgimento, sovente radicale, dei canoni classici in vista di una nuova proposta estetica, di cui si è già a lungo parlato,161 e che, quindi, si possa affermare, riprendendo il concetto espresso al riguardo dalla Fabricius Hansen,162 che, anche in questo caso, “diversity was much more decisive than homogeneity as an aesthetic quality in architecture”. In effetti, già a partire dal IX sec. in poi, non è così infrequente incontrare edifici religiosi in cui prevale la tendenza a trasgredire il “principio di accoppiamento delle parti”, come ci confermano illustri precedenti quali, ad esempio, San Giorgio al Velabro (827-844) e San Nicola in Carcere (XI sec.) a Roma,163 dove i colonnati di destra si presentano realizzati, anche qui, con materiali più vari e di maggior pregio rispetto a quelli del lato opposto. Nella cripta di Montespino, significativamente analoga ai monumenti citati per il manifestarsi della medesima dissonanza tra i filari Sud e Nord, con una netta prevalenza, nel primo, di materiali selezionati e di qualità, siamo, però, di fronte ad una realtà forse più articolata e complessa che dipende, verosimilmente, dalla organizzazione planimetrica e funzionale complessiva dell’intero edificio sacro. É possibile, infatti, che nell’applicazione di questa “regola” abbia in qualche misura influito anche la funzione svolta dalla navata superiore destra della chiesa destinata, in corrispondenza dello spazio absidale, allo svolgimento del rito del battesimo e allo scopo dotata, infatti, di una autonoma porta laterale d’ingresso, oltre ad essere raggiungibile grazie ad una breve scalinata discendente dal presbiterio.(Tavv. VIII-IX) Non è, tra l’altro, un caso che soltanto qui, nell’ultima campata dove le strutture murarie precedono l’absidiola contenente il fonte battesimale, siano stati inseriti in alcune delle semicolonne perimetrali (Q, R, T) frammenti antichi i quali, sebbene modesti e limitati, segnalavano comunque la rilevanza liturgica del luogo.(Fig. 50) 164 É facile, perciò, comprendere come quest’ala del fabbricato fosse particolarmente frequentata ed avvertita dai fedeli come luogo che incarnava il concetto di purifica-
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
zione e di fonte della vita dal quale risultava naturale e diretta la discesa in cripta, cardine spirituale dell’intero edificio, attraverso il varco più a portata di mano, vale a dire quello aperto a Sud. Si capisce, di conseguenza, come una volta penetrati all’imbocco dell’ipogeo, lo scenario che doveva spalancarsi allo sguardo del devoto richiedesse una sequenza di elementi architettonici in grado, per bellezza di forme e colori, di coinvolgerlo visivamente ed emotivamente. Ecco, dunque, la finalità di una studiata regia d’insieme che proprio alla varietà dei materiali pregiati e all’alternanza dei vivaci abbinamenti cromatici affidava il compito di creare un ritmo, una polifonia di grande forza comunicativa che costituiva la premessa al successivo momento di raccoglimento e preghiera all’interno di uno spazio che rivela, in questo modo, tutta la sua complessità concettuale. La palese minor cura prestata nella scelta e nella realizzazione dei sostegni del filare Nord può essere, così, interpretata, rimanendo in un’ottica di lettura in chiave mistica dell’approccio al riuso dell’Antico, tanto come decisione di esaltare, per contrasto, il colonnato destro, quanto come metafora di allontanamento dall’altare nel percorso di uscita attraverso il varco Nord e di ritorno, quindi, verso il mondo. Ipotesi, quest’ultima, da formularsi, naturalmente, con tutta la prudenza che impone la inevitabile soggettività di una esegesi rivolta a contenuti teologico-spirituali di tale portata.
E. Le ipotesi di provenienza Una ricerca mirata alla individuazione dei possibili contesti edilizi di provenienza dei reperti romani di Montespino, si rivela impresa tutt’altro che semplice se si vuole pervenire a ipotesi il più possibile circostanziate e credibili, sul piano archeologico e topografico, evitando generiche e semplicistiche attribuzioni a non meglio identificate realtà architettoniche della zona le quali, considerando la particolare dislocazione della nostra Pieve, sembrano, comunque, abbastanza scontate. A tale scopo, è opportuno cominciare da un esame attento di ciò che rimane cercando, innanzi tutto, di ricollegare idealmente tra loro colonne e capitelli che per dimensioni, peculiarità tipologiche, orizzonte cronolo-
gico e, in qualche caso, qualità dei materiali, si può presumere appartenessero in origine al medesimo ambito monumentale. L’operazione, quindi, rende necessario, in questo caso, ribaltare il procedimento analitico fino a qui seguito. Non è più, infatti, il momento di affrontare il problema del reimpiego visto come risultato di una complessa manipolazione dell’Antico raggiunto attraverso l’abbinamento di parti eterogenee per forma e destinazione al fine di elaborare un alternativo programma ideologico ed estetico. Il compito, ora, è invece quello di “smontare” i reperti di spoglio e di risalire, nei limiti del possibile, ai nessi strutturali che collegano le diverse componenti individuando quelle oggettive affinità morfologico-stilistiche stravolte e rimescolate dagli interventi di epoca medievale. Un primo dato che è possibile ricavare con un buon margine di probabilità è costituito dalla correlazione esistente fra le colonne 1, 3, 5-6, alle quali va verosimilmente aggiunto anche il frammento inserito nella semicolonna Q della navata Sud della chiesa (h. m 0,28; Ø m 0,23). Tutte sono, infatti, accomunate dall’identità dei diametri, abbastanza contenuti e compresi fra m 0,23/0,24, e da una analoga modanatura del collarino a duplice toro schiacciato, appena più alto nella seconda coppia, con stretta gola intermedia. I quattro fusti, inoltre, sono del tipo “a stilobate” e si presentano realizzati in marmi d’importazione, di cui soprattutto due (Rosso Ammonitico, colonne 1, 3 e Verde di Tessaglia, colonna 5) di ottima qualità (un po’ inferiore il Cipollino della colonna 6) ancora apprezzabili malgrado i danni subiti, in particolare, dai verdi Euboico e Tessalico. Calcolando, inoltre, il plausibile rapporto di circa 1:10 fra il diametro all’imoscapo (media di m 0,239) e l’altezza totale della colonna, comprensiva del capitello il cui rapporto in altezza con il fusto è normalmente di 1:5, si ottiene un originario sviluppo complessivo di circa m 2,40, perfettamente compatibile con il sistema colonnato tanto di una struttura di dimensioni contenute, quanto di uno spazio confinato di ampiezza ridotta. Le varietà cromatiche dei fusti potrebbero, in teoria, indurre anche ad ipotizzare una appartenenza a contesti antichi tra loro diversi. Ciò è sicuramente possibile, ma va tuttavia tenuto presente che non è assolutamente raro
81
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
incontrare materiali di differente natura e colorazione all’interno di uno stesso edificio proprio allo scopo di impreziosirne le strutture e gli spazi da esse delimitati, specialmente quando si tratta di monumenti rappresentativi a livello urbano/territoriale o di vani prestigiosi appartenenti all’edilizia pubblica o privata. Di conseguenza, considerando anche altri aspetti determinanti, quali, soprattutto, le significative coincidenze dimensionali, le analogie tipologiche e le affinità cromatiche dei marmi, specie fra le colonne 1 e 3, risulta legittimo riconoscere ai quattro esemplari la stessa provenienza. Maggior incertezza sussiste, invece, sulla loro specifica destinazione anche se, come si vedrà più avanti, qualche ipotesi abbastanza concreta in merito è possibile avanzarla. Per concludere il discorso sui sostegni in esame, non va trascurata l’eventualità che anche il segmento di fusto a scanalature tortili inserito nella colonna 2, assieme al frammento della semicolonna T della navata Sud della chiesa (h. m 0,54; Ø m 0,268), possa rientrare nel medesimo raggruppamento. Lo suggeriscono, tanto la ricercatezza formale ravvisabile nella lavorazione a tortiglione, quanto, in parte, l’ampiezza dei diametri, di pochi centimetri superiore rispetto a quanto rilevato nelle coppie appena esaminate. In un caso del genere, i due esemplari sarebbero, naturalmente, da immaginarsi inseriti in una sede distinta da quella pertinente agli altri quattro, caratterizzati da un fusto un po’ più snello, da una lavorazione completamente diversa, a superficie liscia e non spiraliforme, e dall’uso di marmi di qualità a fronte della modesta pietra calcarea locale. Una seconda suddivisione potrebbe includere i due imoscapi, capovolti e riutilizzati come piedestalli delle colonne 1 e 2, il rocchio inferiore della colonna 4 e il fusto della colonna 7.165 Ad individuare un potenziale reciproco nesso tipologico interviene, nuovamente come fattore decisivo, la corrispondenza proporzionale dei diametri attestati su una media di m 0,370 (m 0,369; 0,369; 0,372; 0,372). É interessante, inoltre, rilevare nelle basi 1 e 2 l’analoga estroflessione dello spesso toro appiattito, anche qui con diametro massimo coincidente di m 0,417, e, ancora una volta, la natura particolarmente pregiata dei marmi che contraddistinguono tre dei quattro esemplari (n. 1: marmo greco insulare di Chios; n. 4: Cipollino Verde nella varietà a bande parallele; n. 7: Breccia Corallina)
82
evidentemente destinati ad arricchire una struttura di un certo rilievo. Riconsiderando la sostanziale identità dei diametri, a tutti i frammenti in esame è possibile applicare i medesimi rapporti numerici, già puntualizzati a proposito del gruppo precedente, che regolano la misura del diametro di base (media di m 0,370) rispetto all’altezza della colonna e fra quest’ultima e le dimensioni ricostruibili del capitello. I calcoli ci riportano ad uno sviluppo totale pari a circa m 3,70 restituendoci un contesto architettonico d’origine caratterizzato chiaramente da una maggiore imponenza rispetto a quello ipotizzato per i sostegni che compongono il primo raggruppamento. Va, tuttavia, precisato che l’accentuata frammentarietà dei reperti reimpiegati, ad esclusione del fusto n. 7, consiglia una doverosa cautela in tema di ipotesi ricostruttive. Risulta comunque, fin qui, abbastanza probabile riconoscere almeno due distinte fonti di spoliazione costituite da edifici proporzionalmente e tipologicamente diversi. I materiali di recupero, una volta selezionati sulla base della loro adattabilità a svolgere la funzione di sostegno nel sistema portante del nuovo contesto edilizio, sono stati, poi, liberamente rimescolati assumendo di volta in volta valenze estetiche, simboliche, o in certi casi semplicemente funzionali, in sintonia con le linee programmatiche tracciate dalle maestranze locali. Ad un terzo ambito architettonico ci riporta, invece, l’ultimo esemplare posto al termine del filare Nord: la colonna 8, la quale non risulta ricollegabile a nessuna delle due serie individuate. La monolitica stazza del fusto, con un diametro all’imoscapo di quasi mezzo metro, consente di risalire ad originarie dimensioni decisamente imponenti che ci proiettano verso modelli edilizi più evoluti e complessi da ricercarsi, presumibilmente, in una dimensione urbana. In un ambito di tal genere, tra l’altro, potrebbe trovare giustificazione anche il particolare tipo di materiale usato, il marmo Troadense, ricorrente il più delle volte in edifici di rilevanza monumentale, quasi sempre riconducibili nell’ambito di una committenza pubblica.166 Su tale problema, di non facile soluzione, si tornerà, comunque, più avanti nel momento in cui si cercherà di localizzare le possibili emergenze architettoniche da cui potrebbero provenire le singole colonne riutilizzate nella cripta.
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
Passando, ora, al riesame dei capitelli, le loro peculiarità tipologiche e decorative, dettagliatamente analizzate nelle precedenti pagine, consentono di delineare gli orizzonti cronologici entro i quali inquadrare i differenti complessi edilizi di età romana coinvolti nelle operazioni di spoglio pianificate dagli addetti al cantiere medievale. Premesso che per le colonne 3 e 4 non possiamo parlare di veri e propri capitelli, essendo stati sostituiti, nella prima da una base ionico-attica rovesciata e nella seconda da una rudimentale sagomatura geometrica in laterizio, dal punto di vista stilistico sono proponibili tre abbinamenti: due sono costituiti da coppie disposte secondo un immaginario schema incrociato a X: capitelli 1 e 8; capitelli 2 e 7. Il terzo dai capitelli 5 e 6 i quali si fronteggiano, invece, sulle rispettive colonne dei filari Nord e Sud.167 É opportuno, al riguardo, precisare che l’apparente corrispondenza chiastica fra le prime due coppie, posizionate alle estremità opposte di una ideale croce decussata, non sottintende alcuna elaborazione concettuale che rimandi ad una complessa simbologia “sacrificale” a sfondo soteriologico. Questo, soprattutto, perché implicherebbe una capacità, assolutamente inammissibile per l’epoca e l’ambiente culturale in cui ci troviamo, di distinguere sofisticate diversità stilistico-cronologiche all’interno di manufatti intesi solo a livello intuitivo e in modo del tutto generico come “antichi”, e di saperli, poi, relazionare fra loro attraverso un complesso procedimento mentale, rivisitandoli in chiave cristologica. Assai probabile frutto di una deliberata selezione, al contrario, può considerarsi l’accostamento dei capitelli 5 e 6 sull’asse trasversale delle navate, come accaduto anche per i rispettivi fusti in Verde Antico e in marmo Cipollino, accomunati da affinità cromatiche, oltre che dimensionali, adatte a contrastare con la sovraddipintura rossa dei due kalathoi. Appare, infatti, verosimile l’aver saputo individuare, anche da parte di occhi inesperti, la palese identità dei repertori ornamentali, caratterizzati dall’inconfondibile incompiutezza del fogliame, che si prestava ad un abbinamento forse funzionale, come si è detto, ad una sorta di delimitazione dello spazio consacrato di fronte all’altare. Anche dal punto di vista degli aspetti esornativi, dunque, sembra trovare conferma l’applicazione del già ricordato “principio di simmetria delle coppie”.168
Passando, infine, ad una sintesi delle datazioni proponibili per i sei manufatti considerati, le analisi formali e stilistiche indicano tre fondamentali ambiti temporali: il più antico, di orizzonte tardo-repubblicano e primo-imperiale, in cui rientra la coppia di capitelli 1 e 8; il secondo, di età severiana, riferibile ad un’epoca compresa fra la fine del II e gli inizi del III sec. d.C., al quale appartengono, invece, i capitelli 5 e 6; e infine il terzo, risalente al periodo tetrarchico-costantiniano, databile agli ultimi decenni del III o allo scorcio iniziale del IV sec. d.C., entro cui sono catalogabili i pezzi più tardi n. 2 e 7. In merito al quadro cronologico qui delineato, occorre considerare che l’apparente iato esistente fra il capitello 8, assegnabile all’ultimo quarto circa del I sec. a.C., e il capitello 1, forse già di età giulio-claudia, potrebbe spiegarsi considerando due ordini di fattori. Il primo concerne il grave stato di conservazione in cui versa l’esemplare n. 1 il quale, in buona parte compromesso da estese rotture che condizionano una corretta lettura morfologica dell’ornato, non consente di individuare accertati parametri tipologici di riferimento. Il secondo chiama in causa, invece, l’esemplare n. 8: nel caso, infatti, lo si consideri un manufatto uscito, come del resto è probabile, da una bottega regionale, potrebbe allora essersi determinato un fenomeno di attardamento, non così inusuale in ambiente provinciale, di stilemi dipendenti ancora da modelli cesariano-triumvirali reiterati all’interno di maestranze specializzate che operano ai margini dei circuiti produttivi più aggiornati. In quest’ottica, ad esso potrebbero, dunque, spettare termini di datazione più elastici con possibilità di un loro ritocco al ribasso di qualche decennio. Riguardo alla seconda coppia di capitelli (n. 5-6), non sembrano sussistere dubbi in merito tanto all’identità tipologica, quanto al periodo di appartenenza, nonostante, anche in questo caso, condizioni di degrado soprattutto dell’ornato interfogliare ostacolino una loro più dettagliata catalogazione. Assolutamente certa è anche la provenienza di entrambi dalle cave del Proconneso, certificata dai risultati delle analisi archeometriche dei rispettivi campioni (MS 5-MS 6),169 da dove, come si è detto, i pezzi furono esportati in uno stadio di semirifinitura, rimasto tale anche dopo l’arrivo nel luogo di smistamento e nell’antico contesto
83
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
definitivo di impiego. Quest’ultimo, tenuto conto della serie di significative corrispondenze messe più volte in luce, comprese le dimensioni (h. media m 0,32; Ø medio reale m 0,35), è assai probabile che fosse il medesimo e che rientrasse, per le ragioni di cui fra poco si parlerà, nell’ambito dell’edilizia privata. Concludendo con la coppia di capitelli 2 e 7, appare del tutto evidente come essi ripropongano un analogo e diffusissimo modello microasiatico ad acanto spinoso caratterizzato da una sequenza di stilizzate figure geometriche che prendono forma dal dispiegarsi del fogliame della corona inferiore, con punte simmetriche tangenti fra cespi contigui. Anche in questo caso, malgrado i danni inferti in particolar modo all’esemplare n. 2, tipologia e datazione risultano pienamente coincidenti. É pressoché impossibile stabilire, invece, se i due manufatti, usciti verosimilmente da botteghe diverse, potessero in origine appartenere ad un comune contesto architettonico: forma e dimensioni (h. media m 0,45; Ø medio reale misurato sulle rotture dei kalathoi, m 0,43) sembrerebbero indicarlo. Ciò che, comunque, è probabile, è che esso avesse una destinazione differente rispetto a quella ipotizzabile per la precedente coppia di capitelli n. 5 e 6; forse pubblica, tenuto conto della maggiore monumentalità suggerita dall’accentuazione di altezze e diametri. In definitiva, considerata la mancanza di una adeguata documentazione archeologica che affligge, purtroppo, un territorio da troppo tempo escluso da sistematiche attività esplorative e da concreti progetti di ricerca scientifica, gli unici dati che possiamo considerare, al momento, acquisiti sono il riconoscimento di alcuni raggruppamenti sufficientemente omogenei di antiche colonne di spoglio, e gli orizzonti cronologici indicati dai capitelli. Entrambi concordano nell’indicarci l’esistenza di non meno di tre organismi edilizi di età romana (forse anche quattro, se consideriamo a sé stante la lastra in marmo Pario dell’ex mensa d’altare), da individuarsi quasi certamente nella zona: i fusti, in base a reciproche concordanze dimensionali accompagnate anche dai differenti standard qualitativi di pietre e marmi; i capitelli, in virtù delle comuni tipologie ed epoche di appartenenza. Come si può notare, tuttavia, gli uni e gli altri, pur fornendo da un lato indizi sicuramente utili, anche se molto parziali, per avviare una ricostruzione del potenziale
84
panorama archeologico del territorio, dall’altro costituiscono, però, documenti isolati e scoordinati fra loro. Non è, infatti, assolutamente dimostrabile una identità fra i contesti di spoglio dei capitelli e quelli delle colonne, visto che i primi in nessun modo appaiono pertinenti alle seconde.170 É vero che la periodizzazione in tre fasi, comprese fra l’epoca tardo-repubblicano/augustea, l’età severiana e quella dioclezianeo-costantiniana, e del processo evolutivo che accompagna il “corinzio greco-asiatico” lungo i secoli dell’alto, medio e tardo impero, può ritenersi sul piano cronologico un punto fermo, come viene, nel caso di Montespino, ben testimoniato dalla identificazione delle tre varianti tipologiche; ma non è detto che essa valga anche per i diversi fusti, nessuno dei quali possiede peculiarità morfologico-stilistiche (modanature di collarini, basi, tipo e numero delle scanalature) utilizzabili ai fini di una datazione. Anche i marmi, molti dei quali di pregiata qualità, non sono in grado di definirne i limiti essendo tutti materiali estratti, esportati ed impiegati per lungo tempo, nei più svariati settori produttivi, entro i vasti confini del mondo romano. Fanno, in parte, eccezione il Verde Tessalico e il marmo Troadense delle colonne 5 e 8: entrambi, infatti, possono considerarsi, per lo meno, dei generici indicatori in grado di fissare un termine post quem di massima dal momento che sappiamo, soprattutto grazie all’ampia documentazione del secondo fornita da numerosi giacimenti sparsi nel bacino del Mediterraneo, che la loro introduzione, e successiva diffusione, sui mercati internazionali non avvennero prima dell’età adrianea.171 É, pertanto, possibile individuare nel primo quarto del II sec. d.C. il momento a partire dal quale è, a grandi linee, proponibile un inquadramento dei due esemplari e, quindi, del loro contesto edilizio primario di appartenenza. Il quadro d’insieme si presenta, dunque, in tutta la sua complessità, e ciò è dovuto, oltre che al già ricordato cronico disinteresse della ricerca archeologica nei confronti dell’intera area pedemontana Sud-picena, anche al fatto che da sempre è mancato un serio approfondimento critico sulle problematiche legate, più specificatamente, alla cripta di Montespino. Intorno a questo monumento, infatti, a dispetto del suo riconosciuto valore storico-artistico, fino ad ora si è potuto contare solo su pochi e sommari accenni, a volte non esenti persino da macro-
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
scopiche inesattezze. Fra essi, basterà, a titolo esemplificativo, ricordarne un paio, fra i più noti e, a modo loro, completi: uno, ad opera di Pompilio Bonvicini172 il quale si limitava a rilevare la presenza di “…dieci (?) fusti di colonne... sei capitelli tra ionici (?) e corinzi di perfetta fattura… Essi provengono da almeno quattro edifici diversi, essendo tra loro diversi per dimensioni, forma e materia… appartenenti a tempietti compitali ma anche ai due templi di Marte e Mercurio il cui ricordo è conservato in documenti tardo-medievali”. Il secondo, altrettanto succinto ma, se non altro, un po’ più circostanziato in merito alla diversa natura di alcuni dei materiali antichi, si deve a Delio Pacini.173 Lo studioso nomina, infatti, “…otto colonne alte circa due metri, formate da dieci rocchi diversi (forse in riferimento alla composizione delle colonne 2 e 4, n.d.a.) di diametro e di materiali, quali il granito, la breccia rossa di Verona, il marmo cipollino, il verde antico e il bianco di Carrara; sei capitelli dell’età imperiale meravigliosi per l’eleganza dei marmi e per la delicatezza delle decorazioni; larga mensa marmorea dell’altare già destinata probabilmente ai sacrifici pagani”. Una “letteratura”, come si vede, assolutamente insufficiente e senza dubbio inutilizzabile sul piano scientifico, la quale, tuttavia, lasciava già trapelare un aspetto di centrale rilevanza archeologica che investe direttamente gli antichi manufatti di spoglio montespinesi: quello relativo ai contesti di provenienza e alla loro dislocazione nell’ambito di un comprensorio regionale molto ampio ed assai poco conosciuto. La questione non è di poco conto, in quanto implica il difficile tentativo di ricostruire un assetto territoriale e le diverse forme del suo popolamento in età antica partendo da un silenzio pressoché totale da parte, sia delle fonti documentarie, sia della ricerca sul campo. Tutto ciò obbliga, di conseguenza, a muovere i nostri passi con estrema prudenza e a valutare attentamente ogni traccia, anche minima, riconoscibile con l’ausilio di fonti di informazione alternative, passate il più possibile al vaglio di una meticolosa analisi topografica ed archivistica. Come si è cercato di dimostrare nel Cap. I, a proposito del processo di romanizzazione della regione, un concreto contributo in questa direzione ci viene offerto dalla toponomastica locale, sopravvissuta in talune contrade ed evocativa, in maniera più o meno esplicita, di antiche presenze legate, in particolar modo, alla sfera del sacro. Si
tratta, in massima parte, di idronimi, oronimi e prediali conservatisi, in forme variamente corrotte, tanto nell’odierna cartografia, quanto nella memoria dei pochi anziani rimasti saldamente legati alle ancestrali tradizioni del luogo, i quali ne perpetuano ancora il ricordo nelle consuetudini del vivere quotidiano e nella icastica genuinità del proprio linguaggio. Parallelamente, e strettamente correlato a questo filone di ricerca, un valido apporto proviene dallo studio comparato fra la topografia della zona e la viabilità minore che ne ha per secoli caratterizzato la rete delle comunicazioni interne. É anche questa una forma indispensabile di approccio al problema che ci permette di ricostruire i probabili itinerari vallivi e pedemontani seguiti dagli addetti al cantiere pievano per rifornirsi del materiale di spoglio confluito, poi, nei diversi settori dell’edificio. Di ciò si è già compiutamente parlato, ma in questa sede è necessario riprendere l’argomento soffermandoci, nello specifico, su quei percorsi fluviali e tratturali prossimi all’altura di Montespino e, allo stesso tempo, contigui, o facilmente raggiungibili, dai siti nei quali con maggior probabilità sono da individuarsi i potenziali giacimenti archeologici di spoglio. Da escludersi nella maniera più assoluta è la pertinenza dei reperti romani ad “…un tempio pagano preesistente sul luogo”,174 smentita non solo dalle macroscopiche differenze, soprattutto stilistiche e proporzionali, dei reimpieghi stessi,175 ma anche dalla totale assenza di avanzi edilizi in situ che nemmeno i lavori di restauro condotti negli anni Cinquanta del secolo scorso coinvolgenti, in parte, anche la piattaforma su cui insiste l’edificio, hanno riportato alla luce. Da più parti,176 è stata anche espressa la convinzione che almeno un certo numero dei manufatti provenga da qualcuno dei Lares Compitales (tempietti dedicati alle divinità protettrici dei crocicchi stradali) dati per certi in corrispondenza degli innesti fra kardines e decumani centuriali individuati, o supposti, nella zona posta tra Amandola e Montefortino. Uno di essi potrebbe riconoscersi o all’altezza del bivio della SP 38 diretta a Piedivalle e a Madonna dell’Ambro, a Ovest di Montefortino, o, sempre ad occidente del paese, presso la località Tribio il cui nome sembra potersi riconnettere al termine trivium allusivo ad un incrocio di tre vie.(Tav. G) 177 La tesi, di per
85
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 51 Dinos bronzeo da Amandola (loc. “Taccarelli”) – Ancona, Museo Archeologico Nazionale inv. 4868 (Concessione MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche – SAM, prot. 0008537 del 16/10/2012, Cl. 28.13.10/1).
sè accettabile nel caso di modesti edifici di tipo rurale per i quali sarebbero state sufficienti le dimesse strutture di un semplice Larario campestre, non appare per nulla convincente nel nostro caso. Lo dimostrano, sia la pregiata qualità delle tipologie marmoree che caratterizza gran parte dei reperti di spoglio, sia l’apprezzabile cifra stilistica di diversi capitelli i quali, a dispetto dello stato di conservazione spesso precario, ci riportano a botteghe di produzione di un livello nettamente superiore allo standard richiesto per piccoli sacelli destinati a sacralizzare compita gromatica frequentati da viandanti. Del resto, malgrado la potenziale compatibilità delle misure di qualche fusto con le modeste dimensioni di tempietti rurali, è a dir poco improbabile immaginare in contesti così periferici e posti, per lo più, lungo impervi tracciati della transumanza la presenza di esotici e raffinati marmi greci e orientali, o di selezionati “corinzi asiatici”. Decisamente più opportuno, invece, è considerare i caratteri assunti dal presumibile modello insediativo regionale, privo di agglomerati urbanizzati contraddistinti da una significativa rilevanza demica. In un simile ambiente, è legittimo immaginare l’affermarsi di unità abitative basate su villae padronali con funzioni produttivo-residenziali, pertinenti a membri di spicco dell’aristocrazia fondiaria faleriense (o fermana), all’interno
86
delle quali sarebbe pienamente giustificabile la presenza di un arredo domestico lussuoso comprendente anche preziose colonne e ricercati capitelli marmorei in grado di arricchirne gli spazi, specie quelli di rappresentanza. Dimensioni e qualità formali di una buona percentuale dei supporti in esame sembrerebbero in perfetta sintonia con simili contesti, tenendo anche presente il ruolo giocato dalle varietà cromatiche introdotte come ostentazione di opulenza e di ricercatezza estetica. Tale ricostruzione ci condurrebbe, dunque, nell’ambito di una edilizia privata extraurbana, della quale non mancano diffuse attestazioni nella regione picena risalenti alla media e tarda età imperiale, e, quindi, ad un modello di popolamento altamente probabile in territori caratterizzati dallo sviluppo di una economia latifondistica. Tutto ciò, però, non trova, al momento, concreti riscontri né sul piano archeologico, né fra le scarne testimonianze scritte lasciateci dall’erudizione locale, tanto di epoche lontane, come di più recente data. É necessario, quindi, pur concedendo ampio credito all’ipotesi qui formulata, prendere in considerazione anche percorsi di ricerca alternativi che sempre la toponomastica, saldamente radicata in luoghi e contrade del comprensorio subappenninico dei Sibillini e dell’alta Valtenna, è in grado di indicarci orientandoci, soprattutto, verso la dimensione del sacro. Tra i toponimi più significativi,(Tav. G) in taluni casi legati alla memoria di antiche forme di culto di epoca romana, o anche antecedenti, ancora rintracciabili nelle aree più prossime alla fondazione montespinese, compare senz’altro il termine Cupa178 con il quale vengono designati almeno un paio di luoghi meritevoli di menzione. Il primo, denominato “Fonte Cupa”,179 si trova a poco meno di metà strada fra il torrente Ambro e il Tenna, a quota m 931 s.l.m. Esso dista, in linea d’aria, km 5,5 dalla Pieve che è possibile raggiungere attraverso le due vallate contigue del Tenna e del Cossudro convergenti, verso Est, all’altezza della località “I tre Ponti”. Il secondo corrisponde, invece, alla contrada “La Cupa” posta a Nord-Ovest del centro di Amandola, fra le località “Taccarelli”, nota per aver restituito lo splendido Dinos bronzeo (vaso con tripode di supporto) degli inizi del V sec. a.C.,(Fig. 51) 180 e “Cerrara”, da dove proviene il famoso
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
cippo gromatico augusteo di centuriazione(Fig. 52) 181 entrambi conservati, oggi, nel Museo Archeologico Nazionale di Ancona. Piuttosto decentrato, e quasi certamente, quindi, al di fuori del potenziale raggio d’azione delle maestranze attive nel cantiere micaelico, è un terzo sito chiamato “Valle Cupa” dislocato a Nord-Est del Colle della Marnacchia, a km 2,350 da Amandola, che è utile nominare semplicemente a riprova della diffusione del toponimo all’interno del triangolo comprensoriale che unisce gli abitati di Montefortino, Amandola e Comunanza.182 Come è noto, il termine, abbastanza frequente nella regione umbro-marchigiana,183 ha sovente il significato di “dirupo”, “forra”, “luogo scosceso” o anche di “stradina di campagna tortuosa” appena al di fuori di un organismo insediativo. In certi casi, però, esso è da considerarsi il risultato di una corruzione del nome Cupra, la principale divinità epicoria del pantheon piceno, assimilata poi alla Bona Dea latina.184 A questo proposito, è da ritenersi, a nostro giudizio, ancora accettabile quella che ci sembra una corretta impostazione del problema sostenuta, a suo tempo, da Febo Allevi185 secondo il quale è proprio al teonimo che, a volte, è da ricollegare il vocabolo, ma è necessario in questi casi procedere con le dovute precauzioni. Occorre, cioè, valutare di volta in volta se, e fino a che punto, la correlazione fra la sua valenza di etimo sacrale e un ipotetico antico organismo santuariale è compatibile, o meno, con una serie di presupposti di natura topografica, viabilistica, archeologica e linguistica relativi al luogo in oggetto. Semplificando la questione, non è detto che il termine Cupa sia, di per sé, da accogliersi automaticamente come sinonimo di Cupra senza aver prima verificato la concomitanza di tre fattori fondamentali: un preciso riscontro toponomastico di accertata origine medievale rintracciabile attraverso la ricerca archivistica; la sicura presenza di tracce riconducibili ad antiche forme di frequentazione comprovate da una significativa documentazione archeologica; infine, la continuità di culto nel tempo in virtù di una radicata vocazione religiosa sopravvissuta in successive fondazioni monastico-ecclesiali. Prendendo, ora, in esame le tre contrade di cui si è parlato, e scartando l’ultima per le ragioni già esposte, quella
Fig. 52 a Cippo gromatico augusteo da Amandola (loc. “Cerrara”) - Ancona, Museo Archeologico Nazionale inv. 19757 (Concessione MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche – SAM, prot. 0008537 del 16/10/2012, Cl. 28.13.10/1). Fig. 52 b Particolare della faccia superiore.
87
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 53 Montefortino: loc. “Colmartese”.
Fig. 54 Montefortino: loc. “I tre Ponti”, sullo sfondo “Colmartese”.
88
che sembra rispondere meglio ai requisiti indicati è senza dubbio la seconda, “La Cupa” in agro di Amandola. Qui, prima di tutto, i ritrovamenti archeologici certificano il sicuro popolamento della zona, sia dal punto di vista insediativo fin dall’epoca tardo-arcaica (Fase Picena IV B), sia della ripartizione centuriale del suolo agricolo in età augustea. Secondariamente, disponiamo di un interessante documento d’archivio186 costituito da un atto notarile risalente al 1511 nel quale viene nominato il centro plebano di San Donato, ubicato “…in territorio Amandule in contrata ubi dicitur lu Cupru, iuxta res Ecclesie Plebe…”. Il passo, facendo riferimento ad una “Ecclesie Plebe” identificabile con la “Plebs S. Donati de Amandula”, attestata fin dal X sec. (a. 977) “in Alfenano Terra lavoratoria…”,187 ossia in quella contrada “Alfanaro” tuttora esistente a Nord-Ovest del moderno abitato, la definisce “iuxta” (prossima) alla località “ubi dicitur Lu Cupru”. In tal modo veniamo a conoscenza dell’originario appellativo di questa zona, coincidente in modo assai significativo con l’antico teonimo (Cupru → Cupra), il quale giustifica l’ipotesi dell’esistenza di un centro votato alla venerazione della dea picena, prossimo, non a caso, alla fondazione plebana di San Donato. Ecco, così, rispettato anche l’ultimo dei tre requisiti: il fenomeno di continuità fra un santuario pagano e un edificio cristiano il quale, documentato fino alla fine del Settecento, era sorto in un’area caratterizzata da un millenario e profondo substrato religioso capace di coagulare, fin da tempi remoti, le istanze spirituali delle genti del luogo.188 A tutto questo, si aggiunga anche la prossimità della contrada al diverticolo della Salaria Gallica diretta ad Asculum, già ricordato nel precedente capitolo,189 che la includeva nell’ambito di una importante e frequentata direttrice di transito, tangente proprio l’abitato di Amandola, e che ne agevolava, più in generale, l’inserimento nell’articolato sistema della viabilità regionale. La nostra località, dunque, si candida senz’altro fra quelle potenzialmente scelte per l’approvvigionamento di materiale edilizio prelevato dalle rovine di un edificio consacrato alla dea Cupra da dove i materiali di spoglio sarebbero potuti pervenire al cantiere attivo a Montespino attraverso due itinerari: o lungo il tracciato
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
stradale, ricalcato dalla odierna SP 83 Subappenninica, diretto a Montemonaco, vale a dire un segmento del diverticolo Surpicanum-Firmum, oppure intercettandone il percorso all’altezza di Montefortino dopo aver risalito un tratto dell’alto fondo valle del Tenna. Non sostenuta da altrettanti riscontri onomastico-archivistici, archeologici, di organizzazione infrastrutturale e di continuità di culto, risulta l’altra contrada, “Fonte Cupa”, anche se non mancano alcuni aspetti di un certo interesse che non la escludono del tutto dal ventaglio di ipotesi qui avanzate. In primo luogo la maggior vicinanza all’area gravitante attorno alla nostra fondazione plebana; secondariamente la presenza di una sorgente d’acqua, elemento ricorrente nei santuari fontili dedicati alla divinità picena;190 infine la prossimità, a poco più di 3 km, alla località “Colmartese”, toponimo che, come si vedrà tra breve, contiene un esplicito richiamo al dio Marte al quale Cupra era non di rado associata.191 Un discorso a sé, per l’incertezza etimologica dell’antico oronimo associato, è costituito dal Priorato di San Leonardo de Volubrio, o Volubro, o de Gulubrio, come risulta da documenti due-trecenteschi,192 dipendente dal potente Eremo di Santa Croce di Fonte Avellana. Esso si situa a m 1122 s.l.m., lungo l’alto corso del Tenna, sul lato sinistro delle “Gole dell’Infernaccio” e dista km 6,1 in linea d’aria da Montespino. Secondo alcuni,193 la denominazione adombrerebbe una derivazione dal vocabolo delubrum (tempio, santuario, luogo di espiazione) alludendo, dunque, alla sede di un culto pagano di purificazione, collegato a quello della Sibilla, corrispondente ad una tappa obbligata per la transumanza estiva, ma sull’argomento i pareri sono discordi.194 Non è escluso, infatti, che il termine, nella sua radice dal verbo latino “volvere” (rivoltare, rimescolare), e quindi nel richiamo ad un “deiectus aquae” (gettito d’acqua),195 possa riferirsi, invece, ad una conca lacustre destinata all’abbeveramento degli animali, con un rimando, quindi, forse ad una statio lungo un sentiero che raggiungeva il centro di Visso e l’alta Valnerina in direzione di Roma, attraverso un tragitto più breve, piuttosto che ad un luogo di culto legato alla presenza delle acque.196 L’apporto della toponomastica assume, tuttavia, la sua rilevanza maggiore se si restringe l’orizzonte investigativo entro i più ristretti confini territoriali compresi
Fig. 55 Loc. “I tre Ponti”: il corso del Tenna alla confluenza del torrente Cossudro.
fra l’immediato “hinterland” Nord-occidentale montefortinese e l’area a Est dell’abitato, lungo il medio corso del torrente Vetremastro. É all’interno di quest’area dove in parte, ancora oggi, sopravvivono, e in parte si conservano in memorie archivistiche tardo-medievali, due toponimi di estremo interesse relativi ad altrettante contrade che dimostrano inequivocabili riferimenti ad antichissime forme di frequentazione legate alla sfera del sacro. Si tratta, nel primo caso, della già nominata località “Colmartese”(Fig. 53) situata a circa 1 km a Nord-Ovest di Montefortino, sul versante di sinistra della vallata del Tenna. Qui, un tempo, si conservavano, in corrispondenza dell’area confinante con la contrada “I tre Ponti”,(Figg. 54-55) i ruderi delle chiese di San Giovanni de Marte e di Santa Maria de Marte (o de Marta).197 Essa viene esplicitamente nominata, con minime variazioni, in quattro “Inventari” quattrocenteschi che la citano in merito ai possessi di terreni da parte delle Pievi di San Pietro a Rovitolo (1403) e di Sant’Angelo in Montespino (1407), e delle Chiese di San Giovanni di Piedivalle
89
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 56 Montefortino: probabile localizzazione della contrada “Mercuri”.
(1421) e di Santa Maria di Mandarella (1446).198 Nei primi due, i più antichi, si parla, rispettivamente, di “…unam pectiam terrae iuxta Colmartesis” e di un’altra “… petiam terrae posita in contrata dicta S.Maria de Marte”. Il terzo “Inventario” menziona, invece, un possesso pertinente alla Chiesa di San Giovanni di Piedivalle sita “…in contrada Ma(r)tis”. Infine, il documento più tardo elenca, tra i fondi appartenenti a Santa Maria di Mandarella, quello posto “…in contrata collis Martis”. Il termine, comunque, risulta in uso fin dall’Alto Medioevo allorché viene espressamente ricordato nel Regesto fermano 1030199 nel quale leggiamo che il già citato Vescovo Gaidolfo200 concede, nell’anno 977, al conte Mainardo “…vel [dicta] generatione tua omnem ipsa res sancte nostre Firmane Ecclesie de fundo Marte…”, a riprova delle lontane origini di un locus sacratus profondamente radicato nella toponomastica locale, tanto da confluire nel linguaggio ufficiale delle contrattazioni enfiteutiche siglate dalla cancelleria vescovile. Appare del tutto evidente, al di là delle marginali varianti dipendenti dalla diversità degli estensori dei singoli documenti, che il sito è sempre il medesimo e che esso ha mantenuto inalterata nei secoli una teonimia trasmessa, verosimilmente, dalla originaria esistenza, in
90
questa contrada, di un antico culto pagano del dio Marte, giunta pressoché incorrotta fino ai giorni nostri. L’area sembra favorita anche da un assetto orografico che, digradando senza bruschi sbalzi altimetrici verso il fondovalle, conduce in direzione di Montespino sfruttando, sia il tracciato del “Fosso delle Rive”, sia il consueto troncone della Surpicanum-Firmum diretto verso Montemonaco. Il secondo toponimo di cui disponiamo, al contrario del precedente, non trova ormai più da molto tempo alcun riscontro nella moderna cartografia ma, fortunatamente, viene anch’esso menzionato con precisione da un altro antico “Inventario” relativo, questa volta, alla Chiesa di Santa Maria di Bussonico201 risalente al 1403. Nel documento si afferma che detta chiesa “…habet unā(m) pectiā(m) t(e)rrae positā(m) ubi dic(itur) Lu piano Me(r)curj iux(ta) flum(en) Vetremastī”, alludendo ad un’antica area santuariale o ad una sacello consacrato al dio Mercurio, secondo una formula estremamente rara, pressoché sconosciuta in ambito marchigiano (si veda solo una loc. “Case Mercuri” a Nord-Est di Comunanza) e nota principalmente nella regione umbra: nei territori di Narni (“de fundo vallis Mercurii”), di Spoleto (“in Mercurio”) e di Otricoli (antroponimo Mercurius).202
La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza
La contrada è localizzabile a circa 3 km a Est di Montefortino,(Fig. 56) “in un campo pianeggiante presso il Vetremastro, sulla vecchia strada che collegava Bussonico a Montatteglia”, 203 e sembra situarsi effettivamente a poca distanza dal torrente il quale, provenendo dalla fascia pedemontana estesa fra i rilievi di Montespino e Monte Cugnolo, risale verso Nord andando, poi, a confluire nel Tenna ad oriente di Amandola. Posta a soli 2 km e 700 m in linea d’aria dalla nostra chiesa, essa gode di una orografia la quale, mantenendosi su modesti valori altimetrici compresi fra m 521 e m 610 s.l.m. lungo quasi l’intero corso del Vetremastro, agevola un itinerario di fondo valle che conduce alla contrada “La Rota”204 da dove parte una serie di tratturi in risalita verso la Pieve di Sant’Angelo. Terminata, dunque, l’esegesi comparata fra i documenti contenuti in “Inventari”, Atti notarili, Archivi abbaziali e le sopravvivenze toponomastiche ancora esistenti lungo il versante subappenninico orientale dei Sibillini, relazionate a loro volta con l’antico tessuto topografico-viabilistico della regione, non si dispone, purtroppo, di ulteriori elementi concreti per poter proseguire oltre sul terreno della ricerca archeologica. Pertanto, il problema della provenienza degli spolia montespinesi resta, al mo-
mento, ancora in attesa di definitive verifiche sul campo, anche se la documentazione raccolta e le deduzioni che ne sono scaturite consentono di aprire un ventaglio su almeno tre ipotesi plausibili. Quella di un contesto residenziale privato, identificabile in una villa padronale della zona, resta, a nostro giudizio, la più accreditata, ma indubbiamente essa non esclude affatto, almeno per un certo numero di manufatti, la concomitanza di altre realtà monumentali coinvolte nelle operazioni di smontaggio e reimpiego di colonne e capitelli. Fra esse, la potenziale esistenza di organismi edilizi dedicati al culto di Marte e Mercurio sembra godere di una buona probabilità, soprattutto per ragioni di dislocazione topografica che non favoriscono altrettanto, invece, la sede del culto cuprense nei pressi di Amandola (contrada “La Cupa”). Troppo vago, al contrario, anche dal punto di vista toponomastico, l’eventuale ruolo giocato dall’insediamento di San Leonardo in Volubrio il cui interesse si basa principalmente sul suo collocarsi lungo la rotta transappenninica diretta in Umbria. Ciò potrebbe lasciare intendere, in linea teorica, una scelta topotetica relativa ad una fondazione santuariale posta nei presi di un frequentato percorso della transumanza.205 Aver circoscritto la nostra indagine, come avvenuto sin qui, prioritariamente alla realtà locale, senza estendere l’orizzonte verso una dimensione più ampia, di respiro regionale, in cui rintracciare altre possibili fonti di approvvigionamento di materia prima, rientra in una metodologia della ricerca che tiene conto di una ricorrente prassi generale seguita, in corso d’opera, dalle maestranze romaniche: quella di rivolgersi a preesistenze architettoniche poste il più vicino possibile alla sede del cantiere. Se è vero che nella messa a punto delle procedure costruttive e nelle fasi organizzative del lavoro l’attenzione è sempre concentrata sulla razionalizzazione di tempi e risorse, ciò non costituisce, tuttavia, una regola assoluta. Non di rado, infatti, allorchè si imponeva l’esigenza di avere a disposizione manufatti dotati di specifiche caratteristiche estetiche o proporzionali ritenute idonee ai particolari contesti nei quali era previsto il loro riutilizzo, non si esitò a ricercare l’occorrente anche in luoghi più lontani e disagevoli, tanto da raggiungere, quanto per le difficoltà delle operazioni di trasporto. Ciò, naturalmente, valutando sempre la situazione
91
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
idro-orografica del territorio ed orientando, di conseguenza, le scelte in rapporto alla loro prossimità a vie di transito o a bacini fluviali navigabili. A tale proposito, si pensi ai casi di San Leo, San Vincenzo al Furlo, alle diverse fondazioni dislocate lungo il medio e basso corso del Cesano (San Gervasio in Bulgaria, Santa Maria in Portuno, San Lorenzo in Campo, San Vito sul Cesano, Sant’Abbondio) o del Potenza (Santa Maria di Rambona, San Firmano). In ciascuno dei siti nominati, ci troviamo in presenza di tipologie di reimpiego le quali includono esemplari che, per modulo e qualità, riconducono ad ambienti urbani o, comunque, a complessi monumentali di risonanza regionale. Anche a Montespino sembra essersi determinato, pur se in forma limitata, un fenomeno simile: certamente almeno per la colonna 8, la cui mole e l’originaria imponenza, accompagnate dalla qualità del marmo, risultano consone ad una realtà insediativa, o a contesti architettonici, di un certo rilievo. L’ipotesi maggiormente sostenibile sulla sua provenienza, ci riporta alla colonia di Falerio, il centro urbanisticamente più evoluto e più prossimo alle aree subappenniniche marchigiane. Esso era favorito, oltre che da una efficiente rete stradale, anche dal medio corso del Tenna risalendo il quale era agevole raggiungere il comprensorio amandolese e, di conseguenza, attraverso il sistema dei fondovalle Vetremastro/Ambro, di pervenire al sito della nostra fondazione plebana. Considerando l’unicità dell’esemplare montespinese e la sua decontestualizzazione, è naturalmente impossibile risalire all’antico organismo edilizio di appartenenza. Certo, dovendosi identificare con ogni probabilità in un edificio pubblico, potrebbe trattarsi del Teatro (frons scaenae, porticus pone scaenam),206 o del Capitolium forense, 207 oppure anche del Ponderarium che un’iscrizione celebra per la magnificenza delle strutture e la loro ornamentazione di statue.208 Di possibile provenienza faleriense, potrebbe essere anche la grande lastra in marmo Pario che costituiva, un tempo, la mensa d’altare. Le sue considerevoli dimensioni monolitiche, ricostruibili in m 2,02 x 1,08, unite alla pregiata qualità del litotipo greco-insulare, si addicono, infatti, ad un edificio prestigioso adorno di un sontuoso rivestimento lapideo.
92
Un’ultima potenziale attribuzione al centro monumentale della colonia romana si può proporre, infine, per il fusto della colonna 7, in raffinata breccia corallina di origine medio-orientale, e, soprattutto, di stazza un po’ inferiore rispetto alla n. 8, ma pur sempre di proporzioni abbastanza importanti. Per quanto concerne il restante materiale di spoglio, invece, si confermano le valutazioni fatte in precedenza sulla loro assai verosimile pertinenza ai supposti contesti residenziali o santuariali, questi ultimi riferibili alla triade Cupra/Marte/Mercurio, da ricercarsi prioritariamente nei territori gravitanti attorno al cantiere plebano o, al massimo, in un’area suburbana dell’“hinterland” di Falerone interessato da un’espansione edilizia di tipo rurale. In merito a tali riutilizzi, non deve sorprendere la presenza di manufatti più ricercati e di maggior impegno finanziario in ambienti territorialmente così periferici e legati a modelli di comportamento in genere piuttosto conservatori e scarsamente acculturati. Ad ospitarli erano infatti, in casi del genere, o strutture appartenenti ad agiati possessores terrieri, sovente emuli, nel piccolo delle proprie dimore, dei fasti imperiali, o anche a membri delle più alte gerarchie del potere politico e istituzionale, oppure spazi di antica venerazione e intensamente frequentati da secolari flussi di genti e culture diverse.209
Note
88 L.CARAMEL, Dalle testimonianze paleocristiane al Mille. Il S.Vincenzo e il battistero di Galliano, in L.CARAMEL-M.MIRABELLA ROBERTI (a cura di), Storia di Monza e della Brianza, IV, I, Milano 1976, pp. 252-271; M.MAGNI, Cryptes du haut moyen âge en Italie: problèmes de typologie du IXème jusqu’au début du XIème siècle, in “CArch” 28, 1979, pp. 80-81; B.BRENK, La committenza di Ariberto d’Intimiano, in C.BERTELLI (a cura di), Il millennio ambrosiano. La città del vescovo dai Carolingi al Barbarossa, Milano 1988, pp. 124-137; P.PIVA, Chiese-santuario ad absidi opposte (gli esempi italiani dell’XI secolo), in A.C.QUINTAVALLE (a cura di), Le Vie del Medioevo (Atti del Convegno internazionale di studi, Parma 28 settembre-1 ottobre 1998), Milano 2000, pp. 141-155; IDEM, San Pietro al monte de Civate (Lecco): lecture iconographique en “contexte”, in “CArch” 49, 2001, pp. 69-84. Per il San Michele di Hildesheim si vedano B.GALLISTI, Die Bernwardsaule und die Michaeliskirche zu Hildesheim, Hildesheim 1993, e J.CRAMER-W. JACOBSEN-D.vonWINTERFELD, Die Michaeliskirche, in AA.VV., Bernward von Hildesheim und das Zeitalter der Ottonen, I, Hildesheim 1993, pp. 369-382. 89 Sulla figura del vescovo imperiale Udalrico e il suo ruolo nell’ambito dell’architettura plebana della diocesi di Fermo, cfr. PIVA 2003, pp. 20-21; IDEM 2012, pp. 16-17. 90 A.CHERUBINI, Lo spazio sacro. Le chiese romaniche e degli ordini monastici riformati e mendicanti, in MARIANO 1995, p. 74; H.SAHLER, San Claudio al Chienti und die romanischen Kirchen des Vierstützentypus in den Marken, (BKMR 6), Münster 1998, pp. 195, 198; PIVA 2003, p. 64. 91 Malgrado l’alto valore storico-artistico e archeologico universalmente riconosciuto al piccolo vano sotterraneo, che si colloca ai primi posti all’interno dell’architettura sacra marchigiana del periodo medievale, fino a questo momento non è stato ad esso dedicato uno studio adeguatamente approfondito e all’altezza dei suoi pregi monumentali. Ad eccezione della recente analisi condotta da PIVA 2012, pp. 197-203, l’interesse si limita, infatti, a generici resoconti, non di rado viziati anche da diverse inesattezze, compilati prevalentemente da studiosi locali, tra i quali è sufficiente ricordare FERRANTI 1891, p. 10; L.MANNOCCHI, Guida pratica dei monumenti e delle opere d’arte della provincia di Ascoli Piceno, Grottammare 1900, pp. 51-52; E.CALZINI, La chiesa di Sant’Angelo in Montespino, in “Rassegna bibliografica dell’arte italiana”, Ascoli 1903, pp. 107-110; C.MARIOTTI, La chiesa di Sant’Angelo in Montespino, in “RMar” a. III, ottobre 1924-settembre 1925, Pesaro 1925, pp. 128-132; SERRA 1929, pp. 61-63; VITTORI 1938, p. 16; ALLEVI 1965, pp. 83-84; BONVICINI 1978, p.
52 e nota 106; CROCETTI 1988, pp. 25-31; PACINI 1991, pp. 8283; O.DIAMANTI, Inediti fortinesi, Montefortino 1998, pp. 127-128; MORETTI 2009, pp. 467-468, 471. 92 Giorgio Pocobelli e Adriano Averini della “Cooperativa Archeologia”, Sez. di Firenze e Roma, estensori anche della relazione qui allegata. 93 La strumentazione hardware utilizzata è quella del “Pacchetto Evo” della “Menci Software”, azienda leader specializzata nella creazione di software per la fotogrammetria digitale e l’elaborazione di modelli 3D renderizzati. 94 Sui prototipi ispiratori di età augustea cfr. HEILMEYER 1970, pp. 106-109, Tav. 41, Figg. 1, 3 (Nîmes); p. 27, Tav. 2, Fig. 1; p. 124, Tav. 44, Fig. 2 (capitelli tipo “Marte Ultore” dal Tempio dei Dioscuri nel Foro Romano); GANZERT-KOCKEL 1988, pp. 149199; GINOUVÈS 1992, Tav. 50, Figg. 2 (Nîmes), 3 (Argos, Terme A); GROS 2001, pp. 173-174, Figg. 179-180 (Nîmes). 95 BONVICINI 1978, p. 123, Fig. XXIII. 96 BONVICINI 1978, p. 127, Fig. XXV, erroneamente definito “in verde antico”. 97 R.KAUTZSCH, Kapitellstudien. Beiträge zu einer Geschichte des spättiken Kapitells im Osten vom vierten bis ins siebente Jahrhundert, Berlin-Leipzig 1936, p. 6 ss. e 236-239; KÄHLER 1969, pp. 41-49; PENSABENE 1972, pp. 337-339, Figg. 7, 9-11. 98 PENSABENE 2007, p. 399; cfr. anche il gruppo “D” dei capitelli corinzi di Piazza Armerina: PENSABENE 1971, pp. 207-214, Figg. 69-77; IDEM 1973, pp. 235-238, n. 355-380, forse riconducibili a botteghe di Afrodisia per la presenza di diverse zone d’ombra di sagoma triangolare: Ibidem, p. 236. 99 Pieve di Santa Maria Annunziata a Monte Sorbo: SANTORO BIANCHI 1990, pp. 25-27, Fig. 21; dall’area urbana di Sarsina: Ibidem, pp. 41-42, Fig. 32; chiese di San Gervasio in Bulgaria, Santa Maria in Portuno e San Lorenzo in Campo lungo la media valle del Cesano: LEPORE 2005, pp. 157-160, Figg. 12-13; Osimo: F.FEI, Per un “Corpus” della scultura altomedievale delle Marche, in “ACNAC” VI, Pesaro-Ancona 19-23 settembre 1983 (Ancona 1985), pp. 504505, Fig. 1. 100 PENSABENE 1977, pp. 318-319, n. 394b, Tav. CCXXV; p. 320, n. 397, Tav. CCXXVI; MNR, Le Sculture, I, 3, Roma 1982, Fig. I, n. 18, p. 14; n. 44, p. 55; PENSABENE 1986, n. 15, pp. 315-316, Fig. 5b; n. 17, p. 316, Fig. 6b (Musei Capitolini). 101 PENSABENE 1973, pp. 235-238, Tavv. XXXVI-XXXVII, n. 355-360, 362, 364-365, 368, 375. Confronti particolarmente stringenti provengono dalla sala distila della c.d. “domus del Protiro” e dalle Terme del Foro (Calidarium e “aula bipartita” a Sud
93
Note
della Palestra): IDEM 2007, p. 519, Fig. 258, Tav. 148, n. 3 (domus); pp. 275-276, Tav. 80, n. 2, 6 (Calidarium), 8 (“aula bipartita”). 102 J.SERRA, Corpus della scultura altomedievale, II. La Diocesi di Spoleto, “CISAM”, Spoleto 1961, p. 61, n. 82, Tav. 31a; L.CENCIAIOLI, I capitelli romani di Perugia, in “AFLP” XV, N.S. 1, 1977-1978, pp. 53-56, n. 9-10, Tav. XXX, n. 35; IDEM, Capitello corinzio di colonna di tipo asiatico, in M.MATTEINI CHIARI (a cura di), Raccolte Comunali di Assisi. Materiali archeologici. Iscrizioni, sculture, pitture, elementi architettonici, Perugia 2005, p. 218, n. 221; M.R.PICUTI, Nocera Umbra. Capitello, in Aurea Umbria, p. 303, n. 89. 103 L.SPERTI, I capitelli romani del Museo Archeologico di Verona, Roma 1983, pp. 63-65, n. 61-63. 104 KÄHLER 1969, p. 46. 105 PENSABENE 2007, pp. 392-394. 106 N.ASGARI, The Stage of Workmanship of the Corinthian Capital in Proconnesus and its Export Form, in HERZ-WAELKENS 1988, pp. 115-125; IDEM 1990, pp. 106-126. 107 PENSABENE 1973, n. 362, 365. 108 PENSABENE 2007, p. 394. 109 PENSABENE 2007, p. 395. 110 Sembra essere il caso del nostro capitello, interpretabile, forse, come prodotto uscito da officine attiche operanti nell’Urbe, le quali hanno adottato l’acanto spinoso di tipo microasiatico nel loro repertorio decorativo, come accaduto, ad esempio, nel Frigidarium delle Terme del Foro di Ostia (PENSABENE 2007, pp. 272, 395) finanziate dal ricco Gavio Massimo, Prefetto del Pretorio di Antonino Pio. 111 GINOUVÈS 1992, Tav. 37, n. 5. 112 Si rinvia ai risultati dell’indagine archeometrica contenuti nella scheda MS 3, Cap. IV b., p. 104. 113 RAININI 2007, pp. 61-66, 168. 114 RAININI 2007, p. 61. 115 LEPORE 2005, p. 146, Fig. 5; p. 150, Fig. 8; pp. 176-178, Figg. 21-23. 116 RAININI 2011, pp. 34-36, Figg. 18-19. 117 RAININI 2007, p. 161, Figg. 110-111; p. 176, Figg. 122-123. 118 RAININI 2007, p. 80, Figg. 31-32. 119 F.CAPPELLI, La Cattedrale di Ascoli Piceno, Ascoli Piceno 2000, Figg. 70, 74. 120 M.G.ERCOLINO, Gli spolia e il fenomeno del reimpiego nella chiesa di Santa Vittoria a Monteleone Sabino, in Reimpiego, p. 340; M.ACIERNO, Reimpiego ideologico e materiale nell’architettura religiosa dell’XI secolo in Terra di lavoro, Ibidem, p. 600, Fig. 14.
94
121 Cfr. GINOUVÈS 1992, Tav. 37, Fig. 4 (dal Foro di Ostia). Sulla origine delle basi ionico-attiche e il loro impiego in età romana, si vedano D.E.STRONG-J.B.WARD-PERKINS, The Temple of Castor in the Forum Romanum, in “PBSR” 30, 1962, pp. 5-12; L.SHOE MERITT, The Geographical Distribution of Greek and Roman Ionic Bases, in “Hesperia” 38, 1969, pp. 186-204. 122 Si veda al riguardo G.CRESSEDI, Origine e sviluppo del capitello a foglie lisce, in “BCSStArch” 6, 1952, pp. 9-11; PENSABENE 2007, pp. 392-394. 123 PENSABENE 2007, p. 394 e nota 1273. 124 PENSABENE 1973, n. 418-420; IDEM 2007, Tav. 104, n. 6-7, pp. 362-363. 125 Ne sono testimoni i residui dei ritocchi a pennello sopra le rotture degli apici fogliari spezzati, probabilmente per camuffarne, in qualche modo, il danno subìto. 126 BONVICINI 1978, p. 125, Fig. XXIV, erroneamente definito “in breccia veronese”. 127 Di tali interventi, tuttavia, non esiste alcuna testimonianza e nessuna delle persone e delle Istituzioni interpellate è stata in grado di fornirne conferma. Pertanto, ammesso che esse si siano realmente svolte, si tratta di fatti lontani nel tempo e privi, ormai, della possibilità di essere accertati. 128 PENSABENE 1973, p. 236. 129 PENSABENE 1972, pp. 337-338, Figg. 9 (Alessandria d’Egitto), 10 (Cartagine), 11-12 (Tebessa, Mauretania); GINOUVÈS 1992, Tav. 50, Fig. 5 (Cilicia). 130 F.WEILBACH-E.DYGGVE, Recherches à Salone, II, Copenhagen 1933, p. 75, Fig. 33 ; H.KÄHLER, Die römischen Kapitelle des Rheingebietes, Berlin 1939, p. 86 ss., Tav. 16, Figg. 4-8; PENSABENE 1972, p. 337, nota 58. 131 V.SCRINARI, I capitelli romani di Aquileia, “ANAQ” 5, Padova 1952, n. 36-38. 132 Cfr. supra, nota 103. 133 G.G.BELLONI, I capitelli romani di Milano, Padova 1958, n. 41, 44. 134 Vedi supra, note 100-101. 135 PENSABENE 1972, Fig. 7 (Canosa). 136 PENSABENE 1971, pp. 207-214, Figg. 69-77 (Piazza Armerina); cfr. anche supra, nota 98. 137 Cfr. supra, nota 99. 138 Sappiamo che numerose botteghe, fin dalla tarda età ellenistica, diedero vita a maestranze itineranti, attive anche in Italia, in grado di lavorare qualsiasi tipo di marmo (M.FLORIANI SQUARCIAPINO, La scuola di Aphrodisias, 40 anni dopo” in “ArchCl”
Note
35, 1983, pp. 74-87; P.PENSABENE, Le vie del marmo, Roma 1995, p. 305), ciò grazie anche ai buoni rapporti intercorsi fra la città di Aphrodisias e Roma dopo che Cesare, prima, e poi Augusto le avevano concesso lo statuto di città libera: sull’argomento, si vedano MONNA-PENSABENE 1977, p. 96, dove vengono elencate opere scultoree realizzate da artisti afrodisiensi con l’uso di marmi vari acquistati sul posto. 139 Cap. IV B., D. 1. 140 D.ATTANASIO-M.BRUNO-A.B.YAVUK, Quarries in the region of Aphrodisias: the black and white marbles of Göktepe (Muĝla), in “JRA” 22, 2009, pp. 313-348; si veda anche l’interessante recensione di questo contributo pubblicata da L.LAZZARINI, in “MarmoraIJAMS” 6, 2010 (Pisa-Roma 2011), pp. 169-171. Le più recenti riflessioni sull’argomento si trovano in M.BRUNO-D. ATTANASIO-W.PROCHASKA-A.B.YAVUZ, An update on the use and distribution of white and black Göktepe marbles from the 1st century A.D. to late antiquity, in P.PENSABENE-L.LAZZARINI-M.De NUCCIO (a cura di), “ASMOSIA X” (2012), Abstracts, p. 59. 141 MONNA-PENSABENE 1977, p. 95; P.ROCKWELL, Unfinished Statuary associated with a sculptors studio, in K.T.ERIM-C. ROUECHÉ (a cura di), Aphrodisias Papers 2, Ann Arbor 1991, pp. 127-143. 142 Cap. II, p. 32. 143 Si veda supra, p. 62 e nota 127. 144 ROTH CONGÉS 1983, pp. 106-109. 145 H.BAUER, Das Kapitelle des Apollo Palatinus Tempel, in“RM” LXXVI 1969, pp. 183-204; M.MONTAGNA PASQUINUCCI, La decorazione architettonica del Tempio del Divo Giulio nel Foro Romano, in “MonAL” I 4, 1973, pp. 257-283; P.GROS, Aurea Templa. Recherches sur l’architecture religieuse de Rome à l’époque d’Auguste, “BEFAR” 231, Rome 1976, pp. 101-147; IDEM, Apollo Palatinus (aedes), in “LTUR” I, Roma 1993, pp. 54-57; A.VISCOGLIOSI, Il tempio di Apollo in Circo e la formazione del linguaggio architettonico augusteo, in “BullComm”, suppl. 3, 1996, pp. 117125. 146 HEILMAYER 1970, p. 27, Tav. 2, Fig. 1 (Tempio di Marte Ultore); p. 124, Tav. 44, Fig. 2 (Tempio dei Dioscuri nel Foro Romano); p. 129, Tav. 46, Fig. 3 (Foro di Cesare); CH.LEON, Die Bauornamentik des Trajansforum und ihre Stellung in der Fruh-und Mittelkaiserzeitlichen Architekturdekorations Roms, Wien 1971, p. 149; PENSABENE 1973, pp. 207-208, Tav. XXI, n. 214-217 (Tempio di Roma e Augusto); ROTH CONGÉS 1983, pp. 109-110; GANZERT-KOCKEL 1988, pp. 149-199. In territorio marchigiano, si vedano interessanti esemplari fiastrensi in RAININI 2007, p. 161,
Fig. 109; p. 165, Fig. 113, e un capitello inedito, in calcare bianco dei Sibillini, proveniente dall’area d’ingresso al Tempio della Salus Augusta di Urbs Salvia: Museo Archeologico Nazionale di Urbisaglia, Sala 5, inv. 60260. 147 Sulle caratteristiche specifiche della semicolonna si rinvia al Cap. IV d. 3. a. 148 BONVICINI 1978, p. 125, Fig. XXIV; p. 127: “Tutte le fotografie spettanti alla cripta, sono dell’agosto del 1968 e attestano lo stato di conservazione a quella data”. 149 All’altare hanno dedicato qualche rapido accenno FERRANTI 1891, p. 10, il quale si limita a citare “…una mensa marmorea larghissima destinata ai sacrifici…”; SERRA 1929, pp. 61-63; VITTORI 1938, p. 16; ALLEVI 1965, pp. 83-84; PACINI 1991, p. 82; da ultimo, MORETTI 2009, pag. 471 non va oltre la semplice constatazione che “L’altare di marmo bianco ed il basamento in muratura... sono stati completamente frantumati”. 150 Cfr. infra, Cap. IV A., D. 2. a. 151 Il calcolo si è basato sulla canonica corrispondenza, all’epoca in cui fu compilato l’“Inventario”, di 1 palmo = m 0,26, e di 1 oncia = m 0,022. 152 Cfr. infra, Cap. IV B., p. 109, scheda campione MS 9. 153 L’operazione era ricordata da una lapide, trascritta nell’Inv. Nardi, f. 4 r., la quale riportava quanto segue: “Hic Lapis in modum Sepulchri jacebat alio marmoreo lapide subsùs habente formam Mensae, superimposito destitutae Arae existenti, confracto ex parte Muro, in inferiori Sacello hujus Ecclesiae S.Angeli in Monte Spino. In prima Sacra Visitatione peracta ab Ill.mo, et R.mo D.no Alexandro Borgia Archiepõ, et Principe Firmano, ejus dictante veneratione mota ab inclusis in eo cineribus Sanctorum pie’(tate) creditis, Loco Sancto sic suadente ad Laudes Omnipotentis Dei, ejusq(ue) Sanctorum provisum fuit in hunc reconditum Locum Altaris Divo Michaeli Arcangelo dicati transferti per me Marcum Antonium Nardi Plebanum Anno Domini millesimo septingentesimo vigesimo sexto”. 154 Inv. Franc., f. 12 v. Del tutto infondate, invece, le parole con cui il LEOPARDI 1783, p. 78, oltre a definire la chiesa costruita “a navate con archi acuti”, descrive “…la chiesa sotterranea, ove per sostenere i volti del Presbiterio, che è assai alto, vi sono quattro (sic!) colonne massiccie di ottimo marmo, ed in specie una di verde antico”. 155 Si veda il caso analogo dell’ex altare posto, un tempo, nella cripta della chiesa di Santa Maria di Plestia : Sez. III, Capp. IX A., X B. 3. d. 156 Sui criteri gerarchici dei reimpieghi di materiali antichi in
95
Note
edifici sacri dell’area umbro-marchigiano-laziale, si vedano i fondamentali contributi di FABRICIUS HANSEN 2003, pp. 121-123, 134-135; RAININI 2007, pp. 62, 67, 78-80, 167-168; S.BORGHINI, Uso e caratteristiche del reimpiego nella chiesa di Sant’Angelo a Perugia. Gli spolia come criterio ordinatore dello spazio architettonico, in Reimpiego, pp. 293-301; F.DAMIANI, Materiali di spoglio e criteri di reimpiego nella ricostruzione innocenziana della chiesa di Santa Maria in Trastevere a Roma, Ibidem, pp. 349-357; RAININI 2011, pp. 103-107; 146-155; 194-195. 157 ONIANS 1988, p. 60 ss.; J.J.HERRMANN, The Ionic Capital in Late Antique Rome, Rome 1988, p. 168 ss.; P.PENSABENE, Reimpieghi dei marmi antichi nelle chiese altomedievali a Roma, in G.BORGHINI (a cura di), Marmi Antichi, Roma 1989, p. 58; RAININI 2007, pp. 135-137, Fig. 89. 158 ONIANS 1988, p. 59; RAININI 2007, pp. 62-63; pp. 129131, Figg. 79-80. 159 E.RUSSO, Le basiliche cristiane e i nuovi programmi figurativi. Apparati decorativi, in Aurea Roma, pp. 191-193; RAININI 2007, p. 63. 160 Ringrazio il Prof. Lorenzo Lazzarini, del Laboratorio di Analisi dei Materiali Antichi dell’Università di Venezia (IUAV), per le informazioni e i pareri su tali argomenti. 161 Cfr. supra, p. 74 ; RAININI 2007, pp. 60-64. 162 FABRICIUS HANSEN 2003, p. 116. 163 FABRICIUS HANSEN 2003, pp. 91-94, Figg. 76-77; pp. 103-105, Figg. 87-88. 164 Semicolonna Q: tre frammenti in marmo Rosso Ammonitico, h. m 0,28; Ø tot. m. 0,23. Semicolonna R: rocchio di base in calcare bianco sporco, da originario sommoscapo di colonnina ribaltato, h. m 0,28; Ø tot. m 0,21; spess. collarino m 0,03. Semicolonna T: imoscapo a scanalature tortili in biomicrite grigio-avorio, analogo al fusto della colonna 2, h. m 0,54; Ø tot. m 0,268. 165 Difficile dire se in tale raggruppamento sia possibile includere anche il frammento, in identica Breccia Corallina ma ridotto in pessime condizioni, oggi cementato sul pavimento a ridosso della parete Sud dell’abside occidentale della chiesa. L’apparente differenza di soli 4 cm circa di diametro potrebbe non escludere tale eventualità. 166 Sugli impieghi di questo marmo, cfr. infra Cap. IV C. 3. b. 167 Per comodità di lettura, la numerazione dei singoli capitelli non è autonoma ma coincide con quella della colonna su cui ognuno di essi si trova collocato. 168 Cfr. supra, pp. 74 e 77. 169 Cfr. infra, Cap. IV B. p. 105.
96
170 Con l’unica eccezione, forse, della colonna 5 dove è ravvisabile una certa compatibilità dimensionale fra fusto e capitello, anche se l’ipotesi risulta molto incerta. 171 LAZZARINI 1987, p. 159; IDEM 2002, p. 246; IDEM 2007, p. 223. Cfr. anche infra, Cap. IV C. 2 b., 3. b. 172 BONVICINI 1978, p. 52. Si vedano anche supra, nota 91, e MORETTI 2009, pp. 467-468. 173 PACINI 1991, p. 82. 174 MARIOTTI cit. a nota 91; cfr. anche FERRANTI 1891, p. 10 “…questi avanzi furono trovati sul luogo, o poco lontano”; CROCETTI 1988, p. 25 175 PACINI 1991, p. 83; MORETTI 2009, p. 468. 176 BONVICINI 1978, p. 52, ipotesi sostanzialmente condivisa anche da PACINI 1991, p. 83. 177 PELLEGRINI 1974, p. 461; IDEM 1983, p. 280; ALLEVI 19872, p. 93. Cfr. anche supra, Cap. I, p. 23 e infra, Cap. V, p. 141. 178 Cfr. supra, Cap. I, p. 22. 179 ALLEVI 1987, p. 93. 180 FERRANTI 1891, p. 11; LANDOLFI 2000, pp. 42-43, Figg. 45-48: recuperato nel 1890 in seguito a lavori agricoli. 181 P.BONVICINI, Il cippo da centuriazione di Amandola, in “RAL” S. VIII, XXVII, fasc. 5-6, 1972, pp. 201-202: ritrovato il 23 giugno 1955; IDEM 1978, p. 50, nota 95; pp. 54-57, Fig. 10; MERCANDO-BRECCIAROLI-PACI 1981, p. 342, n. 411; BONORA MAZZOLI 1987, pp. 425-426; MOSCATELLI 19912, p. 533 ss., in particolare pp. 537-542, Figg. 4-5; LANDOLFI 2000, pp. 42, 114; PACINI 2002, p. 10; RAININI 2007, pp. 33-34. 182 In questo caso sembra quasi certo riconoscere in “Valle Cupa” il significato di “valle profonda, scoscesa”, come opportunamente suggerito da PACINI 1966, p. 154, e da PELLEGRINI 1983, p. 269. 183 PELLEGRINI 1983, p. 269. 184 Sul sincretismo della Bona Dea con Cupra si veda COLONNA 1993, pp. 18-21. 185 ALLEVI 1965, pp. 21, 31, 34, 43 ss.; IDEM 1975, pp. 294, 329-330; IDEM 1987, p. 91, nota 112; sulla associazione del toponimo “Cupa” a edifici sacri dedicati alla Dea Cupra si veda anche CHIAVARI 1991, pp. 164-165. 186 ASM/ANS, vol. 94, Atti del notaio Franciscus Iacobi de Claudis de Sarnano 1510-1512, c. 83 v.; cfr. anche PACINI 1991, p. 77, nota 172. 187 SASF/ASCOF, Lib Iur, cc. 18 v.- 20 r.; PACINI 1996, pp. 9495; IDEM 2002, p. 10. 188 Cfr. un caso analogo in CHIAVARI 1991, p. 165 e note 102-
Note
103, dove si parla di un tempietto dedicato alla Dea Cupra nel sito in cui, più tardi, sorse la chiesetta della “Maestà” di Urbisaglia. 189 Cfr. supra, Cap. II, p. 35. 190 SUSINI 1965-1966, p. 108; CONTA 1982, p. 544; ALLEVI 1987, p. 93; COLONNA 1993, p. 21; RAININI 2011, pp. 255-261. 191 COLONNA 1993, p. 19; si veda l’analogo caso dell’edificio di culto dedicato a Cupra sorto a Cupra Maritima sul luogo, forse, successivamente occupato dalla badia di San Martino: SUSINI 1965-1966, p. 96; ALLEVI 1987, p. 91, nota 112. 192 Ann Cam, IV (aa. 1290-1292, 1302), p. 251; LEOPARDI 1783, pp. 45, 94; FERRANTI 1891, II, p. 608; PIERUCCI-POLVERARI 1977, docc. n. 178, 215; CROCETTI 1978, pp. 160-161, docc. n. 10-11; CROCETTI 1994, p. 106; PACINI 2002, pp. 28-29. 193 P.GIACINTO PAGNANI, apud CROCETTI 1978, p. 21, nota 11; ALLEVI 1987, pp. 100-101. 194 CROCETTI 1978, p. 20; IDEM, Processo testimoniale circa i confini territoriali dell’Eremo di San Leonardo de Volubrio, in “QdASAF” 6, 1988, pp. 51-80; IDEM 1994, pp. 106-107. 195 Con tale significato il termine viene riportato dal Regesto Sublacense del 21 luglio 1005, c. 23, rg. 20; cfr. anche CROCETTI 1978, p. 20, nota 6. 196 Che il sito occupasse una posizione strategica, sembra trovare conferma in alcune pagine contenute nelle “Memorie Istoriche” del conte Leopardo Leopardi (LEOPARDI 1783, pp. 44-46) dalle quali apprendiamo che nel 1315 il Comune di Montefortino decise di acquistare la “domus monasterii S.ti Leonardi de Golubrio” per poter controllare ogni possibile ingresso nel proprio territorio da parte di chi provenisse dalla regione umbra scendendo dai Sibillini e per opporre resistenza alle ostilità, tanto dei Vissani, quanto dei Varano di Camerino. Su tale itinerario che univa il centro di Visso a Montefortino, si vedano L.FUMI, Archivio della città di Visso ordinato e descritto, Roma 1901, p. XVI; G.PULIÉ, La pastorizia transumante nell’Appennino umbro-marchigiano, in “L’Universo” n. 5, 1937, p. 388; TROSCÉ 1987, p. 446. 197 CROCETTI 1978, p. 21, nota 11; PACINI 2002, p. 6. 198 ASAF, Fondo Arcivescovile, S. “Inventari” sec. XV, II 01/5, fasc. “Montefortino”, prot. n. 31: doc. C: Inv. San Pietro de Rovitolo, p. 1180, rgg. 14-15, a. 1403; doc. F: Inv. de Montefortino, p. 1170, rg. 17, a. 1407; doc. A: Inv. di San Giovanni de Piedivalle, p. 391, rg. 1, 28 novembre a. 1421; doc. E: Inv. di Santa Maria de Mandarella, p. 1432, rg. 11, a. 1446. 199 SASF/ASCOF, Lib Iur, c. 18 v.; PACINI 1996, p. 93. 200 Vedi supra, Cap. II, p. 31. 201 ASAF cit. alla nota 198, doc. B: Inv. Santa Maria de Bus-
sonico de Montefortino, p. 1178, rg. 22, 8 novembre a. 1403. 202 DEL LUNGO 2001, p. 653. 203 CROCETTI 1978, p. 21, nota 11; BONVICINI 1978, p. 52, nota 106. 204 Il termine “Rota” è tuttora usato nella parlata popolare per indicare le “fasce selvose ed incolte che fiancheggiano i fiumi”, ma l’etimologia rimane ancora incerta. Sul toponimo di origine medievale, ma secondo alcuni coniato sul latino rota-ae (“ruota di mulino, macina”) o rupta (“sentiero”, scil. “(via) rupta”), si vedano DT, p. 655; TROSCÉ 1987, p. 466; CHIAVARI 1989, p. 143, nota 56. 205 Sull’ipotesi, piuttosto incerta e nebulosa, di un culto di Giove nella zona, in particolare al confine fra il territorio Nord-orientale di Montefortino e quello di Comunanza, si veda CROCETTI 1978, cit. a nota 203. 206 MARALDI 2002, pp. 34-41, in particolare pp. 37-38; p. 135, nota 139. 207 Notizia riportata in CIL IX, 5438. 208 S.M.MARENGO, Le iscrizioni, in F.CANCRINI-Ch.DELPLACE-S.M.MARENGO, L’evergetismo nella regio V (Picenum), in “Picus”, suppl. VIII, Tivoli 2001, pp. 102-103; MARALDI 2002, p. 45 e note 177-178. 209 In territorio marchigiano, valga per tutti l’esempio del santuario rupestre di epoca romana, poi cristianizzato intitolandolo all’Arcangelo Michele, in Val Sant’Angelo di Pievetorina: un modesto luogo di culto d’altura monumentalizzato da quattro colonne in marmo Caristio (Cipollino Verde) che, probabilmente, facevano parte del propylon di ingresso alla grotta destinata allo svolgimento dei rituali a sfondo chtonio. Si veda al riguardo RAININI 2011, pp. 261-272.
97
Capitolo 4 Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
A . Introduzione Uno degli aspetti più singolari che caratterizza la cripta di Sant’Angelo in Montespino, contribuendo a renderla una rara testimonianza di libera reinvenzione estetica nell’ambito del costante rapporto dialettico fra antichità classica e spiritualità medievale, è senz’altro costituito dalla inconsueta varietà litotipologica di antichi materiali di spoglio riutilizzati nell’innalzamento del piccolo spazio ipogeo. Si è già avuta, in più occasioni, l’opportunità di rimarcare l’estrema disinvoltura, spinta, talvolta, fino ad infrangere i più comuni principi di proporzionalità e coerenza formale, che caratterizza le frequenti operazioni di montaggio di manufatti assolutamente estranei fra loro, al punto da giungere a ibride, e addirittura sconcertanti soluzioni strutturali. Ad accrescere, in queste ultime, il senso di un’anomala convivenza, spesso più antitetica che simbiotica, tra parti accostate senza apparente logica ed introdotte secondo un indisciplinato sistema additivo, interviene anche la particolare eterogeneità di pietre e marmi. Questi, asportati da differenti originari contesti architettonici, sono stati qui riuniti a creare un variopinto mosaico di colori e di inediti accostamenti vivacizzati, in qualche caso, da veri e propri interventi pittorici. Il tutto, a dispetto della esiguità dello spazio disponibile e del numero limitato di elementi portanti utilizzati a sostegno delle crociere. Entrando, ora, nel merito specifico dei diversi materiali litici, occorre precisare che l’analisi dei marmi colorati è stata condotta sulla base di esami autoptici e macroscopici (ad eccezione del fusto n. 8 e, in parte, della base n. 1) rivelatisi sufficientemente affidabili ai fini di un loro riconoscimento e della relativa catalogazione. Per quanto riguarda, invece, la identificazione dei calcari e dei marmi bianchi, assai più complessa e delicata, si sono resi assolutamente indispensabili approfonditi studi archeometrici, svolti sia attraverso la microscopia polarizzata delle sezioni sottili, sia sottoponendo i diversi campioni ad indagini isotopiche che hanno consentito, grazie alla spettrometria di massa, di determinare il rapporto degli isotopi stabili del carbonio e dell’ossigeno proprio di ciascun tipo di marmo.210 Le sofisticate analisi scientifiche, condotte nel Labo-
ratorio di Analisi dei Materiali Antichi (L.A.M.A.) dell’Università di Venezia (IUAV) dall’“équipe” guidata dal Prof. Lorenzo Lazzarini, 211 hanno avuto come obiettivo principale quello di individuare, mediante il riconoscimento della specifica natura minero-petrografica dei frammenti, la qualità e la provenienza dei singoli manufatti. Ciò ha consentito di stabilire il loro valore intrinseco e di risalire, con il maggior margine di probabilità, al contesto edilizio originario di appartenenza. Tutte le determinazioni sono state eseguite sulla medesima piccola scheggia di marmo, o pietra calcarea, campionata mediante scalpellino; il prelievo ha riguardato sempre parti lasciate grezze, o nascoste, e comunque in modo da procurare il minimo danno possibile e il meno visibile. Dalla scheggia si è ricavato un frammento minuto che è stato ridotto in polvere entro un mortaio di agata per l’esame difrattometrico (Rad. Cu Ka/Ni a 40 KV, 20 mA), quando necessario e finalizzato alla individuazione dell’eventuale presenza di dolomite, e successivamente per l’analisi isotopica. Il frammento più grosso è stato, invece, inglobato in resina poliestere, sezionato, e di seguito utilizzato per la preparazione di una sezione sottile standard, poi studiata petrograficamente in dettaglio al microscopio polarizzatore. Questo tipo di indagine è servita ad evidenziare i minerali accessori e secondari diversi dalla calcite/dolomite, che rappresentano i principali costituenti di tutti i marmi, nonché gli altri parametri dei cristalli di calcite/dolomite e della struttura cui essi danno luogo: tutti dati utili per poter risalire alle cave di origine. In tal modo sono stati determinati: ›› Il tipo di struttura: omeoblastica (con grani isodiametrici), eteroblastica (con grani di diverse dimensioni), a mosaico, a calcestruzzo, lineata, stressata, ecc., in diretta relazione con il tipo e le modalità di sviluppo ed evoluzione del metamorfismo. ›› La forma dei contorni dei grani (dritti, curvi, a golfi, suturati), anch’essa collegata al tipo di evento/i metamorfico/i che ha/hanno generato il marmo. ›› Lo M.G.S. (Maximum Grain Size), cioè la dimensione massima del grano maggiore di calcite/dolomite: parametro di notevole importanza, come evi-
99
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
denziato da recenti studi, 212 essendo legato al grado metamorfico massimo (temperatura) raggiunto dai marmi. Per il dettaglio dell’indagine petrografia, e per i necessari confronti dei risultati, si è tenuto conto soprattutto di studi specifici sui marmi antichi, 213 nonché di trattati classici di petrotettonica, 214 eseguendo contemporaneamente comparazioni con sezioni sottili di marmi di riferimento provenienti da cave note. Le analisi isotopiche, invece, cono state condotte mediante uno spettrometro di massa dedicato, secondo il metodo introdotto nel 1950 da McCrea.215 Si è riusciti, in tal modo, a determinare i valori dei rapporti 18O/ 16 O e 13C/ 12C espressi rispettivamente come δ18O e δ13C, propri dei vari marmi bianchi impiegati in età greca e romana. Tali valori sono stati, poi, inseriti in diagrammi, elaborati per i marmi a grana fine o medio-grossolana (< e > di 2 mm di M.G.S.), 216 riportando i relativi campi di composizione isotopica e proiettando su di essi i punti rappresentativi dei campioni analizzati. La composizione isotopica dell’ossigeno e del carbonio, così come quella di altri elementi a basso numero atomico, è stata convenzionalmente espressa in termini della “unità δ” definita come δcamp = (Rcamp/ Rstd -1) x 1000 dove Rcamp e Rstd rappresentano il rapporto isotopico considerato (18O/ 16O e 13C/ 12C rispettivamente per l’ossigeno e il carbonio) nel campione ed in un opportuno "standard" di riferimento.217 Per il C e l’O, lo "standard" internazionale adottato è noto con la sigla PDB (calcite del rostro della Belemnitella Americana della formazione “Pee Dee” della Carolina del Nord).218 I risultati complessivi degli esami petrografici e delle analisi isotopiche sono stati, infine, confrontati con la banca dati attualmente più aggiornata relativa ai principali marmi usati in antico: Paros, Naxos, Thasos e Pentelico in Grecia; Carrara in Italia; Afrodisia, Afyon e Marmara (Proconneso) in Anatolia.219 Al momento, non sono purtroppo ancora disponibili dati sufficienti per una determinazione, in termini di scientificità assoluta, di altri importanti marmi classici diffusi nel mondo greco-romano, come, ad esempio, quelli di Efeso (gli unici ai quali si è iniziato a dedicare qualche studio specifico) e di altre località della valle del
100
Meandro (Tiunta, Stratonicea, Milasa) in Asia Minore, e quelli greci delle cave peloponnesiache di Mani, Vrestena e Doliana. Più incerta è risultata la classificazione dei calcari e delle arenarie, ancora privi, al momento, di adeguati parametri di confronto relativi alla distribuzione dei giacimenti disseminati lungo la dorsale appenninica (si veda, nel presente studio, il caso analogo relativo alle formazioni calcaree del comprensorio plestino: Cap. X C. 2. a-f.). Ciò che è stato possibile determinare, quindi, si è limitato alla individuazione di bacini estrattivi di una certa estensione, sempre, comunque, circoscritti nell’ambito delle formazioni rocciose locali. In conclusione, sulla base di mirate indagini di laboratorio, si è riusciti ad accertare, fino ad ora, la presenza all’interno della cripta di: dieci tipi diversi di marmi, fra colorati (6) e bianchi (4); tre distinte qualità di calcari e una di arenaria. Un numero, dunque, decisamente elevato di litotipi, considerando la ristrettezza dello spazio architettonico entro il quale essi caratterizzano colonne, basi e capitelli di spoglio.
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
B . Analisi minero-petrografiche di laboratorio su campioni di marmi e rocce L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Capitello
Ubicazione
Cripta
Provenienza
S. Angelo in Montespino (Montefortino – FM)
Campione
MS 1
Prelevato da
I. Rainini
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Struttura
eteroblastica, a mosaico
Cristalli di calcite, contorni
curvi a golfi
M.G.S.
1,20 mm
Minerali Accessori
grafite ±; FeOx ±; quarzo ±; K-mica +
Note
evidenti segni di decoesione intercristallina
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Rapporti isotopici
δ 18O (PDB) = -1,61
δ 13C (PDB) = 2,06
Fig. 57 / Fig. 58 Micrografie campione MS 1.
Legenda
Pe-1/2 = Pentelico Pa-1= Pario (Stephani) C = Lunense D = Docimio
Provenienza probabile
Carrara (Alpi Apuane, Italia)
Analisi eseguite da
L.Lazzarini/F.Antonelli
Data
24/09/2012
101
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Fusto di colonna tortile
Ubicazione
Cripta
Provenienza
S. Angelo in Montespino (Montefortino – FM)
Campione
MS 2a
Prelevato da
I. Rainini
Fig. 59 / Fig. 60 Micrografie campione MS 2a.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche lI campione esaminato in sezione sottile mostra di provenire da una roccia calcarea e presenta una tessitura isotropa e una struttura bioclastica molto porosa (la porosità è stimabile a circa il 20%). La roccia è infatti costituita da abbondantissimi bioclasti di echinidi (principalmente placche di guscio) e di bivalvi (con ogni probabilità rudiste) che appaiono molto rimaneggiati e con contorni per lo più subarrotondati (subordinatamente sub angolosi) immersi in una matrice micritica con abbondanti pori di forma globulare. La roccia è classificabile come una biomicrite (Folk, R.L., 1959) o una Wackstone (Dunham, R.J., 1962). Essa è con ogni probabilità di origine appenninica (locale). Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121.
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino centrale
Analisi eseguite da
L.Lazzarini/F.Antonelli
Data
24/09/2012
102
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Capitello
Ubicazione
Cripta
Provenienza
S. Angelo in Montespino (Montefortino – FM)
Campione
MS 2b
Prelevato da
I. Rainini
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Struttura
eteroblastica lineata, a mosaico (a tratti)
Cristalli di calcite, contorni
a golfi e curvi
M.G.S.
1,34/2,36 mm
Minerali Accessori
grafite +++; K-mica ±; FeOx ± ; quarzo ±; plagioclasio ±; apatite ±
Dolomite
presente
Note
presenta alcuni cristalli tensionati e una fessurazione intra e intercristallina che interessa gran parte della sezione sottile
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Rapporti isotopici
δ 18O (PDB) = -5,51
δ 13C (PDB) = 2,63
Fig. 61 / Fig. 62 Micrografie campione MS 2b.
Legenda
Pe-1/2 = Pentelico Pa-1= Pario (Stephani) C = Lunense D = Docimio
Provenienza probabile
Pentelico (Monte Pentelico, Grecia)
Analisi eseguite da
L.Lazzarini/F.Antonelli
Data
24/09/2012
103
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Capitello
Ubicazione
Cripta
Provenienza
S. Angelo in Montespino (Montefortino – FM)
Campione
MS 3
Prelevato da
I. Rainini
Fig. 63 / Fig. 64 Micrografie campione MS 3.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Il campione esaminato in sezione sottile mostra di essere identico al campione MS 2a. Esso proviene da una roccia calcarea, presenta una tessitura isotropa e una struttura bioclastica molto porosa (la porosità è stimabile a circa il 20%). La roccia è infatti costituita da abbondantissimi bioclasti di echinidi (principalmente placche di guscio) e di bivalvi (con ogni probabilità rudiste) che appaiono molto rimaneggiati e con contorni per lo più subarrotondati (subordinatamente sub angolosi) immersi in una matrice micritica con abbondanti pori di forma globulare.Questo campione si distingue per la presenza anche di sostanza carboniosa sottoforma di particelle finissime concentrate soprattutto nella matrice micritica, ma anche all’interno di molti bioclasti. La roccia è classificabile come una biomicrite (Folk, R.L., 1959) o una Wackstone (Dunham, R.J., 1962). Essa è con ogni probabilità di origine appenninica (locale). Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121.
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino centrale
Analisi eseguite da
L.Lazzarini/F.Antonelli
Data
24/09/2012
104
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Capitelli
Ubicazione
Cripta
Provenienza
S. Angelo in Montespino (Montefortino – FM)
Campione
MS 5 - MS 6
Prelevato da
I. Rainini
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Struttura
Struttura: eteroblastica a calcestruzzo, a mosaico debolmente lineata e tensionata
Cristalli di calcite, contorni
a golfi, suturati
M.G.S.
2,30 mm
Minerali Accessori
grafite +++; K-mica ±; FeOx ± ; quarzo ±; plagioclasio ±; apatite ±
Note
alcuni cristalli con piani di geminazione curvi; incipiente decoesione intercristallina
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Rapporti isotopici
δ 18O (PDB) = -0,26
δ 13C (PDB) = 2,62
Fig. 65 / Fig. 66 Micrografie campioni MS 5 - MS 6.
Legenda
Pa-2 = Pario(Lakkoi) Pa-3=Pario(Karavos) Pr = Proconnesio T-1(2)= Tasio (Aliki) T-3 = Tasio (Vathy) N = Nassio Aph = Afrodisio
Provenienza probabile
Proconnesio (Proconneso, isola di Marmara, Turchia)
Analisi eseguite da
L.Lazzarini/F.Antonelli
Data
24/09/2012
105
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Capitello
Ubicazione
Cripta
Provenienza
S. Angelo in Montespino (Montefortino â&#x20AC;&#x201C; FM)
Campione
MS 7
Prelevato da
I. Rainini
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Struttura
omeoblastica, eteroblastica (a tratti), a mosaico con plaghe a grana fine
Cristalli di calcite, contorni
curvi
M.G.S.
0,66 mm
Minerali Accessori
grafite ++
Note
presenta aree con decoesione intracristallina
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Rapporti isotopici
δ 18O (PDB) = -2,97
Legenda
Pe-1/2 = Pentelico Pa-1= Pario (Stephani) C = Lunense D = Docimio
Provenienza probabile
Carrara (Alpi Apuane, Italia)
Analisi eseguite da
L.Lazzarini/F.Antonelli
Data
24/09/2012
δ 13C (PDB) = 2,33
Fig. 67 / Fig. 68 Micrografie campione MS 7.
106
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Fusto di colonna
Ubicazione
Cripta
Provenienza
S. Angelo in Montespino (Montefortino – FM)
Campione
MS 8a
Prelevato da
I. Rainini
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche L’ aspetto macroscopico della roccia è granitoide, con colore grigio-violaceo e una grana media attorno a 0,3-0,5 cm. Caratteristica è la presenza di qualche feldspato idiomorfo di colore violetto. La tessitura appare isotropa. Lo studio della sezione sottile consente di definire la sua struttura come olocristallina, granulare, debolmente porfirica e costituita da (in ordine decrescente di abbondanza): ›› ortoclasio, leggermente torbido per fenomeni di caolinizzazione, quasi sempre geminato; ›› plagioclasio, quantitativamente presente come l’ortoclasio, geminato albite-karlsbad e non alterato. È di composizione oligoclasio-andesinica; ›› quarzo intergranulare con estinzione ondulata; ›› orneblenda verde, in individui singoli e più raramente geminati con abbondanti inclusioni di minerali opachi e apatite (Fig. 70) ; ›› biotite, ben conservata, talora con inclusioni di minerali opachi e apatite come per l’orneblenda; ›› minerali accessori: titanite, abbondante, anche in grossi individui, apatite, minerali opachi (magnetite e pirite) (Fig. 71). Queste peculiarità petrografiche permettono di classificare la roccia come una quarzo-monzonite caratterizzata da fenomeni di protoclasi sui feldspati. Tale classificazione, associata all’aspetto macroscopico, consente la sua identificazione come “Marmor Troadense” (granito violetto) dal Ģigri Dăg (Ezine, Turchia). Fig. 69 / Fig. 70 / Fig. 71 Micrografie campione MS 8a.
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Massiccio del Ģigri Dăg (Ezine, Turchia Nord-occidentale), cave del versante Nord-Ovest presso la località di Yedi Taşlar
Analisi eseguite da
L.Lazzarini
Data
24/09/2012
107
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Capitello
Ubicazione
Cripta
Provenienza
S. Angelo in Montespino (Montefortino – FM)
Campione
MS 8b
Prelevato da
I. Rainini
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Struttura
omeoblastica a mosaico debolmente lineata
Cristalli di calcite, contorni
curvi
M.G.S.
0,76 mm
Minerali Accessori
K-mica++; grafite++; FeOx± ; Quarzo±; minerali opachi (pirite)+
Note
K-mica in treni, apprezzabile decoesione intercristallina
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Rapporti isotopici
δ 18O (PDB) = -1,45
Legenda
Pe-1/2 = Pentelico Pa-1= Pario (Stephani) C = Lunense D = Docimio
Provenienza probabile
Carrara (Alpi Apuane, Italia)
Analisi eseguite da
L.Lazzarini/F.Antonelli
Data
24/09/2012
δ 13C (PDB) = 2,06
Fig. 72 / Fig. 73 Micrografie campione MS 8b.
108
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Mensa d’altare
Ubicazione
Cripta
Provenienza
S. Angelo in Montespino (Montefortino – FM)
Campione
MS 9
Prelevato da
I. Rainini
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Struttura
eteroblastica a mosaico leggermente tensionata
Cristalli di calcite, contorni
a golfi, curvi
M.G.S.
1,90 mm
Minerali Accessori
K-mica+; grafite++; minerali opachi+ ; quarzo±; apatite±; zircone±
Note
notevole decoesione inter e intracristallina
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Rapporti isotopici
δ 18O (PDB) = -3,43
δ 13C (PDB) = 3,44
Fig. 74 / Fig. 75 Micrografie campione MS 9.
Legenda
Pa-2 = Pario (Lakkoi) Pa-3=Pario (Karavos) Pr = Proconnesio T-1(2)= Tasio (Aliki) T-3 = Tasio (Vathy) N = Nassio Aph = Afrodisio
Provenienza probabile
Paros 2 (Lakkoi, Isola di Paros, Grecia)
Analisi eseguite da
L.Lazzarini/F.Antonelli
Data
24/09/2012
109
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
di umidità, interessano, soprattutto nella colonna 3 priva si piedestallo, la faccia Nord-Est dell’imoscapo. Le peculiarità del tessuto litico qui riscontrate, si ripropongono senza sostanziali difformità anche in altri esemplari di spoglio documentati in territorio maceratese, il che rende probabile l’individuazione dei loci estrattivi in quell’area medio-appenninica umbro-marchigiana (Gole del Furlo) nella quale sono documentati numerosi affioramenti del nostro marmo. Piuttosto scarsi e parziali risultano, a tutt’oggi, gli studi svolti in proposito, per cui le banche dati petrografiche e geochimiche delle quali per ora disponiamo solo in parte riescono a delineare un quadro distributivo completo ed aggiornato del Rosso Ammonitico e a riconoscerne con sicurezza le diverse varietà regionali. Per il momento, la documentazione più rilevante e significativa proviene da Ostia, principalmente all’interno di contesti (peristilio del Palazzo Imperiale risalente all’età di Antonino Pio) che sembrano suggerire, quale epoca di affermazione di questo marmo, la metà circa del II sec. d.C.221
Fig. 76 Marmo Rosso Ammonitico (fusto colonna 1).
C . Marmi colorati 1. Marmi italici a. Rosso Ammonitico (“Rosso Veronese”).(Fig. 76) 220 Distribuzione: Cripta: colonne 1 e 3; quarto gradino scala Sud (?). Chiesa: navata Sud, semicolonna “Q”. Dal punto di vista petrografico, l’olotipo è classificabile come calcare nodulare il quale presenta, nella sua facies più caratteristica attestata negli esemplari di Montespino, una matrice di colore rosso intenso e aspetto finemente foliato, legato a moderati quantitativi di materiale pelitico che accompagnano il carbonato. Si osservano noduli rosato-rossicci di dimensioni millimetrico-centimetriche, a morfologia ellissoidale per lo più schiacciata, ed un significativo contenuto fossilifero prevalentemente costituito da ammoniti e crinoidi. Circoscritte tracce di annerimento, da risalita capillare
110
2. Marmi greci a. Marmo Rosso venato di Chios (“Chiota”, “Marmor Chium”, “Portasanta”).(Figg. 77-78) Distribuzione: Cripta: base colonna 1 (da imoscapo collocato in posizione ribaltata); frammento di rocchio erratico depositato a ridosso della parete Ovest. Si tratta di una delle pietre colorate più diffuse e a lungo apprezzate nel mondo romano, estratta dalle cave dell’isola di Chios, nel medio Egeo orientale, prospiciente la costa anatolica di fronte al golfo di Smirne. Sulla caratterizzazione litologica e cromatica del Marmor Chium, le fonti letterarie antiche sono stranamente piuttosto scarse, e quando ne parlano si limitano, in genere, a citarlo senza fornire descrizioni più dettagliate o commenti sui suoi aspetti estetici, anche se, tra le righe, è possibile cogliere l’alta considerazione in cui esso era tenuto. Analogamente, il suo nome non compare tra i marmi inclusi nell’Editto dioclezianeo del 301 d.C., 222 ma non è difficile immaginarne un costo elevato paragonabile, secondo gli studi più recenti, 223 a quello del Marmo Luculleo
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
e valutato intorno ai 150 denari al piede cubo. Strabone (STRAB., XIV, I, 35) ci informa soltanto che “ἔχει δ᾿ἡ νῆσος καὶ λατόμιον μαρμάρου λίθου”, come già in precedenza Teofrasto (TFR, Lap., 6), senza aggiunger parola né sulla natura del materiale estratto, né sulla ubicazione delle cave. Anche fra gli scrittori latini le testimonianze risultano vaghe e sommarie: Cicerone (CIC., De divin., I, 13, 23; II, 21, 49) parla solo di Chiorum lapicidinae, e non vanno, comunque, al di là di una semplice menzione. Perfino nella solenne lirica di Stazio (STAT., Silv., II, 2, 93) il marmo Chiota viene solo elencato, assieme al Numidico, al Tasio e al Caristio, nella descrizione della villa di Pollio Felice a Sorrento. Fanno eccezione le parole, un po’ più circostanziate, con le quali Plinio (PLIN., NH, XXXVI, 6, 46) afferma che “…le cave di Chio furono le prime, credo, a far conoscere questo marmo picchiettato dai colori cangianti…”. Nel medesimo passo egli, inoltre, ci tramanda l’episodio in cui gli abitanti di Chio, con grande orgoglio, mostrarono a Cicerone, in visita all’isola, le mura della propria città costruite con blocchi di marmo policromo (“…versiculores istas maculas Chiorum lapicidinae”), dando modo all’oratore di ribattere affermando che le avrebbe apprezzate di più se fossero state innalzate “Tiburtino lapide”. La definizione più comune di “Portasanta”, nata probabilmente nel Cinquecento nel gergo dei marmorari romani, si deve al suo utilizzo per la realizzazione degli stipiti della Porta Santa della Basilica Vaticana, oltre che nelle porte “giubilari” delle principali basiliche di Roma (Basilica Lateranense, di Santa Maria Maggiore e di San Paolo fuori le Mura). L’esemplare riutilizzato a Montespino, considerate le sue peculiarità minero-petrografiche, facilmente rilevabili anche ad un esame autoptico e convalidate a seguito di una più approfondita microscopia in laboratorio effettuata su un piccolo campione, risulta senz’altro rientrare nella facies “classica” del “Rosso venato Chiota”.224 Dal confronto con le varianti cromatiche e tessiturali note, è stata individuata la sua tipica natura di breccia tettonica monogenica, composta da clasti angolosi rosati e rosso tenue, a volte sfumati sull’avorio, di dimensioni centimetriche. Essi appaiono immersi in un cemento localmente abbastanza abbondante, color bruno-rossiccio
Fig. 77 Marmo Rosso venato di Chios (base colonna 1). Fig. 78 Frammento di rocchio erratico in marmo di Chios giacente all’interno della cripta.
111
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
intenso, attraversato da frequenti venette secondarie intersecantesi con andamento piuttosto irregolare e riempite di calcite spatica bianca. Le diverse analisi, eseguite su campioni del tutto simili al nostro, con l’impiego del porosimetro a mercurio, hanno rivelato una notevole compattezza del “Portasanta” la quale spiega, quindi, il soddisfacente stato di conservazione che, mediamente, caratterizza questo marmo anche in condizioni di prolungate esposizioni all’aperto e agli agenti atmosferici. Il frammento montespinese conferma un buon comportamento fisico-meccanico, accompagnato da un indice elevato di coesione strutturale, malgrado sia riscontrabile, nel nostro caso, un parziale fenomeno di deterioramento che interessa di frequente il marmo Chiota. Si tratta di un leggero viraggio cromatico, osservabile nelle aree pigmentate in rosso da ematite che assumono una colorazione tendente al bruno, dovuto, probabilmente, ad “idratazione superficiale dell’ematite con formazione di ossidi idrati tipo limoniti” (Lazzarini) e legato all’incidenza dell’umidità presente in un ambiente esterno non confinato. Sulla base di questo dato, si potrebbe ipotizzare una originaria collocazione del rocchio in oggetto, e parimenti del citato frammento erratico colpito dal medesimo tipo di degrado, nell’ambito di un contesto edilizio a contatto con aree boschivo/campestri dove più frequente ed aggressiva può essersi rivelata l’incidenza dei valori igrometrici. Questi ultimi, inoltre, sembrerebbero imputabili più a fenomeni di percolazione o, soprattutto, di condensazione, che non di risalita capillare vista l’assenza di effetti di scagliatura e polverizzazione che, normalmente, si verificano in presenza di terreni umidi o erbosi. Le cave antiche dalle quali, per secoli, fu estratta la nostra pietra sono tutte concentrate nell’isola di Chios, su una collina che si eleva ad appena 2 km a Nord-Ovest della omonima città, nella località non a caso denominata “Latomion” (Latomi)225 che costituiva un unico grande giacimento con numerosi loci aperti a diverse quote.226 Essi risultano sfruttati già in epoca molto antica, almeno dal VI-V sec. a.C., 227 ma ancor più abbondante si rivela l’attività estrattiva nel corso dell’età ellenistica, allorché si sviluppò sull’isola una massiccia produzione di stele
112
funerarie che si diffuse tra il II sec. a.C. e il II d.C. Fu proprio dalla conquista romana di Chios (146 a.C.) che il nostro marmo iniziò ad essere esportato a Roma, assieme ad altri litotipi colorati provenienti dal mondo greco (“Rosso Tenario”, “Caristio”) e medio-orientale (“Luculleo”, “Numidico”, “Frigio”). Nell’Urbe il suo impiego divenne, però, significativo solo a partire dall’età sillana quando (85 a.C.) l’isola fu conquistata in maniera definitiva dal console Lucio Licinio Lucullo (120-57 a.C.), lo stesso a cui si deve l’introduzione in città, e sui mercati del Mediterraneo, del cosiddetto marmo “Africano” o “Luculleo”.228 Sappiamo che le cave vennero statalizzate a partire almeno dal periodo giulio-claudio, come confermerebbero i marchi di fabbrica più antichi a noi noti risalenti al principato di Nerone, ma la loro abbondanza durante i regni di Domiziano e Traiano suggerisce come momento di maggior commercializzazione del marmo Chiota quello compreso fra lo scorcio finale del I e i decenni iniziali del II sec. d.C., anche se il suo uso continuò sicuramente in epoche successive fino all’età tardo-antica, giungendo addirittura alla fase del dominio bizantino sull’isola (XI sec.). A fronte di quanto si è detto riguardo alla lunghissima durata della coltivazione e dello sfruttamento dei giacimenti, appare evidente come questa pietra, pur preziosa, sia tutt’altro che rara nei principali contesti archeologici e monumentali dell’area mediterranea, diventando, soprattutto nel corso del medio Impero, pressoché ubiquitaria nelle diverse province del mondo romano. I reperti più antichi e numerosi, come c’è da aspettarsi, sono documentati a Roma, specialmente sotto forma di rivestimenti pavimentali in sectilia e crustae: a titolo esemplificativo, si veda la ricca documentazione restituita dalle domus soggiacenti il Ludus Magnus e la Basilica di San Pietro in Vincoli;229 da tutta l’area forense e in particolar modo dalle Basiliche Emilia e Giulia e dagli Horti Caesaris;230 copiose attestazioni si segnalano, poi, lungo il fianco Nord del Tempio A di Largo Argentina, nel cosiddetto “Hecatostylum” (la probabile Porticus Lentulorum, 57-49 a.C.) e nel peristilio della Casa di Augusto sul Palatino.231 Fuori dall’Urbe, colonne in “Portasanta” si contano a Lucus Feroniae (Villa dei Volusii), 232 Ostia (“Domus di Amore e Psiche”, Terme di Nettuno), Villa
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
Adriana a Tivoli (Piazza d’Oro), Pompei (“Domus dello scheletro”) e Ercolano (“Domus del rilievo di Telefo”),233 ma anche nei principali centri fioriti in gran parte del Mediterraneo: Leptis Magna, Cirene (Terme adrianee e traianee), Efeso, Delos, per limitarci solo ad alcuni dei più importanti.234 L’elevata funzione decorativa del Marmor Chium ne giustifica il largo impiego anche nei contesti architettonici delle scaenae frontes di numerosi edifici teatrali (Orange, Arles), soprattutto italiani dell’area siculo-campana: lo ritroviamo, infatti, a Taormina, Sessa Aurunca, Cales, Teano, Nocera, sovente abbinato a colonne in “Giallo Numidico”, in “Caristio di Eretria” e in “Luculleo”. L’apprezzamento di cui godette per secoli si coglie altresì nei frequenti reimpieghi, specialmente di colonne o di grandi lastre parietali, in prestigiosi monumenti religiosi paleocristiani e medievali della capitale. Oltre alle già citate basiliche “giubilari”, ricordiamo gli splendidi esemplari di Sant’Agnese fuori le mura, di San Giovanni dei Fiorentini, di Santa Sabina, di San Saba, della Chiesa del Gesù, per non parlare, passando a Venezia, della spettacolare sequenza di rivestimenti marmorei nella Basilica marciana, messi in opera sia all’esterno (parete del Tesoro, Facciata corrispondente alla Loggia), sia internamente (iconostasi, pareti, pilastri dell’arco di trionfo). I contesti citati, che rappresentano solo una selezione fra i numerosissimi esempi disponibili entro i vasti confini dell’Impero, testimoniano, dunque, sempre un uso mirato di questa pietra, collocata, in genere, in modo da valorizzarne le qualità cromatico-strutturali capaci di conferire magnificenza all’apparato architettonico e decorativo di riferimento. In conclusione, alla luce dell’ampia panoramica che si è voluta qui, in parte, delineare, risulta pienamente legittimo ricondurre i due esemplari pervenuti a Montespino, assieme ad altri di cui ci occuperemo, senza dubbio ad una edilizia di prestigio, presumibilmente privata. A dispetto di una ubicazione territoriale periferica e marginalmente coinvolta da processi di monumentalizzazione, è immaginabile che essa ostentasse una evidente nobiltà estetica al fine di celebrare, di riflesso, l’autorevolezza di una committenza raffinata e di elevato rango sociale.
Fig. 79 Marmo Tessalico (fusto colonna 5).
b. Marmo Tessalico (“Marmor Thessalicum”, “Lapis Atracius”, “Verde Antico”).(Fig. 79) Distribuzione: Cripta: colonna 5. La denominazione di questa pregiata qualità di marmo greco deriva dalla regione d’origine, la Tessaglia, dove sono stati individuati gli antichi loci estrattivi a pochi km dalla città di Larissa, presso Chasabali, in corrispondenza dei rilievi collinari culminanti nel Monte Mopsion.235 L’appellativo “Atracius”, invece, trae origine dalla città tessala di Atrax, prossima all’area occupata dalle cave, a tutt’oggi non ancora localizzata ma situata, come riferisce Strabone (STRAB, IX, 5, 19), “τῷ ποταμῷ (Πενειῷ) πλησιάζουσα ”, nelle vicinanze del fiume Peneo, e a monte del centro di “ Ἄργισσα ” (odierna Argissa Magoula) dal quale “ ὑπέρκειται...τετταράκοντα σταδίοις ”
113
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 80 Marmo Tessalico: particolare del degrado superficiale.
distava quaranta stadi (circa 7 km).236 Tito Livio (LIV., XXXII, 11) ci fornisce una ulteriore coordinata geografica, affermando che l’abitato di Atrace “decem ferme millia a Larissa abest…” sorgeva a circa dieci miglia di distanza (quasi 15 km) dalla città di Larissa.237 Il nome di “Verde Antico”, infine, è di origine piuttosto recente e si deve a Giovanni Marangoni238 il quale, nel corso della prima metà del XVIII sec., descrivendo le colonne romane riutilizzate all’interno della chiesa di San Giovanni in Laterano, introduce per primo questo termine destinato a diventare d’uso comune, poi, in buona parte della letteratura archeologica e storico-artistica dell’Ottocento.239 Venendo a considerare le fonti classiche, ad eccezione dell’Onomasticon di Giulio Polluce (POLL. VII, 23) risalente al II sec. finale (180 d.C.) che costituisce il documento più antico a noi noto e nel quale il nostro marmo viene semplicemente nominato, la documentazione let-
114
teraria al riguardo risulta, nel suo insieme, molto tarda. Essa si colloca, infatti, fra la seconda metà del IV (Gregorio di Nissa)240 e il VI sec. d.C. (Eustazio, 241 Stefano Bizantino242 e, soprattutto, Paolo Silenziario243), mentre i versi contenuti nell’Ekphrasis dedicata da Costantino Rodio, tra il 931 e il 944, all’Apostoleion costantinopolitano, 244 costituiscono l’estremo inno rivolto alla bellezza del Verde Tessalico. Fra tutti, merita esplicita menzione Paolo Silenziario per le parole con le quali esprime la propria entusiastica ammirazione nei confronti del Lapis Atracius, abbondantemente utilizzato all’interno della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, invitandoci a contemplare “… Ἀτρακὶς ὁπποσα λευροῖς / χθῶν πεδίοις ἐλόχευσε καὶ οὐχ ὑψαύχενι βήσσηι, / πῆι μὲν ἅλις χλοάοντα καὶ οὐ μάλα τῆλε μαράγδου, / πῆι δὲ βαθυνομένου χλοεροῦ κυανώπιδι μορφῆι· / ἦν δέ τι καὶ χιόνεσσιν ἀλίγκιον ἄγχι μελαίνης / μαρμαρυγῆς, μικτὴ δὲ χάρις συνεγείρετο πέτρου.” (vv. 641-646) “…quanti ancora la terra di Atrace ha partorito su terre pianeggianti e non su balze scoscese, dove un gran numero di aloni verdeggianti ora sono assai simili allo smeraldo, ora declinano in un cupo verdone; ma ecco macchie simili al candore della neve vicine al nero scintillante e questa fusione di bellezza infonde vita alla pietra”. Versi, quelli del raffinato poeta bizantino, che testimoniano l’alta considerazione in cui era tenuto questo marmo, utilizzato in uno dei più prestigiosi edifici sacri del mondo antico ed ammirato al punto da essere scelto per ben dodici sarcofagi imperiali, la cui memoria ci è stata tramandata dall’elenco compilato, intorno alla prima metà del X sec., da Costantino VII Porfirogenito nel suo “De cerimoniis aulae byzantinae”.245 Del resto, a sancirne definitivamente la preziosità ufficialmente riconosciutagli dal potere centrale, interviene il calmiere dioclezianeo dove la valutazione a 150 denari per piede cubo colloca il “Tessalico” ai primi posti nella graduatoria dei marmi antichi più celebri e stimati. Per quanto concerne la classificazione petrografia, si tratta di una breccia oficalcitica composta da una matrice verde formata da una miscela più o meno omogenea di antigorite e calcite. La colorazione appare graduata da un verde scuro piuttosto intenso fino a tonalità smeraldine, dipendenti dal rapporto in percentuale fra le due componenti, e da clasti bianchi, sempre di calcite, e ver-
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
de-nero di serpentino eterogenei per forma e dimensioni. La varietà più apprezzata in antico, e che trova esatta corrispondenza con l’esemplare montespinese, è quella verde chiaro mescolato ad abbondanti macchie bianco-latteo, angolose e spesso a forma di mandorla, e nere, per lo più globulari, frequentemente isodimensionali da millimetriche a centimetriche, ma prive, le prime, delle caratteristiche “aureole” verdastre disposte di solito con struttura raggiata. Di estremo interesse scientifico, nel nostro caso, si sono rivelate le analisi fisico-chimiche svolte sempre dal Laboratorio di Analisi dei Materiali Antichi dell’Università di Venezia. Meritevoli di attenzione sono stati, soprattutto, i dati emersi dalle indagini porosimetriche i quali indicano nel “Verde Antico”, se esposto per lungo tempo all’azione degli agenti atmosferici, un marmo altamente soggetto al deterioramento provocato, in particolar modo, da elevati tassi di umidità e dalla presenza di vapori salini, anche se ad essere aggrediti risultano, principalmente i livelli più superficiali o di limitata profondità.(Fig. 80) Gli effetti più appariscenti dell’alterazione si manifestano, in genere, sotto forma di una patina color bruno provocata dalla lisciviazione del ferro presente nella magnetite contenuta all’interno delle rocce oficalcitiche. Tale fenomeno si riscontra con chiarezza nel nostro esemplare, soprattutto a circa metà del fusto, dove si evidenzia anche un principio di degrado fisico degenerato in una parziale decoesione strutturale della matrice la quale è interessata da una moderata alveolizzazione dovuta alla conseguente dissoluzione della calcite dei clasti marmorei.246 Ciò giustifica il moderno intervento di rinforzo tramite l’inserimento di una fascia metallica la quale, mentre ha consolidato il fusto proprio in corrispondenza del punto più ammalorato, è stata però anche responsabile di un parziale deposito di ruggine provocato dall’ossidazione del ferro che l’umidità ha poi diffuso nella zona immediatamente circostante. Un terzo tipo di deterioramento, inoltre, è distinguibile lungo la metà inferiore della colonna, limitatamente alla faccia orientale, la quale si presenta invasa da un esteso annerimento che coinvolge lo strato più esterno. Si tratta di un caso tutt’altro che raro, come si è già visto, all’interno della cripta dove risultano frequenti i negativi effetti dell’aggressione da parte di colonie di alghe
cloroficee le quali, nelle zone in cui sono venute meno le loro funzioni vitali, hanno dato origine alla tipica colorazione scura, mentre dove persiste ancora un’attività biologica (fascia mediana, sommoscapo e ipotrachelio, parti del capitello) il colore ha mantenuto la sua originaria intonazione verdastra. Da ciò, risulta evidente che la causa di tale forma di degrado è da imputare ai fattori microclimatici rilevabili all’interno della cripta. Trattandosi di un vano ipogeo scarsamente areato e caratterizzato da elevati indici di umidità prodotti dalla natura boschiva dell’ambiente circostante, essi hanno innescato, nel tempo, irreversibili processi di alterazione cromatica, in parte tuttora in atto. L’entità dei danni che, con diversa incidenza e lungo un millenario arco temporale, hanno influito in maniera determinante sull’attuale stato di conservazione della colonna in esame, rende estremamente difficile risalire alle sue originarie condizioni e valutare, di conseguenza, quanto sia imputabile alle vicende legate al primitivo contesto edilizio di appartenenza, o agli effetti determinati dal suo riuso secondario. Le analisi diagnostiche condotte sui campioni prelevati dalle aree del fusto e del capitello maggiormente interessate dai diversi processi di alterazione, sembrerebbero attribuire principalmente al secondo l’azione di quelle componenti climatico-igrometriche che hanno portato ad una metamorfosi localizzata della naturale colorazione del nostro marmo (così come di quella del capitello) e alla degenerazione del suo più caratteristico aspetto brecciato. Tale effetto sembra essersi intensificato in tempi abbastanza recenti, come si evince dal confronto fra l’aspetto odierno e quello illustrato da una vecchia fotografia della cripta risalente al 1940(Fig. 40 b) nella quale, in generale, fusti e capitelli appaiono in condizioni migliori grazie ad una tessitura superficiale apparentemente meno snaturata rispetto ad oggi. Osservando, invece, la circoscritta destrutturazione per impoverimento dei clasti di calcite, accompagnata dalla formazione di patine in seguito a lisciviazione delle sostanze ferrose presenti nelle componenti della pietra, essa potrebbe denunciare una situazione ambientale forse diversa. Non si può escludere l’incidenza di elevati coefficienti di sostanze saline che rendono ipotizzabile anche un ambito territoriale non coincidente con il comprensorio pedemontano pertinente alla fondazione montespinese.
115
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Il nostro marmo fu, per la prima volta, introdotto a Roma agli inizi del II sec. d.C., soprattutto per volontà dell’imperatore Adriano che lo volle per la propria Villa di Tivoli e come ornamento del suo sontuoso mausoleo. Alla seconda metà dello stesso secolo appartiene, invece, il monumento pubblico forse più importante nel quale vennero introdotte colonne in “Verde Antico”: l’Arco trionfale di Marco Aurelio sulla Via Lata (161-180 d.C.), demolito nel 1662. Trattandosi di un litotipo assai pregiato e molto ricercato, attualmente sono del tutto eccezionali i contesti di epoca romana in cui si conservano colonne di questo marmo essendo state, in massima parte, reimpiegate per secoli in chiese e palazzi medievali, rinascimentali e barocchi dove la loro presenza è pressoché ubiquitaria.247 Decisamente considerevole, invece, è la documentazione ancora esistente in situ di opera sectilia, sia parietali che pavimentali, a partire nuovamente da Villa Adriana248 e dalle Terme adrianee di Leptis Magna,249 con indici di diffusione assai elevati rilevabili, nel corso dell’età imperiale medio-tarda, in particolare nel Nord Africa e lungo l’intera Penisola italiana.250 É, comunque, il periodo bizantino il momento in cui il lapis atracius sembra aver conosciuto la sua massima popolarità e l’uso più frequente, specie quando, intorno alla metà del V sec., andò a sostituire il più regale Porfido Rosso Antico la cui estrazione cessò a causa del collasso economico che coinvolse le cave egiziane, assieme a molte di quelle distribuite in gran parte dell’Impero. Si pensi, infatti, al suo imponente utilizzo primario in molti dei più prestigiosi edifici sacri di Costantinopoli (Chiesa dei Santi Sergio e Bacco, Basilica di Santa Sofia, Apostoleion), Tessalonica (Chiese di Santa Sofia, di San Demetrio e dell’Acheropita), Efeso (Chiesa di San Giovanni), Filippi in Macedonia (Basilica “B”), isola di Thasos (Basilica Paleocristiana), Gortina, nell’isola di Creta (San Tito) ecc., senza contare i già citati sarcofagi imperiali in “Verde Antico” un tempo conservati nei Mausolei di Costantino e Giustiniano all’interno della Chiesa dei Santi Apostoli di Costantinopoli.251 Nel mondo occidentale, invece, come si è già ricordato, rarissimi sono i casi in cui il marmo Tessalico risulta ancora in opera in contesti edilizi antichi, mentre straordinariamente massiccio è stato il suo impiego secondario,
116
in massima parte sotto forma di colonne ma non di rado anche come lastre di rivestimento parietale in edifici ecclesiali, o all’interno di altari con funzione di paliotti, oppure nell’ambito di iconostasi, di plutei, di mense sigmoidali, anche in questi ultimi casi, però, il più delle volte come pezzi ricavati dalla segagione longitudinale di originarie colonne romane. In Italia, le concentrazioni più significative sono individuabili, naturalmente, a Roma, soprattutto nella Basilica di San Giovanni in Laterano dove spiccano ben ventiquattro monumentali colonne provenienti, secondo una diffusa tradizione, dal Mausoleo di Adriano, ma anche in Sant’Andrea della Valle, Sant’Alessio, San Luigi dei Francesi, Santa Maria della Vittoria, nella Chiesa del Gesù ecc. Altrettanto consistenti numericamente e qualitativamente sono, però, le attestazioni rilevabili anche in quei centri che più di altri hanno intrattenuto stretti rapporti con il mondo bizantino e con la sua cultura: in modo particolare Ravenna, nel Duomo (l’antica Basilica Ursiana) e in San Vitale, e soprattutto Venezia dove il “Verde Antico” rappresenta il litotipo più largamente usato, dopo il marmo Proconnesio, nella Basilica di San Marco. Qui è confluito un sorprendente quantitativo di colonne inserite tanto esternamente, sulla facciata principale e su quella Sud, quanto all’interno. In buona percentuale sono di provenienza costantinopolitana da dove vennero prelevate in seguito alla conquista della città, avvenuta nel 1204, ad opera dei Veneziani nel corso della IV Crociata.252 c. Marmo Caristio (“Marmor Carystium”, “Marmor Styrium”, “Cipollino verde Euboico”).(Figg. 81-82) Distribuzione: Cripta: colonna 6 e imoscapo colonna 4. A questa celebre e diffusissima qualità di marmo greco, estratto dalle cave prossime alle antiche città di Karystos e Styra situate nella zona meridionale dell’isola di Eubea, già sono stati recentemente dedicati ampi ed approfonditi studi che ne hanno ormai definitivamente chiarito i caratteri minero-petrografici e geochimici, gli aspetti archeometrici ed il panorama relativo alla sua storia, all’uso e alla diffusione nel mondo romano fino alla pri-
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
Fig. 81 Marmo Caristio (fusto colonna 6). Fig. 82 Marmo Caristio: particolare del degrado superficiale e strutturale.
ma età bizantina.253 Di maggior interesse, in questa sede, risulta, quindi, prenderne in considerazione le peculiarità litologiche per accertare i più evidenti e significativi fenomeni di deterioramento e risalire alle probabili cause che ne sono state all’origine. La facies che caratterizza l’esemplare n. 6 è quella a scistosità piano-parallela, con striature da millimetriche a centimetriche bianche e verdi abbastanza ben definite, contraddistinte da passaggi netti anche in aree contigue e sporadicamente intercalate da macchie color bianco-giallastro e grigio scuro. Il taglio originario del blocco di marmo “al verso”, lo stacco cromatico netto, l’intonazione color avorio dei livelli bianchi e l’isoparallelismo della tessitura, conferiscono alla superficie un effetto decorativo decisamente gradevole. Quest’ultimo, tuttavia, risulta apprezzabile solo nella metà superiore, circa, del fusto dal momen-
to che quella inferiore, poco al di sotto della moderna fascia metallica inserita allo scopo di consolidarne la tenuta statica, si presenta, oggi, gravemente compromessa dagli effetti corrosivi degli agenti climatici.(Fig. 82) Anche in questo caso, come nelle colonna precedente, si registra un recente peggioramento delle condizioni rispetto a quanto sembra documentarci la già citata fotografia della cripta(Fig. 40 b) scattata nel quarto decennio del secolo scorso. Le forme di deterioramento maggiormente gravi che hanno aggredito lo strato più esterno, dimostrano la prolungata esposizione del manufatto all’aperto, responsabile principale dei macroscopici fenomeni di erosione e alterazione differenziale provocati, tanto dal degrado di origine termica, quanto dall’azione dissolvente che l’acqua mteorica, resa acida dall’anidride carbonica, ha determinato nella componente carbonatica dei primi livelli del substrato litico. Nel nostro caso, dunque, gli esi-
117
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 83 Marmo Caristio (imoscapo colonna 4).
ti degenerativi si manifestano, in primo luogo, nei modi tipici della cosiddetta “cottura” superficiale del marmo254 che ha comportato la parziale perdita delle vene fillosilicatiche verdi e la disaggregazione dei cristalli di calcite, verificabile anche mediante il semplice sfregamento delle dita, dando così origine ad un viraggio cromatico con effetto “gessoso” di imbianchimento diffuso. Un danno secondario è riconoscibile nella formazione di micro-canali di dissoluzione, con andamento solidale ai piani di scistosità, accompagnati da deboli segni di “pitting” marginale localizzato dovuto ad abrasione eolica. Una simile varietà delle manifestazioni di degrado superficiale, oltre ad indicarci come macrofattori scatenanti l’insolazione e il processo di decomposizione dei letti carbonatici generato dal dilavamento prodotto dalle precipitazioni atmosferiche, consente di individuare anche altre concause. Queste sono, in generale, riconducibili alle condizioni ambientali del contesto edilizio di
118
origine, interessato da un’accentuata incidenza dell’umidità, delle escursioni termiche dipendenti dai cicli stagionali e degli effetti erosivi del vento, evidentemente aggravate da un plurisecolare stato di abbandono. Esse sono però, ancora una volta, imputabili anche alle peculiarità climatiche da sempre presenti all’interno della cripta. La più volte ricordata conformazione di quest’ultima, sotterranea, scarsamente areata ed immersa in una natura boschiva e selvaggia, non ha indubbiamente ostacolato a sufficienza, pur essendo uno spazio confinato e protetto, il permanere di una situazione nell’insieme sfavorevole ad una adeguata salvaguardia dell’integrità dei manufatti antichi in essa contenuti. Il basso coefficiente di assorbimento del marmo Cipollino (in H2O = 0,10), determinato attraverso la porosimetria al mercurio,255 ha contribuito a circoscrivere le lesioni solo agli strati superficiali dell’esemplare montespinese. Esse, come si è già riscontrato anche sulle colonne ad esso adiacenti, risultano concentrate sulla faccia Est del fusto, orientata in direzione dell’abside e rivolta, quindi, verso le monofore aperte sull’ambiente circostante che determinavano una esposizione più diretta a sbalzi di temperatura e alla penetrazione di correnti d’aria umida. Venendo, ora, a considerare il secondo manufatto in marmo Caristio, limitato all’imoscapo della colonna 4,(Fig. 83) ci troviamo di fronte alla stessa facies a scistosità piano-parallela, contraddistinta, però, da una conformazione molto meno regolare, con andamenti a tratti meandriformi, e da aree a volte anche estese percorse da maculazioni color avorio. Anche i passaggi fra le striature verdi e bianche, mediamente più centimetriche che millimetriche, appaiono spesso poco definiti con tenui effetti di sfumato e di opalescenza delle tinte di base. L’aspetto che, tuttavia, si nota maggiormente risiede nello stato di conservazione che risulta di gran lunga superiore a quanto si è potuto constatare specie nella metà inferiore della colonna 6. Ad eccezione di un circoscritto annerimento localizzato sulla faccia Nord, nessun danno di rilievo, infatti, ha intaccato la superficie, malgrado la collocazione del rocchio alla base del fusto, a contatto con il piano pavimentale, lo abbia esposto, in teoria, maggiormente ai frequenti fenomeni di infiltrazione d’acqua e di risalita capillare. Le ragioni che, verosimil-
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
mente, hanno concorso a rendere il frammento immune dal degrado chimico-fisico che ci aspetteremmo, vanno innanzi tutto ricercate nella sua sopraelevazione su una base in dura pietra calcarea che lo ha evidentemente isolato dal suolo, impedendo quei dannosi effetti provocati dall’umidità che hanno, invece, coinvolto le colonne vicine: tutte, non a caso, “a stilobate”. In secondo luogo, un ruolo importante è stato senz’altro svolto anche dalla posizione a circa metà dell’ambiente, precisamente a quasi 6 m di distanza (m 5,955) dalla finestrella più vicina, la sinistra, e alle spalle delle colonne 6 e 8, conseguentemente, quindi, più al riparo dai flussi di aria fredda e umida provenienti dalle monofore absidali. Valutando, in conclusione, nel loro insieme le condizioni in cui il pezzo ci è pervenuto, possiamo renderci conto dell’importanza che le variabili del grado di incidenza dei fattori microclimatici del contesto secondario hanno avuto sul diverso stato di conservazione delle colonne. Nonostante, infatti, l’identità degli aspetti tipologici e qualitativi del marmo, gli esemplari n. 4 e 6 rivelano due comportamenti profondamente diversi in stretto rapporto alle differenti modalità di reimpiego, alla rispettiva dislocazione lungo l’asse longitudinale e alla maggiore o minore prossimità alle fonti responsabili, in buona parte, dei vari fattori di deterioramento strutturale. 3. Marmi microasiatici a. Marmo Sagario (“Marmor Sagarium”, “Breccia Corallina”).(Fig. 84) Distribuzione: Cripta: colonna 7. Chiesa: abside Ovest, parete meridionale: frammento di fusto erratico cementato sul pavimento. I due esemplari montespinesi presentano caratteri litologici che legittimano la loro assegnazione alla facies più comune di questa breccia di origine microasiatica, considerando, soprattutto, la tipologia dei clasti, numerosissimi e di dimensioni da millimetrica a decimetrica, color bianco e avorio immersi in un cemento di calcite di colore rosato-rossiccio dovuto a dispersione di ematite.256 Analizzando il fusto meglio conservato, quello della colonna 7, possiamo osservare le peculiarità petrografiche
sopra descritte in special modo nella sua metà superiore, essendo quella inferiore, come spesso è avvenuto anche in altri sostegni della cripta (colonne 2-3, 5-6), intaccata da estesi annerimenti superficiali, a tratti penetrati, qui, più in profondità,(Fig. 85) i quali testimoniano una esposizione del manufatto a prolungati “stress” ambientali di una certa intensità. Principale responsabile, ancora una volta, è il fattore umidità, sia che esso possa essere dipeso già in antico da fenomeni di risalita capillare da un terreno ricco di sostanze acide o saline, sia che ad intensificarne e a prolungarne successivamente l’effetto abbia contribuito l’habitat particolare della struttura ipogea. Se sulle condizioni del contesto primario non possediamo alcuna informazione, sulla responsabilità, invece, del secondo sembrano non sussistere dubbi. La conferma ci proviene dalla manifesta concentrazione
119
Fig. 84 Marmo Sagario (fusto colonna 7).
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
del degrado nella zona mediana e bassa della colonna, e in particolar modo nella sua metà orientale rivolta verso le finestre absidali dove i danni risultano accentuati dai valori non trascurabili di porosità e del coefficiente di imbibizione della Breccia Corallina. Parallelamente, le caratteristiche macro-morfologiche delle alterazioni superficiali, distinguibili tanto in un iniziale processo di decoesione dei clasti, quanto nel formarsi di un annerimento localizzato, chiamano in causa, ancora una volta (si veda l’esempio della colonna 5), l’azione di biodeterioramento svolta da microrganismi autotrofi che necessitano, per i loro cicli biologici, principalmente di umidità e di luce. Particolarmente evidente è l’attacco di colonie di alghe e licheni responsabili dell’aggressione chimica delle sostanze acide prodotte durante la fase di attecchimento e crescita. Nel momento in cui si è verificato un arresto delle loro funzioni vitali, la necrosi ha prodotto la perdita progressiva dell’originario aspetto verde brillante al posto del quale è subentrata la tipica colorazione nera, o grigia, accompagnata, nel nostro caso, da un principio di destrutturazione nei livelli iniziali del substrato lapideo, con conseguente microdisgregazione della calcite contenuta nel cemento. Non stupisce che la nostra colonna, e con essa la n. 5, la n. 6 e solo parzialmente la n. 8, maggiormente immune grazie alla sua compatta struttura granitoide, risultino fra quelle più interessate da formazioni di efflorescenze algo-lichenose, o dagli effetti erosivi della condensa, malgrado la diversa qualità dei marmi di cui sono composte. Esse, infatti, sono collocate al termine della navata, cioè a pochissima distanza dalle monofore aperte sulla vegetazione circostante dalle quali umidità e particellato di varia natura sono liberi di penetrare per anemoforesi nell’ambiente e di attaccare le superfici più direttamente esposte. A tale proposito, è utile osservare il coinvolgimento nel medesimo fenomeno anche dei tratti iniziali della parete perimetrale Nord, e in misura minore di quella Sud, contigui alle tre fonti di aria e di luce,(Fig. 86) dove tenaci depositi stratiformi di alghe e muschi rivestono i masselli dello spiccato murario raggiungendo l’ottavo filare dal basso per poi diminuire, fino ad esaurirsi, mano a mano che si procede verso Ovest allontanandosi dallo spazio absidale.
Fig. 85 Marmo Sagario: particolare del degrado superficiale.
120
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
Passando, ora, a considerare della nostra breccia gli aspetti relativi alla sua origine e alla diffusione nell’ambito delle Province dell’Impero, va precisato che la denominazione originaria di “Marmor Sagarium” deriva dalla prossimità delle cave antiche all’omonimo fiume che scorre in Bitinia, corrispondente all’odierna Turchia Nord-occidentale (loc. di Vezirhan, nella provincia di Bilecik) dove si sono conservati numerosi loci estrattivi originari, un tempo sicuramente distribuiti in tutta la regione.257 Malgrado l’indiscussa notorietà di cui a lungo godette la nostra pietra e gli elevati indici di diffusione che giunsero ad interessare l’intera penisola italiana ed estese aree del Mediterraneo centro-orientale, 258 essa non solo non compare nel “Calmiere” dioclezianeo del 301 d.C., ma viene inspiegabilmente ignorata anche da parte della letteratura antica maggiormente attenta ed aggiornata, di solito, sull’argomento. La sola eccezione che, forse, dedica un rapido accenno alla Breccia Co-
rallina, anche se manca la certezza assoluta che di essa si tratti visto che non viene esplicitamente nominata, è costituita da un passo della già citata ékfrasis della basilica costantinopolitana di Santa Sofia di Paolo Silenziario (P.SIL, vv. 632-633) nel quale il poeta nomina in maniera vaga “…ὁππόσα Λύδιος ἀγκὼν / ὠχρόν ἐρευθήεντι μεμιγμένον ἄνθος ἑλίσσων” (“…quali (scil. marmi) puoi trovare sulla vetta incurvata di Lidia, dove un pallido fiore si aggira mescolandosi di rosso”).259 É assai probabile che il “Sagario” abbia cominciato ad essere importato a partire dal periodo tardo-augusteo, affermandosi, poi, nel corso di tutta l’età imperiale per giungere, infine, a quella bizantina avanzata. I campi di applicazione, tuttavia, sembrano abbastanza limitati, concentrandosi principalmente nell’ambito dei rivestimenti parietali e pavimentali: ne sono testimoni, ad esempio, i casi di Pompei (“Casa del Centenario”, “Casa dell’Efebo”), di Ercolano (“Casa dello Scheletro”, “Casa del Rilievo di Telefo”, “Casa dell’Atrio a Mosaico”, “Casa
121
Fig. 86 Cripta, parete Nord: depositi di alghe e muschi.
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
b. Marmo Troadense (“Granito Violetto”).(Fig. 87) Distribuzione: Cripta: colonna 8. Codice di riferimento: MS 8a
Fig. 87 Marmo Troadense (fusto colonna 8).
del Gran Portale”, “Collegio degli Augustali”), di Ostia (“Casa della Fortuna Annonaria”) e di Tivoli (Villa Adriana).260 Con minor frequenza lo ritroviamo impiegato per tazze, piccole vasche e, soprattutto, colonne: queste ultime, in molti casi, si presentano di dimensioni monumentali, in genere all’interno di contesti urbani ed architettonici spesso di notevole rilevanza. Si pensi a Ticinum (Pavia), alle colonne conservate ad Aquileia nel Battistero della Basilica, a quelle riutilizzate nel Duomo di Capua, o a quelle ancora presenti nel Teatro di Catania. Rivolgendo lo sguardo al territorio marchigiano, su tutte emerge il bell’esemplare, proveniente dalla scaenae frons del Teatro di Urbs Salvia e reimpiegato nel Medioevo all’interno del Refettorio dei Conversi dell’Abbazia di Fiastra.261
122
Con il termine di marmo Troadense si è soliti definire un particolare tipo di roccia, dall’aspetto granitico, così chiamata dai Romani che ne iniziarono un massiccio sfruttamento a partire dal II sec. d.C., ma che da tempo era già nota, almeno localmente, nell’architettura greca del periodo arcaico (nella città di Neandria) ed ellenistico (ad Alexandria Troas). La denominazione deriva dalla regione della Troade, alle pendici del massiccio montuoso del Çiğri Dağ, sita nella Turchia Nord-occidentale presso l’odierna città di Ezine, 262 dove si concentrano, su diversi fronti estrattivi, le cave antiche a noi note, anche se non si possono escludere altri giacimenti in zone al momento non ancora adeguatamente esplorate.263 Le risultanze petrografiche che contraddistinguono l’esemplare montespinese, di consistenza granitoide a grana media contenente feldspati di colorazione grigio-violacea e con una “composizione modale”264 ricca di ortoclasio, plagioclasio e orneblenda, (cfr. micrografie campione MS 8a, Figg. 69-71) sono tipiche di questo marmo al pari della classica opacità della superficie, ben levigata ma priva di lucidatura.265 Il “Troadense” non dovette essere un litotipo particolarmente costoso (anche se ultimamente il suo valore di mercato è stato stimato in 75-100 denari per pd3), e a dimostrarlo concorrono tanto il suo aspetto esteriore, piuttosto modesto e privo di connotati cromatici di particolare rilevanza estetica, quanto il fatto che viene del tutto ignorato dalla letteratura antica la quale, in questo caso, non ravvisava molto probabilmente in esso qualità meritevoli di nota. Ciò a dispetto della sua larghissima diffusione che, riprendendo quanto precedentemente accennato, si può collocare a partire dall’età adrianea, come confermano le più antiche attestazioni a noi note provenienti da Villa Adriana a Tivoli (colonne della Piazza d’Oro) e dal Foro di Ostia, databili al medesimo periodo. É, però, l’epoca tardo-imperiale il momento in cui si registra l’apice estrattivo che dovette proseguire, con indici sostanzialmente invariati,
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
fino all’età protobizantina. Nel corso del Medioevo e del Rinascimento, poi, le svariate forme di reimpiego di un numero elevatissimo di sostegni architettonici realizzati in questa pietra, ne sanciscono definitivamente la indiscussa popolarità e la versatilità d’uso nei più diversi contesti edilizi, sia sacri che civili. Per avere un’idea del grande successo che, in epoca antica, conobbe il nostro marmo, definito dal Lazzarini “senz’altro e in assoluto il “granito” più diffuso dai Romani”, 266 basta soffermarsi sulla sua straordinaria distribuzione in tutte le Province dell’Impero, soprattutto quelle orientali e Nord-africane (Efeso, Smirne, Side, Leptis Magna) nelle quali esso conquistò i mercati al punto da prevalere di gran lunga sull’altra grande pietra del mondo romano: il Granito Rosso di Assuan. Le ragioni di tanta fortuna vanno ricercate in almeno tre ordini di fattori: principalmente, nell’ottima qualità del litotipo, senza dubbio assai duro da estrarre e da lavorare, ma in compenso molto resistente e, quindi, adatto per l’innalzamento di architetture monumentali, soprattutto con destinazione pubblica (Agorai, Portici, vie colonnate, peristasi di Templi, Frontes Scaenae teatrali). In secondo luogo, nella particolare compattezza degli affioramenti che rendeva possibile l’estrazione di grossi blocchi monolitici, adatti a molti dei contesti edilizi di destinazione. Infine, come si è già accennato, nei costi probabilmente abbastanza contenuti e, quindi, nella sua competitività la quale, assieme alla considerevole diffusione della domanda proveniente da gran parte dei mercati mediterranei e continentali, favoriva una vantaggiosa commercializzazione del prodotto con grossi guadagni per lo Stato.267 La coltivazione del marmo Troadense era destinata, in modo assolutamente preponderante, alla produzione di colonne e pilastri, cioè di quegli elementi portanti che richiedevano materiali adeguatamente solidi e resistenti per sostenere edifici, spesso, imponenti e di particolare prestigio. Assai più raro, invece, fu il suo impiego per rivestimenti, dato il modesto valore estetico, e per altri usi, anche se, almeno localmente, è documentato un utilizzo per la manifattura di sarcofagi.268 In conclusione, alla luce di quanto si è detto e tenendo presenti le osservazioni scaturite dall’analisi specifica della colonna 8 di Montespino,269 possiamo concludere
che anche lo studio petrografico del nostro manufatto concorre a confermare la sua sicura appartenenza ad un contesto edilizio avente, con tutta probabilità, una funzione pubblica. La considerevole mole, ed il confronto con una ampia casistica che dimostra l’impiego di un’altissima percentuale di colonne e pilastri in “Troadense” in edifici di notevole rappresentatività nell’ampio orizzonte dell’architettura romana del medio e tardo Impero, ci indicano verso quale direzione rivolgere la nostra ricerca: un centro di rilevanza sicuramente urbana, e, al suo interno, una emergenza monumentale, impossibile da identificare, ma senz’altro significativa sul piano istituzionale o religioso. Dunque, la colonia di Falerio torna nuovamente a proporsi come la realtà di riferimento più verosimile, sia dal punto di vista topografico, sia per il potenziale edilizio che era in grado di offrire, attraverso i suoi ruderi, ai nuovi cantieri medievali attivi nel vasto territorio di sua pertinenza.
123
Fig. 88 Marmo Lunense (capitello 8).
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 89 Marmo Pario (lastra ex altare).
D . Marmi bianchi 1. Marmi italici a. Marmo Lunense.(Fig. 88) Distribuzione: Cripta: capitelli 1, 7-8. Codici di riferimento: MS 1, MS 7, MS 8b. Il “Lunense” è il marmo che caratterizza tre eleganti capitelli corinzi, due dei quali (n. 7-8) giunti in uno stato di conservazione nettamente superiore a quello dei restanti esemplari riutilizzati nella cripta e per questo motivo i più significativi, tanto sul piano della classificazione stilistica, quanto come indicatori cronologici degli originari contesti di spoglio.270 Nessuno di essi è stato fortunatamente aggredito, se non in modo estremamente marginale, dagli agenti climatico-ambientali, ma non mancano, purtroppo, danni strutturali particolarmente sensibili, soprattutto, nel capitello 1 il quale risulta gravemente danneggiato da più o meno recenti episodi distruttivi o, con maggior probabilità, a causa di sconsiderati atti vandalici, responsabili delle estese fratture ed abrasioni coinvolgenti buona parte del kalathos. Paral-
124
lelamente, un ulteriore fattore legato al deterioramento fisico è emerso in fase di analisi di laboratorio nel corso della quale tutti e tre i manufatti hanno rivelato segni evidenti di decoesione intercristallina (n. 1 e 8) e intracristallina (n. 7) piuttosto spinte, indici di un avanzato processo di indebolimento degli strati più profondi che, specie proprio nel capitello 1, si manifesta sotto forma di una tendenza al distacco parziale di piccole scaglie. Il fenomeno, non a caso, sembra accentuarsi in corrispondenza delle zone più fragili e vulnerabili occupate dagli elementi aggettanti della decorazione acantacea, i più coinvolti dal processo disgregativo. Dal punto di vista litotipologico, i diagrammi isotopici qualificano come tipicamente lunensi senza alcun dubbio gli esemplari n. 1 e 8, mentre qualche perplessità, già avanzata in precedenza,271 sembra emergere a proposito del capitello 7 per il quale non si può escludere una sua identificazione con il marmo microasiatico proveniente da Afrodisia di Caria (loc. di Göktepe), il che apre ad interpretazioni alternative sul centro di produzione del nostro manufatto. Decisamente interessanti si sono dimostrati, inoltre, i dati restituiti dalle analisi minero-petrografiche delle sezioni sottili: nei campioni MS 7 e MS 8b,(Figg. 67-68, 72-73) è stata individuata, infatti, una struttura cristallina omeoblastica, associata ad una M.G.S. particolarmente bassa272 (MS 7: mm 0,66; MS 8 b: mm 0,76) la quale indica una composizione a grana molto fine, 273 rivelatrice di una qualità di marmo indubbiamente pregiata. Di un livello un po’ inferiore, invece, è risultato il campione MS 1,(Figg. 57-58) caratterizzato da una tessitura eteroblastica, quindi con cristalli dimensionalmente variabili e meno uniformi, e da una M.G.S. pari a mm 1,20, vale a dire a grana sempre fine ma con un grado metamorfico più elevato e con un aspetto, quindi, contraddistinto da minor raffinatezza e da un nitore leggermente opacizzato. 2. Marmi greci a. Marmo Pario.(Fig. 89) Distribuzione: Cripta: quattro frammenti di lastra appartenenti alla mensa dell’ex altare; terzo gradino della scaletta Sud (?). Codice di riferimento: MS 9.
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
Ci troviamo di fronte ad uno dei marmi bianchi greco-insulari più celebri ed apprezzati nel mondo antico, particolarmente adatto, nella sua qualità più pregiata (“Paros 1” o “Lychnites”, cave in loc. “Stephàni”), 274 per la statuaria grazie al suo candore uniforme e purissimo, sovente accompagnato da delicati effetti di trasparenza.275 La sua preziosità è dimostrata altresì dalle dimensioni ridotte dei blocchi estratti e dalla loro esportazione in forme non regolarizzate allo scopo di non sprecare inutilmente il materiale: il tutto sotto la supervisione dell’amministrazione statale al cui controllo le cave erano sottoposte, come documentano le numerose iscrizioni incise che riportano il nome dell’appaltatore imperiale e il numero del locus di estrazione. I frammenti montespinesi, pertinenti, come si è detto, ad un’unica originaria grande lastra di rivestimento, appartengono, però, ad una variante, denominata “Paros 2”, proveniente sempre dall’omonima isola ma dalle cave situate nel distretto di “Lakkoi” (Valle Chorodakia), non distanti dalle precedenti.276 La sua struttura, eteroblastica a mosaico, con cristalli di calcite a grana piuttosto fine, inferiore ai 2 mm (campione MS 9, Figg. 74-75), presenta una superficie interessata da foliazioni e contraddistinta da un bianco più opaco, attraversato da leggeri aloni color grigio-azzurrastro tenue, privo di effetti di trasparenza che ne denotano il minor pregio qualitativo.277 Per queste ragioni, il suo impiego riguarda principalmente il settore architettonico, sotto forma tanto di fusti di colonne, solitamente ionico-corinzie, quanto, come nel nostro caso, di lastre per rivestimenti parietali. Comunque, anch’esso risulta intensamente sfruttato dall’amministrazione centrale attraverso gli stessi appaltatori delle cave del “Paros 1” i quali ne hanno garantito per secoli l’ampia diffusione in gran parte del bacino del Mediterraneo.278 b. Marmo Pentelico.(Fig. 90) Distribuzione: Cripta: capitello 2. Codice di riferimento: MS 2b Il diagramma isotopico di laboratorio non lascia dubbi circa la classificazione del campione MS 2b(Figg. 61-62)
come Marmo Pentelico il quale, nel nostro caso, appartiene però ad una qualità meno pregiata rispetto a quella più nota e celebrata nel mondo greco-romano, di un candore purissimo e destinata principalmente alla statuaria. Oltre all’aspetto macroscopico, infatti, caratterizzato da striature isoparallele orizzontali di color grigio-bluastro che attraversano ampie zone della superficie,279 lo dimostrano sia la sua struttura eteroblastica costituita da cristalli a grana medio-fine, con valori compresi fra 1,34/2,36 mm M.G.S., sia la varietà di minerali accessori, fra i quali spicca la grafite presente in discreta percentuale. Anche le analisi minero-petrografiche svolte sulla sezione sottile hanno pienamente confermato il cattivo stato di conservazione del manufatto, già segnalato in precedenza,280 rivelando una marcata fessurazione intra e intercristallina che ha in parte indebolito la coesione strutturale. L’uso di questa particolare qualità di “Pentelico” per l’esecuzione di un capitello, rientra nella tendenza abbastanza frequente in epoca romana di destinare alla produzione di elementi architettonici le varietà di minor valore.281 Esse risultavano, infatti, senza dubbio in-
125
Fig. 90 Marmo Pentelico (capitello 2).
Sezione prima / Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale
Fig. 91 Marmo Proconnesio (capitello 6).
feriori nei costi e, quindi, vantaggiose per l’esportazione dalle cave d’origine ma, contemporaneamente, venivano ugualmente apprezzate in virtù della grande fama di cui, in generale, ha sempre goduto questo marmo presso una vastissima committenza internazionale la quale non esitava a rivolgersi, sovente, anche ad officine attiche itineranti specializzate nella sua lavorazione. Il raggio di diffusione, malgrado la limitata estensione dei loci estrattivi concentrati a varie quote dei versanti del Monte Pentelico (situato a circa 14 km da Atene), risulta decisamente ampio,282 soprattutto nel campo dell’edilizia, spaziando da Roma, Cartagine, all’Illiria anche entro orizzonti cronologici attardati fino al IV-V sec. d.C., come ha dimostrato il deposito di colonne, fra cui alcune in “Pentelico”, del Tempio dei Fabri Navales a Ostia.283 3. Marmi microasiatici a. Marmo Proconnesio.(Figg. 91-92) Distribuzione: Cripta: capitelli 5-6; semicolonne G (parete Nord), N (?, parete Sud). Codici di riferimento: MS 5, MS 6.
126
Come ormai ampiamente accertato, si tratta di uno dei marmi bianchi maggiormente commercializzati nel mondo romano, in virtù delle sue peculiarità estetiche, molto apprezzate dalla committenza pubblica e privata soprattutto nel corso della prima e media età imperiale, e del costo decisamente contenuto, valutato in quaranta denari al piede cubico nell’Editto dei prezzi di Diocleziano. Ad esso, ultimamente ed anche in tempi meno recenti, sono stati dedicati ampi ed approfonditi studi284 che, in questa sede, diventa inutile ripercorrere se non per sottolineare gli aspetti relativi alla qualità e al tipo di lavorazione, per lo meno del frammento meglio conservato: il rocchio inferiore della semicolonna G.(Fig. 92) Riguardo, infatti, ai due capitelli 5 e 6, le estese invasioni di muffe e di formazioni lichenose che, specie nel primo esemplare, rivestono buona parte della superficie, ne rendono assai difficoltoso l’esame degli aspetti tessiturali e la sicura determinazione dell’allotipo di appartenenza. L’unica analisi, pertanto, in grado di garantire attendibilità scientifica e possibilità di classificazione è quella petrografico-isotopica di laboratorio alla cui scheda si rinvia.285 Prendendo, dunque, in considerazione il frammento di piedritto della parete Nord, è, qui, identificabile una particolare qualità non eccellente ed assai comune di “Proconnesio”, caratterizzata da una colorazione biancastra impura attraversata da nette listature grigio-azzurrognole verticali, di spessore centimetrico, equidistanziate e parallele. La tessitura assume un aspetto saccaroide, con microgranuli piuttosto sottili e opachi i quali tolgono alla superficie quel delicato effetto di lieve trasparenza che contraddistingue la varietà più pregiata del litotipo.286 Il manufatto in esame ci è pervenuto in condizioni senz’altro migliori rispetto al rocchio sovrastante nel quale le bande verticali, appena percepibili, risultano estremamente assottigliate con andamenti e spaziature spesso irregolari. Tuttavia, presenta anch’esso segni abbastanza evidenti di parziale disgregazione strutturale e di alterazione cromatica, accompagnati da incrostazioni particolarmente accentuate in coincidenza dell’innesto nel muro. Certo, la collocazione lungo la parete Nord, la più aggredita, come si è detto, dalla formazione di depo-
Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino. Analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza
siti di alghe e muschi,(Fig. 86) e, per di più, la prossimità alle finestre absidali aperte verso l’ambiente boschivo circostante l’edificio, sono da considerarsi i due principali fattori patogeni che hanno determinato il vistoso ammaloramento nei livelli più esterni. Inequivocabili, a questo riguardo, risultano le efflorescenze verdi formatesi, soprattutto, in alcuni punti di tangenza tra il fusto e i conci di arenaria: terreno fertile, questi ultimi, all’attecchimento di microrganismi grazie alla loro struttura porosa molto sensibile all’umidità e predisposta, perciò, a fenomeni di colonizzazione da flora briofitica. La colorazione, in massima parte intensa e brillante, conferma che il ciclo biologico è ancora vitale e che, quindi, questo tipo di danno è senza dubbio recente e imputabile alle condizioni ambientali del contesto di riuso. Sempre ad esse, sono altresì riconducibili gli sporadici distacchi dei livelli superficiali, più frequenti lungo il profilo destro del fusto rivolto in direzione della monofora e all’azione più penetrante degli agenti atmosferici. Analoghe dinamiche degenerative sono individuabili anche alla base dell’imoscapo. Qui, oltre a circoscritte formazioni di cloroficee, si è determinata la pressoché totale perdita delle bande verticali grigio-azzurrastre, al di sotto delle quali la struttura del marmo mostra i segni di un avanzato processo di decomposizione visibile sotto forma di una patina bruna tenacemente incrostata. Non sorprende che simili fenomeni di infiltrazione e risalita capillare dell’umidità presentino un marcato grado di intensificazione in corrispondenza di un muro perimetrale ipogeo, orientato, oltre tutto, a settentrione.287 Al contesto di utilizzo primario, invece, è possibile attribuire, forse, la erosione da “pitting”: una microbucherellatura, localizzata e molto superficiale, dovuta ad abrasione eolica di media intensità. Il rocchio termina superiormente con un andamento assai irregolare a causa, o di un evento distruttivo avvenuto anticamente, o di un taglio impreciso e frettoloso, effettuato al momento della asportazione del pezzo dalla sede originaria, al quale è probabilmente imputabile anche il danno inferto alla porzione inferiore del rocchio sovrastante. Come si è poco sopra anticipato, quest’ultimo appartiene ad una qualità diversa di “Proconnesio”, oggi in condizioni di leggibilità più precarie rispetto a quello appena
analizzato. La matrice presenta una colorazione avorio-rosato caratterizzata da una foliazione piano-parallela diradata e sfocata, a vene molto sottili che assumono, a volte, un andamento variato. La sua collocazione in posizione sopraelevata, e quindi non a contatto con il piano pavimentale, ha contenuto l’espandersi delle efflorescenze le quali, comunque, anche qui non hanno risparmiato la fascia laterale destra aderente all’innesto del muro. Assenti le tracce di “pitting”, il che sembrerebbe escludere l’appartenenza originaria dei due rocchi allo stesso fusto, come, del resto, già indicano le diversità cromatiche e la difformità delle caratterizzazioni superficiali dei rispettivi litotipi.
127
Fig. 92 Marmo Proconnesio (semicolonna G).
Note
210 Su tali procedure investigative di laboratorio si vedano K.GERMANN-G.HOLZMANN-F.WINKLER, Determination of marble provenance: limits of isotopic analysis, in “Archaeometry” 22.1, 1980, pp. 99-106; LAZZARINI-MOSCHINI-STIEVANO 1980, pp. 173-183; N.HERZ, White marbles of the ancient Greeks and Romans: quarries, petrography, geochemistry and provenance determination, in R.FRANCOVICH (a cura di), Archeologia delle attività estrattive e metallurgiche, (V Ciclo di Lezioni sulla Ricerca Applicata in Archeologia, Certosa di Pontigliano-Campiglia Marittima 1991), Firenze 1993, pp. 17-47; K.RAMSEYER-V.BARBIN-D.DECROUEZ-S.BURNS-J.SCHMID, Cathodoluminescence et isotopes stables du carbone et de l’oxygène: deux methodes complémentaires pour l’identification des marbres blancs, rèrusltats et problemes, in J.CABANOT-R.SABLAYROLLES-J.SCHENK (a cura di), Les marmes blancs des Pyrénées, approches historiques et scientifiques, (Entretiens d’archeologie et d’histoire), Saint-Bertrand-de-Commingens 1995, p. 6 ss.; F.ANTONELLI-L.LAZZARINI, La caratterizzazione minero-petrografica e geochimica delle rocce, in LAZZARINI 2004, pp. 33-45. 211 Le analisi sono state svolte con la collaborazione di Fabrizio Antonelli e Stefano Cancelliere. 212 MOENS et Alii 1988, pp. 243-250. 213 LAZZARINI-MOSCHINI-STIEVANO 1980, pp. 173-183. 214) A.SPRY, Metamorphic textures, Oxford 1976. 215 J.M.McCREA, On the isotopic chemistry of carbonates and a paleotemperature scale, in “JChemPhys” 18, 1950, pp. 849857. 216 LAZZARINI-TURI 2007, pp. 614-615. 217 H.CRAIG, Isotopic standards for carbon and oxygen and correction factor for mass-spectrometric analyses of carbon dioxide, in “GCActa” 12, 1957, pp. 133-149. 218 LAZZARINI-TURI 2007, p. 592. 219 C.GORGONI-L.LAZZARINI-P.PALLANTE-B.TURI, An update and detailed mineropetrographic and C-O stable isotopic reference database for the main Mediterranean marbles used in antiquity, in HERMANN-HERZ-NEWMAN 2002, pp. 115-131. 220 Sulle caratteristiche di questo marmo e la sua distribuzione, sotto forma di reimpiego, in territorio piceno, si vedano ANTONELLI-LAZZARINI 2002, p. 26; BRUNO 2002, p. 277; RAININI 2007, pp. 133-135, Figg. 82, 87; IDEM 2011, p. 318, Fig. 216. 221 BRUNO 2002, p. 277; RAININI 2011, cit. alla nota prec. 222 M.GUARDUCCI, Un nuovo frammento dell’Editto di Diocleziano, in “BMIR” XI (app. al “BullComm” XLVIII 1940), pp. 35-36; GNOLI 1988, p. 15.
128
223 L’analisi più recente ed approfondita del nostro marmo si trova in LAZZARINI 2007, pp. 119-136, mentre sul costo stimato per pd3 si veda IDEM 2010, p. 488, Fig. 2. Sull’argomento si vedano anche D.W.S.HUNT, An archaeological survey of the Island of Chios, in “PBSA” 41, 1940-1945, pp. 29-47; GNOLI 1988, pp. 172-173; L.LAZZARINI, Il marmo Chio detto di Portasanta, in A.LIO (a cura di), Restauri in Piazza – La Fontana di Piazza Colonna, Roma 1995, pp. 75-81; IDEM 1997, pp. 309-326; M.MAYER-I. RODÁ, El marmol chium o portasanta en Hispania, in Romanité et cité chrétienne (Mélanges en l’honneur d’Yvette Duval), Paris 2000, pp. 141-149. 224 Ringrazio Lorenzo Lazzarini per le preziose osservazioni che hanno permesso l’identificazione del manufatto. 225 LAZZARINI 2002, p. 262. 226 Per un’analisi dettagliata delle cave di Latomi, si rinvia a LAZZARINI 2007, pp. 122-124. 227 E.YALOURIS, Notes on the topography of Chios, in J.BOARDMAN-C.E.VAPHOPOULOU-RICHARDSON (a cura di), Chios. A conference at the Homereion in Chios, 1984, Oxford 1986, p. 144. 228 RAININI 2011, p. 306. 229 GUIDOBALDI-SALVATORI 1988, p. 172. 230 LAZZARINI 2007, p. 133, Fig. 9. 231 P.PENSABENE, Elementi architettonici dalla Casa di Augusto sul Palatino, in “RM” 104, 1997, p. 178. 232 GUIDOBALDI-SALVATORI 1988, p. 174. 233 F.GUIDOBALDI-F.OLEVANO, Sectilia Pavimenta dall’area vesuviana, in PENSABENE 1998, p. 233. 234 Al fine di cogliere l’esatta portata di quello che è stato il vastissimo raggio di diffusione del Portasanta, sotto forma di uso primario e secondario nel mondo mediterraneo e nelle diverse regioni europee, si veda LAZZARINI 2007, pp. 120-122, Fig. 17. 235 I.PAPAGEORGAKIS, Die antiken Marmorbrüche von Tessalien (Ta archaia latomia tis Thessalias), in “PAA” 38, 1963, pp. 563-572; LAZZARINI 2007, pp. 228-230. 236 Sulla ubicazione della città di Atrax, cfr. anche STRAB., IX, 5, 17 dove si ribadisce che “ὁ Πηνειὸς…φέρεται παρά τε ῎Ατρακα καὶ Λάρισαν” (il (fiume) Peneo scorre presso Atrax e Larisa). 237 LIV., XXXII, 11: “Inde ad Atracem est profectus. Decem ferme millia a Larissa abest…sita est urbs super Peneum amnem”. 238 G.MARANGONI, Delle cose gentilesche e profane trasportate ad uso e adornamento delle Chiese, Roma 1744, p. 337. 239 Si veda, fra tutti, A.NIBBY, Roma nell’anno MDCCCXXXVIII descritta da Antonio Nibby. I. Antica, Roma 1838 p. 245: “Atracio o
Note
Tessalico appellavasi il marmo, che oggi diciamo verde antico perché traevasi presso Atrace città della Tessaglia nella Pelasgiotide…” Su tale argomento e sulle denominazioni, spesso errate, attribuite al nostro marmo nel corso del Cinquecento, a cominciare dal termine vasariano di “Cipollaccio” (G.VASARI, Vite…, (Ed. Torrentina, Firenze 1550), Introduzione-Architettura, Cap. I, “De le diverse pietre che servono a gli architetti per gli ornamenti e per le statue alla scoltura”, p. 21: “…il Cipollaccio, pietra che si cava in diversi luoghi; il quale è di color verde acerbo e gialletto, et ha dentro alcune macchie nere quadre picciole e grandi, e così bianche alquanto grossette, e si veggono di questa sorte in più luoghi colonne grosse e sottili e porte et altri ornamenti, ma non figure…”), si veda GNOLI 1988, pp. 163-164 e note 2-3. 240 PG, vol. XLIV, p. 653 D; vol. XLVI, p. 669 D. 241 EUSTH, Ismeniae Amores, I, 5, 2; I, 7-8. 242 STEF.B., Ἐθνικά, s.v. “ Ἄτραξ ”. 243 P.SIL., Ἔκφρασις τῆς Ἁγίας Σοφίας , vv. 387-391, 539 ss., 641-646, e “Descrizione dell’Ambone”, vv. 255 ss. 244 Cfr. GNOLI 1988, p. 49, nota 1 e p. 50. 245 G.DOWNEY, The Tombs of the Bizantine Emperors at the Church of the Holy Apostles in Costantinople, in “JHS” LXXIX 1959, pp. 27-51, n. 6, 8-9, 12, 14, 24, 26, 31, 33, 37; GNOLI 1988, pp. 8691 e Fig. 137; LAZZARINI 2007, p. 240, Fig. 15. Sul notevole valore commerciale del “Verde Antico”, si vedano GNOLI 1988, p. 15 e LAZZARINI 2010, pp. 487-488, Fig. 1. 246 Sugli aspetti più specifici relativi alla caratterizzazione scientifica del Marmo Tessalico e alle cause del suo deterioramento, si veda il fondamentale e recente contributo di LAZZARINI 2007, pp. 231-238. 247 Si veda la vasta rassegna di siti e contesti monumentali in LAZZARINI 2007, pp. 226-228. Per i rari esemplari musealizzati, si rinvia a DE NUCCIO-UNGARO 2002, pp. 407-408, n. 112 (Roma, Antiquarium del Foro Romano) e a LAZZARINI 2007, p. 239, Figg. 3 (Napoli, Museo Archeologico Nazionale) - 4 (Hama (Siria) Museo Archeologico). 248 F.OLEVANO-M.ARCIDIACONO-F.GUIDOBALDI-D.TRUCCHI, Le specie marmoree impiegate nella villa adrianea di Tivoli. Elementi architettonici, sculture e rivestimenti, in E.DOLCI (a cura di), Il marmo nella civiltà romana. La produzione e il commercio, (Atti del Seminario), Carrara 1989, pp. 137-149; F.GUIDOBLADI (a cura di ), Sectilia Pavimenta da Villa Adriana, in AA.VV., Mosaici antichi in Italia, Roma 1994. 249 LAZZARINI 2007, p. 239, Fig. 7. 250 LAZZARINI 2007, p. 224, Fig. 9.
251 Cfr. supra, nota 245. 252 Sui marmi marciani e sulle cause del loro deterioramento si vedano L.LAZZARINI-R.BEGOLLI, Frequency, forms and causes of deterioration of Greek marbles and stones in Venice, in Proceedings of the 2nd International Symposium on the Deterioration of Building Stones, Athens 1976, pp. 249-256; LAZZARINI 1997, pp. 309-326; IDEM, Di alcune pietre inedite e rare della Basilica di S.Marco a Venezia, in E.CONCINA-G.TROVABENE-M.AGAZZI, (a cura di), Hadriatica. Scritti in onore di W.Dorigo, Padova 2002, pp. 107-115. 253 Fra gli studi principali si vedano L.LAZZARINI-U.MASI-P. TUCCI, Petrographic and geochemical features of the Carystian marble, “Cipollino Verde”, from the ancient quarries of Southern Euboea (Greece), in Y.MANIATIS-N.HERZ-Y.BASIAKOS (a cura di), “ASMOSIA III” (1993), London 1995, pp. 161-169; L.MOENS-P.De PAEPE-K.VANDEPUTTE, Oxygen and Carbon isotopic data and petrology of Cipollino from Styra and Carystos (Euboea, Greece) and their archaeological significance, in D.VANHOVE (a cura di), Roman marble quarries in Southern Euboea, and the associated road networks, Leiden-New York-Köln 1996, pp. 45-50; J.SUTHERLAND-A.SUTHERLAND, Roman marble quarrying near Karystos Southern Euboea, in “JCH” 3, 2002, pp. 251-259; LAZZARINI 2007, pp. 183-203; RAININI 2011, pp. 313-315. 254 Si veda al riguardo M.FRANZINI, Stones in monuments: natural and anthropogenic deterioration of marble artifacts, in “EurJMin” 7, 1995, pp. 735-743; IDEM, Caratterizzazione dei marmi e loro comportamento in opera, in “Plinius” 23, 1, 2000, pp. 222-231. 255 LAZZARINI 2007, p. 196. 256 Sulla presenza di questo marmo antico all’interno di contesti di impiego secondario in territorio marchigiano, si veda da ultimo RAININI 2007, pp. 160-161, 165, Fig. 114; IDEM 2011, pp. 310-311, Fig. 204. 257 LAZZARINI 2002, p. 251; IDEM, The origin and characterization of “Breccia Nuvolata”, “Marmor Sagarium” and “Marmor Triponticum”, in HERMANN-HERZ-NEWMAN 2002, pp. 58-67; IDEM 2004, pp. 90, 109. 258 LAZZARINI 2004, p. 110, Fig. 12. 259 GNOLI 1988, p. 239. La sua quotazione in antico è stata stimata dal Lazzarini in circa 75-100 denari al pd3: LAZZARINI 2010, p. 488, Fig. 2. 260 F.GUIDOBALDI, Pavimenti in opus sectile di Roma e dell’area romana: proposte per una classificazione e criteri di datazione, in P.PENSABENE (a cura di), Marmi Antichi. Problemi d’impiego, di restauro e d’identificazione, (StMisc 26), Roma 1993, pp. 171-
129
Note
233, Tav. 2, Fig. 2 (Ercolano, “Casa dello Scheletro”); Tav. 3, Fig. 2 (Ercolano, Sacello del “Collegio degli Augustali”); Tav. 4, Fig. 2 (Tivoli, Villa Adriana); Tav. 5, Figg. 1 (Pompei, “Casa del Centenario”), 6 (Pompei, “Casa dell’Efebo”); Tav. 7, Fig. 1 (Ostia, “Domus della Fortuna Annonaria”); Tav. 8, Fig. 6 (Ercolano, “Casa del Rilievo di Telefo”); Tav. 9, Fig. 3 (Ercolano, “Casa dell’Atrio a Mosaico”); Tav. 17, Fig. 5 (Ercolano, “Casa del Gran Portale”). 261 ANTONELLI-LAZZARINI 2002, p. 20, Fig. 7; RAININI 2007, pp. 160-161, 165, Figg. 112-114. 262) LAZZARINI 1987, p. 162, Fig. 23: a quest’opera fondamentale si rinvia per tutte le informazioni, generali e specifiche, inerenti il marmo in esame. 263 LAZZARINI 1987, p. 164. 264 Con il termine di “composizione modale” si intende la somma delle percentuali in volume dei diversi minerali che compongono una roccia. 265 LAZZARINI 1987, pp. 164-165; P.BIRKLE-M.SATIR, Geological aspects of the use of Kestanbol Quartz-Monzonite intrusion (Troas/Turkey) as a constructing material in archaeological sites around the Mediterranean sea, in “StTro” 4, 1994, pp. 143155; G.PONTI, Marmor Troadense. Granite Quarries in the Troad, in “StTro” 5, 1995, pp. 291-320; IDEM, Tecniche di estrazione e di lavorazione delle colonne monolitiche di granito troadense, in DE NUCCIO-UNGARO 2002, pp. 291-295; LAZZARINI 2002, p. 246. Sulla quotazione del “Troadense” si veda la recente proposta di LAZZARINI 2010, p. 488, Fig. 2. 266 LAZZARINI 1987, pp. 162-163, Fig. 24; GNOLI 1988, pp. 152-153, Fig. 103; LAZZARINI 2004, pp. 90, 108 e Fig. 9. 267 J.M.COOK, The Troad, an Archaeological and Topographical Study, Oxford 1973, p. 201; GNOLI 1988, p. 152 e nota 4. 268 LAZZARINI 1987, p. 164. 269 Cfr. supra, Cap. III E., p. 92. 270 Per le caratteristiche petrografiche generali e per le specifiche attestazioni in reimpieghi di area picena, cfr. E.DOLCI, La localizzazione ed il rilevamento delle cave lunensi, in “QdSLun” 6-7, 1981-1982, pp. 47-62; IDEM, I marmi lunensi: tradizione, produzione, applicazioni, in “QdSLun” 10-12, 1985-1987, pp. 405-463; IDEM, Marmora Lunensia: Quarrying, Tchnology and Archaeological Use, in HERZ-WAELKENS 1988, pp. 77-84; BRUNO 2002, p. 280; BRUNO et Alii 2002, pp. 289-307; PENSABENE 2002, pp. 212-214; RAININI 2007, p. 80, Figg. 31-32; p. 102, Fig. 46; p. 141; p. 176, Figg. 122, 124; IDEM 2011, pp. 322-323, Fig. 220. 271 Cfr. supra, Cap. III C., pp. 63-64. 272 Cfr. supra, Cap. IV B., pp. 106, 108.
130
273 I parametri convenzionalmente applicati sono: grana fine < 2 mm; grana media = 2 – 5 mm; grana grossa > 5 mm. 274 Per una sintesi sulle varianti del marmo Pario, cfr. LAZZARINI-TURI 2007, p. 593. 275 J.POLLINI-N.HERZ-K.POLIKRETI-Y.MANIATIS, Parian Lichnites and the Prima Porta Statue: New Scientific Tests, in “JRA” 11, 1998, pp. 275-284; N.HERZ, The classical marble quarries of Paros: Paros I, II and III, in SCHILARDI et Alii 2000, pp. 27-32; P.PENSABENE-L.LAZZARINI-M.SOLIGO-M.BRUNO-B.TURI, The parian marble blocks of the Fossa Traiana, in SCHILARDI et Alii 2000, pp. 527-536; PENSABENE 2002, p. 212. 276 MOENS et Alii 1988, pp. 243-250. 277 P.ROOS-L.MOENS-J.De RUDDER-P.De PAEPE-J.VAN HENDE-M.WAELKENS, Chemical and Petrographical characterization of Greek Marbles from Pentelikon, Naxos, Paros and Thasos, in HERZ-WAELKENS 1988, pp. 263-272; M.BRUNO, The results of a field survey on Paros, in SCHILARDI et Alii 2000, pp. 91-94; Y. MANIATIS-K.POLIKRETI, The characterization and discrimination of Parian marble in the Aegean region, Ibidem, pp. 575-584. La differenza qualitativa fra le due varianti di Marmo Pario è dimostrata anche dalla notevole disparità dei costi, quantificati dal Lazzarini rispettivamente in 150-200 denari al pd3 per il lychnites, e in 50-75 per quello delle cave di Lakkoi: LAZZARINI 2010, p. 488, Fig. 2. 278 BRUNO et Alii 2002, pp. 289-307; si vedano anche, in generale, i contributi in SCHILARDI et Alii 2000, passim. 279 H.R.GOETTE-K.POLIKRETI-T.VACOULIS-Y.MANIATIS, Investigation of the greyish-blue marble of Pentelikon and Himettus, in SCHVOERER 1999, pp. 83-90. 280 Cfr. supra, Cap. III C., p. 52. 281 S.WALKER, Corinthian capitals with ringed voids: the work of Athenian craftsmen in the second century A.D., in “AA” 1979, pp. 103-129; K.S.FREYBERGER, Stadtrömische Kapitelle aus der Zeit von Domitian bis Alexander Severus. Zur arbeitsweise und Organisation stadtrömischer Werkstätten der Kaiserzeit, Mainz 1990; P.PENSABENE, Il fenomeno del marmo nella Roma tardo-repubblicana e imperiale, in IDEM 1998, p. 341, Fig.1. 282 PENSABENE 2002, p. 208. 283 P.PENSABENE-T.SEMERARO-L.LAZZARINI-B.TURI-M.SOLIGO, The Provenance of Marbles from the Depository of the Temple of the Fabri Navales at Ostia, in SCHVOERER 1999, pp. 147-156. 284 Fondamentali sono, ancora oggi, i contributi di N.ASGARI in “AST” 1989 (pp. 93-110), 1991 (pp. 311-328), 1992 (pp. 93110), 1993 (pp. 483-504), 1994 (pp. 99-121); IDEM, Roman and
Note
Early Bizantine Marble Quarries of Proconnesus, in Proceedings of the Xth International Congress of Classical Archaeology, Ankara 1973, Ankara 1978, pp. 467-480; IDEM 1990, pp. 106-126. PiĂš recentemente PENSABENE 2002, pp. 203-205; RAININI 2011, pp. 319-321. 285 Cfr. supra, Cap. IV b. 286 Un ottimo esempio, in territorio marchigiano, ci viene offerto dai reimpieghi inseriti nel portale della chiesa di San Firmano, presso Montelupone: RAININI 2011, p. 147, Fig. 107; p. 154, Fig. 113; p. 319, Fig. 218. 287 Molto accentuate, proprio in questo punto, risultano le infiltrazioni di umiditĂ , specie dopo prolungate condizioni di maltempo, che si trasformano in veri e propri fiotti di acqua piovana i quali giungono, in certi casi, addirittura ad allagare parte della pavimentazione sottostante.
131
Sezione seconda Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale Il cenobio di Santa Maria in Insula e lâ&#x20AC;&#x2122;insediamento di epoca tardo - romana a Monastero di Cessapalombo
Capitolo 5 Lâ&#x20AC;&#x2122;Insula di Monastero nellâ&#x20AC;&#x2122;antico contesto topografico e viabilistico regionale
L’Insula di Monastero nell’antico contesto topografico e viabilistico regionale
Il complesso abbaziale di Santa Maria in Insula (più nota, forse, con l’appellativo di San Salvatore),288 o, per meglio dire, quello che oggi di esso si conserva dopo le tormentate vicissitudini che, dalle pesanti trasformazioni strutturali, alle diverse destinazioni d’uso fino al suo totale abbandono, ne hanno accompagnato le sorti attraverso i secoli, si adagia a m 688 s.l.m. su un pendio(Figg. 93-94) posto lungo la falda di levante della catena settentrionale dei Sibillini. Nelle vicinanze si apre uno degli “orridi” più caratteristici dell’Appennino marchigiano: le “Gole del Fiastrone”.(Fig. 95) Quest’ultimo, scorrendo entro un alveo scavato fra dirupi, balze calcaree e versanti scoscesi,(Fig. 96) costituisce, dal punto di vista idrografico, l’elemento caratterizzante di un suggestivo paesaggio che incornicia, in un susseguirsi di picchi rocciosi ed estesi boschi lussureggianti, il tratto pedemontano del suo corso. Originatosi dal Lago di Fiastra,(Fig. 97) di cui è l’emissario, dopo aver lambito le propaggini settentrionali del Monte dei Cancelli (m 977), al quale è addossato l’antico insediamento monastico, esso si snoda verso Nord fino a raggiungere la valle del Chienti nel quale confluisce, poco oltre il Lago di Borgiano, all’altezza del centro di Belforte. A monte della fondazione benedettino-romualdina, il toponimo “Monastero”, piccolo centro abitato situato a m 719 s.l.m. e dipendente dal Comune di Cessapalombo, dichiara il suo inequivocabile legame con il vicino nucleo monastico medievale. Da qui, lo sguardo spazia su un’ampia vallata, perdendosi in una natura per certi aspetti ancora selvaggia e incontaminata, anche se, comunque, senz’altro molto diversa da quella esistente in antico. Un habitat, dunque, in perfetta sintonia con quella ricerca di solitudine e di contemplazione spirituale
che il primitivo monachesimo di marca benedettina, fin dagli inizi della sua diffusione fra VIII e IX sec., perseguiva indirizzando le proprie scelte verso zone montane inospitali che potessero meglio rispondere a tali aspirazioni. Il desertus locus incarna, così, uno dei precetti fondamentali degli Ordini riformati che indicavano la via verso la meditazione nella risalita in altura e, possibilmente, nella presa di possesso di aree edificate in abbandono, demolendo e inglobando qualunque struttura potesse essere messa in relazione con una presenza pagana.289 A questo proposito, la designazione toponimica di Insula, associata alla intitolazione mariana della chiesa cenobitica di Monastero, è da intendersi nella sua generale e comune accezione di “zona boscosa e isolata” posta in prossimità del corso di un fiume.290 Essa risulta, infatti, usata il più delle volte per indicare non soltanto l’insediamento religioso in sé, ma anche tutta l’area circostante caratterizzata da un assetto geomorfologico solitario e protetto tra rilievi, fossati, dirupi e vallate e, quindi, di non facile accesso.291 Tuttavia il termine, assai diffuso nella regione marchigiana, 292 si direbbe sottintendere, nel nostro caso, anche un significato diverso, evocativo di un castrum o di un agglomerato edilizio rurale, a destinazione residenziale-produttiva, dislocato in aperta campagna, in posizione appartata e topograficamente strategica, come sembra adombrare la stessa intitolazione antica di “Monasterium castri insulae”.293 Tralasciando, per ora, questo secondo tipo di semantica che attribuisce al vocabolo una valenza insediativo-architettonica sulla quale torneremo nelle prossime pagine, è utile indugiare, invece, ancora sul terreno di una etimologia più letterale riferibile ad un’area connotata
135
Fig. 93 Santa Maria in Insula: panoramica da Nord-Ovest dell’area insediativa. All’estrema destra l’edificio ecclesiale.
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
Fig. 94 Santa Maria in Insula: panoramica da Sud-Ovest.
da specifiche peculiarità ambientali. Scopriamo, infatti, come il concetto di “isolamento” conviva, in realtà, in parte con l’intreccio di una fitta rete viaria che ha coinvolto nel tempo, più o meno direttamente, la zona di nostro interesse. Una zona situata in prossimità di un crocevia di antichissimi percorsi commerciali, profondamente legati a secolari tragitti della transumanza e a itinerari di pellegrinaggio spirituale, che ha visto l’avvicendarsi di pertinenze imperiali e papali e che si è trovata lungo la linea di confine fra territori controllati da importanti centri del potere religioso, quali le abbazie cesaree di Farfa e Casauria.294 Crocevia nevralgico dell’intero sistema viabilistico che innervava questo ampio settore pedemontano di collegamento fra i due versanti dell’Appennino umbro-marchigiano e che intercettava, quindi, le principali direttrici di transito tra fascia medio-adriatica e Roma, è costituito dal Passo di Piandipieca. Qui, ancora oggi, si snoda la SP 78 dalla quale si stacca, a sua volta, la SP 502 diretta a Nord, verso Cessapalombo e la Val di Chienti. Percorse poche centinaia di metri del suo tracciato iniziale, all’altezza della contrada “Morichella”, una seconda deviazione, corrispondente alla SP 91, dopo 8 km conduce, infine, a Monastero.(Fig. 98) 295 L’arteria maestra (SP 78), proveniente da Urbs Salvia lungo la valle del Fiastra e rivolta, dopo aver attraversato la vasta distesa pianeggiante, in direzione di Sarnano, Amandola ed Asculum,296 doveva essere anche in antico una importante strada di scorrimento, intensamente frequentata, senza sostanziali soluzioni di continuità, fino all’età longobarda ed alto-medievale. Ciò nonostan-
136
te, l’ampia distesa pianeggiante di Pleca sembra essere rimasta, all’apparenza, immune da una significativa occupazione antropica e da interventi di centuriazione, come testimoniano, al momento, sia la mancanza di riscontri archeologici, sia l’assenza di reperti toponomastici di epoca romana e anche tardo-antica,così frequenti, invece, nel circostante territorio ginesino. La lunga sopravvivenza di questo itinerario, ricalcato non a caso ancora ai nostri giorni dalla viabilità moderna, si spiega pensando alla sua medietà topografica fra il tratto meridionale della Salaria Gallica, proveneinte da Aesis, Ricina, Urbs Salvia e diretta verso Falerio e Asculum da un lato, e il diverticolo “chientino” della Consolare Flaminia dall’altro. Quest’ultimo, originatosi in territorio folignate nei pressi di Forum Flaminii (San Giovanni Profiamma), entrava nell’altopiano di Colfiorito da dove, superato il centro di Plestia, si divideva in due diramazioni: una diretta verso il fondovalle attraverso Serravalle del Chienti, l’altra, deviata più a Sud lungo la Val Sant’Angelo, verso Pievetorina e il Chienti di Capriglia, fino alla loro convergenza all’altezza di Maddalena di Muccia. Il percorso, così unificato, scendeva, poi, verso Tolentino e, quindi, in direzione della costa dopo aver toccato Pausulae (San Claudio al Chienti) e Cluana (Porto Civitanova Marche). All’interno di un simile contesto, appare abbastanza evidente la funzione di cerniera svolta da Piandipieca in quanto polo di convergenza di più assi direzionali rivolti verso i valichi appenninici, compreso quello che, attraverso il centro di Visso collegato tramite una deviazione a Sud di Pievetorina,297 consentiva di penetrare nella
L’Insula di Monastero nell’antico contesto topografico e viabilistico regionale
Valnerina e di raggiungere sia Spoleto, sia la regione umbro-laziale (Narni, Orte) bagnata dal medio corso del Tevere.(Tav. H) Il Passo costituiva, altresì, il crocevia dal quale si moltiplicava una serie di percorsi intermedi fra i quali sembra aver rivestito un’importanza particolare una c.d. “via francisca”, già segnalata a suo tempo da Giacinto Pagnani,298 la quale, provenendo da Amandola e Sarnano,
dopo aver attraversato il fiume Tennacola, giunta a Pian di Pieca anziché proseguire costeggiando il Fiastrone, come fa attualmente la SP 502 diretta a Cessapalombo, ne guadagnava, invece, la sponda opposta spostandosi verso Ovest fino al piccolo centro di Col di Pietra, sito a valle di Monastero. Da qui, oltrepassata la località ancor oggi denominata “Poggio La Città”, un toponimo che non nasconde antiche forme di frequentazione delle
137
Tav. H Cartografia IGM 1:50.000 F. 313 Camerino.
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
quali si tratterà tra breve,299 seguendo un itinerario tuttora in parte ricalcato dalla carrareccia che conduce ai borghi di La Villa e Trebbio, puntava verso Vestignano e Croce di Caldarola per poi raggiungere Pievefavera.300 Procedendo, quindi, lungo la bisettrice di fondovalle del Chienti, incrociava, infine, la già ricordata diramazione della Flaminia proveniente dal valico appenninico di Colfiorito e diretta verso il litorale adriatico. É assai probabile che, da questo punto, la strada continuasse in direzione di Septempeda (Sanseverino Marche) passando per Serrapetrona, andando, così, ad intercettare il secondo importante diverticolo della Consolare, il prolaquense-septempedano staccatosi all’altezza di Nuceria Camellaria (Nocera Umbra) e diretto anch’esso, lungo la valle del Potenza, verso la costa che toccava poco a Sud di Porto Recanati (Potentia).301 Un altro percorso, questa volta una “via romana”, viene ricordato302 per il suo tracciato di collegamento con i territori umbro-laziali che, sempre da Pian di Pieca, saliva lungo la costa del Monte Ragnolo, fiancheggiando il Convento di San Liberato, fino a Fiastra. La strada doveva, poi, proseguire per Campobonomo, scendere, quindi, al Santuario della Madonna di Macereto e, superato il Passo delle Fornaci, incrociare il già citato cammino proveniente da Pievetorina giungendo, così, a Visso e alla Valnerina. Se il tratto terminale di questo itinerario dimostra buone possibilità di percorrenza, sfruttando il fondo valle del Chienti di Capriglia, non altrettanto si può dire per quello iniziale. Salito, infatti, abbastanza agevolmente fino a San Liberato e Fiastra, esso si trovava, poi, a dover affrontare una serie di rilievi che si portano a quasi 900 m di altitudine attraverso una orografia piuttosto impervia che doveva rendere problematico il transito per molti mesi dell’anno, specie durante la stagione invernale. Discorso analogo può valere anche per una variante proposta da Lidio Gasperini, 303 e ripresa successivamente da Angelo Bittarelli, 304 la quale, dopo il Passo di Pieca, doveva dirigersi verso i centri di Podalla, Vico, Antico, Pievetorina e da qui, lungo la Valsantangelo, passata Taverne, sfociare nell’altopiano plestino collegandosi, in tal modo, a Fulginiae (Foligno) e Forum Flaminii. In questo caso è, invece, il primo tratto a destare perplessità per la scomodità di un tragitto malagevole, tortuoso e
138
costantemente, anch’esso, a quote elevate, comprese fra gli oltre 800 e i 600 m di quota, che lo avrebbero reso sovente impraticabile.305 Al di là, comunque, di un panorama viabilistico che doveva, in epoca romana e tardo-antica, caratterizzare il territorio in esame con una complessità di interdipendenze in gran parte oggi compromesse da una labilità strutturale che ne rende assai complessa la ricostruzione, resta come dato ormai acquisito la centralità di Pian di Pieca sia a livello locale, sia nell’ambito più ampio della topografia regionale. É qui, infatti, sintetizzando il quadro topografico appena delineato, dove sembra potersi individuare una nodale biforcazione generatasi lungo l’asse meridionale della Salaria Gallica. Essa consentiva, attraverso il ramo Sud-Est, il collegamento con Falerio-Asculum, e attraverso quello Sud-Ovest, solidale con il corso del Fiastrone, la confluenza nei diverticula chientino e potentino della Flaminia da cui era possibile la risalita in direzione dei valichi appenninici umbro-marchigiani. Non stupisce, dunque, che su un’ossatura stradale di primaria importanza così articolata si sia innestata una fitta maglia di percorrenze “minori”, funzionali alle transumanze e ai collegamenti con le aree montane più isolate di cui l’agglomerato di Santa Maria in Insula costituisce uno dei casi più emblematici. Riguardo alla vitalità di questo ampio distretto incluso entro le propaggini settentrionali dei Sibillini, non vanno trascurate, oltre al complesso sistema dei percorsi tratturali pedemontani, anche le sporadiche ma significative forme di frequentazione antica. Se ne possono individuare le tracce soprattutto in un vero e proprio insediamento sorto nei pressi di Cessapalombo, in corrispondenza di quel “Poggio La Città” già nominato fra le località poste lungo la via che conduceva da Pian di Pieca a Pievefavera sul Chienti. Di esso ci parla, verso la metà del XVIII sec., l’erudito locale Paolo Morichelli Riccomanni306 che ne descrive la sede, fornendo anche l’originaria denominazione di “Castrum Camere, il quale era luogo ben forte sufficientemente grande, posto sopra ampio, rapido ed alto Monte ne’ confini degli Agri di S.Ginesio, in distanza di tre miglia, e del Castel dell’Isola, o Monastero, in lontananza di men di un miglio e mezzo, ed altrettanto in confine del nostro castello di Morico, vedendosene ancora al dì d’oggi diversi vestigi sopra lo stesso monte, in cui fino al
L’Insula di Monastero nell’antico contesto topografico e viabilistico regionale
presente continuasi il nome di Castro”.307 A proposito di tale organismo abitativo, sito a m 712 s.l.m., sappiamo ben poco: succinte comunicazioni vengono fornite da Giovanni Annibaldi, 308 da Bernard Andreae309 e da Delia Lollini, 310 mentre un primo suggerimento di contestualizzazione dei pochi reperti riportati alla luce, fra cui una tomba contenente armi in ferro e ceramica alto-adriatica, si deve a Liliana Mercando che ne ha proposto un inquadramento cronologico fra IV e III sec. a.C.311 Non è, naturalmente, questa la sede adatta per affrontare le problematiche archeologiche inerenti, nello specifico, i labili indizi insediativi emersi, presumibilmente riconducibili più ad un modello vicano che non ad un centro protourbanizzato e riferibili forse al periodo dell’av-
venuto assorbimento della regione nell’orbita politica romana. É, tuttavia, utile non sottovalutarne l’esistenza e, soprattutto, la particolare dislocazione territoriale che potrebbe implicare potenziali connessioni con le inequivocabili forme di popolamento rilevabili sul pianoro dell’Insula in una fase sicuramente antecedente la fondazione monastica medievale. La distanza assai breve che separa le due entità abitative, valutata in “men di un miglio e mezzo” dal Riccomanni e corrispondente a circa km 2,750 calcolati in linea d’aria, rende plausibile l’ipotetico determinarsi di reciproche relazioni, forse concomitanti con l’insorgere di particolari criticità congiunturali di ordine socio-economico legate, più in generale, alla profonda crisi che coinvolse l’intera impalcatura politico-istituzionale del mondo tardo-antico. Anche il contesto topogra-
139
Fig. 95 Un tratto delle “Gole del Fiastrone”.
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
fico di riferimento concorre a non escludere una simile eventualità: i due siti, infatti, divisi unicamente dal fondovalle del Fiastrone e dalla depressione che si apre fra i due rilievi di Monte Petrella a Nord-Ovest (m 1092) e Monte di Bozzi a Sud-Est (m 742), risultano inseriti tanto nel medesimo sistema idro-orografico che caratterizza l’intero comparto territoriale, quanto all’interno dello stesso tessuto viabilistico che lo attraversa lungo gli assi Est-Ovest e Nord-Sud. In quest’ottica, dunque, risulta senz’altro verosimile l’ipotesi, ancorché in attesa delle necessarie verifiche sul campo, che un polo abitativo-produttivo di tipo rurale sviluppatosi sull’ampia piattaforma che avrebbe ospitato il futuro cenobio romualdino, possa essere relazionato, in qualche misura, ad uno stanziamento vicano sorto nelle vicinanze. Del resto, che la zona in oggetto abbia conosciuto sicure ed articolate forme di occupazione demica in età imperiale anche attraverso un sistema di appoderamento delle aree vallive e pedemontane più coltivabili, sembra suggerirlo un reperto, individuato da chi scrive nei pressi dell’angolo esterno Sud-orientale della chiesa conventuale, da sempre, ritengo, noto ma mai considerato, forse, finora nella sua potenziale valenza agrimensoria. Si tratta di una vaschetta rettangolare in pietra grigio-biancastra,(Fig. 100) deformata su uno dei lati lunghi, forse riferibile al piccolo organismo edilizio “cisterna/ fonte” collocato a breve distanza in direzione Sud-Est. Pur ammettendo come probabile uno o più spostamenti dalla sua sede originaria avvenuti nel corso del tempo, risulta, comunque, interessante la possibilità che essa occupasse anticamente una posizione coincidente con l’incrocio di assi centuriali, in un punto determinante per i confini, attestando la direzione dei limiti con le sue bisettrici. A questo riguardo, infatti, dai “Libri Coloniarum”312 apprendiamo che proprio nell’ager Asculanus e in quello Faleriensis, all’epoca dell’imperatore Claudio, furono decise assegnazioni viritane per le quali, come cippi confinari, vennero utilizzate piccole vaschette per la raccolta dell’acqua piovana o sorgiva, orientate in relazione a suddivisioni agrarie di 1200 piedi (= 10 actus).313 Il nostro manufatto sembra pienamente rispondere, per tipologia, dimensioni e apparente dislocazione autonoma rispetto al circostante sistema di approvvigiona-
Fig. 96 Il corso del Fiastrone all’interno delle “Gole”.
140
L’Insula di Monastero nell’antico contesto topografico e viabilistico regionale
mento idrico, a tutte le caratteristiche riscontrabili nei numerosi segnacoli claudiani di questo genere riferibili al territorio in questione. É, di conseguenza, legittimo supporre che esso sia testimone di quella serie di interventi statali programmati in vista di una organizzazione centuriale che, a partire dal I sec. d.C., giunse ad interessare anche le aree più interne del Piceno meridionale fino alle propaggini della catena dei Sibillini. Esemplare conferma, del resto, della capillare pianificazione posta in essere dal potere centrale nelle zone più periferiche della nostra regione, è costituita, come abbiamo visto, da un altro importante e già noto documento agrimensorio: il famoso “Cippo di Amandola”,(Fig. 52 a-b) 314 proveniente, anch’esso, dagli estremi confini della parcellizzazione territoriale estesa fino all’alta val Tenna. Giunti a questo punto, al fine di valutare più a fondo la portata di tale fenomeno, che sembra investire, dunque, ampi settori anche dell’area subappenninica compresa fra i fondovalle fiastrense e chientino, è opportuno tornare ad occuparci di una precisa toponomastica significativamente sopravvissuta nel tempo, in qualche caso fino ai nostri giorni. A parte, come si è detto, la duplice accezione, topografica e antropica del termine Insula, su cui si tornerà tra breve, una presenza toponimica di un certo interesse, considerandone anche la diffusione, è rappresentata dall’appellativo “Cancelli” assegnato al rilievo (Monte dei) sovrastante il villaggio di Monastero.(Tav. H, Fig. 99) Sembra legittimo leggervi il riferimento ad una delimitazione recintata di un fondo rustico, come sovente accade quando questa svolge la funzione di saeptum che “isola” l’area interrompendo il transito di sentieri e carrarecce campestri.315 Del resto, tale destinazione d’uso risulterebbe suffragata anche dalla stessa geo-morfologia a “plateau” della parte sommitale, adatta a racchiudere un presidio difensivo o ad offrire una via di fuga e un sicuro rifugio alla comunità locale stanziata più a valle in particolari momenti critici. Il binomio lessicale “Cancelli/Insula” potrebbe, quindi, costituire una coppia onomastica strettamente connessa ad un concetto di demarcazione territoriale, in cui il valore confinario del primo termine definisce il significato del secondo, implicandone la condizione di luogo appartato e protetto.
Anche la denominazione di “Colonnalta”, associata a “Rocca” e ad un “Castrum Colupnati”, 316 località (m 628 s.l.m.) che sovrasta Pian di Pieca a breve distanza ad Est di Monastero, rientra, assieme ad altri casi analoghi attestati nella regione marchigiana (S.Laurentius de Columna – Urbino, S.Petrus in Columpna –Senigallia, S.Andreas de Columpnata – Camerino), 317 in una diffusa toponomastica dipendente da un latino ad Columnam e dotata di un valore “segnaletico” negli Itineraria antichi e altomedievali nei quali la colonna funge da sema topografico di riferimento e da elemento che delimita un’area di frequentazione o, nel nostro caso, di transito.318 Con tutta probabilità afferente a realtà abitative di tipo rurale è, poi, il vocabolo “La Villa” che designa nuclei sorti a Sud-Est e Sud-Ovest di Cessapalombo. Esso sembra ricondurci a modelli di popolamento legati allo sfruttamento delle risorse agricole sotto forma di Villae sorte in seguito allo sviluppo, anche in questa zona, di una economia latifondistica coinvolgente appezzamenti dislocati in prossimità del fondovalle del Fiastrone. Ugualmente interessante si rivela inoltre, poco più a Nord, la piccola località di “Tribbio”, diffusa presenza toponimica attestata spesso anche come “Trebbio” in seguito a fenomeno di metafonesi, 319 senza dubbio derivata dal latino trivium320 e riconducibile ad un luogo di confluenza di tre strade. Non a caso essa si colloca proprio in coincidenza del sentiero proveniente da Pian di Pieca e diretto a Vestignano, corrispondente, come si è visto poco sopra, a un tratto dell’antico tracciato viario che collegava, lungo l’asse Nord-Sud, le valli del Fiastra e del Chienti e proseguiva, forse, anche oltre in direzione di quella del Potenza. Il termine, dunque, documenta l’esistenza di un microtessuto viabilistico organizzato attraverso tre deviazioni le quali, staccatesi dalla direttrice maestra che conduceva verso Nord-Ovest a Pievefavera, puntavano a Nord su Caldarola e a Nord-Est su Cessapalombo/Colfano. Si creava, in tal modo, una rete di collegamenti “a tridente” funzionali, con ogni probabilità, al sistema di organismi abitativi e/o produttivi sparsi nel territorio. Della loro distribuzione entro un raggio abbastanza vasto del settore regionale che si estende lungo la fascia pedemontana dei Sibillini, ne è testimone la toponomastica prediale. Essa sopravvive, analogamente all’ampia
141
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
casistica offerta, come abbiamo visto, dall’esteso comprensorio amandolese, attraverso un buon numero di interessanti attestazioni nelle quali è ancora possibile riconoscere antroponimi di origine latina, a volte noti a livello interregionale (Umbria/Picenum). L’ampio ventaglio onomastico, sempre caratterizzato dal ricorrente suffisso di appartenenza in -ano (-anum) allusivo dei termini praedium, fundus o villa, conferma quanto profonda sia stata l’impronta lasciata, anche in questa zona, dall’organizzazione agraria attuata dai coloni romani. L’elenco che viene qui di seguito proposto, si basa sull’analisi cartografica regionale (IGM F. 313, 1:50.000)(Tav. H) e sugli studi specifici svolti in proposito da Giovan Battista Pellegrini (1983),321 Rossano Cicconi (1990),322 Umberto Moscatelli (1991),323 Mauro Calzolari (1994)324 e da Stefano del Lungo (2002).325 Un utile apporto alla ricerca, inoltre, è stato fornito dalle indicazioni contenute nelle Rationes Decimarum delle Marche326 e nel “Fondo Catasti” della Sezione dell’Archivio di Stato di Camerino (ASC). Dal prediale “Casigliano”, situato a Nord-Est di Cessapalombo, al confine con la giurisdizione di San Gine-
142
sio, 327 è, forse, possibile risalire ad un personale latino Casinius, al pari di “Casciano” (San Casciano), a Sud di Pian di Pieca, che potrebbe adombrare una derivazione da Cassius (?). A Sud-Est di Camporotondo incontriamo il toponimo “Celiano”, probabilmente derivato da un gentilizio Acilius/Asilius, 328 mentre nel territorio di Col di Pietra, a valle di Santa Maria in Insula, il cinquecentesco “Catastino dei Signori Varano”329 e il “Fondo Catasti” ASC330 nominano la località di “Manciano”, riconducibile ad un antico prediale coniato su voce antroponimica Mancius seguita dal consueto suffisso aggettivale. Anche nel toponimo “Invernale” (o “Infernale”), che incontriamo ai piedi del “Poggio La Città”, in direzione Nord, il Pagnani332 riconosce una probabile forma corrotta di un originario “Afernano” (da Afer ?). Spostandoci verso Nord-Ovest, nei pressi del già nominato borgo di Trebbio, in località Montalto, sappiamo dell’esistenza, un tempo, del toponimo “Scisiano” (o “Scisciano/Sisiano/Sesano”)333 riferibile ad un personale Sittius o Sisius334 piuttosto diffuso, che ritroviamo nominato dalle Rationes Decimarum anche in diocesi di Jesi335
L’Insula di Monastero nell’antico contesto topografico e viabilistico regionale
a proposito di un tal “Dompnus Benvenutus de Sesano”. La sua presenza è segnalata fino al territorio campano, 336 sempre in relazione a formazioni onomastiche prediali. Continuando, ora, lungo lo stesso tracciato, che, è opportuno ricordarlo, ricalca l’antico itinerario transvallivo di collegamento fra Pian di Pieca e Pievefavera sul Chienti, a breve distanza dal “trivio” di Montalto e sempre in direzione Nord-Ovest, si raggiunge “Vestignano”, ormai in agro di Caldarola. Anche in questo caso siamo di fronte ad una unità toponomastica ben attestata fin dall’età alto-medievale nella formula “in fundo Vestignano/Vestiliano”, come risulta dai Regesta farfensi contenuti sia nel Liber Largitorius, sia nel Chronicon di Gregorio di Catino.337 Evidente la sua derivazione dal personale latino Vestinius, a sua volta riconducibile alla gens Vestinia connessa all’etnico Vestini.338 Nel Liber Instrumentorum relativo alle possessiones in Marchia pertinenti all’abbazia benedettina abruzzese di Casauria, precisamente nella Sezione contenente l’elenco delle curtes incluse nel territorio di Cessapalombo, 339 viene nominata la località di “Vesciano”, di ubicazione al momento ignota340 ma attestata nel Codice Fermano
1030 già nel X sec. (977), 341 derivata probabilmente da una radice antroponimica Vesius/Vessius/Vettius. Come si è già anticipato a proposito dell’omonima contrada situata nel territorio di Montefortino, 342 è forse possibile ravvisarvi un riferimento alla figura di Vettius Rufinus, ricco latifondista e tribuno della VI Coorte Pretoria, reo di appropriazione indebita di pascua et silva publica, cioè di terreni di proprietà e uso collettivi dislocati nell’area dei Montes Romani identificabili, come si è detto già in precedenza, con la catena dei Sibillini. Secondo quanto riferiscono le fonti gromatiche, 343 nel 141 d.C., durante il principato di Antonino Pio, si rese necessario un intervento da parte del governo centrale il quale affidò a Mamilio Nepote, miles della III Coorte Pretoria, l’incarico di verificare i reali confini delle proprietà di Rufino e ristabilire la legalità violata.344 Il prediale, comunque, trova riscontro entro un ambito territoriale piuttosto esteso, comprendente ampi settori dell’area umbro-marchigiana (Narni, Amandola), 345 fino alla regione campana.346 Sempre il Liber Instrumentorum cita una “curtis de Septiniano”, anch’essa non identificata, 347 ma che potrebbe
143
Fig. 97 Panoramica del Lago di Fiastra (dal belvedere in loc. “La Ruffella”).
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
Fig. 98 Pian di Pieca (contr. “Morichella”): bivio per Monastero (SP 91). Sullo sfondo la catena dei Sibillini.
essere plausibilmente ricondotta ad un personale latino Septimius. Infine, per completezza documentaria, ci sembra opportuno non tacere sulla contrada “Madonna di Antegnano”, sita a Sud-Est di Belforte del Chienti, riguardo alla quale, pur in mancanza di attestazioni documentarie specifiche, non è difficile riconoscere un probabile ennesimo prediale, peraltro documentato anche altrove, 348 anche se non è del tutto chiaro il personale o il gentilizio a cui accostarlo: se ad un più antico Antelius o ad un più recente Antenius. In territorio marchigiano, il toponimo, oltre che nell’alta val di Chienti, ricorre anche in diocesi di Jesi e Senigallia, come riferiscono le Rationes Decimarum a proposito della chiesa di “S.Laurentius de Antignano”.349 É ancora, infine, la toponomastica a fornirci qualche indicazione utile per poterci orientare nella ricerca di sopravvivenze relative a quella dimensione del sacro su cui, fino ad ora, abbiamo taciuto. A tale proposito, la nostra zona non ha, per il momento, purtroppo restituito alcuna prova concreta di natura archeologica, né è stata oggetto di mirate investigazioni rivolte in questa direzione. Fanno eccezione alcuni sporadici ritrovamenti di materiale votivo (piatti bronzei con dediche a Minerva e Marte, protome di Minerva, statuette fittili), avvenuti nel territorio di Fiastra, in località “Acquacanina” e in
144
contrada “San Lorenzo”, frazione di Fiume, 350 sempre, dunque, lungo l’alto corso del Fiastrone ma in un’area più spostata verso Sud-Ovest. Al di fuori di queste tracce, peraltro del tutto decontestualizzate, pochissimi e labili sono gli indizi dei quali disponiamo. Fra essi, quello, forse, più carico di implicazioni, tutte, però, ancora prive di riscontri, ci è fornito dal piccolo centro di “Colfano”, posto poco a Nord di Cessapalombo, lungo la sponda sinistra del Fiastrone in direzione di Camporotondo. Il toponimo non nasconde la sua apparente dipendenza dal vocabolo fanum, riferibile ad un luogo di culto dislocato, sembrerebbe, in posizione strategica: a circa metà strada fra i due fondovalle del Fiastra e del Chienti; a brevissima distanza dal corso del fiume Fiastrone; adagiato su un leggero rilievo (m 318) agevolmente raggiungibile, e non lontano, infine, dalla direttrice stradale Pian di Pieca/Pievefavera che attraversava l’intero territorio. A ciò si aggiunga anche la particolare conformazione idrogeologica della zona, un tempo disseminata di fonti e risorgive351 di cui rimane testimonianza nella chiesa della “Madonna dell’Impollata”, toponimo riportato ancora nella vecchia cartografia IGM F. 124 NO (“Fosso Imbollata”) derivato da un probabile originario “Santa Maria in polla”:352 denominazione allusiva alla presenza di una vena d’acqua, come confer-
L’Insula di Monastero nell’antico contesto topografico e viabilistico regionale
ma un’analoga idronimia attestata anche altrove. Non è facile dire, allo stato attuale, se possa essere esistito un rapporto fra una eventuale realtà santuariale e l’abbondanza delle risorse idriche di quest’area. Se così fosse, certamente quest’ultimo dato assumerebbe una significativa rilevanza, considerando anche la dimensione agro-pastorale che ha caratterizzato da sempre il modello economico dell’intero territorio, all’interno del quale non sarebbe così inaspettato l’affermarsi di un culto legato alle acque e alla fertilità. Giunti, dunque, al termine di questa ampia panoramica, scevra da pretese di completezza ma sufficiente, a nostro avviso, per delineare un quadro topografico di riferimento entro cui inserire le diverse forme insediative avvicendatesi nell’Insula di Monastero, sembrano configurarsi con maggior chiarezza alcuni aspetti fondamentali. In termini generali, ciò che appare subito evidente è la vitalità di una zona interessata da fenomeni demici, non urbanizzati ma abbastanza diffusi, legati allo sfruttamento delle risorse di un territorio favorito da un assetto idro-orografico adeguato allo sviluppo di una economia legata all’agricoltura, all’allevamento e alla transumanza. L’elemento che, per secoli, ha sicuramente contrassegnato il paesaggio dell’esteso comparto pedemontano
settentrionale dei Sibillini è costituito dall’articolato sistema dei praedia produttivi accompagnati dai relativi stanziamenti rurali, verosimilmente sotto forma di piccole fattorie o di vere e proprie aziende agricole aventi anche funzione di residenze padronali (Villae). All’interno di tale apparato organizzativo, si inserisce un efficiente tessuto viabilistico strutturato su un asse stradale maestro di collegamento Nord-Sud, lungo il Fiastrone, fra due dei più importanti e frequentati fondovalle della regione picena. Da esso, poi, doveva originarsi un reticolo di tracciati tratturali minori i quali, spesso, ricalcando antiche percorrenze sfruttate da tempo immemorabile come rotte della transumanza, immettevano verso i valichi appenninici umbro-marchigiani. É in questo contesto, archeologicamente ancora poco noto ma di indiscutibile rilevanza storica e topografica, che si inserisce il sito di Monastero: come agglomerato agricolo-abitativo, in epoca romana tardo-antica, e come centro di una piccola comunità monastica più tardi. Un desertus locus affacciato su valli e strade in cui sono transitate, e in parte hanno innestato le proprie profonde radici, la civiltà classica e i riformatori della cristianità medievale, nei modi e nei tempi scanditi dal lento cammino umano attraverso i secoli della storia.
145
Fig. 99 Il Monte dei Cancelli sovrastante l’insediamento di Santa Maria in Insula.
Note
288 Sull’anteriorità cronologica della prima intitolazione rispetto alla seconda, o viceversa, esistono a tutt’oggi diverse incertezze: sull’argomento si vedano PAGNANI 1974, p. 136; MALPIEDI 2004, pp. 22-23. 289 L.ERMINI PANI, Il recupero dell’altura nell’alto medioevo, in Ideologie e pratiche del reimpiego nell’alto medioevo (CISAM, vol. XLVI), Spoleto 1999, pp. 642-646; DEL LUNGO 2002, p. 161. 290 DT, p. 390. 291 CHERUBINI 1992, p. 329. 292 A.CHERUBINI, Arte medievale nella Vallesina. Una nuova lettura, Ancona 2001, p. 173; DEL LUNGO 2002, p. 160, nota 55. 293 PAGNANI 1974, pp. 103-108; E.ARCHETTI, Organizzazione dello spazio in area avellanita tra X e XIII secolo: circoscrizioni territoriali, insediamenti e paesaggio agrario, in Fonte Avellana nel suo millenario: 2. Idee, figure, luoghi, (Atti del Convegno, 30 agosto-1 settembre 1982), Urbino 1983, pp. 301-356; DEL LUNGO 2002, p. 160, nota 55. 294 ALLEVI 19871, pp. 913-916. 295 Sul ruolo di Pian di Pieca nel quadro della viabilità antica medio-appenninica umbro-marchigiana si vedano PAGNANI 1974, pp. 101-102, nota 1; A.A.BITTARELLI, Piandipieca, in Valle del Fiastra, pp. 251-287, in particolare pp. 254-256. 296 Su tale arteria e sui collegamenti con il diverticolo prolaquense-septempedano della Flaminia, si veda l’ampia trattazione dello scrivente: RAININI 2007, pp. 15-26, 33-34 e quanto esposto supra, Cap. I. 297 RAININI 2011, pp. 252-254. 298 PAGNANI 1987, pp. 573-575. 299 PAGNANI 1987, p. 574, nota 5. 300 G.BOCCANERA-S.CORRADINI, Preistoria e Archeologia nel Camerinese, in Ricerche sull’età romana e preromana nel Maceratese, “ACStM” IV, San Severino Marche 10 novembre 1968 (“StMac” 4), pp. 113-114. 301 RAININI 2007, p. 23. 302 A.A.BITTARELLI, La Marca di Camerino, in “QdAC” 7, 1975, p. 33; PAGNANI 1987, p. 570, nota 1; MALPIEDI 2004, p. 43. 303 L.GASPERINI, Il milliario delle Macchie di S.Ginesio, in “Piceno” a. IV 1, giugno 1980, p. 47. 304 BITTARELLI 1987, pp. 594-595; cfr. anche F.ALLEVI, Ancora lungo il Fiastra con altre voci lontane, in Valle del Fiastra, p. 48, nota 75. 305 Cfr. a questo proposito le osservazioni concordanti di MOSCATELLI 1984, p. 38, e di RAININI 2007, p. 24, nota 10. 306 RICCOMANNI 1750, p. 159.
146
307 Cfr. anche ALLEVI 1975, p. 243; IDEM 19871, p. 915, nota 79. 308 G.ANNIBALDI, in “FA” XII 1957, p. 177, n. 2772. Si vedano anche le prime notizie in merito riportate da F.ALLEVI, La Città, in “L’Appennino Camerte” n. 41, 13 ottobre 1956, e contenute nelle copie dei rapporti relativi agli scavi, svolti sempre nel 1956 da A.Annavini, conservate presso l’“APCE”, cart. “Appunti per una storia di Cessapalombo e la “città”; cfr. al riguardo MALPIEDI 2004, p. 44, nota 18. 309 B.ANDREAE, in “AA” 1959, p. 183. 310 D.LOLLINI, La civiltà picena, in “PCIA” V, Roma 1976, p. 117. 311 L.MERCANDO, Problemi della civiltà gallica nelle Marche, in P.SANTORO (a cura di), I Galli e l’Italia, Roma 1978, pp. 163-164. 312 Lib Col, I, p. 227, 4-10; II, p. 252, 14-27. 313 A tale proposito si vedano DALL’AGLIO-GIORGI 20002, p. 89. 314 Cfr. supra, Cap. III E., p. 87. 315 PAGNANI 1974, p. 103; DT, p. 150, s.v. “Cancellara”; MALPIEDI 2004, p. 16. 316 ASCSG, cass. V, 12/63; ALLEVI 19871, p. 914; CICCONI 1990, pp. 453-454 e nota 111. 317 DEL LUNGO 2002, p. 182. 318 DT, p. 260, s.v. “Colonna”. 319 PELLEGRINI 1974, p. 461; IDEM 1983, p. 280. 320 Si veda il caso analogo, già esaminato in precedenza a proposito del territorio posto fra Amandola e Montefortino: supra, Cap. I, p. 23; Cap. III E., p. 86 e nota 177. 321 PELLEGRINI 1983, pp. 217-300. 322 CICCONI 1990, pp. 427-461. 323 MOSCATELLI 19911, pp. 99-140. 324 M.CALZOLARI, Toponimi fondiari romani. Una prima raccolta per l’Italia, in “AUF” Sez. VI – Lettere VII, n. 3, 1994. 325 DEL LUNGO 2002, pp. 143-200. 326 RDM, p 449 ss. 327 G.TUCCI, Ricerche sul nome personale romano nel Piceno, in “AMDSPMarche” N.S. VII 1912, pp. 313-314; MOSCATELLI 19911, p. 110. 328 MOSCATELLI 19911, p. 110; DT, p. 242, s.v. “Cigliano”. 329 ASCC, “Catastino dei Signori Varano (secc. XV-XVI)”, c. 33 v. 330 ASC/FC, 59, c. 117 v. 331 R.CICCONI, Monasteri e Chiese a Belforte del Chienti, in “StPic ” 51, 1986, p. 141 nota 264; IDEM 1990, p. 434 e nota 29; MOSCATELLI 19911, p. 112; DT, p. 440.
Note
332 PAGNANI 1987, p. 574, nota 5. 333 ASC/FC, 22, cc. 185 v., 187 r., 202 r. 334 PELLEGRINI 1983, p. 257; CICCONI 1990, P. 433. 335 RDM, n. 4849; MOSCATELLI 19911, p. 128. 336 DT, p. 722. 337 U.BALZANI (a cura di), Chronicon Farfense di Gregorio di Catino, in Fonti per la storia d’Italia, I, Roma 1903, p. 229; G. ZUCCHETTI (a cura di), Liber largitorius vel notarius monasterii Pharphensis, in "RChIt", I , Roma 1913, p. 61; PACINI 1966, p. 165. 338 PELLEGRINI 1983, p. 259; MOSCATELLI 19911, p. 114. 339 J.BERARDUS, Liber instrumentorum seu chronicorum Monasterii Casauriensis, Codicem Parisinum Latinum 5411, quam simillime expressum edidimus, L’Aquila 1982, f. 133 v. 340 CICCONI 1990, p. 433. 341 SASF/ASCOF, Lib Iur, cc. 18 v. - 20 r.; PACINI 1996, doc. n. 48 (gennaio a. 977), pp. 90, 94. 342 Vedi supra, Cap. I, p. 24. 343 Lib Col , II, p. 252, 21-27. 344 DALL’AGLIO-GIORGI 20002, p. 90. 345 DEL LUNGO 2001, p. 673: “Santa Maria de Visciano/de Viscano”; per una forma “Visiano”, assimilabile a “Vesciano”, si vedano SASF/ASCOF, Lib Iur, c. 87 r.v.; MOSCATELLI 19911, pp. 114, 137; PACINI 1996, p. 94; AVARUCCI 1996, pp. 526-527, doc. n 289 (marzo a. 1028): richiesta al vescovo di Fermo Uberto dell’usufrutto di un “…locum qui dicitur Visiano, id est de ipsa curte di Visiano…”. Cfr. anche supra, nota 38. 346 G.B.PELLEGRINI, Osservazioni di toponomastica umbra (il filone dei nomi locali prediali), in I dialetti dell’Italia mediana con particolare riguardo alla Regione umbra, in “ASU” V, Gubbio 28 maggio-1 giugno 1967 (Perugia 1970), p. 232. 347 CICCONI 1990, p. 432. 348 DT, p. 36. 349 RDM, n. 1066; MOSCATELLI 19911, pp. 109, 115-116, 132. 350 MERCANDO-BRECCIAROLI-PACI 1981, p. 341, n. 367368. 351 CICCONI 1990, p. 429, nota 8. 352 ASM/FC, 624 (1833), pp. 76, 91, 211, 276, 280, part. n. 75, 152-155, 158, 1350; per altre varianti (“Ampullate”, “de la Mpollata”) si vedano ASC/FC, 10, fr. del 1505; ASCSG, 2, catasto del 1374, cc. 400 v., 404 v.
147
Capitolo 6 Le preesistenze dellâ&#x20AC;&#x2122;insediamento romano tardo-antico
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
A . I rinvenimenti sporadici L’ampia spianata, lievemente digradante verso valle, sulla quale sorge il complesso di Santa Maria in Insula, oltre all’affioramento di strutture variamente riconducibili all’impianto monastico medievale e, in qualche caso, anche al primitivo insediamento tardo-romano, si presenta, oggi, disseminata di abbondanti quantitativi di materiale fittile e litico di diversa epoca e origine. Isolati e pionieristici interventi esplorativi, limitati nello spazio e nel tempo ma purtroppo privi di scientificità, risalgono ai primi anni ’60 del secolo scorso. Ad essi sono seguiti, durante il decennio successivo, manomissioni e discutubili operazioni di restauro le quali hanno determinato più dispersioni che recupero e tutela degli antichi manufatti. Essi, infatti, giacciono caoticamente ammassati, a volte, in vere e proprie discariche a cielo aperto ancora oggi riconoscibili in alcune circoscritte zone dell’area archeologica. Sicuramente di diversa natura vanno considerate le recenti indagini svolte nel 2011 all’interno della cripta e lungo i perimetrali Sud, Est e Nord esterni ad essa sotto la direzione di U.Moscatelli (Dpt. Beni Culturali dell’Università di Macerata). Di esse, tuttavia, non sono stati fino ad oggi ancora pubblicatii i risultati, per cui non è possibile valutare, al momento, quantità, tipologie ed orizzonti cronologici delle associazioni riportate alla luce in un contesto, si presume, di stratigrafie rigorose e certe. Scopo del presente paragrafo, dunque, è quello di segnalare la presenza di alcuni oggetti, di un certo interesse, recuperati nel corso dello svolgimento delle operazioni di diserbatura e pulizia delle scarse emergenze architettoniche tuttora conservate a Sud-Est della chiesa. Si tratta, come dimostra il breve catalogo che segue, di pochi reperti apparentemente in sé anonimi e privi di valore e rilevanza archeologica, ma che, almeno in un paio di casi, offrono invece stimolanti spunti di riflessione e contribuiscono a rendere meno oscuri alcuni aspetti relativi alla più antica storia del sito. 1. Vaschetta in pietra.(Fig. 100) Lungh. max. m 0,87; largh. max. m 0,55; h. m 0,28; spess. bordo: max. m 0,16; min. 0,09; prof. vasca m 0,275.
Fig. 100 La vaschetta di pietra attualmente sistemata presso l’angolo Sudorientale della chiesa (cat. n. 1). Fig. 101 Grossa tegola fittile (cat. n. 2).
Pietra calcarea biancastro-grigia, molto compatta, classificabile come micrite fossilifera da formazione rocciosa dell’arenale camerinese-tolentinate. Petrograficamente è assimilabile ai campioni PL 4 – PL 5(Figg. 279, 282) ai quali si rinvia per l’analisi specifica di laboratorio.353 Attualmente giace abbandonata nei pressi dell’angolo Sud-orientale della chiesa e allineata ad un cumulo di materiale litico di riporto. In precedenza era spostata di qualche metro verso Sud con lieve rotazione e orientamento delle bisettrici sugli assi Est-Ovest e Nord-Est/Sud-Ovest. Piccola vasca per la raccolta di acqua piovana, o sorgiva, presumibilmente utilizzata come cippo centuriale, di
149
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
fattura molto rozza. Accentuate deformazioni, imputabili a prolungata usura, interessano principalmente uno dei lati lunghi e, in parte, l’estremità di uno di quelli corti. Il bordo, piuttosto spesso, assume un andamento irregolare e le pareti dell’invaso risultano grossolanamente scalpellate. 2. Grossa tegola fittile.(Fig. 101) Lungh. m 0,592; largh. m 0,484. Ricomposta da due frammenti. Argilla rosa carico, tendente al rossiccio, compatta e ben depurata. Recuperata sporadicamente presso il cantiere di restauro (area Sud) nell’ottobre del 2011. Attualmente conservata a Monastero, presso la casa parrocchiale. Si tratta di un noto e assai diffuso tipo di tegola “ad alette”, 354 derivato da antichi prototipi greci a lungo utilizzati nelle coperture c.d. “corinzie”.355 Se la forma, standardizzata e rimasta inalterata per tutti i secoli dell’Impero, non offre elementi utili per una classificazione tipologica, le misure, invece, estremamente variabili da regione a regione, sembrano ricorrere con notevole frequenza soprattutto in ambito centro-italico e campano.356 Materiali sporadici provenienti da uno scarico recente individuato presso il tratto iniziale del muro 1.(Fig. 102) Consegnati al competente “Ufficio per i Beni Culturali Ecclesiastici” dell’ Arcidiocesi di Camerino e ivi attualmente conservati.
Fig. 102 Materiale sporadico proveniente da uno scarico recente presso il muro 1 del complesso edilizio a Sud-Est della chiesa.
Fig. 103 Coppia di vasetti fittili: a. Frammento di collo e orlo (cat. n. 3). b. Frammento di fondo di coppetta (cat. n. 3).
150
3. Coppia di vasetti fittili.(Figg. 103 a-b) a. Frammento di collo con parte dell’orlo. h. m 0,049; largh. m 0,046; spess. max. m 0,009. Argilla rosa carico, ben depurata. Collo molto sviluppato, concluso da un orlo svasato e indistinto, leggermente ispessito. b. Frammento di fondo di coppetta. h. m 0,025; largh. m 0,06; spess. m 0,005. Argilla figulina rosa carico, compatta e molto ben depurata. Basso piede ad anello leggermente svasato, con appoggio irregolare. Vasca aperta, a profilo rettilineo, con superficie interna interamente invetriata recante evidenti tracce di tornitura.
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
4. Frammento di lastra marmorea pavimentale.(Figg. 104 a-b,
Fig. 104 a Frammento di lastra marmorea pavimentale (cat. n. 4).
141)
Lungh. m 0, 356; largh. m 0,095; spess. m 0,025. Marmo “Greco Scritto Efesino”. Codice di riferimento: SMI 4. Lo spessore piuttosto consistente, cui si accompagna una notevole durezza del litotipo, depongono a favore di un probabile utilizzo del pezzo come rivestimento pavimentale. Sull’analisi minero-petrografica e sui particolari aspetti isotopici di questo marmo, piuttosto raro e ancora scarsamente studiato, variante microasiatica del più noto “Greco Scritto” di origine Nord-africana (Hippo Regius, Algeria), 357 si rinvia ai più recenti contributi scientifici editi a tutt’oggi.358
Fig. 104 b Particolare del Marmo “Greco Scritto Efesino”. Fig. 105 a Frammento di soglia marmorea con bordo modanato (cat. n. 5). Fig. 105 b Particolare del Marmo Lesbio.
5. Frammento di lastra marmorea con bordo modanato.(Figg. 105 a-b, 142) Lungh. m 0,12; largh. m 0, 121; spess. m 0,025 (alla rottura frontale m 0,03). Marmo Lesbio. Codice di riferimento: SMI 5. Il frammento appartiene verosimilmente al medesimo contesto pavimentale dell’esemplare precedente, come sembrano indicare l’identità dello spessore e la presumibile coincidenza del luogo di provenienza, identificabile negli strati sottostanti l’area occupata dalla cripta, di cui si parlerà più avanti. Il lato destro, privo di rotture e lavorato fino ad ottenere una superficie levigata e uniforme, dimostra la probabile appartenenza del manufatto al tratto terminale di una soglia, identificazione, questa, suggerita dalla presenza, nella parte frontale, di una modanatura semplice poco aggettata, costituita da un tondino a profilo curvilineo contenuto entro due cavetti moderatamente incavati. Il nostro litotipo è caratterizzato da una struttura cristallina a grana media (M.G.S. 3,75 mm), fortemente eteroblastica, con discreta percentuale di Grafite e una colorazione ad ampi aloni biancastri.359 Estratto già nel corso del primo periodo imperiale (colonne non finite delle Terme di Pompei), esso conobbe un’ampia diffusione a partire, soprattutto, dall’età flavia:360 periodo durante il quale si intensifica il suo impiego special-
151
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
mente per lastre pavimentali e per colonne, anche di dimensioni monumentali. Il suo successo è da imputarsi, tanto alla gradevole colorazione frequentemente variegata da toni chiari a più scuri, a volte tendenti al grigio-bluastro, quanto al basso costo d’acquisto quantificato in 50 denari nell’Edictum di Diocleziano.361
Fig. 106 Frammento di lastra marmorea (cat. n. 6). Fig. 107 Particolare del Marmo Lunense. Fig. 108 Chiesa: il fianco Nord.
6. Frammento di lastra marmorea.(Figg. 106-107) Lungh. m 0,153; largh. m 0,097; spess. m 0,024. Marmo Lunense. Anche in questo caso, spessore e consistenza orientano verso una identificazione del frammento come parte di una lastra pavimentale.
B . I reimpieghi antichi nelle strutture ecclesiali esterne. Le ripetute e pesanti manomissioni a cui è stato sottoposto, nei secoli, l’intero edificio ecclesiale hanno irrimediabilmente compromesso l’integrità delle stratigrafie murarie, impedendo di risalire a quel complesso rapporto di integrazione strutturale fra edilizia tardo-antica e medievale che, molto probabilmente, doveva caratterizzare la primitiva fondazione monastica. Allo stato attuale, al di là dei pochi ma significativi indizi di cui si è parlato e si parlerà, molto labile e ipotetica risulta, almeno sul piano delle sopravvivenze architettoniche, la presenza di materiale edilizio riferibile con certezza a preesistenze monumentali di epoca romana e riutilizzato nell’innalzamento del tempio cristiano. L’analisi che verrà affrontata in queste pagine, e nel successivo paragrafo, cercherà, quindi, di prendere in considerazione, secondo criteri rigorosamente selettivi, unicamente determinati e circoscritti settori del corpo di fabbrica. La scelta sarà rivolta alle sole strutture nelle quali sono riconoscibili particolari categorie litiche che per aspetti petrografici, consistenza, colorazione e taglio, confrontabili con analoghe realtà edilizie di epoca romana del territorio, si distinguono con evidenza da quelle comunemente in uso in gran parte dell’edificio romualdino e che, pertanto, possono essere ragionevolmente attribuite a potenziali emergenze monumentali antecedenti.
152
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
É senza dubbio un’operazione delicata quella che qui viene affrontata, ma che si impone, al momento, come unico approccio possibile allo studio specifico dei ruderi ancora disponibili. Si cercherà, perciò, di procedere con la massima prudenza avvalendoci, nell’esame dei materiali architettonici, dei dati scientificamente accertati dalle analisi archeometriche. Nel contempo non si trascurerà però, di valutare, nei pochi casi in cui è possibile, anche quegli aspetti tecnico-tipologici ancora identificabili che possono ricondursi a modelli o a soluzioni funzionali appartenenti alle tradizioni costruttive del mondo classico. Analizzando, dunque, il perimetro esterno della chiesa, la parte che per prima si impone all’attenzione, grazie alla sua netta caratterizzazione strutturale, è senza dubbio quella Nord, occupata da quanto sopravvive della originaria navata con relativo organismo absidale della cripta.(Figg. 108-110) Ciò che oggi rimane del suo sviluppo, preservatosi principalmente verso Est,(Tavv. X-XI) corrisponde all’incirca a metà di quello originario, con alzati che da un minimo di m 0,32, rilevabile poco prima dell’apertura corrispondente all’antica porticina laterale, giungono, dove si eleva il corpo absidale, ad un massimo di m 1,70. Mano a mano che si risale in direzione Ovest, invece, il progressivo accumulo di terra e l’espandersi della vegetazione spontanea, hanno ormai sommerso, con gli anni, le ultime tracce delle murature che ancora affioravano, con almeno sei ricorsi lapidei, quando vennero riportate per la prima volta alla luce nel corso degli interventi esplorativi svolti agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso.(Fig. 111) Il crollo, infatti, pur avendo coinvolto gran parte dell’alzato, aveva risparmiato porzioni significative tanto della parete perimetrale esterna, conservata per tutta la lunghezza fino al suo innesto con le originarie strutture angolari della facciata, quanto del vano settentrionale della cripta. Al suo interno, tra l’altro, era ancora visibile l’antica colonna su plinto, oggi scomparsa,(Fig. 112) che in origine sosteneva le crociere del braccio Nord dell’ipogeo, assieme alle altre nove tuttora esistenti, al secondo pilastro composito abbattuto, forse, già sul finire del sec. XIII, 362 e al sistema di semicolonne e paraste parietali. Il tracciato emergente dal terreno, lasciato in deprecabili condizioni di abbandono, si dispone, allo stato attuale,
Fig. 109 I resti della navata Nord edificata con antichi conci di reimpiego in travertino (da Nord-Est). Fig. 110 I resti della navata Nord (da NordOvest).
153
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
INNESTO FRA ABSIDE E MURO DI RACCORDO CON LATO NORD CHIESA
LATO NORD CHIESA
P. d. C.
1,16
MURO DI RACCORDO CON LA CHIESA 1,20
CANALETTA
lungo un settore del pianoro interessato da un dislivello di m 1,46, calcolato dall’estremità occidentale ancora visibile quasi a filo del p.d.c. e l’innesto del corpo absidale nel fianco Nord della chiesa. Il tratto iniziale a monte si limita a m 2,28, fino al punto in cui si apriva una piccola porta(Fig. 113) la quale, con una luce di m 0,60, immetteva nell’ambiente settentrionale della cripta. In questo primo settore l’alzato, da un minimo di m 0,32, raggiunge un’altezza massima di m 0,77. La muratura prosegue, quindi, per m 1,78 includendo la parte inferiore di una piccola monofora strombata ampia m 0,76. Il prospetto si eleva, qui, fino a m 0,95. Il segmento successivo si estende, poi, per m 2,08 fino all’angolo corrispondente all’inizio dell’abside, dove si tocca il punto di altezza massimo pari a m 1,74. Quest’ultima,(Fig. 114) mantenendosi inizialmente alla medesima quota, conserva, lungo la fascia inferiore, la sua originaria integrità strutturale coprendo una lunghezza totale di m 6,11. Al suo interno, si registrano punti di crollo variamente accentuati che rendono molto discontinuo il profilo altimetrico, variabile da massime, come si è detto, di m 1,74, a minime comprese fra m 0,86 e m 0,47, con intermedi di m 1,26/1,18. Il settore terminale è costituito da un ultimo spezzone murario, di m 2,06 x m 1,16 di altezza, il quale funge da struttura di raccordo con il fianco Nord della chiesa
Fig. 111 La navata Nord in una vecchia fotografia degli inizi degli anni ’60 del Novecento. Fig. 112 Particolare del vano Nord della cripta in una vecchia fotografia che mostra l’antica colonna di sostegno andata perduta.
154
0,34
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
ANGOLO CON ABSIDE NORD
P. d. C. MONOFORA
0,32
PORTA LATERALE 0,66 0,74 0,96
0,88 1,50
ABSIDE
e, quindi, considerando il tratto successivo oggi in esso inglobato, con il corpo di fabbrica dell’abside centrale. Complessivamente, dunque, l’insieme dei resti architettonici appartenenti all’originario impianto edilizio settentrionale dell’edificio, almeno a quello ancora rilevabile sul terreno e contenente materiale da costruzione di recupero di epoca pre-medievale, raggiunge una estensione di m 10,54 lungo il tratto perimetrale esterno superstite della navata e parte della curva absidale. Sul fronte Est la lunghezza, invece, è di m 5,12. In quest’ultimo è inclusa la restante porzione dell’abside laterale e il muro di innesto nella parete della chiesa. Passando, ora, ad esaminare la tipologia dei conci reimpiegati e le loro peculiarità minero-petrografiche, stando a quanto si è mantenuto in vista degli alzati, risulta che l’intera struttura, per tutta l’altezza ancora rilevabile, è stata edificata utilizzando in prevalenza un’identica qualità di pietra. Si tratta di una roccia carbonatica concrezionale e vacuolare,(Figg. 115, 138) caratterizzata da abbondante macroporosità e classificabile come travertino appartenente alla facies “spugnosa” delle formazioni appenniniche del Piceno meridionale, in particolare del territorio ascolano (area del Colle di San Marco) (codice di riferimento: SMI 1). I suoi aspetti tessiturali, unitamente alla colorazione variata su poche tonalità di grigio scuro, la rendono nettamente distinguibile
MURO NAVATA NORD
1,46
rispetto ai compatti calcari biancastri e rossicci(Fig. 116) o alla brecciola calcarea bruno-rosata porosa a componente ematitico-limonitica(Fig. 117) che costituiscono, entrambi, la tipica pietra da costruzione dell’intera fabbrica medievale. Tali caratteristiche, assieme ai tagli in genere regolari e abbastanza costanti soprattutto nelle altezze, mediamente comprese entro i 15/16 cm, che denotano una uniformità morfologica assente, il più delle volte, nella quasi totalità della compagine muraria, lasciano intuire una estrazione dei conci da un preesistente contesto architettonico unitario. Lo “standard” qualitativo piuttosto modesto di questo materiale, compensato dal suo facile reperimento nel comprensorio dei Sibillini e dalla facilità di lavorazione dovuta alla sua relativa durezza, si rivela appropriato ad una edilizia residenziale/produttiva di tipo rurale, interessata a dotarsi di infrastrutture funzionali piuttosto che puntare sul prestigio monumentale. Ciò, tuttavia, non ha pregiudicato una certa cura verso condizioni di vita agiata in ambiti particolari del settore abitativo. A questo proposito, è stata di estremo interesse l’individuazione, al di sotto dell’estremità sinistra dell’abside laterale, in corrispondenza del punto in cui essa si aggancia al muro orientale di raccordo con la chiesa, dei resti di un sistema di canalizzazione.(Fig. 118) Ciò che ne rimane è costituito dalla parziale fuoriuscita, al di
155
Tav. X Monastero di Cessapalombo, Chiesa di Santa Maria in Insula: prospetto dei ruderi appartenenti all’antica navata Nord, all’absidiola e al suo innesto nel fianco dell’edificio (scala 1:20).
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
sotto dei conci di base, di un piccolo condotto coperto da grosse lastre di calcare biancastro,(Fig. 119) tangenti la curvatura, lungo un asse di m 1,76 orientato, grosso modo, Nord-Sud. Esse sono contraddistinte da una pietra completamente diversa dal travertino grigio poroso degli alzati: si tratta, infatti, di una micrite fossilifera a componente bioclastica(Figg. 120, 140) (codice di riferimento: SMI 3), attraversata da vene di calcite e con basso coefficiente di ossidi di ferro, dall’aspetto levigato e compatto, anch’essa abbastanza comune nei bacini estrattivi dell’Appennino marchigiano meridionale e frequentemente usata nell’edilizia civile di epoca romana (si veda la classe dei calcari compatti bianchi nell’edilizia plestina: Cap. X C. 2). Al di sotto, si scorgono i resti di una canaletta (h. m 0,14; largh. m 0,10), con piano di posa e guance laterali in laterizio,(Fig. 121) ruotata di circa 21° Sud-Ovest rispetto allo spiccato absidale e sistemata ad una profondità massima di m 0,34 dal p.d.c. Come verrà approfondito più avanti (Cap. VII), tale impianto, pur collocandosi entro un orizzonte cronologico ancora incerto in assenza di adeguate esplorazioni estese a tutta l’area interessata, non v’è dubbio che appartenga ad una fase più antica rispetto anche alla primitiva fondazione monastica. Lo attestano inequivocabilmente le stratigrafie soggiacenti il livello cripta la quale costituì sicuramente la prima forma di riorganizzazione insediativa del sito in epoca medievale. Altrettanto oggetto di più approfondite riflessioni, sarà il problema legato alla funzione di questa struttura: o di canalizzazione delle acque nell’ambito di un sistema idraulico più complesso, o, piuttosto, di immissione d’aria calda all’interno di un contesto residenziale e di rappresentanza pertinente ad una dimora padronale di età tardo-antica. Labili tracce di probabili inserti antichi sono pure individuabili in corrispondenza del duplice anello in travertino grigio (h. m 0,30) che corre lungo il perimetro inferiore (m 4,50) dell’abside centrale.(Fig. 122) Anche qui, le medesime qualità litologiche riscontrate negli alzati Nord/Nord-Est concorrono a indicare il ripetersi dell’uso di materiale di reimpiego che incontriamo, forse, parzialmente nei mal conservati resti di un muretto innestato ortogonalmente nel fianco Sud.(Tav. XII)
Fig. 113 Navata Nord: particolare della porta laterale. Fig. 114 Particolare dell’absidiola.
156
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
É utile precisare che in alcuni ricorsi lapidei dell’emiciclo absidale, fa la sua comparsa, pur se in maniera discontinua, un secondo tipo di pietra da costruzione, di colore rossiccio(Figg. 123, 139) (codice di riferimento: SMI 2), che, come si vedrà in seguito a proposito del complesso edilizio della fonte (par. C), sembra essere ricorrente, assieme al travertino grigio, sotto forma di materiale di recupero proveniente presumibilmente da contesti più antichi. É un calcare micritico ad abbondante componente bioclastica, accostabile a quello già analizzato a proposito delle lastre di copertura della canaletta, ma molto ricco di ossidi di ferro di tipo ematitico responsabili della sua caratteristica colorazione. Più in generale, esso è ascrivibile alla formazione appenninica della c.d. “Scaglia Rossa” che trova ampia applicazione nell’edilizia antica del comprensorio umbro-marchigiano. Il fianco meridionale del perimetro ecclesiale è quello nel quale i drastici interventi di ristrutturazione, anche di recente data, e di ridestinazione funzionale di alcune parti hanno compromesso in più di un caso l’autenticità del paramento murario e, di conseguenza, la possibilità
di individuare, al suo interno, antichi materiali di recupero. Il settore che, forse più di altri, conserva inserti abbastanza evidenti di riutilizzo di conci di spoglio è quello che si colloca verso l’estremità destra, coincidente con l’ingresso esterno alla cripta affiancato dall’unica monofora superstite(Tav. XIII, Fig. 124) (estensione max. m 6,50; h. m 2,645), malgrado la pesante cementificazione operata in anni a noi vicini abbia, spesso, alterato l’aspetto e i tagli originali di molte pietre. Le loro caratteristiche restano, comunque, apprezzabili grazie ad una vecchia fotografia del secolo scorso(Fig. 125) che ne mostra la morfologia, a masselli parallelepipedi in tutto simili a quelli del fianco Nord, e l’inconfondibile consistenza travertinosa ad accentuata porosità: caratteristiche che è possibile cogliere saltuariamente anche in qualcuno dei filari occidentali, presso l’angolo di facciata, e lungo il paramento murario interno della cripta.(Tavv. XIII-XIV)
157
Tav. XI I resti della navata Nord relazionati all’alzato della chiesa (scala 1:50) (da MALPIEDI 2004).
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
Tav. XII Il prospetto Est con i resti dell’abside centrale. In 2° piano: a sx. innesto con le presunte strutture dell’ex monastero; a dx. raccordo con l’absidiola laterale dell’antica navata Nord (scala 1:50) (da MALPIEDI 2004).
C. I reimpieghi antichi nel complesso edilizio Sud-orientale. La cisterna/fonte e le strutture annesse. La spianata che si estende a Sud-Est dell’edificio ecclesiale, oggi delimitata in direzione Nord dal moderno sentiero staccatosi dalla deviazione della SP 91 che conduce a Fiastra, e a Sud da un lungo muro di contenimento apparentemente di recente realizzazione, racchiude un interessante complesso edilizio costituito da diverse strutture facenti capo ad una monumentale fonte posta a ridosso del terrazzamento meridionale e tuttora funzionante grazie ad un sistema, ancora efficiente, di captazione idrica dalle falde del Monte dei Cancelli. Il giacimento, gravemente compromesso da una deplorevole incuria da parte dei responsabili degli Enti Ecclesiastici e Statali preposti che per troppo tempo hanno
158
ignorato l’urgenza di provvedere alla messa in sicurezza e alla conservazione di un sito di singolare importanza storico-monumentale, è stato oggetto di un intervento di manutenzione da parte di chi scrive nell’estate del 2013. É stato sufficiente procedere ad una semplice ed efficace operazione di diserbatura e di consolidamento minimo delle parti pericolanti, interamente finanziata dalla Fondazione CARIMA di Macerata, nell’assoluto rispetto dell’esistente e senza alcun ricorso ad arbitrarie integrazioni, per restituire ai ruderi, in parte affioranti in mezzo ad una infestante vegetazione spontanea, almeno una leggibilità degli aspetti planimetrici e strutturali. Ciò ha reso, così, possibile lo studio e la documentazione scientifica di una emergenza archeologica rivelatasi unica nel suo genere nell’ambito dell’intero territorio maceratese, restituendola alla storia del territorio, al patrimonio monumentale dell’Arcidiocesi
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
Fig. 115 Particolare del travertino locale poroso.
camerinese e alla fruizione da parte della collettività. L’area, già in passato, era stata interessata da esplorazioni, purtroppo improvvisate e fuori controllo, affidate alla buona volontà di Don Natale Sartini, frate minore e parroco di Monastero. Egli, nel corso degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, pur procedendo attraverso sbancamenti assolutamente privi di rigore stratigrafico e malgrado la totale mancanza di relazioni scritte relative ai risultati raggiunti, ha avuto, per lo meno, il merito di aver tentato di recuperare qualcosa dell’antica abbazia (fra cui cospicui quantitativi di ceramica, inevitabilmente del tutto decontestualizzata e in gran parte, oggi, andata dispersa) e di averla resa temporaneamente agibile. Delle operazioni svolte in quegli anni, l’unica testimonianza a noi rimasta è costituita da alcune vecchie fotografie inerenti, come si è visto, la messa in luce dei resti della navata Nord, ed un’unica scadente immagine del settore del quale ci stiamo occupando.(Fig. 126) Quest’ultima risulta di particolare interesse, non tanto come testimonianza sullo stato di conservazione delle strutture tuttora visibili, in merito alle quali già allora appariva evidente l’avanzato stato di precarietà (si vedano, soprattutto, le vistose lacune del muro di destra (muro 1) e dell’alzato cilindrico della fonte), quanto principalmente come unico documento oggi esistente relativo alla presenza, in primo piano, di un grosso muro oggi scomparso. Conservatosi, a quanto sembra, solo a livello di assise di fondazione e realizzato con tecnica cementizia, esso proveniva dal fianco Sud della chiesa e, infilandosi al di sotto del sentiero in lieve pendenza ad essa parallelo, si dirigeva verso la fonte con un orientamento, grosso modo, Nord-Ovest/Sud-Est autonomo rispetto agli altri tracciati murari e su un piano di giacitura, all’apparenza, stratigraficamente anteriore ad essi. La sua presenza si direbbe, dunque, suggerire un’articolazione più complessa, rispetto a quella oggi ricostruibile, degli spazi Sud-orientali dell’insediamento, con una successione in fasi che ne testimoniano i diversi stadi evolutivi e l’importanza, pertanto, da essi rivestita nel corso del tempo. Procedendo, ora, ad una attenta analisi planimetrica di quanto è stato possibile riportare alla luce,(Tav. XV, Fig. 127) iniziamo dal settore occidentale dove si sviluppa un lungo muro (muro 1)(Fig. 128) il quale corre per m 9,60 in
Fig. 116 Particolare della pietra calcarea biancastra e rossiccia. Fig. 117 Particolare della brecciola brunorosata porosa.
159
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
Tav. XIII Il prospetto Sud con i probabili reimpieghi di epoca romana del settore orientale e, forse, del primo tratto Ovest (scala 1:50) (da MALPIEDI 2004). Tav. XIV Sezione longitudinale del lato interno Sud con la collocazione della cripta (scala 1:50) (da MALPIEDI 2004).
160
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
direzione Nord-Sud, con lieve inclinazione verso Est e spessore compreso fra m 0,74 e m 0,82, interrompendosi alla distanza di m 2,15 dal terrazzamento di fondo. In questo punto, un crollo di pietre di medie dimensioni si sparpaglia sul terreno rendendo incerta la loro appartenenza alla nostra o ad altre strutture limitrofe. All’estremità Nord, è riconoscibile l’innesto ortogonale con un breve spezzone di muro traverso di m 1,52 x 0,37. L’altezza massima attuale, compresa fra m 0,92 e m 0,88 e misurabile per una estensione di circa m 3,20 soprattutto lungo la seconda metà del muro, non sembra corrispondere a quella, un po’ inferiore, illustrata dalla foto del secolo scorso(Fig. 126) e più o meno conservatasi nel segmento iniziale (m 0,43 ca.). Essa risulta, infatti, alterata da successivi accumuli di terra e pietrisco arbitrariamente sigillati, poi, sotto una sottile coltre di cemento, stesa inutilmente come rinforzo statico, che, a tratti, ancora oggi sopravvive conferendo alla struttura un profilo falso e deturpante. Per quanto concerne l’alzato,(Tav. XVII, prospetto muro 1, Fig. 129) mal risarcito nella parte centrale dove si è determinato uno spanciamento provocato dalla spinta del terreno in pendenza, esso si presenta costituito, generalmente, da pietre basse e allungate, unite a malta grezza, meglio conservate nei ricorsi inseriti nella metà di sinistra dove si registrano misure medie di m 0,504 x 0,14. Dal punto di vista petrografico, si tratta, in massima parte, di calcari micritici, ascrivibili alla già citata formazione appenninica della c.d. “Scaglia Rossa”, nelle due varianti a diverso contenuto di componenti allochimici e di ossidi ematitici, già in uso, come si è visto, nell’abside centrale della chiesa e nelle lastre di copertura della canaletta soggiacente all’absidiola Nord.(Figg. 120, 123) L’area orientale delimitata dal muro 1 si presenta, oggi, completamente vuota ma disseminata da ingenti quantitativi di frammenti fittili di diversa natura e da conci da costruzione di svariate dimensioni: segni inequivocabili di una frequentazione alla quale, come si è detto, è senz’altro riferibile il grosso muro evidenziato nel secolo scorso e oggi nuovamente sepolto sotto accumuli di materiale di riporto e di vegetazione spontanea. Il nucleo del complesso edilizio, attualmente ancora in buona parte visibile, è tutto concentrato, dunque, all’estremità Sud dove è situata l’emergenza architettonica
Fig. 118 La canaletta al di sotto del muro absidale Nord. Fig. 119 Canaletta: particolare delle lastre di copertura. Fig. 120 Dettaglio della pietra calcarea di una delle lastre. Fig. 121 Particolare del condotto in laterizio.
161
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
più significativa rappresentata dalla struttura cilindrica della cisterna/fonte: punto focale in funzione del quale si relaziona l’intero organismo.(Tavv. XV – XVI, sez. A-A′/B-B′; Tav. XVII, sez. D-D′, Figg. 127, 130-131)
Va precisato che l’edificio, nel momento in cui fu riportato completamente alla luce, si presentava mancante di quasi tutta la parte sommitale la quale è stata, successivamente, ricostruita attraverso l’aggiunta ex-novo di un terzo tamburo, più basso dei sottostanti, costituito da tre ricorsi lapidei conclusi da una copertura in coppi moderni. Tale integrazione, realizzata con l’uso di conci in brecciola calcarea color beige/giallognolo, ben riconoscibili da quelli più antichi, tagliati grossolanamente e cementati “alla buona” con abbondante malta grezza, si è basata su una presunta, ma probabile, elevazione su tre livelli concentrici digradanti verso l’alto. Anche la soluzione adottata per l’integrazione della copertura, nonostante l’assenza di tracce superstiti di riferimento, appare del tutto plausibile dovendosi adattare ad un corpo cilindrico per il quale è difficile immaginare soluzioni alternative. Un’ultima osservazione, infine, riguarda il settore di circonferenza rivolto verso Est, corrispondente al punto di erogazione dell’acqua: quasi tutta la sua metà superiore, per un’altezza di m 1,22 fino al piano d’imposta della copertura posticcia, risulta ampiamente modificato attraverso un netto taglio rettilineo molto irregolare, lungo circa m 1,40, che spezza, in questo punto, la continuità curvilinea del perimetro. Al centro è stata aperta una finestrella rettangolare, conclusa da un archetto asimmetrico e oggi chiusa da uno sportellino in ferro, la quale si affaccia internamente su una cisterna di raccolta dell’acqua sorgiva. Tale rimaneggiamento, in stridente contrasto con il contesto antico anche per la rudimentale tecnica cementizia che utilizza pietrame vario e scarti di mattoni assemblati in modo assai approssimativo, non è chiaro a quale epoca possa risalire; senz’altro anteriore alla metà del Novecento, dal momento che esso già compare nella più volte citata immagine relativa agli scavi svolti negli anni ’60 ed è da tempo presente nella memoria di qualche anziano del luogo. Entrando, ora, nel merito degli aspetti architettonici dell’edificio, tralasciando le alterazioni da esso subite in
Fig. 122 Particolare dello spiccato murario dell’abside centrale Est. Fig. 123 Dettaglio della pietra calcarea rossa utilizzata nel settore absidale.
162
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
anni più o meno recenti, si tratta di una tholos di m 2,83 di diametro e con un’altezza che interri, frane, riporti di materiali vari e crolli avvicendatisi nel tempo hanno in più punti notevolmente modificato. Si passa, infatti, da un massimo di m 2,21 rilevabile nel tratto più profondo a Nord-Est(Tav. XVI, sez. B-B′) dove la muratura scende fino a m 0,42 di distanza dal bacino di raccolta dell’acqua, a m 1,175 a Nord-Ovest, in corrispondenza del terrapieno parzialmente terrazzato dai muri 1 e 2,(Tav. XVI, sez. A-A′, Fig. 130) fino al settore Sud/Sud-Est dove l’altimetria variabile del p.d.c. fa registrare oscillazioni comprese fra m 0,95, quasi a ridosso del lungo muro di fondo, e m 1,33 nei pressi della tangenza del corpo cilindrico con il lato Ovest della piccola vasca adiacente.(Tavv. XV, XVII, sez. D-D′) L’alzato presenta diffuse e, in certi casi, profonde lacune, soprattutto lungo le fasce inferiori. Il più danneggiato risulta il primo tamburo di base, dove i vuoti si susseguono con frequenza, a tratti malamente rimpiazzati da maldestri rinzaffi cementizi, in special modo nel settore Sud. L’aggetto, rispetto al tamburo mediano, risulta stabilmente contenuto fra m 0,20 e m 0,22 lungo l’intera circonferenza, con pietre, in genere, piuttosto piatte e larghe in superficie e conci di maggior consistenza nel sottostante riempimento. Il secondo tamburo si conserva in condizioni un po’ più integre; mantiene una elevazione costante di m 0,44/0,45 e si conclude con un anello continuo, interrotto da una sola breve lacuna di m 0,42 a circa metà del perimetro Ovest, costituito da una regolare sequenza di grossi masselli lunghi, mediamente, m 0,26 e con uno spessore variabile da m 0,10 a m 0,13. Questi ultimi si distinguono nettamente dal restante materiale dell’edificio essendo tutti quanti realizzati nel tipico travertino poroso grigio scuro locale(Fig. 115) che abbiamo incontrato già nelle strutture dell’antico lato Nord della chiesa e, in parte, nei fianchi Est (abside) e Sud. Nell’alzato sottostante, invece, la pietra usata in prevalenza è la nota “Scaglia Rossa”(Fig. 123) tagliata in lastre e blocchi sovente di una certa stazza (lungh. da m 0,30 a m 0,48; spess. compresi fra m 0,06 e m 0,13) che hanno potuto garantire, nonostante i diffusi danni, la sostanziale tenuta dell’intera muratura. Come si è detto, il terzo e ultimo livello, interamente di restauro, è stato innalzato con l’uso di conci moderni i quali, in questo modo, garantiscono, per lo meno, la
Fig. 124 Il tratto terminale del muro Sud. Fig. 125 Il tratto terminale del muro Sud prima dei recenti interventi di restauro. Fig. 126 La cisterna e le strutture annesse durante gli scavi degli anni ’60 del secolo scorso.
163
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
MURO 1
CROLLO
680,77
2,15 m 681,10
CISTERNA / FONTE
A’
D
680,59
680,85
B MURO DI TERRAZZA MENTO
680,49 A
MURO 2
COPERTURA MODERNA A COPPI 681,84 681,30
679,95 681,31
680,86 679,18
CANNA DI EROGAZIONE
680,19
BACINO DI RACCOLTA ACQUA
C 679,825
678,925 MURO 5 SCALETTA MODERNA
679,98
679,51
MURO 4
679,45
VASCA SCALETTA MODERNA
679,55
679,70 B’
AREA DI CROLLO
679,69
MURO 3
679,96 D’
C’
164
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
riconoscibilità dell’intervento, ma con una elevazione immotivatamente ribassata (h. m 0,31/0,35) rispetto a quella precedente che conferma l’applicazione di procedure di integrazione strutturale piuttosto approssimative e arbitrarie.
N
680,87
Alla fonte/cisterna sono collegate altre strutture, tutte realizzate con tecnica a secco, le quali, tranne in un caso, sembra dovessero, in origine, svolgere una funzione di terrazzamento finalizzato ad ostacolare i fenomeni di smottamento, piuttosto frequenti in un terreno in pendenza e di natura argillosa. Quella meno significativa, per quanto riguarda, almeno, il suo attuale stato di conservazione, è rappresentata dal muro 2,(Tav. XVII, prospetto muro 2, Fig. 132) innestato nel fianco Nord del tamburo inferiore con una deviazione di 10,5° Ovest. La sua estensione risulta ridotta, oggi, a m 1,64 x 0,14 di largh max. e limitata ad un unico filare di pietre sconnesse e molto mal conservate, allineate a tratti irregolarmente. Lungo il suo breve tracciato, la struttura emerge dal p.d.c. di appena 8 cm fino al punto in cui un accentuato dislivello del terreno, che scende rapidamente verso il piccolo bacino di raccolta dell’acqua, determina un’impennata improvvisa dell’alzato. Qui, nel punto di tangenza con la tholos, esso infatti raggiunge un’altezza massima di m 0,68. Nell’insieme, la tecnica edilizia si rivela estremamente rudimentale basandosi su un accatastamento impreciso e, a volte, disordinato di blocchi e lastre, rozzamente tagliati nella nota qualità calcarea a “scaglia rosa-rossiccia” e destinati a creare una robusta cortina lapidea in grado di contenere le spinte del terreno. Sembra, dunque, in questo modo determinarsi un coordinamento con il retrostante muro 1 e, forse, con un terzo, collocato poco più a monte, del quale a mala pena si scorgono, oggi, alcune tracce al di sotto di rovi e cespugli, ma che si riesce a distinguere con maggior chiarezza nella più volte citata fotografia del sito risalente alla metà del secolo scorso. Tale funzione coincide con quella svolta anche da altri due muri (n. 3-4),(Tav. XV, Fig. 133) posti alla distanza di m 2,70 in direzione Sud-Est e isorientati rispetto ai precedenti. Entrambi, situati su due piani distinti e contigui, separati da un dislivello di m 0,25 all’estremità Nord e
165
Tav. XV Planimetria generale del complesso edilizio con la cisterna/fonte nell’area esterna a Sud-Est della chiesa (scala 1:20).
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
SEZIONE/SVILUPPO A-A’
Tav. XVI Complesso edilizio Sud-Est: sezioni A-A’/B-B’/C-C’ (scala 1:10).
0,50 A
1,00
1,50 2,00 2,13 A’
0,00 TAMBURO SUPERIORE 0,36
TAMBURO MEDIANO 0,80 TAMBURO INFERIORE P.d.C.
3,90
3,50
1,10 1,20
SEZIONE B-B’ (CON SVILUPPO DELLA CISTERNA)
3,00
2,50
1,50
2,00
P.d.C.
0,50
0,00 B
1,00
B’
-1,15 MURO 2
-1,70 MURO 3 P.d.C.
-1,90 MURO 4 GRADINO SCALETTA MODERNA
CANNA DI EROGAZIONE -2,47
-2,59 -2,69 PIANO BACINO DI RACCOLTA DELL’ACQUA
SEZIONE C-C’ 2,00
2,50 C’
0,24
MURO 3
P.d.C.
1,50
1,00
0,50
VASCA - PROSPETTO NORD
0,30 MURO 4 0,54
GRADINO SCALETTA MODERNA
166
INNESTO CON LA STRUTTURA DELLA CISTERNA
0,63
0,84 0,92
0,00 C
0,88
P.d.C.
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
Fig. 127 Il complesso idraulico terrazzato a Sud-Est della chiesa: inquadratura generale da Nord-Est.
di m 0,27 a quella opposta, fronteggiano l’area occupata dal bacino idrico rispetto al quale danno origine ad un circoscritto andamento terrazzato che ne delimita, verso Est, il piccolo invaso arginandone la depressione e riducendo, così, il rischio di interramento.(Tav. XVI, sez. B-B’) Anche in questo caso, sia il muro 3 (m 3,14 di lungh. x m 0,26 di largh. max.), sia il sottostante muto 4 (m 2,98 x 0,38 max.) risultano costruiti con un’unica fila di grosse pietre, prive di lavorazione, l’una diversa dall’altra e assemblate seguendo un approssimativo allineamento, le quali rivelano una procedura costruttiva basata sull’utilizzo di materiale raccolto qua e là sul terreno, senza alcun intervento rivolto a regolarizzare forme e dimensioni. Analogamente, gli alzati (muro 3: h. max. m 0,42; muro 4: h. max. m 0,52)(Tav. XVII, prospetti muri 3-4) confermano l’estrema eterogeneità dei pezzi utilizzati, a volte intercalati da lunghe tegole e mattoni infilati a chiusura dei frequenti vuoti determinati dalla casualità
delle sovrapposizioni. Ci troviamo, pertanto di fronte a strutture improvvisate, da considerarsi come tipico esempio di grossolana edilizia rurale. Più in basso, a circa metà del muro 4, si innesta infine, quasi ortogonalmente, un ultimo breve troncone (muro 5: m 1,62 x 0,28)(Tav. XV, Fig. 134) la cui tecnica costruttiva, del tutto analoga a quella dei due muretti posti più in alto, ne conferma l’appartenenza allo stesso intervento di sistemazione di quest’area. Posizionato proprio in coincidenza dello spiccato del muro 4,(Tav. XVII, prospetto muro 4) esso funge da contenimento del piccolo bacino idrico assieme ad un recente basso zoccolo cementizio sul quale poggia, per una lunghezza di m 1,20, il sovrastante sistema murario. Completa l’insieme delle strutture del settore in esame, una piccola vasca di m 1,40 x 1,16,(Tavv. XV, XVII, sez. D-D′, Fig. 135) collocata all’estremità meridionale ed inserita tra la tholos, con quota ad essa coincidente nel punto della curvatura
167
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
di quest’ultima verso Est, e la lunga cortina di terrazzamento Sud. La sua forma rettangolare, abbastanza ben conservata (ma ultimamente mal consolidata da disinvolte integrazioni cementizie), presenta un largo bordo di dimensioni irregolari, con spessore variabile da m 0,22 a 0,32 sui lati corti, e da m 0,28 a 0,36 su quelli lunghi: ciò comporta uno scentramento dell’invaso, profondo soltanto m 0,35 ed ampio m 0,82 x 0,50. Quest’ultimo è interamente foderato di laterizi costituiti da lunghi e stretti mattoni disposti attorno alle quattro pareti e da larghe lastre fittili sul fondo (dimensioni medie di m 0,31 x 0,15), dove, in corrispondenza del lato Nord prossimo all’angolo inferiore destro, troviamo cementata una piccola ciotola (Ø m 0,17) in ceramica invetriata.(Fig. 136) L’esemplare è contraddistinto da un orlo piatto, sbocconcellato e, qua e là, lacunoso, e da una vasca poco profonda con evidenti segni di tornitura. Il fondo è appena convesso, circoscritto da un anello risparmiato dall’invetriatura bruna che, in diversi punti, assume una colorazione più sbiadita e parzialmente devetrificata. Riguardo alla struttura esterna, considerando l’interramento fino al bordo vasca dei lati Sud e Ovest, sono visibili unicamente il lato lungo Nord(Tav. XVI, sez. C-C′, Fig. 137) e una minima parte di quello Est, realizzati, in questo caso, con l’impiego di malta terrosa. É qui dove l’alzato, che raggiunge un’altezza max. di m 0,65, conserva, nonostante lacune e dissesti strutturali, i segni evidenti del riuso di materiale edilizio più antico, in particolare nella sequenza di grosse pietre regolari che compongono i
Fig. 129 Muro 1: particolare dell’alzato. Fig. 128 Il muro 1 (da Nord).
168
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
0,50
0,00 D
1,00
1,50
2,00
2,50
3,00
3,50
4,00
4,50
4,77 D’
TAMBURO SUPERIORE
SEZIONE D-D’
TAMBURO MEDIANO
TAMBURO INFERIORE
0,95 1,01
1,35 1,35 MURO 3 1,63
VASCA GRADINO SCALETTA MODERNA
1,71 PROSPETTO MURO 1
1,79
1,95
AVANZI DI CONSOLIDAMENTO CEMENTIZIO MODERNO
MURO DI TERRAZZAMENTO
P.d.C.
MURO 4
0,00
9,60
PIETRAME DI CROLLO
0,43
11,75
0,48
0,92
0,88
0,43
INNESTO MURO TRAVERSO
0,20
PROSPETTO MURO 3
PROSPETTO MURO 2 1,72 P.d.C.
3,14
MURATURA FONTE P.d.C. 0,68
0,28
PROSPETTO MURO 4 2,98 0,00
0,43
1° MASSO DI CROLLO
P.d.C. 0,52 SCALETTA MODERNA IN CEMENTO
BACINO DI RACCOLTA DELL’ACQUA
primi due ricorsi superiori includenti il bordo e l’angolo con il lato orientale. Si tratta di grossi conci, più lunghi e piatti quelli del primo filare (m 0,52/0,50/0,40 x 0,12, largh. m 0,17), di maggior spessore quelli inferiori (m 0,20/0,24 x 0,15/0,16), tutti nel noto travertino poroso locale, in questo caso di una colorazione più chiara tendente al bianco sporco, nettamente distinguibile dalla predominante scaglia calcarea, tagliata abitualmente in forme di modulo minore, in uso nella maggioranza delle murature del complesso edilizio Sud-orientale.
SCALETTA MODERNA
INNESTO MURO 5
In conclusione, dall’analisi fin qui svolta è possibile ricavare alcune considerazioni di carattere generale relative alla funzione, e forse all’orizzonte cronologico, almeno di una parte delle strutture esaminate, rinviando al capitolo successivo uno studio più circostanziato ed approfondito di quella che, fra tutte, caratterizza l’intero impianto di questo settore dell’insediamento: la cisterna per la conservazione e l’erogazione dell’acqua. Innanzi tutto, sembrano abbastanza certe, come si è già accennato in precedenza, le ragioni che sono state all’origine dell’edificazione dei muri 1-5, tutti, tranne
169
Tav. XVII Complesso edilizio Sud-Est: sezione D-D’ (scala 1:10) e prospetti muri 1-4 (scala 1:20).
P.d.C.
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
l’ultimo, finalizzati a regolarizzare le variazioni altimetriche del terreno attraverso la creazione di un opportuno sistema di terrazzamenti attorno al nucleo del piccolo collettore idrico.(Figg. 131, 133) Il muro 5, invece, disponendosi a lato di quest’ultimo nel punto di maggior dislivello, ne delimitava l’invaso fungendo da barriera di contenimento. Considerando, dunque, l’obiettivo generale dell’intervento, si giustifica la limitatezza delle murature, sia in estensione che in alzato entrambi commisurati alla specifica conformazione del suolo. Fa eccezione il muro 1 la cui lunghezza conservata di m 9,60, per uno spessore medio di circa m 0,80, sono motivati dal consistente terrapieno sviluppato alle sue spalle per arginare il quale occorreva una cortina proporzionalmente adeguata. Si tratta, in ogni caso, di strutture anonime, tutte eseguite con una tecnica a secco molto rudimentale basata, il più delle volte, sull’uso di pietre eterogenee per forma e dimensioni, raramente sagomate con interventi a scalpello, se non, in parte, in alcuni ricorsi del muro 1. É la medesima fisionomia che riscontriamo nel lungo muro di terrazzamento il quale conclude a Sud l’intero spazio insediativo e che, forse, formava un unico sistema di recinzione areale assieme al troncone, oggi appena visibile, sviluppato ad Ovest nel quale andava ad innestarsi ortogonalmente. Ciò induce a ritenerle, nel loro insieme, opere recenti, difficili da collocare cronologicamente ma senz’altro realizzate da una manovalanza locale, forse all’epoca della trasformazione del complesso abbaziale in casa colonica, fra XIX e XX sec., allorché chi subentrò ritenne probabilmente utile operare una sistemazione, per quanto rudimentale, dell’area esterna alla ex chiesa per poter sfruttare al meglio la preziosa risorsa idrica, oltre che a fini abitativi, anche per le attività agricole e come abbeveratoio per le greggi. Fu proprio la natura utilitaristica dell’intervento a determinare il reperimento occasionale del materiale da costruzione raccolto sul posto, mescolando pietre qualsiasi a conci antichi sagomati e regolari, abbondanti in tutta l’area ed appartenenti alle rovine medievali e all’agglomerato tardo-romano. Passando, invece, ora al nucleo principale adibito alla fornitura dell’acqua, occorre soffermarsi sia sulla sua dislocazione, sia sulla particolare tipologia edilizia che
Fig. 130 La cisterna/fonte (da Ovest). Fig. 131 L’edificio con le strutture annesse (da Nord-Est).
170
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
Fig. 132 Prospetto del muro 2: a sx. il suo innesto nella struttura cilindrica della cisterna/fonte; in secondo piano il tratto terminale del muro 1.
lo caratterizza. Esso occupa, infatti, una posizione molto periferica rispetto alla zona aperta che si estende a Sud-Est della chiesa, addirittura a ridosso di un terrapieno terrazzato, il che sembra escludere la sua appartenenza all’ipotetico chiostro (da alcuni immaginato proprio in questo settore esterno del complesso monastico)363 il quale difficilmente avrebbe potuto includere una struttura di questa mole e lontana all’interno del proprio perimetro. Il decentramento così accentuato del pozzo è fatto del tutto eccezionale nell’edilizia monastica e avviene, di regola, a fronte di precise esigenze di organizzazione planimetrica o di praticità in rapporto allo svolgimento di determinate pratiche liturgiche. Inoltre, sarebbe decisamente insolita la presenza di una costruzione di una simile monumentalità all’interno di uno spazio claustrale dove, quando esiste, la cisterna è sempre ipogea e ad emergere , se mai, è soltanto il puteal (il parapetto con la vera). Ciò non esclude, naturalmente, che l’edificio, nonostante la sua apparente estraneità a quelli che furono i corpi di fabbrica medievali, possa essere stato sfruttato come serbatoio da parte della comunità di religiosi qui installatasi; ma sembra assai più probabile che esso già esistesse in questo luogo come parte di un sistema di approvvigionamento idrico pertinente ad un più antico stanziamento di epoca tardo-antica. In un secondo momento, poi, esso venne inglobato nell’ambito delle successive infrastrutture conventuali, soprattutto, forse, quelle destinate alla vita comunitaria e alle funzioni ospitalizie. A confermarne l’anteriorità cronologica concorrono anche le peculiarità dei suoi aspetti planimetrico-tipologici: innanzi tutto la particolare concezione a tholos caratterizzata, come si è detto, da dimensioni ragguardevoli considerando il diametro massimo conservatosi di quasi 3 m e un’altezza che è facile ricostruire, in origine, di poco inferiore. Secondariamente la struttura a tamburi sovrapposti, con aggetto digradante verso l’alto, contenenti il bacino di decantazione e il condotto di fuoriuscita dell’acqua, che ricalca modelli ben noti già nel corso dell’età ellenistica e diffusi nel mondo romano a partire dal I sec. d.C., anche in ambito provinciale. Infine, come si è visto in dettaglio, il tipo di materiale utilizzato, soprattutto lungo l’anello superiore del
Fig. 133 I muri 3-4-5. Fig. 134 Particolare del muro 5.
171
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
tamburo mediano dove prevalgono conci in travertino, ben squadrati e sovrapposti a lastre sovente di sagoma regolare in “scaglia calcarea rossa” di origine appenninica. In entrambi i casi, si tratta di litotipologie caratteristiche di un’edilizia senz’altro estranea alla tradizione medievale della zona. Ciò che vediamo oggi, dunque, è quasi certamente il risultato di modifiche, rifacimenti e integrazioni succedutisi nel corso del tempo, dai secoli della primitiva fondazione cenobitica fino ad anni recenti, e volti a mantenere efficiente un’opera di vitale importanza per chi ha popolato, in varie forme, questo luogo. Certo è, comunque, che la sua origine è da ricercarsi nell’ambito di quella organizzazione infrastrutturale del territorio che in età tardo-antica, come verrà approfondito nel prossimo capitolo, ha interessato un’area pedemontana di importanza strategica dal punto di vista sia topografico, sia dello sviluppo di un redditizio modello economico di tipo agro-pastorale. Più problematica, invece, si presenta l’analisi dell’ultima struttura appartenente al complesso edilizio in questione: la vaschetta; non tanto per ciò che concerne una possibile proposta di datazione, quanto dal punto di vista della sua destinazione d’uso nel contesto delle contigue strutture. Che si tratti di una realizzazione risalente all’epoca medievale, presumibilmente intorno all’XI-XII sec., sembra accertato da due distinti ordini di fattori. Per primo dalla tecnica edilizia, che si avvale di grossi conci antichi in travertino poroso reimpiegati assieme a pietrame vario e a frequenti inserti laterizi mal cementati con malta terrosa.(Fig. 137) In secondo luogo dalla presenza, al suo interno, di una ciotola in ceramica invetriata, inserita fra le lastre fittili che rivestono il piano di fondo,(Fig. 136) la quale costituisce, in questo caso, una vera e propria associazione. Ciò che desta interesse, invece, sono la sua scarsa profondità, di appena 35 cm; l’assoluta mancanza tanto di condotti di alimentazione, quanto di fori destinati all’evacuazione dell’eccedenza d’acqua; e infine l’assenza di tubature che la colleghino, come ci si aspetterebbe, alla adiacente cisterna/fonte dalla quale l’erogazione avviene attraverso un sistema autonomo, entro un bacino di raccolta spostato di circa m 1,20 verso Nord.
Fig. 135 La vaschetta (da Est).
172
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
Fig. 136 Particolare della ciotola in ceramica invetriata.
L’insieme dei dati, quindi, pare escludere una sua destinazione primaria alla raccolta dell’acqua. Considerando l’intervento di impermeabilizzazione delle quattro pareti e del fondo attraverso una accurata foderatura in laterizi, sembra, piuttosto, suggerire una funzione di vasca di decantazione. Al suo interno, la ciotola cementata potrebbe, così, essere servita come recipiente entro il quale convogliare i resti della lavorazione, anche se le sue ridotte dimensioni rendono l’ipotesi piuttosto incerta. Di quali procedimenti si trattasse, e in relazione a quali tipi di materia prima non è possibile, al momento, determinarlo, mancando dati certi di natura archeologica e inerenti l’organizzazione economico-produttiva della comunità residente. Il problema rimane, dunque, per ora aperto, ma si è voluto, comunque, porlo all’attenzione pur non costituendo materia propria al genere di ricerca svolta in questa sede. Resta, ad ogni modo, interessante l’esistenza di una struttura che potrebbe testimoniarci lo svolgimento, da parte dei membri del cenobio romualdino, di attività artigianali legate ad una microeconomia locale autosufficiente e in grado di dotarsi delle installazioni necessarie e commisurate ai bisogni.
Fig. 137 La vaschetta: fianco esterno Nord.
173
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
D . Analisi minero-petrografiche di laboratorio sugli antichi materiali lapidei sporadici e di reimpiego. L.A.M.A. Scheda di analisi rocce Oggetto
Concio da costruzione
Ubicazione
Navata Nord, muro esterno
Provenienza
Complesso di S. Maria in Insula (Monastero di Cessapalombo – MC)
Campione
SMI 1
Prelevato da
I. Rainini
Fig. 138 Micrografia campione SMI 1.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Si tratta di una roccia carbonatica concrezionale e vacuolare classificabile come travertino. Presenta struttura isotropa e tessitura cristallina contraddistinta da un supporto prevalentemente granulare, ma, a tratti, con micrite intergranulare. Essa è caratterizzata da abbondante (macro)porosità e da accrescimenti di cristalli di calcite scalenoedrici (da pseudosparitici a macrosparitici) che contornano la maggior parte dei vacuoli con la tipica disposizione raggiata “a denti di cane” (vedi figura). Le caratteristiche petrografiche osservate nel campione, abbastanza comuni a molte formazioni, non consentono una chiara attribuzione di provenienza geologico-geografica che potrebbe essere sia umbra che marchigiana. Tuttavia esse non sono dissimili da quelle note per la cosiddetta facies “spugnosa” del travertino estratto nella provincia di Ascoli Piceno, in particolare nell’area di Colle San Marco. Bibliografia
N.CIPRIANI-P.MALESANI-S.VANNUCCI, I travertini dell’Italia centrale, in “BSGI” 98, 1977, pp. 85-115; B.D’ARGENIO, I travertini di Pontecagnano (Campania. Geomorfologia, sedimentologia, geochimica), in “BSGI” 102, 1983, pp. 123-136; E.FLÜGEL, Microfacies of Carbonate Rocks. Aalysis, Interpretation and Application, Berlin-Heidelberg-New York 2004.
Note
Nella micrografia della sezione sottile del campione, in evidenza un poro contornato da cristalli di calcite scalenoedrici.
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino Marchigiano
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
22/07/2013
174
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
L.A.M.A. Scheda di analisi rocce Oggetto
Concio da costruzione
Ubicazione
Fonte, lato Ovest
Provenienza
Complesso di S. Maria in Insula (Monastero di Cessapalombo – MC)
Campione
SMI 2
Prelevato da
I. Rainini Fig. 139 Micrografia campione SMI 2.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Si tratta di un calcare micritico con abbondante componente bioclastica (± 40% in volume) costituita essenzialmente da foraminiferi planctonici muricati ai quali si accompagnano più rari bivalvi e modelli calcitici di radiolari. I micro foraminiferi osservati sono principalmente riferibili ai generi Moezovella e Acarinina che datano la roccia al Paleocene superiore - Eocene inferiore. Ossidi di ferro di tipo ematitico diffusi nella massa carbonatica o talora concentrati in piccole masserelle arrotondate conferiscono a questa una tipica colorazione rossiccia. La roccia si classifica come biomicrite (passante a biomicrite addensata) secondo lo schema proposto da Folk (1952, 1962) o come Wackstone secondo quello avanzato da Dunham (1962). Essa è ascrivibile alla formazione appenninica della “Scaglia Rossa” (Cretacico superiore – Eocene inferiore), in antico largamente sfruttata in tutta la regione umbromarchigiana. Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121.
Note
La micrografia della sezione sottile del campione mostra l’addensamento di foraminiferi planctonici nella massa micritica.
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino Marchigiano
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
22/07/2013
175
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
L.A.M.A. Scheda di analisi rocce Oggetto
Lastre di copertura
Ubicazione
Chiesa, abside Nord, lastre di copertura della canaletta sottostante il prospetto Ovest della muratura esterna
Provenienza
Complesso di S. Maria in Insula (Monastero di Cessapalombo – MC)
Campione
SMI 3
Prelevato da
I. Rainini
Fig. 140 Micrografia campione SMI 3.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche La roccia presenta caratterisitiche simili a quelle descritte per il campione precedente dal quale si differenzia solo per la presenza di una larga vena di calcite spatica e altre più sottili che attraversano la massa micritica e per il minore contenuto di componenti allocchimici (< 10% in volume) rappresentati essenzialmente da bioclasti (foraminiferi planctonici e modelli calcitici di radiolari) e cristalli minuti di ossidi di ferro. La roccia può essere classificata come micrite fossilifera (Folk, 1959, 1962) o Mudstone (Dunham, 1962) ed è anch’ essa ascrivibile alla formazione Appenninica della “Scaglia Rossa”. Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121.
Note
La micrografia della sezione sottile del campione mostra le sottili vene di calcite spatica che attraversano la massa micritica e bioclasti di foraminiferi.
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino Marchigiano
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
22/07/2013
176
Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico
L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Frammento di lastra
Ubicazione
Sporadico; dall’area esterna a Sud della chiesa, presso il muro 1
Provenienza
Complesso di S. Maria in Insula (Monastero di Cessapalombo – MC)
Campione
SMI 4
Prelevato da
I. Rainini
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Struttura
eteroblastica a mosaico con plaghe a grana fine
Cristalli di calcite, contorni
suturati
M.G.S.
1,40 mm
Minerali Accessori
grafite +++; muscovite +; quarzo ±; apatite ±; minerali opachi (pirite)+
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Rapporti isotopici
δ 18O (PDB) = -2,12
δ 13C (PDB) = 2,65 Fig. 141 Micrografia campione SMI 4.
Legenda
Cap de Garde Hasançavuslar
Provenienza probabile
Greco Scritto da Hasançavuslar (Turchia)
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
30/10/2013
177
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Frammento di lastra modanata
Ubicazione
Sporadico; dall’area esterna a Sud della chiesa, presso il muro 1
Provenienza
Complesso di S. Maria in Insula (Monastero di Cessapalombo – MC)
Campione
SMI 5
Prelevato da
I. Rainini
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Struttura
eteroblastica decussata, a cristalli concatenati, talora con plaghe a grana fine
Cristalli di calcite, contorni
suturati, ± a golfi
M.G.S.
3,75 mm
Minerali Accessori
Grafite +++
Micrografia
Nicols incrociati; 33 X
Rapporti isotopici
δ 18O (PDB) = -1,93
Legenda
Pe-1/2 = Pentelico Pa-1= Pario (Stephani) C = Lunense D = Docimio L = Lesbio (Moria)
Provenienza probabile
Moria (Isola di Lesbos, Grecia)
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
30/10/2013
δ 13C (PDB) = 2,21
Fig. 142 Micrografia campione SMI 5.
178
Note
353 Cfr. infra, Sez. III, Cap. X C. 2. 354 ADAM 2006, p. 231, Fig. 499. 355 ORLANDOS 1966, p. 82, n. 4 ; GINOUVÉS 1992, p. 187 (“tuiles a rebords latéraux”). 356 ADAM 2006, p. 229. 357 P.PENSABENE, Sull’impiego del marmo di Cap de Garde. Condizioni giuridiche e significato economico delle cave in età imperiale, in AA.VV., In memoria di Giovanni Becatti, (StMisc 22), Roma 1976, pp. 177-190; GNOLI 1988, p. 261, nota 1; F.BRAEMER, Répertoire des gisements des pierres ayant exporté leur production à l’époque romaine, in Colloque international sur les ressources minérale et l’histoire de leur exploitation, (Colloques du “CTHS” 3), Paris 1986, pp. 287-328, in particolare p. 297; P.PENSABENE, Riflessi sull’architettura dei cambiamenti socio-economici del tardo II e III secolo in Tripolitania e nella Proconsolare, in A.MASTINO (a cura di), L’Africa Romana (Atti dell’VIII Convegno di Studio, Cagliari 14-16 dicembre 1990), Sassari 1991, pp. 447-477; F.ANTONELLI-L.LAZZARINI-S.CANCELLIERE-D.DESSANDIER, Minero-petrographic and geochemical characterisation of “greco scritto” marble from Cap de Garde near Hippo Regius (Annaba, Algeria), in “Archaeometry” 51, 3, 2009, pp. 351-365; LAZZARINI 2010, p. 488, Fig. 2. 358 D.ATTANASIO-A.B.YAVUZ-J.Y.HERMANN Jr.-R.H.TYKOTA.van den HOCK, On the Ephesian Origin of Greco Scritto Marble, in A.GUTIERRÉZ GARCIA-M.P.LAPUENTE-I.RODÁ (a cura di), “ASMOSIA IX” (2009), Tarragona 2012, pp. 245-254. 359 P.PENSABENE, Contributo allo studio delle cave di Lesbo, in PENSABENE 1998, pp. 175-206; L.LAZZARINI-P.PENSABENE-B.TURI, Isotopic and petrographic characterization of Marmor Lesbium, island of Lesbos, Greece, in SCHVOERER 1999, pp. 125129; ANTONELLI-LAZZARINI 2002, p. 23; LAZZARINI 2007, p. 97 ss. e, in particolare, pp. 103-105. 360 LAZZARINI 2004, p. 114, Fig. 20. 361 GIACCHERO 1974, ll. 5-14; GNOLI 1988, pp. 179-180; LAZZARINI 2010, p. 487, Fig. 1. 362 MALPIEDI 2004, p. 171 e nota 2. 363 MALPIEDI 2004, pp. 87-88.
179
Capitolo 7 Ipotesi sulla tipologia insediativa di epoca tardo-romana
Ipotesi sulla tipologia insediativa di epoca tardo-romana
Malgrado il costante ricorrere, nelle memorie delle fondazioni monastiche, del topos che associa l’insorgere dell’insediamento religioso ad un’area abbandonata e/o deserta, quest’ultimo, in realtà, risulta il più delle volte coincidente con luoghi già in precedenza occupati sotto svariate forme di frequentazione legate o alla sfera del sacro, o a stanziamenti più o meno stabili di tipo residenziale/ produttivo, o a veri e propri organismi abitativi strutturati su un modello paganico-vicano.364 A tale proposito, il caso di Santa Maria in Insula appare emblematico. Lo dimostra, tra l’altro, la significativa convergenza di opinioni delle limitate fonti scritte fino ad ora edite365 le quali concordano nel riconoscere come altamente probabile, per non dire “scontata”, l’ipotesi di una preesistente realtà demica di epoca romana sorta in corrispondenza del sito che, presumibilmente fra IX e X sec., avrebbe ospitato un primitivo cenobio benedettino. Sulle sue strutture, più tardi, tra il 1009 e il 1010, San Romualdo, prima della sua partenza per l’Ungheria, avrebbe, quindi, eretto (o forse solamente riformato) il monastero di cui la chiesa, profondamente alterata nel corso dei secoli nei suoi primitivi aspetti icnografico-monumentali, sopravvive oggi come unica testimonianza architettonica. Non è questa la sede per entrare nel merito della dibattuta ermeneutica rivolta al noto passo di San Pier Damiani,366 il quale sostiene che il santo ravennate “brevi tempore tria constituit monasteria: unum videlicet in Valle de Castro (…), aliud prope Isinum fluvium, tertium iuxta oppidum condidit Esculanum”, quest’ultimo per lo più identificato con San Ginesio il cui colle, un tempo, si chiamava, in effetti, “Esculano”. E nemmeno per affrontare, conseguentemente, il problema della effettiva paternità romualdina del complesso conventuale sorto in località Monastero. Risulta per noi di primario interesse individuare, invece, quale tipologia abitativa, di orizzonte presumibilmente tardo-antico, possa essere stata all’origine dei successivi impianti edilizi medievali. A tale scopo, sarebbero senza dubbio di fondamentale importanza i dati raccolti durante lo scavo archeologico svolto nel 2011 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche, in collaborazione con il Dpt. di Beni Culturali dell’Università di Macerata.367 Purtroppo, però, come si è detto, i risultati delle indagini, al momento in fase di studio, sono ancora inediti e nessuna notizia, di
fatto, è stata comunicata, se non in termini molto generici e sotto forma di informative preliminari, circa la natura delle strutture portate in luce in corrispondenza della cripta.(Fig. 143) Altrettanto privo di documentazione risulta, per ora, anche quanto è emerso all’esterno dell’edificio, lungo i perimetrali Est, Sud e Nord parzialmente investigati, e neppure in merito alle rispettive associazioni, lasciando, quindi, ancora indefiniti gli orizzonti cronologici di riferimento relativi alla fase di frequentazione più antica del sito.368 Allo stato attuale, poco al di sotto della moderna pavimentazione del vano ipogeo, sono soltanto limitatamente visibili le assise di fondazione di tre spezzoni murari. I primi due,(Fig. 144) situati presso l’ingresso aperto nel fianco meridionale, si innestano ortogonalmente fra loro, approssimativamente lungo i due assi Nord/Sud – Est/Ovest definendo, sembrerebbe, uno spazio confinato; il terzo si colloca, invece, ancora con orientamento Est-Ovest, più o meno al centro dell’ambiente, senza apparenti connessioni con i due precedenti. In corrispondenza della penultima campata Nord-Est, inoltre, è stata rinvenuta una tomba entro cassa in muratura,(Fig. 145) quasi addossata alla parete settentrionale, la quale interseca, a sua volta, un più antico setto murario di cui si scorge un breve tratto, leggermente disassato, al di sotto del letto di deposizione. Questo è tutto ciò che, al momento, è stato lasciato in vi-
181
Fig. 143 La cripta ad oratorio dopo i recenti interventi di restauro.
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
Fig. 144 Cripta: resti dell’assise di fondazione dei muri antichi individuati nei pressi dell’ingresso laterale.
sta senza che sia possibile, naturalmente, comprenderne la funzione, l’epoca di appartenenza (se non ad una generica fase premedievale) e l’eventuale relazione con l’impianto strutturale e planimetrico complessivo della cripta. In mancanza, quindi, del sostanziale apporto dei dati scientifici restituiti da tali interventi esplorativi, si rende indispensabile, in questa sede, analizzare con minuziosa attenzione e completezza documentaria per lo meno tutto quello che sono in grado di dirci gli antichi materiali di reimpiego individuabili nelle strutture del complesso edilizio e le poche sopravvivenze, in situ o erratiche, ancora esistenti. Come si è visto nel precedente capitolo, l’emergenza monumentale più significativa di cui oggi disponiamo è senza dubbio costituita dalla cisterna/fonte posta all’estremità dell’area Sud-orientale esterna alla chiesa. Tipologia planimetrico-costruttiva, caratteristiche funzionali e la collocazione ad una quota più elevata, onde favorire il deflusso dell’acqua, rispetto al livello corrispondente all’originario edificio tardo-antico, occupato poi dalla chiesa, ne denunciano l’appartenenza, pressoché certa, ad un impianto idraulico di epoca romana destinato all’approvvigionamento idrico a favore di una piccola comunità gravitante nell’area insediativa dell’Insula e nelle sue adiacenze. Malgrado i numerosi ed evidenti rimaneggiamenti di età medievale, e successivi, appare del tutto plausibile riconoscervi un Castellum Aquae alimentato grazie ad un sistema di cuniculi drenanti collegati alla sorgente
182
situata sulla risalita in direzione del “Monte dei Cancelli”. La pianta centralizzata, contenente il bacino di decantazione, ricalca l’originario schema della tholos monoptera di tradizione ellenistica il cui prototipo più noto è costituito dal Ninfeo a padiglione circolare su podio, di ordine corinzio, dell’Agorà di Argos risalente, nel suo rifacimento, alla fine del I sec. d.C.369 I modelli di matrice greca vengono sperimentati anche nel mondo romano mantenendo, in un primo tempo, invariata la peristasi colonnata, come nella fontana di Numerius Trebius del Foro Triangolare di Pompei370 caratterizzata da otto colonne doriche distribuite attorno al puteal centrale. Successivamente, soprattutto a partire dall’età augustea, si assiste ad un processo di monumentalizzazione dei Castella Divisoria. Essi, pur mantenendo spesso l’impianto circolare, almeno nello specus di raccolta dell’acqua, si evolvono in edifici imponenti, a volte anche con pianta trapezoidale, e dotati di complessi apparati idraulici. Ne sono testimoni, sempre a Pompei, la grande cisterna presso Porta Vesuvio371 e, in ambito provinciale, il Castellum di Nîmes.372 Il fenomeno assume, comunque, una dimensione di maggior rilevanza architettonico-urbanistica in epoca più tarda, specialmente nel corso del II-III sec. d.C., allorché si afferma una più spiccata tendenza all’enfatizzazione dei componenti accessori e infrastrutturali della città e del suo territorio. Ciò è verificabile, soprattutto, in Asia Minore e nell’Africa Proconsolare, “terre di elezione” dei monumenti dell’acqua in età imperiale. La varietà delle formule è ben esemplificata negli edifici di forma conica e cilindrica, distribuiti principalmente lungo la fascia mediterranea algerino-tunisina, fra i quali è opportuno ricordare, almeno, i casi delle località di Cuicul (Gemila, Algeria), Thamugadi (Timgad, Algeria) e Thugga (Dugga, Tunisia).373 L’evoluzione tipologica qui delineata, che accompagna il diffondersi di questa particolare categoria di edifici fino all’epoca tardo-antica, fornisce prove abbastanza certe sull’origine romana del Castellum sorto all’Insula di Monastero. Le sue peculiarità strutturali, mantenutesi inalterate nel tempo malgrado gli adattamenti subiti, e la dislocazione indipendente rispetto ai contesti edilizi successivi, ne certificano l’appartenenza ad un sistema insediativo impiantatosi sul pianoro durante i secoli finali dell’Im-
Ipotesi sulla tipologia insediativa di epoca tardo-romana
pero, ed una precisa funzione legata alle esigenze abitativo-produttive della comunità ivi stanziata. Un concreto e decisivo contributo alla definizione del tipo di organismo edilizio sorto in antico nel settore centrale di quest’area, ci viene insolitamente offerto da una testimonianza archeologica in genere assai poco significativa dal punto di vista documentario. Si tratta, infatti, di alcuni frammenti fuori contesto, recuperati casualmente in un circoscritto spazio contermine al corpo absidale dell’edificio sacro.374 I suoi resti, parzialmente inglobati nelle strutture della cripta, appartengono verosimilmente, come si vedrà più avanti, all’ala residenziale, o di rappresentanza, di una ricca Villa tardo-romana. Fra i manufatti venuti alla luce, quelli che rivestono maggior interesse sono costituiti dai residui di alcune lastre marmoree. I frammenti appartenevano, in origine, alla pavimentazione di uno o più ambienti destinati a conferire al settore nobile della dimora un tocco raffinato ed esclusivo, in grado di sottolineare la rilevanza sociale ed economica del proprietario, probabilmente assurto ai livelli più alti dell’apparato politico-amministrativo locale. Lo dimostra la pregiata qualità dei marmi, del tutto inaspettata in un contesto territorialmente così periferico e di marcata impronta rurale, quale si configura l’ampia fascia pedemontana settentrionale dei Sibillini al cui interno, malgrado tutto, riescono ugualmente a confluire prestigiosi e rari materiali di importazione dai mercati egei e microasiatici. Per prima, merita attenzione una porzione di soglia modanata in marmo Lesbio (analisi archeometrica su campione SMI 5375),(Figg. 105, 142) proveniente dalle cave di Moria, presso Mitilene, isola di Lesbos (arcipelago delle Sporadi settentrionali). Esso costituisce indubbiamente una importante presenza di un litotipo greco-insulare il quale, pur non mancando di significative attestazioni anche altrove in ambiente piceno, è documentato, però, soprattutto attraverso reimpieghi di imponenti colonne provenienti da autorevoli monumenti pubblici di importanti realtà urbane, coloniali e municipali: Badia di Fiastra: portale della chiesa e Refettorio dei Conversi (da Urbs Salvia);376 cripta della chiesa di Santa Maria di Rambona, Pollenza (da Trea).377 Nel nostro caso, invece, ci muoviamo in una dimensione molto diversa dove fattori del tutto inusuali sono, tanto il contesto edilizio primario (Villa
rustica privata), quanto la marginalità della dislocazione topografica. Ancor più inaspettati sono, poi, alcuni pezzi di lastre pavimentali in marmo “Greco Scritto Efesino” (analisi archeometrica su campione SMI 4378),(Figg. 104, 141) estratto dalle cave di Hasançavuslar, presso Efeso (Turchia costiera occidentale): una qualità ignota, fino a questo momento, sia in territorio maceratese, sia nei principali contesti archeologici della regione marchigiana.379 Si tratta di una pietra piuttosto rara, fra quelle importate dai giacimenti estrattivi delle regioni costiere microasiatiche, finora non molto studiata e riguardo alla quale mancano ancora “data base” aggiornati e completi.380 Non sempre facilmente distinguibile dal “Proconnesio”, con il quale condivide tanto la struttura a cristalli medio-grandi, quanto l’odore fetido emesso al momento della frattura,381 è un marmo in uso per tutta l’età imperiale, con ampia diffusione soprattutto nei centri di Efeso, Pergamo, nella Panfilia e, in parte, anche a Roma. La sua presenza come rivestimento pavimentale, presumibilmente di un’aula di rappresentanza all’interno del complesso residenziale sviluppatosi all’Insula di Monastero, insieme a inserti in marmo Lesbio e Lunense,(Fig. 106) ci fornisce la prova inoppugnabile dell’esistenza sul posto di una dimora lussuosa e ben organizzata. Oltre, infatti, ad essere dotata di efficienti infrastrutture, delle quali il Castellum Aquae costituiva, come tra breve si vedrà, solo una delle dotazioni, essa poteva vantare anche una pars
183
Fig. 145 Cripta: la tomba rinvenuta presso la parete Nord.
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
urbana impreziosita da un raffinato arredo domestico. Lo testimonia la messa in opera di lastricati marmorei giocati, a quanto sembra, sull’accostamento fra la delicata trasparenza di una qualità di marmo Lesbio appena venato, usato nelle soglie d’ingresso, e il biancore attraversato da screziature grigio-bluastre del pavimento in “Greco Scritto” microasiatico, incluse, probabilmente, crustae in candido Lunense.382 Tutto ciò parla un linguaggio decisamente colto e ricercato, in aperto contrasto con i pochi lacerti murari antichi in travertino locale poroso riferibili, molto probabilmente, alle originarie strutture abitative esterne. Poste in luce, dunque, queste prime significative risultanze di natura prevalentemente archeologica, si rende, ora, opportuno sospendere momentaneamente l’analisi integrale e organica delle restanti tracce che l’insediamento ancora conserva. Questo, allo scopo di ampliare il discorso cercando di coniugare i dati iniziali finora raccolti con quanto ha dimostrato la situazione topografico-viabilistica del nostro territorio presa precedentemente in considerazione. Comincia, infatti, a delinerasi un panorama che aiuta a comprendere le ragioni della nascita, in un habitat così particolare, di una realtà produttivo-abitativa stabile e sufficientemente strutturata, quasi sicuramente di pertinenza aristocratica. Quest’ultima va inserita nel quadro complessivo di un fenomeno di ampia diffusione e da tempo in atto in gran parte delle provincie dell’Impero, le cui cause fondamentali vanno ricercate a livello di macroeconomia e di scelte politiche da parte del potere centrale.383 La conferma ci giunge dal proliferare di un gran numero di stanziamenti rustici, sotto forma di Villae, dall’Italia, nella sua intera estensione continentale e insulare, all’Istria (Meleda), alle Gallie (Montmaurin, Valentine), alla Britannia (Woodchester, Lullingstone), al Norico (Löffelbach), alla Mesia (Gamzigrad) e Pannonia (Fenékpuszta, Nemesvàmos-Balacàpuszta), fino all’Africa Proconsolare (Tabarka, Oudna, Cartagine ecc.) e alla Penisola Iberica (Dehesa della Cocosa, Rioseca de Soria, Sàdaba, Centcelles), citando, naturalmente, solo gli esempi più noti. Entro questo scenario, in cui assistiamo all’affermarsi di una crescente concentrazione agraria e ad una conseguente evoluzione delle forme di sfruttamento delle risorse agricole verso un modello latifondistico che va rapida-
184
mente estendendosi in età tardo-antica, non poteva non essere pienamente coinvolta, nel suo insieme, l’intera regione picena. Anche qui, a partire dalla prima e media età imperiale, ha inizio lo sviluppo di numerose Villae, assai spesso aggregate a microinsediamenti paganico-vicani di carattere rurale. Esse tendono, generalmente, a dislocarsi in posizioni appartate, ma non lontane dai bacini fluviali e dai reticoli di una viabilità minore, pedecollinare e pedemontana, che collegava, in senso trasversale rispetto alle percorrenze primarie, i diversi poli abitativi interni.384 La tendenza, diffusa in un considerevole numero di simili forme di stanziamento distribuite fra Esino e Tronto, per lo più solo individuate e molto raramente indagate a fondo,385 è altresì quella di occupare le sommità o i pendii di rilievi, sufficientemente protetti ma, nel contempo, strategicamente favoriti nel controllo dei territori di pertinenza, lasciando libere le terre coltivabili sui limitati fondovalle. Ciò costituisce anche un indizio della vastità dei fundi che consentiva all’edificio residenziale un sicuro isolamento all’interno della proprietà, pur garantendogli, parallelamente, la possibilità di svolgere quella funzione di centro direzionale nell’ambito della tenuta terriera, indispensabile per una efficiente gestione delle diverse attività produttive.386 Tutto ciò trova preciso riscontro all’Insula di Monastero, la quale si colloca al centro di un comparto idro-orografico e di un sistema di comunicazioni stradali e tratturali che potremmo quasi definire “paradigmatici” in relazione allo sviluppo di questo genere di forme insediative. É, dunque, plausibile ritenere, il nostro, uno di quei casi non infrequenti di affermazione di un organismo nato sull’onda di favorevoli congiunture socio-economiche determinatesi all’indomani della crisi che aveva investito, in varia misura, il mondo rurale nel corso dell’età imperiale medio-tarda e che aveva provocato il crollo dell’apparato produttivo basato sulla villa schiavistica. A questo riguardo, tuttavia, occorre precisare che il processo di continuità o discontinuità del fenomeno di espansione demica extraurbana viene, attualmente, letto in termini più sfumati rispetto al passato.387 Ciò grazie, soprattutto, ad una serie di ricerche che hanno interessato ampie zone campione dell’Italia centro-settentrionale (Umbria, Toscana, Pianura Padana) e meridionale (Pu-
Ipotesi sulla tipologia insediativa di epoca tardo-romana
glia) e in seguito alle quali è stato ridimensionato il tradizionale panorama di profonda decadenza delineatosi in gran parte della penisola a partire dal III sec. d.C. Appare, in effetti, poco credibile spiegare l’insorgenza, almeno in alcuni settori regionali del Paese, di condizioni economiche decisamente positive nel corso del IV sec., con conseguente proliferazione di un così elevato numero di edifici aventi funzioni aziendali e abitative, senza pensare ad un processo già avviato a partire dal secolo precedente. Ne deriva, pertanto, la oggettiva difficoltà, per non dire l’impossibilità, di individuare un sistema unitario nelle trasformazioni e nello sviluppo delle campagne durante il Basso Impero.388 Per quanto concerne, però, nello specifico il territorio Sud-piceno, soprattutto le sue aree più interne e depresse, stiamo parlando di un periodo particolarmente cruciale che accompagna, in forme forse più macroscopiche che altrove, un progressivo ed irreversibile collasso che sta minando dalle fondamenta l’intero sistema politico-economico-istituzionale dell’Impero Romano.389 Col passaggio dal IV al V sec., in seguito alla disastrosa invasione alariciana (408-410 d.C.), e in maniera ancor più acuta nel corso del successivo, funestato dalle lunghe e sanguinose guerre greco-gotiche (535-552 d.C.), assume una dimensione drammatica il generale depauperamento che coinvolge tutti i settori produttivi della regione. Il fenomeno colpisce con analoghi effetti devastanti anche quelle aree più interne la cui dislocazione geografica poteva, per certi aspetti, garantire maggiori opportunità di sopravvivenza ponendole ai margini dei tragici eventi bellici che stavano portando rovina e desolazione in gran parte della fascia medio-adriatica della penisola. La profonda e gravissima situazione recessiva determina un generale processo di destrutturazione che interessa la maggioranza delle città: frazionamento delle domus, drastico impoverimento delle tecniche costruttive, nascita di spazi per microattività artigianali all’interno o nelle vicinanze delle abitazioni, frequentissimi episodi di distruzione e di abbandono, costituiscono una realtà puntualmente descritta da un gran numero di scavi archeologici, sia concentrati nei centri abitati, sia estesi nelle aree suburbane. Anche in questo caso, comunque, è opportuno non interpretare tale realtà in termini assoluti ed eccessivamente rigidi, riconoscendo nelle città, anche dopo il IV sec., “gli
elementi cardine dell’organizzazione politica e amministrativa dell’Impero” (Sfameni), pur con differenti declinazioni a seconda delle diverse regioni italiane, soprattutto del meridione, e delle varie realtà provinciali.390 Analoghe manifestazioni di degrado si riversano anche nel contado dove, sovente, la crisi trascina con sé le grandi proprietà fondiarie, con annesse fattorie o Villae di produzione, le quali avevano costituito per secoli, unitamente alla centuriazione, il più macroscopico ed efficace strumento di riorganizzazione del mondo rurale romano. Per contro, tuttavia, assistiamo al determinarsi di situazioni in aperta controtendenza, soprattutto, come dimostra il caso di Monastero, in concomitanza di zone più marginali corrispondenti alle fasce pedemontane appenniniche. Qui, infatti, si estendono aree la cui conformazione idro-orografica, accompagnata da più diradati fenomeni di antropizzazione del territorio e da una minore capillarità dell’organizzazione infrastrutturale, favorisce, invece, la rivitalizzazione della Villa rustica. Quest’ultima, il cui primitivo impianto sul pianoro dell’Insula non si può escludere possa risalire forse già alla prima o media età imperiale (indicativo, al riguardo, potrebbe rivelarsi il materiale ceramico di I sec. d.C. recuperato sporadicamente alla metà del sec. scorso), al pari della stragrande maggioranza delle ville tardo-antiche sorte su preesistenti organismi abitativi,391 deve probabilmente la propria sopravvivenza alla capacità di alcune fra le famiglie locali più benestanti, e di emergente rango sociale, di far fronte al mantenimento della proprietà fondiaria. Non solo, esse si trovano anche nelle favorevoli condizioni di implementarne addirittura le risorse, concentrando nelle proprie mani i poderi tolti a quei ceti medio-bassi di coltivatori e allevatori espropriati e costretti o a sparire dalla scena, o ad occupare i lotti periferici meno produttivi. Fu proprio l’emergere di questa “aristocrazia agraria”, artefice dell’estensione del latifondo col conseguente accorpamento degli appezzamenti minori, la causa forse principale che determinò, nella nostra zona, la drastica contrazione numerica dei siti rurali, e il parallelo incremento, invece, dell’occupazione territoriale ad opera dei grandi organismi residenziali.392 Tale accentramento dei possessi agricoli, unitamente al nuovo sistema tributario entrato in vigore in seguito alla riforma amministrativa dioclezianea393 che spinse ampi
185
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
settori del ceto contadino oberato dalla crescente pressione fiscale a ricercare la protezione dei patroni locali, è, dunque, all’origine del progressivo rifiorire, fra IV e VI sec. d.C., degli insediamenti extraurbani e dei mercati interni ad opera di una nuova classe di possessores.394 Costoro appartenevano a quella nobilitas locale, in genere di estrazione urbana e di rango senatorio, favorita dall’impulso che la politica costantiniana diede al ruolo del Senato reclutando i nuovi membri tra le fila dell’ordine equestre e delle “élites” municipali.395 É questa che, d’ora in avanti, diventerà l’artefice di un processo di specializzazione delle produzioni agricole e artigianali le quali costituiranno il motore dell’economia e della politica fiscale.396 A ciò va aggiunto lo sviluppo di nuove attività connesse allo sfruttamento dell’“incolto” che entra ora, per la prima volta, nell’ambito della sfera produttiva in seguito all’acquisizione dei saltus e di estese aree boschive o paludose, da sempre ritenute inadatte allo sfruttamento agricolo.397 A questa nuova pianificazione più accorta e controllata nella gestione dei propri beni, si accompagna una larga disponibilità di mano d’opera, in buona parte proveniente tanto dal ceto dei liberi coloni, quanto dalla plebe urbana, la quale assume una condizione giuridica non molto lontana da quella dei futuri servi della gleba. In conclusione, è possibile affermare che i fattori determinanti la genesi della Villa tardo-antica e il suo evolversi in un rinnovato e più complesso organismo che unifica funzioni residenziali e amministrative del fundus di pertinenza, furono sostanzialmente quattro: l’affermarsi progressivo di una economia latifondistica a scapito, almeno in parte, della piccola proprietà terriera; l’emergere, fra i grandi possessores, della ricca classe senatoria tesa a rafforzare la propria auctoritas messa in discussione dalla perdita di prestigio nell’esercizio dell’attività politica nel corso dell’età tetrarchica; il peso crescente della pressione fiscale che rendeva necessario un più attento sfruttamento delle proprietà agricole; infine, la accresciuta disponibilità di forza-lavoro rappresentata, in prevalenza, da liberi coloni. Entrando, ora, più direttamente nel merito della realtà insediativa sorta presso Monastero, in aggiunta alle considerazioni di ordine generale appena avanzate, è opportuno non trascurare anche la specificità del contesto ambientale in cui essa si inserisce. Quest’ultimo, infatti,
186
sembra aver giocato un ruolo attivo nel favorire una continuità, o una ripresa di vita che non risulta, al momento, trovare analoghi riscontri nè in aree contermini dislocate lungo la fascia pedecollinare lambita dal Fiastrone, né lungo il versante orientale della catena dei Sibillini. In virtù della maggiore sicurezza offerta dal suo isolamento e dalla ubicazione in una zona impervia, solo marginalmente intercettata dagli itinerari di fondovalle, il luogo diventa, infatti, parallelamente un ottimo rifugio in cui risiedere. Da qui era possibile, in tal modo, gestire direttamente le attività economiche, sfruttando le risorse esistenti e commercializzando il “surplus” produttivo destinato al consumo locale, ed esercitare, da una posizione privilegiata, il controllo sul territorio a tutela della propria incolumità e dei propri interessi.398 Controllo che non è escluso possa essersi esteso anche alle rotte della transumanza dirette verso gli altopiani dei Sibillini, trasformando, in tal modo, il sito in una mansio strategicamente posizionata a mezza costa fra il fondovalle del Fiastrone e i valichi appenninici. Una realtà così articolata e flessibile nelle destinazioni d’uso giustificherebbe l’ipotesi che alla funzione economica e residenziale, con alae padronali affiancate da impianti tecnico-agricoli e spazi destinati ad abitazioni servili, scuderie, stalle, recinti per le greggi, cantine, frantoi, magazzini, si accompagnasse anche una caratterizzazione difensiva. È lecito immaginare, infatti, l’innalzamento di istallazioni fortificate, controllate, forse, da appositi reparti di milizie alle dipendenze del proprietario, di stanza al suo interno ed alloggiate in speciali strutture annesse.399 In un caso del genere, dunque, si moltiplicherebbero i potenziali ruoli svolti dall’Insula di Monastero la quale, a questo punto, potrebbe identificarsi con un praetorium: termine, alternativo a quello di Villa. Con tale appellativo numerose fonti tardo-antiche, in particolar modo Simmaco e Cassiodoro,400 sono solite designare un organismo abitativo, o la parte abitativa in un complesso misto, appartenente ad un personaggio di rango elevato connesso all’apparato amministrativo-dirigenziale del potere politico. Parliamo di una struttura aulica, dalla pianta compatta, non necessariamente fortificata ma alla quale viene assegnato il compito di fungere da presidio territoriale e da centro direzionale della proprietà.401 Si tratta di una tipologia insediativa, ampiamente evoluta
Ipotesi sulla tipologia insediativa di epoca tardo-romana
rispetto all’edificio rustico, rigorosamente razionalizzato, di tradizione “catoniana”, la cui accentuata versatilità è il risultato dello sviluppo, attraverso vari passaggi, di una serie di temi architettonici specifici che sfruttano tutte le opportunità offerte dall’inserimento del complesso edilizio in un contesto extraurbano, privo di vincoli di natura infrastrutturale: compenetrazione fisica e visiva con il paesaggio; elaborazione delle superfici perimetrali esterne; sintassi degli spazi scoperti e protetti; elevata specializzazione funzionale dei vani grazie alla scarsa incidenza dei limiti areali. Ne risulta, dunque, un modello architettonico dotato di alti valori semantici volti a sottolinearne il carattere privilegiato. Un modello che si pone in consapevole competizione rispetto a diversi spazi pubblici i quali vengono concentrati, qui, in una una struttura unitaria, ma nel contempo articolata in moduli rispondenti alle più svariate esigenze di vita, sia privata che comunitaria, idonea (non si dimentichi quest’ultimo aspetto) a consolidare i rapporti sociali nell’ambito di ceti affini: l’ospitalità nelle Villae è stata anche un efficace strumento di promozione culturale e politica. In quest’ottica, il nostro sito si configura, perciò, come un “plateau”, dotato di funzioni comprensoriali, nel quale convergono, e trovano la loro sintesi, tutti i significati economici, sociali e ideologici della res rustica.402 Un microrganismo socio-produttivo autarchico il quale, però, in considerazione del suo ruolo strategico, economico e di avamposto difensivo, potrebbe, forse, anche essere stato incluso nell’ambito del cosiddetto “patrimonium imperiale” amministrato, quindi, da un alto dignitario pubblico, piuttosto che da un ricco latifondista locale, pur ammettendo la possibilità che le due figure coincidessero. Ipotesi, questa, resa ancor più plausibile se si analizza alla luce dei fatti che accaddero successivamente, allorché, ancora fra VIII e IX sec., l’intero comparto territoriale gravitante attorno al centro di Cessapalombo venne dichiarato demanio dell’Impero Carolingio e del “Regnum Italicum”: evento che testimonia il perdurare della natura fiscale dell’area del Castrum Insulae e della sua vocazione marziale rivolta al controllo di un esteso settore pedemontano di notevole rilevanza topografica.403 A questo proposito, detto per inciso, considerando l’assenza del dato archeologico in grado di accertare tipologia e orizzonte cronologico del nostro nucleo
abitativo, esiste, tuttavia, anche un’altra possibilità. E cioè che proprio il suo status giuridico, che ne sancisce la pertinenza statale almeno a partire dall’VIII sec., ne sottintenda, parallelamente, una originaria natura di ager publicus, anche se ciò parrebbe contraddetto, almeno da un certo momento in poi, tanto dalle sicure tracce di frequentazione stabile di età antica documentate in loco e nei dintorni, quanto dai probabili interventi di suddivisione agraria i quali potrebbero aver incluso anche l’area dell’Insula nel programma di riorganizzazione centuriale delle aree periferiche subappenniniche. Comunque, ammettendo, pur con tutte le riserve, una simile eventualità, l’avvicendamento delle varie competenze riconosciute sul nostro sito, da quella estesa al popolo romano, o ad un ambito municipale, al Patrimonium Caesaris, al Regno Carolingio e, infine, alla Chiesa, tutte riconducibili, in varia misura, nella sfera demaniale,404 rientrerebbe nella scia di un processo che, analogamente, accompagna numerose altre realtà territoriali della regione durante la lunga fase di transizione dalla tarda antichità all’alto Medioevo. La ormai quasi sicura esistenza di una villa, forse fortificata, dotata di svariate pertinenze destinate, oltre che a dimora del dominus, allo stoccaggio delle eccedenze di produzione e all’alloggiamento tanto del personale di servizio, quanto, probabilmente, di guarnigioni addette al controllo e alla difesa della proprietà,405 è da considerarsi anche come premessa della più tarda fondazione monastica. Essa ereditò, infatti, un modello di aggregazione sociale e di programmazione economica in perfetta sintonia con i precetti di vita comunitaria e spirituale predicati dalla Regola benedettina. É, del resto, ormai noto come il ruolo rivestito dalla tipologia della Villa sia stato, nei secoli dell’alto Medioevo, quello di supporto alla diffusione e all’organizzazione del Cristianesimo nelle campagne attraverso il frequente e consolidato meccanismo della sovrapposizione degli organismi cenobitici agli edifici rustici tardo-antichi.406 Si può, dunque, affermare, senza sottovalutare la differenza tra esperienze individuali e spontanee da una parte, e fatti comunitari e istituzionali dall’altra, che la cultura della Villa ha svolto un compito fondamentale nella formazione del monachesimo occidentale.407 Testimonianze significative al riguardo, per limitarci al
187
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
territorio italico, si distribuiscono in un ampio orizzonte regionale. Interessanti concentrazioni sono rintracciabili nel Nord Italia408 dove si segnalano, in particolare, alcune pievi gardesane (Manerva), la villa di Palazzo Pignano, nel Cremonese, su cui torneremo, e quella di Palazzolo presso Ravenna. In area umbro-laziale, oltre alle ville di San Giustino (PG), Castelfusano (Roma) e di San Martino di Tivoli, si distingue quella di Mola di Monte Gelato (Mazzano Romano), singolarmente accostabile alla nostra fondazione per la tipologia dell’edificio ecclesiale, con sepolture ricavate sulle rovine tardo-antiche, e per la sua connessione con un vicus individuato nelle vicinanze. Nel meridione, infine, vanno ricordati i casi si San Pietro di Tolve e di Melfi-Leonessa, entrambi nella regione lucana, e soprattutto San Vincenzo al Volturno (IS), malgrado non sia stata ancora del tutto chiarita la complessa stratificazione delle fasi di frequentazione di epoca più tarda, e San Giusto di Lucera, nel Foggiano.409 Nel panorama complessivo qui delineato, è del tutto verosimile sostenere, quindi, che anche il primitivo impianto icnografico dell’Abbaziale sorta sul pianoro dell’Insula fra IX e X sec. sui resti dello stanziamento tardo antico, ne abbia sostanzialmente ricalcato le forme originarie. Queste ultime dovevano, forse, risultare planimetricamente già in precedenza destrutturate, con conseguente parcellizzazione degli spazi i quali vennero ritenuti pienamente modulabili rispetto alle specifiche esigenze di un tipo di cenobitismo, come quello benedettino, che si colloca in perfetta continuità con la tradizione romana del “vivere in villa”.410 Ne ricaviamo conferma osservando l’impianto che caratterizza analoghi coevi insediamenti, sempre benedettini, di area umbra e dell’Italia settentrionale padana.411 Fra essi vanno ricordate, in particolare, lungo il tracciato della Consolare Flaminia, Santa Maria di Sitria (presso il Passo di Scheggia, prossimo al confine con la regione marchigiana), Santa Maria in Pantano (nei dintorni di Massa Martana, PG) e San Pietro in Valle a Ferentillo, nella bassa Valnerina. Tutte, al pari di Santa Maria in Insula, risultano originate, con uno sviluppo planimetrico assai simile, da preesistenti organismi edilizi a destinazione produttiva di età romana e post-classica.412 Di notevole interesse si rivela anche un discreto numero di Villae dislocate, prevalentemente, nell’alta Val Tiberina
188
(Valcaprara, Santa Maria di Sette, Scopeto, Pulciano-San Lorenzo Basso, Panicale),413 tra le quali merita, in special modo, attenzione quella già nominata di San Giustino (loc. “Campo di Santa Fiora”), riconosciuta come una delle proprietà di Plinio il Giovane.414 Anche in questo caso, la sua sopravvivenza in epoca tarda (IV-V sec.) è ricollegabile al passaggio del fundus nell’ambito dei praedia imperiali.415 Indicative analogie con le estreme forme di riutilizzo delle antiche strutture documentate nel nostro complesso edilizio, in riferimento a quanto gli scavi ancora inediti hanno recentemente rivelato al di sotto del piano pavimentale della cripta, si ravvisano nell’adattamento occasionale di una circoscritta zona dell’insediamento, poco prima del suo definitivo abbandono, a spazio sepolcrale.416 Il fenomeno si allinea con una consuetudine ricorrente in svariati contesti analoghi distribuiti all’interno di un’ampia estensione territoriale compresa fra le regioni transpadane,417 la dorsale appenninica umbro-marchigiana418 e l’area laziale419 entro orizzonti di IV-V sec. d.C. A questo riguardo, oltre al caso di San Giustino, è ancora la regione umbra a detenere il primato, specie nel suo settore meridionale indagato più a fondo, nell’offrirci i riscontri più numerosi e interessanti, rintracciabili nel territorio di Todi e, soprattutto, nell’agro amerino.420 Affinità significative si rintracciano a Lugnano in Teverina,421 Alviano e Penna in Teverina422 dove, in concomitanza con il riutilizzo attardato di tre ricche residenze produttive, assistiamo alla rioccupazione funeraria di un settore delle loro strutture, trasformato in circoscritta area necropolare da parte di una comunità stanziata nei dintorni fra IV e VI sec. d.C.423 Rivolgendo, invece, lo sguardo al panorama topografico relativo alle numerose Villae transpadane,424 è possibile individuare indicativi accostamenti, rispetto all’impianto planimetrico ricostruibile a Monastero, con una discreta percentuale di località: Casale Litta (VA), Isola Dovarese (CR), Nuvolento e Marone (BS), Arzago d’Adda e Ghisalba (BG), Villano di Ticineto (AL). Il quadro tipologico di riferimento resta, comunque, principalmente affidato a due edifici: la grande Villa di Desenzano del Garda425 (BS) e il complesso residenziale di Palazzo Pignano (CR). Essi, fatte le debite distinzioni in merito all’opulenza e alla monumentalità, assenti, a quanto sembra, a Santa Maria in Insula, ci offrono i termini di paragone più convincenti
Ipotesi sulla tipologia insediativa di epoca tardo-romana
riguardo, almeno, all’impianto della zona c.d. di “rappresentanza” ipotizzabile anche nel nostro primitivo edificio. A Palazzo Pignano (prima metà del V sec. d.C.), tra l’altro, è stata riconosciuta, come è possibile sia accaduto anche a Monastero, la sede del funzionario regio longobardo responsabile amministrativo del territorio fiscale, noto successivamente con la significativa denominazione di “Insula Fulcheria”.426 Delineata, dunque, la situazione verificabile, al momento, nell’ambito di un contesto territorialmente molto vasto, compreso fra l’Italia centro-appenninica e le regioni cisalpine, che offre in diversi casi numerosi e circostanziati confronti sul piano delle soluzioni planimetriche e delle destinazioni funzionali degli spazi, è necessario, ora, inoltrarci nel vivo delle problematiche inerenti tipologia architettonica e organizzazione interna dell’edificio soggiacente la fondazione benedettino/romualdina. Come si è già rimarcato, la mancanza dei risultati di scavo e di una documentazione che dia un senso ai lacerti murari antichi emersi al di sotto della cripta, apparentemente privi di connessioni reciproche e al di fuori di qualsiasi contesto edilizio accertato, rende estremamente ardua la formulazione di ipotesi ricostruttive dell’impianto originario. Basandoci, tuttavia, sugli aspetti planimetrici ancora leggibili nel settore orientale della chiesa e sull’analisi dei limitati resti sostruttivi riconducibili ai livelli di fondazione del primitivo edificio pagano, è, forse, possibile farsi un’idea di cosa dovettero trovarsi di fronte i primi monaci giunti in questo luogo. Un dato preliminare che possiamo, ormai, ritenere definitivamente acquisito è costituito dalla presenza sul terreno di tracce, sopravvissute solo a livello di spiccato murario, di un piccolo complesso edilizio triabsidato, a corpi poco sporgenti, rivolto con leggera rotazione verso Sud-Est.(Tavv. XVIII-XX) L’articolazione spaziale, basata su una esedra centrale con profilo a quarto di cerchio, alla quale si affiancano due nicchie minori innestate su corti bracci rettilinei ed orientate ortogonalmente in senso Nord-Sud, ci restituisce una sala trichora di sagoma piuttosto stretta ed allungata. Essa risulta preceduta da un ampio vano rettangolare biabsidato assieme al quale prende forma un impianto mistilineo giocato sulla contrapposizione di volumi estroflessi ed inflessi.
MURATURA ESISTENTE DELLA VECCHIA CHIESA
Non stupisce come questa particolare concezione strutturale sia apparsa, sul finire del periodo alto medievale, immediatamente congeniale alle maestranze edili benedettine. Dovette, infatti, risultare spontaneo sfruttare le rovine esistenti per l’innalzamento di un corpo di fabbrica basato su uno schema assiale simmetrico in cui il sistema a nicchie laterali contrapposte, rispetto ad uno sviluppo longitudinale concluso a esedra curvilinea, si prestava ad essere ricalcato e trasformato in zona presbiteriale di un edificio religioso a tre navate con pianta a pseudocroce commissa. Il modello residenziale che, in età tardo-antica, venne qui realizzato, o forse sviluppato partendo da preesistenti strutture abitative, ripropone, in scala ridotta, una tipologia ricorrente nell’edilizia aristocratica extraurbana. Nella fattispecie sono state adottate, mediante l’applicazione di analoghe regole distributive degli spazi, soluzioni planimetriche che dimostrano l’esistenza di un codice progettuale diffuso ed elaborato all’interno di un comune contesto ideologico.427 Fra esse, quella che si impone con maggiore sistematicità è costituita dall’abside428 la quale diviene il “leitmotiv” peculiare, più frequente e più riconoscibile di un’architettura privata che vuole apparire enfatica e celebrativa, sulla scia di una linea di tendenza ve-
189
Tav. XVIII Cripta: ricostruzione del primitivo impianto planimetrico (da CRISPINI 1966).
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
Tav. XIX Cripta: planimetria generale (scala 1:50) (da MALPIEDI 2004).
rificabile anche nei modelli residenziali di area urbana (un esempio su tutti: la domus sopra le Sette Sale a Roma429). Il tema del corpo absidato, di norma a pianta triconca e spesso impreziosito da ricchi rivestimenti musivi, come potrebbe essere similmente accaduto, seppure in tono minore, nella Villa di Monastero,430 caratterizza in generale le sale di rappresentanza. Ma non mancano applicazioni anche nei cubicula, nelle aule ad esedra affacciate sul paesaggio, nei Ninfei e negli impianti termali (si veda, ad esempio, l’interessante soluzione planimetrica adottata nel balneum dei Fratres Arvales a Roma431) e, in particolare, nei triclinia: ambienti, questi ultimi, a volte talmente sontuosi da suscitare l’ammirazione di poeti e scrittori antichi, fra i quali basterà ricordare le parole che ad essi
190
dedica Libanio di Antiochia (LIBAN., Or., XI, 248). Le sale per banchetti, in particolar modo, si affermano come espressione del ruolo cerimoniale e quasi spettacolare che il convito aveva assunto nel costume degli aristocratici possessores attraverso l’emulazione della vita di corte,432 al pari del “ritorno” dei peristili adottati come elementi di un percorso aulico funzionale ad una volontà di autorappresentazione.433 É opinione condivisa, ormai, dalla quasi totalità degli studiosi che questa particolare e diffusa funzionalità delle ali destinate alle pubbliche relazioni sia tributaria dei più opulenti e fastosi modelli abitativi imperiali di età tatrarchico-costantiniana.434 A titolo esemplificativo, è utile citare al riguardo l’analoga articolazione spaziale che caratterizza, in forme naturalmente assai più complesse, magniloquenti e raffinate, le residenze imperiali di Diocleziano a Spalato, di Massimiano a Milano e Cordoba, il quartiere palaziale di Costantinopoli (Palazzo di Antigono, area della corte “a sigma” e triclinium)435 e, successivamente, il Palazzo di Teodorico a Ravenna.436 Si tratta di una costante topica che è possibile rintracciare nell’ambito dell’edilizia privata suburbana e di campagna del periodo tardo-antico, compreso fra lo scorcio iniziale del IV e il V sec. d.C., all’interno dei più disparati contesti peninsulari e del bacino del Mediterraneo. Ci troviamo, insomma, di fronte ad una affinità tipologica così stringente fra edifici non solo lontani nello spazio, ma anche legati a tradizioni storico-culturali profondamente diverse, che può essere compresa unicamente se inquadrata nel determinarsi di una intensa osmosi, durante questi secoli, fra i modelli dell’architettura palaziale, quella abitativa e, più tardi, quella religiosa. E sarà proprio quest’ultima, soprattutto quella di matrice monastica, a riunire, pur nella differenza di destinazioni, spazi civili, ufficiali o privati in un’unica koinè.437 Il settore abitativo triabsidato, destinato ad accogliere personaggi di riguardo, il più delle volte corrispondeva alla sala da pranzo sistemata, in diversi casi, sul lato opposto all’ingresso della villa e in posizione decentrata rispetto al nucleo del peristilio.438 Lungo il suo perimetro curvilineo potevano essere inseriti stibadia o sigmata triclinari, ossia divani di sagoma semicircolare conformati all’andamento delle murature, in grado di offrire al dominus e agli ospiti una comoda sistemazione.439 Proprio
Ipotesi sulla tipologia insediativa di epoca tardo-romana
a questo scopo, l’ambiente, non di rado, era anche dotato di impianti di riscaldamento, come ci conferma in modo paradigmatico la dettagliata descrizione della sua villa di Avitacum lasciataci da Sidonio Apollinare il quale, in una epistola indirizzata all’amico Domizio (SIDON., Epist., II, 2, 11), si sofferma nella descrizione della zona in cui si apriva lo “hiemale triclinium quod arcuatili camino saepe ignis animatus” (“un triclinio invernale in cui un camino a volta viene sovente attizzato”). Esso era collegato ad una “dieta sive cenantuncula” (“un soggiorno o piccola sala da pranzo”) nella quale erano sistemati “stibadium et nitens abacus” (“un divano semicircolare e una splendida mensa”). “…Quo loci recumbens”, prosegue il retore gallico, “si quid inter edendum vacas, prospicienti voluptatibus occuparis” (“Distendendoti in questo luogo, negli intervalli fra le vivande, ti puoi dedicare ai piaceri degli spettacoli”). Allo stesso modo, in uno dei suoi “Carmi Minori” (SIDON., Carm., 22, 204-205), parlando della sala da banchetto della ricca dimora di Ponzio Leonzio, la nostra fonte accenna ai commensali sdraiati sui letti “a sigma” rivolti verso una “porticus ampla curvata”. Numerose altre testimonianze letterarie (STAT., Silv., 1, 3, 58: villa di Manlio Vopisco; S.H.A., Pesc.Nig., 12, 4: Villa di Pescennio Nigro; PLIN., Ep., V, 6: villa di sua proprietà in Toscana nella quale “…stibadium candido marmore vite protegitur”) e archeologiche440 riferibili agli organismi triconchi delle ville residenziali descritti come triclinia, rendono molto probabile che la diffusione degli stibadia ricurvi e quella delle sale da pranzo a pianta triabsidata siano strettamente connesse tra loro e abbiano proceduto parallelamente, con sempre maggior frequenza, a partire dalla fine del III sec. d.C. in avanti.441 La persistenza di uno stile di vita aristocratico fondato sull’antica tradizione del secessus in villam per dedicarsi all’otium philosophicum e ai piaceri degli incontri conviviali, si mantenne a lungo inalterata almeno fino a tutto il VI sec., secondo le modalità sopra descritte. Ce lo testimonia Gregorio di Nissa quando in una epistola indirizzata ad Adelfio (GR.NYSS., Ep., 20), ci restituisce un’ékphrasis dettagliata della villa dell’amico nella quale si trovavano “ συμποσίων παρασκευαὶ ” (triclini apparecchiati) dinnanzi all’ingresso principale, identificabili come stibadia presumibilmente in pietra sistemati, in questo caso, all’aperto.442
Tav. XX Ipotesi evolutiva del complesso ecclesiale (da MALPIEDI 2004). Sec. IV-V Sec. X-XI Sec. XI-XII
A riprova dell’ampiezza del raggio di diffusione di tale fenomeno, è utile prendere, a questo punto, in esame alcuni esempi contraddistinti da una concezione strutturale della zona di rappresentanza basata su uno schema a trichora absidata, variamente declinata a seconda dell’entità e dell’importanza dell’organismo abitativo di appartenenza,443 ma planimetricamente congruente, comunque, rispetto ad un prototipo comune applicato anche all’Insula di Monastero.(Tav. XXI) Si è già accennato, poco sopra, ad un buon numero di complessi insediativi rurali umbro-laziali e transpadani, ma occorre, alla luce degli specifici aspetti funzionali posti ora in evidenza, soffermarsi almeno su un paio di casi specifici documentati in area lombarda, in partico-
191
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
a - Piazza Armerina (Sicilia)
d - Cazzanello (Tarquinia, Lazio)
b - Patti Marina (Sicilia)
e - Masseria Ciccotti (Basilicata)
h - Casa delle Protomi (Thuburbo Maius, Tunisia)
m - Ecija (Hispania)
c - Desenzano (Lombardia)
f - Porto Saturo (Puglia) (fuori scala)
i - Casa del Carro di Venere (Thuburbo Maius, Tunisia)
n - Rioseco de Soria (Hispania)
Tav. XXI Esemplificazioni di sale triabsidate appartenenti a villae padronali di epoca tardo-imperiale (da SFAMENI 2006).
192
o - Cercadilla (Cordova, Hispania)
g - Palazzo di Teodorico (Ravenna)
l - Casa di cartagine (Tunisia)
p - Littlecote (Britannia)
lar modo sulla Villa di Desenzano. Qui, infatti, oltre alle indubbie affinità rilevabili nel sistema triconco del fastoso triclinium, è di estremo interesse anche l’esistenza, alle sue spalle, di un viridarium con Ninfeo dal quale l’acqua confluiva in un euripo che attraversava lo spazio scoperto contornando il perimetro curvilineo della sala.444 Non può sfuggire il singolare richiamo all’analoga situazione documentata nella Villa di Monastero in corrispondenza dell’abside Nord dove, come si è visto, un canale di deflusso delle acque soggiace alla struttura indicando un impianto idraulico che potrebbe rivelarsi, alla luce di future esplorazioni, confrontabile, in piccolo, con quello gardesano. Tuttavia, proprio la particolare disposizione del collettore, con andamento non solidale con la curvatura muraria ma innestato trasversalmente ad essa e, quindi, sviluppato al di sotto dell’antico piano pavimentale, e le sue ridotte dimensioni aprono alla probabile alternativa, già accennata, che esso potesse servire all’immissione di aria calda per il riscaldamento delle stanze. Lo lascia intuire l’analogo sistema introdotto, ad esempio, in corrispondenza dello spazio absidato del settore residenziale (o termale?) della Villa tardo-antica di Arzago d’Adda, loc. “Campo La Rovere” (BG) (V sec. d.C.), dove si ripropone ancora una volta lo schema assiale concluso a esedra sperimentato all’Insula di Cessapalombo.445 Nel territorio marchigiano, basandoci su quanto è noto o è stato edito, non disponiamo purtroppo, per ora, di confronti altrettanto significativi. Uno dei pochi siti tardo-antichi meglio indagati della regione, la Villa residenziale di Colombarone (III-VI sec. d.C.), sita poco a Nord di Pesaro,446 al di là dell’articolazione mistilinea delle ali Nord-Est e Sud-Ovest, non rivela alcuna vaga analogia con il modello planimetrico-funzionale in esame. Unico dato interessante è la sovrapposizione, su una parte dei suoi resti murari, della basilica paleocristiana di San Cristoforo ad Aquilam che testimonia, anche in questo caso, il ripetersi del fenomeno di continuità fra stanziamenti rurali tardo-romani e fondazioni religiose alto-medievali. Prossime, invece, al modello di Santa Maria di Monastero, e alle lussuose dimore extraurbane dell’area umbra e transpadana, sono alcune Villae tardo-antiche, di cui due di recente individuazione e adeguatamente indagate, distribuite in ampi comparti territoriali dell’Italia meridio-
Ipotesi sulla tipologia insediativa di epoca tardo-romana
nale. Vanno soprattutto segnalate, in Basilicata, quelle di San Giovanni di Ruoti (PZ) e di Masseria Ciccotti di Oppido Lucano (PZ),447 mentre nella regione apula affinità abbastanza stringenti si rintracciano all’interno degli organismi abitativi di Faragola (Ascoli Satriano, FG)448 e di Porto Saturo (l’antica colonia greca di Satyrion) presso Taranto,449 quest’ultima forse la più interessante per la caratteristica sala trichora innestata ortogonalmente su corpo longitudinale. Nel Bruttium, infine, va ricordata, almeno, la Villa di Palazzi di Casignana (RC).450 Come si può osservare, la loro dislocazione geografica, che dall’Appennino lucano si estende fino all’Apulia ionica giungendo a toccare l’estremità Sud-orientale della Locride, per non parlare della particolare realtà siciliana con la eccezionale emergenza dei grandiosi complessi del Casale di Piazza Armerina e di Patti Marina,451 ci conferma il vasto orizzonte territoriale entro il quale si espande il fenomeno, già posto in evidenza, di scambio e integrazione fra modelli palaziali e architettura residenziale privata. Fenomeno che, nel passaggio dal V al VI sec. d.C., assume una vera e propria dimensione interregionale giungendo ad imprimere una impronta inconfondibile, pur ricca di varianti e adattamenti alle peculiarità ambientali di ciascun luogo, al paesaggio rurale dell’Italia tardo-antica. Va, a questo punto, precisato, tuttavia che l’ampio ventaglio di riscontri tipologici individuati lungo l’intera estensione peninsulare, risulta al momento condizionato dalla persistente scarsità di indagini archeologiche. Di conseguenza rimane ancora nell’ombra l’evolversi delle forme di popolamento in importanti settori regionali, al momento in attesa di adeguate e sistematiche investigazioni. Ciò impedisce, pertanto, di ricostruire un panorama completo delle tipologie abitative sviluppatesi nei contesti extraurbani a partire dal periodo tetrarchico-costantiniano e di disporre di dati esaustivi e scientificamente aggiornati per giungere ad una classificazione in grado di superare un sistema comparativo basato, oggi, principalmente su confronti con generici modelli di riferimento. Tale limite si manifesta in tutta la sua evidenza proprio nel caso dell’organismo abitativo dell’Insula di Monastero: la sua particolare conformazione triconca, infatti, pur rientrando indubitabilmente nella categoria delle sale triabsidate con destinazione conviviale o di rappresentanza, sembra suggerire una possibile variante, priva per ora di
attestazioni in Italia ma nota in ambiente provinciale, definita “a pianta trifoliata”.452 La sua peculiarità consiste nel disporsi delle absidi laterali alle estremità di uno spazio rettangolare, anziché quadrato come al solito, dando così origine ad un ambiente strutturato, appunto, “a trifoglio”. Si tratta di una concezione planimetrica piuttosto insolita e documentata in area Nord-africana (Tunisia) dove si ritrovano i confronti più specifici, soprattutto nelle località di Thuburbo Maius (“Casa delle Protomi” e “Casa del Carro di Venere”), Thugga e Cartagine entro orizzonti cronologici di III-IV sec. d.C.,453 i quali hanno indotto qualche studioso (Sfameni) ad ipotizzare che l’origine della tipologia sia da ricercarsi in quest’area della Proconsolare.454 Conclusa, così, l’ampia panoramica dedicata alla diffusione degli edifici rurali tardo-romani a sale triabsidate documentati, al momento, alle diverse latitudini delle regioni italiche, può essere utile soffermarsi su un aspetto finale in grado di fornire un valido contributo alla ricostruzione di questa particolare forma insediativa così capillarmente diffusa durante i secoli finali dell’Impero. Si tratta di alcuni documenti figurativi455 i quali illustrano, alcune volte con precisione didascalica, altre, invece, nei modi propri di un genere di rappresentazione compendiaria e allusiva, modelli di ville che, in qualche misura, possono richiamare quello marchigiano. Una prima interessante testimonianza, inquadrabile nell’ambito dell’arte suntuaria dell’età imperiale medio-tarda, ci viene proposta da un raffinato piatto in argento dorato e niellato,(Fig. 146 a) recuperato nel 1948 vicino a Cesena, 456 raffigurante, nel medaglione centrale, brani di vita quotidiana in una grande proprietà di campagna.(Fig. 146 b) La scena è distribuita su due registri: in quello superiore si svolge, al di sotto di una tenda, un banchetto all’aperto cui partecipano cinque personaggi. Il tema ci conferma l’importanza, già in precedenza rilevata,457 che il convito assume come modello di comportamento presso le aristocrazie neolatifondiste locali, al pari delle scene vanatorie che decorano la tesa, alternate a soggetti pastorali, anch’esse allusive ad un rito sociale di grande rilevanza presso il ceto dei possessores. Nel registro inferiore, invece, è inquadrato un edificio (la Villa padronale) caratterizzato da un alto muro sormontato da una loggia aperta e da un organismo centra-
193
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
Fig. 146 a Piatto in argento dorato da Cesena (Cesena, Biblioteca Malatestiana, inv. SAE 129) (da Milano Capitale). Fig. 146 b Particolare del medaglione centrale.
le absidato a riprova del ruolo fondamentale svolto dagli ambienti strutturati a esedra nei complessi residenziali extraurbani della nobilitas agraria. Da notare infine, davanti all’ingresso socchiuso, l’elegante figura di un cavallo bardato trattenuto da un giovane stalliere. La sua presenza potrebbe riferirsi tanto al possesso di scuderie da parte dei padroni del fundus, e quindi al nobile costume
194
dell’esercizio equestre, quanto all’attività di allevamento, anche semibrado, di cavalli tipica del saltus, cioè di quelle aree incolte caratterizzanti, in età tardo-antica, le grandi proprietà terriere.458 Procedimenti tecnici (incisione e niello) e accostamento di metalli diversi, con accentuati effetti coloristici, orientano verso una cronologia nell’ambito della seconda metà del IV sec. d.C. rinviando ad una ricca produzione (piatti di San Pietroburgo, di Mildenhall, Könisberg e Graincourt)459 all’interno della quale il missorio cesenate trova, in particolare, stringenti affinità tematico-stilistiche con il piatto di Kaiseraugst (Basilea)460 dei decenni iniziali del IV sec. d.C. Quest’ultimo, al di là dell’ambientazione marina degli edifici, alcuni dei quali con coperture a cupola che lasciano intuire, anche qui, la presenza di spazi absidati e a nicchia, si caratterizza per la presenza di un ornato a niello con scene di caccia sull’orlo a tesa orizzontale (e di pesca nel medaglione centrale). Un repertorio, dunque, che si inserisce perfettamente nei ai temi propri delle rappresentazioni legate alla sfera dei grandi possidenti terrieri e delle più alte cariche politico-amministrative dello Stato. É soprattutto, però, nel campo della decorazione musiva dove è possibile rintracciare i riscontri più numerosi e significativi, tanto per il raggio di diffusione geografica, principalmente concentrato nei territori dell’Africa Proconsolare, quanto dal punto di vista delle varietà tipologiche degli edifici rappresentati. Essi, nella caratteristica inquadratura “a volo d’uccello”, rivelano di frequente interessanti dettagli su soluzioni architettonico-funzionali le quali non mancano di rivelare, spesso, inconfondibili analogie con i modelli edilizi medio-italici e transpadani precedentemente individuati. É interessante osservare come nei casi specifici che andremo a considerare, la scelta di riprodurre le dimore signorili applicando una prospettiva dall’alto sia rivelatrice del preciso intento di illustrarne non soltanto gli aspetti architettonici, ma anche le diverse attività che si svolgono al loro interno, o nelle immediate adiacenze. Non mancano scene di genere (Psychai Coronariae che intrecciano ghirlande, Amorini pescatori che compongono festoni di frutta ecc., interpretabili come allegorie stagionali), ma particolarmente frequenti sono cacce e banchetti, ancora una volta in sintonia con modelli di vita emulativi di quelli di corte.
Ipotesi sulla tipologia insediativa di epoca tardo-romana
Fig. 147 Frammento di mosaico pavimentale da Oderzo (Oderzo, Museo Civico, inv. 561) (da BERTACCHI 1980).
A questo proposito, un frammento di mosaico pavimentale meritevole d’attenzione proviene da Oderzo.461 (Fig. 147) Il suo interesse risiede sia nella ricorrente raffigurazione delle attività venatorie (in questo caso la caccia al cinghiale), volte a sottolineare il rango sociale del proprietario, sia nella scelta di mostrare dell’edificio l’aia recintata, all’interno della quale una donna, dall’ampia veste e con il capo sormontato da una tiara, è intenta a distribuire il becchime ad alcuni volatili che la attorniano. L’anonimo artista non si sofferma dunque, come di consueto, sulla descrizione delle zone “nobili” della villa allo scopo di esaltarne gli aspetti monumentali, ma sulle strutture murarie che la delimitano, isolandola dalla campagna circostante, e che, contemporaneamente, ne costituiscono la cinta difensiva. A confermare tale funzione è l’aspetto massiccio, quasi da fortilizio che essa assume, con le file dei solidi blocchi isodomi dell’alzato, la merlatura lungo l’estremità sinistra e la presenza della poderosa torre finestrata, percorsa da un portico transennato, che si eleva a conclusione dello spazio confinato.462 Freschezza espressiva e originalità
del tema, unite ad una notevole attenzione cromatica e disegnativa di tradizione ellenistica, fanno del mosaico opitergino un’opera eseguita presumibilmente da artisti di provenienza africana o, con maggior probabilità, da maestranze adriatiche aggiornate su cartoni africani attive non oltre la fine del III sec. d.C. É un documento importante, che ci testimonia l’organizzazione architettonica di un complesso residenziale fortificato, come si può presumere dovesse, suppergiù, presentarsi il Castrum Insulae di Monastero. Quest’ultimo, nel caso specifico, va considerato in relazione a quel Monte dei Cancelli, sovrastante l’abitato,463 evocativo, forse, come si è detto in precedenza, di strutture poste a presidio dell’insediamento rustico sorto più a valle o di uno spazio di accoglienza appositamente predisposto per ospitare i residenti in momenti di particolare emergenza. Si è accennato poco sopra all’importanza, in vista di una definizione tipologica della Villa tardo-antica, che assume la cospicua produzione di mosaici Nord-africani, soprattutto del territorio tunisino. Molti di essi, il più delle
195
Sezione seconda / Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale
Fig. 148 Frammento di mosaico pavimentale dalla villa del Dominus Julius di Cartagine (da BIANCHI BANDINELLI 1985).
volte, ci offrono accurate riproduzioni di opulente residenze extraurbane, accompagnate non di rado da scene afferenti alle diverse occupazioni che caratterizzano il trascorrere della vita nella dimensione agreste da parte dell’aristocrazia fondiaria.464 É sufficiente ricordare i ricchi apparati decorativi che ornavano l’aula triabsidata della Villa di Tabarka (IV sec. d.C.), con edificio fortificato immerso in un giardino popolato di animali; la residenza dei Laberii di Oudna (III sec. d.C.), con animate scene di caccia a cinghiale, pernici e pantera; la Villa di El Alia, a Sud di Salata (III sec. d.C.), dove campeggia un sontuoso banchetto davanti alla proprietà recintata; e, soprattutto, la sfarzosa abitazione del Dominus Julius a Cartagine (IV-V sec. d.C.), tutti attualmente conservati al Museo del Bardo di Tunisi.465 Quest’ultimo complesso musivo, in particolare,(Fig. 148) si presta ad un’analisi più specifica grazie all’elevato livello raggiunto nella rappresentazione paesaggistica e della conformazione di una grande Villa fortificata che campeggia al centro del pannello principale. La sua struttura,
196
di una imponenza quasi palaziale, si caratterizza sia per il possente impianto difensivo, turrito e con ampio loggiato ad arcatelle vicino al modello dioclezianeo di Spalato, sia per l’edificio che svetta all’interno sormontato da cupole che sottintendono sistemi planimetrici ad ambienti absidati o triconchi. Alla destra della villa, il Dominus si appresta alla partenza per la caccia, armato di lancia e nel classico abbigliamento venatorio. Nei due registri, superiore e inferiore, si sviluppano, invece, con una intonazione quasi didascalica, motivi naturalistici e teorie di personaggi, maschili e femminili, intenti ad attività stagionali, rispettivamente invernali/estive, e primaverili/autunnali. Fra essi, spiccano la Domina che si è alzata dalla poltrona di vimini per adornarsi, e il Signore che, seduto, riceve un documento consegnatogli da un servitore.
Note
364 ALLEVI 19871, p. 890. 365 CRISPINI 1966, pp. 256-257; PAGNANI 1974, pp. 127-129; più recentemente PACINI 2002, p. 18, ammette l’esistenza di strutture riferibili ad una fase preromualdina che non vengono, però, ricollegate a forme insediative tardo-antiche: cfr. al riguardo anche MALPIEDI 2004, pp. 71-73. 366 G.TABACCO (a cura di), P.Damiani, Vita beati Romualdi, (“ISIME”, “Fonti per la Storia d’Italia”, 94), Roma 1957, pp. 79-80. Si vedano al riguardo CRISPINI 1966, p. 261 e nota 15; PAGNANI 1974, pp. 110-122; ALLEVI 19871, 918-924; A.MONTIRONI-L. MOZZONI, Arte medioevale benedettina nella provincia di Macerata, Macerata 1990, p. 65; CICCONI 1990, pp. 455-457 e nota 124; CHERUBINI 1992, p. 329; P.FAVOLE, Le Marche, (“Italia Romanica”, 14), Milano 1993, p. 319; PACINI 2002, p. 18. Per una posizione decisamente contraria alla identificazione tradizionale si veda F.CAPPELLI, Una fondazione romualdina: il monastero “iuxta oppidum Esculanum”. Una riconsiderazione e un approfondimento dell’ipotesi di identificazione con il monastero di S.Salvatore di Sotto di Ascoli Piceno, in Comunità Monastiche, pp. 229-245. 367 L’attività, finanziata con i contributi stanziati in base alla legge n. 61 del 30/03/1998 (“Piano degli interventi di ripristino, recupero e restauro del patrimonio culturale danneggiato dalla crisi sismica”), è stata coordinata da Umberto Moscatelli e Nicoletta Frapiccini nell’ambito del progetto R.I.M.E.M (Ricerche sugli Insediamenti Medievali nell’Entroterra Marchigiano) del Dpt. di Beni Culturali dell’Università di Macerata, attivo dal 2004. Le indagini hanno riguardato, fondamentalmente, la cripta, compresi gli ambienti annessi a Nord e Sud, e una stretta fascia perimetrale esterna tangente i muri Sud, Est e Nord. I risultati, come si è detto, sono ancora in fase di elaborazione ed in attesa di essere pubblicati da parte di V.Antongirolami-A.D’Ulizia-S.Virgili, relatrici di una preliminare comunicazione (Il Monastero di S.Salvatore (Cessapalombo – MC): analisi storico-archeologica di un complesso monastico) presentata in occasione del Convegno “Il Piceno prima di Fiastra. Giornate di studio sul Piceno nell’età di mezzo” (a cura di P.Pistilli e F.Gangemi), Poggio San Costanzo 14-15 maggio 2010, c.s. Al momento, accenni molto generici e succinti si trovano in U.MOSCATELLI-A.KONESTRA-S.VIRGILI, Progetto R.I.M.E.M. Rapporto preliminare sulle campagne di ricognizione 2008-2009-2010, in Il Capitale Culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage (Università di Macerata) 2, 2011, pp. 303-304. 368 Un termine post quem al 477 d.C. (non si comprende se convenzionalmente riferito, o meno, al momento in cui la storiografia moderna colloca l’inizio dell’età medievale) è ripor-
tato nella scheda di scavo sul sito MIBAC “Cessapalombo (MC). Monastero di San Salvatore”, mentre nel rapporto preliminare di Moscatelli-Konestra-Virgili cit. alla nota precedente, si accenna (p. 304) al ritrovamento, alla metà del sec. scorso, nell’area circostante la chiesa di abbondanti quantitativi di materiale ceramico (ora custodito presso il centro R.I.M.E.M. di Macerata) riferibile ad un “range” cronologico molto ampio, compreso fra il I sec. d.C. e l’età moderna. 369 P.MARCHETTI-K.KOLOKOTSAS, Le nymphée de l’agora d’Argos. Fouille, étude architecturale et historique (ÉtPél XI), Paris/ Athènes 1995 ; GINOUVÉS 1998, Tav. 52, Fig. 3 e p. 99, nota 100; GROS 2001, p. 478, Fig. 479. 370 GROS 2001, pp. 474, 477. 371 ADAM 2006, pp. 273-274, Figg. 577-579. 372 A.T.HODGE, Roman Aqueducts and Water Supply, London 1992, pp. 284-289; GINOUVÉS 1998, pp. 93, 95; Tav. 49, Figg. 3-4; ADAM 2006, pp. 274-275, Figg. 580-581. 373 GROS 2001, p. 490. 374 I pezzi, ammassati caoticamente in un unico punto e ricoperti sotto uno strato di pochi centimetri di terra, erano mescolati ad abbondanti quantitativi di scaglie di pietra, tegole e mattoni frantumati. Essi comprendono svariati cocci di ceramica acroma d’uso domestico, fra cui alcuni con residui di invetriatura, e, soprattutto, un certo numero di lastre marmoree spezzate (una piccola campionatura è stata illustrata al Cap. VI A., n. 3-6, Figg. 102-107). Diverse rotture risultano di data recente e sono, evidentemente, imputabili ai danni inferti dagli operai addetti al “restauro” del corpo orientale della chiesa e, in particolare, al rifacimento della pavimentazione della cripta la quale costituisce il settore da cui, verosimilmente, furono asportati numerosi dei frammenti antichi in oggetto. 375 Cfr. supra, Cap. VI D., p. 178. 376 RAININI 2007, pp. 134-135, Fig. 86; pp. 157-167, Figg. 105108, 110, 115, 117. 377 RAININI 2011, pp. 197-198, Fig. 126. 378 Cfr. supra, Cap. VI D., p. 177. 379 Il litotipo sembra assente anche nella colonia di Urbs Salvia che si è rivelata, fino ad ora, uno dei siti più ricchi di varietà marmoree esotiche e preziose lungo la fascia medio-adriatica e dell’intera area picena: F.ANTONELLI-L.LAZZARINI, White and coloured marbles of the Roman town of Urbs Salvia (Urbisaglia, Macerata, Marche, Italy), in “OJA” 32, 3, 2013, pp. 293-317. Solo nella Badia di Fiastra è documentato un caso di “Greco Scritto” Nord-africano (RAININI 2007, p. 134, Fig. 85), estratto dalle cave
197
Note
di Ippona (Cap de Gard, Algeria orientale), diverso, però, dal nostro tanto dal punto di vista petrografico, quanto per la colorazione e gli aspetti macroscopici. La denominazione convenzionale deriva dalla presenza di sostanze carboniose e di grafite, color grigio scuro tendente al bluastro, che danno l’impressione di una scrittura corsiva senza un preciso ordine distributivo. 380 PENSABENE 2002, pp. 215-216, e supra, nota 358. 381 MONNA-PENSABENE 1977, pp. 132-135. 382 Solitamente i marmi bianchi erano usati per le soglie: De FRANCESCHINI 2005, p. 304. Mancano, al momento, prove dell’esistenza di sectilia pavimenta. 383 J.ARCE, Otium et negotium: the great estates, 4th- 7th century, in L.WEBSTER-M-P.BROWN, The Transformations of the Roman World, AD 400-900, Berkeley 1997, pp. 19-32; J.T.SMITH, Roman Villas. A Study in Social Structure, London 1997, passim. 384 MERCANDO-BRECCIAROLI-PACI 1981, pp. 318-320; M.TORELLI, La formazione della villa, in G.CLEMENTE-F.COARELLI-E.GABBA (a cura di), Storia di Roma II. L’impero mediterraneo, 1, La repubblica imperiale, Torino 1990, pp. 123-132; De FRANCESCHINI 2005, pp. 295-296. 385 MERCANDO-BRECCIAROLI-PACI 1981, pp. 333-347, n. 205, 228-232, 246-247, 249, 251-253, 265-266, 280-281, 302, 307, 319, 324-325, 346, 361, 367-368, 382, 387-388, 403, 410, 429, 435, 438, 449, 467, 485, 500-503, 516. 386 G.VOLPE, Contadini, pastori e mercanti nell’Apulia tardoantica, Bari 1996, p. 210. 387 Si vedano gli studi in proposito raccolti da LAVAN 2001. Sull’argomento si confrontino le diverse posizioni di A.CARANDINI, Schiavi in Italia. Gli strumenti pensanti dei Romani fra tarda repubblica e medio impero, Roma 1988, p. 23; P.ROSAFIO, Slaves and Coloni in the Villa System, in Landuse, pp. 145-158; L.DI VERA, Dalla Villa perfecta alla Villa di Palladio: sulle trasformazioni del sistema agrario in Italia fra principato e dominato, in “Athenaeum” 1996, pp. 189-211; L.DE BLOIS, The Crisis of the Third Century A.D. in the Roman Empire: A Modern Myth?, in L.DE BLOIS-J.RICH (a cura di), The Transformation of Economic Life under the Roman Empire, (Proceedings of the Second Workshop of the International Network, Impact of Empire (Roman Empire, c. 200 B.C.-A.D. 476), Nottingham, July 4-7 2001), Amsterdam 2002, pp. 204-217; De FRANCESCHINI 2005, pp. 298, 339-340; SFAMENI 2006, pp. 165-169. 388 Per l’area umbra e medio-appenninica si vedano MANCONI-TOMEI-VERZÁR 1981, pp. 383-400; DI GIUSEPPANTONIO-GUERRINI-ORAZI 2003, pp. 1377-1396; DI MICELI 2012, pp. 225-229.
198
389 Sui problemi legati alle fasi tardo-antiche e alto-medievali della regione Sud-picena cfr. G.AZZENA, Persistenze e trasformazioni nel tessuto urbano romano nel Medioevo, in “RTA” I 1991, pp. 71-92; N.ALFIERI, Il Piceno fra età tardo antica e altomedievale, in Il Piceno in età romana, dalla sottomissione a Roma alla fine del mondo antico, (Seminario di Studi, Cupra Marittima 24-30 ottobre 1991), Cupra Marittima 1992, pp. 117-134; PACI 2004 (2008), pp. 583-605; RAININI 2007, pp. 53-58. 390 B.WARD-PERKINS, Urban Continuity?, in N.CHRISTIES.T.LOSEBY (a cura di), Towns in Transition. Urban evolution in Late Antiquity and the Early Middle Ages, Aldershot 1996, pp. 4-17; IDEM, Continuists, Catastrophists, and the Towns of Post-Roman Northern Italy, in “PBSR” 65, 1997, pp. 157-176; SFAMENI 2006, pp. 166-167. 391 Cfr. supra, nota 368; si vedano, inoltre, al riguardo J.PERCIVAL, La Villa in Italia e nelle province, in J.WACHER (a cura di), Il Mondo di Roma Imperiale, II, Vita urbana e rurale, Bari-Roma 1989, p. 284; J.P.SODINI, Habitat de l’Antiquité tardive, in “Topoi” 5, 1995, pp. 151-218; IDEM, in “Topoi” 7, 2, 1997, pp. 435-577. 392 SFAMENI 2006, p. 19; DI MICELI 2012, p. 228. Va ad ogni modo precisato, per inciso, che la crisi della piccola e media proprietà in epoca tardo-antica, da sempre sostenuta dalla moderna storiografia, viene letta ultimamente in termini meno rigidi, riconoscendo una sua sopravvivenza, seppur ridimensionata, accanto all’affermarsi delle grandi realtà fondiarie: SFAMENI 2006, p. 20 e nota 73. Sulle problematiche relative alle destinazioni d'uso delle ville romane nella tarda antichità, si vedano i recentissimi contributi di A.CASTRORAO BARBA, Continuità topografica in discontinuità funzionale: trasformazioni e riusi delle ville romane in Italia tra III e VIII secolo, in “PCA” 4, 2014, pp. 259-296; IDEM, Le ville romane in Italia tra III e V secolo: approccio statistico e considerazioni generali, in “Amoenitas” III 2014, p. 1 ss. 393 Tra il 297 e il 312 d.C. venne totalmente rinnovato il sistema delle imposte dirette basate su unità di misura fondiaria (iugum), oppure sull’imponibile personale (caput). Le indictiones, ossia gli accertamenti statali basati sui calcoli dei censitores incaricati di verificare i redditi e di misurare entità ed estensione delle proprietà terriere, erano fisse e sottoposte a revisione secondo cicli quinquennali, in un primo tempo, e successivamente quindicennali. L’incidenza di una simile pressione fiscale sul ricavato dipendente dalle attività agricole e di allevamento, ebbe un impatto molto pesante sull’economia della piccola e media proprietà, determinando l’impoverimento di larghi strati sociali di addetti al settore agro-pastorale, non più in grado di far fronte alle elevate spese di gestione, e l’abbandono di zone sempre più
Note
vaste, inevitabilmente assorbite dai grandi latifondi. Alla riforma di Diocleziano è dedicata una ricca bibliografia per la quale si rinvia a A.CAMERON, Il tardo impero romano, Bologna 1999, pp. 45-64 e, soprattutto, pp. 266-283. Sull’argomento si vedano anche A.H.M.JONES, Overtaxation and the decline of the Roman empire, in “Antiquity” XXXIII 1959, p. 39 ss.; L.RUGGINI, Economia e società nell’Italia annonaria. Rapporto fra agricoltura e commercio dal IV al VI sec. d.C., Milano 1961, passim; D.VERA, Massa fundorum. Forme della grande proprietà e poteri della città in Italia tra Costantino e Gregorio Magno, in “MEFRA” 111, 2, 1999, pp. 9911025; G.P.BROGIOLO-A.CHIAVARRÍA ARNAU, Aristocrazie e campagne nell’Occidente da Costantino a Carlo Magno, Firenze 2005, pp. 23-47; L.CRACCO RUGGINI, Alimentare i cittadini, i rustici e i milites fra tardoantico e alto medioevo, in Città e campagna nei secoli altomedievali (Atti della LVI Settimana di Studio “CISAM”), Spoleto 2009, pp. 34-36; DIOSONO 2012, pp. 207-208. 394 A.COSSARINI, Palladio Rutilio Tauro Emiliano: residui dell’ideologia della terra, in “AIV” 136, 1977-1978, pp. 175-185. 395 W.ECK, Cum dignitate otium: Senatorial domus in Imperial Rome, in “SCI” 16, 1997, pp. 162-190. Per una parziale revisione delle tesi tradizionali si vedano P.KEHOE, Approaches to Profit and Management in Roman Agriculture. The Evidence of the Digest, in Landuse, pp. 45, 47, 49-50. IDEM, The Sources of Roman Farm Tenancy, in “JRA” 9, 1996, pp. 389-394; De FRANCESCHINI 2005, pp. 338-339. 396 A.CHASTAGNOL, Les modes de recrutement du Sénat au IVe siècle, in C.NICOLET (a cura di), Recherches sur les structures sociales dans l’antiquité classique, Paris 1970, pp. 190-201 ; IDEM, Le Sénat romain à l’époque impérial : recherches sur la composition de l’asasemblée et le statut de ses membres, Paris 1992, pp.237-247, 298-299 ; P.HEATHER, Senators and Senate, in “CAH” 13, 1998, pp. 184, 190, 204-209 ; L.CRACCO RUGGINI, Il Senato fra due crisi (III-VI secolo), in Il Senato nella Storia, il Senato nell’età romana, Roma 1998, in particolare pp. 268-308. 397 CAMPAGNOLI-GIORGI 2001-2002, p. 44. 398 L.PUPILLI, Il territorio del Piceno centrale in età romana:, impianti di produzione, villae rusticae, villae di otium, Ripatransone 1994, p. 24; MALPIEDI 2004, pp. 20-21. 399 CAGIANO DE AZEVEDO 1966, p. 674. 400 SYMM., Epist., 1, 10; 6, 11, 1; 6, 9; 6, 66, 3; 9, 17; CASSIOD., Var., 11, 14; 12, 22; si vedano al riguardo anche Lussorio (Carm., 64), Venanzio Fortunato (Carm., 1, 18) e Rutilio Palladio (De re rust., I, 8, 2). 401 Il vocabolo costituisce una interessante acquisizione
alla terminologia dell’edilizia privata di una voce che, in origine, designava un edificio pubblico (comando dei castra militari, dimora del Pretore nelle provincie) (CIC., Verr., 2, 4, 65; 5, 92), successivamente la residenza urbana o extraurbana del princeps e, infine, ogni tipo di abitazione di lusso: così in Stazio (STAT., Sil., 1, 3), Svetonio (SUET., Aug., 72; Cal., 37; Tib., 39), Giovenale (IUV., Sat., 10, 161). L’estensione generalizzata in età tardo-antica, conserva il riferimento alla sede della massima autorità in uno spazio determinato: cfr. R.J.BUCK, Agricolture and Agricoltural Practice in Roman Law, (“HistEinz” 45), Wiesbaden 1983, pp. 9-16; A.MARTIN, Praetoria as Provincial Governors Palaces, in Historia Testis (Mélanges d’épigraphie, d’histoire ancienne et de philologie offerts à Tadeusz Zawadski), Fribourg 1989, pp. 229239; SCAGLIARINI CORLÁITA 1990, p. 257; L.LAVAN, Late Antique Governors’ Palaces: a Gazetteer, in “AnTard” 7, 1999, pp. 135-164; IDEM, The praetoria of Civil Governors, in LAVAN 2001, pp. 39-56; SFAMENI 2006, pp. 153-154, 234-235. 402 A.COSSARINI, Columella: ideologia della terra, in “GFRF” 1, 2, 1978, p. 43. 403 Su tali aspetti si vedano PAGNANI 1974, pp. 138-143; MANCONI-TOMEI-VERZÁR 1981, p. 385; MALPIEDI 2004, pp. 16-21, in particolare p. 19; pp. 72-73. Secondo Giacinto Pagnani (1974, p. 107; IDEM, Luoghi francescani di origine benedettina, in AA.VV., Aspetti e problemi del monachesimo nelle Marche, (Atti del Convegno di Studi, Fabriano 4-7 giugno 1981), Fabriano 1982, p. 149) il concetto di “fiscalità” legato al territorio di Monastero sarebbe sottinteso anche in un documento, datato 9 agosto 1281, nel quale viene nominato un “Dompnus Servusdei” che si definisce “abbas monasterii insule Pùdica” dove l’apposizione “Pùdica” sarebbe da intendersi nel significato di “pubblica”, con riferimento, appunto, alla condizione demaniale di quest’area; si veda anche ALLEVI 19871, p. 919 e nota 84. 404 Cfr. al riguardo D.J.CRAWFORD, Proprietà imperiali, in M.I.FINLEY (a cura di), La proprietà a Roma: guida storica e critica, Bari 1980, pp. 33-76; E.MIGLIARIO, Uomini, terre e strade. Aspetti dell’Italia Centroappenninica fra Antichità e Alto Medioevo, Bari 1995, pp. 28, 37-38, 47-48, 134 ss.; E.LO CASCIO, Il princeps e il suo impero: studi di storia amministrativa e finanziaria romana, Bari 2000, p. 97 ss. 405 A tale proposito è opportuno citare una fonte settecentesca, malgrado la sua assai scarsa attendibilità ne limiti fortemente il potenziale valore documentario. Si tratta di Paolo Morichelli Riccomanni, già nominato in precedenza (Cap. V, p. 138 e nota 306), il quale, nel proprio manoscritto conservato, oggi,
199
Note
presso l’ASCSG (p. 69), sostiene che il territorio di San Ginesio “…si estende al Castel dell’Isola o Monastero, nelle cui viscere era, e conservasi tuttora, una miniera metallica detta la Marchesina nel sito ove dicesi la Grotta di S.Girolamo, altrimenti denominata Cyprum o Cuprum.” Certo è che se un luogo con questa denominazione fosse realmente esistito, si aggiungerebbe un valido motivo a giustificazione di uno stanziamento romano sul rilievo dove sorge l’abbazia, finalizzato anche ad accogliere il personale addetto alla gestione delle attività connesse alla estrazione del rame e al suo smistamento in direzione dei centri addetti alla sua lavorazione. Tuttavia Rossano Cicconi, nella sua acuta analisi dedicata al territorio di Monastero (CICCONI 1990, pp. 458-459 e nota 127; cfr. anche MALPIEDI 2004, p. 19) definisce il Riccomanni “…fuorviante, soprattutto nella sistematica ricerca di alcune cuprae che in questi casi specifici non esistono affatto”. In effetti, non risulta né nella documentazione catastale disponibile, né nella toponomastica locale, e nemmeno nella tradizione orale, alcun riferimento a tale luogo o ad un simile appellativo. Pertanto, la fonte va valutata, per ora, con la massima prudenza e tenuta in serbo in vista di eventuali future ricerche specifiche sull’argomento. 406 P.AUDIN, La réutilisation des sites antiques par les églises, in “Cesarodonum” 19, 1984, pp. 63-75; J.PERCIVAL, Villas and Monasteries in Late Roman Gaul, in “JEH” 48, 1, 1997, pp. 1-21; O.NORDENVAL, The Benedectine Transformation of the Roman Villa Life, in “AAAH” 16, N.S. 2, 2002, pp. 31-38. 407 G.PENCO, Storia del Monachesimo in Italia dalle origini alla fine del Medioevo, in H.JEDIN (a cura di), Complementi alla storia della chiesa, Milano 1988, p. 373: “…il monastero riproduce quindi come unità di vita economica il tipo della villa romana”, a conferma di come forma e funzione siano strettamente connesse in questo passaggio. Si vedano al riguardo anche CAGIANO DE AZEVEDO 1966, passim; R.TEJA-S.ACERBI, El ambiente economico y social reflejado en las reglas monasticas latinas de Italia et Hispania (siglos VI-VII), in Silos. Un milenio (Actas del Congreso Internacional sobre la Abadìa de Santo Domingo de Silos, II, Historia), Silos 2003, pp. 111-130; MALPIEDI 2004, pp. 72-73. 408 G.CANTINO WATAGHIN, Christianisation et organisation ecclésiastique des campagnes: l’Italie du Nord aux IVe – VIe siècles, in G.P.BROGIOLO-N.GAUTHIER-N.CHRISTIE (a cura di), Towns and their territories between Late Antiquity and the Early Middle Ages, (The Transformation of the Roman World, 9), Leiden-Boston-Köln 2000, pp. 209-234; G.P.BROGIOLO-A.CHAVARRÍA, Chiese e insediamenti rurali tra V e VI secolo: Italia settentrionale,
200
Gallia meridionale e Hispania, in G.P.BROGIOLO (a cura di), Chiese e insediamenti nelle campagne tra V e VI secolo (9° seminario sul tardoantico e l’alto medioevo, Garlate 26-28 settembre 2000) (DArch 30), Mantova 2003, in particolare pp. 10-11. 409 CANTINO WATAGHIN 1999, pp. 673-749; SFAMENI 2006, pp. 243-256. 410 SFAMENI 2006, pp. 282-283. 411 Per l’area padana: SCAGLIARINI CORLÁITA 19971, pp. 5381; per il territorio umbro: DI GIUSEPPANTONIO-GUERRINI-ORAZI 2003, pp. 1378-1420. 412 MARTELLI 1966, pp. 344, 350-351; ALLEVI 19871, pp. 919, 947 e passim ; MALPIEDI 2004, p. 91. 413 A.RASTRELLI-M.CAPPELLETTI, in Ville e Insediamenti, pp. 45-46, 63-70; DIOSONO 2012, p. 202. 414 D.MONACCHI, in Ville e Insediamenti, pp. 12-44, Tav. I a-b; P.BRACONI, La villa di Plinio a San Giustino, in P.BRACONI-J.UROZ SÁEZ (a cura di), La villa di Plinio il Giovane a S.Giustino, primi risultati di una ricerca in corso, Perugia 1999, pp. 21-42; IDEM, La pieve “vecchia” di S.Cipriano e la villa in tuscis di Plinio il Giovane. Una ipotesi di lettura, in Umbria Cristiana, II, pp. 737-747. 415 P.BRACONI- J.UROZ SÁEZ, La villa di Plinio il Giovane a San Giustino, in F.COARELLI-H.PATTERSON (a cura di), Mercator placidissimus. The Tiber Valley in Antiquity. New Research in the Upper and Middle Valley (Rome 27-28 february 2004), Roma 2009, pp. 116-119. 416 In generale, sul fenomeno del riuso funerario di edifici tardo-antichi cfr. J.LE MAHO, La réutilisation funéraire des edifices antiques en Normandie au cours du Haut Moyen Age, in M. FIXOT-E.ZADORARIO (a cura di), L’environnement des églises et la topographie religieuse des campagnes médiévales in “ACIAM” III (Aix-en-Provence 28-30 septembre 1989), Paris 1994, pp. 10-21 ; DI MICELI 2012, p. 229. 417 M.BOLLA, Le necropoli delle ville romane di Desenzano e Sirmione, in G.P.BROGIOLO (a cura di), La fine delle ville romane: trasformazioni nelle campagne tra tarda antichità e alto medioevo (I Convegno archeologico del Garda, Gardone Riviera (BS) 14 ottobre 1995, “CISBaM”, Accademia Tudertina) (DArch 11), Mantova 1996, pp. 51-71; N.MANCASSOLA-F.SAGGIORO, La fine delle ville romane. Il territorio tra Adda e Adige, in “ArchMéd” 26, 2000, pp. 315-332. 418 OCCHILUPO 2009, pp. 79-87. 419 F.DI GENNARO-J.GRIESBACH, Le sepolture all’interno delle ville con particolare riferimento al territorio di Roma, in Ph.PERGOLA-R.SANTANGELI VALENZANI-R.VOLPE (a cura di),
Note
Suburbium. Il suburbio di Roma dalla crisi del sistema delle ville a Gregorio Magno (CEFR 311), Roma 2003, pp. 123-166; SFAMENI 2006, pp. 288-289. 420 MONACCHI 1991, pp. 181-195, in particolare pp. 185-186; G.BENNI, L’organizzazione del territorio di Todi, in Todi nel Medioevo (secoli VI-XIV), (Atti del XLVI Convegno Storico Internazionale “CISBaM”, Todi 2009), I, Spoleto 2010, pp. 174-175, 188. 421 D.MONACCHI, Lugnano in Teverina (Terni). Loc. Poggio Gramignano. Saggi di scavo di una villa rustica romana, in “NSc” 1986-1987, pp. 5-35; D.SOREN, Summary of the Excavation of the Villa at Poggio Gramignano: Description and Analysis, in D.SORENN.SOREN (a cura di), A Roman Villa and a Late Roman Infant Cemetery. Excavation at Poggio Gramignano, Lugnano in Teverina, Roma 1999, pp. 45-156. 422 MONACCHI 1991, pp. 188-189, 189-195. 423 DI MICELI 2012, pp. 230-231. 424 Si vedano, in particolare, le Villae di Ghisalba (BG) e di Isola Dovarese (CR): M.SAPELLI, La villa romana di Ghisalba (BG). Campagna di scavi 1980, in “ABen” 7, 1981, pp. 143-203; L.PASSI PITCHER-F.ROSSI, Isola Dovarese (Cremona). Resti di villa rustica, in “NSAL” 1984 (1985), p. 140. Più in generale: V.M.BIERBRAUER, Situazione della ricerca sugli insediamenti nell’Italia settentrionale in epoca Tardoantica e nell’Alto Medioevo, V-VII secolo: fonti, metodo, prospettive, in “ArchMéd” 15, 1988, pp. 501-515. 425 M.PERETTI, Un nuovo edificio romano a Desenzano del Garda, in Archeologia e storia a Milano e nella Lombardia orientale (provincie di Bergamo, Brescia e Mantova), Atti del Convegno, Villa Monastero di Varenna 5-6 giugno 1971, 10-11 giugno 1972, Como 1980, pp. 125-136; SCAGLIARINI CORLÁITA 19872, pp. 191-215; E.ROFFIA, Nuove indagini nelle ville romane del Lago di Garda, in M.VERZÁR BASS (a cura di), Abitare in Cisalpina. L’edilizia privata nella città e nel territorio in età romana, in “AAAd” XLIX 2001, pp. 447-478; SFAMENI 2006, pp. 67-72. 426 M.MIRABELLA ROBERTI, Una Basilica Paleocristiana a Palazzo Pignano, in “IFulch” 4, 1965, pp. 79-90; IDEM, Scoperto il Palatium di Palazzo Pignano, in “IFulch” 8, 1969, pp. 19-23; G.MASSARI-E.ROFFIA-M.BOLLA-D.CAPORUSSO, La villa tardo romana di Palazzo Pignano (Cremona), in G.PONTIROLI (a cura di), Cremona Romana (Atti del Congresso storico archeologico per il 2200° anno di fondazione di Cremona, Cremona 1982), in “ABSLCC” XXXV 1984 (Cremona 1985), pp. 185-259; LUSUARDI SIENA 1986, pp. 227-228; E.ROFFIA, Il complesso di Palazzo Pignano: la Villa, in Milano Capitale, pp. 266-267; L.PASSI PITCHER-M.ROTTOLI, Antiquarium della Villa Tardoantica di Palazzo Pignano, Milano
2005, pp. 1-15. 427 SFAMENI 2006, p. 113. 428 SFAMENI 2006, pp. 118-119, 131. 429 L.COZZA, I recenti scavi alle Sette Sale, in “RPAA” XLVII, S. III, 1974-1975 (1976), pp. 79-101; GUIDOBALDI 1986, pp. 165-237, in particolare pp. 167-171; R.VOLPE, La domus delle Sette Sale, in Aurea Roma, pp. 159-160. 430 A questo proposito, è opportuno menzionare la testimonianza, risalente all’anno 1918, scritta dal Conte D. Pallotta il quale, nella relazione sull’edificio fatta pervenire alla Soprintendenza alle Antichità di Ancona (cass. 2 A .V., fasc. 1), afferma che “la sua cripta, il cui volto è retto da esili colonne, aveva un pavimento a disegno geometrico, ornato di pietrine di silice” (a questo proposito cfr. anche PAGNANI 1974, p. 128, nota 65; MALPIEDI 2004, pp. 19, 77, 170). Di tale decorazione musiva, oggi scomparsa, non viene, però, specificato né in quale zona della cripta doveva trovarsi, né la sua estensione. La notizia, di per sé senz’altro interessante, suscita, comunque, molte perplessità a cominciare dall’estrema vaghezza della descrizione che non consente nemmeno di stabilire con certezza l’appartenenza del presunto mosaico ad epoca romana, o più tarda (si consideri, ad esempio, il “revival” che conobbe la tecnica della decorazione musiva “all’antica” sotto il pontificato di Pasquale I - 817-824 d.C.). Risulta, inoltre, decisamente inspiegabile che mai sia venuto alla luce il ben che minimo indizio della sua esistenza, neppure durante i recenti interventi di restauro e di rifacimento della pavimentazione, escludendo anche una sua potenziale rimozione la quale avrebbe ugualmente lasciato tracce riconoscibili nella malta di allettamento. É, dunque, assai probabile che la relazione del Pallotta sia soltanto il risultato di voci raccolte sul posto, presumibilmente tramandate da secoli, prive di qualsiasi riscontro, come, del resto, lascia intuire lo stesso verbo usato al passato (“aveva”) che implica una notizia non verificata personalmente, ma desunta da altre fonti. 431 H.BROISE-J.SCHEID, Recherches archéologiques à la Magliana. Le balneum des Frères Arvales, (Soprintendenza Archeologica di Roma), Roma 1987; GROS 2001, p. 453, Fig. 458. 432 LAVIN 1962, pp. 1-28; L.BEK, Quaestiones Conviviales. The Idea of the Triclinium and the Staging of Convivial Ceremony from Rome to Byzantium, in “ARID” 12, 1983, pp. 81-107. 433 S.SCOTT, Élites, Exhibitionism and Society of the Late Roman Villa, in N.CHRISTIE (a cura di), Landscapes of Change. Rural Evolutions in Late Antiquity and the Early Middle Ages, Aldershot 2004, pp. 39-66. 434 GUIDOBALDI 1986, pp. 165-237, in particolare p. 220;
201
Note
I.BALDINI LIPPOLIS, La domus tardoantica: forme e rappresentazioni dello spazio domestico nelle città del Mediterraneo (StSc 37), Bologna 2001, p. 47; SFAMENI 2006, pp. 118-119, nota 32-33. 435 E.ARSLAN, Urbanistica di Milano Romana. Dall’insediamento insubre alla capitale dell’impero, in “ANRW” II 12, 1, 1982 pp. 179-206; M.MIRABELLA ROBERTI, Milano Romana, Milano 1984, pp. 78-84 (complesso di Via Brisa); LUSUARDI SIENA 1986, pp. 209-240; EADEM, in Milano Capitale, p. 99; E.ZANINI, in “EAM” V 1994, s.v. “Costantinopoli”, pp. 381-391, 398-400; M.C.ROSSINI, in “EAM” IX 1998, s.v. “Palazzo”, pp. 78-95; M.DAVID, “…Palatinaeque arces…” Temi di architettura palaziale a Milano tra III e X secolo, in IDEM (a cura di), “Ubi Palatio dicitur”. Residenze di re e imperatori in Lombardia, Cinisello Balsamo 1999, pp. 9-46. 436 C.RIZZARDI, I mosaici del Triclinio del palatium di Teodorico a Ravenna, in F.GUIDOBALDI-A.GUIGLIA GUIDOBALDI (a cura di), Atti del III Colloquio “AISCOM” (Bordighera 6-10 dicembre 1995), Bordighera 1996, pp. 353-361. 437 Un’utile sintesi della questione si trova in N.DUVAL, Existe-t-il une “structure palatiale” propre à l’antiquité tardive?, in E.LÉVY (a cura di), Le systeme palatiale en Orient, en Grèce et à Rome (Actes du Colloque de Strasbourg, 19-22 juin 1985), Strasbourg 1987, pp. 463-490. 438 SFAMENI 2006, p. 136. 439 DUNBABIN 1991, pp. 121-148 ; MORVILLEZ 1996, pp. 119158 ; K.M.D.DUNBABIN, Convivial Spaces : Dining and Entertainment in the Roman Villa, in “JRA” 9, 1996, pp. 66-80; IDEM 2003, pp. 169-174. 440 Per una rassegna completa si vedano MORVILLEZ 1995 e 1996 ; DUNBABIN 1991 e 2003; SFAMENI 2006, p. 97, Fig. 22; pp. 136-137. 441 ELLIS 2000, p. 67 sostiene che “…the semicircular couch at the end of the third century A.D…gave the room the three apses shape”; cfr. anche SFAMENI 2006, p. 135. 442 J.J.ROSSITER, Roman Villas of the Greek East and the Villa in Gregory of Nissa, Ep. 20, in “JRA” 1-2, 1988-1989, pp. 101-110. 443 MORVILLEZ 1995, pp. 15-26; ELLIS 2000, p. 67; SFAMENI 2006, pp. 96-101. 444 G.CAVALIERI MANASSE, in “GAL” Lombardia, Roma-Bari 1982, pp. 252-253; SCAGLIARINI CORLÁITA 1990, p. 260, n. 4 d. 2; EADEM 19972, pp. 191-215. 445 M.FORTUNATI ZUCCALA, in Milano Capitale, pp. 254, 514. 446 P.L.DALL’AGLIO, Scavi nel sito della basilica di S.Cristoforo “ad Aquilam” (loc. Colombarone – PS), in “Picus” V 1985, pp.
202
169-176; IDEM, Colombarone (PS). Basilica paleocristiana di San Cristoforo “ad Aquilam”, in “BollArch” IX 1991, pp. 33-37; IDEM, Colombarone (PS): il sito. Gli ultimi scavi, in AA.VV., Scavi e ricerche del Dipartimento di Archeologia di Bologna, Bologna 1997, pp. 79-84; G.TROVABENE, Colombarone (Pesaro): i mosaici della villa tardo-antica, in “AISCOM” V 1998, pp. 119-126; P.L.DALL’AGLIO, L’insediamento tardo-antico di Colombarone, in G.ALLEGRETTI, (a cura di), Casteldimezzo, paese di storia, Pesaro 1999, pp. 11-18. 447 A.M.SMALL-J.FREED, S.Giovanni di Ruoti (Basilicata). Il contesto della villa tardo-antica, in GIARDINA 1986, III, pp. 97-129; M.GUALTIERI-H.FRACCHIA, Excavations and Survey at Masseria Ciccotti, Oppido Lucano: Interim report 1989-92, in “EMC” 37, 1993, pp. 313-338; M.GUALTIERI, La villa romana di Masseria Ciccotti (Oppido Lucano, PZ): primi dati sul paesaggio rurale dell’Alto Bradano in età imperiale, in “BollStBas” 10, 1994, pp. 49-73; SFAMENI 2006, pp. 215-219. 448 G.VOLPE-G.DE FELICE-M.TURCHIANO, Faragola (Ascoli Satriano). Una residenza aristocratica e un “villaggio” altomedievale nella valle del Carapelle: primi dati, in G.VOLPE-M.TURCHIANO (a cura di ), Paesaggi e insediamenti rurali in Italia fra Tardoantico e Alto medioevo (Atti del Primo Seminario sul Tardoantico e l’Alto medioevo in Italia meridionale, Foggia 12-14 febbraio 2004), Bari 2005, pp. 265-298. 449 E.LATTANZI, La villa romana di Porto Saturo presso Taranto, in “Cenacolo” III 1-3, 1973, pp. 43-48; A.DELL’AGLIO, Il parco archeologico di Saturo – Porto Perone – Leporano – Taranto, Mottola 1999, pp. 33-41. 450 SFAMENI 2006, pp. 52-54; C.SABBIONE, La villa romana di Palazzi di Casignana. Guida archeologica, Gioiosa Ionica 2007. 451 Per una sintesi aggiornata si veda SFAMENI 2006, p. 35, Fig. 2; p. 47, Fig. 3. 452 SFAMENI 2006, p. 137. 453 LAVIN 1962, pp. 26-27; R.REBUFFAT, Maisons à perystile d’Afrique du Nord. Répertoire de plans publiés, in “MEFRA” 81, 1969 p. 682, n. 1; SFAMENI 2006, p. 97, Fig. 22, h-i-l. 454 Per una sua origine costantinopolitana si veda, invece, I.BALDINI LIPPOLIS, Case e palazzi a Costantinopoli tra IV e VI secolo, in “CCARB” 1994, p. 289. 455 G.L.GRASSIGLI, Il regno della villa. Alle origini della rappresentazione della villa tardoantica, in “Ostraka” 9, 1, 2000, pp. 199-226. 456 P.E.ARIAS, Il piatto argenteo di Cesena, in “ASAA” XXIV-XXVI (N.S. VII-X) 1946-1948, pp. 309-344; M.BOLLINI, Elementi antiquari nei piatti argentei romani. Considerazioni sugli esemplari di
Note
Cesena e di Augusta Raurica, in “StRom” 16, 1965, pp. 86-111; EADEM, Monumenti cesenati: i pavimenti musivi e i piatti argentei, in G.SUSINI (a cura di), Storia di Cesena, I, L’evo antico, Rimini 1982, pp. 205-210; C.COMPOSTELLA, in Milano Capitale, pp. 313, 348, n. 5b. 2b. 457 Cfr. supra, pp. 190-191 e nota 432. 458 Cfr. supra, p. 186 e nota 397. 459 P.E.ARIAS, Problematica dei “missoria” tardo-antichi, in “FR” 115, 1978, pp. 9-26. 460 AA.VV., Il tesoro nascosto. Le argenterie imperiali di Kaiseraugust, Roma-Milano 1987, p. 144 ss., n. 62. 461 F.ZAVA, Oderzo. Di un pavimento in musaico policromo, rappresentante scene di caccia, in “NSc” 1891, p. 143; D.PAPAFAVA, Frammento di pavimento musivo policromo con fattoria e scena rustica, in AA.VV., Sculture e mosaici romani del Museo Civico di Oderzo, “CMAV”, Treviso 1976, pp. 156-161; L.BERTACCHI, Architettura e Mosaico, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia. Una mediazione tra l’Eurpoa e l’Oriente dal II secolo a.C. al VI secolo d.C. (“Antica Madre”, Collana di Studi sull’Italia Antica), Milano 1980, pp. 331-332, Figg. 290, 598; SCAGLIARINI CORLÁITA 19971, p. 76. 462 DUNBABIN 1978, p. 118; SFAMENI 2006, pp. 235-241. 463 Cfr. supra, Cap. V, p. 141. 464 T.SARNOWSKI, Les representations des villas sur les mosaïques africaines tardives, Wroclaw 1978, passim e Figg. 2-5 ; N.DUVAL, L’iconographie des “Villas africaines” et la vie rurale dans l’Afrique romaine de l’Antiquité tardive, in IIIe Colloque “HAAN” (111e Congres National de Sociétés Savantes, Montpellier 1985), Paris 1986, pp. 163-176 ; S.P.ELLIS, Power, Architecture and Decor. How the Late Roman Aristocrat Appeared to His Guests, in E.K.GAZDA (a cura di), Roman Art in the Private Sphere. New Perspective on the Architecture and Decor of the domus, villa and insula, Ann Arbor 1991, pp. 117-135. 465 DUNBABIN 1978, pp. 119 ss.; pp. 252, 271, Figg. 101 (Oudna), 109 (Cartagine), 111 (Tabarka); R.BIANCHI BANDINELLI, Roma. La fine dell’arte antica. L’arte dell’impero romano da Settimio Severo a Teodosio I, Milano 1985, p. 225, Fig. 208.
203
Sezione terza L’altopiano di Colfiorito Archeologia e continuitá nell’area dell’antica Plestia. Il municipium romano e la chiesa medievale di Santa Maria: un dialogo ininterrotto
Capitolo 8 La chiesa medievale di Santa Maria di Plestia nellâ&#x20AC;&#x2122;ambito dellâ&#x20AC;&#x2122;antico tessuto viabilistico transappenninico e nel contesto architettonico-urbanistico del municipium romano.
La chiesa medievale di Santa Maria di Plestia nell’ambito dell’antico tessuto viabilistico transappenninico e nel contesto architettonico-urbanistico del municipium romano.
Tav. I Cartografia IGM 1:25.000 F. 123 II SE Colfiorito.
Le problematiche inerenti l’articolata configurazione topografica dell’altopiano plestino, nella quale si inquadrano le variegate forme di stabile occupazione antropica del territorio susseguitesi dalla prima Età del Ferro fino alla piena romanizzazione, sono state già da tempo oggetto di approfonditi studi scientifici che hanno messo definitivamente a fuoco la centralità di quest’area nel panorama dei traffici fra versante tirrenico e quello adriatico della catena appenninica umbro-marchigiana.466 Sarà, dunque, sufficiente, in questa sede, tracciare un profilo generale relativo, soprattutto, a quella antica viabilità “minore”
della zona, in parte ricalcata ancora oggi dalla rete stradale moderna, che ha consentito al monumento che ci accingiamo a studiare di inserirsi pienamente, quale polo di riferimento, nel quadro complessivo dei transiti che, per millenni, hanno attraversato in questo punto la dorsale sfruttandone la naturale conformazione idro-orografica. Uno sguardo, come si vedrà, che ci aiuta a comprendere ancor meglio le ragioni che hanno fatto, di questa piccola ed apparentemente modesta fondazione religiosa, la chiave di volta di un complesso e millenario scenario di forme di frequentazione strettamente connesse alle rotte
207
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
della transumanza, agli scambi commerciali, al passaggio di eserciti e, col trascorrere dei secoli, alle vie di pellegrinaggio in direzione di Assisi, di Roma e di Loreto. Un autentico “santuario di frontiera”, sorto sulle vestigia di una città romana, ed erede della sua storia, posto in corrispondenza di un valico che ha da sempre svolto il ruolo di luogo di incontro fra le genti e occasione di continuità culturale fra Antichità classica e Medioevo cristiano. La particolare estensione pianeggiante della depressione carsica che costituisce l’altopiano di Colfiorito,467 accompagnata dalla abbondanza di pascoli e legname e dalla presenza, un tempo, del sistema dei bacini lacustri che formavano l’antico “Lago Plestino”, teatro della famosa battaglia fra Romani e Cartaginesi durante la II guerra punica,468 giustificano il confluire in questo luogo di diversi itinerari transappenninici, intensamente sfruttati da tempi remoti. Lungo il loro cammino, infatti, il municipium di Plestia prima, e l’organismo plebano di Santa Maria di Pistia successivamente, soprattutto a partire dall’età ottoniana,469 hanno costituito uno strategico snodo viario e, quindi, una tappa obbligata in grado di accogliere e di garantire assistenza alla genti di passaggio. Ad esse, entrambe hanno offerto per secoli opportunità di incontro e di attività emporiche con le popolazioni stanziali, in particolar modo in coincidenza delle periodiche occasioni di ritrovo scandite dal calendario della transumanza. Parallelamente, però, il sito, fin dalle sue lontane origini preromane, ha rappresentato anche un imprescindibile punto di riferimento sul piano religioso, considerando l’importante funzione epicoria svolta da uno dei santuari d’altura più conosciuti nel mondo umbro-piceno: quello della dea Cupra. Sorto a partire dal V-IV sec. a.C., ed attivo almeno fino al I inoltrato,470 esso era dislocato a circa 200 m a Nord rispetto all’area oggi occupata dall’edificio cristiano, in contrada “La Capannaccia”, lungo lo stesso asse direzionale rivolto verso la SS 77 e la Valle Vaccagna. La sua notorietà, sul piano archeologico, si deve principalmente alla messe di materiale votivo, recuperato nel corso degli scavi svolti negli anni 1960, 1962, 1965 e 1967, al cui interno spiccano le dediche alla dea “Cupras matres pletinas” incise in lingua umbra su alcune lamine enee provenienti dalla stipe.471 Di estremo interesse, come espressione di specifica appartenenza al luogo a lei consacrato, è l’epiklesis “plestina” (pletinas) attribuita al teonimo
Fig. 149 Un tratto della “Via della Spina” all’imbocco della frazione di Cesi. Fig. 150 Percorso della “Via della Spina” ai piedi del Monte Trella.
208
La chiesa medievale di Santa Maria di Plestia nell’ambito dell’antico tessuto viabilistico transappenninico e nel contesto architettonico-urbanistico del municipium romano.
il quale viene, per la prima volta, associato anche all’epiteto di “madre”, al pari della dedica rinvenuta a Fossato di Vico (“Cubrar matrer”),472 che univa il carattere chtonio con quello di protettrice della fecondità e della fertilità, collegandosi al culto delle acque. Evidente, dunque, la sua posizione preminente nell’ambito del pantheon italico e, di conseguenza, la sua assimilazione alla Bona Dea (o Bona Mater) latina caratterizzata da identiche prerogative sacrali e forme di venerazione che si protrarranno, non a caso, fino alla piena romanizzazione del territorio. Tale funzione, trasferitasi col successivo passaggio al culto mariano nella chiesa di Santa Maria di Plestia,473 ha conservato tutta la sua ancestrale pregnanza se si considera il ruolo polivalente ereditato dalla fondazione cristiana. Essa si configurava, infatti, come centro di confine consacrato, non solo alla protettrice di pastori, viandanti e pellegrini, ma anche a colei che salvaguardava le terre stesse dalle periodiche variazioni dei livelli del bacino lacustre e dalle conseguenti inondazioni, regolando il flusso e il deflusso delle acque.474 La chiesa sorgeva, come in precedenza il santuario cuprense, nelle vicinanze della Via Nucerina e in prossimità della sponda meridionale del lago, a tutela del territorio, “stabilendo quasi un confine invalicabile per l’acqua” con la propria presenza475 (il lacus plestinus, infatti, prima della bonifica realizzata nel 1483 da Giulio Cesare Varano di Camerino che portò le acque a defluire nel Chienti, occupava un’ampia superficie dell’altopiano sfruttando la fascia di terra emersa fra i due bacini lacustri del “Piano del Casone”, ora prosciugato, e dell’odierna “Palude di Colfiorito”). Ma il suo compito non si limitava alla sfera devozionale. Il tempio, infatti, diventò anche complemento fondamentale dello spazio, trasformandosi, contemporaneamente, in un caposaldo topografico, in un punto di riferimento nel paesaggio e, quindi, in uno stabile richiamo per la viabilità. Quanto si è detto, pertanto, pone in tutta la sua evidenza il forte e plurisecolare carattere identitario e nodale di questa zona la quale, nel corso del tempo, ha portato alla istituzione della “Fiera di Pistia”, sicuramente erede di antiche nundinae pastorali di cui si hanno notizie scritte dalla seconda metà del sec. XV (1457), che, con alterne vicende, è continuata fino ai giorni nostri.
Fig. 151 Tracciato della “Via Plestina” lungo la sponda settentrionale della Palude di Colfiorito. Fig. 152 Uno scorcio della Palude di Colfiorito.
209
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 153 La “Via Nocerina” nei pressi della Basilica di Santa Maria di Pistia.
Fig. 154 Il tracciato della “Via Nocerina” (attuale “Strada Comunale Cimitero”) tra Monte Orve (a sx.) e Col Falcone (a dx.) in direzione della Valle Vaccagna e in prossimità dell’innesto nella SP 440 di Annifo.
210
Venendo, ora, ad una sintetica analisi della organizzazione stradale che dall’epoca preromana ha interessato, pressoché ininterrottamente, il territorio plestino fino ai secoli del Medioevo, ci limiteremo a considerare quegli itinerari che, da sempre, hanno costituito l’ossatura viabilistica lungo la dorsale umbro-marchigiana.(Tav. I) Il primo percorso che merita la nostra attenzione è rappresentato dalla Via della Spina,(Fig. 149) uno dei tragitti di più remota origine e ad elevata percorrenza in direzione dei valichi appenninici, la quale, costeggiando il monte Trella e discendendo lungo il torrente Spina,(Fig. 150) consentiva di penetrare nel territorio spoletino e, da qui, di raggiungere Roma.476 Ma il centro di Plestia si trovava direttamente connesso con la regione umbra anche grazie ad una articolata rete di diverticoli della Consolare Flaminia che fungeva, assieme alla Valtopina, da asse portante dell’intero sistema stradale secondario della regione e, più in generale, dei collegamenti fra versante tirrenico e adriatico. Uno di questi, la Via Plestina, staccatosi poco a Nord di Foligno, all’altezza di Pontecentesimo, e varcato il fiume Topino, risaliva in direzione di Pieve Fanonica per raggiungere Capodacqua. Da qui, costeggiando il Piano di Ricciano e passando per Forcatura, lambiva il lato settentrionale della Palude di Colfiorito e si portava a Plestia.477 (Figg. 151-152) Di una certa importanza, inoltre, era anche la diramazione che, salendo dalla loc. “Santa Cristina” verso il Piano di Stioie fino al monte Burano, toccava gli abitati di Fondi e Cariè giungendo, in breve, anch’esso a Colfiorito.478 Un altro importante itinerario era costituito dalla Via Nucerina(Figg. 153-154) la quale, transitando fra Monte Orve e Col Falcone ed attraversando la Valle Vaccagna e il Piano di Annifo, arrivava a Collecroce concludendosi, infine a Nocera Umbra (Nuceria Camellaria).479 Ancora dalla Flaminia, in corrispondenza di Forum Flaminii (San Giovanni Profiamma, presso Foligno), si diramava, poi, una ulteriore deviazione la quale, costeggiando il corso del fiume Menotre, giungeva a Belfiore, Madonna di Ricciano e, quindi, a Plestia. Analogamente, in direzione delle Marche esisteva un sistema di comunicazioni viario-tratturali altrettanto articolato ed efficiente impostato, principalmente, su tre assi fondamentali: il primo, passando per le località di Cesi e Mevale, penetrava nella Valnerina raggiungendo il centro di Visso.
La chiesa medievale di Santa Maria di Plestia nell’ambito dell’antico tessuto viabilistico transappenninico e nel contesto architettonico-urbanistico del municipium romano.
Il secondo, generato dalla già nominata biforcazione della Flaminia nell’agro fulginate, seguendo invece, dopo Taverne, la Valsantangelo,(Fig. 155) attraversava Pievetorina e scendeva, poi, fino all’alta Val di Chienti in cui confluiva nei pressi dell’abitato di Maddalena di Muccia. Il terzo, infine, sostanzialmente ricalcato dall’attuale SS 77,480 toccava Serravalle e proseguiva verso Tolentinum (Tolentino), coincidendo, in questo tratto, con la futura Via Lauretana. Da qui, deviava puntando su Urbs Salvia (Urbisaglia) e Pausulae (San Claudio al Chienti) per concludersi a Cluana (Portocivitanova Marche), sulla costa adriatica. Da Plestia, inoltre, partiva uno snodo diretto verso il Massiccio del Pennino e la “Bocchetta della Scurosa” (m 1152),(Fig. 156) denominata anticamente “Strada Cavalcareccia” ad indicarne la funzione non solo di via della transumanza. Il percorso attraversava il centro di Prolaqueum (Pioraco) da dove si originava il diverticolo prolaquense-septempedano, staccatosi anch’esso dalla Flaminia in corrispondenza di Nuceria Camellaria (Nocera Umbra), il quale, costeggiando il corso del Potenza, si dirigeva verso Septempeda (San Severino Marche), Trea (Treia), Ricina (Villa Potenza di Macerata) fino al litorale di Potentia (Porto Recanati) e di Ancona. É sempre all’interno di questo complesso tessuto viabilistico transappenninico che si inserisce, come accennato poc’anzi, anche la più tarda Via Lauretana. A partire dal sec. XIV, incanalando i crescenti flussi di pellegrini provenienti da Roma e da Assisi e diretti al santuario mariano di Loreto, essa rivitalizzò l’antichissimo tragitto della Via Plestina la quale, come abbiamo appena visto, muovendo dal territorio di Foligno verso l’altopiano di Colfiorito, scendeva in direzione del versante adriatico attraversando i centri di Serravalle del Chienti, Bavareto, Valcimara e Tolentino.481 Nel cuore di questo importantissimo crocevia, che per millenni ha svolto un ruolo vitale all’interno del sistema stradale umbro-marchigiano, a partire dall’inizio dell’Età del Ferro (fine X - inizi IX sec. a.C.) cominciò a prendere forma una serie di piccoli villaggi paralacustri.482 La loro frequentazione si protrasse fino alla fine del VII sec. a.C., allorché si preferì un modello insediativo d’altura caratterizzato da nuclei fortificati che sopravvissero fino al IV-III sec. a.C. quando, dopo la battaglia di Sentino (295
a.C.), l’intera zona entrò nell’orbita del controllo politico ed economico romano. Sui resti di uno degli antichi abitati protostorici, sul finire del III e gli inizi del II sec. a.C., si impiantò un primo insediamento stabile e organizzato, di tipo proto-urbano: la prima praefectura plestina la quale andò a sostituire il precedente modello abitativo paganico-vicano che aveva caratterizzato, fin dall’inizio, le forme di popolamento sparse sull’area occupata dall’esteso altopiano.483
211
Fig. 155 Il bivio fra la “Via Lauretana” (a sx.) e la “Strada di Val Sant’Angelo” (a dx.) all’altezza della frazione di Taverne. Fig. 156 Tracciato della “Strada di Bocchetta della Scurosa” (a dx.) in corrispondenza del bivio diretto al Convento di Brogliano (a sx.).
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Tav. XXII Plestia: planimetria generale della domus publica (da BONOMI PONZIOCCHILUPO- SCALEGGI 2005).
La successiva evoluzione urbanistico-architettonica dell’abitato di epoca repubblicana portò, nel corso della seconda metà del I sec. a.C., alla sua elevazione al rango di municipium, attribuito alla VI Regio augustea e ascritto alla tribù Oufentina (PLIN., NH, III, 112-114), che conobbe il suo momento più significativo, dal punto di vista socio-economico, a partire, soprattutto, dall’età cesariano-augustea. É a questo periodo che corrispondono un consistente sviluppo delle aree residenziali ed importanti iniziative di monumentalizzazione degli spazi pubblici: nel momento, cioè, in cui Plestia consolidò la sua vocazione di nevralgico snodo viario e di vitale polo commerciale rivolto verso entrambi i versanti della dorsale appenninica.484 Gli esiti di tale trasformazione edilizia, nota, al momento, per quanto concerne principalmente l’assetto del centro politico e amministrativo cittadino, risultano, però, a tutt’oggi, molto parziali e non adeguatamente documentati. Ciò a causa dei limitati e discontinui interventi esplorativi, condotti nel corso degli anni ’60 del secolo scorso
212
(1960-1962, 1967-1968) dalle Soprintendenze Archeologiche di Perugia e di Ancona e, purtroppo, privi di giornali di scavo, di fascicoli, o incartamenti d’archivio e di circostanziato materiale illustrativo, sia grafico che fotografico.485 Di grande utilità sono, però, alcuni preziosi rilievi planimetrici, fortunatamente conservati presso la Soprintendenza alle Antichità dell’Umbria e di cui ci occuperemo più avanti nel presente e nei prossimi capitoli. Essi, infatti, in parte compensano i lacunosi resoconti compilati dai responsabili delle indagini svolte sul terreno in quegli anni e la totale mancanza di notizie pubblicate su sequenze stratigrafiche, associazioni e natura delle strutture riportate alla luce. Maggiori e assai più dettagliate informazioni, al contrario, sono state rese possibili grazie alle approfondite ricerche archeologiche effettuate nell’area Sud-Ovest dell’insediamento, ad una certa distanza dalla chiesa. Qui, già nel corso degli scavi svolti nel 1962, era stata individuata ed in parte investigata una grande domus publica del tipo “ad atrio e peristilio”, decorata con ricchi pavimenti musivi e con cicli di affreschi del “II stile pompeiano” (tablinum e triclinium destro) datata al 40-20 a.C. e sopravvissuta fino ad età tardo-antica. Essa è stata, recentemente, oggetto di ulteriori esplorazioni,486 (Tav. XXII) alle quali sono seguiti importanti interventi di consolidamento e restauro (parzialmente eseguiti anche in situ) dell’esteso ed elaborato apparato ornamentale, che hanno dimostrato la sua probabile destinazione a residenza di alcune magistrature locali o di particolari istituzioni collegiali della comunità plestina. Di notevole interesse è la presenza di un Larario affiancato al complesso487 e dei resti di un probabile edificio termale, mentre alle sue spalle si estende un’area aperta identificabile, forse, con un Foro pecuario. Un organismo abitativo di simili proporzioni, ed articolato in spazi polifunzionali elegantemente arredati, ci offre, a tutt’oggi, la testimonianza più tangibile dell’affermarsi di una consolidata aristocrazia municipale. La sua esistenza trova, parallelamente, piena conferma nella pratica del rito funebre della cremazione, appannaggio delle classi elitarie, documentato da alcune deposizioni gentilizie a “bustum” (cioè con resti del rogo funerario) (T. 288-289290) accompagnate da ricchi corredi, recuperate in prossimità dell’odierno Cimitero di Colfiorito.488
La chiesa medievale di Santa Maria di Plestia nell’ambito dell’antico tessuto viabilistico transappenninico e nel contesto architettonico-urbanistico del municipium romano.
Tav. XXIII Plestia: schizzo planimetrico dell’edificio porticato intersecante l’angolo Sud-occidentale della chiesa (scavi SAU 1967-1968); sulla dx. scavi SAM 1999, 2001 (da PERNA et Alii 2011, per gentile concessione).
Altrettanto utile, al fine di una ricostruzione ancor più completa del modello di popolamento dell’areale limitrofo in epoca romana, è anche la recente scoperta (giugno-settembre 2011) nel settore settentrionale della valle posta fra gli abitati di Cesi e Popola, in loc. “Rio di Cesi” presso il viadotto “La Palude”, di un vasto insediamento rustico, edificato su una superficie di m2 1350 ai margini della Via della Spina e interessato da una lunga frequentazione compresa fra il IV sec. a.C. e la piena età imperiale, con attardamenti che giungono fino al IV-V sec. d.C. Il ritrovamento arricchisce, dunque, il panorama sulle varie forme di antropizzazione del territorio, note attraverso il sistema delle fattorie agricole stanziate lungo le principali vie di comunicazione a partire dalla seconda metà del III sec. a.C. (come dimostrano, ad esempio, i casi delle unità abitative individuate a Piano di Ricciano, Piano di Annifo e Monte di Franca).489 Pur in possesso di questi nuovi dati di indubbia rilevanza, acquisiti in virtù di una programmazione scientifica
di ampio respiro, le campagne di scavo di maggior interesse, in vista delle finalità della ricerca svolta in questa sede, quelle, cioè, condotte nelle adiacenze della chiesa medievale corrispondenti, con tutta probabilità, all’antica area forense, risultano però, come si è detto, sostanzialmente ancora inedite. Fanno eccezione brevi e generiche comunicazioni,490 assolutamente insufficienti, tuttavia, per poterne ricavare dati certi sull’assetto architettonico-urbanistico assunto da questo ampio settore della città di Plestia all’indomani della trasformazione del suo stato giuridico in centro municipalizzato. In un panorama archeologicamente così frammentario, che lascia ancora in ombra la effettiva estensione monumentale consolidatasi fra la tarda Repubblica e il primo periodo imperiale nell’ampia area occupata dall’edificio religioso, un utile contributo ci è stato fornito dagli scavi svolti negli anni 1999 e 2001 dall’Università di Macerata (Dpt. di SASA) in stretta collaborazione con la Soprintendenza Archeologica delle Marche e il Comune di Serraval-
213
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Tav. XXIV Chiesa di Santa Maria di Pistia, settore esterno Est: particolare delle sepolture e dei lacerti pavimentali cementizi a tessere musive di età repubblicana individuati a ridosso dell’abside (scavi SAU 1967-1968) (da PERNA et Alii 2011, per gentile concessione).
le del Chienti. Malgrado il carattere preliminare dell’intervento, consistente in soli tre saggi di cui due limitati ai livelli più superficiali e soltanto uno condotto scendendo a quote stratigrafiche più profonde e significative, esso è riuscito a fornire dati di notevole interesse sull’orizzonte cronologico relativo al settore in oggetto. Sono state, infatti, accertate almeno due distinte fasi di frequentazione: la più antica, inquadrabile agli inizi del II sec. a.C., suc-
214
cessiva alla costituzione della praefectura plestina, e una più recente, ascrivibile, invece, alla seconda metà del I sec. a.C., corrispondente alla istituzione municipale.491 Non è, naturalmente, questa la sede per entrare nello specifico di quanto, già compiutamente e con rigoroso metodo scientifico, è stato analizzato ed illustrato dalla “équipe” di studiosi a cui va il merito di aver dato inizio ad un percorso di ricerca dal quale tutti ci aspettiamo la continuità e gli approfondimenti che merita. Tuttavia, sarà necessario riconsiderare sinteticamente alcune delle principali risultanze emerse dalle esplorazioni, essendosi esse concentrate proprio nell’area quasi a ridosso della chiesa, precisamente a Nord-Est (saggi 1-2) e Nord-Ovest (saggio 3). Esse, in effetti, hanno suscitato stimolanti spunti di riflessione sulle vicende edilizie del nostro edificio, in relazione soprattutto al suo stretto rapporto con l’Antico assieme al quale ha convissuto fin dalla sua nascita. Si procederà, pertanto, ad una analisi dell’assetto architettonico-planimetrico generale suggerito dai pochi resti di epoca romana accertati dagli interventi degli anni ’60 e da quelli condotti ultimamente. Combinando i dati disponibili di allora e di oggi, si cercherà, così, di delineare la situazione che si presume dovesse caratterizzare questa zona nodale dell’intero tessuto urbano. Cominciamo col considerare le vaghe e, in certi casi, contraddittorie notizie riguardanti una serie di strutture riconosciute, dalle prime comunicazioni in merito (M.Bizzarri-E.Gatti), come appartenenti agli “avanzi di un tempio romano” individuati “al di sotto della chiesa” nel 1960.492 L’informazione rivela, subito, la sua dubbia attendibilità dal momento che l’allora Soprintendente alle Antichità dell’Umbria (U.Ciotti) riferisce (1964)493 innanzi tutto che i suddetti “avanzi di un tempio di età repubblicana” vennero alla luce non “al di sotto” ma “non lontano dalla chiesa di S.Maria di Pistia”; successivamente (1966)494 comunica, inoltre, che i saggi eseguiti all’interno dell’edificio medievale non furono anteriori al 1962, lasciando, quindi, intendere che i supposti resti del tempio pagano potrebbero localizzarsi non in corrispondenza dei livelli di fondazione della chiesa, ma altrove. A tale proposito, è stato proposto495 un diverso contesto edilizio, ed una diversa identificazione delle murature come parti del più antico impianto della domus publica messa in luce, come si è detto, nel settore Sud-Ovest dell’abitato.
La chiesa medievale di Santa Maria di Plestia nell’ambito dell’antico tessuto viabilistico transappenninico e nel contesto architettonico-urbanistico del municipium romano.
Ad ogni modo, che l’area in questione, al di là della scarsa chiarezza delle comunicazioni sull’argomento, sia stata, a partire da un certo momento, in parte trasformata in uno spazio sacralizzato, appare un dato ormai pressoché sicuro. A dimostrarlo concorrono, principalmente, alcune iscrizioni contenenti dediche rivolte a figure di imperatori, di cui si tratterà compiutamente nei prossimi capitoli,496 provenienti dai dintorni della chiesa fra le quali il noto cippo che celebra post mortem il divo Costantino, recuperato, a quanto pare, nei livelli sottopavimentali della navata. Di quest’ultimo, la particolare conformazione delle facce laterali sembra compatibile, come si vedrà, con la pre-
disposizione all’innesto in altra struttura pertinente ad un contesto edilizio pubblico esistente in loco ed identificabile, presumibilmente, con un edificio votato al culto imperiale; ipotesi avvalorata, peraltro, dall’istituto magistratuale dei Seviri Augustales accertato da un’altra epigrafe plestina.497 L’alta probabilità che tale ricostruzione rifletta la reale configurazione monumentale di quest’area urbana, lascia intendere il ruolo primario che essa dovette svolgere a partire dalla fase tardo-repubblicana/primo-imperiale di vita del centro civico. La conferma ci viene concretamente fornita dai vecchi scavi del 1967-68 i quali, malgrado la già lamentata mancanza di un’adeguata documentazione
215
Tav. XXV Planimetria generale delle strutture archeologiche di I e II Fase riportate in luce a Sud-Ovest e a Nord-Est della chiesa (scavi SAU/SAM 1967-2001) (da PERNA et Alii 2011, per gentile concessione).
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Tav. XXVI Plestia: planimetria generale dell’area archeologica e del territorio limitrofo su cui sono indicati gli ipotetici assi programmatici rapportati alla odierna divisione catastale (rilievo Università di Macerata, Dpt. di SASA) (da PERNA et Alii 2011, per gentile concessione).
scritta e grafica, hanno rivelato l’esistenza, di fronte alla facciata della chiesa, di una porticus,(Tavv. XXIII, XXV) individuata per la considerevole lunghezza di m 21,30, prospiciente un’ampia superficie aperta parzialmente lastricata, risalente alla c.d. fase “municipale” di Plestia ed inquadrabile nella seconda metà del I sec. a.C.498 Di essa si conserva attualmente soltanto un breve tratto di muratura pilastrata, visibile al di sotto della pavimentazione nell’angolo Sud-occidentale del monumento, che ne attraversa in diagonale la sacca di fondazione.499 Si tratta di un edificio proporzionalmente rilevante (si vedano al Cap. X le Tavv. XXXIV - XXXV), come dimostrano le dimensioni dei due tronconi di pilastri super-
216
stiti (pilastro Sud: m 1,09 x 0,98; pilastro Ovest: m 0,82 x 0,97) e del muro di collegamento (m 1,15 x 0,94) le quali ne connotano una destinazione sicuramente pubblica. Ne consegue un plausibile riconoscimento dell’ampia distesa aperta in direzione Sud-Ovest come area forense, orientata di 43,5° Nord-Ovest/Sud-Est. Tale deduzione sembra suffragata anche dalla sistemazione, lungo il perimetro, di una consistente crepido di m 1,60 e di una canaletta di scolo delle acque meteoriche a sezione semicircolare500 che testimoniano un intervento di funzionalizzazione degli spazi rinnovati attraverso dotazioni infrastrutturali destinate all’utenza cittadina. Lo sviluppo di un luogo rappresentativo nell’ambito
La chiesa medievale di Santa Maria di Plestia nell’ambito dell’antico tessuto viabilistico transappenninico e nel contesto architettonico-urbanistico del municipium romano.
della topografia urbana, avvenuto soprattutto a partire dall’età augustea, si traduce nella trasformazione di una zona originariamente periferica del primitivo insediamento pre-municipale nel cuore delle attività emporiche e politico-istituzionali coinvolgenti l’intero territorio plestino. Tale operazione si accompagna alla contemporanea rivitalizzazione anche del settore posto a Nord-Est della chiesa, prossimo al suo corpo absidale, originariamente adibito a necropoli e in parte già monumentalizzato nel corso della successiva fase repubblicana medio-tarda.(Tav. XXIV) 501 Qui, obliterate le murature più antiche (inizi del II sec. a.C.) delimitanti una probabile strada basolata, delle quali si rispetta comunque, l’originario orientamento (scavi 1999, 2001, UUSS 108-109, 216),502 viene aperta una seconda area lastricata sulla quale prospetta una serie di ambienti quadrangolari interpretati, forse, come botteghe (scavi 1999, 2001, UUSS 106-107, 118, 207, 211).(Tav. XXV) 503 I due nuclei Nord-Est e Sud-Ovest, solidali come tecniche edilizie, orientamento e quote dei livelli di frequentazione, dimostrano una precisa pianificazione urbanistica che prevedeva la creazione di spazi e strutture destinati ad uso amministrativo-commerciale, posti all’incrocio di due importanti assi stradali ortogonali,504 ricalcati oggi, quasi esattamente, dalla SP 441 proveniente dal centro di Taverne e diretta, dopo la netta curvatura a gomito disegnata in corrispondenza della chiesa, verso Colfiorito.(Tav. XXVI) La sostanziale corrispondenza, rilevata dalla recente indagine topografica svolta da Roberto Perna, fra la viabilità moderna ed antichi tracciati stradali, spesso coincidenti anche con l’attuale suddivisione catastale del territorio almeno lungo la direttrice Nord-Sud, consente di ricostruire un coerente impianto viabilistico-abitativo organizzato, a quanto pare, in base ad una sequenza di isolati regolati sul modulo del doppio actus, più la sede stradale.505 Entro tale sistema, la dislocazione della chiesa di Santa Maria di Pistia, innalzata esattamente fra i due organismi edilizi disposti quasi a racchiuderla all’interno di un ideale spazio dedicato che ne demarca i limiti Nord-orientale e Sud-occidentale, sembrerebbe essere dipesa da una meditata scelta dettata da ragioni logistiche e pratiche. Ci troviamo, infatti, in coincidenza di uno snodo stradale primario nel quale convergevano itinerari ad alta percorrenza corrispondenti, come si è dimostrato nelle pa-
gine precedenti, ad importanti rotte della transumanza transappenninica. Contemporaneamente, però, sempre da qui un tempo aveva origine anche l’antichissimo asse che conduceva in direzione Nord (loc.“La Capannaccia”) verso il venerato santuario extraurbano della dea Cupra, meta della plurisecolare devozione delle popolazioni umbro-picene. Un crocevia di tale rilevanza nel quadro dell’assetto antropico del distretto plestino, rivestiva altresì un ruolo essenziale nel controllo e nella gestione dei flussi commerciali che trovavano nello spazio forense prima, e nella chiesa medievale poi, un privilegiato polo di riferimento per l’incontro di genti e per lo smercio dei prodotti legati, principalmente, alla pastorizia e all’allevamento. Non è un caso, del resto, che proprio in corrispondenza delle percorrenze delle quali si è parlato, tangenti il fianco Sud e la facciata della chiesa, si sia deciso, ad un certo momento (sec. XV), di edificare un portico che fosse in grado di offrire riparo ai viandanti in transito e fosse anche funzionale allo svolgimento dei periodici eventi fieristici. Non può, infine, sfuggire come la coincidenza con una zona della città romana ad elevata concentrazione edilizia e la prossimità, quindi, alle rovine di importanti edifici pubblici e privati, siano stati fattori determinanti nell’offrire vantaggiose opportunità di approvvigionamento di materia prima da costruzione alle maestranze attive nel cantiere medievale. Ne è convincente prova, e lo si approfondirà nei prossimi capitoli, la straordinaria e inconsueta quantità di pezzi antichi di reimpiego, provenienti dai più disparati contesti architettonici di epoca romana, inseriti in ogni angolo dell’edificio, sia all’esterno che internamente. Ed è significativo che sia proprio la cripta, che costituisce la parte più antica dell’intera fabbrica, il luogo nel quale si registra la percentuale più alta di frammenti prelevati dai monumenti plestini, parte dei quali ha trovato una vera e propria continuità di vita nelle semplici strutture del nuovo tempio cristiano.
217
Note
466 SCHMIEDT 1966, pp. 177-210; M.GAGGIOTTI et Alii, in “GAL” Umbria-Marche, Bari 1980, pp. 104-105; E.PERCOSSI SERENELLI, Le vie di penetrazione commerciale nel Piceno in età protostorica. Nota preliminare, in “Picus” I 1981, pp. 135-144; RADKE 1991, pp. 188-189; 212-219; 225-235; BONOMI PONZI 1982, pp. 137-142; MOSCATELLI 1984, pp. 1-49; L.BONOMI PONZI, Topographic survey of the Colfiorito di Foligno plateau, in C.MALONE-S. STODDART (a cura di), “PIA” IV, Oxford 1985 (“BAR” S. 243), pp. 201-238; N.ALFIERI, La battaglia del lago Plestino, in “Picus” VI 1986, pp. 7-22; BITTARELLI 1987, pp. 583-595; BONOMI PONZI 1987, pp. 372-376; L.BONOMI PONZI, Occupazione del territorio e modelli insediativi nel territorio plestino e camerte in età protostorica, in La civiltà picena nelle Marche (Studi in onore di Giovanni Annibaldi, Ancona 10-13 luglio 1988), Ripatransone 1992, pp. 204242; EADEM, La necropoli plestina di Colfiorito di Foligno, Perugia 1997, pp. 13-19, 35; CATANI-PACI 1999, pp. 175-192; PERNA et Alii 2011, pp. 104-105. 467 I Piani di Colfiorito, o Altipiani Plestini, sono costituiti da una serie di sette conche: Colle Croce, Annifo, Arvello, Colfiorito (o Piano del Casone), Palude, Cesi/Popola, Ricciano. Essi si collocano ad una altitudine compresa mediamente fra 750 e 800 m (Valico di Colfiorito m 821 s.l.m.) e coprono una estensione di 338 ha. 468 La battaglia, svoltasi nel 217 a.C. all’indomani della disastrosa sconfitta del Trasimeno, vide contrapposti 4000 cavalieri romani, guidati da C.Centenio, e l’esercito cartaginese al comando di Maarbale: POLYB., III, 86; APP., Ann., 9, 11; NEP., Hann., 43. 469 Durante l’Alto Medioevo sassone, la pieve di Pistia offrì ripetutamente ospitalità sia all’imperatore Ottone I, negli anni 964, 967 e 969, sia a Ottone III, soprattutto nell’estate del 996, i quali scelsero, nei loro spostamenti tra Roma, Ravenna e l’Italia settentrionale, le strade che attraversavano l’altopiano plestino ritenute le più idonee per il transito del corteo imperiale. Cfr. a questo proposito P.FOSCHI, Itinerari degli imperatori sassoni (Ottone I, II, III) nelle Marche durante il X secolo, in Strade nelle Marche, II, pp. 706, 708, 712-713, 723-724; III, p. 1387, Fig. 6. 470 Sulla possibilità che il santuario plestino, al pari di quanto avvenuto anche a Cupra Maritima e Cupra Montana, abbia contribuito ad indirizzare la scelta del governo romano di trasformare l’insediamento in sede municipale, si veda G.PACI, Dalla Prefettura al Municipio nell’agro Gallico e Piceno, in IDEM 2008, p. 429. Sul santuario e il culto di Cupra si veda la recentissima sintesi in MANCA-MENICHELLI 2014, pp. 46-47. 471 Si tratta di quattro frammenti di lamine bronzee, conser-
218
vate al Museo Archeologico Nazionale di Perugia (Inv. 109860109861-109862, 113497) e databili al IV sec. a.C., le quali contengono parti di iscrizioni che ripetono, con ductus sinistrorso, una stessa formula dedicatoria ricostruibile in “cupras matres pletinas sacru esu (“[Io] sono [oggetto] sacro alla [dea] Cupra madre plestina”). Si vedano in proposito CIOTTI 1964, pp. 99-112, Figg. 1-3; G.CAMPOREALE, Note sulle dediche umbre a Cupra da Colfiorito, in “RAL” 22, 1967, p. 65 ss.; A.L.PROSDOCIMI, L’osco, in “PCIA” VI, Roma 1978, p. 630; P.POCCETTI, Nuovi documenti italici, Pisa 1979, pp. 18-19; A.E.FERUGLIO, in Antichità dall’Umbria a Leningrado, Perugia 1990, pp. 354-358, n. 6.3-6.6; RAININI 2011, pp. 258-259, 292 nota 26. Sulle dediche in lingua umbra a Cupra e sulle iscrizioni in latino arcaico rivolte alla divinità, graffite all’interno di coppette a vernice nera (III-II sec. a.C.), si rinvia a MANCA-MENICHELLI 2014, pp. 50-51. Sull’ubicazione del santuario plestino cfr. PERNA et Alii 2011, pp. 154-155, Fig. 28. Riguardo al complesso dei materiali votivi e la decorazione architettonica dell’edificio, si veda ancora MANCA-MENICHELLI 2014, pp. 26-27 (terrecotte); 48-49 (ceramica); 52-53 (bronzetti). 472 E.STEFANI, Fossato di Vico – Antiche costruzioni scoperte in contrada “Aia della Croce”, in “NSc” 1940, pp. 171-179; GIONTELLA 1995, pp. 44-45. 473 CANTINO WATAGHIN 1999, pp. 673-749; D.SCORTECCI, Trasformazione degli edifici pagani in edifici di culto cristiani, in Umbria Cristiana, I, pp. 367-392; DEL LUNGO 2001, pp. 631-689. 474 GIONTELLA 1995, pp. 40-41, 44; DEL LUNGO 2001, p. 649; IDEM 2002, p. 156. 475 DEL LUNGO 2001, p. 666. 476 BONOMI PONZI 1982, pp. 137-142; L.DI MARCO, La via della Spina: spunti storico-topografici per una ricerca sul territorio, in “Spoletum” 29-30, 1984-1985, pp. 62-72; M.SENSI, la Via della Spina, Colfiorito 1988; BETTONI-PICUTI 2007, pp. 283-295; MANCA-MENICHELLI 2014, p. 65, Fig. 5. 477 BETTONI-PICUTI 2007, pp. 351 ss.; 423-427. 478 A dimostrazione della rilevanza viabilistica della valle del Topino nel quadro dei collegamenti tra area tirrenica e adriatica in età romana, si ricordino le emergenze insediative segnalate in loc. “Casa Nova” e, più a Sud, a Capodacqua, Pontecentesimo, Colle San Martino, alla Madonna di Colfornaro, a Ravignano e in loc. “Fonte dei Lupi” (presso Liè); L.BONOMI PONZI, Ipotesi di ricostruzione storica del territorio di Valtopina in età antica, in M.SENSI (a cura di), Valtopina e il suo territorio, (Atti della giornata di studio, Valtopina 16 maggio 1987), Valtopina 1988, pp. 9-14; BETTONI-PICUTI 2007, p. 359 ss.
Note
479 BETTONI-PICUTI 2007, pp. 325-349. 480 BETTONI-PICUTI 2007, pp. 261-271. 481 F.BONASERA, Osservazioni sull’insediamento urbano nel Piano di Colfiorito, in “StPic” XXVI 1958, p. 56; SCHMIEDT 1966, pp. 192-195; L.BONOMI PONZI, La Via Flaminia e l’Umbria, in RADKE 1991, pp. 195-202; EADEM, Nuove conoscenze sulle infrastrutture della via Flaminia in Umbria, in L.QUILICI-S.QUILICI GIGLI, Strade romane: percorsi e infrastrutture, (“ATTA” 2), Roma 1993, pp. 155166; F.UNCINI, Antiche vie tra Umbria e Marche, Città di Castello 1995, pp. 74-92; L.BONOMI PONZI, La romanizzazione dell’Umbria, in L’Umbria meridionale dalla protostoria all’alto Medioevo, Terni 1996, p. 63 ss.; LORENZINI-TRIGONA 1999, p. 33; BETTONI-PICUTI 2007, pp. 149-423; RAININI 2007, pp. 22-23; IDEM 2011, pp. 136-137, 251-254. 482 BONOMI PONZI 1987, pp. 372-376; MANCA-MENICHELLI 2014, pp. 22-23. 483 L.BONOMI PONZI-A.E.FERUGLIO, Territorio di Foligno, in Ville e Insediamenti, pp. 139-184; LORENZINI-TRIGONA 1999, p. 33; PERNA et Alii 2011, p. 148. 484 Un’utile sintesi sulla evoluzione delle forme abitative della zona si trova in BONOMI PONZI 2012, pp. 290-292. 485 PERNA et Alii 2011, p. 106, nota 11; p. 109, nota 12. 486 S.OCCHILUPO, “Il superamento della crisi”. Resti di sacrificio purificatorio nel municipio romano di Plestia, in “AIONArchStAnt” n.s. 11-12, 2004-2005, pp. 69-81; L.BONOMI PONZI-S.OCCHILUPO-A. SCALEGGI, Una domus del municipio di Plestia a Colfiorito di Foligno (Perugia), in F.MORANDI-F.ROSSI (a cura di), Domus romane: dallo scavo alla valorizzazione, (Atti del Convegno di Sudi “Scavo, conservazione e musealizzazione di una domus di età imperiale: Santa Giulia”, Brescia 3-5 aprile 2003), Milano 2005, pp. 187-196; OCCHILUPO 2009, pp. 79-88; PERNA et Alii 2011, pp. 109-110, Fig. 5; MANCA-MENICHELLI 2014, pp. 36-37 (aspetti planimetrico-strutturali); 54-55 (apparati decorativi). 487 Il sacello dei Lares Publici è stato individuato sul lato sinistro del vestibolo di ingresso della domus. Alla struttura, risalente all’età tardo-repubblicana, era annesso un bothros (fossa sacrificale) presso il quale si praticava un piaculum (sacrificio espiatorio) di natura chtonia. Cfr. MANCA-MENICHELLI 2014, p. 37, Fig. 3; pp. 38-39. 488 MANCA-MENICHELLI 2014, pp. 60-61. 489 M.L.MANCA, Un sito nel territorio di Plestia, Sito U 2, in Aurea Umbria, p. 292. Sugli insediamenti rustici sparsi nel comprensorio plestino si veda MANCA-MENICHELLI 2014, pp. 62-63. 490 A.E.FERUGLIO, Colfiorito. Rassegna degli scavi, in “StEtr”
XXXVII 1969, p. 281; BLANCK 1970, p. 323; BONOMI PONZI 1987, pp. 372-376; M.SENSI, Plestia, in “EAA” II suppl., IV 1996, p. 388. 491 PERNA et Alii 2011, pp. 111-113, 143, 148. 492 PERNA et Alii 2011, pp. 106-107, nota 11. 493 CIOTTI 1964, pp. 101-104; BLANCK 1970, p. 323; BONOMI PONZI 1987, p. 373. 494 Cfr. supra, nota 491. 495 OCCHILUPO 2009, pp. 79-87. 496 CIL XI, 5618; MAC 4, inv. 734930; PL 4: cfr. infra, Cap. IX, B.-C.; Cap. X, B. 1. b. 497 CIL XI, 5620. 498 PERNA et Alii 2011, p. 144, Fig. 21; p. 149, Fig. 25. 499 Cfr. infra, Cap. X, B. 1. d. 500 PERNA et Alii 2011, pp. 149. 501 PERNA et Alii 2011, pp. 146-148, Fig. 23. 502 PERNA et Alii 2011, p. 114, Fig. 9 ; p. 116, Fig. 12. 503 PERNA et Alii 2011, p. 144, Fig. 21 e p. 149. 504 PERNA et Alii 2011, p. 152, Fig. 26. 505 PERNA et Alii 2011, pp. 153, 155, Fig. 27.
219
Capitolo 9 Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
A. La descrizione dell’edificio ecclesiale e del “sotterraneo, ossia confessione” Affrontare con il necessario rigore scientifico lo studio archeologico di una emergenza monumentale come Santa Maria di Plestia, ancora oggi fra gli edifici religiosi più sorprendenti di tutta l’estesa area regionale umbro-marchigiana per la ricchezza e la varietà di memorie antiche che racchiude nelle sue strutture, significa anche confrontarsi con quei pionieri della ricerca storico-antiquaria che per primi, con coraggio, intelligenza e, a volte, con ammirevoli intuizioni, si sono inoltrati nei terreni inesplorati di un remoto passato sulle orme labili di antiche civiltà, restituendoci testimonianze che, sovente, il tempo ha ormai, oggi, definitivamente cancellato. É a questi studiosi, non di rado dimenticati o lasciati in ombra malgrado il loro indiscutibile contributo all’apertura di nuovi orizzonti di ricerca, che appartiene l’abate Giovanni Mengozzi, una delle figure intellettualmente più vivaci nel panorama culturale del Settecento fulginate.506 Originario della Repubblica di San Marino, dove nacque il 3 agosto 1726, dopo gli studi di retorica e filosofia intrapresi a Urbino, proseguiti a Fermo e conclusi nuovamente nella città montefeltrina presso il Collegio dei Nobili delle Scuole Pie, si trasferì definitivamente a Foligno nel 1752, su invito del vescovo mons. Mario Antonio Maffei, dove ricoprì la carica di vice-Rettore del Seminario diocesano e quella di Censore della “Accademia Fulginia”. Qui morì il 21 gennaio 1783.507 Intensa fu la sua attività di ricercatore soprattutto nel campo della numismatica e dell’archeologia, disciplina, quest’ultima, nei cui confronti, tuttavia, più volte dichiarò la propria scarsa competenza. In effetti, non può sfuggire la limitata dimestichezza dimostrata, in special modo, nel settore degli studi epigrafici riguardo ai quali, pur mosso da inesauribile curiosità e ardente passione, non esitò a confessare che “…poca o niun pratica ho io di tali cose”.508 A testimonianza dei suoi profondi interessi in materia, ci rimangono, oltre alle pubblicazioni, anche un ricco archivio epistolare509 relativo alla fitta rete di corrispondenze intrattenute principalmente con due insigni eruditi pesaresi: in particolare con Annibale degli Abbati Olivieri Giordani (1708-1789), il celebre autore dei
Fig. 157 Frontespizio del volume “De’ Plestini Umbri” di GIOVANNI MENGOZZI (1781).
“Marmora pisaurensia notis illustrata”, e con Giovan Battista Passeri (1694-1780) il quale, assieme all’Olivieri, aveva intuito l’appartenenza al ceppo linguistico umbro, e non etrusco, delle famose “Tabulae Iguvinae”. Fra le due monografie, non postume, entrambe stampate negli ultimi anni della sua vita, rispettivamente nel 1775 (“Sulla zecca e sulle monete di Foligno. Dissertazione epistolare”, Bologna, Stamperia di Lelio della Volpe) e nel 1781 (“De’ Plestini Umbri, del loro lago e della battaglia appresso di questo seguita tra i Romani e i Cartaginesi”, Dissertazione dell’abate Giovanni Mengozzi p[astore] a[rcade], socio etrusco cortonese ec., Foligno, Stamperia di Feliciano Campitelli), è naturalmente la seconda(Fig. 157) a rivestire, sul piano storico-archeologico, un ruolo basilare per lo studio della romanizzazione del territorio plestino.510 In particolar modo, risultano di notevole interesse le preziose informazioni da lui raccolte direttamente sul posto in seguito alle ripetute e minuziose ricognizioni
221
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
svolte nell’area un tempo occupata dall’antica città romana. Esse vennero, in parte, estese anche ai “…luoghi intorno che fatti sono delle sue ruine”, ma il suo più assiduo impegno di studioso si concentrò, soprattutto, sull’analisi delle sopravvivenze architettonico-epigrafiche individuate nelle strutture della chiesa di Santa Maria di Pistia, in diversi casi, oggi, andate disperse e non più rintracciabili. L’opera, evidentemente apprezzata se pochi anni dopo la morte del Mengozzi venne ristampata all’interno del tomo XI dell’opera “Delle Antichità Picene” di Giuseppe Colucci, edito a Fermo nel 1791, si compone di sette capitoli, denominati “articoli”, per un totale di 86 pagine. Il più stimolante, per gli argomenti che vengono affrontati in questa sede, è senza dubbio l’“articolo” II che reca il titolo “L’ubicazione di Plestia dimostrasi colle Lapide, e con altri avanzi dell’Antichità” (pp. XIX-XXXVII). Invertendo l’ordine dell’A., che esordisce parlando subito delle iscrizioni latine verso le quali dichiara di nutrire il maggior interesse, è preferibile per noi partire, invece, dai paragrafi VII e VIII (pp. XXVIII-XXIX). In essi vengono infatti descritte, seppur succintamente, la chiesa e la cripta che costituiscono i due contesti architettonici all’interno dei quali si trovavano conservate, un tempo, le diverse epigrafi plestine. Il Mengozzi, dunque, inizia la sua trattazione accennando alla “…Chiesa, che tuttavia sussiste nel Piano detto volgarmente della Madonna di Pistia, ch’è l’unico più rimarchevole avanzo di questo luogo. Le quattro Colonne che sostengono il Portico della facciata anteriore, formate sono di pezzi di altre Colonne fra loro disuguali, la maggior parte di Breccione; e veggonsi tratto tratto ne’muri intorno così grossi macigni, e pezzi così ben lavorati, che fanno senza dubbio conoscere esser reliquie d’altre Fabbriche assai più antiche, ed assai più magnifiche” (p. XXVIII). La descrizione, come si può notare, si mantiene molto sul vago per quel che riguarda il perimetro dell’edificio, dove viene soltanto segnalata la presenza di grossi conci lapidei, alcuni dei quali “così ben lavorati”, da identificarsi, presumibilmente, con quelli della parete Nord: la più regolare dal punto di vista della tecnica costruttiva e dell’assemblaggio dei pezzi. Qualche precisazione in più è riservata al portico in facciata (mentre viene inspiegabilmente del tutto ignorato quello lungo la parete Sud) in cui sono presenti quattro
222
colonne (in realtà pilastri) innalzate riutilizzando frammenti di spoglio eterogenei, “in maggior parte di Breccione”. Quest’ultimo è, senza dubbio, da riconoscersi nella brecciola calcarea a clasti bianchi su fondo bruno-rosato, della quale ci si occuperà nei prossimi capitoli, che costituisce il materiale da costruzione più comune e caratteristico dell’edilizia plestina di epoca romana. Decisamente più dettagliato, invece, è il successivo paragrafo (VIII) dedicato alla cripta in cui è possibile cogliere alcune importanti informazioni inerenti il suo assetto strutturale originario, parzialmente modificato nel corso degli ultimi tre secoli di vita del monumento. É utile, a questo scopo, riportare integralmente le parole del Mengozzi il quale ci dice che “La parte però, che in questa Chiesa merita la maggior riflessione è il Sotterraneo, ossia Confessione, in cui si discende per due anguste porte, che sono laterali ad una larga Scala posta in mezzo, onde si sale al Presbiterio. La volta di questo Sotterraneo vien sostenuta da quattordici belle, e tutte uguali Colonne parte di pietra bianca, parte in Breccione, e taluna con capitello di marmo; dodici disposte in tre ordini, e due sole in cima, dove il muro piega in semicircolo, e dove d’innanzi ad un picciol forame, che solo dà scarso lume al Sotterraneo, vedesi un Ara antica tutta di un pezzo, lunga palmi quattro onc. quattro e mezzo, e un palmo meno larga; in cui però non apparisce alcun segno, che mai vi sia stata incastrata la Pietra consecrata colla picciola Lipsanoteca, ma sibbene un buco sull’estremità, dove al più potea esser situata una picciola croce. Le pareti intorno sono tutte incrostate di belle pietre ben lavorate a scalpello, ma che certamente fatte non furono per quel Sotterraneo. Imperciocchè oltre i Frammenti e le Lapide, di cui si è parlato, la quarta delle quali era eziandio trasversalmente posta negli anni addietro, osservansi quinci e quindi tanti altri pezzi di marmo, anche con cornice, tagliati poscia senza riguardo per incastrarli nel muro, che per poco, che uno rifletta, compariscono Frammenti di marmi più grandi, e d’Iscrizioni a bello studio spezzate per acconciarle al bisogno. Laonde porto oppinione, che dove si potesse scavare, o trar fuori le pietre, di cui sono le mura vestite, potrebbonsi agevolmente scoprire altri più pregevoli ed interessanti monumenti, giacchè tutto all’intorno spira la più rimota antichità”. Terminata la lunga citazione, occorre, a questo punto, ripercorrere passo dopo passo l’intero brano del Mengozzi, soffermandoci, con maggior attenzione, su quei
Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
passaggi che ci descrivono aspetti contestuali o dettagli strutturali oggi modificati o, addirittura, cancellati dagli interventi umani succedutisi nel volgere del tempo. Tralasciando la mancata distinzione fra colonne e semicolonne addossate alle pareti (le prime in numero di sei, le seconde di otto), suscita immediato interesse l’annotazione relativa alla qualità dei materiali, il “Breccione” e la “pietra bianca” dal momento che quest’ultima, oggi, si riconosce a fatica, e solo in parte, unicamente nelle semicolonne B, E, G, H, a causa dei diffusi annerimenti, di cui si tratterà in altra sede, provocati da estese colonie di muffe che hanno in più riprese aggredito le superfici dei fusti. Compatibile, invece, con quanto è ancora al momento rilevabile, è l’accenno ai “capitelli di marmo” che insistono sulla colonna 1 e sulle semicolonne C-D-E, G-H. Ciò che colpisce di più, però, è dove il Mengozzi, accennando a “dove il muro piega in semicircolo”, cioè all’absidiola, ci informa che “…d’innanzi ad un picciol forame, che solo dà scarso lume al Sotterraneo, vedesi un Ara antica tutta di un pezzo…”. Appare evidente che con il termine di “picciol forame” viene definita la stretta finestrella aperta al centro della curvatura absidale; ma è singolare che questa venga indicata come l’unica che “dà scarso lume al Sotterraneo”, lasciandoci intuire che le altre due, che adesso vediamo inserite lungo le pareti Nord e Sud, all’epoca non esistevano e che esse siano state, quindi, aperte successivamente per aumentare l’illuminazione naturale dell’interno. Tale deduzione, che ci restituisce, quindi, l’immagine di un ambiente più buio e contraddistinto da un impianto edilizio maggiormente compatto, trova conferma analizzando alcuni interessanti dettagli strutturali dell’ipogeo e delle murature esterne che denunciano evidenti interventi posticci. Il primo, il più significativo, riguarda il procedimento costruttivo applicato in corrispondenza delle due finestre laterali,511 in modo particolare in quella meridionale. Nella monofora Nord(Fig. 158) il paramento murario, privo di materiale antico di reimpiego, si presenta all’esterno realizzato con pietrame molto irregolare. Esso è costituito da piccoli masselli assai eterogenei ed evidentemente raccogliticci, assemblati, spesso, a getti di rinzaffi cementizi che non nascondono anomale cuciture con la muratura adiacente. Ciò produce, in tal modo, un
Fig. 158 Chiesa, fianco Nord: particolare della finestrella esterna. Fig. 159 Cripta, parete Nord: particolare della finestrella interna.
223
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 160 Chiesa, fianco Sud: particolare della finestrella esterna. Fig. 161 Cripta, parete Sud: particolare della finestrella interna.
effetto tessiturale radicalmente diverso rispetto alle sequenze più uniformi e continue del perimetro ecclesiale, riscontrabili principalmente proprio lungo il fianco settentrionale. Analogo aspetto si ripropone anche all’interno della cripta(Fig. 159) dove la compagine muraria, in coincidenza dell’apertura finestrata, si discosta in modo macroscopico dal resto della superficie. Qui, cesure e integrazioni lapidee o a malta grezza si rivelano in aperta dissonanza rispetto alle più ordinate commessure ottenute fra i pochi conci antichi di reimpiego conservatisi ancora in situ. Per quanto concerne la monofora Sud,(Fig. 160) invece, le operazioni di modifica sono riconoscibili con maggiore evidenza esternamente dove, in modo altrettanto net-
224
to, si distingue lo scasso della parete originaria, mal risarcito con pietrame di piccola taglia misto a scaglie di mattoni e frammenti di coppi cementati “alla buona”. In aggiunta, si riconosce, nella parte superiore, il segno nitido della spaccatura geometrica operata nel paramento dove, in epoca moderna, è stato forzatamente inserito un trave ligneo, in aperto contrasto con il contesto edilizio originario. Maggior cura, al contrario, si può notare all’interno(Fig. 161) dove lo sguancio destro è stato ricavato rimodellando opportunamente un concio antico già inserito nella muratura, in modo da ottenere una sorta di pseudostrombo. Non altrettanto, tuttavia, è stato fatto anche sul lato opposto, tagliato, al contrario, ad angolo retto, probabilmente a causa dell’assenza di materiale disponibile idoneo a tale tipo di trasformazione. Il perché di tutto questo, e il quando avvenne, sarà oggetto di approfondimento più avanti (Cap. X B. 3. b., e.-f.), quando si affronterà anche il caso particolare della monofora Sud, in realtà divenuta tale in seguito alla trasformazione di una originaria porticina, sempre posticcia, aperta, in un primo tempo, in questo punto. Entra nel merito di questo discorso anche la diversa incidenza delle formazioni algo-lichenose ravvisabili su pareti e colonne maggiormente esposte in direzione della originaria unica monofora absidale. A mostrare i segni più evidenti della aggressione da parte degli agenti climatici e delle escursioni termo-igrometriche veicolate dall’apertura verso l’esterno è, infatti, soprattutto il settore orientale dell’ambiente, con i diffusi annerimenti presenti sulle due colonne 5 e 6 e sulle facce Est delle colonne 2-3-4.(Fig. 162) Minori danni e degenerazioni superficiali (riconoscibili come più recenti osservando la colorazione ancora verdastra delle alterazioni tessiturali di superficie) si notano, invece, su fusti e pareti posti sulla traiettoria dei flussi d’aria provenienti dalle altre due finestre. I loro effetti negativi, in termini di variazioni climatico-ambientali e dei tassi di umidità, risultano, infatti, attenuati da una loro azione più limitata nel tempo. Un’ultima indiretta conferma della diversa strutturazione perimetrale dell’ipogeo ci proviene, infine, dalle difficoltà incontrate dal Mengozzi nella lettura dei testi epigrafici a causa della eccessiva scarsità di luce, come egli stesso dichiara in una lettera del 27 febbraio 1780 in-
Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
viata ad Annibale degli Abbati Olivieri Giordani:512 segno di condizioni di illuminazione assai diverse rispetto a quelle odierne. Ma torniamo, ora, alle parole dello studioso quando, subito dopo, ci parla di “…un Ara antica tutta di un pezzo”, collocata “dinnanzi al picciol forame”, della quale fornisce le misure in lunghezza (“lunga palmi quattro onc. quattro e mezzo”) e in larghezza (“un palmo meno larga”). L’altare, oggi rimosso dalla sua sede originaria, malgrado la succinta descrizione, è sicuramente identificabile con il grosso rocchio di colonna in breccia calcarea porosa color bianco sporco, sormontato da una larga lastra modanata del medesimo materiale ma di consistenza più compatta, ancora collocato, fino alla metà, circa, degli anni Sessanta del secolo scorso, esattamente dove lui lo vide. Successivamente venne trasferito in chiesa nell’angolo sinistro del presbiterio, nella posizione che tuttora occupa.(Fig. 163) 513 La conferma la ricaviamo da una vecchia fotografia risalente a quegli anni514 nella quale si scorge l’Ara sistemata fra le due colonne anteriori dello spazio absidale. Anche le misure in palmi e once calcolate da Giovanni Mengozzi corrispondono precisamente, salvo trascurabili scarti millimetrici, a quelle reali della lastra, l’unica parte che risulta presa in considerazione, mentre al fusto della colonna non viene dedicato il minimo accenno: (dimensioni reali: lungh. m 0,96; largh. m 0,73; misurazioni del Mengozzi: lungh. 4 palmi + 4 once e ½ = m 0,97; largh. 1 palmo in meno = m 0,75; calcoli effettuati sulla base della corrispondenza fra 1 palmo = m 0,22 e 1 oncia = m 0,02).515 Tali dimensioni sono, inoltre, perfettamente compatibili con l’ampiezza dell’intercolumnio, pari a m 1,35, e con la profondità di m 1,66 dell’absidiola destinata a contenere il monumento. Qualche perplessità sorge di fronte alla precisazione riguardante l’aspetto monolitico del manufatto (“un Ara antica tutta di un pezzo”): in realtà, esso è il risultato del montaggio di due distinti frammenti di spoglio, aventi diversa origine e destinazione, e adattati a funzioni liturgiche secondo un’usanza non infrequente nell’architettura religiosa medievale. É possibile che, con queste parole, lo studioso abbia voluto riconoscere come altare soltanto l’elemento orizzontale della mensa che, in effetti, è quello principale nello svolgimento del rito cristiano, e non il supporto che lo sostiene.
Fig. 162 Cripta: le alterazioni prodotte dai fattori microclimatici sulle colonne rivolte a Est. Fig. 163 Antica colonna con lastra modanata di spoglio un tempo utilizzata come altare all’interno della cripta e oggi sistemata sopra il presbiterio.
225
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Rispondente a verità, inoltre, è anche l’assenza sul piano d’appoggio delle tracce di interventi di modifica o di adattamento ad altri usi. Non sembra, tuttavia, condivisibile la conclusione alla quale egli giunge, e cioè che la grossa lastra non servisse ad accogliere la “pietra consecrata colla picciola Lipsanoteca” ma che fosse, invece, utilizzata come vero e proprio altare, dal momento che poco più avanti viene avanzata l’ipotesi che essa sostenesse addirittura una croce.516 Appare evidente, infatti, che le dimensioni, soprattutto in altezza (m 1,65),517 rendono abbastanza improbabile tale possibilità. Assai più verosimile, al contrario, è che la sua funzione fosse proprio quella di sostegno o di una statua di culto, o di una pala dipinta oppure di una teca porta reliquie, più o meno come accaduto dopo il suo trasferimento in età moderna sopra il presbiterio della chiesa.518 Dunque, il “buco sull’estremità”, effettivamente presente a circa metà del lato lungo oggi addossato alla parete, altro non è, con ogni probabilità, che una originaria mortasa di imperniamento di sagoma oblunga irregolare (lungh. m 0,055), ora parzialmente cementata. Essa era prevista per contenere una grappa metallica del tipo “a olivella” che serviva ad assicurare la lastra ad un’altra componente architettonica nell’ambito di un contesto edilizio di epoca romana. A testimoniarci che fin dalle origini questa “Ara antica” di spoglio avesse una precisa destinazione ostensoria e non liturgica, concorre anche un brano contenuto in una Visita Pastorale svolta, nella Basilica di Pistia, nell’ottobre del 1612 dal Vescovo nocerino Virgilius Florentius:519 l’unica conservata contenente qualche esplicito accenno alla cripta. In essa leggiamo, infatti, che “Sub altare predictum seu presbiterium adest quedam Cappella fornicata et columnis substentata in qua adest altare lapideum et icona magnam significans et ostendens vetustatem cuius Cappella. Parietes incrustatione et dealbatione indigent ideo eas reaptari vel portas per quas ad ipsam Cappellam habetur ingressus…”. Da tali parole si evince con chiarezza, oltre alla segnalazione dello stato di degrado delle murature e dei due ingressi laterali, l’esistenza di un altare in pietra e di una immagine sacra postavi al di sopra che testimoniano l’antichità (“magnam vetustatem”) dell’intero ambiente sotterraneo. Notizie, queste, che trovano parziale riscontro in un rapido passaggio riportato, diversi decenni più tardi, nel resoconto di un’altra Visita Pastorale,520 avvenuta nel giugno del
226
1670, nel quale il Vescovo Iohannes Amati afferma che “…in altari inferiori sunt imagines…”. Il Mengozzi si sofferma poi, subito dopo, sulle quattro pareti, “…tutte incrostate di belle pietre ben lavorate a scalpello”, dove osserva qua e là “…tanti altri pezzi di marmo, anche con cornice, tagliati poscia senza riguardo per incastrarli nel muro…[e] Frammenti di marmi più grandi, e d’Iscrizioni a bello studio spezzate per acconciarle al bisogno”. Non è difficile riconoscere in questo sintetico brano, malgrado manchino riferimenti ad una precisa collocazione dei pezzi, la descrizione delle pareti Sud, Est e in parte Nord. Sono queste, infatti, a rivelarci ancora oggi, specie nelle fasce inferiori, una selezione più accurata dei conci di spoglio, per lo più in pietra calcarea bianco gesso sporco (e non di marmo), in qualche caso con tracce tuttora distinguibili di riseghe e modanature. Quella orientale, inoltre, nel segmento iniziale alla sinistra dell’abside, e il tratto mediano del muro Nord conservano frammenti ben visibili di originarie stele anepigrafi (si vedano più avanti le Figg. 235 e 244) munite anche di incorniciatura, mentre non si trova più al suo posto un’iscrizione che, a fine Settecento, era sistemata ancora “…nella sotterranea [chiesa] a mano sinistra presso terra, che prima del nuovo riattamento era trasversalmente collocata” (par. IV, p. XXIII).(Fig. 167) Si tratta di un esemplare (n. 4), di cui si parlerà nelle prossime pagine, il quale, a detta dello studioso, doveva essere appoggiato sul pavimento nel settore sinistro della cripta, non come elemento reimpiegato ma come frammento erratico qui trasferito in un momento imprecisato. Veniamo, però, ora ad esaminare attentamente quella che possiamo considerare la parte principale dell’opera che l’erudito abate sanmarinese dedica alle antichità plestine, e più in particolare a quanto la chiesa di Santa Maria, ancora in quegli anni, custodiva al suo interno: il materiale epigrafico. Esso, come dichiara egli stesso, costituisce l’argomento privilegiato dei suoi interessi antiquari e dei suoi studi, nonostante le difficoltà incontrate nella lettura e nello scioglimento dei testi. A tale riguardo, oltre alle circostanziate descrizioni riportate nei paragrafi II-VI del libro, disponiamo anche di una parte dell’epistolario relativo ai frequenti scambi di informazioni intrattenuti con il già nominato Olivieri Giordani ed intensificatisi negli anni 1780-1781, alla vigilia dell’andata in stampa della “Dissertazione”.
Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
L’A., dunque, esordisce affermando che “Tra le antiche Iscrizioni, che da tutte le Città dell’Umbria raccolse Ludovico Jacobilli in un suo MS., che conservasi nella Biblioteca di questo Seminario, quattro ne osservai tratte dalle ruine di Plestia, nella cui Chiesa sotterranea egli confessa, che a suo tempo esistevano” (par. II, p. XIX). Il Mengozzi, tuttavia, non si fida di quanto trascritto un secolo prima dallo Jacobilli, e di conseguenza della sua fonte primaria, Durante Dorio,521 per cui ritenendo giustamente “Il non essere questo Scrittore… sempre esattissimo in tutto ciò, che riporta, forse perché sovente fidar si dovea delle altrui relazioni, mi diè impulso di esaminar da me stesso i Marmi, di cui parla, seppur avvenuto mi fosse di più rinvenirli”. E fu decisione corretta ed opportuna, dal momento che “Oltre le quattro Iscrizioni, che riporta il Jacobilli nella sua Raccolta MS., altre Lapide, e frammenti mi riuscì di scoprire nella Chiesa di Plestia, e ne’ luoghi vicini” (par. III, p. XX). Inoltre, avendo modo di visionare direttamente e più volte i documenti epigrafici già editi, gli fu possibile giungere ad una loro interpretazione spesso più aderente al vero, anche se, con molta onestà, lamentando il loro pessimo stato di conservazione, confessa che “…per quanta diligenza io mi abbia usato, non mi lusingo di averle esattamente trascritte”. A ciò si aggiunga che, nel corso delle difficili operazioni di decifrazione testuale dei vari frammenti, egli non potè avvalersi “…né dell’altrui scorta, perché niun Raccoglitore, per quanto è a mia notizia, le riferisce, né delle Copie del Jacobilli, che fors’ebbe d’altra mano, perché a dir vero sono così mostruose, e lontane dal sentimento espresso ne’ Marm, che giustamente può dirsi, che nec pes, nec caput uni Reddatur formae” (Ibidem), non risparmiando, come si può notare, al dotto collega seicentesco quest’ultima pungente critica. Entrando, con il capitolo successivo, nel merito specifico delle epigrafi elencate nell’ “Articolo II” della sua opera, il Mengozzi avverte, infine, il lettore che “…riporterolle adunque mutilate quai sono, e senza prendermi il menomo pensiere d’illustrarle…perché riferendole altro disegno non ho, che quello di far conoscere essere stata un giorno nel sito della presente Pistia la Città Plestina” (Ibidem), senza sottrarsi, comunque, al tentativo di svolgere, per ciascuna di esse, un minimo di analisi filologica e di avanzare qualche prudente ipotesi interpretativa. Pur non fornendo, purtroppo, tranne in un caso, alcuna descrizione delle caratteristiche formali, decorative e di-
mensionali dei supporti, si vedrà come lo studioso, fortunatamente, non tralasci di precisare di ogni pezzo l’esatta collocazione, sia nell’ambito della chiesa o della cripta, sia dei contesti edilizi delle località contermini alla città romana da lui prese in considerazione.
B. “L’ubicazione di Plestia dimostrasi colle lapide, e con altri avanzi dell’antichitá”. Analisi dei documenti epigrafici e del materiale archeologico rinvenuto attorno alla chiesa Su un argomento di così vasta portata, coinvolgente uno dei giacimenti archeologici più significativi nel quadro del complesso processo di romanizzazione del territorio umbro-marchigiano, l’opera di Giovanni Mengozzi, compreso il ricco epistolario, costituisce uno dei pochi, o forse l’unico concreto punto di riferimento sul piano dell’erudizione storiografica locale e della ricerca antiquaria a cui rivolgerci per ricavarne informazioni e testimonianze su un passato che ormai il tempo ha in gran parte cancellato o reso evanescente. Nessun’altra fonte scritta sulle antichità plestine, al di là delle sopraccitate sommarie rassegne epigrafiche seicentesche, ci è pervenuta. Nemmeno sotto forma di quelle semplici inventariazioni, tipiche della prassi diocesana delle Visite Pastorali,522 dalle quali capita di ricavare, non di rado, indizi utili di natura archeologico-monumentale altrimenti irreperibili sul terreno o nelle frammentarie sopravvivenze sparse nel territorio. I documenti epigrafici raccolti e pubblicati, poi, nella sua monografia, o resi indirettamente noti tramite la fitta corrispondenza intrattenuta con l’Olivieri Giordani, non sono numerosi. Essi costituiscono, comunque, un piccolo corpus di notevole interesse data la loro rarità e le notizie che ci forniscono su una realtà sociale ed istituzionale, nel suo insieme ancora vaga e scarsamente nota. Si tratta di otto esemplari, di cui quattro conservati, a quei tempi, dentro la chiesa di Santa Maria di Pistia, e altrettanti ancora riutilizzati in edifici dislocati nei dintorni. Tutte le iscrizioni si trovano incluse nel vol. XI, parte II, fasc. I del CIL (1901) ai numeri 5618-5619-5620-56215622-5623, 5625-5626. Di queste, attualmente, ne sono sopravvissute, però, soltanto tre (due esposte nel Museo Archeologico di Colfiorito (CIL XI, 5621 – inv. 734907;
227
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
CIL XI, 5623 – inv. 734895, e una custodita in un Deposito della Soprintendenza Archeologica dell’Umbria collocato all’interno l’area archeologica di Plestia : CIL XI, 5620 – inv. 134914). Delle altre cinque, invece, si sono perse irrimediabilmente le tracce. Di queste ultime, tra l’altro, unicamente la n. 5619 fu effettivamente esaminata de visu da Eugen Bormann quando la inserì nella succitata edizione del 1901 del CIL da lui curata, mentre le rimanenti, evidentemente a quell’epoca già scomparse, furono semplicemente registrate, riportando le originarie trascrizioni del Dorio, dello Jacobilli e del Mengozzi. Queste ultime, quindi, non poterono essere sottoposte ad una accurata revisione critica dei testi i quali, come si vedrà, non di rado risultano male integrati, con vistose inesattezze, dai tre studiosi (in particolar modo dai primi due) e travisati nei contenuti. Di particolare interesse, allo scopo di ricostruire le vicende che hanno accompagnato le lapidi depositate all’interno dell’edificio ecclesiale fino alla fine del XVIII sec., è quanto ci riferisce il Bormann523 nella parte introduttiva che precede il paragrafo dedicato alle epigrafi plestine. Lo studioso ci informa che “…fuerunt in ipsa aede plestina quae loco antiqui oppidi superest dicta S.Mariae di Pistia n. 5619. 5620. 5621. 5623; hi autem hoc saeculo [XIX, n.d.a.], scilicet cum aedes profanaretur, traslati sunt Castel Dignano et inserti in pariete et limine aedium parochi”. Quando, dunque, nel corso dell’Ottocento la chiesa fu lasciata in stato di abbandono, le antiche iscrizioni, giacenti incustodite in diversi punti dell’edificio e della cripta e, quindi, esposte ai rischi di possibili furti o di atti di vandalismo, vennero trasferite, in un momento imprecisato, nella sede parrocchiale del vicino centro di Dignano. Qui rimasero fino agli anni ’60 del secolo scorso allorché vennero restituite allo Stato e fecero, così, ritorno a Colfiorito (notizia riferita da Laura Bonomi Ponzi) trovando sistemazione in uno dei Depositi di proprietà della Soprintendenza Archeologica dell’Umbria, posto di fronte alla chiesa. Tutte, tranne una, la n. 5619, della quale non si è saputo più nulla, malgrado le insistenti ricerche svolte, anche di recente, da chi scrive. Per quanto riguarda, invece, gli esemplari che Giovanni Mengozzi riuscì a rintracciare sotto forma di reimpieghi in alcuni edifici della zona, sembra che, dopo di lui, nessuno ne abbia più avuto notizia. Anch’essi pertanto rientrano oggi, purtroppo, nel novero delle tante dispersioni
228
che per secoli hanno afflitto il patrimonio archeologico del territorio. 1. La prima iscrizione “che forse a tempo del Jacobilli era nella Chiesa sotterranea, io la trovai mal posta in terra a mano destra nell’entrare in Chiesa”.524 Il testo, trascritto in maniera assai confusa in una prima lettera del 27 febbraio 1780 inviata ad Annibale Olivieri,525 ci viene riproposto, in forma un po’ modificata, in una seconda lettera del 26 ottobre del medesimo anno526 e fedelmente riportato anche nella “Dissertazione”: C.AFFIPIO C.F.OVF [- - -]ALI. IIII VIR QUAEST. C.AFFIPIUS MARTIALIS PATRI PIENTISSIMO [- - -] VIT L’integrazione che troviamo suggerita in CIL XI, 5619, sempre disposta su cinque righe, appare, però, radicalmente diversa per quanto riguarda la l. 1, la parte iniziale della l. 2 e la forma onomastica del gentilizio alla l. 3, restituendoci la seguente dedica: /[Alli] EIO C… AE[d(ili)]?, IIII VIR(o), QUAEST(ori) C(aius) ALLIEIUS MARTIALIS PATRI PIENTISSIMO [Pos]UIT Le notevoli discrepanze fra i due scioglimenti sono, molto probabilmente, imputabili ai danni subiti dall’iscrizione, rilevati dallo stesso Mengozzi il quale afferma come “… il primo verso colle prime lettere del secondo sia poco men, che affatto corroso” (p. XX). L’esemplare, come si è detto, oggi purtroppo non risulta più rintracciabile, né esistono altri documenti d’archivio o trascrizioni grafiche ad esso pertinenti, per cui è impossibile verificare l’attendibilità dell’interpretazione alternativa proposta nell’edizione berlinese del 1901 del Corpus. Ammettendone, comunque, una maggiore affidabilità sul piano filologico rispetto alla trascrizione settecentesca, risulta senz’altro interessante, oltre al riconoscimento di una gens Allieia altrimenti sconosciuta a Plestia (se non,
Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
forse, attraverso un’iscrizione un tempo nella Parrocchiale di Dignano di cui ci occuperemo più avanti), soprattutto il cursus honorum di un suo esponente di spicco. Costui avrebbe, infatti, rivestito le cariche di edile, quattuorviro e questore, percorrendo una brillante carriera nell’ambito istituzionale. Il documento, inoltre, costituisce una significativa conferma dell’esistenza, nell’apparato amministrativo municipale plestino della prima età imperiale, della funzione di edile. Quest’ultima risulta già nota, infatti, grazie ad un frammento epigrafico, che nomina il magistrato Titus Appius, reimpiegato attualmente in una abitazione privata in località Cesi,(Fig. 164) una piccola frazione del Comune di Serravalle del Chienti posta a pochi Km di distanza dalla sede del municipium romano. Sulla base della decorazione superstite nel fastigio timpanato, sembra proponibile un datazione compresa tra la fine del I sec. a.C. e gli inizi del successivo (codice di riferimento PLC 1).527 La sicura destinazione funeraria della dedica, oltre alla verosimile integrazione conclusiva del verbo posuit, sembra trovare ulteriore conferma nel commento del Mengozzi relativo alla supposta presenza dell’ adprecatio iniziale in forma siglata: “Sembra ancora vedersi qualche traccia del M. in fronte dell’Iscrizione, nel qual caso dovrebb’esservi stata prima l’altra siglia D., cioè Diis. Manibus” (p. XXI). 2. Riguardo alla seconda iscrizione,528 assente nell’opera dello Jacobilli, non del tutto chiara risulta la sua originaria ubicazione: mentre, infatti, nel suo trattato il Mengozzi sostiene che “Nel muro sinistro, che divide la Chiesa dal Presbiterio presso la Scala, per cui a quello si ascende, è stato collocato il seguente Marmo, che prima era nella Confessione…” (p. XXI), nella succitata lettera del 26 ottobre 1780, invece, afferma di averla “…trovata nella chiesa sotterranea di Plestia”, come indirettamente affermato anche nella precedente del 27 febbraio, senza alcuna menzione della scala presbiteriale. Comunque, anche in questo caso, al pari del primo esemplare, il contesto secondario di giacitura rimane ancora una volta la cripta. Il testo viene riportato in tre diverse versioni: una prima volta sempre nell’epistola n. 47 del 27 febbraio529 dove però, suo malgrado, lo studioso “per mancanza di lume, perché posta in un sotterraneo”, non riuscendo a leggerne le parole, dichiara di essere stato costretto a trascrivere “la
Fig. 164 Epigrafe del magistrato Titus Appius murata in un’abitazione privata della frazione di Cesi (ruotata di 90° in senso antiorario).
229
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
nuovo in una lettera, inviata ancora all’Olivieri il 30 novembre sempre dello stesso anno, 532 dove viene parzialmente corretta la l. 2 in …ARNIÆ. SECUNDAE. C. L. …O… risolta, anche in questo caso, in maniera incerta e lacunosa. L’esemplare,(Figg. 165 a-b) uno dei tre scampati alla dispersione e attualmente conservato nel Museo Archeologico di Colfiorito (inv. 734907), contiene, in realtà, un testo assai diverso rispetto a quanto riportato dal Mengozzi, anche nel suo ultimo documento epistolare. Si tratta di una stele in pietra calcarea color bianco sporco, compatta e granulosa (codice di riferimento MAC 1), fratturata in diagonale alla base e in parte danneggiata sul lato destro (h. m 0,655; largh. m 0,59; spess. max. m 0,135; h. lettere: cm 4,8-5/4,4-4,6/4,2), la quale contiene, all’interno del fastigio superiore (h. m 0,17), la seguente formula dedicatoria disposta su tre righe (CIL XI, 5621): T(ito) LICONIO SERAPIONI PAT[ri] / ARNILÆ SECUNDÆ C(aio/aius) LICONIO(s) POU ?[---filio/filius] / T(itus) LICONIO(s) T(iti) F(ilius) OU(fentina tribu) VIII VIR POSU[it/erunt b(ene) m(erentibus)]
Fig. 165 a Epigrafe di Titus Liconios Serapio (Colfiorito, Museo Archeologico).
copia che me ne ha inviata un prete di montagna che mostra anch’egli di aver pochissima domestichezza colle lapidi”. Il risultato, come c’è da aspettarsi, si traduce, in questo caso, in una lettura molto approssimativa, e in diversi punti arbitraria, dell’iscrizione530 la quale viene riproposta, successivamente, nella epistola del 26 ottobre,531 secondo la seguente formula dedicatoria, parzialmente modificata ma pur sempre errata e inserita poi alla p. XXI della “Dissertazione”, che recita ..CONIO. SERAPIONI… ….ARNIÆ. SECUNDAE. C. F. LICONIO. T. F. OVF. VI. VIR… Una terza ed ultima edizione, infine, la ritroviamo di
230
Le lesioni coinvolgenti il margine destro rendono incerta l’integrazione testuale, specialmente al termine delle ll. 2 e 3. Non è chiaro, infatti, se il nome del terzo personaggio che conclude la l. 2, Caio Liconio, vada letto al nominativo, qualificandolo, quindi, come codedicante assieme al fratello Tito, oppure al dativo, identificando, invece, anch’egli, assieme al padre nominato nell’intestazione, come membro familiare a cui la dedica è rivolta. L’iscrizione, a destinazione funeraria, commemora, dunque, la gens Liconia di origine plestina, come conferma la sua appartenenza alla Tribù Oufentina, e ricorda, in modo particolare, la carica di ottoviro (e non seviro come riportato, al contrario, dal Mengozzi) rivestita da Titus Liconios, figlio del primo intestatario Tito Liconio Serapione e della moglie Arnila Seconda: una magistratura di tipo collegiale, attestata anche nel vicino territorio dei Sabini (Amiternum, Nursia, Trebula Mutuesca).533 A Plestia, essa, sembra essere stata all’origine del successivo quattuorvirato (CIL XI, 5619: epitafio di Caius
Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
Fig. 165 b Particolare del campo epigrafico e dei motivi ornamentali.
Allieius Martialis) il quale risulterebbe interpretabile, quindi, come evoluzione istituzionale dell’antecedente organismo amministrativo.534 Particolarmente interessante, per quanto concerne l’aspetto tipologico-decorativo del nostro manufatto, è la presenza, al di sotto del comparto superiore occupato dall’iscrizione, di quattro lacunari poco profondi di forma quasi quadrata (m 0,265 x 0, 245) e separati fra loro da un listello a sezione rettangolare largo m 0,065.(Fig. 165 b) Ognuno di essi è delimitato, lungo il perimetro interno, da una semplice cornicetta piatta appena rilevata, di larghezza identica a quella del listello esterno, la quale circoscrive una superficie di m 0,22 x 0,20. Al centro è racchiuso un grande fiore sbocciato, con ampia corolla a petali sommariamente accennati da sottili incisioni irregolari e originati da un pistillo a bottone stilizzato. I quattro motivi floreali, tutti del diametro di m 0,175, si differenziano, tuttavia, per l’andamento variamente frastagliato del profilo e, in parte, per la diversa con-
cezione plastica dei petali; dettagli, questi, ignorati dal Mengozzi il quale si limita ad un vago ed approssimativo accenno descrittivo in cui riferisce semplicemente che all’iscrizione “…unite sono in altrettanti quadrati con bella cornice distinti quattro gran Rose” (p. XXII). Affrontando, più nel particolare, l’analisi di questo noto repertorio decorativo, appare del tutto evidente la sua diretta derivazione da modelli greci di antichissima data nei quali l’elemento floreale-vegetale si carica di pregnanti connotati simbolici riferibili alla dimensione ctonia e funeraria.535 Esso ricorre con crescente frequenza in età ellenistico-romana, tanto negli spazi metopali dei fregi dorici di altari e stele, 536 quanto nella ornamentazione dei lacunari inseriti nelle soffittature piane delle edicole funerarie di ambito italico centro-meridionale e Nord-adriatico in uso fra il I sec. a.C. e la prima età imperiale.537 Il nostro esemplare, come si è detto, si caratterizza per la presenza di almeno due differenti tipologie di mo-
231
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 166 Epigrafe di Tarquitius Gelos (Colfiorito, Museo Archeologico).
tivi rosacei, riconoscibili con maggior chiarezza negli scomparti di sinistra, i meno compromessi da abrasioni e rotture: quella a petali cuoriformi (la prima in alto) e lanceolati (quella sottostante). La prima si compone dei canonici otto petali marginati e innervati, radialmente stretti l’uno all’altro attorno ad un bottone centrale, trasmessi da noti prototipi repubblicani di tradizione laziale (sarcofago di Scipione Barbato sulla Via Appia;538
232
fregio del podio dell’ “aula absidata” del Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina539) e ricorrenti anche nei fastigi dorici a rosoni di area medio-adriatica, spesso a destinazione sepolcrale, della fine del I sec. a.C. e dei decenni iniziali del successivo. Al riguardo, assai indicativi sono i possibili accostamenti con produzioni umbro-picene da Norcia, 540 Martinsicuro541 e Castrum Novum.542 Ancor più stringenti risultano, però, le affinità con esemplari da Ricina, 543 al cui interno è da segnalare, in particolr modo, un frammento544 appartenente, in origine, al sistema cassettonato di un’edicola funeraria, il cui ornato è assimilabile al nostro non solo tipologicamente, ma anche per una cifra stilistica di evidente matrice popolare. La decorazione, infatti, risulta in entrambi caratterizzata da una resa semplice e, nell’insieme, piuttosto piatta e schematica, all’insegna di un gusto disegnativo che riduce i dettagli a sottili incisioni tracciate con approssimazione. Aspetto, questo, che ci riporta nel solco di un artigianato locale di modesto livello qualitativo, operante tra il terzo quarto del I sec. a.C. e l’inizio del successivo. Analogo orizzonte stilistico ci viene suggerito anche dal secondo soggetto floreale, forse il più frequente, che, nel manufatto plestino, si configura a duplice corolla, ciascuna composta da sei petali piuttosto allargati e carnosi percorsi da una triplice sottile nervatura, secondo uno schema trasmesso da modelli attestati nell’architettura urbana del primo periodo augusteo (Tempio di Saturno, 20 a.C.).545 Pur con qualche variante nella sagomatura diversamente lanceolata dei petali e nelle dimensioni del bulbo centrale, questa tipologia ricorre abbastanza spesso ancora una volta nella regione picena dove si segnalano, in particolare, i confronti più interessanti provenienti sempre da Ricina e da Cupra Maritima.546 Il motivo dell’ anthemion con petali ellittici ad estremità appuntite conosce, comunque, numerose applicazioni anche in area umbra (Assisi, Spello, Bevagna), 547 centro-italica (Isernia)548 e Nord-adriatica (Rimini, Aquileia)549 in un arco di tempo compreso tra la tarda Repubblica e il primo Impero. L’omogeneità dell’inquadramento cronologico, certificato, come si è visto, da una considerevole disparità di contesti archeologici sparsi su settori regionali di note-
Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
vole estensione, riceve piena conferma sia dai caratteri paleografici dell’iscrizione, sia, soprattutto, dal riferimento al ruolo istituzionale rivestito da uno dei defunti. L’orizzonte temporale, oltre a trovare un termine post quem nella dichiarazione di appartenenza della gens Liconia alla Tribù Oufentina a cui la città venne assegnata a partire dall’avanzato III sec. a.C., viene circoscritto, infatti, con discreta approssimazione dalla struttura amministrativa urbana basata sull’ottovirato. Come si è accennato in precedenza, esso rinvia, probabilmente, al momento in cui Plestia fu praefectura, prima, cioè, della sua elevazione a municipium avvenuta tardivamente nel corso della seconda metà del I sec. a.C.550 Se, dunque, l’excursus suggerito dalla decorazione floreale della nostra epigrafe dilata i termini di datazione, estendendoli dal periodo tardo-repubblicano fino all’età augusteo-tiberiana, la particolare menzione della magistratura prefettizia aiuta, dal canto suo, a restringere il campo entro una fase premunicipale. Il suo inquadramento può, quindi, risalire alla metà, circa, del I sec. a.C., ma non molto prima, proprio in considerazione dei caratteri stilistico-tipologici dell’ornato. 3. “Non meno maltrattata dalle ingiurie del tempo è la terza Lapida, che giace mal incastrata nel pavimento in un angolo del Presbiterio, di cui più non potendosi leggere le prime ed ultime lettere, amo meglio di lasciare in bianco ciò, che non so vedervi, che prendere ad indovinare”. Con queste parole, nelle quali è possibile cogliere tutta l’onestà intellettuale dello studioso nel voler astenersi da soggettive interpretazioni testuali, il Mengozzi (p. XXII) ci presenta la terza epigrafe riportandone la dedica priva di integrazioni lessicali e onomastiche: A. ROVIIIO. GEL…. ..FANTARIO. POSVI ..OBLICIVS. ANTIOC.. . ATER. ET. ROBV…. La medesima trascrizione viene comunicata all’Olivieri nelle due lettere a lui inoltrate il 26 ottobre e il 30 novembre 1780551 in una forma sicuramente rivista e corretta rispetto ad una precedente redazione, sempre trasmessa all’erudito pesarese il 27 febbraio di quell’anno, 552 assai
diversa e piena di arbitrarie integrazioni. Quest’ultima, infatti, si era dovuta basare esclusivamente su quanto riportato nel manoscritto dello Jacobilli553 dal momento che, come afferma lo stesso Mengozzi, in un primo tempo la presente iscrizione, assieme ad un’altra, “…non potei trovarla nella mia andata a Pistia”. Nonostante le successive ricognizioni sul posto gli abbiano consentito di rintracciare il manufatto e di giungere ad una lettura un po’ più corretta del contenuto, rimane, comunque, evidente la sostanziale incertezza interpretativa da parte del nostro abate. Pur non avventurandosi in azzardate ricostruzioni delle parti più lacunose, egli dimostra, però, di non padroneggiare la materia al punto da giungere a scioglimenti lessicali convincenti e attendibili. Il suo rimane, ad ogni modo, un tentativo di lettura testuale decisamente più riuscito e scrupoloso rispetto a quello dimostrato, “colla solita sua franchezza”, un secolo prima da Ludovico Jacobilli. Come accaduto per l’iscrizione n. 2, anche in questo caso siamo, fortunatamente, in possesso dell’originale che si trova, assieme alla precedente, conservato nel Museo Archeologico di Colfiorito (inv. 734895). L’esemplare, (Fig. 166) documentato già in CIL XI, 5623, è costituito da una stele (h. m 0,80; largh. m 0,535; spess. m 0,184; h. lettere: cm 5,5/4,9/5/5-5,4; alle ll. 1 e 4 T allungata: h. cm 6,5, 6,3) a forma di rettangolo irregolare, interessata da danni particolarmente sensibili lungo il lato destro e sul retro. Il profilo superiore presenta rotture meno gravi che ne hanno, comunque, compromesso in parte l’estremità sinistra e il margine destro. Il materiale lapideo appare identico a quello impiegato nella dedica a Liconio Serapione, in questo caso forse di qualità un po’ inferiore (codice di riferimento MAC 2), con estese abrasioni superficiali che hanno determinato la conseguente perdita di evidenza e leggibilità di buona parte del testo epigrafico. Quest’ultimo, disposto su quattro righe ed inciso a solco sottile entro uno specchio privo di marginatura, contiene la seguente dedica: [ -T ]ARQUITIO GEL[oti] [in]FANTARIO, POSUIT [ -P ]OBLICIUS ANTIOC[us] [ fr ]ATER ET ROBUS[ta]
233
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 167 Epigrafe di Titus Lavvius Gratus (Colfiorito, Depositi della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria).
Al di sopra dell’iscrizione, circa ¼ della superficie appare vuoto, forse volutamente risparmiato per inserirvi una adprecatio della quale, però, non si conserva più alcuna traccia. La metà inferiore, invece, si presenta solo rozzamente bocciardata in quanto destinata al suo inserimento nel terreno. La stele, ancora una volta a destinazione sepolcrale, è dedicata all’infantarius Tarquitius Gelos, un liberto incaricato della cura dei fanciulli, da parte del fratello Poblicius Antiocus e di Robusta, probabilmente sua consorte. La condizione servile, tanto del defunto, quanto dei dedicanti, traspare in modo esplicito dal cognomen del primo (Gelos) di chiara matrice greca, oltre che dal tipo
234
di professione esercitata, e dal gentilizio Poblicius del secondo, caratteristico dei liberti che un tempo erano stati schiavi pubblici, accompagnato, per di più, dal cognomen Antiocus di origine orientale. Anche la figura della presunta consorte (Robusta) sembra rientrare nell’ambito di una onomastica libertina per il probabile riferimento alle qualità fisiche della donna. Non contrasta, del resto, con la modesta condizione sociale dei personaggi nominati anche la qualità piuttosto scadente dell’epitafio. Ne riceviamo conferma, sia dalla natura del supporto lapideo, costituito, come si è detto, da un calcare abbastanza grezzo, grossolanamente lavorato in superficie e privo di qualsiasi tipo di animazione plastico-decorativa, sia
Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
dal testo, redatto in forma essenziale e senza alcun particolare impegno calligrafico di cui è testimone anche l’approssimazione dell’impaginatura, con lettere non sempre ordinatamente allineate. La datazione che si propone si colloca nell’ambito del I sec. d.C. inoltrato. 4. Con la quarta iscrizione,(Fig. 167) ci troviamo di fronte a quella che “…fra tutte può dirsi la meno pregiudicata” (p. XXIII) e che ancora “leggesi senza difficoltà” (lettera del 26 ottobre). Al contrario delle tre precedenti, all’epoca tutte sistemate all’interno della chiesa, la presente, come si è poco sopra anticipato, “…trovasi nella sotterranea [chiesa] a mano sinistra presso terra, che prima del nuovo riattamento era trasversalmente collocata” (Ibidem). Purtroppo, sicuramente in seguito ad uno degli spostamenti da Plestia a Dignano, e viceversa, avvenuti fra Otto e Novecento, l’esemplare si è spaccato in diagonale riportando una profonda frattura che, pur non avendo fortunatamente compromesso la leggibilità del testo, ha, comunque, coinvolto alcune lettere, specie a metà della l. 1. Esse sono, ad ogni modo, ricostruibili senza particolari difficoltà grazie anche alla fedele trascrizione fatta a suo tempo da Giovanni Mengozzi. Questo è stato, probabilmente, il motivo per cui, in occasione della recente apertura del Museo Archeologico di Colfiorito (agosto 2011), trasferendovi, come si dirà più avanti, alcune delle epigrafi plestine fino a quel momento conservate in un deposito della Soprintendenza Archeologica dell’Umbria, si decise di lasciare al suo interno il manufatto in questione al fine di non esporlo a rischiose rimozioni che avrebbero potuto pregiudicarne l’integrità. Non a caso, infatti, ancora oggi il pezzo, mai sottoposto ad interventi di restauro, giace nel suddetto magazzino tenuto insieme da un cavo d’acciaio trasversale che, in qualche modo, garantisce la coesione delle due metà. Anche in questo caso si tratta di una stele (inv. 134914; h. m 0,743; largh. m 0,768; spess. m 0,268; h. lettere: cm 8/6,5/6,5/5,4) ricavata dalla classica pietra calcarea locale, già classificata a proposito dei precedenti esemplari n. 2 e 3 (codice di riferimento DEPL 1). Oltre alla lunga e profonda spaccatura mediana, altre rotture più o meno estese di minore entità coinvolgono tutto il lato
destro, l’angolo inferiore sinistro e il margine esterno del fastigio sovrastante l’iscrizione. Qui, è riconoscibile la probabile traccia di una deliberata scalpellatura, forse dovuta ad un ripensamento del lapicida intenzionato, in un primo momento, ad inserire qualche segno epigrafico (adprecatio ?) o parte di una ornamentazione. Numerose striature di origine naturale attraversano da sinistra a destra la superficie, mentre lungo lo spessore sinistro e superiore si evidenzia un accurato intervento di bocciardatura. Lo specchio epigrafico è inquadrato da una cornice, distanziata dal margine esterno di m 0,08, composta da un listello piatto e da una gola, entrambi di m 0,027 e con uno spessore medio di m 0,054: l’ampiezza del campo occupato dall’iscrizione risulta, così, complessivamente di m 0,67. Il testo (CIL XI, 5620), disposto su quattro righe, viene correttamente trascritto, come di seguito, dal Mengozzi, senza alcuna variazione anche in tutte e tre le già citate lettere del 1780, 554 a riprova del suo discreto stato di conservazione fin dalle origini il quale non impedì, comunque, a Ludovico Jacobilli di travisare, in parte, anche in questo caso la lettura delle ll. 1 e 2:555 GAVIA. L. TVENDA T. LAVVIO. GRATO VI. VIR. AVG. M. CONIVGI. POSV
†
Non sembrano sussistere dubbi sulla interpretazione di questa formula dedicatoria di una liberta in memoria del proprio coniuge, che così può leggersi : GAVIA (Gaiae) L(iberta) TUENDA T(ito) LAVVIO GRATO VI VIR(o) AUG(ustali) M(erenti) CONIUGI POSUIT L’unica incertezza, segnalata anche dallo studioso, riguarda l’integrazione della lettera M al termine della l. 3 che, in alternativa, potrebbe leggersi come abbreviazione del termine Monumentum, con riferimento alla lapide tombale. Rimane, tuttavia, assai più probabile la prima interpretazione del termine come participio con valore aggetti-
235
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 168 Epigrafe di Cornelia Sabina (?) (Colfiorito, Museo Archeologico).
vale declinato al dativo (Merenti), attribuito dalla moglie alle virtù del proprio marito Lavvio Grato, secondo quanto proposto anche nella trascrizione riportata nel CIL. A parte il tipo di carica istituzionale ricoperta dal defunto, su cui ci soffermeremo tra poco, meritano di essere segnalati alcuni aspetti lessicali e onomastici dell’iscrizione, parte dei quali può, in qualche misura, orientarci verso un plausibile inquadramento cronologico del manufatto e l’ambito sociale di sua pertinenza. In merito ai primi, ci è soprattutto d’aiuto l’analisi di alcune caratteristiche paleografiche dell’epitafio, a cominciare dall’introduzione, alla l. 1, del segno (C inversa angolata), oggi leggibile con difficoltà a causa della spaccatura trasversale che ne invade il campo, ma riportato concordemente tanto nella “Dissertazione” e nell’epistolario del Mengozzi, quanto nell’edizione del CIL. La lettera è stata utilizzata con funzione di abbreviazione convenzionale del nome, al genitivo, della padrona (Gaia) alla quale era legata la figura della dedicante. Al termine della l. 4, invece, troviamo inserito un nesso fra I e T (†) in finale del verbo posuit. Tale soluzione, assieme alla precedente, sembra suggerire una datazione
236
entro la prima metà del I sec. d.C. Passando a considerare, ora, il secondo aspetto, è utile soffermarsi innanzi tutto sul cognomen della dedicante la cui forma al gerundivo (Tuenda) rientra in una tipica categoria di personali latini (Amandus/a, Perseverandus/a ecc.) che, come quella participiale, designa personaggi di condizione servile; status condiviso, a quanto pare, anche dal coniuge, il cui cognomen Gratus lo qualifica, con ogni probabilità, come liberto della gens Lavvia. Ciò, peraltro, non contrasta con la magistratura sacerdotale di Seviro Augustale da lui rivestita, la quale era prevalentemente appannaggio proprio dei liberti in ambito municipale. Concorre a delineare un profilo dei due personaggi menzionati dall’iscrizione anche il modo in cui è stata impostata la redazione del testo. Qualche interessante spunto di riflessione ci viene suggerito a tale proposito dalle dimensioni dei caratteri epigrafici, decrescenti in altezza dalla l. 1 (cm 8), alle ll. 2-3 (cm 6,5), fino alla l. 4 dove le misure si riducono a cm 5,4. Ciò sembrerebbe denotare la volontà di porre in risalto il nome di Gavia Tuenda, la moglie, senza alcun tentativo di tacerne lo stato sociale, anzi quasi orgogliosamente dichiarandolo senza limitarsi ad un cognomen già di per sé inequivocabile, ma addirittura sottolineandolo attraverso l’esplicita menzione della propria condizione di persona non libera: (Gaiae) L(iberta). Per quanto concerne, invece, la qualità della compilazione, non sembra che questa sia stata affidata ad un lapicida di prim’ordine: lo dimostrano sia l’impaginatura piuttosto stentata della l.1, dove è riconoscibile una evidente contrazione delle ultime tre lettere del cognome, le quali non risultano di conseguenza equidistanziate rispetto al resto della formula onomastica, al fine di poter rientrare all’interno della cornice, sia la collocazione scentrata delle successive ll. 2 e 3. Comunque, la modanatura che inquadra lo specchio epigrafico, semplice ma tracciata con regolarità di tratto, e la terminazione apicata di alcune lettere capitali sono dettagli che denotano una certa preoccupazione estetica ed uno sforzo calligrafico che, in parte, riscattano il mediocre livello complessivo dell’iscrizione. Ci troviamo, pertanto, di fronte ad un prodotto uscito sicuramente da una bottega locale, scarsamente specializzata ma capace, ad ogni modo, di attingere a modelli
Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
più impegnativi e di giungere ad uno “standard” qualitativo dignitoso, commisurato alle limitate pretese delle classi medio-basse della comunità plestina. Un’analoga valutazione circa la volontà, dimostrata da parte di alcuni esponenti del ceto libertino, di conferire una forma di decoro al proprio epitafio ricorrendo a redazioni graficamente abbastanza accurate delle dediche funerarie, sembra potersi avanzare anche a proposito di un frammento epigrafico inedito (n. 5), sempre di provenienza plestina e da poco esposto nel Museo Archeologico di Colfiorito(Fig. 168) (inv. 734927). Nonostante la sua estraneità al corpus raccolto dal Mengozzi, si è ritenuto opportuno introdurlo in questa sede, in considerazione dell’argomento qui affrontato. Si tratta di un esemplare molto lacunoso (h. m 0,316; largh. m 0,385; spess. m 0,111; h. lettere: cm 5,3/5/4,5/4, alla l. 3 I longa montante), realizzato in un bel calcare micritico biancastro (codice di riferimento MAC 3), che riporta, in caratteri regolari e apparentemente ben impaginati, il seguente testo: [- - -]RINO [- - -]AE A. L. SA [- - -]ONIUGI EIUS [- - -]S LIBERTUS integrabile, forse, in una formula del tipo:556 [- - -] [- - -] [- - -]RINO [Corneli]AE A(uli) L(ibertae) SA [binae c]ONIUGI EIUS [- - -]S LIBERTUS [B(ene) M(erentibus) POS(uit)] É plausibile riconoscere nella lapide una iscrizione tombale di discreta qualità riferita a due coniugi, entrambi di condizione servile, al cui nome è impossibile risalire se non, molto ipoteticamente, a quello della donna (Cornelia Sabina). La cronologia può essere fissata intorno alla seconda metà del I sec. d.C. Tornando, ora, nuovamente alla stele di Titus Lavvius Gratus, l’aspetto che senza dubbio suscita maggior inte-
resse, al di là dei caratteri più specificatamente epigrafici, è, però, costituito dal riferimento al tipo di magistratura rivestita dal titolare all’interno del municipium romano: quella di Sevir Augustalis, cioè di addetto al culto imperiale.557 La rilevanza di tale carica va valutata da due diverse angolazioni: da un lato essa, assieme a quella degli octoviri, documentata dalla dedica a Titus Liconios (doc. 2), dei quattuorviri e dei quaestores, menzionate nel cursus honorum di un membro della gens Allieia (doc. 1), degli aediles, magistratura rivestita sempre da quest’ultimo e da Titus Appius, per concludere con quella di curator rei publicae, ossia di Commissario Imperiale, assegnata al nobile camerte Caius Veianius Rufus,558 contribuisce, infatti, a meglio definire uno spaccato sull’assetto istituzionale raggiunto dalla città di Plestia. Si arricchisce, in tal modo, il panorama sul processo evolutivo maturato al suo interno nell’ambito dell’organizzazione politico-amministrativa, a partire dalla fase pre-municipale fino almeno al I sec. d.C. Nel contempo, però, la particolarità del sevirato augustale implica l’esistenza di un luogo ufficialmente sacralizzato, con annesso un complesso edilizio di ampia risonanza pubblica destinato allo svolgimento dei rituali previsti per la venerazione del Princeps. In un simile contesto sembra, quindi, trovare la sua piena legittimazione monumentale e funzionale il celebre cippo con dedica al Divo Costantino, cui spetterà una dettagliata trattazione nel prossimo capitolo. È del tutto plausibile, infatti, che quest’ultimo possa essere appartenuto ad una delle strutture pertinenti a un edificio religioso gestito da un selezionato numero di membri della comunità municipale investiti di questa specifica carica sacerdotale, del quale ad un certo punto entrò a far parte anche il nostro Tito Lavvio Grato. Considerando, dunque, come assai probabile la presenza, nell’ambito del tessuto urbano, di un apposito spazio votato a questa particolare forma di devozione collettiva, non è escluso che al suo interno si possa contestualizzare anche un ristretto gruppo di dediche imperiali (in realtà due, oltre a quella di Costantino), di cui una scomparsa e l’altra frammentariamente conservata, che vengono, di seguito, presentate. La prima (n. 6) è costituita da una iscrizione molto lacunosa, di cui oggi si sono perse le tracce, che il Mengozzi annovera fra quelle da lui rintracciate in alcuni edifici situati negli immediati dintorni di Plestia. Il testo (CIL XI,
237
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
na molto fine (codice di riferimento MAC 4), contiene un testo, redatto in lettere capitali separate da hedera distinguens, che recita: [Im]P(eratori) CAE(sari) [di]VI ANTO[nini fil(io)] [div]I HADR[iani nep(oti)] -----
Fig. 169 a Epigrafe con dedica all’imperatore Marco Aurelio (o Lucio Vero) (Colfiorito, Museo Archeologico).
5618), scritto “in lettere assai grandi”, si poteva leggere “in una pietra in terra” collocata, a quei tempi, “nel Presbiterio della Chiesa Parrocchiale di Colfiorito”.559 Le poche lettere conservate, ….IVO…./….MODO…., disposte a quanto pare su due righe e ragionevolmente supplite dallo studioso in (D)IVO / (COM)MODO, appartenevano ad una dedica in onore dell’imperatore Lucio Aurelio Commodo (180-193 d.C.) inserita, con tutta probabilità, in un monumento celebrativo sicuramente di particolare rilevanza architettonica, come lasciano intuire tanto l’autorevolezza del personaggio nominato, quanto la sua divinizzazione, quanto, infine, le dimensioni dei caratteri epigrafici definite “assai grandi”. Analoga sede e destinazione possono assegnarsi, verosimilmente, anche ad una breve porzione di epigrafe (n. 7), proveniente da un punto imprecisato dell’area forense antistante la chiesa,560 ancora inedita e conservata nel Museo Archeologico di Colfiorito (inv. 734930) (h. m 0,28; largh. 0,286; spess. m 0,143; h. lettere: cm 9/6,4/5,2). La lapide,(Fig. 169 a) realizzata in un bel marmo Lunense a gra-
238
L’imperatore al quale è rivolto il breve elogio è identificabile quasi certamente con Marco Aurelio (161-180 d.C.), meno probabile che si tratti di Lucio Vero (161-169 d.C.), in onore, quindi, di “…quell’Augusto, di cui altre memorie si hanno fra i pochi avanzi di Plestia” (Mengozzi, p. XXIV). Il manufatto, assieme al precedente e all’esplicito riferimento del Mengozzi ad altri documenti, purtroppo a noi ignoti, pertinenti a questo personaggio, sembra condurre all’ipotesi dell’esistenza a Plestia di un Augusteum, già decretato forse in epoca più antica. Esso, nel corso del II sec. d.C., venne probabilmente consacrato alla devozione di esponenti del potere politico appartenenti alla dinastia antonina,561 conservando, anche successivamente, la sua funzione di sede del culto imperiale fino all’età costantiniana. Sul piano più strettamente archeologico, merita di essere segnalato il fatto che l’iscrizione in oggetto è stata realizzata, in posizione capovolta, sul retro di una lastra reimpiegata già in antico contenente parte di un fregio naturalistico a basso rilievo.(Fig. 169 b) Di quest’ultimo, molto mal conservato, di esso è riconoscibile un cespo centrale da cui si dispiegano due rami simmetrici a grosse foglie quadrilobate. Il motivo ornamentale poggia sopra uno spesso listello piatto e appena rilevato dal fondo (h. m 0,04). Come si è anticipato nelle precedenti pagine, terminata la trattazione degli antichi monumenti epigrafici riconducibili all’area occupata dalla chiesa di Santa Maria di Pistia, Giovanni Mengozzi, dopo l’intermezzo dei paragrafi VII-VIII e X già analizzati e dedicati alla descrizione della chiesa e della cripta, rivolge la propria attenzione, nei paragrafi V, XI-XII-XIII, alla descrizione di qualche altra epigrafe (par. V) riutilizzata in un numero limitato di fabbricati medievali del territorio circostante, nonchè
Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
dei rinvenimenti archeologici avvenuti in abbondanza attorno all’edificio e, in parte, nel centro di Colfiorito. Per quanto l’insieme di questo materiale, andato col tempo pressoché tutto disperso, esuli dallo specifico argomento affrontato nel presente capitolo, si ritiene, comunque, utile passare in rassegna almeno le poche iscrizioni e i reperti recuperati o individuati, a detta dello studioso, nei terreni e in alcune strutture edilizie civili e religiose contermini all’antico municipium romano. L’intento è quello di non privare il lettore della possibilità, attraverso la completezza documentaria, di valutare l’ampio raggio di distribuzione degli spolia di provenienza plestina e la loro rilevanza archeologica nel panorama, tuttora lacunoso e frammentario delle nostre conoscenze, sulla romanizzazione del territorio. Un contesto rurale di notevole rilievo per la quantità dei reimpieghi ivi conservati, da tempo, purtroppo, non più esistente, sembra essere stato lo spazio esterno della “Casa Pasquali in Colfiorito”. Qui si trovava, addirittura, inserita un’iscrizione latina che “serviva a lastricare l’Aja” e che fu fatta ricollocare dallo stesso Mengozzi “in luogo men improprio” (sic!) (p. XXIII). Tale residenza, dopo l’ispezione del nostro abate, passò in proprietà della famiglia Mori-Angelucci di Colfiorito allorché, in un momento che è verosimile collocare intorno ai decenni finali del sec. XIX, l’intera area ad essa circostante venne distrutta, e insieme ad essa anche l’epigrafe in questione, in seguito ai lavori svolti per il rifacimento della sede stradale. Molto eloquente, al riguardo, è la testimonianza della proprietaria dell’immobile (Laura Mori), così riferita da Eugen Bormann nell’edizione del 1901 dell’XI volume del CIL,562 dove si legge “Hae sunt aedes Mori-Angelucci, quas Laura Mori cum marito Angeluccio, qui nuper mortuus est, habitavit. Id mihi narrans domina coniecit lapidem perisse cum ante aedes l’aja deleretur viae faciendae causa”. Il testo (n. 8) (CIL XI, 5626), lacunoso nelle parti iniziale e conclusiva, viene come di seguito riportato tanto nella “Dissertazione”, quanto, ma con probabile errore di ricopiatura alla l.1, nella lettera del 27 febbraio 1780:563 CRESCENS. S… HIRPI. VMBR. PRIMIGENIVS ANNORVM. XX.. I.
Non disponendo, purtroppo, dell’originale, non è facile verificare l’esattezza della trascrizione fatta dal Mengozzi. L’unica certezza è che trattasi di una iscrizione funebre la quale ricorda un membro della gens Hirpia morto, sembrerebbe, in giovane età. Si tratta di un gentilizio già noto a Plestia (CIL XI, 5627) che ricorreva su una stele timpanata, scoperta casualmente intorno al 1880 (dove?) e vista qualche anno dopo, nel 1884, da Don Michele Faloci Pulignani nella medesima abitazione del Dott. Carlo Angelucci di Colfiorito, all’interno di strutture non precisate, assieme ad una terza epigrafe, dispersa anch’essa al pari delle altre, ma edita in CIL XI, 5624. L’esemplare venne, infine, pubblicato dallo stesso Pulignani564 il quale ne riportò il seguente testo scritto al di sotto del fastigio contenente la raffigurazione di due pesci intercalati da un motivo floreale: C. HIRPIO SU[ccesso ?]/LUCIA AL[umna]. Molto interessante è anche la sommaria descrizione che il nostro abate, poco più avanti, ci ha lasciato degli edifici disposti, ancora a fine Settecento, attorno alla cor-
239
Fig. 169 b Il retro dell’epigrafe con resti di decorazione naturalistica (ruotata di 180°).
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
te di proprietà Pasquali riguardo ai quali sappiamo che “Sui muri, che circondano l’Aja del testè mentovato Pasquali…. veggonsi molte grosse pietre tutte di uguale grandezza, tutte lavorate a scalpello, ed incavate in modo da far conoscere, che furono parte di un qualche Acquedotto. Seppi diffatti essere state colassù non ha guari trasportate da Pistia, dove insieme unite formavano appunto un Acquedotto, che per mezzo di un tubo di piombo non molto largo andava a metter capo in un Pozzetto”. Ignorando il contesto di ritrovamento dei manufatti, giustamente il Mengozzi dichiara che “Se questo servisse ad uso di Bagni, o per condur acqua in qualche fonte per comodo della Città, lascerò, che altri di me più pratico prenda a indovinarlo”.565 Soffermandosi ancora sull’antico acquedotto romano, egli conclude sostenendo di essere a conoscenza “…per attestato degli abitanti di Colfiorito rimanere ancora altra gran parte di un Condotto di piombo, che al loro dire portava a Plestia l’acqua dai non vicini Castelli della Rocchetta, e di Cesi; e che ocularmente tuttavia si conosce verso la mietitura, mentre il grano più presto, che ne’ siti laterali, si secca sopra il Condotto, per mancanza, come ognun vede, del necessario alimento: e so per ultimo, che in varj tempi molti pezzi di tal Condotto furono estratti, come pure si attesta nella lodata Dissertazione dei Camerti Umbri”. Sottolineando, per inciso, la non comune acutezza di osservazione dimostrata, in questo brano, dallo studioso nella lettura del terreno e delle tracce di antiche vestigia in esso sepolte ma riconoscibili dalle variazioni cromatiche del manto vegetale che le ricopriva, è evidente che le sue parole sembrano proprio indicare la presenza di elementi appartenenti ad un antico collettore di una certa portata. Le sue fonti di captazione dovevano trovarsi dislocate in un ampio raggio territoriale, tali da giustificare la loro attribuzione tanto ad un impianto idirico di un complesso termale, quanto al sistema di raccolta e deflusso delle acque realizzato lungo il perimetro di un importante spazio aperto con destinazione pubblica. E l’ipotesi che tali strutture, in un caso o nell’altro, fossero comunque situate in una zona centrale del municipium plestino, sembra, a questo punto, rivelarsi come la più accreditata. A conclusione della sua rassegna epigrafica, Mengozzi illustra, infine, due ultimi frammenti, purtroppo anch’essi, oggi, irreperibili. Il primo (n. 9), a quei tempi, si 240
trovava murato nel campanile della chiesa parrocchiale del “Castello di Dignano”, 566 anche se, già sul finire del sec. XIX, “Parochus qui nunc ibi est se id numquam vidisse affirmavit”.567 L’esemplare, stando a quanto si può arguire, doveva presentarsi incompleto e di dubbia integrazione, come, del resto, riportato anche in CIL XI, 5622. Vi si leggeva: CURAVERE C. ALEIUS. T.L. APC… ….L. PVBLICIVS. POD…… I protagonisti sembrerebbero due liberti, status certificato tanto dalla formula T(iti) L(ibertus) del primo, sostitutiva del patronimico, quanto dal gentilizio Publicius del secondo che, come si è detto a proposito dell’iscrizione n. 3 analizzata in precedenza, 568 indicava un individuo appartenuto, in passato, alla classe degli schiavi pubblici. L’unica ipotesi che, con la dovuta cautela, è lecito avanzare è che C(aius) Aleius possa aver assunto il gentilizio da quello del patrono, forse esponente di quella gens Alieia, testimoniata dall’epigrafe n. 1, 569 che a Plestia si era affermata autorevolmente nell’ambito di diverse magistrature municipali. In tal caso, sarebbe necessario modificare in C(aius) Alieius la forma onomastica Aleius trascritta dal Mengozzi alla l. 1, correzione potenzialmente ammissibile considerando i numerosi fraintendimenti, a volte anche vistosi, più volte riscontrati nella interpretazione dei testi ed accertati ogni qual volta la sopravvivenza del documento originale ha consentito, a posteriori, una verifica filologica dei caratteri epigrafici. La seconda iscrizione (n. 10), riutilizzata nella “…terza colonna del Portico della Chiesa e Convento di S.Bartolomeo di Brogliano, che….nacque ugualmente, che i vicini paesi dalle ruine di Plestia”,570 pare si presentasse apparentemente integra e agevolmente interpretabile, come trascritto anche in CIL XI, 5625: CAMMIDIENVS COMMODI. LIBER(tus) HICETES. TESTAMEN(to) FIERI. IVSSIT. La notizia, dunque, testimonia che il nostro frammento aveva trovato il suo nuovo contesto di reimpiego in un
Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
pilastro (forse più che in una colonna) del chiostro del Monastero di Brogliano, sito poco a Nord di Colfiorito, sulle propaggini Sud-orientali di Col Falcone: un luogo sicuro e limitatamente frequentato. Ciò nonostante la sua scomparsa fu precoce, tanto che l’ultimo a vederlo al suo posto sembra sia stato proprio il Mengozzi sul finire degli anni ’70 del Settecento quando, poi, se ne perse ogni traccia. Don Michele Faloci Pulignani invano lo cercò ancora circa un secolo più tardi,571 per cui anche nel volume XI del CIL compare solo la trascrizione settecentesca, priva di qualsiasi lettura critica del testo. L’unico commento possibile è che si trattava nuovamente di un epitafio voluto in seguito a volontà testamentaria del liberto Cammidieno Hicete, la cui condizione servile viene denunciata anche dal cognomen di chiara derivazione greca ( Ἱκέτης ). I paragrafi che il Mengozzi dedica alle iscrizioni romane di Plestia, in totale otto fra quelle pertinenti alla chiesa (4) e quelle documentate in contesti diversi (4), non esauriscono però, di fatto, l’insieme dei documenti epigrafici rintracciati dallo studioso. Essi dovevano infatti costituire, molto probabilmente, un corpus ben più cospicuo di quanto non lascino intendere le pagine della sua “Dissertazione” e le notizie contenute nelle epistole indirizzate ad Annibale Olivieri. Ce lo dice esplicitamente egli stesso quando afferma (p. XXV): “Altri Frammenti di Lapide, che tanto nella Chiesa sotterranea di Pistia, quanto ne’ vicini luoghi mi è avvenuto di leggere, dono di buon grado all’abbondanza della materia, per non essere soverchiamente lungo”. Nel rammarico per la mancata pubblicazione di questo altro materiale, che avrebbe potuto costituire per noi una preziosa fonte di informazione, prima della sua definitiva ed irrimediabile dispersione, rimane come unico dato di un certo interesse l’accenno alla collocazione di quasi tutte le lapidi ancora presenti nell’edificio sacro all’interno della cripta, e non della chiesa, come si vedrà più avanti anche a proposito dei pezzi tuttora reimpiegati nelle strutture murarie. Ciò costituisce una testimonianza di come sia sempre stata soprattutto la prima ad essere considerata lo spazio destinato, in virtù della sua particolare sacralità, al riuso e alla conservazione dei più significativi reperti sopravvissuti alla distruzione dell’antica Plestia e portatori della grande eredità storica trasmessa dal mondo classico.
Le ultime notizie fornite dal Mengozzi riguardo alle rovine del municipium romano, ancora ben visibili in quegli anni attorno alla chiesa di Santa Maria, e ai reperti archeologici e numismatici accidentalmente emersi in questa zona, le ritroviamo nei paragrafi XI e XIII della sua opera. Suscitano, in particolare, il nostro interesse le seguenti parole che leggiamo nel primo dei due: “Quantunque ora questa fertilissima Pianura, che risguarda il Castello di Colfiorito, ridotta sia a coltivazione….compariscono tuttavia all’intorno i ruderi di altre fabbrice: ed oltre le moltissime Monete, e Medaglie dell’alto, e basso Imperio, che in ogni metallo tutto giorno ritrovansi, e che escludono ogni sospetto d’impostura: oltre alcuni Marmi figurati, che anche a memoria de’ viventi furono, sulla folle speranza di trovarvi dentro il tesoro, spezzati, e dispersi, scoprissi negli anni addietro nell’arare un Pavimento di Mosaico, al che punto non pose mente il mal’accorto biffolco, che per non perdere pochi palmi di terra, e un po’ di tempo, tutto alla peggio ricoprì” (p. XXXI). Vale la pena di soffermarsi, in special modo, sull’accenno ad alcuni frammenti marmorei figurati, che non è escluso appartenessero alla decorazione di qualche edificio pubblico limitrofo all’area forense della città, e, soprattutto, sul ritrovamento di un pavimento a mosaico. Considerando che quest’ultimo affiorò, come riferisce lo studioso, durante un’operazione di aratura, sembra legittimo scartare l’ipotesi che si trattasse dei lacerti in opus signinum decorato con tessere musive a punteggiato ortogonale, 572 individuato a ridosso della chiesa e in buona parte al di sotto delle strutture absidali. Una simile collocazione e la quota di giacitura escludono, infatti, che quest’area possa mai essere stata interessata dalla coltivazione agricola. Piuttosto, si potrebbe pensare alla domus publica tardo-repubblicana scoperta nell’area Sud-Ovest occupata dalla città antica.573 Sempre che il Mengozzi non si riferisca ad un settore urbano mai investigato nel corso delle moderne esplorazioni archeologiche e che il mosaico di cui parla sia, al momento, a noi ancora ignoto. Nel successivo paragrafo XIII, invece, Mengozzi dedica la sua attenzione ad una limitata serie di manufatti di pregio, sempre sporadicamente recuperati nei terreni corrispondenti all’antico centro monumentale di Plestia, tra cui “…due grossi Urceoli di bronzo egregiamente lavorati,…due bellissime Armille di bronzo”, queste ultime ripro-
241
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
dotte sul frontespizio della edizione folignate della “Dissertazione” e oggetto di una dettagliata descrizione che occupa le pp. XXXIII-XXIV. Infine, nomina “…la testa di un Caprone nobilmente lavorata in marmo, che indarno poi fu da me e da lui [scil. il Governatore di Foligno Dottor Carlo Lalli, n.d.a.] ricercata” la quale “negli anni addietro vedeasi fra le macerie intorno alla Chiesa di Plestia”. La protome animale merita una particolare menzione: immaginando le sue singolari qualità estetiche, che, infatti, non mancarono di suscitare la curiosità dello studioso al punto da indurlo a svolgere una ricerca al fine di rintracciare il manufatto, potrebbe interpretarsi come elemento decorativo/funzionale (antefissa, doccione di gronda ?) pertinente in origine alla sima di un edificio rappresentativo nell’ambito dell’edilizia pubblica cittadina. In alternativa, potrebbe anche trattarsi di una bocca zoomorfa di erogazione idrica inserita in una fontana o all’interno di un Ninfeo. Si conferma, ad ogni modo, ancora una volta la centralità dell’area circostante la chiesa, nell’ambito del tessuto urbano municipale, alla quale, come si approfondirà più avanti, è riconducibile, non a caso, un’alta percentuale di avanzi dell’edilizia plestina. Questi ultimi, pervenutici soprattutto sotto forma di reimpieghi e, quindi, con specifiche destinazioni primarie ancora in buona parte complesse da definire, costituiscono, comunque, significativi documenti di edilizia antica. La loro importanza risiede, tanto negli aspetti morfologici, quanto, in particolar modo, nell’ampio panorama che ci offrono sulle notevoli varietà litiche che li caratterizzano. Esse sono generalmente riferibili, in massima percentuale, a cave estrattive locali ancora, tuttavia, ignote nella loro effettiva distribuzione e consistenza. Al di fuori delle scarne e generiche informazioni trasmesse dall’abate Mengozzi e di quanto è stato inglobato in più riprese nell’edificio sacro, praticamente nulla risulta, purtroppo, la documentazione scientifica di cui oggi disponiamo circa gli apparati decorativi, gli interventi infrastrutturali e le associazioni relazionabili con certezza alle antiche emergenze monumentali della zona in esame. Assai prezioso, al riguardo, si rivela quindi il contributo fornito dai documenti epigrafici. Essi, infatti, considerata la loro sensibile concentrazione nelle strutture medievali, risultano indubitabilmente legati,
242
sia alle vicende storico-architettoniche della chiesa, sia al modello di organizzazione e fruizione degli spazi che ha interessato in epoca romana questo settore dell’abitato. Si tratta, come abbiamo visto, di un corpus molto ridotto che, tuttavia, malgrado l’esiguità numerica e, in diversi casi, l’impossibilità di reperirne oggi i pezzi originali, è in grado di offrire, comunque, stimolanti spunti di riflessione: prima di tutto in merito al come e al dove esse hanno continuato la loro sopravvivenza in intimo rapporto con il nuovo contesto edilizio; in secondo luogo per lo spaccato che ci restituiscono su alcuni aspetti dell’ordinamento sociale e istituzionale della comunità plestina.
C. Considerazioni sulle epigrafi plestine documentate nella “Dissertazione” di Giovanni Mengozzi Il ristretto gruppo di lapidi di cui ci siamo occupati, appartiene nella quasi totalità alla categoria delle epigrafi funerarie, quella che, più comunemente, ricorre in questo genere di documenti. Tuttavia, le informazioni che ci tramandano sulla microstoria dei personaggi che ad esse hanno affidato il proprio ricordo risultano fortemente condizionate, tanto dal numero assai ristretto dei manufatti, quanto dalla frequente frammentarietà dei testi, senza contare l’impossibilità di giungere, addirittura, ad una loro attendibile interpretazione nei casi in cui gli originali sono andati dispersi. In più della metà dei casi (n. 3-4-5, 9-10) si tratta di epitafi che nominano individui di condizione servile: Tarquitius Gelos, Poblicius Antiocus, Titus Lavvius Gratus, Caius Aleius (o Alieius), Lucius Publicius, Cammidienus Hicetes, Gavia Tuenda, Robusta, Cornelia Sabina (?), tutti appartenenti, dunque, alle più umili categorie sociali. Di un solo defunto, membro della gens Liconia (n. 2), vengono sottolineate, invece, l’iscrizione alla tribù Oufentina, che è comune all’intera Regio VI, e la sua carica istituzionale di ottoviro, dichiarandone, dunque, la sicura condizione libera, al pari degli esponenti di altre due famiglie locali, la gens Allieia e la gens Appia (n. 1 e PLC 1), che sappiamo aver rivestito funzioni pubbliche.
Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
Oltre ad un discreto ventaglio onomastico, piuttosto interessante si rivela proprio la menzione di alcune cariche municipali: quella di quattuorvir, svolta dal padre di Caius Allieius Martialis, che fu anche aedilis e successivamente quaestor; quella di octovir, rivestita, come si è detto, da Titus Liconios; quella nuovamente di aedilis ricoperta da Titus Appius; quella di sevir Augustalis, nota attraverso la dedica a Titus Lavvius Gratus; e infine l’alta magistratura del curator rei publicae con la quale viene ricordato Caius Veianius Rufus nell’epigrafe onoraria di Camerinum. Un posto a sé, poi, spetta ai frammenti di lapide n. 6 e 7, la prima con dedica a Commodo e la seconda a Marco Aurelio (o Lucio Vero), che sono da annoverarsi, invece, fra le iscrizioni celebrative imperiali. Liberti, cittadini a pieno diritto, magistrati civili e sacerdotali: uno spaccato, insomma, ristretto ma abbastanza vario, nonostante la scarsità dei documenti, relativo ad alcuni membri della comunità locale. Quest’ultima, però, limitando il giudizio al poco di cui disponiamo, non sembra restituirci l’immagine di un livello socio-economico particolarmente elevato. Di ciò, oltre alla semplicità ed essenzialità dei contenuti espressi, sono testimoni anche la diffusa sobrietà dei materiali impiegati per la realizzazione dei supporti lapidei, 574 quasi sempre contraddistinti da un certo numero di varietà della comune pietra calcarea locale, assai meno costosa dei pregiati materiali d’importazione dalle cave italiche o greco-orientali, e il tono generalmente disadorno degli aspetti formali. Solo in un caso, infatti, nell’iscrizione funebre dell’ottoviro Tito Liconio, incontriamo un repertorio decorativo floreale a motivi rosacei incorniciati entro riquadri modanati che denota un certo impegno stilistico, di modeste pretese ma espresso attraverso l’esplicita ripresa di modelli figurativi “colti”. Limitatamente alle esigue testimonianze disponibili, ad eccezione dell’esemplare appena ricordato e di isolati casi in cui sono riconoscibili una maggiore accuratezza calligrafica e una più ordinata impaginazione testuale (epigrafi n. 4-5), sembra delinearsi un livello artigianale decisamente mediocre, per non dire dimesso, e, comunque, al di sotto di quanto ci si aspetterebbe all’interno di una realtà urbana dell’importanza di Plestia. Ciò anche quando la committenza non appartiene ai ceti più umi-
li, ma agli esponenti di alcune delle magistrature municipali più in vista fino ad arrivare, addirittura, all’organo politico di maggior rilievo dell’intera comunità, vale a dire l’Ordo Decurionum, cioè il Senato cittadino. Fu quest’ultimo, infatti, che decretò, come si analizzerà più avanti, la dedica post mortem in onore dell’imperatore Costantino inter divos relatus su un monumento ufficiale di rozza fattura, contenente un testo redatto a lettere irregolari, incise con approssimazione e ripartite con evidente incertezza all’interno di una sommaria specchiatura epigrafica. Del resto, il panorama su una produzione di così basso profilo sul piano estetico, al cui interno sembrano farsi strada solo episodici e timidi tentativi di animazione decorativa, non contrasta con lo scenario più generale restituitoci dallo sviluppo architettonico che sembra, per ora, contraddistinguere il fenomeno di monumentalizzazione del centro cittadino. Come è stato posto in evidenza già durante il secolo scorso, tanto dalle esplorazioni archeologiche svolte in alcuni settori dell’insediamento, quanto dalle indagini stratigrafiche condotte nelle sottofondazioni della chiesa, sono ancora assenti, fino a questo momento, testimonianze archeologiche significative che dimostrino l’affermarsi di un’edilizia particolarmente prestigiosa. Analoga situazione è emersa, ultimamente, anche dalle campagne di scavo concentratesi nell’area circostante l’edificio medievale. Fanno eccezione quelle che hanno, invece, riguardato la domus publica sorta nel settore Sud-occidentale: l’unica, allo stato attuale, rivelatrice di uno “standard” progettuale senz’altro superiore alla media. La sua presenza, indirettamente, ci attesta l’avvio, almeno nel corso del periodo di più intenso sviluppo dell’edilizia civile plestina, di un processo di riqualificazione urbana affidato a modelli abitativi e di pubblica utilità di maggior prestigio.575 Tali considerazioni ci pongono, peraltro, in modo diretto di fronte al grosso problema, più volte segnalato, delle ancor troppo scarse e incomplete conoscenze che abbiamo sulla fisionomia dell’antico municipium romano. Diventa, quindi, impellente la necessità di pianificare un sistematico programma di interventi esplorativi a vasto raggio in grado di colmare le lacune esistenti e di superare la frammentarietà con la quale si è proceduto fino ad ora.
243
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Stando ai dati molto parziali di cui siamo in possesso, la situazione che si delinea risulta, in effetti, piuttosto anomala: la maggior parte delle strutture portate alla luce, o dei singoli elementi costruttivi originari ricavati dal loro smembramento ed inseriti nelle murature medievali, si presenta, infatti, realizzata, fatte salve rare eccezioni, utilizzando quasi esclusivamente un circoscritto numero di varietà di pietra calcarea, in genere di mediocre qualità e non sempre sottoposta ad accurati processi di lavorazione e di rifinitura superficiale. Perfino le colonne reimpiegate, di solito selezionate tenendo conto non solo della loro destinazione funzionale, ma anche di quelle qualità estetiche che fossero in grado di conferire decoro e dignità estetica al nuovo contesto architettonico che le ospitava, risultano praticamente sempre costituite da una caratteristica brecciola locale, mal cementata e ricca di clasti calcarei massicci dall’aspetto vistosamente rozzo (il c.d. “Breccione”). Simili caratteristiche coinvolgono anche esemplari di ragguardevoli dimensioni attribuibili, verosimilmente, ad importanti edifici pubblici, e perfino le colonne scelte per sostenere le voltature della cripta. Eppure quest’ultimo costituisce, come è noto, l’ambiente per eccellenza più sacro di un edificio religioso e dove, di norma, si concentrano gli spolia di maggior valore e ricercatezza formale. Segno che anche allora le rovine superstiti dell’antica città non offrivano di meglio come materiale edilizio da poter riutilizzare, o riciclare, nei nuovi corpi di fabbrica. Chiusa questa parentesi, e ritornando alle iscrizioni plestine, esse risultano cronologicamente inquadrabili, ad esclusione del cippo costantiniano, tra la tarda Repubblica e i primi due secoli dell’Impero. A questo punto, oltre a cercare di risalire ad un ipotetico originario contesto al quale, almeno una parte di esse, può essere relazionata, non è di poco conto affrontare, parallelamente, anche il problema della giacitura secondaria al fine di comprendere il perché della loro presenza nelle specifiche sedi reseci note dalle fonti storiografiche. A questo proposito vanno riconsiderate le prime quattro epigrafi le quali, a detta di Giovanni Mengozzi, si trovavano quasi tutte sistemate in vario modo all’interno della cripta, tranne la terza che era posizionata in
244
un angolo del presbiterio. Ai tempi in cui il nostro abate scriveva, tuttavia, le prime due erano state trasferite, in un momento imprecisato, dentro la chiesa: una a destra dell’ingresso principale e l’altra presso la parete sinistra, all’imbocco della scaletta che scende nell’ipogeo. Tale spostamento, avvenuto per ragioni che ci sfuggono ma sulle quali torneremo tra poco, è da ritenersi senz’altro successivo all’anno 1661, data corrispondente alla pubblicazione del manoscritto di Ludovico Jacobilli il quale aveva visto i suddetti esemplari ancora giacenti in diversi punti della “Confessione”. Il primo aspetto da valutare è costituito dalle modalità, riferite da entrambi gli studiosi, circa la loro collocazione che non viene mai descritta come operazione di reimpiego nelle murature medievali, ma sempre genericamente come semplice “presenza” all’interno dell’ambiente, qui traslati e custoditi.576 Nessuno di essi, pertanto, sembra aver conosciuto alcun tipo di recupero funzionale, nè, naturalmente, in relazione alla compagine muraria, e nemmeno come adattamento ad arredo liturgico, sotto forma, come speso accade, di eventuale mensa d’altare, o di sostegno per l’ostensione di immagini di culto, o di componente di transenna. Al contrario, quindi, dei frammenti epigrafici inglobati nelle pareti (Nord e Est) ancora oggi visibili e di cui si tratterà nel prossimo capitolo, siamo qui di fronte ad un fenomeno completamente diverso, che potremmo definire di “conservazione” e “tesaurizzazione” di reperti archeologici. Sotto questa veste, essi vennero ritenuti evidentemente beni preziosi e, di conseguenza, meritevoli di essere salvaguardati dai pericoli di distruzione o dispersione per cause naturali o umane. A questo punto, le domande che nascono spontanee sono sostanzialmente due: qual è il momento a cui può risalire una scelta del genere, e per quale ragione sia stata designata proprio la cripta, anziché lo spazio assai più ampio e luminoso della chiesa superiore, come luogo destinato ad accogliere questi preziosi lacerti del passato. Al primo quesito non è possibile dare una risposta certa e definitiva, mancando la documentazione d’archivio necessaria per ripercorrere a ritroso nel tempo le tappe che hanno scandito le vicende dell’edificio. Affidiamo, pertanto, la materia, che peraltro esula dalle finalità scientifiche della presente ricerca, a chi meglio sarà in
Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri” di Giovanni Mengozzi.
grado di approfondire le complesse problematiche qui parzialmente emerse attraverso mirate indagini storiche e archivistiche. L’unica riflessione che, in questa sede, ci sentiamo, comunque, di proporre parte da un’analisi del tipo di mentalità che sta all’origine di un intervento di questo genere. Esso si configura come un’autentica operazione culturale, scaturita da un programma mirato, rivolto alla salvaguardia di un patrimonio archeologico-epigrafico giudicato a rischio ed avvertito non solo nella sua valenza documentaria, ma, più in generale, anche nella sua appartenenza alla storia di questi luoghi e ai lontani orizzonti di una civiltà ancora viva nell’immaginario collettivo. Ci troviamo, insomma, dinnanzi al manifestarsi di una sensibilità nuova, che nasce da una consapevole presa di coscienza delle proprie radici e che si discosta decisamente dalla visione del mondo antico che caratterizza, invece, il pensiero medievale. Si tratta, piuttosto, di un atteggiamento che per apertura mentale e per la capacità di cogliere il senso storico di un reperto del passato, preservandone la memoria, sembra incarnare i più autentici valori della cultura umanistica. In tale concetto è, forse, già implicita la risposta anche alla seconda domanda: il perché della scelta, in un primo momento, dell’ambiente sotterraneo per depositarvi gli antichi manufatti. Il principio da cui occorre partire è che i frammenti epigrafici dovevano essere custoditi, e non esibiti: pertanto, ciò che contava era trasferirli in un luogo sicuro, non frequentato dalla massa dei fedeli, garantendo, così, ad essi più idonee condizioni di conservazione. Successivamente, invece, allorché con l’avvento del secolo dei “Lumi” cominciò a farsi strada l’esigenza di offrire all’intera collettività l’opportunità di vedere ed apprezzare le opere lasciateci dagli Antichi, riconoscendo loro una fondamentale funzione educativa, si compì, probabilmente, il passo successivo. Esso consistette nel trasferimento dei pezzi nella navata della chiesa, collocandoli, non casualmente, in coincidenza dei luoghi più in vista dell’edificio: di fianco all’ingresso principale; presso la scala che sale al presbiterio; e sopra il presbiterio stesso, assicurando, in tal modo, a ciascuno di essi piena visibilità e adeguata rilevanza. Una simile ricostruzione va, tuttavia, accolta con la mas-
sima prudenza e, comunque, entro termini molto generali, mancandoci, come si è detto, i necessari supporti documentari su cui appoggiare ogni congettura in proposito. Occorre, inoltre, tenere nel dovuto conto anche le caratteristiche del tutto particolari di un ambiente geografico e culturale di estrema periferia, marginalmente toccato dall’evolversi dei tempi e, quindi, potenzialmente meno predisposto a recepire i profondi mutamenti della storia e dei nuovi modelli ideologico-culturali di riferimento. Ad un’ultima considerazione, infine, non è possibile sottrarsi nel momento in cui balza all’attenzione l’anomala assenza, all’interno della cripta, di altre categorie di materiale archeologico, reimpiegato o giacente, al di fuori dei monumenti epigrafici. É del tutto normale, per non dire quasi costante, infatti, ritrovare in contesti del genere una certa eterogeneità, variamente accentuata, di manufatti antichi i quali, vuoi per una facile adattabilità alle nuove strutture, vuoi per particolari qualità estetiche, si mescolano ai normali e più anonimi conci edilizi. Fregi naturalistici, bassorilievi istoriati opportunamente modificati in rapporto a specifiche esigenze costruttive, sarcofagi, capitelli, mensole e colonne più o meno pregiate, si alternano frequentemente fra loro e molto più di rado a frammenti epigrafici. Limitandoci al settore territoriale della regione marchigiana di nostro specifico interesse, non mancano esempi illustri ed assai eloquenti in proposito: basti pensare alle cripte di Santa Maria di Rambona, San Firmano di Montelupone, Santa Maria delle Macchie di San Ginesio, Sant’Angelo in Montespino.577 A Santa Maria di Plestia, invece, accade esattamente il contrario, e ciò non può essere casuale. Anche a questo proposito è possibile soltanto avanzare qualche ipotesi: soprattutto una che, a nostro avviso, non appare priva di fondamento. O nei dintorni della chiesa le sopravvivenze architettonico-ornamentali erano costituite da pezzi di mole così imponente, da risultare troppo ingombranti e inadatte ad un loro trasferimento e riutilizzo nello spazio ristretto della cripta. Oppure, e questa appare la conclusione più probabile, manufatti del genere erano assenti in quest’area, almeno in situazione di affioramento o a quote superficiali in corrispondenza delle quali predominava scadente materiale edilizio di epoca
245
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
tarda relativo ad una fase di declino economico e sociale della città. Questo può essere stato, verosimilmente, il motivo che indusse a limitare il recupero a ciò che era disponibile e più facilmente riutilizzabile come reimpiego o trasportabile entro le mura protette del vano sotterraneo. La maggiore attendibilità accreditabile a quest’ultima ipotesi deriva, soprattutto, da quanto si è già anticipato poc’anzi a proposito dell’aspetto generale piuttosto disadorno e di modesta entità dell’edilizia plestina. Come si è detto, al di fuori di alcuni evidenti indizi di monumentalizzazione riferibili alla prima età imperiale, essa non ha, infatti, restituito per ora l’immagine di un centro di particolare risonanza sul piano architettonico e artistico. In un quadro del genere, da considerarsi, occorre ribadirlo, ancora provvisorio, non sorprende più di tanto l’assenza di testimonianze riconducibili alla produzione figurativa di epoca romana, persino in un settore, come quello del reimpiego, di per sé tendenzialmente predisposto ad accogliere quanto di meglio le vestigia del passato erano in grado di offrire. In considerazione delle conclusioni alle quali si è giunti, si pone l’ultimo quesito rimasto in sospeso, e su cui si tornerà nell’ultimo capitolo del volume: quale può essere la provenienza delle iscrizioni confluite nella cripta. Al riguardo non esistono dati di scavo, e nemmeno semplici annotazioni, anche vaghe, trasmesse da parte di chi, in epoche diverse, si è occupato del problema. Malgrado ciò, è assai probabile che si tratti dei terreni immediatamente circostanti la chiesa, considerate tanto la concentrazione di esemplari, quanto la procedura di norma seguita, nel corso delle operazioni di recupero di pezzi antichi, di circoscrivere possibilmente entro l’area del cantiere i contesti di spoglio. Questo vale quasi certamente per i frammenti murati nelle strutture perimetrali della cripta assieme alla gran parte dei blocchi e delle lastre lapidee ancor oggi in situ. Per quanto concerne, invece, le “epigrafi Mengozzi”, trattandosi, come si è detto, di materiale raccolto non in funzione di un riuso, ma da porre in sicurezza entro un idoneo ambiente protetto, non è escluso che, magari in parte, possano provenire anche da contesti dislocati a maggiore distanza. Va, però, tenuto presente, a questo proposito, un dato abbastanza significativo che si evince dalle scarne comuni-
246
cazioni fornite all’indomani delle indagini condotte nel 1968 immediatamente alle spalle dell’abside della chiesa e nei livelli sottopavimentali della cripta.578 Quantunque queste risultino, ancora una volta, estremamente vaghe non essendo corredate né da diari di scavo, né da un “dossier” fotografico o da preliminari schedature archeologiche, trovano un supporto documentario grazie ai già ricordati rilievi planimetrici (ma purtroppo non stratigrafici) fortunatamente conservati presso l’Archivio della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria.579 Soprattutto da uno di questi ultimi(Tav. XXIV) abbiamo la conferma dell’esistenza, in coincidenza delle suddette strutture medievali, di un’area sepolcrale la quale, già in uso in età repubblicana, antecedente all’avvio della prima fase di frequentazione a carattere urbano dell’insediamento, sembra aver mantenuto tale vocazione anche in epoca più tarda. Ciò potrebbe costituire una traccia da seguire per individuare il potenziale originario contesto delle nostre epigrafi, tenendo anche conto della sua particolare dislocazione a ridosso del corpo di fabbrica orientale della chiesa il quale poteva offrire, in tal modo, l’opportunità più immediata per provvedere tanto al loro riutilizzo, in un primo momento, quanto ad un intervento conservativo, in una fase successiva. In attesa di future e auspicabili indagini, rivolte, si spera, con maggiore sistematicità agli ampi settori che restano tuttora inesplorati dentro e ai margini dei confini della città romana, peraltro ancora da accertare nella loro reale estensione, questa ci sembra, al momento, l’ipotesi più convincente, malgrado non appaia ancora chiara la relazione fra questa supposta area necropolare e il resto del tessuto urbano municipale.
Note
506 Oltre alle notizie biografiche riportate dal fratello Antonio Maria nella sua Biografia di don Giovanni Mengozzi, Rimini 1834, l’opera più recente e completa sullo studioso si deve a M.SENSI, Giovanni Mengozzi erudito ecclesiastico di San Marino umbro di adozione [1726-1783], Colfiorito di Foligno 2000, d’ora in avanti abbreviato in SENSI 2000. 507 Sulle attività svolte da don Mengozzi durante la sua permanenza a Foligno cfr. SENSI 2000, pp. 8-19. 508 Lettera del 27 febbraio 1780 ad Annibale degli Abbati Olivieri Giordani: SENSI 2000, p. 67. 509 Sui rapporti epistolari del Mengozzi si veda SENSI 2000, pp. 17-19, 32-117. 510 Oltre a due copie originali dell’opera conservate nella Biblioteca Comunale di Foligno, disponiamo, oggi, anche di una edizione anastatica stampata a Camerino nell’anno 2000. 511 Su tale argomento si rinvia al Cap. X, B. 3. e.-f. 512 Cfr. supra, nota 507. 513 Notizie riferite da don Mario Sensi ci informano che la decisione del trasferimento dipese da due fattori: il primo riguardava le dimensioni di colonna e mensola, la cui altezza complessiva di m 1,65 e le misure della lastra di m 0,96 x 0,73 furono ritenute sproporzionate rispetto allo spazio dell’intercolumnio e, soprattutto, inadatte, in modo particolare l’altezza, allo svolgimento delle funzioni. Il secondo motivo nasceva dalla necessità di creare un alto piedestallo su cui collocare la statua della Vergine sopra il presbiterio in modo che fosse ben visibile da parte di tutti i fedeli. 514 MARTELLI 1966, Tav. 51, Fig. 23; l’esatta collocazione è visibile nello schizzo planimetrico della medesima Tav., alla Fig. 22. 515 Mengozzi non fornisce né la misura dello spessore della lastra (m 0,18), né quelle della colonna di sostegno: h. m 1,47; Ø m 0,573. 516 L’unica testimonianza che nomina esplicitamente una croce all’interno dell’edificio sacro è riportata dalla “Visitatio Ordinaria” svolta dal Vescovo Robertus Perbenedictus nel mese di settembre del 1592 (ADNU apud ASP, Reg. n. 548 (1592 lug 29-1593 ott 20), visita dell’8 settembre 1592, c. 34 r. : “Altare in quo adest quidam rustica crux”) ma fa riferimento all’antico altare maggiore della chiesa, e non a quello della cripta. 517 Cfr. supra, nota 512. 518 Si veda, nel presente volume, il caso analogo dell’ara posta, un tempo, nella cripta della Pieve di Sant’Angelo in Montespino: Cap. III, C., pp. 68-71. 519 ADNU apud ASP, Reg. n. 556, “Florentii visita 1612” (1612 ago 4-1614 feb 3), visita del 7 ottobre 1612, f. 63 r./v.
520 ADNU apud ASP, Reg. n. 577, “Visitatio Nucerine dioecesis 1670-1671” (1670 giu 2-1671 giu 5), visita del 10 giugno 1670, f. 19 r. 521 D.DORIO, BSJF, ms. Cod. A.VI.19; L.JACOBILLI, Inscriptiones antiquae existentes in Urbibus, et Locis Provinciae Umbriae collectae a Ludovico Jacobillo, Fulginae 1661, ff. 366-367. 522 L’intero corpus archivistico relativo alle attività svolte a partire dal sec. XVI dalla Diocesi di Nocera Umbra, dalla quale dipendeva anticamente la basilica di Santa Maria di Pistia, è attualmente conservato, dopo gli eventi sismici del 1997, come fondo provvisorio presso l’Archivio di Stato di Perugia. La serie di Visite Pastorali è composta da 340 Registri e 30 Buste con estremi cronologici compresi fra il 1564 e il 1879, e fra il 1573 e il 1966 per gli Atti di Sacra Visita. Accenni al nostro monumento, prevalentemente inerenti lo stato di conservazione di alcune sue parti (soprattutto l’altare maggiore), si ritrovano soltanto nei Registri 543-544, 548, 552, 556, 577, 598 (rispettivamente degli anni 1573, 1607, 1592, 1605, 1612, 1670, 1741), mentre i restanti contengono esclusivamente relazioni e atti relativi a edifici religiosi vari di Nocera Umbra, Sassoferrato, Gualdo Tadino e Fossato. 523 BORMANN 1901, p. 813. 524 MENGOZZI 1781, par. IV, pp. XX-XXI. 525 SENSI 2000, p. 68, n. 47 IV: C. ATTIFIO/GALIE. ĪĪĪĪ. VIR. QVAEST./C. ATTIFIVS. MARTIALIS./PATRI. PIENTISSIMO./...VIT. 526 SENSI 2000, p. 71, n.49. 527 L’esemplare, in pietra calcarea locale color rosa-giallognolo, si trova murato alla base della parete sinistra della casa di Amici Filippo, in Via San Callisto n. 38, in posizione coricata. Si tratta di una piccola stele molto danneggiata (h. m 0,296; largh. m 0,183; h. lettere: cm 4/4) che conserva una breve porzione dello specchio epigrafico al cui interno si distingue, a fatica, la seguente iscrizione disposta su due righe: T(itus) APP[ius…f.]/AEDI[lis]. Al di sopra è riconoscibile parte di un timpano, leggermente incassato (h. m 0,05; largh. m 0,12), contenente tracce, assai rovinate, di una decorazione che potrebbe identificarsi o con la coda di un delfino, o con un soggetto floreale. Si veda in proposito L.SENSI, Due nuovi testi epigrafici da Plestia, in “BollStFol” IX 1985, pp. 379380; p. 382, Fig. 1; le diverse misure del frammento qui riportate si riferiscono ad un momento antecedente l’intervento di rintonacatura della parete dello stabile che ha nascosto alcune parti della lastra. 528 MENGOZZI 1781, par. IV, pp. XXI-XXII. 529 SENSI 2000, p. 68, n. 47 III. 530 …CONIO. SERAPIONI./ARNIA. SECUNDA. C. II. O.N./F. LICONIO. T.F.O.V.P. VĪĪĪĪ. VIR.
247
Note
531 SENSI 2000, p. 72, n. 49. 532 SENSI 2000, p. 73, n. 50. 533 HUMBERT 1978, p. 223 ; CAMPANILE-LETTA 1979, pp. 45-48; LAFFI 2007, pp. 125-126. 534 Su questo ultimo aspetto e sul carattere sacerdotale dell’ottovirato plestino, si vedano CAMPANILE-LETTA 1979, pp. 62-63; L.SENSI, Gli ottoviri di Plestia, in “BollStFol” XIV 1990, pp. 455-461; LAFFI 2007, p. 156, nota 53. 535 M.TORELLI, Monumenti funerari romani con fregio dorico, in “DialArch” II 1, 1968, p. 42; VERZÁR 1974, pp. 401-402; A.AMBROGI, Monumenti funerari di età romana di Foligno, Spello e Assisi, in “Xenia” 8, 1984, pp. 31-32; STORTONI 2008, pp. 68-69. 536 Un’ampia rassegna si trova in JOULIA 1988, passim. 537 VERZÁR 1974, p. 441, Fig. 40 (Aesernia); pp. 403, 442, Fig. 42 (Benevento); DIEBNER 1979, pp. 41, 188 ss., Is 76-78, Tav. 42, Figg. 76-78 (Aesernia); V.KOCKEL, Die Grabbauten vor dem herkulaner Tor in Pompeji, Rhein 1983, pp. 128-129, Fig. 30 (Pompei); K.TANCKE, Figuralkassetten griechischer und römischer Steindecken, Frankfurt am Main-Bern-New York-Paris 1989, p. 270, K. 19, Tav. XLVIII, Figg. 2-3 (Amiternum); pp. 270-271, K.21, Tav. XLIX, Fig. 1 (Capua); p. 271, K. 24, Tav. L, Fig. 1 (Benevento); pp. 271272, K. 28 (Aquileia); p. 272, K. 26, Tav. L, Fig. 2 (Venafrum); p. 273, K. 30, Tav. LI, Fig. 2 (Pola). 538 A.LA REGINA, L’elogio di Scipione Barbato, in “DialArch” II 2, 1968, p. 173, Fig. 1. 539 TH.KRAUS, Überlegungen zum Bauornament, in P.ZANKER (a cura di), Hellenismus in Mittelitalien. Kolloquium in Göttingen vom 5. bis 9. juni 1974, II, Göttingen 1976, p. 467, Figg. 1-2. 540 R.CORDELLA-N.CRINITI, Iscrizioni latine di Norcia e dintorni, Spoleto 1982, p. 64, Fig. 33. 541 M.RIZZELLO, Monumenti funerari romani con fregi dorici dalla media valle del Liri, Sora 1979, pp. 26-27, Fig. 5. 542 W.MAZZITTI, Teramo archeologica. Repertorio di monumenti, Teramo 1983, p. 216, Fig. 1. 543 L.MERCANDO-L.BACCHIELLI-G.PACI, Monumenti funerari di Ricina, in “BdA” VI 28, 1984, pp. 18, 29-30, Figg. 24, 29. 544 STORTONI 2008, pp. 257-258, n. III 7, p. 329, Fig. 39. 545 D.E.STRONG, Some Observations on Early Roman Corinthian, in “JRS” LIII 1963, p. 75, Tav. V, Fig. 4. 546 STORTONI 2008, pp. 257-259, n. III 7, p. 330, Fig. 42; pp. 288-289, n. III 22, p. 338, Fig. 59. 547 S.DIEBNER, Reperti funerari in Umbria, Roma 1986, ASS 4, n. 6-7; SPE 1; BEV 1-3; A.E.FERUGLIO-L.BONOMI PONZI-D.MARCONI, Maevania. Da centro umbro a municipio romano, Perugia 1991, pp.
248
64-65, n. II, 58. 548 DIEBNER 1979, p. 186, IS 74, Fig. 74 a; IS 79, Fig. 79. 549 G.CAVALIERI MANASSE, La decorazione architettonica romana di Aquileia, Trieste, Pola, Aquileia 1978, Tavv. 31-32; JOULIA 1988, Tavv. LXXXVI-LXXXVII; Tav. LXXXVIII, Fig. 11; J.ORTALLI, Monumenti e architetture sepolcrali di età romana in Emilia Romagna, in “AAAd” XLIII, Trieste 1997 (Monumenti sepolcrali romani in Aquileia e nella Cisalpina), pp. 345-346, Fig. 15. 550 HUMBERT 1978, pp. 222-224; LORENZINI-TRIGONA 1999, p. 33. Sulle ragioni del ritardo nella istituzione del municipio plestino, si rinvia alle osservazioni di PACI 1998, in IDEM 2008, p. 427. 551 SENSI 2000, p. 72, n. 49; nella seconda epistola del 30 novembre viene introdotta una modifica alla l. 1 in cui si legge ROVĪĪĪ, con abolizione del presunto praenomen e della forma al dativo: IDEM, p. 73, n. 50. 552 SENSI 2000, p. 69, n. 47 V. 553 M. ROVILIO. C.F./T. FANARIO. IUSTO/POBLICIUS. ANTIUS/ FRATER. ET…PROBUS. Come appare evidente, la trascrizione dal manoscritto dello Jacobilli risulta totalmente stravolta rispetto alla lettura proposta successivamente dal Mengozzi definita, a suo dire, “un po’ meglio di quella che fece il Jacobilli”. 554 SENSI 2000, p. 68, n. 47 II; p. 71, n. 49; p. 73, n. 50. 555 GAVLA. C.L. TUENDA/FLAVVIO CRATO etc.; SENSI 2000, p. 71., n. 49. 556 La seguente proposta di scioglimento testuale si deve a G.Paci, che ringrazio per la preziosa consulenza. 557 G.ALFÖLDY, La struttura sociale dell’impero romano (età altoimperiale), in R.FRIGGERI-M.G.GRANINO CECERE-G.L.GREGORI, Terme di Diocleziano. La collezione epigrafica, Milano 2012, pp. 285-286. 558 CIL XI, 5635= ILS 6640; MENGOZZI 1781, pp. XXV-XXVII, n. 9; GASPERINI 1976, p. 399, nota 27. Dedica onoraria di Camerinum (176-192 d.C.): C(aio) VEIANIO C(ai) FIL(io)/COR(nelia tribu) RUFO FIL(io)/AEDILI IIIIVIR(o) I(ure) D(icundo) PATRO/NO MUNICIPI ET COMPLU/RIUM CIVITATIUM EQUO PU/BLICO CURAT(ori) REI P(ublicae) PLESTINOR(um)/DATO A MAXIMIS IMP(eratoribus duobus) ANTO/NINO AUG(usto) [ et Commodo Aug(usto) ] ANTONINI AUG(usti) F(ilio) FLAMINI DI/VOR(um) AUG(ustorum) LAURENTI SACERDOTIO ORNATO. HUIUS PATER ANNONAE/CARITATES SAEPIUS SUSTINUIT/EPULUM FREQUENTER DEDIT./MUNICIPES CAMERTES OB PLURIM(a)/ET MAXIMA BENEF(icia) PATRIS EIUS ET IPS(ius)/IN SE CONLATA. HONOR(e) ACCEPTO/QUOT CONTULER(ant) REMISIT. CUIUS DEDIC(atione) EPUL[um] D(edit). L(oco) D(ato) D(ecreto) D(ecurionum).
Note
559 MENGOZZI 1781, par. V, p. XXIV, n. 6; GASPERINI 1976, p. 400. 560 BONOMI PONZI 2012, p. 291. 561 Sull’esistenza di un Augusteum collegato al culto imperiale, si veda MANCA-MENICHELLI 2014, p. 34. Molto suggestiva l’ipotesi avanzata da G.Paci circa la possibilità che l’esemplare appartenga alla categoria di dediche rivolte all’imperatore Marco Aurelio da parte dei “pueri et puellae alimentari” come ringraziamento per la liberalità dimostrata nel concedere sussidi alimentari gratuiti destinati al sostentamento dei fanciulli delle famiglie bisognose. Malgrado la lacunosità del testo non offra spunti specifici al riguardo, non sorprenderebbe una destinazione di questo tipo considerando, soprattutto, l’orizzonte cronologico e, quindi, il particolare contesto socio-economico in cui si colloca la nostra iscrizione. Documenti del genere, infatti, risultano ben attestati nella regione picena nel corso del II sec. d.C., ad esempio ad Auximum, a Trea e a Cupra Montana, dove, al pari dell’altopiano plestino, si estendevano aree economicamente depresse e meritevoli di interventi statali volti all’aiuto delle classi di cittadini più svantaggiate. Sull’argomento di vedano i recenti studi di G.CARLSEN, Gli alimenta imperiali e privati in Italia: ideologia ed economia, in D.VERA (a cura di), Demografia, sistemi agrari, regimi alimentari nel mondo antico (Atti del Convegno Internazionale di Studi, Parma 17-19 ottobre 1997), Bari 1999, pp. 273-288; E.LO CASCIO, Alimenta Italiae, in G.GONZÁLEZ (a cura di), Trajano emperador de España (Actas del Congreso Internacional, Sevilla 14-17 septiembre 1998), Roma 2000, pp. 287-312; G.PACI, Sovvenzioni imperiali alle città picene in crisi nel II sec. d.C., in Piceno Romano, pp. 4164, in particolare pp. 44-55. Ad essi si sono aggiunti ultimamente ancora: G.PACI, Una nuova dedica dei pueri alimentari di Cupra Montana, in C.DEROUX (a cura di), Corolla Epigraphica. Hommages au professeur Yves Burmand, II, “CollLat”, vol. 331, Bruxelles 2011, pp. 589-601, in particolare pp. 589-590, nota 3 (con ampia bibliografia) e tab. a p. 595 sulle testimonianze a tutt’oggi note; S.ANTOLINI, Ancora pueri et puellae alimentari a Cupra Montana, in “Picus” XXXI 2011, pp. 57-68. 562 BORMANN 1901, p. 814. 563 MENGOZZI 1781, par. V, pp. XXIII-XXIV; SENSI 2000, p. 68, n. 47 I (“CRESCENNS”). 564 “NSc” 1890, p. 316; l’iscrizione fu invano cercata nel 1890 dalla vedova Angelucci per conto di Eugen Bormann (1901, p. 814). 565 MENGOZZI 1781, par. XII, pp. XXXII-XXXIII. 566 MENGOZZI 1781, par. V, p. XXIV, n. 7. 567 BORMANN 1901, p. 813. 568 Cfr. supra, p. 234.
569 Cfr. supra, p. 229. 570 MENGOZZI 1781, par. V, p. XXV, n. 8. 571 Cfr. supra, nota 563. 572 PERNA et Alii 2011, pp. 145-146, Fig. 23. 573 PERNA et Alii 2011, p. 109; cfr. anche supra, nota 486. 574 Fa eccezione, come si vedrà in seguito (Cap. X, B. 3. c., C. 1. b.), il frammento murato nella parete Est della cripta (codice di riferimento PL 3a) in pregiato marmo Pario, il quale, però, essendo anepigrafe, non è in grado di fornirci alcuna informazione sul ruolo sociale ricoperto dall’intestatario. La sua disponibilità economica, comunque, sembra fuori discussione tenendo presente il valore del marmo greco utilizzato per l’esecuzione della lapide. 575 Ci riferiamo ai sei pregevoli capitelli, rilavorati in epoca medievale, in marmo greco insulare di Thasos, dei quali si tratterà più avanti (Cap. X C. 1. a.) 576 Si richiama l’attenzione sulla palese genericità delle parole usate in proposito dal Mengozzi: n. 1 “La prima…era nella Chiesa sotterranea” (p. XX); n. 2: “…il seguente Marmo che prima era nella Confessione” (p. XXI); n. 4: “…altra [iscrizione] trovasi nella [chiesa] sotterranea” (p. XXIII). 577 RAININI 2007, pp. 78-81 (Santa Maria delle Macchie di San Ginesio); IDEM 2011, pp. 193-203 (Santa Maria di Rambona); pp. 139-146 (San Firmano); per Sant’Angelo in Montespino, si vedano nel presente volume i Capp. III e IV. 578 PERNA et Alii 2011, p. 109, nota 12. 579 PERNA et Alii 2011, p. 108, Fig. 3 ; p. 146, Fig. 23 ; pp. 147148. Si vedano anche i resti di un’altra tomba, di dubbia datazione, riportati sulla pianta illustrata nel presente volume alla Tav. XXVIII.
249
Capitolo 10 Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
A. Le strutture esterne a. L’impianto generale, le trasformazioni strutturali e lo spazio circostante Percorrendo la SS 77 Val di Chienti che da Foligno risale verso il massiccio appenninico umbro-marchigiano, lambite le sponde orientali della Palude plestina si giunge al piccolo centro di Colfiorito (m 760 s.l.m.), posto quasi all’imbocco dell’omonimo altopiano. Attraversato l’abitato, al km 26 si stacca la SP 441 la quale trasformandosi, all’altezza della deviazione diretta verso Monte Trella e le località di Cesi, Popola e Fraia, in SP 96, si addentra nell’area archeologica di Plestia,(Figg. 170-171) prima di proseguire poco più avanti, in corrispondenza del bivio di Taverne, in direzione della Val Sant’Angelo e di Pievetorina. Qui, nel cuore di quello che fu l’antico municipium romano, proprio dove la strada disegna una netta curva a gomito rivolta a Sud-Est, si innalza la chiesa di Santa Maria di Pistia,(Fig. 172) denominata anche Santa Maria della Neve o Santa Maria Assunta. Le sue plurisecolari e complesse vicende storiche e giuridico-amministrative, 580 eredi dei lunghi conflitti politici e di egemonia territoriale in atto già dall’età longobarda fra il Ducato di Spoleto e i tre Gastaldati di Camerino,
Fig. 170 Veduta aerea dell’area archeologica di Plestia. Al centro la Basilica di Santa Maria.
251
Fig. 171 Area archeologica di Plestia: scorcio della zona orientale confinante con la Basilica medievale.
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 172 L’edificio ecclesiale da Sud-Ovest.
Fig. 173 Il deambulatorio porticato antistante la facciata. Fig. 174 Il deambulatorio porticato Sud.
252
Foligno e Nocera Umbra, consentono di cogliere a pieno il suo ruolo interterritoriale di santuario di frontiera che ne ha connotato l’esistenza fino ai nostri giorni. L’edificio fu eretto, come si è già approfondito nel Cap. precedente, sulle rovine del centro monumentale cittadino reimpiegando con straordinaria abbondanza e varietà tipologica antichi materiali da costruzione di svariata provenienza e destinazione d’uso. Essi hanno dato, così, vita ad un autentico mosaico di reperti eidilizi di epoca romana, inseriti e rifunzionalizzati in ogni parte, esterna e interna, del fabbricato. Al momento attuale, è possibile affermare che gli innumerevoli frammenti sopravvissuti della Plestia tardo-repubblicana e imperiale rivivono nelle murature medievali prima ancora che sul terreno, sotto forme totalmente diverse dal passato ma in grado di farci ugualmente percepire l’eco di quei secoli lontani. Iniziamo, dunque, con l’analisi icnografica la cui assoluta semplicità si associa alla analoga essenzialità degli aspetti che ne caratterizzano anche l’aspetto strutturale.(Tav. XXVII) La pianta è costituita da un corpo longitudinale, monoabsidato e privo di transetto, lungo m 22,24 (parete Sud; la parete Nord sviluppa una misura leggermente inferiore, pari a m 22,17) e con sporgenza del corpo absidale di m 2,80, per una larghezza massima di m 9,02. Lungo il lato Ovest e in parte quello Sud, si sviluppa un porticato, con deambulatorio ripavimentato di recente, le cui dimensioni risultano, in facciata(Fig. 173) di m 11,90 di lunghezza x 2,45 di profondità, mentre a Sud(Fig. 174) di m 17,03 x 2,86. Esso si presenta costituito da dieci pilastri architravati, quattro a Ovest e sei sul lato lungo, sui quali scaricano direttamente le falde di copertura. L’interno della chiesa, a cui si accede varcando una disadorna porta ampia m 1,10 e scendendo due bassi gradini, è a navata unica e appare, come si è detto, completamente spoglio: l’unico corpo emergente è rappresentato dall’ampio presbiterio, sopraelevato di circa m 1,70 (m 1,68 a Nord; m 1,74 a Sud), raggiungibile salendo un grande scalone centrale realizzato con impalcature metalliche in epoca moderna, alle estremità del quale si aprono due stretti ingressi simmetrici (largh. m 0,92) da dove due scalette di otto gradini ciascuna scendono nel vano della cripta. Lo spazio mostra i segni molto evidenti degli impegnati-
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
vi ed estesi interventi di ristrutturazione e restauro condotti a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso (1967), allorché, dopo un lungo periodo di totale abbandono seguito all’Unità d’Italia (la cripta, rimasta seminterrata, venne adibita addirittura a stalla per diversi decenni), l’edificio fu sottoposto ad una serie di drastiche ristrutturazioni conclusesi nel giugno del 1971. A quell’epoca risalgono: la realizzazione della copertura a capriate, il rifacimento della pavimentazione, il consolidamento e l’intonacatura di tutti i muri perimetrali (con l’unica eccezione della metà inferiore della parete Nord allo scopo di lasciarne parzialmente in vista il paramento lapideo originario),(Fig. 175) la esecuzione ex-novo della scala in ferro di accesso al presbiterio, l’elevazione di quest’ultimo rispetto al corpo longitudinale, e, infine, la quasi completa ricostruzione dell’abside.(Figg. 176, 201) Sulle modalità di attuazione di tali iniziative, resesi indispensabili per la necessaria salvaguardia del monumento e la sua restituzione al culto, non è compito del
presente studio esprimere giudizi e valutazioni. Valga, comunque, per tutte la decisione di rifare l’abside, andata quasi completamente distrutta in seguito ad un improvviso collasso strutturale verificatosi alla vigilia delle operazioni di ripristino, innalzando al suo posto un inquietante scheletro metallico, chiuso da vetrate, che emerge, oggi, con la sua incomprensibile mole fredda e sinistra nell’armoniosa e serena distesa dell’altopiano di Colfiorito. Per ciò che riguarda la sottostante cripta,(Fig. 177, Tav. XXXVIII) si tratta di un vano rettangolare, anch’esso monoabsidato, di quasi 35 m2, lungo circa 7 m e largo poco più di 4, suddiviso lungo l’asse Est-Ovest in cinque navatelle formate da un’unica fila centrale di quattro colonne le quali, assieme alle due poste all’imbocco dell’absidiola, alle otto semicolonne dei lati lunghi e ai due semipilastri di quelli corti, individuano un totale di dieci campate rettangolari, voltate a crociera, più un’undicesima campata quadrata corrispondente allo spazio absidale. Le modifi-
253
Tav. XXVII Chiesa di Santa Maria di Pistia: planimetria generale con localizzazione dei resti delle strutture archeologiche esterne tuttora in situ (scala 1:50).
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 175 Parete interna Nord: parziale intonacatura moderna con a vista il paramento originario in conci antichi di reimpiego.
Fig. 176 La ricostruzione del settore absidale e la sopraelevazione posticcia del corpo presbiteriale.
254
Fig. 177 La cripta (da Ovest).
che qui apportate, sempre nei medesimi anni, a parte la ripavimentazione a piastrelle analoga a quella messa in opera nella chiesa superiore, hanno riguardato, come già sappiamo, l’apertura delle due monofore laterali di cui si è ampiamente discusso nel precedente capitolo.581 Pure le strutture esterne dell’edificio hanno subìto diverse trasformazioni le quali, ad eccezione dei portici occidentale e meridionale che costituiscono l’aggiunta più antica che conosciamo, risalente al XV sec., 582 si concentrano, secondo alcuni, in parte nell’ambito dei primi decenni del periodo post-unitario e, soprattutto, anche in questo caso nella seconda metà degli anni ’60 del Novecento. Scomparsa, al riguardo, qualsiasi memoria scritta, forse mai esistita, presso gli archivi diocesani di Camerino, Foligno e Nocera Umbra, relativa alle modalità dei primi interventi e al momento preciso della loro realizzazione, restano a testimonianza solo tre immagini d’epoca, una a stampa di fine Ottocento e le altre due fotografiche degli anni ’50 del secolo scorso, che, in qualche misura, suppliscono in parte alla mancanza di informazioni. Il primo documento è costituito da una litografia(Fig. 178) contenuta nella rassegna “L’Illustrazione Italiana” dell’anno 1883 e realizzata dal pittore-incisore Conte Lemmo Rossi-Scotti la quale riporta in didascalia la dicitura “Pischio. Arsenale d’artiglieria”. Essa ci offre un’interessante e rara raffigurazione della chiesa quando, all’indomani dell’unificazione nazionale, venne sconsacrata e trasformata in magazzino militare.583 Malgrado la evidente semplificazione della resa grafica, è tuttavia possibile distinguere una estensione della facciata verso sinistra che va ad inglobare un corpo di fabbrica aggiunto lungo il fianco Nord, con tanto di porticina d’ingresso. É opinione abbastanza diffusa che, al pari delle due ali porticate tuttora esistenti, anche questa struttura, demolita invece verosimilmente dopo il 1910, risalga al medesimo periodo successivo alla bonifica della palude plestina (1483). Fu, infatti, in questa occasione che, ripristinata l’antica funzione ospitaliera della chiesa rivolta ai pellegrini che transitavano lungo la Via Lauretana e ai periodici raduni fieristici legati al commercio dei prodotti della pastorizia e al passaggio delle greggi transumanti dalle pianure laziali, si volle dotare l’edificio degli spazi adeguati allo svolgimento al suo tradizionale ruolo
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
di santuario di frontiera e di luogo d’incontro e di scambio.584 Altri sostengono, invece, che tale ampliamento sia da assegnarsi agli anni successivi all’Unità d’Italia allorché, soppressa come luogo di culto, l’antica pieve venne destinata a deposito di materiale bellico per il quale si rendevano necessari ambienti aggiuntivi. Senza volerci addentrare in tale questione, che costituisce materia estranea alla presente ricerca, può essere utile, però, soffermarci brevemente sulla prima ipotesi la quale sembra godere dei requisiti di maggiore probabilità. Come dimostrano sia la stampa ottocentesca, sia, in particolar modo, le tracce ancora evidenti delle fondamenta rimaste sul terreno,(Fig. 179) è possibile ricostruire l’originaria planimetria e le approssimative misure di quest’ala settentrionale, inglobata dal prolungamento dello spiovente sinistro di copertura della chiesa. Si trattava di un lungo vano, grosso modo coincidente con l’estensione della parete Nord (m 22,17) e profondo poco meno di 3 m (mediamente la stessa larghezza di m 2,86 rilevata nel portico Sud). Una struttura, dunque, proporzionalmente idonea ad essere adibita a dormitorio per viandanti e pellegrini: una sorta di “xenodochio” annesso al tempio (più tardi riadattato a magazzino o, forse, anche a ricovero per animali), non a caso collocato simmetricamente rispetto al portico meridionale del quale, con analoghe dimensioni, costituiva un “pendant” confinato, qui, da murature. Una simile destinazione giustificherebbe, tra l’altro, l’opportunità offerta da una preesistente porticina laterale, un tempo aperta a circa meta del perimetro e successivamente tamponata,(Fig. 180) 585 che consentiva di accedere direttamente all’interno della chiesa, senza uscire per raggiungere l’ingresso principale. Un dato ulteriore che porterebbe, in teoria, ad avvalorare la ricostruzione qui proposta, sembra potersi ricavare dalla tipologia di una parte dei materiali antichi presumibilmente utilizzati per l’innalzamento di questo corpo di fabbrica, alcuni dei quali giacenti in situ ed ancora, in diversi casi, allineati di fianco alla parete.(Fig. 181) Essi sono costituiti da un buon numero di grossi blocchi lapidei di epoca romana, ben squadrati e, a volte, sagomati (in uno è riconoscibile un frammento di cornice a “gola reversa”),(Fig. 182) che risulta assai improbabile possano essere stati selezionati, raccolti e trasportati sul posto dalla milizia di stanza a
Fig. 178 Litografia che illustra la trasformazione della Basilica di Plestia in deposito militare (1883).
Fig. 183 Foto d’epoca della chiesa antecedente la trasformazione del corpo presbiteriale (per gentile concessione di Dante Santoni). 255
Fig. 184 Foto d’epoca con la chiesa ancora priva del piccolo campanile a vela (per gentile concessione di Dante Santoni).
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 179 Tracce delle fondamenta superstiti appartenenti al corpo di fabbrica addossato alla parete Nord. Fig. 180 Fianco Nord: la porta murata.
Colfiorito. Quest’ultima, per erigere senza perdite di tempo un rudimentale fabbricato di utilità immediata, è immaginabile, infatti, che avrebbe scelto una procedura edilizia certamente più rapida ed economica. Fa specie, tuttavia, che di tale costruzione non esista alcun accenno nella storiografia locale, anche da parte di quella più colta e scrupolosa come la “Dissertazione” di Giovanni Mengozzi il quale, dedicando all’esterno della chiesa poche succinte parole, tace su una eventuale struttura addossata al fianco settentrionale. Forse, ai suoi tempi, essa aveva un aspetto talmente dimesso e fatiscente da non meritare alcuna menzione? Oppure non esisteva ancora, nel qual caso prevarrebbe la seconda ipotesi a favore di una edificazione avvenuta in epoca più tarda e indipendentemente dalla funzione ospitaliera svolta dal santuario? Oppure ancora, la mancata menzione dell’ala Nord è da considerarsi una semplice “dimenticanza”, analogamente a quanto è accaduto anche a proposito del portico Sud il quale, al contrario di quello Ovest antistante la facciata, viene dallo studioso incomprensibilmente ignorato (p. XXVIII)? Lasciamo, dunque, al momento insoluta la questione e passiamo all’analisi degli altri documenti, questa volta fotografici,(Figg. 183-184) che illustrano almeno due trasformazioni coinvolgenti la parte terminale dell’edificio. La prima immagine sembra possa risalire alla seconda metà/fine degli anni ’50 del secolo scorso quando esisteva, innestato sul tetto, un piccolo campanile a vela. Esso,
Fig. 181 Allineamento di antichi blocchi lapidei lungo la parete Nord. Fig. 182 Due dei blocchi lapidei sagomati giacenti di fianco alla parete Nord.
256
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
Fig. 185 Troncone del muro tardo conservato all’esterno dell’angolo Nordoccidentale della chiesa.
nonostante la scadente qualità della ripresa e l’angolazione dell’inquadratura non del tutto idonea a distinguerne interamente la sagoma, sembra interpretabile come aggiunta posticcia, sia per le dimensioni sproporzionatamente ridotte rispetto a quelle della chiesa, sia per la forma poco aderente ad una tipologia romanica. La conferma ci è fornita tanto dalla seconda fotografia,(Fig. 184) antecedente di circa un decennio, nella quale, infatti, il campaniletto non esisteva ancora e la campana era sostenuta da quella che appare essere una rudimentale impalcatura in ferro, quanto soprattutto, anche in questo caso, dalla testimonianza dell’abate Mengozzi. Parlandoci dei ritrovamenti fortuiti avvenuti ai suoi tempi attorno a Santa Maria di Pistia, egli ci racconta di un contadino il quale “…svelse coll’aratro alcuni grossi anelli insieme uniti alla foggia di un Ceppo di Campana, lo che forse potrebbe dare indizio, che ne’ bassi tempi avesse la Chiesa di Pistia e Campanile, e Campane, che ora non ha”.586 L’informazione, al di là dell’ipotesi sull’esistenza in pas-
sato di una torre nolare, “seppur mai l’ebbe”, ci fornisce la prova certa e definitiva che, almeno fino alla fine del XVIII sec., non esisteva alcun campanile, né al di sopra, né di fianco all’edificio. La demolizione del falso campaniletto “in stile”, va sicuramente messa in rapporto con la seconda modifica, quella più importante, illustrata da entrambi i fotogrammi: si può notare, infatti, che l’estremità orientale della chiesa non presentava la sopraelevazione del corpo presbiteriale il quale, oggi,(Fig. 176) sovrasta, invece, l’intera costruzione con una mole arbitrariamente creata durante i già ricordati restauri del periodo 1967-1971, probabilmente per aumentare la luminosità interna. Tale intervento, oltre ad essere in aperta dissonanza rispetto all’originaria piatta orizzontalità del tempio medievale, con il quale entra in conflitto anche la palese diversità del paramento murario addirittura intonacato di bianco sul prospetto occidentale, ha determinato, come inevitabile conseguenza, la ricostruzione fuori misura dell’abside,
257
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
rialzata fino a raggiungere in maniera forzata il sottotetto del nuovo organismo edilizio. Terminata, per il momento, l’analisi delle trasformazioni edilizie, sulle quali si tornerà parlando degli spazi interni di navata e cripta, è opportuno occuparci, ora, di quanto si conserva al momento nell’area circostante il monumento sotto forma sia di materiale erratico da costruzione, sia di frammentari resti, al momento, tranne in un caso, di dubbia e difficile interpretazione.(Tav. XXVII) Gli avanzi sicuramente più interessanti, e ormai riconducibili con certezza ad un preciso contesto architettonico di epoca romana, appartengono ad un troncone di muro(Fig. 185) ridotto ad un allineamento di una decina di consistenti blocchi, collocati a circa m 4,60 a Nord-Ovest rispetto all’angolo sinistro del porticato di facciata. Si tratta di pezzi in pietra calcarea, fra cui un grosso rocchio di colonna del diametro di m 0,96,(Fig. 186) identici a quelli dei muri repubblicani di II sec. a.C., appartenenti ad un riutilizzo antico ed assemblati in epoca tarda allineandoli senza l’uso di leganti. La struttura, orientata Nord-Est/ Sud-Ovest, si sviluppa per una lunghezza complessiva di m 8,75 e con uno spessore medio che varia da m 0,80 a m 0,90 per circa tre quarti della sua estensione, fino a raggiungere la considerevole misura di m 2,50 nella parte terminale a Est. Essa costituisce l’avanzo meglio conservato appartenente all’ultima fase di vita dell’abitato,587 come hanno accertato le più recenti esplorazioni archeologiche svolte in questo settore nel periodo 1999, 2001 (US 128). Le indagini hanno individuato una stratificazione il cui livello più superficiale è risultato composto da una estesa spianata di materiale edilizio frantumato che ha sigillato i livelli di frequentazione più antichi, creando una compatta e regolare piattaforma (UUSS 206, 101, 20 e 30). Sopra di essa si sono, poi, impostate, sia la muratura in oggetto, sia le rimanenti esigue tracce riferibili all’ultima fase del municipium plestino, di poco precedente il suo definitivo abbandono avvenuto, approssimativamente, nell’ambito dell’avanzato IV sec. d.C.588 Non è chiara la sua specifica funzione che, al momento, sembra estranea ad altri contesti architettonici affioranti, anche se il posizionamento ortogonale rispetto al sistema porticato di età alto-imperiale antistante la facciata della chiesa potrebbe teorica-
Fig. 186 Muro esterno tardo: particolare dei blocchi lapidei superstiti; in primo piano il rocchio di colonna. Fig. 187 Lastra erratica in calcare bianco presso il fianco Sud.
258
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
mente sottintendere un coordinamento progettuale con gli edifici più antichi; il che sancirebbe il perdurare della centralità di quest’area urbana fino ad epoca tarda. Le rimanenti tracce archeologiche superstiti sul terreno, si concentrano, invece, nei settori Est e Sud-Est dell’impianto medievale. Esse consistono in lacunosi lacerti lapidei e murari impossibili, allo stato attuale, da interpretare o relazionare alle poche emergenze ancora presenti in questa zona. Partendo dall’estremità Sud-orientale della chiesa, alla distanza di m 2 dal muro perimetrale e di m 2,22 dal pilastro n. 10 del portico, affiora una grossa lastra erratica(Fig. 187) in pietra calcarea bianca, di forma perfettamente quadrata (m 0,87 x 0,87) e spessa m 0,25. Il pezzo potrebbe essere identificabile tanto come parte di un rivestimento murario, quanto come plinto di sostegno di una colonna, quanto ancora come avanzo di una lastricatura pavimentale: forse quella, molto simile, individuata poco distante dall’angolo Nord-orientale dell’abside (US 207)589 riferibile alle opere di risistemazione di quest’area conseguenti all’elevazione dello stato giuridico della città a municipium romano (fase II: seconda metà del I sec. a.C.).
Poco oltre, a m 3,70 in direzione Est, incontriamo un breve spezzone realizzato in opus incertum (m 2,35 x 0,70),(Fig. 188) conservato in altezza fino al quarto filare per un max. di m 0,57 (faccia Est) e un minimo di m 0,49 (faccia Ovest), costituito da grosse pietre in calcare biancastro, grossolanamente sbozzate, e da un riempimento di ciottoli più piccoli cementati a malta grezza. Esso si innesta ortogonalmente all’angolo del muro Sud della chiesa indicando la propria pertinenza a qualche struttura di epoca imprecisata, ma apparentemente di dubbia antichità, annessa all’edificio sacro: certamente non ad un prolungamento del portico, del quale sarebbero sicuramente sopravvissuti altri indizi o della fronte pilastrata, o dell’ancoraggio della falda di copertura sulla parete della chiesa; forse ad un recinto per il ricovero di animali ad esso adiacente? Spostandoci ancora di m 5,95 verso Est e portandoci esattamente alle spalle della parte sinistra dell’abside, ci si imbatte in un secondo troncone murario.(Fig. 189) Esso, al contrario del precedente, è quasi certamente di età romana, ed emerge dal terreno con due grandi lastre rettangolari (m 105 x 0,65 e m 0,75 x 0,60), in questo caso in breccia calcarea grigio scuro, cementate fra loro
259
Fig. 188 Spezzone di muro, di dubbia datazione, innestato all’angolo esterno Sud della chiesa. Fig. 189 Spezzone, forse, di antica lastricatura pilastrata alle spalle dell’abside. Fig. 190 Tomba tarda a Sud-Est della chiesa.
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 191 Basilica di Santa Maria di Pistia: facciata.
e perfettamente allineate in direzione Nord-Ovest/SudEst. Alle loro estremità sono concluse da un grosso masso di circa m 1,00 x 0,98, e alto mediamente m 0,40, per cui la lunghezza complessiva di questa struttura risulta di m 2,93. L’impressione è quella di un residuo di pavimentazione (soglia?) delimitata da un grosso pilastro, ma sia l’orientamento, sia, soprattutto, l’apparente livello di giacitura escludono che essa possa connettersi all’organismo edilizio repubblicano di I Fase (II sec. a.C. iniziale) (UUSS 108-109),590 portato alla luce alla profondità di m 1,5. Vale, tuttavia, la pena osservare come quest’ultimo, stando ai rilievi planimetrici e all’ortofotorettificata degli scavi 1999, 2001,591 risulti occupare la medesima posizione e presenti resti di una lastricatura pavimentale contraddistinta da dimensioni e caratteristiche litotipologiche del tutto simili a quelle dei resti in oggetto.592 Concludiamo, così, l’analisi degli avanzi ancora leggibili sparsi nello spazio retrostante la chiesa, rivolgendo la nostra attenzione al perimetro di una tomba(Fig. 190) che si distingue con chiarezza alla distanza di m 5,05 a oriente dell’ultima struttura muraria presa in considerazione,
260
e spostata più a Sud, sempre rispetto ad essa, di m 1,53, quasi a ridosso del bordo della Strada Provinciale. Di semplicissima forma rettangolare, misura m 2,20 x 0,85 ed è delimitata da una serie di sei lunghe e strette pietre in calcare grigio scuro (due su ciascuno dei lati lunghi e una su quelli corti), inserite di taglio nel terreno ed accostate senza l’uso di leganti. Si tratta senz’altro di una deposizione molto tarda, come si evince anche stratigraficamente dal livello superficiale di giacitura, e riferibile con ogni probabilità ad epoca longobarda considerandone la tipologia, all’apparenza del tutto simile a quella delle coeve deposizioni “a cassone” ricoperte da grosse lastre rinvenute a Nocera Umbra (loc. “Portone, “Collecchio” e “Gaifana”) e a Gualdo Tadino (loc. “Cartiere”), senza che sia, tuttavia, possibile precisarne meglio l’orizzonte cronologico di riferimento.593 b. La facciata La facciata di Santa Maria di Pistia,(Fig. 191) spoglia e dimessa come il resto delle strutture ecclesiali, associa
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
ANGOLO PARETE NORD
ANGOLO PARETE SUD
INGRESSO PRINCIPALE
ZOCCOLO
P.d.C. TERMINE ZOCCOLO
all’assoluta semplicità del materiale edilizio con il quale è stata innalzata, una totale mancanza di appariscenza e monumentalità. L’aspetto estremamente essenziale e disadorno viene accentuato anche dalla presenza del portico antistante che, ponendone in penombra il basso e piatto fastigio, gli sottrae quel minimo di visibilità che nell’ingresso ad un edificio sacro, di solito, si cerca di valorizzare anche con povertà di mezzi, ma senza rinunciare a sottolinearne il ruolo simbolico che preannuncia l’accesso allo spazio consacrato. La lunghezza complessiva di m 9,04 viene suddivisa all’incirca in due metà, rispettivamente di m 3,93 (dx.) e m 4,01 (sx.), dalla porta centrale ampia soltanto m 1,10 e alta m 2,35. Gli antichi conci lapidei di reimpiego sono principalmente concentrati lungo la fascia bassa a filo del pavimento, solo in parte nella zona mediana, e nelle angolate, specie in quella di destra, fino a raggiungere, qui, un’altezza massima di m 3,42.(Tav. XXVIII, Fig. 192) A m 0,86 dal piano di spiccato della muratura, si sviluppa uno pseudo-zoccolo che occupa, sulla destra, l’inte-
PIANO PAVIMENTALE PORTICO
ra estensione della parete, mentre a sinistra si conclude bruscamente alla distanza di m 0,60 dall’angolo Nord. La sua ridotta sporgenza, mediamente di appena 2 cm, è sottolineata, lungo il profilo superiore, da una sequenza ininterrotta di stretti mattoni, di spessore non superiore ai 20 cm, i quali sembrano quasi svolgere la funzione di evidenziare il lieve aggetto della superficie inferiore all’interno della quale si concentrano, specialmente nella metà Sud, i massi antichi di maggiori dimensioni che formano la struttura portante dell’alzato. Procedendo a partire dall’angolo meridionale, si susseguono, intercalati da pietrame e cemento, blocchi regolarmente squadrati di m 0,76 x 0,66; m 0,79 x 0,76; m 1,13 x 0,46; m 0,90 x 0,45; m 1,12 x 0,22; m 0,71 x 0,56, tutti tangenti il piano pavimentale dal quale sono separati da un sottile strato di malta grezza spessa m 0,30. La tecnica edilizia si presenta decisamente rudimentale: ad eccezione di isolati conci tagliati con sufficiente precisione e ricavati da una discreta qualità di pietra calcarea biancastra e levigata, l’insieme dei blocchi reimpiegati si presenta, il più delle volte, di sagoma alquanto irregolare
261
Tav. XXVIII Chiesa di Santa Maria di Pistia: prospetto facciata (scala 1:20).
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 192 Facciata: particolare dei conci di reimpiego.
e contraddistinto dalla locale e anonima brecciola calcarea spugnosa, molto grossolana. È lo stesso tipo di materiale che incontriamo diffusamente riutilizzato, come si vedrà, un po’ ovunque, all’esterno come negli spazi interni dell’edificio attraverso un certo numero di varianti. A ciò si accompagnano ripetuti e frettolosi riempimenti cementizi, mescolati a masselli, sempre in rozza pietra calcarea, pietrame vario sovente privo di lavorazione, e scaglie di mattoni che danno origine ad una disomogenea mescolanza di materiali lapideo-laterizi, caratteristici dell’edilizia rurale da sempre diffusa in tutta l’area dell’altopiano. É facile constatare l’assoluta indifferenza nella scelta del materiale da costruzione giacente in loco, selezionato solo in base alle dimensioni al fine di assicurare la necessaria stabilità nei punti chiave: piano di spiccato murario e angolate. In queste ultime, addirittura, la mancata regolarizzazione dei profili delle singole pietre, riscontrabile anche lungo entrambi gli stipiti della porta centrale, giunge a determinare saltuarie anomalie nell’appiombo delle verticali murarie. Emerge, dunque, già in questo primo settore esterno, una sostanziale assenza di impegno estetico che diviene un po’ il connotato visivo dell’intero edificio sacro, fatti salvi, come si analizzerà tra breve, almeno in parte il fianco Nord e, soprattutto, l’interno della cripta dove è riscon-
262
trabile una certa predisposizione delle maestranze a valorizzare, limitatamente ad alcune parti, anche l’aspetto formale delle strutture. Inoltre, a partire dalla facciata, la quale si presenta senz’altro come la meno ricca di pezzi antichi di tutta la chiesa, sembra già possibile, osservando le diversificate caratteristiche petrografiche dei conci reimpiegati, riconoscere più contesti edilizi di spoglio di epoca romana. Tutti, però, sembrerebbero apparentemente identificabili con edifici di scarso prestigio monumentale e pertinenti, forse, a strutture o ad infrastrutture urbane di secondaria importanza. La loro reperibilità a cielo aperto in questa specifica area cittadina, doveva essere abbastanza facile e immediata all’epoca del cantiere medievale, se esemplari del tutto analoghi a quelli qui segnalati ricorrono in notevole quantità in molte altre parti del fabbricato, anche dove ci troviamo di fronte a realizzazioni risalenti ad epoche molto lontane tra loro, come i pilastri dei due portici innalzati nel corso dell’avanzato secolo XV. c. Il fianco nord La parete esterna settentrionale della chiesa costituisce uno dei settori più interessanti dell’intero organismo architettonico per quanto concerne il riuso di antico materiale edilizio. Ques’ultimo, con isolate e limitate soluzioni
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
di continuità, ne riveste praticamente la totale estensione mantenendo un andamento, nell’insieme, abbastanza regolare e solo in minima parte alterato da successive manomissioni.(Figg. 193-194) Le ragioni della sua particolare configurazione, che si discosta in modo abbastanza netto dalle tessiture murarie osservabili nelle restanti fiancate, risiedono, oltre che nella già rilevata maggior coerenza delle sequenze lapidee, anche nella controllata distribuzione in alzato dei filari e nella qualità prevalentemente omogenea della pietra riutilizzata. Esaminando lo sviluppo complessivo della fascia interessata dall’introduzione dei frammenti di spoglio, che occupa unicamente la parte inferiore della parete, si può notare una successione organizzata su uno o al massimo due ricorsi che si mantengono ad una quota media di m 0,92 dal p.d.c., appoggiandosi direttamente sul terreno per circa il 68% (m 15,14) della sua lunghezza totale (m 22,17).(Tav. XXIX) In corrispondenza, invece, dell’angolata Nord-Ovest, dove si innesta la facciata, e di quella NordEst, dove si eleva l’abside, l’alzato aumenta disponendosi su tre file fino a raggiungere, rispettivamente, m 2,12 e m 1,92; in tal modo, viene assicurata ai giunti angolari, soprattutto all’estremità orientale, una maggiore solidità, grazie anche all’utilizzo di blocchi di grosse dimensioni inseriti in posizione alternata di testa e di taglio. In merito alle caratteristiche litotipologiche dei materiali da costruzione reimpiegati, le differenze rispetto agli altri settori perimetrali risultano particolarmente evidenti.(Fig. 194) Nella percentuale quasi assoluta dei casi, ci troviamo di fronte, infatti, a blocchi e lastre sagomati con discreta regolarità, in forme quadrate e rettangolari di diversa taglia, ricavati dalla lavorazione, ora di una pietra calcarea travertinosa molto compatta e grigiastra, ora di una micrite fossilifera anch’essa del medesimo colore, ma con tonalità variabili da più intense a più chiare, a tratti interessata da circoscritte formazioni lichenose graduate dal bianco sporco al ruggine. Solo episodicamente si incontrano inserti caratterizzati da un calcare più tenero e spugnoso, simile a quello già riscontrato sulla facciata ma nella variante con colorazione grigio-cenere, i quali mostrano i segni di estesi fenomeni di alveolizzazione riconoscibili sotto forma di una fitta microbucherellatura, dovuta alla esposizione costante ai venti di maestrale che frequentemente soffiano, con violente raffiche, da
Nord-Ovest. Lungo la parete Nord, l’effetto “pitting” si manifesta nei modi più peculiari e macroscopici soprattutto in corrispondenza delle due alzate angolari e, qua e là, ma con incidenza assai più attenuata, nel tratto terminale verso Est. Analoghe manifestazioni sono rilevabili anche in altre zone esterne dell’edificio, specie dove si trovano reimpiegati conci estratti da formazioni rocciose a struttura bioclastica porosa e mal cementata, di cui si tratterà più avanti. Soffermandoci, ora, sui diversi segmenti murari contenenti materiali di spoglio, seguendone lo sviluppo a cominciare dall’angolo occidentale, si segnalano le tre strette lunghe pietre di base (m 1,82 x 0,31; m 1,74 x 0,29 max.; m 1,28 x 0,36) che con una lunghezza complessiva di quasi 5 m creano un solido zoccolo di sostegno al primo tratto della parete. Al di sopra si dispone una sequenza di dieci conci, non sempre del tutto allineati e tagliati prevalentemente in forme rettangolari. Essi, dopo un vuoto iniziale di m 0,86 riempito in modo frettoloso con pietrame di diversa foggia e natura, coprono una estensione di m 9,24 lungo la quale è riconoscibile una tecnica edilizia abbastanza accurata, con fughe di separazione in malta ben levigata, spessa dai 2 ai 6 cm. Tale procedura costruttiva, malgrado le vada riconosciuta, ogni tanto, una maggior precisione nell’assemblaggio dei
263
Fig. 193 Fianco Nord: inquadratura generale.
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
ANTICA PORTA LATERALE MURATA ANGOLO DESTRO MURO ABSIDALE
0,84 m
FINESTRA CRIPTA
0,22
0,00 P.d.C.
Tav. XXIX Chiesa di Santa Maria di Pistia: prospetto fianco esterno Nord (scala 1:20).
0,46
0,88
0,43
0,36
0,25
singoli pezzi, appare, comunque, improntata, in generale, a criteri di praticità e rapidità esecutiva. L’attenzione, nella selezione degli antichi materiali da reimpiegare, è rivolta soprattutto alla scelta di quelli dimensionalmente più adatti a creare una resistente base d’appoggio alla modesta elevazione della cortina muraria. Specialmente lungo lo spiccato murario, blocchi e lastre caratterizzati da maggior regolarità appaiono sovente intercalati a grossolane integrazioni in laterizio, cemento e pietre spezzate. Tale procedimento denota un’architettura di indubbia impronta rurale, portata a considerare le antiche vestigia del passato alla stregua di semplici “cave a cielo aperto”, da cui prelevare materia prima, e poco incline verso istanze estetiche. Un’ars aedificandi, in definitiva, che potremmo considerare sostanzialmente adeguata (è opportuno ricordarlo) a quella che era sempre stata la più autentica e antica vocazione della chiesa plestina: un santuario d’altura destinato, oltre che alle piccole comunità stanziali, principalmente a viandanti, pastori e pellegrini in transito da e verso luoghi di devozione di ben altro prestigio e richiamo spirituale. Anche dal punto di vista tipologico, nessuno degli esemplari di spoglio presenta peculiarità di rilievo, ad eccezione del terzo concio della seconda fila da destra il quale, nella zona inferiore, conserva un foro di sagoma trapezoidale destinato, verosimilmente, all’inserimento di un perno metallico di fissaggio.
264
0,20
0,15
0,18 SOGLIA
Alla distanza di m 10,72 dall’angolo Nord-occidentale, la muratura conserva ancora i segni evidenti di una originaria porticina, poi murata,(Fig. 180) che si apriva con una luce di m 0,84 e un’altezza di m 2,78; quest’ultima misura è ricostruibile analizzando le corrispondenti tracce del varco assai più chiaramente rilevabili all’interno della chiesa,594 mentre esternamente esse si limitano a due brevi suture, riconoscibili alla base della parete, di appena m 1,33 a dx. e m 0,80 a sx. Tuttora in situ, e ancora integra, è, invece, la soglia costituita da una bassa lastra in travertino biancastro, spessa m 0,10 e lunga poco meno dell’ampiezza dell’ingresso (m 0,79) la quale, in posizione leggermente disassata, sporge dal filo del muro di m 0,30. In merito all’epoca di realizzazione, e poi di tamponamento, di questo piccolo accesso secondario, l’unico dato in grado di suggerire una possibile dinamica degli eventi edilizi succedutisi in quest’ala dell’edificio, è ricavabile dall’analisi delle stratigrafie murarie. Riguardo alla sua apertura, osservando il netto taglio lungo la verticale della parete su entrambe le facce e, in particolare, la precisa profilatura dei conci antichi posti esattamente in corrispondenza dei due stipiti interni,(Fig. 222) risulta altamente probabile attribuire l’intervento al progetto originario elaborato nel cantiere medievale (forse per creare un collegamento fra la chiesa e un’area cimiteriale esterna?). L’esecuzione, pertanto, può datarsi intorno alla fine dell’XI sec., o allo scorcio iniziale del
ANGOLO FACCIATA
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
P.d.C. 0,10
successivo (“fase plebana” o fase II). A questo proposito, è significativa soprattutto la scelta dei conci di spoglio da inserire ai lati della porta, tutti opportunamente sistemati senza forzature a conclusione della tessitura muraria e senza decurtazioni delle loro sagome originarie. Tale passaggio laterale, poi, ha probabilmente continuato a svolgere la sua funzione di ingresso alternativo in chiesa, sia quando venne inglobato nel corpo di fabbrica eretto, come si è ipotizzato nelle pagine precedenti, a ridosso del muro Nord nel corso della seconda metà del Quattrocento, sia, forse, anche in epoca post-unitaria allorché il santuario, una volta sconsacrato, venne convertito in deposito militare. La sua chiusura sembrerebbe, dunque, risalire al periodo successivo al 1910 quando Santa Maria di Pistia, dichiarata monumento nazionale, fu restituita al culto cristiano. In questa occasione, soppressa la quattrocentesca ala settentrionale, probabilmente in condizioni fatiscenti e priva, ormai, della sua originaria ragione d’essere, si decise conseguentemente di murare un varco resosi anch’esso del tutto inutile. Oltre la porta, quella che convenzionalmente possiamo considerare la seconda metà del fianco Nord prosegue con sufficiente regolarità per m 8,07. In questo tratto, però, i pezzi di reimpiego si dispongono su un’unica fila: tangente il p.d.c. nei primi m 3,64 e sopraelevata mediamente di m 0,20 nei successivi m 3,22 da un doppio
zoccolino di lunghi e stretti masselli lapidei; negli ultimi m 1,21, poi, dove lo zoccolo raddoppia di spessore distribuendosi su quattro filari, l’altezza raggiunge m 0,41. Il segmento murario terminale, infine, corrispondente all’angolata Nord-Est, risulta composto, come si è accennato, da consistenti blocchi sempre di pietra calcarea ma di natura un po’ diversa, più porosa e brecciata, sistemati di testa e di taglio su tre ricorsi lunghi rispettivamente m 1,40 (in basso), m 1,66 (nella fascia mediana) e m 1,83 (in alto) i quali contribuiscono a creare una solida cerniera di rinforzo nel punto sensibile d’innesto fra i due corpi settentrionale e orientale. Particolarmente compromesso da pesanti interventi di modifica strutturale si presenta la limitata porzione, ampia solo m 1,12, del paramento corrispondente allo spazio in cui venne aperta, verosimilmente nel corso del XIX sec., la finestrella comunicante con la cripta.595 In questo punto si manifestano in modo inequivocabile i segni degli scassi operati nella parete, mal risarciti mediante interventi sbrigativi basati su grossolane tamponature cementizie attorno all’apertura finestrata e sull’uso di pietre molto irregolari, spaccate al momento sul posto ed inserite seguendo allineamenti imprecisi. L’insieme del materiale litico di spoglio reimpiegato lungo questo secondo tratto di muratura non rivela aspetti particolarmente diversi rispetto al precedente, tranne per il fatto che qui prevalgono conci di medie dimensio-
265
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 194 Fianco Nord: particolare di un tratto dei ricorsi lapidei di reimpiego.
ni (da Ovest verso Est: m 0,56 x 0,50; m 0,90 x 0,28; m 0,70 x 0,40; m 0,60 x 0,58; m 0,64 x 0,58; m 0,62 x 0,44; m 0,54 x 0,40; m 0,54 x 0,47) le quali, come dimostrano le misure riportate, risultano più omogenee in confronto a quelle rilevabili nel primo tratto, dove, invece, prevalgono pezzi contraddistinti da morfologie più varie. Da segnalare, alla distanza di m 1,98 dalla porticina murata, la metà di un grande rocchio di colonna,(Fig. 195) in brecciola calcarea grigiastra e del diametro massimo oggi rilevabile di m 1,10. Il suo inserimento alla base del muro in posizione coricata, ne mostra il piano d’attesa con ampio foro centrale destinato all’innesto del perno di fissaggio al resto del fusto. Alla distanza di m 2,76, inoltre, si impone all’attenzione un poderoso masso,(Fig. 196) estratto dalla tipica pietra calcarea travertinosa locale color grigio intenso ad aloni chiaroscurati, tagliato e levigato con insolita accuratezza. La sua mole di m 1,04 x 0,97 lo pone in particolare evidenza all’interno della media proporzionale degli adiacenti blocchi lapidei e, soprattutto, del paramento medievale. Quest’ultimo è caratterizzato da strette file di masselli bassi ed allungati, alcuni dei quali ricavati dalla frantumazione e dal rimpicciolimento di antiche pietre da costruzione. Giunti, dunque, alla conclusione della specifica analisi strutturale del fianco Nord, non si può non tenere nella
266
dovuta considerazione la peculiare e anomala configurazione del suo rivestimento lapideo che, riprendendo quanto accennato già in precedenza, si discosta in modo piuttosto marcato da ciò che è possibile osservare nel resto dell’edificio, ad esclusione, naturalmente, della cripta che costituisce un caso a sé. Allo stato attuale delle nostre ancor troppo scarse conoscenze sullo sviluppo urbanistico-monumentale del municipium plestino, non è compito semplice individuare i potenziali contesti edilizi di provenienza dei materiali di spoglio presenti nelle strutture ecclesiali. Nel caso specifico del settore in esame, tuttavia, non mancano, forse, indizi utili che inducono ad avanzare qualche prudente ipotesi a cui verrà, più avanti (Cap. XI), dedicata una specifica trattazione, in attesa che future esplorazioni archeologiche, sistematiche e mirate, gettino nuova luce sull’originario assetto architettonico di questa zona e, più in generale, dell’intera area urbana nel corso della prima e media età imperiale. d. Il fianco sud Volendo istituire un confronto con la parete settentrionale appena esaminata, quella Sud, per quanto concerne tipologia, natura e distribuzione dell’antico materiale edilizio di reimpiego, appare contraddistinta da un aspetto
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
Fig. 195 Fianco Nord: particolare del rocchio di colonna inserito nello spiccato murario. Fig. 196 Fianco Nord: particolare del grande concio di spoglio inserito nel tratto terminale.
decisamente discordante, al punto da lasciar supporre l’intervento di maestranze diverse, avvezze a procedure costruttive più rudimentali che hanno condotto a soluzioni strutturali e formali assai meno organiche e coerenti.(Figg. 197, 199) Senza voler, con ciò, riconoscere al tratto perimetrale Nord valenze estetiche o l’applicazione di elaborate norme costruttive, anche in quel caso assenti ed estranee ad una manovalanza locale di limitata competenza tecnica e ristretti orizzonti culturali, è però fuori dubbio il manifestarsi di una maggiore sistematicità progettuale e di modalità meno improvvisate in fase esecutiva, riconoscibili anche nei criteri selettivi di buona parte dei manufatti di spoglio. Negli alzati della cortina meridionale, al contrario, escludendo la parte iniziale innestata con la facciata dove, per una lunghezza di m 7,20, incontriamo una sequenza abbastanza ordinata di grossi massi, tutti allineati a filo dello spiccato murario e con dimensioni e forme nell’insieme equivalenti, lungo il rimanente paramento, che si estende per m 15,04, i pezzi antichi risultano reimpiegati in maniera molto saltuaria.(Tav. XXX) Manca un preciso ordine distributivo e sono frequenti ampie superfici occupate da eterogeneo materiale da costruzione di epoca medievale, cementato il più delle volte in maniera affrettata, con abbondanti integrazioni in malta grezza. Qua e là, più precisamente a m 10,29 (sempre calcolati partendo dall’ango-
267
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
ANGOLO FACCIATA
VESPAIO PIANO PAVIMENTALE LASTRICATO
lata occidentale), 13,88 e 20,98, si sviluppano tre limitate concentrazioni comprendenti alcuni conci che si elevano, rispettivamente, di m 2,05, m 2,26 e m 2,02 rispetto al moderno piano pavimentale, l’ultima delle quali corrispondente all’innesto con il corpo absidale dove funge da rinforzo angolare. Analogo compito viene svolto all’estremità opposta, in coincidenza dello spigolo destro della facciata, da una decina di blocchi che si sovrappongono fino a raggiungere un’altezza massima di m 3,50. Anche in questo caso, come in parte nel fianco Nord, sono abbastanza ben distinguibili le tracce lasciate dalle manomissioni che hanno alterato la struttura muraria allo scopo di aumentare la luminosità all’interno della chiesa. Due sono le finestre posticce aperte lungo il settore orientale, al di fuori del portico quattrocentesco: la prima(Fig. 198) ), distanziata di m 0,80 dal p.d.c., è collocata a m 1,40 dall’ultimo pilastro (n. 10) e serve a dar luce alla scaletta, posta alla destra del podio presbiteriale, che scende nella cripta. La seconda, ottenuta dal parziale tamponamento di una precedente porticina laterale,(Fig. 160) è posizionata invece più avanti, a m 1,53 dall’angolo orientale e a m 0,48 di distanza dal suolo.595 Essa si situa approssimativamente di fronte alla gemella del lato Nord contribuendo ad illuminare il vano ipogeo. La quota delle due finestre, nonostante l’avvallamento del terreno in corrispondenza
Fig. 197 Fianco Sud: inquadratura generale.
268
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
FINESTRELLA SCALETTA DESTRA DI ACCESSO ALLA CRIPTA
ANGOLO SINISTRO MURO ABSIDALE
FINESTRA CRIPTA
P.d.C. 0,36
SEGMENTO DI MURO TRAVERSO SUD
LASTRICATO
della prima, risulta sostanzialmente pareggiata grazie alla posizione un po’ rialzata di quest’ultima che compensa il dislivello registrabile in quel punto. É da rilevare, però, il loro marcato disassamento di 31 cm, che conferma un intervento affidato a calcoli imprecisi i quali hanno comportato l’abbandono del principio di simmetria, assente del resto, come si vedrà più avanti, nel contesto planimetrico generale di tutta la cripta. L’interesse si è unicamente rivolto ad aumentare l’illuminazione dello spazio sotterraneo, in origine assai più buio, e a tale fine scarsa cura è stata dedicata alle relative operazioni di modifica strutturale.596 Ben più accentuati che all’interno risultano, tanto in corrispondenza della scala che scende nell’ipogeo, quanto della cripta, i segni lasciati dalle operazioni di sfondamento della muratura nella quale entrambe le aperture appaiono introdotte in maniera forzata, con integrazioni approssimative eseguite servendosi di frammenti laterizi e scaglie di pietra cementati alla rinfusa. Del resto, che quello meridionale sia sempre stato, in generale, il fianco più vulnerabile dell’edificio e quello più compromesso e alterato nella sua integrità da improvvisati ed arbitrari interventi di trasformazione, ce lo conferma anche un documento inedito, consistente in una breve relazione scritta dal Vescovo Giovan Battista Chiappè in occasione della Visita Pastorale da lui svolta a Pistia nel 1741. Il
Tav. XXX Chiesa di Santa Maria di Pistia: prospetto fianco esterno Sud (scala 1:20). Fig. 198 Fianco Sud: particolare della finestrella posticcia aperta verso la scaletta di accesso alla cripta.
prelato, sottolineando l’urgenza di lavori di restauro in diverse parti della chiesa, si sofferma in modo specifico sulle precarie condizioni delle “…paretes exteriores in parte laterali ad Austrum”,597 a suo giudizio le più coinvolte da un diffuso degrado e le più bisognose di urgenti interventi di ripristino. Va, ad ogni modo, osservato che la scelta del punto in cui eseguire tali lavori di parziale trasformazione (e ciò vale anche per la parete Nord), tenne conto dell’opportunità di evitare le superfici occupate da grossi conci e lastre di spoglio, preferendo, ovviamente, aree edificate a masselli medio-piccoli di età medievale, molto meno faticose ad essere infrante. Pertanto, non sembra che l’apertura delle tre finestre abbia compromesso in modo significativo l’a-
269
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 199 Fianco Sud: particolare dei ricorsi lapidei di reimpiego.
spetto originario della tessitura muraria, almeno per quel che concerne il riuso dei frammenti edilizi di epoca romana che costituisce l’aspetto che più interessa in questa sede. Procedendo, ora, all’esame tipologico più dettagliato dei pezzi di spoglio,(Fig. 199) selezionandone un numero limitato a quelli meglio conservati e di stazza più massiccia, è opportuno tornare sui primi sette consistenti massi, già in parte segnalati, sistemati alla base del muro a partire dall’angolo occidentale. La loro mole (m 0,86 x 0,78; m 0,88 x 0,63; m 0,93 x 0,71; m 0,92 x 0,89; m 0,77 x 0,79; m 1,38 x 0,78; m 1 x 0,70) giustifica la particolare collocazione in corrispondenza del piano di spiccato della muratura alla quale viene assicurata, in tal modo, la necessaria solidità e tenuta statica. Separati dal moderno lastricato pavimentale del portico da un sottile vespaio in malta grezza (spess. min. m 0,06; max. m 0,12/0,13) frammisto a minuscoli frammenti di mattoni e pietre frantumate, i vari conci si presentano assemblati in modo abbastanza accurato, con fughe regolari comprese fra i 2 e i 4 cm. In virtù di misure in altezza non troppo dissimili, si viene, così, a creare una successione sufficientemente ordinata che si limita, però, al tratto in esame senza mai più riproporsi nella rimanente estensione della parete. Un dato che emerge con chiarezza, anche ad una semplice osservazione degli aspetti macroscopici dei singoli conci, è costituito dal loro pessimo stato di conservazione. Ciò è dipeso, principalmente, dalla scadente qualità della pietra
270
appartenente alla categoria più tipica e diffusa nell’ambito dei materiali edilizi di spoglio introdotti, un po’ ovunque, nell’edificio cristiano. Si tratta di una brecciola calcarea, (Fig. 200) mal cementata e formata da clasti di calcare massiccio bianco a grana molto grossa, anche centimetrica, immersi in una matrice di colore bruno-rosato.598 É presente anche una variante, sempre di consistenza porosa ma caratterizzata da una intonazione roseo-grigiastra. Mancando ancora, a tutt’oggi, “data-base” di riferimento relativi alle rocce calcaree sfruttate nel mondo antico, sia in Italia, sia nel bacino del Mediterraneo, non è al momento possibile determinare l’esatta provenienza del particolare tipo di calcare plestino. Tuttavia, le sue peculiarità strutturali e tessiturali, riscontrabili in un ambito territoriale abbastanza circoscritto all’alta Val di Chienti e al comparto appenninico umbro-marchigiano gravitante attorno all’altopiano di Colfiorito, inducono ad individuarne una provenienza sicuramente locale. La pietra risulta impiegata soprattutto nell’architettura rurale della zona ben oltre i secoli del medio e tardo Impero, giungendo all’avanzato Medioevo fino ad epoche anche successive. I danni si manifestano sotto forma di un avanzato processo di indebolimento del cemento calcareo che ha determinato effetti disgregativi piuttosto estesi, degenerati spesso in sfaldature lungo i piani corrispondenti a direzioni di minima coesione, o addirittura in litoclasi localizzate specie in coincidenza dei margini di lavorazione dei sin-
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
goli blocchi, la cui sagoma risulta, non di rado, alterata da vistose deformazioni. Mediamente molto accentuato si rivela anche il fenomeno dell’alveolizzazione, imputabile all’azione del vento che ha aggredito le superfici dando origine sovente ad un “pitting” profondo, con canalizzazione a percorsi interconnessi, aggravato, come si vedrà anche altrove, dall’azione erosiva di colonie di arachnidi insediatesi nelle diffuse cavità interne. Il litotipo, dunque, scelto anticamente, senza dubbio, per la sua abbondante presenza in diverse cave estrattive dei dintorni che lo rendeva facilmente reperibile, ma anche per la consistenza porosa e tenera che ne favoriva la lavorazione e la destinazione a svariati usi, ha rivelato, però, col tempo tutta la sua naturale fragilità. L’aggressione degli agenti atmosferici, accompagnati da eventi traumatici succedutisi attraverso secoli di storia, ne hanno, infatti, pregiudicato tanto la tenuta strutturale, quanto gli aspetti formali. Le gravi lesioni superficiali, nella maggioranza dei pezzi, hanno profondamente modificato l’originaria conformazione, in qualche caso probabilmente compromessa già in antico e regolarizzata attraverso opportune aggiunte di sottili integrazioni in calce o gesso in grado di mascherare la congenita scabrosità di questa pietra. Ciò rende, quindi, non sempre facile riconoscere i segni di intenzionali lavorazioni riferibili a originari sistemi di assemblaggio dei blocchi applicati negli specifici contesti primari di appartenenza. Soltanto in pochi casi è possibile distinguere,
all’interno di superfici spesso profondamente alveolizzate, tracce sufficientemente chiare di fori di imperniamento di forma, in genere, circolare o quadrata i quali sembrano documentare tecniche edilizie piuttosto elementari. Dal canto loro, morfologia e dimensioni di una buona percentuale dei conci riutilizzati concorrono, invece, ad indicarci come dato abbastanza probabile una identica fonte architettonica di spoglio la quale, in considerazione delle peculiarità petrografiche di cui si è appena parlato, fu sicuramente diversa da quella alla quale sono riferibili i
271
Fig. 200 Particolare degli aspetti macroscopici che caratterizzano la brecciola calcarea riutilizzata in gran parte dell’edificio.
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 201 Abside: inquadratura generale.
pezzi inseriti lungo il fianco Nord. Rinviando la trattazione di tale problema in sede di riesame delle risultanze archeologiche e di ipotesi sulle provenienze dei reimpieghi plestini (Cap. XI), rimane, per ora, senza risposta il quesito sui motivi che stanno all’origine delle evidenti diversità tecnico-costruttive riscontrabili lungo il perimetro Sud, e in parte anche in facciata, rispetto al muro settentrionale. Può darsi che quanto suggerito all’inizio del paragrafo, in merito alla attività di due distinte squadre di maestranze edili, possa rappresentare una eventualità da prendere seriamente in considerazione, in assenza di dati alternativi accertati. Non manca, tuttavia, di destare alcune perplessità l’esistenza di una organizzazione cantieristica così articolata per un edificio di limitate proporzioni e di tale modestia progettuale ed estetica da non distinguersi, quasi, dalla comune e tradizionale edilizia rurale della zona. e. L’abside Nelle pagine iniziali del presente capitolo (par. A. a.), si era già avuta occasione di porre l’accento sugli interventi (discutibili) di ristrutturazione realizzati in questo settore dell’edificio(Fig. 201) colpito, nella seconda metà degli anni
272
’60 del secolo scorso, da un grave cedimento strutturale. Esso ha coinvolto quasi interamente l’alzato del corpo absidale, risparmiandone solo i due setti murari laterali, a loro volta alterati, successivamente, dall’arbitraria apertura del grande arco finestrato. Dell’antico emiciclo si è conservato unicamente il tamburo inferiore(Tav. XXXI, Fig. 202) il quale, a destra della finestrella centrale, raggiunge un’altezza minima di m 0,84, dove si dispone su due filari di pietre, e massima di m 1,16/1,30 nel tratto in cui i ricorsi diventano tre. A sinistra della monofora, invece, in corrispondenza dell’avvallamento del terreno che scende di m 0,26 rispetto al p.d.c., lo spiccato murario si eleva, a sua volta, fino ad un massimo di m 1,16, e di un minimo di m 0,93 dove la quota di base risale riportandosi al livello di partenza. L’intero corpo di fabbrica, dopo il collasso delle murature portanti, non è stato, purtroppo, restaurato nel rispetto di una corretta metodologia di recupero conservativo basata sulle moderne procedure di anastilosi strutturale. Anziché procedere partendo da una attenta e corretta valutazione dell’istanza storica e dell’istanza estetica del monumento, considerato in sè e in relazione all’ambiente in cui esso sorge, ed attenendosi a quei principi basilari sanciti, già alla fine degli anni ’50 del Novecento, dalla riflessione critica di Cesare Brandi,599 esso è stato, invece, “ricostruito”600 installando, lungo il perimetro, una serie di montanti metallici. Tali strutture, per altro ovviamente ricoperte, dopo tanti anni, da deturpanti incrostazioni di ruggine, si innalzano oggi simili ad una enorme gabbia in stridente dissonanza con il paesaggio circostante e con il millenario rapporto simbiotico fra architettura e natura diventate, ormai, due realtà inscindibili di questo angolo del vasto altopiano plestino. Analizzando, ora, ciò che è rimasto dell’antica cortina muraria, muovendo dall’angolo Nord incontriamo una sequenza di conci sufficientemente ordinata, ma priva di uniformità dimensionale e morfologica, la quale, distribuendosi ora su due, ora su tre filari, insiste su un basso zoccolo costituito da masselli di misure piuttosto contenute, non superiori a m 0,48 x 0,20 circa. A giudicare da quanto risulta tutt’oggi leggibile, la tecnica edilizia sembra differenziarsi sensibilmente rispetto alle procedure costruttive registrate lungo i rimanenti tratti del perimetro ecclesiale. I conci antichi che compongono l’emiciclo
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
MURO SINISTRO ABSIDE
CURVA ABSIDALE
MURO DESTRO ABSIDE
ANGOLO CON PARETE SUD
ANGOLO CON PARETE NORD
FINESTRA ABSIDE CRIPTA
P.d.C. P.d.C.
-0,26 -0,08
Tav. XXXI Chiesa di Santa Maria di Pistia: prospetto esterno abside (scala 1:20).
273
Fig. 202 Abside: particolare del tamburo inferiore con i ricorsi lapidei di reimpiego.
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 203 Frammento marmoreo di sostegno a scanalature tortili di epoca altomedievale (Colfiorito, Museo Archeologico).
1 cm 3 cm 5 cm 7 cm 9 cm 0
2 cm 4 cm 6 cm 8 cm 10 cm
e quelli della fascia inferiore del piedritto laterale sinistro, risultano, infatti, uniti a secco, anche nel cordolo di base, con commessure mediamente abbastanza sottili e regolari ed isolate integrazioni a piccole pietre e laterizi negli interstizi determinati dai profili non sempre combacianti con precisione di alcuni blocchi di reimpiego. Siamo in presenza di una concezione architettonica di indubbio interesse (episodicamente attestata, come si vedrà, anche all’interno della cripta) se si considera, nel suo insieme, il particolare contesto monumentale in cui essa si manifesta. Sappiamo, infatti, che nella pieve plestina prevalgono procedure assai più sbrigative che non prescindono mai dal ruolo centrale svolto dall’uso sovrabbondante della malta, depurata o grezza, la quale è costantemente introdotta come legante in ogni parte dell’edificio. Antichi blocchi monolitici, spesso di mole imponente; conci di forme e consistenza assai varie; masselli di piccola taglia
274
ricavati direttamente sul posto; frammenti di tegole, di coppi, di mattoni; ciottoli provenienti dai greti torrentizi o fluviali; tutto ciò che, insomma, poteva risultare utile come materiale da costruzione viene, qui, di solito rimescolato con estrema disinvoltura entro copiosi allettamenti cementizi. Ne scaturisce, come abbiamo visto, quella particolare fisionomia della tessitura muraria che caratterizza, con diverse accentuazioni, ogni settore della chiesa, così come gran parte dell’edilizia “storica” della zona. Solo lungo il lato orientale, e unicamente nei ricorsi lapidei che compongono lo spiccato dell’emiciclo absidale e del setto murario Sud, assistiamo, invece, ad una tecnica che si ispira chiaramente all’opus quadratum di tradizione romana. Qualche difformità rispetto al modello antico si deve alla esigenza delle maestranze di adeguarsi all’estrema eterogeneità della materia prima disponibile in situ al punto che, a volte, l’aspetto tende di più verso una sorta di opus vittatum dove ai conci poligonali viene sostituita una sequenza di pietre lunghe e appiattite. Quanto si è posto in evidenza sembra, dunque, parlare un linguaggio più arcaico che lascia intendere, con buon margine di probabilità, una anteriorità cronologica di questo settore del fabbricato, riportandoci ad un originario impianto protoromanico il quale costituisce la fase più antica a noi nota della fondazione plebana. Del tutto scomparsa risulta, infatti, ogni traccia riconducibile alla precedente basilica paleocristiana che fu sede del locale Vescovo Florentius all’epoca della sua partecipazione ai sinodi simmachiani del 499 e del 502 riportati negli “Acta Synhodorum” riferibili a quegli anni.601 Nel merito degli indizi riferibili a questo primitivo edificio, risalente, a quanto pare, almeno all’avanzato V sec. d.C., troppo esigui e di incerta o vaga provenienza si rivelano gli scarsissimi oggetti, oggi esposti nel Museo Archeologico di Colfiorito (primo piano, “Sala Plestia”, vetrina 10), i quali, nell’attuale didascalia museale, vengono definiti in modo molto generico, “di età longobarda” e dubitativamente provenienti “dallo scavo della chiesa di Plestia?”. In relazione a tale problema, una breve digressione si rende necessaria a proposito di uno di essi il quale è, forse, quello che teoricamente potrebbe rivestire per noi maggior interesse, non essendo un manufatto da corredo funebre, come all’apparenza sembrano essere gli altri, bensì
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
Fig. 204 Abside, settore sinistro: particolare del paramento murario inferiore di I Fase. Fig. 205 Abside, settore sinistro: particolare dell’alzato di II Fase.
un elemento architettonico. Si tratta di un frammento di sostegno a base espansa (inv. 603560), con attacco del fusto ad ampie scanalature tortili (colonnina? labrum ?),(Fig. 203) definita in “breccia rossa” ma, più probabilmente, in marmo Pavonazzetto rilavorato, potenzialmente riferibile ad un contesto alto-medievale. Il pezzo costituisce, indubbiamente, una significativa testimonianza di continuità, che non riesce, tuttavia, a gettar luce sufficiente sulla fase post-antica di frequentazione di quest’area e sulle origini della primitiva sede della diocesi plestina. Tornando, dunque, all’analisi strutturale del corpo di fabbrica, va notato come la tecnica a secco interessi l’intera curva absidale interrompendosi proprio in coincidenza del limite superiore sopravvissuto al crollo, cioè ad una quota massima di m 1,16 dal p.d.c. che si mantiene inalterata anche nel breve tratto della parete sinistra (Sud). Quest’ultima, non essendo stata coinvolta
dal collasso dei muri portanti, ha conservato l’originario alzato medievale, andato, invece, irrimediabilmente perduto nel resto del perimetro Est. É proprio qui dove è possibile osservare un netto e chiaro mutamento nel metodo costruttivo: al di sopra della suddetta quota, infatti, si nota un repentino abbandono del procedimento a secco e l’adozione di quello cementizio(Figg. 204-205) in cui, come altrove, riprende a confluire la tipica congerie di materiali litici di diversa natura e, soprattutto, di dimensioni mediamente più contenute. In questo punto la muratura torna a riproporre, dunque, la sua nota e tradizionale tessitura fino a dove l’arbitraria apertura del grande finestrone centinato ne interrompe la continuità, deturpandone, tra l’altro, l’aspetto con una estesa tamponatura a malta grossolana. Non siamo in grado, naturalmente, di sapere se altrettanto si verificava, un tempo, nell’elevazione del prospetto absidale, ma se così fosse, come è assai probabile, allora sarebbe legittimo
275
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
concludere che nel cantiere plestino siano da riconoscersi due distinte fasi edilizie: la più antica, alla quale ascrivere anche la realizzazione della cripta, inquadrabile, all’incirca, entro i primi decenni dell’XI sec. quando, per primo, si innalzò il corpo orientale che è plausibile considerare come il nucleo superstite del primo edificio medievale, forse ricostruito, in parte, sulle rovine della precedente fondazione paleocristiana. La fase successiva sembra, invece, risalire allo scorcio iniziale del sec. XII, dopo che alla chiesa venne assegnato, per la prima volta, il titolo di “pieve”, dotandola quindi di un fonte battesimale, ed essa iniziò ad essere frequentata da una più consistente comunità di fedeli. Fu probabilmente in occasione della nuova funzione assunta “in ducato Spoletano, in comitato Fulginato”602 che si innalzò il tempio nelle sue forme pressoché definitive, in grado di offrire spazi adeguati al suo ruolo di luogo di incontro e di devozione a livello regionale. La porzione del setto parietale Nord, al contrario, si presenta molto rimaneggiata: pur conservandosi, infatti, ancora qualcuno dei grossi massi di recupero, tipologicamente affini a quelli adiacenti, si riconoscono facilmente le tracce delle lacune determinatesi nella compagine muraria e sbrigativamente risarcite con i consueti caotici riempimenti di pietrame, scaglie di laterizi e approssimative integrazioni a malta. Queste giungono fino ad una altezza di circa m 2/2,10, dopo di che il rivestimento lapideo riprende con la stessa regolare fisionomia a masselli piatti, separati da spesse fughe cementizie, presente alla estremità opposta. Sembra, dunque, che fino a questo livello arrivasse la struttura più antica nella zona absidale destra e che da qui abbiano cominciato il loro lavoro le squadre di operai attive nel corso della fase più tarda, realizzando il nuovo alzato dopo aver restaurato “alla buona” il nucleo sottostante. Passando all’analisi morfologico-strutturale dei conci reimpiegati, incontriamo una grande varietà di forme, dimensioni e qualità petrografiche che, salvo rare eccezioni alla destra della monofora centrale e in corrispondenza dell’angolo Nord, rivelano uno stato di conservazione senz’altro superiore alla media, anche nel caso di materiali più teneri e soggetti, quindi, ai fenomeni di deterioramento provocati dal tempo e dall’uomo. Segno, questo, di un processo di selezione più rigoroso all’ori-
276
gine che ha valutato con maggior cura la scelta dei pezzi più idonei, anche dal punto di vista degli indici di coesione e delle qualità petrografiche. Troviamo esemplari di solida stazza (da sx.: m 0,69 x 1; m 0,63 x 0,48; m 0,86 x 0,58; m 0,60 x 0,58) in calcare grigio chiaro tenero e in calcare travertinoso grigio scuro compatto, simili a quelli del fianco esterno Nord dell’edificio, concentrati nella metà destra dell’emiciclo absidale. Nella metà sinistra, invece, prevalgono conci di misure più contenute, ad esclusione del secondo (m 0,70 x 0,50) e del quarto da dx. (m 0,94 x 0,72) e dei due angolari inferiori Sud (m 0,69 x 0,57; m 0,78 x 0,50), ma soprattutto di diversa qualità. Si tratta, infatti, in molti casi della nota brecciola calcarea locale, di color bruno-rosato, a grossi clasti biancastri e di consistenza porosa e fragile a causa, come si è già diagnosticato, di un difettoso processo di cementificazione, qui documentata anche da una variante grigio cenere piuttosto rara negli altri settori murari dell’edificio. Le superfici, pur se aggredite dagli agenti atmosferici, hanno mantenuto, mediamente, una maggiore integrità e, in particolar modo, profili e tagli assai più regolari e geometrici, dimostrando una minor deformazione già in antico al momento della loro asportazione dal contesto primario di giacitura. Nei numerosi blocchi e masselli schiacciati e sviluppati principalmente in lunghezza, ricorre, al contrario, un tipo di pietra calcarea molto dura, color bianco gesso sporco, che non compare praticamente mai lungo i paramenti esterni (un unico caso si segnala nel fianco meridionale, subito dopo la fine del porticato, quasi al di sotto della finestrella aperta in corrispondenza della scaletta presbiteriale interna), mentre si ripresenta con una certa frequenza, come si vedrà, in alcuni alzati perimetrali della cripta. In conclusione, alla luce di quanto si è potuto osservare, sembra che per l’innalzamento del corpo absidale ci si sia rivolti, sostanzialmente, alle stesse emergenze monumentali di epoca romana prescelte anche nel corso della successiva fase edilizia, per quanto attiene, almeno, i blocchi dimensionalmente più imponenti. Riguardo, invece, ai ricorsi lapidei disposti in sequenza piatta e contraddistinti dal calcare chiaro, giocato sulle varietà cromatiche color gesso e bianco spento, siamo di fron-
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
te, con ogni probabilità, ad un contesto diverso. Questa specifica qualità di pietra venne sfruttata, a quanto pare, soltanto nell’ambito del cantiere più antico e sembrerebbe riconducibile a presenze architettoniche ubicate nell’area posta a oriente dell’edificio, sulle quali si tornerà in maniera più dettagliata nel successivo Cap. XI. Essa scompare, infatti, salvo isolati ed insignificanti frammenti, all’interno delle superfici murarie più tarde che fiancheggiano, su entrambi i lati, il grande finestrone moderno dove tornano a imporsi conci medio-piccoli nella consueta brecciola plestina dominante nelle fiancate Sud, Ovest e lungo buona parte del perimetro ecclesiale interno. f. Il porticato ovest e sud Con le due ali porticate collocate davanti al lato Ovest e lungo il fianco meridionale, realizzate, presumibilmente,603 all’indomani della bonifica della palude plestina da parte dei Varano di Camerino ci troviamo di fronte a quella che possiamo considerare la terza e ultima fase edilizia della chiesa di Santa Maria. La struttura, ripavimentata con moderne lastre di pietra grigia in occasione dei restauri degli anni ’60 del Novecento, si antepone totalmente alla facciata con quattro pilastri(Figg. 191, 206) e parzialmente (m 17,03) al lato Sud con sei pilastri,(Figg. 197, 207) lasciandone libero l’ultimo tratto di m 5,21 verso l’estremità orientale. Anche le profondità non corrispondono: più stretta sulla fronte (m 2,45) e un po’ più ampia sull’altro versante (m 2,86). Nel complesso, dunque, aspetto e dimensioni risultano decisamente modesti e contenuti, in grado di offrire riparo ad un numero limitato di persone e di merci che, quindi, necessitavano molto probabilmente di ulteriori spazi recettivi, soprattutto in coincidenza di periodici appuntamenti di ampio richiamo (religiosi e fieristici). Questi erano i momenti in cui le presenze raggiungevano indici più elevati e, di conseguenza, aumentavano anche le necessità organizzative. L’esigenza di gestire flussi particolarmente sostenuti di fedeli, viandanti, pastori, produttori e commercianti specializzati, in particolare, nella lavorazione e nello smercio dei ricavati dall’allevamento ovino (lana, prodotti caseari) e dalle attività legate al settore vitivinicolo-oleario, ci riporta
Fig. 206 Il porticato antistante la facciata. Fig. 207 Il porticato lungo il fianco Sud.
277
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
PILASTRO 6
PILASTRO 7
2,795 m
PILASTRO 8
2,78 m
FRONTE
LATO DESTRO
2,83 m
FRONTE
PILASTRO 1
LATO DESTRO
2,83 m
FRONTE
2,85 m
FRONTE
PILASTRO 2
2,93 m
LATO DESTRO
Tav. XXXII Chiesa di Santa Maria di Pistia, portici Ovest e Sud: sequenza dei pilastri (scala 1:20).
278
PILASTRO 9
LATO DESTRO
PILASTRO 3
LATO DESTRO
LATO DESTRO
PILASTRO 4
2,83 m
FRONTE
FRONTE
2,87 m
FRONTE
LATO DESTRO
FRONTE
LATO DESTRO
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
PILASTRO 10
2,79 m
FRONTE
LATO DESTRO
PILASTRO 5 (ANGOLARE)
al problema, di cui già ci si è occupati,604 relativo alla costruzione del corpo di fabbrica, oggi scomparso, lungo il fianco Nord della chiesa. Quanto detto, infatti, offre un convincente contributo che sembrerebbe accertare la correttezza della sua attribuzione al medesimo periodo della realizzazione del porticato, essendo quest’ultimo dimensionalmente insufficiente a svolgere, da solo, il ruolo assegnatogli. Tale discorso, ci conduce indirettamente a spiegarci anche il motivo della particolare configurazione assunta dalla struttura in oggetto la quale si presenta in una veste dimessa e disadorna, assolutamente priva di qualità estetiche e di ambizioni monumentali, molto più consona ad una dimora colonica che a un edificio sacro. Essendo sorta esclusivamente allo scopo di fornire asilo in particolari circostanze, principalmente a componenti sociali di umili condizioni appartenenti alle comunità rurali del circondario, o addette alle attività armentizie e alla transumanza tra la regione marchigiana e quella umbro-laziale, è evidente che essa mostri i segni di una edilizia essenziale e innalzata con economia di mezzi. I dieci pilastri di sostegno ne costituiscono la prova più tangibile: appare in tutta la sua evidenza una tecnica costruttiva molto sommaria, con valori sia in altezza, sia in larghezza marcatamente diseguali fra loro.(Tav. XXXII) Altrettanto vistose risultano le anomalie dimensionali ravvisabili nelle misure degli intercolumni, specie in coincidenza dell’angolo Sud-Ovest, con scarti consistenti che addirittura, in qualche caso, superano abbondantemente il metro, come riportato nella seguente tabella:
2,80 m
Portico Ovest (Facciata)
FRONTE
LATO DESTRO (=FRONTE SUD)
Portico Sud
Intercolumni
Misure intercolumni
1-2
2,57
2-3
2,15
3-4
2,38
4-5
1,98
5-6
1,62
6-7
3,00
7-8
3,02
8-9
3,55
9 - 10
2,36
279
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
tiva omogeneità. Dalla metà, circa, in su, invece, l’aspetto cambia radicalmente: infatti subentra, nella quasi totalità dei casi, una congerie di pietrame, schegge litiche di ogni sorta, frustuli e scaglie di mattoni e tegole di diverso spessore e colorazione, estesi riempimenti cementizi, che giungono fino a dove si appoggia, anche qui non sempre con inclinazione costante, la travatura lignea della falda di copertura; quest’ultima, tra l’altro, ampiamente restaurata, con parte dei coppi di recente fattura.
Fig. 208 Pilastro 1. Fig. 209 Pilastro 2.
Portico Ovest (facciata). Pilastro 1.(Fig. 208) h. m 2,93; largh. max. m 0,46; spess. max. m 0,94 (min. m 0,80).
Anche i materiali utilizzati sono, in linea di massima, estremamente vari, non di rado sovrapposti in maniera molto imprecisa con marcati disassamenti, profili angolari quasi sempre discontinui e appiombi privi di ortogonalità. Elevato si presenta il numero dei pezzi antichi di reimpiego, di forme assai eterogenee ed estratti da formazioni rocciose calcaree o brecciose, tutte di origine locale ma abbastanza differenziate nell’aspetto e nelle proprietà petrografiche. Accentuatamente diverse risultano anche le proporzioni dei singoli conci ottenuti, di frequente, frantumando e risagomando pietre di spoglio per adattarle alla nuova sede di alloggiamento. I frammenti di consistenza maggiore occupano, ovviamente, le posizioni più basse del pilastro, e questa possiamo considerarla l’unica norma di statica edilizia rispettata; le parti inferiori, quindi, sono quelle che, anche dal punto di vista formale, sono caratterizzate da una maggiore rela-
280
La porzione inferiore è occupata interamente da un unico grosso monolite di sagoma parallelepipeda irregolare che raggiunge un’ h. di m 1,34, una largh. max. di m 0,46 e una prof. di m 0,94. La pietra è costituita dalla nota brecciola calcarea, a grossi clasti biancastri, in questo caso nella variante grigio chiara con superficie molto grezza e danneggiata da diffusi fenomeni disgregativi: più deboli sul lato destro (la probabile originaria faccia a vista), rivolto verso lo spazio riparato del portico, e più accentuati, invece, su quello sinistro, privo di lavorazione già in antico ed esposto per secoli in direzione dell’area aperta a Nord. Al di sopra, fino alla travatura terminale di sostegno, si susseguono pietre piatte e lunghe, a volte, quanto la larghezza del piedritto, ora in brecciola sempre grigia, ora in compatto calcare bianco, tegole spezzate ed estese tamponature in malta. Pilastro 2.(Fig. 209) h. m 2,83; largh. media m 0,40 (m 0, 49 alla base); spess. m 0,42. La struttura del pilastro 2 si presenta dimensionalmente diversa da quella precedente: tanto in altezza, inferiore di 10 cm, quanto, soprattutto, nello spessore che appare qui assottigliato di circa la metà. Sopra una base in piccole pietre mal cementate, che simulano una sorta di rudimentale plinto, insiste un masso di sagoma abbastanza regolare (m 0,70 x 0,42) al quale
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
si sovrappongono conci di piccole e medie proporzioni (misure max. di m 0,38 x 0,28) attestati in entrambe le varianti cromatiche della brecciola calcarea locale, bruno-rosata e grigia. Nella maggior parte dei casi, appaiono aggrediti da accentuati fenomeni di alveolizzazione e, qua e là, da formazioni di colonie lichenose biancastre e color ruggine su tutte le facce. La parte sommitale ripropone la già nota alternanza di laterizi, pietra calcarea bianca e malta grezza.
Fig. 210 Pilastro 3. Fig. 211 Pilastro 4.
Pilastro 3.(Fig. 210) h. m 2,83; largh. m 0,56 (m 0,74 alla base); spess. m 0,76 (m 0,84 alla base). Ad una identità di misura in altezza rispetto al pilastro precedente, si contrappongono una larghezza ed uno spessore decisamente superiori, rispettivamente di m 0,16 e m 0,34. La base è stata, qui, realizzata reimpiegando un grande rocchio deformato di colonna alto m 0,64 e con un diametro max. di m 0,84. Esso sembra confrontabile, malgrado le dimensioni un po’ inferiori, con l’esemplare murato alla base del fianco esterno Nord,(Fig. 195) con quello erratico conservato al di sotto del portico meridionale e con il frammento collocato all’inizio del muro tardo presso l’angolo Nord-Ovest della chiesa.(Fig. 186) Tutti e quattro, al di là delle affinità proporzionali, sono accomunati dal medesimo tipo di breccia calcarea che, nel rocchio in questione, risulta pesantemente danneggiato da estese rotture, erosioni superficiali e numerosissime microbucherellature, spesso ravvicinate e profonde al punto da determinare vere e proprie cavità canalizzate, in diversi casi intercomunicanti, divenute dimore di insetti e ragni. L’alzato continua per m 0,66 con due massi di stazza media (m 0,56 x 0,35; m 0,56 x 0,38), larghi tanto quanto la facciata del pilastro, che alternano la fragile brecciola plestina nel primo, con il calcare compatto bianco nel secondo, quest’ultimo particolarmente interessante dal punto di vista petrografico grazie, in questo caso, proprio alla precarietà del suo stato di conservazione che ne ha fatto emergere, parzialmente, il nucleo sottostante i livelli più superficiali. Esso, infatti, rivela lungo i piani di rottura la sua tipica tettonica strutturale, caratterizzata da scagliette stratificate, di dimensioni centimetriche, saldamente coese e con disposizione “a mosaico”.
Si tratta, in generale, del noto litotipo locale dall’aspetto piacevolmente gessoso, piuttosto comune nella nostra zona, contraddistinto, in genere, da superfici ben levigate e omogenee e da un biancore abbastanza uniforme che, in qualche caso, assume un aspetto quasi marmoreo. Di esso siamo, però, in grado di osservare, qui, una variante dovuta ad una peculiare conformazione interna da cui sono ricavabili dati macroscopici utili ai fini di una possibile catalogazione preliminare. Quest’ultima, ancorché principalmente basata per ora solo su un’analisi autoptica, si rivela, comunque, applicabile ad una pluralità di contesti antichi del territorio in cui è documentato l’uso di questa pietra. Nei restanti m 1,56 che mancano alla conclusione del piedritto, a parte un paio di pezzi ancora di una qualche consistenza sistemati d’angolo al quarto e quinto filare e ricavati dalla consueta breccia spugnosa, ancora una volta molto compromessa in superficie, il resto è affidato
281
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
a clasti piuttosto grossi, in qualche caso persino decimetrici, versano in condizioni assai precarie. Ne risulta infatti compromessa, in diversi punti, la regolarità del taglio e, quindi, l’originaria sagoma parallelepipeda, deformata in modo accentuato soprattutto lungo i profili, a tratti maldestramente integrati da ripetuti e sbrigativi rinzaffi. La superficie, aggredita da una alveolizzazione talmente diffusa e penetrante da aver eroso anche parte degli strati più profondi della debole componente calcitica, reca, in particolare nel grande masso mediano, estese cavità canalizzate, mentre nel concio superiore l’emergere di una miriade di minuscoli clasti bianchi, alternati a zone popolate da inclusi litici di dimensioni maggiori, denota un processo di avanzata decoesione strutturale determinata da un evidente impoverimento del cemento calcareo. A m 1,78 da terra, vale la pena segnalare un quarto pezzo le cui facce a vista mostrano, anche in questo caso, quella fitta e sottile fessurazione che caratterizza la tessitura c.d. “a mosaico” tipica del calcare compatto color bianco intenso diffuso nella zona, già individuato nel pilastro precedente.
Fig. 212 a Pilastro angolare 5: faccia Ovest. Fig. 212 b Pilastro angolare 5: faccia Sud.
Portico Sud. principalmente ad un eterogeneo miscuglio di laterizi di diverse misure e pietrame vario, tenuti insieme da grossolani interventi a malta di consistenza granulosa.
Pilastro 5.(Figg. 212 a-b) h. m 2,80; largh. max. m 0,58 (min. alla base m 0,51); spess. max. m 0,64 (min. alla base m 0,58).
Pilastro 4.(Fig. 211) h. m 2,87; largh. max. m 0,84 (min. m 0,67); spess. medio m 0,73.
É il pilastro angolare dal quale ha inizio il lato Sud del porticato. É, forse, uno dei più anonimi per l’assenza di tipologie litiche particolarmente significative, anche dal punto di vista dimensionale, ripetendosi, lungo il suo intero sviluppo in altezza, la consueta successione di pezzi di stazza medio-piccola, caratterizzati dalle ormai note qualità petrografiche ricorrenti in gran parte dell’edificio. Gli unici due aspetti da segnalare sono costituiti: il primo dal netto prevalere di masselli e pietrame frantumato in calcare bianco gesso compatto rispetto ai frammenti in brecciola spugnosa; il secondo dal conseguente impiego particolarmente abbondante della malta, resosi necessario in seguito all’elevato numero di ciottoli, mi-
Massi di grossa e media taglia occupano quasi per intero, tranne gli ultimi 36 cm, soprattutto le facce Ovest e Sud del pilastro, mentre sulle restanti due prevalgono tegole frammentarie e piccole pietre molto irregolari ottenute dalla frantumazione di conci più grandi, in maggior parte di duro calcare bianco analogo a quello del piedritto precedente. I tre blocchi sovrapposti nella metà inferiore (dal basso, rispettivamente di m 0,71 x 0,68; m 0,84 x 0,65; m 0,73 x 0,34), tutti sempre in brecciola bruno-rosata e grigia
282
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
nuscole scaglie litiche e laterizi che hanno imposto un aumento dei quantitativi di legante cementizio in grado di solidificare la tenuta strutturale del piedritto.
Fig. 213 Pilastro 6. Fig. 214 Pilastro 7.
Pilastro 6.(Fig. 213) h. m 2,795; largh. max. m 0,63 (min. in zona sommitale m 0,58); spess. m 0,54. Assai frequenti, nel pilastro 6, appaiono le integrazioni a malta, decise, in questo caso, oltre che per unire mattoni e piccole pietre irregolari, anche per colmare appariscenti lacune nelle sagome dei conci, soprattutto in quelli inseriti alla base e nella parte inferiore. Analogamente a quanto è stato rilevato nei piedritti n. 3 e 4, nel grosso masso inferiore d’appoggio, in brecciola calcarea biancastro-bruno-rosata, sono chiaramente riconoscibili i segni diffusi e profondi dei danni subiti dal tessuto litico, in diversi punti letteralmente mangiato e perforato in profondità da ampie fessure, alcune delle quali anche di dimensioni centimetriche. Identico fenomeno di avanzata decoesione dei clasti, immersi in un cemento scarso e impoverito, è ravvisabile nel concio del settimo filare del lato meridionale. Di particolare interesse, sempre sotto il profilo petrografico, risultano il secondo e il terzo concio dal basso: il primo appartiene alla già nota categoria con tessitura “a mosaico” rilevabile nei pilastri 3-4, 8-9; con il secondo, invece, fa la sua comparsa una nuova tipologia caratterizzata da una struttura “scistosa” a lunghe scaglie piano-parallele la quale introduce una ulteriore variante all’interno delle formazioni calcaree appartenenti alla facies medio-appenninica attestata in area plestina. Merita una segnalazione, al riguardo, la presenza all’interno dei piani di scistosità di un incluso enallogeno color ocra di sagoma allungata, presumibilmente di natura magmatica, che anticipa la variante xenolitica meglio documentata, come si vedrà, dal pilastro n. 10. Pilastro 7.(Fig. 214) h. m 2,78; largh. max. m 0,56 (min. alla base m 0,52); spess. m 0,51. Strutturato in maniera un po’ più ordinata e coerente, specie nell’alternanza delle diverse tipologie litiche e
degli intermezzi laterizi che animano il prospetto principale Sud, il pilastro 7 si distingue per le sagome mediamente più regolari dei conci che lo compongono. Fra essi, va menzionato quello di poderosa consistenza (m 0,52 x 0,48) sistemato alla base sopra un rudimentale zoccolo cementizio. Al pari di quello sovrastante, esso si presenta aggredito pesantemente dagli agenti climatici responsabili delle rotture, delle profonde cavità e della fitta bucherellatura che ne deturpano l’aspetto, compromesso anche da diffuse efflorescenze color biancastro-ruggine prodotte dall’attecchimento di microrganismi autotrofi e da tenaci formazioni lichenose. Spicca, invece, quasi al centro del lato meridionale un bell’esemplare, accostabile a quello inserito nel pilastro n. 9, di forma quasi quadrata, che con i suoi m 0,56 x 0,46 occupa l’intera larghezza del prospetto. Insolitamente ben conservata, salvo deboli screpolature, la faccia a vista mostra le ottime qualità della pietra calcarea, molto
283
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
coesa e di un bianco puro che la rende somigliante ad un marmo: aspetti che consentono di riconoscere nel pezzo in esame l’olotipo che caratterizza questa particolare facies dei calcari appenninici umbro-marchigiani. Simili caratteristiche si riscontrano nei due conci sottostanti, collocati in posizione angolare, interessati, però, da scalfitture e fessurazioni un po’ più consistenti. Una certa maggior cura prestata nella fase esecutiva, è individuabile anche al di sopra, tanto negli ordinati ricorsi in laterizi abbastanza integri, quanto nella spessa lastra in brecciola grigia scelta in virtù della sua inconsueta regolarità morfologica, ben adattabile alle dimensioni del piedritto, e del suo aspetto relativamente danneggiato.
Fig. 215 Pilastro 8. Fig. 216 a Pilastro 9: faccia Sud. Fig. 216 b Pilastro 9: faccia Est, particolare del grosso concio di base con ampia risega superiore.
Pilastro 8.(Fig. 215) h. m 2,83; largh. m 0,54; spess. m 0,52.
Con l’ottavo sostegno ritorniamo a quella rozza ed affrettata tecnica edilizia che abbiamo visto quasi costantemente applicata nella realizzazione dell’intera pilastratura porticata. Il primo segnale lo si coglie in corrispondenza della base d’appoggio: una sorta di pseudo plinto scentrato verso Nord rispetto alla verticale della struttura e realizzato mescolando frammenti informi di pietrame, pezzi di mattoni rotti malamente e usati come zeppe sotto la prima fila di conci, più una porzione di lastra completamente fuori asse sul lato settentrionale. In compenso, abbastanza ampio si presenta il ventaglio delle tipologie litiche riconosciute fio ad ora fra i materiali edilizi di reimpiego. Lungo l’alzato si alternano, generalmente in maniera caotica e con sagomature spesso piuttosto approssimative, diverse qualità soprattutto di calcari bianchi fra i quali vanno segnalati: alcuni con struttura “a mosaico” (come nei piedritti n. 3-4, 6, 9), altri contraddistinti da una conformazione “scistosa” a piani paralleli (terzo, sesto e settimo filare Sud), che richiama molto da vicino quella presente nel pilastro n. 6; uno (a metà della faccia Ovest) classificabile probabilmente fra gli olotipi a colorazione bianco marmorea (si veda il pilastro n. 7), e, infine, una particolare variante (2 a) di quest’ultimo la quale si distingue per la superficie bianco lattea percorsa, in questo caso, da sottili venature rosee. Rimanendo nell’ambito della tipologia base delle rocce
284
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
calcaree bianche, quella cioè a clasti mal cementati, ma qui in misura molto minore, merita un accenno il grosso masso che funge da sostegno principale del pilastro (m 0,44 x 0,42) il quale, sulla faccia a vista Sud, in prossimità del margine inferiore destro, conserva la traccia ben visibile di un incavo pseudo rettangolare destinato all’alloggiamento di un perno metallico ad “olivella”, pertinente ad un sistema di ancoraggio all’interno di un contesto edilizio primario di epoca romana. Pilastro 9.(Figg. 216 a-b) h. m 2,85; largh. max. (alla base) m 0,80 (min. lungo il fusto m 0,54); spess. m 0,50. Il piedritto in esame si distingue da tutti gli altri per l’alto piedestallo che lo sostiene, in posizione accentuatamente disassata verso Ovest (h. m 0,72; largh. m 0,80). Quest’ultimo è costituito da un grosso masso in brecciola biancastro-bruno-rosata, deformato lungo il margine sinistro; in corrispondenza della porzione superiore della faccia Est, è visibile una netta e regolare risega rientrante di m 0,04 e alta m 0,10.(Fig. 216 b) Al di sopra si sovrappongono due conci in calcare bianco, di taglia medio-piccola, mescolati a mattoni e malta, i quali, assieme ad altri tre sistemati nella metà superiore e ad una lastra piatta inserita poco al di sotto della falda di copertura, rientrano nella categoria dei calcari a scaglie stratificate con disposizione “a mosaico” già in precedenza incontrati nei n. 3-4, 6 e 8. Al pilastro n. 7, invece, ci riporta il grande lastrone (m 0,78 x 0,53; spess. m 0,26) che si appoggia in verticale pochi cm al di sopra del piedestallo e dal quale si origina la struttura dell’alzato. Anche in questo caso, si tratta di un bell’esempio di calcare compatto bianco, abbastanza ben conservato anche nella regolare geometria del contorno che ha determinato la misura in larghezza dell’intero sostegno. La superficie, marginalmente percorsa da impercettibili venature ad andamento variato, ha mantenuto un relativo grado di levigatezza cui si accompagna un notevole indice di solidità: caratteristiche che ne consentono una classificazione nell’ambito dei calcari monogenici plestini ad elevato indice di purezza, cromaticamente assimilabili al marmo. Un processo di decementificazione dei clasti giunto ad
uno stadio piuttosto avanzato, si manifesta, infine, nella brecciola calcarea grigio chiaro della spessa lastra posta immediatamente al di sopra. Pilastro 10.(Figg. 217 a-b) h. m 2,79; largh. max. (alla base) m 0,82 (al fusto m 0,64); spess. max. (alla base) m 1,52 (al fusto m 0,56). Con il pilastro 10 termina il porticato Sud. La conclusione appare intenzionalmente segnalata dalla marcata sporgenza di circa 1 m, verso l’interno, del grande masso monolitico inserito alla base(Fig. 217 b) che funge quasi da diaframma di chiusura del deambulatorio, pur non innestandosi alla muratura di fondo rispetto alla quale viene risparmiato un varco ampio m 1,32. É fuori dubbio che il pezzo, unico per le sue dimensioni gigantesche (h. max. m 0,92; largh. m 1,52; spess. max. m 0,82), si distingue quale elemento di spicco, non soltanto
285
Fig. 217 a Pilastro 10: faccia Sud. Fig. 217 b Pilastro 10: faccia Est.
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
ma sottile ed allungata, verificabili qua e là anche altrove (pilastro 6 e parete Sud della chiesa), che potrebbero sottintendere l’esistenza, in antico, di più cave estrattive di questa pietra dislocate nella zona. Al di sopra, si ripropone, infine, la ormai nota mescolanza di conci, il più delle volte tagliati con notevole imprecisione, uniti ricorrendo ad una cementificazione frettolosa a malta grezza.
Fig. 218 Particolare della controfacciata.
del pilastro a cui appartiene, ma anche dell’intera struttura porticata, dandoci un’idea della mole originaria che potevano, molto probabilmente, raggiungere anche altri blocchi lapidei di reimpiego, spesso rimpiccioliti e risagomati opportunamente per essere adattati ai nuovi contesti murari della chiesa. Sopraelevato di m 0,28 da un consistente zoccolo irregolare, ottenuto assemblando una eterogenea mescolanza di conci rozzamente spaccati, mattoni e consistenti riempimenti in malta grezza, il pezzo presenta le due facce minori, soprattutto quella Sud, compromesse da gravi danni strutturali. Questi hanno coinvolto, in parte, anche il lato Ovest dove estese erosioni e lacune hanno accentuatamente deformato l’originaria sagoma a parallelepipedo, creando vuoti maldestramente riempiti con mattoni e pietrame. La precarietà dello stato di conservazione è dovuta, ancora una volta, alla natura particolarmente friabile della brecciola calcarea biancastro-bruno-rosata la quale si presenta, come nella maggior parte dei numerosi casi analoghi, aggredita e perforata in più punti. La restante parte dell’alzato, pari a m 1,69, non rivela caratteristiche degne di nota, salvo che per la grossa lastra inserita poco oltre la metà dell’altezza: la sua struttura, infatti, contraddistinta dal tipico calcare appenninico bianco, risulta, in questo caso, interessata da alcune intrusioni xenolitiche color rosa pallido, di cui una di for-
286
In conclusione, l’insieme dei dieci pilastri delle due ali porticate non offre elementi di particolare rilevanza per quel che riguarda le caratteristiche morfologiche dei diversi pezzi di spoglio. In alcuni casi, suscitano un certo interesse gli aspetti dimensionali i quali, specie alla base di più della metà dei piedritti (n. 1-2-3-4, 9-10), raggiungono misure insolitamente considerevoli e al di fuori degli "standard" attestati nei reimpieghi dell’edificio ecclesiale, trovando, saltuariamente, qualche riscontro soltanto in alcuni resti ancora visibili nell’ambito dell’area occupata dal municipium plestino. Piuttosto, meritevole di attenzione risulta la gamma abbastanza ricca di materiali litici, in merito, soprattutto, alle non poche varianti cromatico-tessiturali riconducibili a due qualità fondamentali di calcari locali da costruzione, tipici dell’edilizia antica del nostro territorio. Esse consentono, infatti, di avviare un’indagine petrografica preliminare, anche se basata per ora su un’analisi autoptica limitata agli aspetti macroscopici, grazie alla quale proporre una inziale catalogazione dei resti disponibili, mai affrontata finora in campo archeologico. L’augurio è che essa possa diventare propedeutica a futuri studi di laboratorio più approfonditi ed estesi ai diversi giacimenti di rocce calcaree della zona, giungendo, dove possibile, ad una loro mappatura e alla creazione di banche-dati al momento inesistenti.605
B. Gli spazi interni 1. La navata a. La controfacciata I pesanti e diffusissimi interventi di restauro svolti su settori molto ampi delle superfici murarie interne han-
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
SEZIONE PILASTRO ROMANO PARETE SUD PROSPETTO PODIO MEDIEVALE E CONCI DI REIMPIEGO
SEZIONE PILASTRO ROMANO PARETE OVEST PROSPETTO PODIO MEDIEVALE E CONCI DI REIMPIEGO
STIPITE SINISTRO PORTA CHIESA
ANGOLO FRA MURI SUD ED OVEST
ANGOLO FRA MURI OVEST E SUD
LIVELLO PAVIMENTALE CHIESA
SOLETTA MODERNA
PILASTRO 1
PODIO MEDIEVALE PILASTRO 2
MURO INTERMEDIO SEZIONE MURO E 1° PILASTRO EDIFICIO 3,27 m PORTICATO DI ETÀ ROMANA
PIANO ANTICO
no quasi completamente cancellato sulla controfacciata ogni traccia, non solo dei reimpieghi di materiale edilizio antico, ma anche dell’originario paramento medievale, integrato e nascosto, oggi, sotto una spessa coltre di anonimo intonaco biancastro. Qualche sporadico avanzo sopravvive unicamente lungo gli stipiti della porta d’ingresso,(Fig. 218) in coincidenza dello spiccato murario della metà sinistra e, soprattutto, nei livelli sottopavimentali dell’angolo Sud-occidentale dove gli scavi archeologici svolti agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso hanno portato alla luce una porzione abbastanza significativa delle strutture basamentali.(Fig. 219) Sorvolando sulla sparuta presenza dei pochi pezzi, nella consueta brecciola calcarea locale rosata, sovrapposti in dieci filari in corrispondenza dell’angolo sinistro del portale che occupano una superficie non superiore ai m 0,64, un semplice accenno merita il ricorso lapideo inferiore appoggiato sopra un compatto riempimento cementizio di m 0,60 di spessore. Si susseguono, qui, inter-
MURO INTERMEDIO 0,88 m
PIANO ANTICO 3,35 m
SEZIONE MURO E 2° PILASTRO EDIFICIO PORTICATO DI ETÀ ROMANA
vallati da vuote superfici intonacate di recente, tre conci di cui due di grossa taglia (da dx. rispettivamente m 1,12 x 0,42 e m 0,86 x 0,76), i quali sembrano rientrare in una categoria a sé stante di pietra calcarea che non trova confronti puntuali fra i materiali antichi incontrati, fino a questo momento, lungo gli alzati esterni della chiesa. Le uniche affinità sono riconoscibili, sempre limitatamente ad una analisi macroscopica, con quelli che compongono, come si vedrà, il ricorso inserito al di sopra del podio medievale e il filare alla base del muro Nord del presbiterio e che, in minima parte, rintracciamo anche all’interno della parete Sud e, forse, nella metà sinistra esterna della facciata. Si tratta di un particolare genere di calcare biancastro-bruno-rosato, caratterizzato da una qualità superiore alla media e strutturalmente accostabile all’olotipo bianco puro introdotto nei pilastri 7 e 9 del portico Sud, che si affaccia per la prima volta nel panorama petrografico dei materiali di spoglio presenti nell’edificio sacro.
287
1,54 m
SEZIONE PODIO PARETE OVEST
1,33 m
PILASTRO IN CEMENTO ARMATO
1,27 m
PODIO MEDIEVALE
1,98 m
1° MASSO PARETE OVEST
PILASTRO IN CEMENTO ARMATO
PROSEGUIMENTO MURO VERSO ESTERNO CHIESA
Tav. XXXIII Chiesa di Santa Maria di Pistia: saggio di scavo sottopavimentale nell’angolo Sud-Ovest (scavi SAU 1967-1968; rilievo dello scrivente comprendente il podio medievale della chiesa e i conci antichi di spoglio della controfacciata e dello spiccato murario Sud: a. 2013) (scala 1:20).
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 219 Angolo Sud-Ovest del podio medievale. Fig. 220 Podio medievale, lato Ovest: particolare dei materiali lapidei romani di reimpiego.
Se dal punto di vista della sua colorazione esso si avvicina abbastanza alla variante della brecciola “spugnosa” utilizzata nei pilastri n. 6, 8-9-10 sempre dell’ala meridionale del porticato, oltre che in diversi altri settori della chiesa, per quanto riguarda, invece, le peculiarità strutturali le differenze appaiono sostanziali. La consistenza si rivela molto più compatta, di una durezza e coesione che, salvo irrilevanti perforazioni poco profonde che interessano circoscritte zone superficiali, incontriamo soltanto nei calcari presenti nel fianco esterno Nord e, in percentuale ridotta, nella corrispondente faccia inter-
288
na. In virtù di tali caratteristiche, esso è probabilmente da correlarsi alle litotipologie introdotte in alcuni spazi rappresentativi della domus publica: agli angoli dell’atrio e nell’ambiente centrale estivo.606 I conci in oggetto costituiscono, purtroppo, gli unici resti ancora visibili di una qualche rilevanza appartenenti a quello che fu, un tempo, il paramento murario di controfacciata, rivelandoci anche qui l’applicazione delle medesime elementari procedure costruttive già riscontrate altrove, contraddistinte dal disporre solidi filari di grossi massi alla base della parete, limitandone la distribuzione in altezza per alleggerire i pesi delle murature perimetrali portanti. Di più non è possibile dire, a causa di un intervento di restauro che, come accaduto nella maggior parte delle superfici interne, ha coinvolto l’intera struttura muraria stravolgendone in maniera irreversibile l’antica fisionomia. Non può sfuggire, infatti, in tutta la sua dannosa arbitrarietà, spesso spacciata per supremo atto di filologia qualificata e culturalmente esemplare, la scelta di un’operazione volta a ritagliare qua e là, senza alcuna coerenza metodologica, brandelli del passato facendoli rivivere in una dimensione astratta, atemporale e avulsa da istanze storico-estetiche, come relitti galleggianti e alla deriva in un anonimo mare di malta.607 Chiusa questa breve, ma doverosa digressione sulla sorte toccata in anni recenti alla chiesa di Santa Maria, salvata, ad ogni buon conto e malgrado le legittime critiche, dall’irreparabile degrado al quale sembrava condannata dopo secoli di incuria e abbandono, è ora di prendere in esame quanto è stato riportato alla luce dai saggi di scavo condotti al di sotto della moderna pavimentazione.(Tav. XXXIII) Come si è anticipato in precedenza, non esiste, purtroppo, alcuna documentazione scientifica ufficiale e completa relativa alle esplorazioni svolte, ormai più di mezzo secolo fa, dentro e attorno all’edificio, eccetto alcuni rilievi giacenti presso la Soprintendenza alle Antichità di Perugia e recuperati in occasione degli ultimi scavi archeologici del 1999, 2001. Una documentazione indubbiamente preziosa, ma inutilizzabile, tuttavia, dal punto di vista dello studio delle stratigrafie murarie medievali che furono totalmente ignorate da chi, allora, svolse le indagini Osservando il livello sottostante una soletta cementizia,
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
spessa m 0,15, realizzata come piano di sostegno e allettamento del pavimento moderno, si nota, a filo dello spiccato murario di controfacciata, l’inserimento di un solido zoccolo lapideo costituito da alcuni grossi massi (da dx.: m 0,92 x 0,30; m 0,66 x 0,36; m 1 x 0,44) i quali presentano le stesse qualità petrografiche già riscontrate lungo il ricorso inferiore dell’alzato murario. Al di sotto si eleva un robusto podio,(Fig. 219) spesso m 0,88 e alto m 1,33 nel primo tratto (lung. m 1,27) innestato ad angolo retto nella parete meridionale; da qui l’altezza aumenta, poi, raggiungendo m 1,54 nella seconda parte (lung. m 2,08) la quale si infila, per m 0,66, al di sotto della soletta pavimentale fino a dove appare inserito un grosso pilastro moderno in cemento armato. Quest’ultimo, assieme ad altri realizzati sotto la chiesa all’epoca della conclusione degli scavi, crea, in tal modo, un poderoso sistema di sostegno all’intero piano di calpestio della navata. Strutturalmente, il podio appare realizzato a masselli rettangolari e quadrati, disposti con sufficiente regolarità, seguendo una procedura analoga a quella applicata nell’innalzamento delle pareti perimetrali al di sopra dei cordoli lapidei di epoca romana. Al suo interno fanno la loro comparsa, limitatamente al lato Ovest, rari inserti di spoglio, visibili più o meno in posizione centrale,(Fig. 220) fra i quali si segnala un frammento marmoreo, percorso orizzontalmente da tre profonde scanalature, forse pertinente al fusto di una colonna. Osservando la tecnica costruttiva e gli aspetti tipologici dell’alzato, risultano molto interessanti le strette affinità
esistenti con le sostruzioni a podio introdotte anche in altri contesti monumentali del medioevo maceratese: a titolo esemplificativo, si vedano i casi delle chiese di San Lorenzo (fianco Nord) e Sant’Esuperanzio (facciata) a Cingoli, e di Santa Maria di Rambona a Pollenza608 dove ricorre la medesima tipologia edilizia la quale sembra, in generale, essersi canonizzata nell’architettura sacra di area umbro-marchigiana nel corso del XII sec. Lo spiccato lapideo poggia direttamente sul piano antico, che assume una lieve pendenza in direzione Nord di circa 4°, sopra il quale insistono anche gli avanzi delle assise di base dell’edificio porticato tardo-repubblicano/augusteo. Ciò dimostra che all’epoca in cui venne istituito il cantiere medievale, non si procedette, come sovente accadeva, alla totale demolizione delle strutture preesistenti e al livellamento del terreno allo scopo di creare una platea su cui erigere il nuovo fabbricato, ma si preferì, invece, inglobare quanto rimaneva dei ruderi di epoca romana sfruttandone, in parte, la sacca di fondazione. Questi ultimi, tra l’altro, disponendosi in diagonale rispetto al mutato orientamento della chiesa, ruotata di 43,5° sull’asse Est/Ovest, si trovavano indirettamente a svolgere una funzione di catena muraria tra i prospetti interni Ovest e Sud delle murature medievali, rinsaldandone la coesione anche nei livelli più profondi. Nonostante la limitata estensione del segmento di podio riportato alla luce, che sul lato occidentale raggiunge una lunghezza massima di m 3,35, disponiamo, comunque, di uno spaccato sufficiente a farci comprendere la procedura applicata dalle maestranze nell’elevazione dell’e-
289
Fig. 221 Parete interna Nord: inquadratura d’insieme.
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 222 Parete interna Nord: particolare della porta laterale murata. SUPERFICIE MURARIA CEMENTATA
ANGOLO DI INNESTO CON LA CONTROFACCIATA
LIVELLO PAVIMENTALE
dificio sacro. Le diverse fasi si stratificano con assoluta chiarezza, partendo direttamente dall’antico piano di frequentazione corrispondente al periodo di più intenso sviluppo edilizio dell’antica Plestia collocabile a partire dai decenni finali del I sec. a.C. Sfruttando gli avanzi monumentali più idonei alle operazioni di reimpiego, e in parte obliterando con massicci riporti di terra mista a pietre e laterizi ciò che rimaneva ancora in situ degli antichi organismi architettonici e degli assetti planimetrici originari, il primo intervento consistette, dunque, nel creare un robusto basamento. La sua altezza, in questo tratto, è calcolabile, mediamente, in poco meno di m 1,50 (m 1,435), con una struttura a masselli saldamente cementati in grado di garantire i requisiti statici necessari alla tenuta dei muri portanti. In un momento successivo, si procedette, quindi, alla sistemazione, al di sopra del podio, di un resistente zoccolo lapideo allineando blocchi di spoglio di taglia medio-grande (lo vedremo ancor meglio alla base della parete Sud) in modo da predisporre l’avvio della terza operazione: la realizzazione, cioè, del perimetro eccle-
290
COLLOCAZIONE ATTUALE DELLA ISCRIZIONE ROMANA
siale con la messa in posa del piano pavimentato. Quest’ultima fase, a sua volta, osservando al riguardo lo spiccato della parete Nord esente dalle estese intonacature moderne, venne suddivisa in due tappe distinte: la prima, concepita come propedeutica alla seconda, nel corso della quale si iniziò ad impostare l’alzato con i primi ricorsi in conci calcarei di consistenza maggiore, disposti su non più di tre/quattro filari alternati a zone cementate con i consueti masselli di ridotte dimensioni. Con la seguente e ultima, invece, che conclude l’impianto stratigrafico murario, si proseguì innalzando un conglomerato di alleggerimento, rivestito in faccia a vista da listature a blocchetti disomogenei, condotto fino all’attacco con il tetto, dove il materiale di spoglio scompare del tutto, se non sotto forma di riduzione in scaglie multiformi di originari conci antichi. Questo intervento conclusivo, comunque, risulta rilevabile unicamente sulle pareti esterne, presumendo ragionevolmente che anche all’interno esse nascondano, sotto la compatta coltre di intonaco, la medesima configurazione strutturale.
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
PAVIMENTO PRESBITERIO
PAVIMENTO
SCALA DI ACCESSO ALLA CRIPTA
ANTICA PORTA MURATA
b. La parete Nord
L’estensione complessiva della parete, calcolata dall’angolo di controfacciata fino al punto dal quale ha inizio la scaletta che scende nella cripta, è di m 13,83.(Tav. XXXIV) La parte di essa occupata da antichi materiali edilizi di reimpiego è costituita, però, unicamente dalla fascia inferiore che, dal moderno pavimento a piastrelle, giunge fino ad una netta linea di separazione in coincidenza della quale ha inizio il rivestimento di intonaco chiaro, responsabile del totale occultamento della muratura originaria fino alla travatura lignea del soffitto.(Fig. 221) Il suo andamento, tuttavia, si sviluppa in maniera discontinua, alternando quote più basse a più alte, a seconda del livello al quale, si presume, dovevano corrispondere i pezzi riutilizzati di epoca romana (questo ci auguriamo, almeno, sia stato il criterio seguito dai restauratori al momento in cui fu decisa la cancellazione del paramento medievale). Incontriamo, così, un primo tratto, lungo m 8,49, dove l’altezza della parete interessata dai conci di spoglio rag-
giunge un massimo di m 2,52; un secondo, limitato a m 4,62, con un’altezza di m 2,80; e infine un ultimo breve segmento di m 0,72, nel quale la quota si ferma a m 1,76, al termine del quale ha inizio la verticale corrispondente alla sopraelevazione presbiteriale. Occorre premettere che le rilevazioni qui riportate vanno, comunque, accolte con le dovute cautele dal momento che il piano pavimentale non corrisponde esattamente all’antico spiccato murario, come dimostrano i diversi punti in cui la piastrellatura, non aderendo del tutto alla radice della parete, risparmia delle strette fessure (oggi ancor più aperte dopo le recenti scosse telluriche del marzo 2014) che consentono di intravvederne la continuazione al di sotto. In secondo luogo, malgrado l’augurio espresso poco sopra, non disponiamo di prove certe (documentarie o fotografiche) che le aree intonacate non celino altri pezzi antichi i quali, forse perché più sporadici o in condizioni più precarie, potrebbero essere stati sacrificati, assieme alle strutture medievali, per non interrompere la continuità della superficie.
291
Tav. XXXIV Chiesa di Santa Maria di Pistia: prospetto parete interna Nord (scala 1:20).
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Ad ogni modo, dando per buone le quote accertate, la situazione non sembra essere troppo diversa da quella verificata anche all’esterno, 609 dove ad essere occupata dai frammenti di spoglio è anche qui sempre la fascia inferiore del paramento murario, anche se essa, escludendo le angolate Nord-Ovest (facciata) e Nord-Est (abside), si mantiene per quasi tutto il suo sviluppo in lunghezza ad un livello sensibilmente più basso, non superiore a m 0,92 dal p.d.c. L’andamento dei ricorsi lapidei si presenta piuttosto saltuario e irregolare, con vuoti e riprese privi, all’apparenza, di motivazioni di ordine statico, e tanto meno estetico, alla stessa stregua delle murature esterne. Si parte, infatti, dall’estremita sinistra (Ovest) dove, per un’estensione pari a circa 6 m, assistiamo ad una alternanza di cinque filari iniziali, che dopo m 2,33 si riducono a tre ma in costanza di quota compensata dall’introduzione di conci di taglia più grande. Proseguendo per altri m 2,62, le file si riducono a due, senza più quella di base, con la mediana in progressiva discesa (da m 1,93 a m 1,60) e la comparsa di una terza al livello superiore, limitata, però, a m 3,08 di sviluppo in lunghezza. Dopo di che, avanzando ancora di circa 1 m, si riaffaccia un doppio ricorso inferiore, costituito, però, da conci più piccoli, che si esaurisce in corrispondenza del punto in cui, come si è visto anche esternamente, si distinguono con chiarezza le tracce della porticina laterale murata.(Fig. 222) La sua sagoma risulta, qui, senz’altro definita con maggior chiarezza, anche lungo la sua conclusione ad arco dove è ricostruibile un’altezza originaria massima di m 2,78, mentre la larghezza di m 0,84 coincide esattamente con quanto rilevato all’esterno. Al di là, i conci antichi continuano ancora per m 2,28 su tre registri, uno mediano e due superiori, che risultano indipendenti e svincolati dagli allineamenti che precedono. Affrontando, ora, in dettaglio l’analisi di quanto è ancora possibile distinguere all’interno di rimaneggiamenti, reintonacature e integrazioni strutturali posticce, si ritiene più corretto soprassedere, per il momento, sul famoso cippo dell’imperatore Costantino. Esso si trova attualmente appoggiato all’inizio della parete, verso la controfacciata, dopo il suo trasferimento dal contesto originario di recupero individuabile, a quanto pare,
292
nei contesti archeologici sottopavimentali della chiesa. Ad essi verrà, tra breve, dedicato un apposito paragrafo (par. d) riguardante gli scavi degli anni ’60, che si ritiene essere la sede più idonea per affrontare un’analisi specifica del reperto. Come premessa generale, occorre precisare che anche nell’ambito delle murature interne la tecnica edilizia si mantiene sempre su uno “standard” estremamente basso, con soluzioni architettoniche e formali di livello molto modesto, anche nella scelta dei materiali di spoglio, finalizzata unicamente ad innalzare, con assoluta economia di mezzi e in tempi rapidi, le parti strutturalmente essenziali del fabbricato. Muovendoci dall’angolo coincidente con la controfacciata, incontriamo una iniziale sequenza di pezzi particolarmente consistenti e riutilizzati con sistematicità. Dei diversi corsi lapidei, quelli più continui e coerenti risultano essere il primo in basso, a filo del pavimento, e, soprattutto, il più alto dove la successione risulta abbastanza ordinata e costante, con massi di forma regolare ma di dimensioni piuttosto diversificate. Ciò è riscontrabile per una estensione di m 4,87, dopo di che, mentre il filare superiore, come si è detto, abbandona progressivamente l’allineamento abbassandosi di 33 cm e procedendo in leggera pendenza per m 3,70, quello inferiore, un po’ più in là, a circa 6 m dal punto d’inizio, addirittura si interrompe. Da questo momento, la continuazione della muratura viene affidata a pietrame vario e a masselli, in genere di piccole dimensioni e morfologicamente eterogenei, quasi sempre tagliati in modo impreciso e allettati con approssimazione. La sagoma dei conci reimpiegati si rivela, non di rado, alterata da vistose deformazioni e lacune dovute in minima parte ad interventi di adattamento al nuovo contesto murario, e nella maggior parte dei casi, invece, ai danni subiti già in antico, in seguito, verosimilmente, alla distruzione e al crollo degli edifici a cui appartenevano. Ciò denota nuovamente l’assunzione, da parte delle maestranze edili medievali, delle consuete procedure costruttive alquanto rudimentali, basate su interventi approssimativi durante i quali è stato totalmente ignorato, in fase di selezione della materia prima, ogni principio di organicità e di decoro formale a favore dell’applicazione di elementari regole statiche. Basti osservare alcu-
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
ni esemplari appartenenti ai corsi mediano e superiore, dalle sagome, a volte, persino bizzarre e normalizzate con scaglie e tamponamenti in malta utili solo a occludere, in qualche modo, vuoti e irregolarità dei profili. Di un certo interesse, come esempio dei mediocri livelli tecnici raggiunti dalla manovalanza di cantiere, appaiono le modalità seguite per l’apertura della porta laterale. Pur nel rispetto della norma basilare che impone, nell’apertura di un uscio, il corretto appiombo dei montanti laterali necessario all’installazione della carpenteria che regolava il sistema di apertura e chiusura, non possono sfuggire le frequenti anomalie e imprecisioni nel montaggio dei pezzi. A cominciare dal grossolano coronamento ad archetto ribassato, girato quasi “a occhio” mediante una duplice ghiera di rozze pietre in brecciola calcarea assemblate senza cura, e continuando con i conci che formano i due stipiti: sufficientemente allineati lungo la verticale interna, ma per il resto sovrapposti senza assolutamente badare alle evidenti irregolarità dei profili e alla conseguente mancanza di un ordinato reciproco coordinamento. Si vedano, al riguardo, i due frammenti centrali di forma allungata, ridotti a poco più di due monconi di lastre, combacianti nel margine interno, ma gravemente danneggiate nel resto del perimetro. Da osservare la presenza di antichi fori di imperniamento, ricavati orizzontalmente sull’originario piano d’attesa, che ne garantivano anticamente l’ancoraggio all’interno dell’organismo edilizio primario. Stabilita, dunque, la generale precarietà delle condizioni in cui versa la maggior parte dei manufatti di spoglio e la saltuarietà con cui essi si distribuiscono nel contesto murario medievale, è utile prendere in esame, anche in questo caso, i caratteri litotipologici. La loro analisi autoptica, ove possibile, può non soltanto concorrere ad arricchire il quadro relativo alla preliminare classificazione petrografia dei calcari plestini utilizzati nell’edilizia antica, ma anche guidarci nella individuazione delle originarie fonti di spoglio e nel verificare come esse siano state diversificate in rapporto ai nuovi contesti di impiego. É evidente, innanzi tutto, che la collocazione dei vari pezzi all’interno dell’edificio, e quindi al riparo dall’azione patogena svolta dagli agenti climatico-ambientali, ha favorito una attenuazione dei fenomeni disgregati-
vi che inevitabilmente hanno colpito in modo diretto strutture che, per secoli, sono state invece esposte all’aperto, prive di qualsiasi sistema di protezione. Percentualmente minoritaria si rivela la diffusa brecciola calcarea, la quale è presente, qui, nelle due varianti grigia e biancastro-bruno-rosata. La incontriamo principalmente: in corrispondenza della porticina, impiegata in pezzi di taglia medio-piccola nel sesto dell’archetto di chiusura e anche nel più recente tamponamento del varco; in alcuni punti del ricorso superiore del primo tratto Ovest, in prossimità della contriofacciata; e sporadicamente anche altrove in modesti frammenti poco
293
Fig. 223 Parete interna Sud: particolare della porta murata.
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
significativi. In tutti i casi, ad eccezione del piccolo ingresso laterale dove le pietre sono in maggioranza marcatamente corrose, deformate nei profili ed intaccate da estese e profonde bucherellature, i contorni appaiono assai più regolari. Anche le superfici, pur nella inconfondibile ruvidità puntecchiata da minuscoli forellini, qui però poco profondi e diradati, risultano decisamente più compatte, senza struttura microclastica affiorante ed esenti, in linea di massima, da fenomeni degenerativi. La maggior parte dei conci antichi si presenta ricavata, invece, dallo stesso tipo di roccia calcarea color grigio, da più chiaro a più intenso, molto coesa e levigata, di solito, con una certa accuratezza. Si tratta del medesimo litotipo micritico/travertinoso reimpiegato lungo la quasi intera estensione del fianco esterno dove, però, forme e dimensioni sono più regolari, come più omogenee si presentano le sequenze distribuite in ricorsi ordinati, anche se con saltuarie soluzioni di continuità. Sembra, dunque, che per la realizzazione di entrambe le facce della muratura Nord, il contesto monumentale di spoglio sia stato il medesimo; sulla base però, sembrerebbe, di due progetti leggermente differenziati che hanno tenuto conto, all’apparenza, di due diverse condizioni ambientali. La prima, caratterizzata da una costante esposizione all’aperto e, quindi, ai fattori di degrado climatici e microbiologici dipendenti da un habitat naturale d’altura interessato da forti escursioni termiche, che ha reso necessario ricorrere ad una solida cortina continua di robusti conci calcarei in grado di opporsi alla distruttiva incidenza degli agenti esterni. La seconda, invece, favorita da un contesto confinato e protetto che ha diminuito l’esigenza di applicare particolari soluzioni tecnico-strutturali, consentendo di diradare l’uso di consistenti blocchi di spoglio e di limitarne, mediamente, le dimensioni.
c. La parete Sud
Al contrario di quella Nord, la lunga parete meridionale si presenta, oggi, nella veste completamente rifatta che le diedero le squadre di restauratori all’opera durante le imponenti ristrutturazioni degli anni ’60 del Novecento, ripetutamente ricordate. Allo stato attuale non è, quin-
294
di, più possibile svolgere alcun tipo di indagine, se non limitatamente al secondo tratto delle strutture di fondazione, contigue a quelle dianzi esaminate in controfacciata che con queste s’innestano all’angolo Sud-occidentale per una breve estensione di m 3,27.(Tav. XXXIII, Fig. 219) Il loro aspetto, così come la tecnica esecutiva, naturalmente non cambiano, ad esclusione di alcune misure e delle dimensioni dei conci che compongono il primo ricorso sovrastante il podio. Quest’ultimo appare un po’ più basso, non superando l’altezza di m 1,27 che si mantiene costante per tutta la sua lunghezza, anche grazie al fatto che qui l’andamento dell’antico piano di frequentazione non subisce alcuna variazione di quota. La cortina lapidea si presenta analogamente innalzata a masselli pseudogeometrici ben cementati e rinforzata da qualche inserto di recupero di proporzioni anche abbastanza consistenti, ma di sagoma deformata. Il filare sovrastante, che costituisce il vero e proprio spiccato murario, è costituito da tre grossi massi che misurano rispettivamente, da sinistra, m 0,88 x 0,90; m 1,34 x 0,84; m 0,86 x 0,83, tutti in pessimo stato di conservazione, con ampie integrazioni a malta grezza mal distribuita. Le qualità petrografiche non sembrano dissimili da quelle riscontrate nell’adiacente tratto Ovest, salvo che per una stratificazione cromatica più netta che suddivide, all’incirca, in due metà la superficie: quella inferiore si distingue per un’intonazione rosa carico, tendente a volte al color ruggine forse a causa di una più accentuata dispersione ematitica; nella superiore, invece, la tinta torna a distribuirsi in tenui aloni rosati mescolandosi a macchie grigio chiaro. Oltre a ciò, più nulla è rimasto dell’antica chiesa, salvo qualche isolato concio sparpagliato a caso, qua e là, privo ormai di funzione e di senso. Meritevole di nota, però, è un particolare, di per sé poco rilevante, il quale pone un quesito di tipo strutturale che non sembra, al momento, trovare risposte definitive. Alla distanza di m 7,58 dall’angolo di controfacciata, la parete viene interrotta da un porta murata,(Fig. 223) alta m 2,20 e ampia m 1,24 (l’attuale profondità è di m 0,30), la quale non trova, tuttavia, esternamente riscontri certi. In corrispondenza di quel punto, la compagine muraria non rivela tracce evidenti di un varco, e nemmeno segni leggibili di un tamponamento posticcio. Anche
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
ammettendo un’abile dissimulazione dell’intervento, sorprende una simile assenza di indizi i quali, se non nei materiali utilizzati, dovrebbero riconoscersi, almeno in parte, nella sutura a malta lungo la verticale degli stipiti. Assai poco convincente sembra l’ipotesi che, invece di un ingresso laterale aperto a Sud verso il portico, possa trattarsi di una nicchia interna destinata a contenere qualche suppellettile sacra o arredo liturgico a noi ignoti. Diversi elementi concorrono a smentirla: intanto l’aspetto recente del riempimento intonacato, confrontabile con quello riscontrabile anche altrove nella chiesa; in secondo luogo le dimensioni, compatibili tanto in altezza, abbondantemente superiore ai 2 m, quanto in ampiezza con quella di un portalino per il transito da e verso la chiesa, e non con lo spazio di una nicchia destinata a non ben definite funzioni religiose; infine la profondità ridotta a soli 30 cm, sproporzionata rispetto alle misure precedenti e inadatta, sia a riporvi oggetti di culto, sia ad ospitare eventuali strutture più ingombranti (confessionale, acquasantiera, altarolo). Questa, comunque, è l’unica circoscritta porzione parietale dove ancora una volta, applicando quel deprecabile criterio di restauro sulla cui inopportunità e scorrettezza metodologica già ci siamo in precedenza soffermati, sopravvivono alcuni conci di spoglio disposti lungo gli stipiti e la ghiera arcuata a sesto ribassato. La pietra è costituita nuovamente dalla classica brecciola calcarea biancastra-bruno-rosata, mal conservata, mentre un po’ diversi risultano i conci che compongono l’arco, non solo per le dimensioni inferiori e il taglio più irregolare, ma anche per la più accentuata porosità e la formazione di più ampie cavità superficiali che li accomunano a quelli inseriti nella porticina Nord. All’interno della rientranza, appoggiato sul pavimento, è stato parzialmente murato anche un rocchio di colonna, sempre in brecciola rosata, evidentemente estraneo al contesto (h. m 0,33; Ø ricostruibile m 0,37/0,38).
Fig. 224 Settore sottopavimentale Ovest: resti di edificio romano (scavi SAU 1967-1968).
d. I saggi di scavo sottopavimentali degli anni ’60 nell’angolo Sud-Ovest
Fig. 225 Settore sottopavimentale Est: avanzi di lastricato e di sostruzioni in conglomerato cementizio antistanti le fondamenta del podio presbiteriale (scavi SAU 1967-1968).
Come già si è anticipato nel Cap. VIII del presente volume,610 le esplorazioni archeologiche condotte negli anni 1967-1968 da parte della competente Soprinten-
295
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Tav. XXXV Chiesa di Santa Maria di Pistia: planimetria dell’edificio porticato e degli avanzi architettonici individuati al di sotto del pavimento (scavi SAU 1967-1968) (da PERNA et Alii 2011).
denza alle Antichità dell’Umbria al di sotto di questo circoscritto settore dell’edificio medievale, risultano, a tutt’oggi, inedite e, purtroppo, prive di tutta la documentazione fotografica, in buona parte di quella grafica e, soprattutto, delle relazioni di scavo con indicate quote, sequenze stratigrafiche e varietà tipologiche delle associazioni portate alla luce. La grave lacuna, già lamentata da più voci del mondo scientifico nei decenni successivi611 e, di recente, da coloro che, fra il 1999 e il 2001, hanno parzialmente ripreso le indagini nell’area circostante la chiesa, non può essere certo colmata dal presente contributo. Il suo preciso scopo, infatti, è quello di fornire una puntuale restituzione grafica dell’esistente, limitatamente all’angolo Sud-occidentale della navata, al fine di contestualizzare stratigraficamente le strutture di epoca romana in relazione agli alzati murari medievali.612 I rilevamenti eseguiti, inoltre, si prefiggono di stabilire se, e in quale misura, le reciproche interferenze
296
hanno lasciato tracce tangibili nelle complesse ed estese operazioni di reimpiego che sono alla base della nascita stessa del tempio cristiano. A questo proposito, già alcune osservazioni di carattere generale sono state anticipate nei precedenti paragrafi B. 1. a., c., a dimostrazione dell’indissolubile legame che unisce la chiesa alle vicende edilizie dell’antica città romana, non solo nelle parti esterne più appariscenti e sotto gli occhi di tutti, ma anche in quelle più profonde e nascoste dove il discorso non è più soltanto quello del riuso dell’Antico, ma diventa quello di una autentica e intima reciproca compenetrazione, alle radici stesse della storia del nostro monumento. Cominciamo col dire che l’insieme dei vari tronconi murari rinvenuti sotto buona parte della superficie pavimentale della navata e inglobati nelle fondazioni medievali,(Figg. 224-225) stando a quanto viene riportato dalla vecchia planimetria di scavo ancora disponibile,(Tav. XXXV)
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
sembrano piuttosto scoordinati e difficilmente riconducibili ad un organismo edilizio unitario e strutturalmente definito. L’unico tratto che conserva ancora chiara una sua configurazione architettonica ed un accertato orientamento, appartiene all’ormai noto edificio porticato, con affaccio rivolto a Sud-Ovest,(Tav. XXXV, Fig. 226) “costruito con blocchi squadrati di travertino e conglomerato locale”.613 Di esso sono visibili le assise di fondazione comprendenti due porzioni di grossi pilastri le cui dimensioni risultano, rispettivamente, di m 1,09 max. in h. x m 0,92 di largh. in quello Sud (pilastro 1), e di m 0,82 in altezza x m 0,97 di larghezza in quello Ovest (pilastro 2). Il loro collegamento avviene tramite uno spesso muro,(Fig. 227) conservatosi per un’altezza max. di m 0,26 e un larghezza di m 0,94, corrispondente ad un intercolumnio di m 1,15, il quale accenna, al di là del pilastro 2, ad un proseguimento verso l’esterno della chiesa per un brevissimo tratto in cui recupera un alzato di circa m 0,50. Nel suo insieme, dunque, ciò che resta in vista dell’antica sostruzione pilastrata viluppa una lunghezza di m 3,34, misurata da podio a podio, compreso il segmento che continua brevemente in corrispondenza della moderna soletta sottopavimentale. Non è facile, tuttavia, calcolare a quale percentuale corrisponda tale estensione rispetto allo sviluppo complessivo dell’edificio portato a suo tempo alla luce. Dando per buona la misura generale di m 21,3 riferita dalle scarne fonti bibliografiche che brevemente si sono occupate di questo argomento614 (misura che, è doveroso precisarlo, non corrisponde, tuttavia, a quanto si ricava dalla scala metrica riportata dalle planimetrie esistenti),(Tavv. XXIII, XXV) 615 il tratto oggi rimasto visibile equivarrebbe, all’incirca, a poco più del 15% del totale, ma il dato va accolto con la massima prudenza. Altrettanto molto incerta rimane anche la sua collocazione nel contesto dell’antica fronte porticata: sempre basandoci sulla restituzione planimetrica fornita dai rilevamenti dell’epoca, essa sembrerebbe apparentemente situarsi pressoché al centro, per lo meno delle strutture indagate e documentate dai grafici disponibili, dai quali sembra potersi evincere, però, che queste ultime non corrispondano al monumento nella sua interezza, ma solo ad una parte di esso. Nulla sappiamo dei limiti entro i quali si colloca l’edificio lungo l’asse Nord-Ovest/Sud-Est e, tanto
Fig. 226 Settore sottopavimentale Sud-Ovest: sacca di fondazione del podio medievale contenente i resti dell’edificio porticato romano (scavi SAU 1967-1968). Fig. 227 Particolare dello spiccato murario pilastrato (in secondo piano il podio medievale).
297
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Tav. XXXVI Sezioni delle strutture relative agli scavi SAU/SAM 1967-2001 (da PERNA et Alii 2011).
meno, della sua articolazione interna, per cui ogni tentativo di risalire alle originarie dimensioni del fabbricato e dell’area sulla quale si affacciava risulta, allo stato attuale, del tutto aleatorio e privo di concrete possibilità di verifica. Di scarsa utilità, sempre in merito alla definizione complessiva delle stratigrafie murarie, si rivela anche una delle sezioni interne (sez. C-C’)(Tav. XXXVI) 616 che include la porzione di porticato in oggetto, dal momento che, oltre a mancare dati relativi allo sviluppo dell’estremità Sud-Est esterna al perimetro ecclesiale, non vengono riportate né le quote dei livelli di giacitura, né indicazioni sui rapporti esistenti fra strutture antiche e alzati medievali: ciò che si è cercato, nei limiti del possibile, di chiarire attraverso i grafici presentati in questa sede. Da essi è stato possibile accertare (par. 1 a., 1 c.) alcuni interessanti aspetti di ordine tecnico-procedurale relativi all’attività del cantiere medievale impegnato nella realizzazione delle sacche di fondazione in controfacciata e lungo un tratto della parete Sud. Oltre al prezioso spaccato sulla la tecnica edilizia applicata nell’innalzamento delle strutture portanti restituitoci dall’analisi delle successioni stratigrafiche, merita di essere ricordato, in particolare, l’orientamento in diagonale dei resti dell’edificio romano, rispetto alla rotazione del corpo di fabbrica ecclesiale. A tale proposito, già si è anticipato che quest’ultimo, inglobato in profondità alla radice del podio, fu verosimilmente sfruttato come elemento di ancoraggio in grado di agevolare l’assorbimento degli sforzi di trazione determinati dalle spinte dei prospetti murari. L’unico dato desumibile dalla suddetta sezione, eseguita sicuramente prima degli interventi di pavimentazione in quest’area della navata, è costituito dall’alzato della muratura innestata al secondo pilastro, nel punto in cui, infilandosi in direzione Nord-Ovest al di sotto della controfacciata, andava a collegarsi con il tratto, oggi non
298
più visibile, del porticato posto all’esterno. Da quanto si capisce, l’altezza conservata era decisamente superiore a quella attuale, prima che essa, terminata la fase di documentazione archeologica, venisse ridimensionata e livellata per poter predisporre il piano di allettamento della moderna piastrellatura. É da un punto imprecisato di questo settore subpavimentale di scavo, posto presumibilmente più all’interno rispetto all’asse diagonale del fronte pilastrato, che forse proviene, stando a quanto viene in maniera molto vaga comunemente riferito,617 il celebre cippo con dedica all’imperatore Costantino.(Fig. 228) Esso ha costituito, fino ad oggi, il monumento più noto fra le non copiose, ma sicuramente interessanti testimonianze archeologiche restituite dalle indagini svolte in tempi più o meno recenti in alcune zone circoscritte della città romana. Non è certo questa la sede in cui affrontare un riesame critico del testo, già esemplarmente analizzato decenni or sono da Lidio Gasperini618 e ripreso ultimamente da Silvia Margutti alla luce delle più recenti interpretazioni;619 e nemmeno di tornare sul significato storico della divinizzazione, rivolta post mortem e in toni palesemente ancora pagani, all’iniziatore del nuovo corso cristiano dell’Impero, come tradizione ha sempre voluto.620 Piuttosto, ci sembra utile rivisitare il reperto, sia dal punto di vista strutturale, sia cercando di porlo in relazione al possibile contesto di origine. Lo scopo è quello di compensare l’assoluta assenza di informazioni in merito, attraverso una serie di riflessioni inerenti la specificità dell’area urbana di provenienza e gli ipotetici monumenti che gli scarsi resti edilizi finora rinvenuti autorizzano a supporre come esistenti al suo interno. Partendo, dunque, da quanto il precario stato di conservazione ci ha preservato, il cippo presenta dimensioni abbastanza imponenti: h. max. m 1,55; largh. m 0,64; spess. m 0,69. Il testo,621 distribuito su sette linee con
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
altezza media di cm 6,5/6,5/6/7/6,5/6,5/7, reca una dedica, oggi decifrabile a fatica, rivolta al DI[vo]/FLAVIO/ VALERIO/CONSTAN/TINO AUG(usto)/ORDO/PLES(tinorum), cioè all’imperatore Costantino il Grande da parte del Senato di Plestia. L’esplicito riferimento iniziale alla apoteosi del personaggio, inter divos relatus, sancisce una sacralizzazione avvenuta dopo la sua morte, indicando, quindi, un orizzonte cronologico posteriore al 337 d.C.622 A tale proposito, la inusuale presenza dei tria nomina, solitamente utilizzati quando l’imperatore era ancora in vita, associati al termine divus,623 ha condotto alla formulazione di diverse ipotesi sulla precisa datazione alla quale riferire l’iscrizione: o all’indomani della morte (fra i mesi di maggio e settembre dello stesso anno 337 d.C.), allorché Costantino “era già stato divinizzato e i suoi tre figli (Costantino II, Costanzo II e Costante), che detenevano il titolo di Cesari, governavano in suo nome come se egli fosse ancora vivo”;624 oppure addirittura agli ultimi momenti di vita dell’imperatore, con l’aggiunta successiva della consecratio inserendo l’epiteto divus alla l. 1 del testo epigrafico. Interessante, inoltre, appare il nesso, posto di recente in evidenza, fra il gesto deciso dall’Ordo Decurionum plestino e il contesto politico-religioso venutosi a determinare nell’Umbria tardo-antica in seguito alla istituzione ad Hispellum (Spello) delle annuali celebrazioni della figura imperiale decise dal noto rescritto costantiniano (333337 d.C.). 625 Passando, ora, all’esame degli aspetti tipologici del supporto, è possibile notare come il testo risulti inquadrato sulla sinistra da una modanatura tripartita, della quale si conserva un breve frammento largo m 0,035, mentre al di sotto, dopo un vuoto di m 0,24, corre una cornice liscia spessa m 0,06 e distanziata di m 0,40 dalla base. Le vistose rotture che interessano l’intera struttura, principalmente nella parte sommitale dove manca del tutto il fastigio di coronamento, non impediscono di ricostruire la originaria configurazione, almeno della faccia principale del cippo. É abbastanza certo che quest’ultima, a sinistra, fosse conclusa da una cornicetta scanalata che inquadrava tutto il campo epigrafico, fino all’incrocio con la spessa taenia inferiore. A destra, invece, oltre a mancare una analoga modanatura speculare a quella del lato opposto, la superficie mostra i segni di un inten-
Fig. 228 Il “Cippo di Costantino” nella sua odierna collocazione a ridosso del tratto iniziale della parete Nord.
zionale taglio in verticale il quale, eliminando lungo il margine il leggero sguancio ad angolo ottuso rilevabile a sinistra, determina una evidente asimmetria della specchiatura centrale. Tale intervento sembra interpretabile come decisione di trasformare il fianco destro in un piano di attesa destinato all’accostamento ad un altro blocco pertinente, forse, ad un contesto edilizio più complesso, all’interno del quale il nostro pilastrino poteva trovare la sua originaria collocazione.626 Ne potrebbe fornire una conferma il grosso foro pseudocircolare (Ø m 0,06; prof. m 0,16), visibile al centro della metà inferiore e apparentemente destinato all’imperniamento con altra struttura adiacente, anche se rimane la concreta possibilità che si tratti, invece, di un naturale difetto della pietra dovuto alle particolarità litologiche del calcare con cui fu realizzato il monumento.627 É opportuno ricordare che l’ipotesi dell’esistenza di
299
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
un’area monumentalizzata e votata al culto imperiale, a suo tempo ventilata per primo da Lidio Gasperini, 628 già è stata seriamente presa in considerazione in questa sede629 allorchè si è posta l’attenzione su altre iscrizioni plestine la cui frammentarietà non nasconde la loro rilevanza sul piano istituzionale. Ed è soprattutto la documentazione epigrafica di tono aulico, nella quale spiccano, come abbiamo visto, anche esponenti della dinastia Antonina630 (CIL XI, 5618; MAC, inv. 734930), accompagnata dall’esplicito riferimento alla magistratura municipale dei seviri Augustales (CIL XI, 5620),631 ad orientarci nella direzione di un edificio di culto destinato a celebrare la memoria di quei Cesari che, probabilmente più di altri, si erano distinti per munificenza nei confronti della comunità locale.632 Ammessa, dunque, come del tutto plausibile l’appartenenza della dedica costantiniana alle strutture di un Augusteum, facile da immaginarsi, tra l’altro, in un’area posta così a ridosso del probabile spazio forense, restano da chiarire almeno due aspetti: l’uno relativo all’effettivo contesto di provenienza del reperto, e l’altro ai modi che caratterizzano la redazione del testo. Riguardo al primo, a fronte della totale assenza di accertati riscontri scientifici, l’unico dato da accogliersi nei termini di un generico riferimento topografico è che il recupero avvenne al di sotto della chiesa, ma in quale punto esatto, a quale profondità e in associazione a quale delle frammentarie strutture individuate nei livelli sottopavimentali, o immediatamente contermini al perimetro ecclesiale, rimangono quesiti irrisolti. L’impossibilità di localizzare con certezza il rinvenimento, apre, quindi, un ventaglio di alternative, tutte, in varia misura, ammissibili, che implicano, comunque, l’impossibilità di considerare definitiva ogni conclusione in merito. Ad esempio, che il cippo potesse appartenere a qualche ambiente o struttura dell’edificio porticato, forse pertinente alla Basilica forense, e che, di conseguenza, venisse esibito in tutta la sua valenza celebrativa lungo un lato affacciato sul Foro plestino in posizione visibile a tutti. Oppure (ipotesi, a nostro avviso, più probabile) che esso provenga, invece, da una zona più arretrata rispetto alla platea che fronteggia la chiesa e che, perciò, il suo contesto architettonico di riferimento fosse un fabbricato posto alle spalle della fronte pilastrata. L’edificio, iden-
300
tificabile sempre nell’Aedes Augustalis appena ricordata, sarebbe sorto, in questo caso, nello spazio intermedio fra il complesso Sud-Ovest affacciato sulla piazza pubblica (scavi 1967-1968) e l’area lastricata isorientata a NordEst con sequenza di botteghe (scavi 1999, 2001) riferibili, entrambi, alla Fase II di vita dell’abitato. Oppure ancora, che il cippo, al momento del suo rinvenimento, non si trovasse in giacitura primaria ma che facesse parte della massa di materiale edilizio di riporto utilizzato dalle maestranze medievali per creare una solida sottofondazione che assicurasse la necessaria stabilità al nuovo impianto edilizio. Di conseguenza, la nostra iscrizione risulterebbe del tutto estranea alle strutture circostanti la chiesa e riferibili al nuovo piano regolatore tardo-repubblicano/augusteo; pertanto, la sua provenienza, come necessariamente anche l’ubicazione dell’edificio di culto del quale si ritiene facesse parte, andrebbero individuate altrove, pur sempre, presumibilmente, entro i confini di questo spazio cittadino che si identifica senza dubbio con il cuore dello sviluppo urbanistico complessivo del municipium romano. Per quanto concerne, invece, il secondo aspetto sopra accennato, che chiama in causa le particolarità di carattere più strettamente epigrafico della dedica, non può sfuggire la notevole sommarietà con la quale è stata realizzata la trascrizione del testo, composto da sette linee male impaginate all’interno di una specchiatura spianata con estrema approssimazione e con lettere di altezza non uniforme, tracciate senza alcuna cura. Si può notare l’incisione molto sottile e corsiva, con allineamenti imprecisi e una totale noncuranza nell’inquadratura soprattutto degli elementi onomastici che ha comportato, addirittura, una interruzione forzata del nome dello stesso Costantino, riportato su due righe. Tali caratteristiche, unite alla rozza esecuzione del supporto, privo di qualità estetiche, e all’uso di una pietra calcarea locale assai scadente (codice di riferimento PL 4),633 si pongono in aperta dissonanza, sia con l’autorevolezza del personaggio intestatario della consecratio, sia con il prestigio istituzionale del dedicante, l’Ordo Decurionum, ossia il Senato cittadino che rappresentava la massima autorità politica e amministrativa dell’organismo municipale. Unicamente le dimensioni del monumento e l’ufficialità del testo costituiscono argomenti validi per l’attribuzio-
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
ne del cippo ad un edificio di pubblica rilevanza, mentre il resto rivela una essenzialità ed una povertà di mezzi propri di un ambiente socio-culturale assai modesto, che vive in una periferia depressa del tardo Impero e in un periodo, evidentemente, di crisi e decadenza economica. Quest’ultima considerazione dimostra come l’analisi del nostro documento epigrafico consenta di cogliere alcune tendenze e specifici comportamenti delle classi medio-alte delle municipalità più marginali ed interne del territorio umbro-piceno. Ne traiamo conferma da alcuni casi analoghi documentati, nel corso della seconda metà del IV sec. d.C., anche a Cingulum e a Sestinum, entrambe località, non a caso, isolate nel medio Appennino marchigiano, 634 nelle quali si determinano situazioni in perfetta sintonia con le linee di sviluppo storico e i fenomeni della trasformazione tardoantica che investono l’intera regione. Intendiamo riferirci, in particolare, a quel ceto decurionale conservatore, che è all’origine dell’iscrizione plestina, più sensibile ed anche più interessato, nonostante le gravi difficoltà di ogni sorta e il generale peggioramento delle condizioni di vita, a mantenere i contatti con il potere centrale, a rivitalizzare le principali strutture dell’apparato istituzionale e ad impegnarsi nella lotta in difesa dei valori della tradizione e della cultura pagana.635 A spingere in questa direzione, oltre all’innato conservatorismo da sempre vivo nella mentalità delle aristocrazie provinciali e municipali appartenenti, per lo più, al ceto curiale, fu probabilmente anche la politica filosenatoria perseguita da Costantino e dai suoi discendenti, e continuata poi sotto Valentiniano e Valente, che aveva restituito alle classi sociali più elevate quel prestigio e quel peso politico notevolmente affievoliti e ridimensionati in età tetrarchica. Il cippo in esame, dunque, ci offre, in buona sostanza, un interessante spaccato di quel conflitto fra cristianesimo e paganesimo che, nel corso del IV sec., anima il panorama culturale e ideologico del tardo Impero,636 ormai avviato sulla strada di un lento e radicale declino, sempre più drammatico e irreversibile, che culminerà nel rapido precipitare degli eventi, anche se in maniera non ancora definitiva, con l’invasione alariciana degli inizi del secolo seguente.
Fig. 229 Scaletta Nord di ingresso alla cripta: particolare del paramento murario con grossi conci di spoglio. Fig. 230 Scaletta Nord: particolare dell’architrave. Fig. 231 Scaletta Sud di ingresso alla cripta: particolare del paramento murario e della finestrella posticcia.
301
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
2. Il presbiterio
302
0,80 m
P.d.C.
PAVIMENTO CRIPTA
RICORSO LAPIDEO ALLA BASE DEL MURO PRESBITERIALE NORD
INGRESSO SINISTRO (NORD)
PAVIMENTO PRESBITERIO
PARETE NORD CHIESA 1,68 m
STIPITE SINISTRO PORTA
Si tratta del settore ecclesiale che, forse più di tutti gli altri, ha subito le maggiori trasformazioni strutturali a seguito dei noti interventi di restauro del secolo scorso. Ad alterarne l’originaria fisionomia concorrono, in larga misura, tanto l’ampio scalone moderno in ferro, responsabile, probabilmente, dell’abbattimento di una originaria fatiscente transenna lignea,637 quanto, ancora una volta, la estesissima intonacatura che ha nascosto quasi per intero le murature antiche, risparmiando due o tre conci sparsi che galleggiano sulla parete destra, senza alcun senso e privi di connessioni con il contesto circostante. Tuttavia, qui, la situazione si presenta, se è possibile, ancora più grave che altrove a causa di due operazioni dagli effetti stravolgenti, su cui non è più il caso di insistere anche perché si commentano da sole. La prima, della quale già ci siamo occupati in precedenza,638 riguarda la completa ricostruzione del corpo absidale a montanti in ferro e vetrate. La seconda, invece, è consistita nell’innalzamento del soffitto a spioventi il quale, adesso, risulta arbitrariamente sopraelevato rispetto alla copertura a capriate presente lungo la navata, snaturando, in tal modo, la primitiva uniformità volumetrica dell’edificio attraverso una compenetrazione forzata dei due corpi di fabbrica. A tutto ciò si aggiunga anche la posticcia apertura delle due finestrelle laterali (h. m 1,34; largh. max. m 1,05), strombate verso l’esterno di m 0,33 e collocate alla distanza di m 5,50 dall’angolo Est, le quali, assieme alla grande vetrata absidale, concorrono a creare una illuminazione assolutamente innaturale rispetto alla primitiva concezione degli spazi interni. A meritare la nostra attenzione è soltanto una minima parte della parete Nord dove incontriamo l’unica sequenza ancora esistente di regolari grossi conci di spoglio, risparmiati a filo della moderna pavimentazione, e un grosso rocchio di colonna, sormontato da una larga mensola rettangolare.(Fig. 163) Il pezzo, oggi sistemato nell’angolo di sinistra, è lo stesso di cui ci siamo già occupati e che, un tempo, era collocato nella cripta, nella parte anteriore dell’absidiola, dove svolgeva la funzione di altare.639
PAVIMENTO CHIESA
1,40 m
2,84 m
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
INGRESSO DESTRO (SUD)
Tav. XXXVII Chiesa di Santa Maria di Pistia: prospetti e sezione del settore presbitero-absidale (spiccati murari Nord e Est) e delle due scale di accesso alla cripta (scala 1:20).
PAVIMENTO PRESBITERIO FINESTRELLA SUD
ARCHITRAVE PORTA DI INGRESSO PARETE SUD CHIESA
STIPITE DESTRO PORTA
1,74 m
PAVIMENTO CHIESA
1,44 m
2,82 m
RICORSO LAPIDEO ALLA BASE DEL MURO ABSIDALE EST ANGOLO CON MURO ABSIDALE
ALTEZZA CRIPTA
ANGOLO CONCA ABSIDALE
ANGOLO CON MURO PRESBITERIALE NORD
ARCHITRAVE PORTA DI INGRESSO
max 3,08 m SEZIONE PARETE NORD
SPESSORE MURATURA
QUOTA MONOFORA 1,51 m 0,36 m P.d.C.
PAVIMENTO CRIPTA 4,30 m
ZOCCOLO PERIMETRALE
303
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 232 Cripta: inquadratura generale da Nord-Ovest.
Per quanto riguarda il ricorso lapideo, esso interessa praticamente tutta l’estensione di quello che, dopo le modifiche degli anni ’60, è diventato l’attuale spiccato murario del presbiterio, giungendo fino a m 0,80 dal punto in cui la moderna ringhiera ne delimita la sopraelevazione.(Tav. XXXVII) Una sua breve prosecuzione sopravvive anche lungo la base del muro Est, seminascosta dalla colonna appena nominata, concludendosi alla distanza di m 0,30 dall’innesto con quella che, un tempo, fu la conca absidale. Il suo sviluppo complessivo risulta, pertanto, sul lato orientale di soli m 1,27 (pari a 2 conci), mentre a Nord raggiunge m 6,33 (pari a 8 conci). La qualità della pietra calcarea, molto compatta e solo limitatamente interessata da superficiali fenomeni di sfaldatura, presenta una intonazione cromatica grigio-biancastro-rosata ed una coesione strutturale assai prossime a quelle che, come si è visto, caratterizzano i frammenti di spoglio reimpiegati in controfacciata e nel tratto iniziale del muro Sud, immediatamente al di sopra del podio medievale.
304
Considerando, dunque, complessivamente l’intera parete interna settentrionale della chiesa, della quale la porzione in esame costituisce, di fatto, il tratto terminale, ci rendiamo conto della notevole varietà dei materiali edilizi di recupero: dai calcari duri, di colorazione grigio scura, a quelli brecciosi mescolati a clasti bianchi e struttura porosa, a quelli sempre di compatta consistenza, come i primi, ma declinati sugli stessi toni grigio-rosati dei secondi, a riprova di un sistema di stoccaggio di pezzi antichi basato su scelte diversificate ed estese a tutte le tipologie disponibili, purchè funzionali alle esigenze e alle modalità di riuso programmate. A tale proposito, è necessario tener presente la specifica collocazione del filare lapideo in questione la quale, ad una analisi più attenta, giustifica l’impiego, proprio lungo questa fascia, di conci resistenti e di grossa taglia assenti, invece, alla stessa quota nel resto della parete della navata. Ci troviamo, infatti, in corrispondenza di un punto staticamente delicato e sensibile per le strutture portanti, in quanto è qui che l’alzato murario insiste so-
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
pra il sottostante vuoto della cripta e della scaletta che vi scende da Nord. Risultava, pertanto, necessario far coincidere, con il piano di calpestio del soppalco presbiteriale appoggiato sul sistema voltato dell’ipogeo, un rinforzo perimetrale di particolare robustezza distribuito senza soluzione di continuità fino a dove occorreva: al di là del varco della scala, infatti, in direzione della navata, lo spesso cordolo termina e riprende il tradizionale rivestimento a piccoli masselli. In questo modo, sfruttando l’effetto “cerniera” determinatosi attraverso l’innesto fra la base rinforzata della verticale muraria e la piattaforma pavimentata, si rinsaldava una zona strutturalmente critica, alleggerendo l’incidenza dei carichi e assorbendo, di conseguenza, gli sforzi di flessione. Analoga soluzione progettuale è immaginabile, ovviamente, anche lungo l’opposta parete Sud, purtroppo oggi, però, non più analizzabile a causa, come si è detto, delle pesanti recenti intonacature. Un simile intervento dimostra che nel cantiere medievale si trovava impiegata una manodopera dotata, quanto meno, di una certa esperienza nel campo dell’edilizia, la quale, seppur con estrema economia di mezzi e risorse e del tutto al di fuori dei grandi traguardi raggiunti dal protoromanico umbro-marchigiano, ha saputo applicare empiricamente quelle basilari norme costruttive che sono riuscite, malgrado tutto, a far sopravvivere per circa un millennio un edificio modesto, ma carico di fascino e di storia. 3. La cripta a. I due ingressi laterali I due ingressi,(Tav. XXXVII) pur risultando strutturalmente identici, presentano misure leggermente diverse in lunghezza e nelle rispettive profondità rispetto alla quota del piano pavimentale della chiesa. Anche lo sviluppo in altezza, in questo punto, delle due pareti laterali Nord e Sud non risulta coincidente. Ciò a riprova della diffusa approssimazione nei calcoli proporzionali riscontrabile pressoché ovunque nell’edificio, tanto nelle sue parti più antiche, quanto in quelle più recenti, come accade quasi sempre nei cantieri monastici o plebani dell’alto e basso Medioevo. Sarà, dunque, opportuno procedere analizzando separatamente i due passaggi, tenendo con-
to anche della differente configurazione delle rispettive murature esterne, a cominciare dalla presenza, in quella meridionale, della finestrella posticcia aperta a circa metà della sua estensione che ha determinato la soppressione e la modifica di diversi conci antichi. A nord, invece, la struttura ha conservato la sua originaria compatta continuità, senza trasformazioni o adattamenti successivi. Partendo da quest’ultima, all’imbocco della discesa si registra un’altezza massima della parete di m 1,68 che la separa dal sovrastante livello presbiteriale, ed una lunghezza complessiva di m 2,40. La scaletta, di otto gradini realizzati in alcuni casi adattando antiche lastre di spoglio, scende ad una profondità di m 1,40 e sfocia nel vano sotterraneo dopo uno sviluppo di m 2,84. I muri che la fiancheggiano sono stati innalzati quasi interamente con materiale edilizio di riporto, riconoscibile soprattutto a sinistra(Fig. 229) dove compaiono grossi conci antichi (i maggiori raggiungono m 0,88 x 0,50 e m 0,86 x 0,44) allineati quasi a filo del ricorso, analizzato nel precedente paragrafo, corrispondente all’innesto della moderna pavimentazione presbiteriale, dalla quale si distanziano di soli 11 cm. A m 2,09 dall’imbocco della scalinata, è inserito trasversalmente un robusto architrave monolitico(Fig. 230) di m 0,44 di altezza x 0,30 di spessore, la cui larghezza di m 0,92 corrisponde a quella del varco. Da questa rudimentale porticina, allineata con il prospetto del podio, si entra nella cripta che include già l’ottavo e ultimo gradino. Passando al lato opposto Sud, notiamo che dove ha inizio la discesa l’altezza della parete, sempre calcolata fino all’attacco del presbiterio, è di m 1,74 (6 cm in più dell’altra), mentre la lunghezza di m 2,30 risulta di 10 cm in meno. La scaletta scende leggermente più in profondità (m 1,44), mantenendo pressoché inalterata l’estensione di m 2,82. Anche qui, l’accesso vero e proprio all’ipogeo è introdotto da un massiccio architrave traverso di m 0,90 x 0,54, dunque un po’ più alto del precedente ma con spessore (m 0,20) assottigliato di 10 cm, naturalmente anch’esso collocato, come il gemello di sinistra, alla stessa distanza di m 2,09 dall’inizio della scala: misura imposta dall’allineamento con il sopralzo presbiteriale. Il rivestimento murario(Fig. 231) presentava un tempo, e in
305
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
N F
G
5
E
1
6
2
A
3
B
C
H
4
D
INGRESSO SUD
INGRESSO NORD
Tav. XXXVIII Cripta: planimetria generale (scala 1:20).
306
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
Fig. 233 Cripta: inquadratura generale da Sud-Ovest.
parte ancora adesso, una configurazione maggiormente omogenea in confronto a quello del lato Nord, grazie ad una più regolare continuità nella successione dei filari i quali, però, risultano costituiti da conci antichi di taglia mediamente un po’ inferiore. Questa più marcata uniformità, tuttavia, è stata alterata, lungo la fascia superiore, dall’apertura dalla già citata finestrella (m 0,82 x 0,66), situata poco al di sotto (m 0,18) del podio e a m 0,32 dall’architrave d’ingresso. Per realizzarla, oltre ad eliminare originali pezzi reimpiegati, si è dovuto anche provvedere a risarcire in qualche modo rotture e lacune inevitabilmente determinatesi attorno al perimetro dello scasso. Tale operazione, se, come abbiamo visto, ha lasciato esternamente(Fig. 198) segni particolarmente evidenti di rotture e tamponature ottenute con gettiti di malta mal distribuita, qui all’interno, invece, l’intervento si rivela più accurato. A confermarlo, concorre anche l’accorgimento di procedere allo sfondamento del muro cercando di seguire il più possibile le linee di fuga orizzontali e verticali fra i conci, ottenendo il risultato
di mascherare, in maniera accettabile, l’effetto rottura. Questo tratto di muratura, quindi, malgrado la sua limitata estensione, ci restituisce parzialmente un’interessante immagine di come doveva presentarsi l’intera parete meridionale della chiesa anche in corrispondenza delle vaste superfici ricoperte, poi, e rese anonime dalle drastiche intonacature decise durante la seconda metà del secolo scorso.
b. L’organizzazione planimetrico-strutturale
Scendendo nel vano della cripta, ci troviamo all’interno dell’ambiente più antico dell’intero complesso edilizio, oltre a rivelarsi il più ricco di suggestione e fascino in virtù, soprattutto, della grande quantità di antico materiale di spoglio qui confluito che ne costituisce l’ossatura pressoché in ogni sua parte. Uniche eccezioni sono costituite dal sistema voltato e dalla parete occidentale dove le murature risultano interamente di epoca medievale. Siamo di fronte ad un classico esempio di cripta “ad ora-
307
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Tav. XXXIX Cripta: schizzo planimetrico che evidenzia le irregolarità di intercolumni e campate (da MARTELLI 1966).
torio”(Figg. 232-233) che, per lo sviluppo planimetrico e le peculiarità tipologico-stilistiche di alcune parti che la compongono, non escluse le tecniche costruttive adottate nelle crociere di copertura e nelle strutture perimetrali, può essere inquadrata entro la prima metà del secolo XI. La pianta,(Tav. XXXVIII) rettangolare e monoabsidata, presenta uno sviluppo in lunghezza di m 7,12 (m 7,11 nel lato Ovest), una larghezza compresa fra m 4,25 a Nord e m 4,27 a Sud ed una profondità absidale max. di m 1,66, ricoprendo complessivamente una superficie di m2 34,64. Lo spazio è suddiviso in cinque navatelle da un’unica fila mediana di quattro colonnine di spoglio le quali, assieme alle altre due collocate sul fronte dell’absidiola, alle otto semicolonne disposte sui lati lunghi e ai due semipilastri di quelli corti, individuano un totale di dieci campate alle quali ne va aggiunta un’undicesima che costituisce il catino di chiusura del piccolo vano absidato. Tutte risultano più o meno accentuatamente irregolari(Tav. XXXIX) a causa, sia delle macroscopiche differenze rilevabili nelle misure degli intercolumni mediani (da Nord a Sud: m 1,38/0,93/1,20/1,02/1,32), sia della mancanza di assialità fra colonne e semicolonne perimetrali, sempre in varia misura sfasate fra loro specie in corrispondenza dell’area centrale e dell’absidiola.640 Quest’ultima, perfettamente coincidente nelle dimensioni in ampiezza e profondità con quella della chiesa
308
superiore, raggiunge un’estensione di m 3,32 e occupa un’area di m2 4,33. É l’unico settore dell’ipogeo che conserva ancora la pavimentazione originaria, costituita interamente da frammenti di antiche lastre di reimpiego, oltre all’unica monofora esistente fin dall’inizio da cui penetrava la fioca luce proveniente dall’esterno. Il resto della superficie, invece, si presenta, oggi, completamente rivestito dalla stessa moderna piastrellatura in cotto utilizzata anche nel resto dell’edificio sacro, presbiterio compreso. Lungo il perimetro corre, senza soluzione di continuità, una spessa zoccolatura composta da 33 elementi di uguale spessore ma di differente lunghezza, a volte ricavati tagliando approssimativamente lastre di spoglio, altre prelevando pezzi già in origine predisposti all’uso, e adattandoli alle misure dei singoli tratti di parete prima di impostare l’alzato e di posizionarvi le semicolonne destinate a ricevere le spinte delle crociere perimetrali. Lo dimostrano con chiarezza i rocchi inferiori i quali si sovrappongono ai vari segmenti del cordolo lapideo senza che mai quest’ultimo riveli decurtazioni e adeguamenti alla loro sagoma curvilinea. Passando alla serie dei piedritti che sostengono le volte, al fine di agevolare una più chiara individuazione delle caratteristiche dimensionali e petrografiche di ognuno di essi, si ritiene opportuno fornire una visione d’insieme attraverso la seguente tabella all’interno della quale i dati relativi alle caratteristiche dei materiali impiegati vengono semplicemente riportati per tipologie di appartenenza, rinviando la loro analisi più dettagliata, quando è possibile, agli appositi par. C.1. – C.2. d. Le informazioni contenute nello schema qui elaborato, apparentemente aride e limitate solo ad una registrazione dei principali aspetti proporzionali e strutturali, sono, in realtà, in grado di condurci ad alcune interessanti conclusioni. Esse entrano, infatti, nel merito tanto delle procedure e delle tecniche edilizie seguite dalle maestranze del più antico cantiere protoromantico delle quali la cripta ci conserva memoria, quanto del particolare aspetto che assume, in questo caso, la pratica del reimpiego di materiali antichi che non trova confronto in altre parti dell’edificio. Da osservare, per prima cosa, la notevole diversità ravvi-
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
Colonne, semicolonne e semipilastri
h fusto
Ø/Largh. fusto
h basi
Ø basi
h capitelli
h totale
n° rocchi/ conci
Colonna 1
1,585
0,23
0,08
-
0,19
1,855
1
Brecciola calcarea bruno-rosata Capitello: marmo bianco
Colonna 2
1,60
0,24
-
-
0,252
1,852
1
Brecciola calcarea bruno-rosata
Colonna 3
1,58
0,235
-
-
0,245
1,825
1
Brecciola calcarea bruno-rosata
Colonna 4
1,57
0,24
-
-
0,256
1,826
1
Brecciola calcarea bruno-rosata
Colonna 5
1,47
0,24
0,10
-
0,14
1,71
1
Brecciola calcarea bruno-rosata Capitello: calcare compatto biancastro smorzato
Colonna 6
1,27
0,20
0,25
0,44
0,22
1,74
1
Brecciola calcarea grigia Capitello: calcare compatto biancastro
Semicolonna A
1,42
0,28
-
-
0,28
1,70
3
Brecciola calcarea bruno-rosata Rocchio sup.: brecciola calcarea porosa grigia
Semicolonna B
1,37
0,27
-
-
0,33
1,70
2
Brecciola calcarea bruno-rosata Rocchio inf.: calcare compatto grigio-rosato ad aloni nocciola
Semicolonna C
1,465
0,27
-
-
0,21
1,675
2
Brecciola calcarea bruno-rosata Capitello: marmo bianco
Semicolonna D
1,37
0,26
-
-
0,28
1,65
2
Brecciola calcarea bruno-rosata Capitello: marmo bianco
Semicolonna E
1,37
0,25
-
-
0,29
1,66
2
Calcare compatto grigiastro- nocciola chiaro Capitello: marmo bianco
Semicolonna F
1,39
0,19
-
-
0,245
1,635
5
Brecciola calcarea bruno-rosata Capitello: calcare compatto bianco smorzato a superficie rifinita
Semicolonna G
1,37
0,20
-
-
0,24
1,61
2
Brecciola calcarea bruno-rosata Rocchio sup.: calcare compatto biancastro Capitello: marmo bianco
Semicolonna H
1,33
0,26
-
-
0,32
1,65
3
Brecciola calcarea bruno-rosata Rocchio inf.: calcare compatto grigio-biancastro-rosato Collarino: marmo bianco
Semipilastro Nord
1,85
0,42
-
-
-
1,85
4
Calcare compatto grigio-biancastro-rosato
Semipilastro Sud
1,70
0,49
-
-
-
1,70
4
Calcare compatto/poroso grigio cenere/scuro
sabile nelle dimensioni dei fusti, con altezze solo in parte e molto approssimativamente pareggiate attraverso il ricorso, in qualche caso, a basi e a capitelli più o meno adattati alle esigenze. Questo dato, associato ai risultati delle rilevazioni(Tavv. XXXVIII-XXXIX) dalle quali sono emerse accentuate irregolarità nelle misure degli intercolumni e nelle corrispondenze degli interassi fra sostegni centrali e perimetrali, concorre a spiegare quelle anomalie nella articolazione degli spazi e delle campate di cui si è parlato.
materiali lapidei
In secondo luogo, analizzando i capitelli, è possibile notare anche in questo caso differenziazioni abbastanza nette in merito, tanto ai volumi, quanto ai materiali di cui sono composti: segno che, sovente, essi sono il risultato di rilavorazioni di pezzi più antichi opportunamente rimodellati e adattati a svolgere la nuova funzione. Ciò è dimostrato, tra l’altro, anche dal motivo decorativo geometrico a linee spezzate, ricorrente sugli esemplari che sormontano tutte le semicolonne e le colonne 1 e 6, senza dubbio rapportabile a repertori di
309
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 234 Parete Est: settore sinistro. Fig. 235 Parete Est: settore destro.
tradizione alto-medievale, che contrasta con specifiche qualità di calcari e marmi bianchi appartenenti, invece, a contesti sicuramente di età classica. Interessanti, poi, sono le disuguaglianze strutturali fra colonne e semicolonne, le prime sempre monolitiche, mentre le seconde composte da più rocchi (da due fino a cinque): scelta evidentemente legata alla diversa collocazione delle une, isolate nel vuoto al centro del vano ipogeo e quindi sottoposte a maggiori sollecitazioni prodotte dalle ricadute delle sovrastanti crociere, e delle altre, rinforzate, al contrario, dai setti murari posti negli intercolumni in grado di agevolare l’assorbimento dei carichi di copertura. A tale proposito, i fusti di queste ultime risultano, non di rado, inframmezzate da rocchi in duro calcare compatto (semicolonne B, E, G, H) adatti a rinsaldarne la tenuta, soprattutto in corrispondenza del perimetro dell’absidiola particolarmente esposto all’incidenza della pressione e delle spinte dia-
310
gonali esercitate dal corpo absidale superiore. Procedendo, ora, ad approfondire il discorso sui vari tipi di materiali impiegati, sia nei piedritti, sia nei capitelli, va subito sottolineata la sostanziale identità petrografica rilevabile nei fusti delle colonne e in gran parte dei rocchi delle semicolonne. In tutte predomina la brecciola calcarea mal cementata e porosa, con colorazione bruno-biancastro, spesso tendente al rosa pallido per dispersione di ematite. Come si può osservare, è la stessa che caratterizza la percentuale più alta dei materiali da costruzione riutilizzati, sia all’esterno, sia all’interno della chiesa, e che proviene dalla medesima cava estrattiva locale. Ritrovarla in tutti i sostegni, liberi e murati, della cripta significa che questi furono asportati dal medesimo contesto edilizio di spoglio, o quanto meno dalla stessa area monumentale urbana, e reimpiegati nel nuovo edificio modificandone quasi certamente le altezze per adeguar-
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
le alla modesta elevazione del sotterraneo. Verso tale conclusione indirizza anche la sostanziale coincidenza dei diametri i quali, di poco oscillanti nelle colonne fra un minimo di m 0,20 e un massimo di m 0,24, si attestano nei piedritti perimetrali mediamente su m 0,26/0,27, con l’unica eccezione delle semicolonne F e G, rispettivamente di m 0,19 e m 0,20. Un’ultima riflessione meritano i capitelli marmorei sovrastanti la colonna 1 e le semicolonne C, D, E, G, H (in quest’ultima solo il collarino): sei esemplari differenti nelle misure, ma identici nella morfologia, nella tecnica di lavorazione e, in particolar modo, nella qualità del materiale; aspetto, quest’ultimo, che certifica un evidente intervento di rilavorazione e di trasformazione funzionale di uno stesso stoccaggio di frammenti di epoca romana, originariamente senz’altro diversi nella forma e nella loro destinazione primaria. Si tratta, come verrà approfondito nella sede opportuna (par. C. 1), del marmo Tasio, un marmo greco proveniente dall’isola di Thasos, nell’Egeo settentrionale: un litotipo di buona qualità, prelevato da qualche monumento in rovina dell’antica Plestia, presumibilmente del centro cittadino e di una certa rilevanza architettonica, anche se la qualità calcitica proveniente dalle cave di Alikì, qui utilizzata, risulta di pregio non molto elevato e, comunque, inferiore rispetto alla variante dolomitica di Capo Vathy.
c. La parete est
É suddivisa in due parti, lunghe rispettivamente m 1,75 a sinistra dell’absidiola,(Fig. 234) e m 1,78 a destra,(Fig. 235) inclusi, in entrambi i casi, i pilastri collocati alle estremità e le due semicolonne (E, H) poste agli angoli dell’emiciclo.(Tav. XL) Le altezze, calcolate dalla faccia superiore dello zoccolo fino alla linea di intradosso della ghiera dell’arco, sono di m 2,49 a Nord e m 2,46 a Sud. Questi valori ci testimoniano, dunque, una sostanziale coincidenza degli alzati e delle lunghezze, con uno scarto di soli 3 cm. Iniziando dal settore sinistro, è riscontrabile una marcata discontinuità fra la fascia inferiore e quella superiore della parete, separate da un ampio intermezzo murario all’interno del quale la tecnica edilizia cambia radical-
mente. In basso, infatti, assistiamo alla messa in posa di grandi blocchi molto regolari i quali raggiungono le ragguardevoli proporzioni, partendo dalla base, di m 0,74 x 0,58 e m 0,64 x 0,38, e, nel secondo filare, di m 0,87 x 0,44. Appare, inoltre, evidente come i pezzi siano stati selezionati con attenzione, certamente in base alla loro taglia, ma tenendo anche conto delle buone qualità del materiale lapideo e, soprattutto, della regolarità morfologica dei profili le cui geometrie, ordinatamente accostate fra loro, ci riportano alla tradizione dell’ opus quadratum di età romana. Nella parte mediana, al contrario, la procedura costruttiva torna ad assumere quell’impronta rozza ed affrettata che contraddistingue, come si è visto, ampie superfici murarie dell’edificio. Scompaiono i grandi conci tagliati con attenzione e impegno ed accuratamente assemblati da una manovalanza esperta e di buon scalpello, e al loro posto subentrano masselli molto irregolari, mescolati a scaglie di laterizi mal cementate. Ne consegue una tessitura caotica e in manifesto contrasto con la coerente orditura lapidea sottostante. L’unico pezzo che emerge, distinguendosi dall’anonimo coacervo di calce e materiali litici di varia natura, è costituito dal frammento di epigrafe(Fig. 236) che campeggia quasi al centro della parete (h. m 0,59; largh. max. conservata m 0,33; spess. non rilevabile). Svanito, purtroppo, qualsiasi residuo della originaria iscrizione, ci rimane solo uno spazio di circa m 0,80 x 0,40 del campo epigrafico, leggermente ribassato e delimitato da una duplice cornicetta costituita da un listello a sezione torica, spesso m 0,035; segue una breve gola poco profonda conclusa da un sottile filetto interno di m 0,015. Il bordo esterno, distinto da una stretta incisione, è a banda piatta il cui spessore di m 0,03 sembra corrispondere a quello reale. Analizzando la accurata levigatura della superficie, si nota che essa non lascia trasparire alcun segno riferibile ad un testo scritto, del quale qualche labile indizio sarebbe dovuto sopravvivere, e che non rivela nemmeno tracce riferibili a posticci interventi di scalpellature o abrasioni che possano aver cancellato parti della dedica originaria. È plausibile, pertanto, che il frammento vada interpretato come parte inferiore di una stele, lasciata deliberatamente vuota (secondo una consuetudine piuttosto diffusa) per una ampiezza di cir-
311
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
SETTORE NORD (A SX DELL’ABSIDE)
SETTORE SUD (A DX DELL’ABSIDE)
INIZIO ARCHETTO ABSIDALE SINISTRO
INIZIO ARCHETTO ABSIDALE DESTRO
INTRADOSSO PRIMO ARCO TRAVERSO EST
INTRADOSSO QUARTO ARCO TRAVERSO EST
PILASTRINO ANGOLARE S-O
PILASTRINO ANGOLARE N-E
SPAZIO ABSIDALE 3,32 m
ZOCCOLO PARETE SUD
ZOCCOLO PARETE NORD SEMICOLONNA E
Tav. XL Cripta, parete Est: prospetto settori sinistro (Nord) e destro (Sud) (scala 1:10).
SEMICOLONNA H
ca 40 cm. Risulta chiaro, invece, come l’operazione di reimpiego sia consistita in un montaggio del pezzo in posizione orizzontale con una rotazione di 90° in senso antiorario. Malgrado la perdita dell’iscrizione, è abbastanza probabile che il manufatto sia appartenuto ad un personaggio di un certo rilievo istituzionale. L’ipotesi sembra avvalorata, non tanto dalla tecnica esecutiva, assai poco apprezzabile basandoci su quanto resta di una semplice cornicetta, modanata con precisione ma molto essenziale nelle forme, quanto, piuttosto, dalla particolare qualità della pietra con la quale il pezzo fu confezionato. La sua identificazione come marmo Pario641 risulta, infatti, di estremo interesse dal momento che l’esemplare appartiene ad un genere di produzione, quella epi-
312
grafica, in cui non è così frequente, specie in ambiente provinciale, incontrare costosi materiali di pregio importati da giacimenti rinomati per secoli ed apprezzati in tutto il mondo antico. Potersi permettere un epitafio personale in marmo greco di Paros in una località come Plestia, certamente ai margini dei circuiti più virtuosi e vivaci dal punto di vista economico-culturale del comprensorio umbro-piceno, significa l’emergere di componenti sociali di sicuro prestigio e di considerevoli disponibilità finanziarie, in grado di segnalare il proprio ruolo all’interno della comunità locale attraverso prodotti esclusivi usciti, forse, da botteghe di fama a livello regionale. In effetti, esaminando il non ricco corpus epigrafico plestino, fra esemplari ancora in situ (codici di riferimento
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
PL 3a - PL 3b, PL 4, PLC 1), musealizzati (codici MAC 1-2-3-4) o custoditi tuttora in deposito (codice DEPL 1), soltanto con due di essi, quello in questione e l’epigrafe MAC 4, siamo in presenza di marmi di un certo livello qualitativo, mentre nella più alta percentuale dei casi abbiamo a che fare con calcari locali, in genere piuttosto mediocri o, addirittura, molto rozzi e di nessun valore. Osservando le modalità del riutilizzo, infine, non si può escludere la probabile volontà di dare a questo frammento visibilità e rilevanza dal punto di vista contestuale. Esso è stato, infatti, posizionanto quasi al centro della parete, ad altezza d’uomo (h. dal pavimento circa m 1,30), e, come è stato detto, in mezzo ad anonimo pietrame e riempimenti cementizi i quali, per contrasto, ne evidenziano ancor di più la presenza, immediatamente percepibile al primo impatto da parte di chi scende in cripta attraverso l’ingresso Nord.642 Se quanto ipotizzato fosse veramente imputabile ad un atto intenzionale, indipendente da ragioni di pratica e immediata utilità, potrebbe allora trattarsi di un interessante esempio, il primo riscontrabile in tutto l’edificio sacro, di precisa selezione tipologica di un frammento di spoglio motivata da un fine ideologico. Il fatto, in sé, pur nella sua unicità, non costituirebbe un episodio anomalo, considerando la diffusa tendenza delle maestranze edili medievali a concentrare manufatti antichi di particolare richiamo, estetico o semantico, nell’ambito di strutture o all’interno di ambienti carichi di una accentuata e intensa spiritualità. Ce lo ha dimostrato, nei precedenti capitoli di questo stesso volume, il caso emblematico della cripta di Sant’Angelo in Montespino in cui marmi, colonne e ornamentazione dei capitelli hanno profuso una inusuale preziosità di forme e colori. Il marmo classico, manifestazione tipica della cultura pagana, associandosi alle peculiarità di un manufatto antico, come una stele epigrafica, che ne evoca una precisa ideologia funeraria, si trasforma, in tal modo, in un mezzo con cui viene innalzato il nuovo tempio del Signore, espressione per eccellenza della Cristianità. Quest’ultimo, a sua volta, trova nel recupero di ciò che resta della grande tradizione antica motivo di prestigio in quanto testimonianza autorevole di una civiltà che è stata presupposto storico del suo ruolo nel mondo.643
Fig. 236 Parete Est, settore sinistro: particolare dell’epigrafe di reimpiego.
Passando alla zona sommitale della parete, tornano a fare la loro comparsa materiali di reimpiego di svariate grandezze, ma disposti con sufficiente regolarità fino alla chiusura ad arco che ne risulta, in tal modo, rinforzata. Le tipologie, tuttavia, cambiano completamente: al posto dei grandi conci calcarei lisci e regolari che conferiscono alla superficie muraria un aspetto di compatta uniformità, incontriamo la tradizionale breccia calcarea locale. Qui, però, essa è caratterizzata da una dominante marroncina accompagnata da più tenui e diradati aloni rosati, con struttura granulosa ed accentuatamente porosa degenerata, a tratti, in fenomeni disgregativi. Molto interessante risulta la semicolonna di destra (E), non in quanto tale ma per il capitello che la sormonta.(Fig. 237) Quest’ultimo, infatti, assieme agli esemplari del tutto simili collocati sopra la colonna 1 e le semicolonne C, D, G, H, merita un’analisi più dettagliata relativa sia a forma e decorazione, sia al tipo di marmo con il quale è stato realizzato. Riguardo alla tipologia, nella quale rientrano anche i ca-
313
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 237 Parete Est: particolare del capitello della semicolonna E.
pitelli delle semicolonne A, B, F e della colonna 6, siamo di fronte ad una concezione molto semplificata del kalathos che reinterpreta, nella sua struttura compatta e geometrica, il tipico modello medievale “a cubo scantonato”, assai diffuso nella tradizione romanica marchigiana attraverso vari stadi di rielaborazione dei repertori decorativi.644 Nel nostro caso, l’anonimo maestro lapicida si è prodotto in una esecuzione dai caratteri estremamente semplificati, riducendo l’intervento ad una decorazione astratta contraddistinta da profonde incisioni che disegnano linee spezzate ad angoli acuti contrapposti, mentre sui lati la smussatura angolare è percorsa da un solco profondo che dà origine ad una sagoma vagamente foliata, evocativa, forse, di uno stilizzato motivo vegetale. Al di là, però, di un ornato che si ripropone in tutti gli esemplari partendo da un identico cartone, l’aspetto sicuramente più interessante è costituito dal tipo particolare di pietra impiegata, oltre che in quello in oggetto, anche nei succitati cinque capitelli delle semicolonne perimetrali Ovest, Est e della colonna 1. Si tratta, come si è anticipato, del marmo Tasio: un marmo greco bianco, rinomato e molto diffuso nel mondo antico. L’identità petrografia, determinata dalle indagini archeometriche di laboratorio svolte sui campioni prelevati da tutti e sei i manufatti presenti in cripta, dimostra che essi vennero realizzati riutilizzando e rimodellando
314
un unico stoccaggio di frammenti marmorei. Essi vennero recuperati da un edificio di epoca romana il quale, considerando la natura piuttosto pregiata della materia prima, doveva, con tutta probabilità, segnalarsi per rilevanza monumentale e godere di un certo prestigio nell’ambito dell’edilizia plestina. Dell’esistenza di una cantieristica impegnata in edifici di più elevata qualità progettuale, erano note fino a questo momento, assieme ai resti di arte musiva, sporadiche testimonianze inedite restituiteci da pochi frammenti marmorei provenienti dal peristilio grande della domus publica e dall’ambiente termale ad essa adiacente (MAC, primo piano, Sala “Plestia”, vetrina 1).(Figg. 288 a-d) Si tratta di esemplari in probabile “Lunense” (inv. 603545), in “Pavonazzetto” (inv. 264672), in marmo “Greco Scritto” (inv. 603547), e in una qualità di “Bigio Antico” grigio chiaro (inv. 603556) il cui aspetto macroscopico sembrerebbe indicarne una origine dalle cave peloponnesiache di Paganéa/Dimaristica nella penisola di Mani.645 I manufatti in esame, ora, arricchiscono il panorama accertando l’importazione di una partita abbastanza consistente di un litotipo da un centro di estrazione e di produzione fra i più importanti e noti del bacino del Mediterraneo orientale. La sua presenza a Plestia testimonia, dunque, uno sviluppo architettonico che si pone su un livello decisamente superiore rispetto al profilo assai modesto restituitoci dallo sviluppo edilizio a noi noto, tanto dai ritrovamenti (ad eccezione, come si è appena detto, di isolati casi di edilizia residenziale), quanto dai reimpieghi. Non va, comunque, dimenticato che questo dato è da ritenersi, per ora, provvisorio e da valutarsi con riserva considerata l’attuale frammentarietà delle esplorazioni e della documentazione archeologica di cui disponiamo. Pur non potendo risalire al contesto primario di spoglio, che ci consenta di identificarne la destinazione pubblica piuttosto che privata, si comincia ad intravvedere un segnale concreto di avvicinamento, da parte della comunità locale, a “standard” edilizi più prestigiosi e dai toni più magniloquenti. Un nuovo panorama che si apre, dunque, su uno sviluppo monumentale coerente con il ruolo di una realtà urbana di rilievo in ambito regionale e chiave di volta nel sistema dei collegamenti stradali e dei traffici commerciali lungo lo spartiacque appenninico umbro-marchigiano.
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
Spostiamoci, ora, nel segmento parietale di destra (Sud)(Fig. 235) per coglierne i caratteri strutturalmente più significativi che non sembrano discostarsi, nell’insieme, da quanto si è appena potuto rilevare nella porzione di sinistra. Ancor più marcata risulta, qui, l’omogeneità del paramento murario,(Tav. XL) caratterizzato da una pseudoisodomia di grandi conci i quali, ad eccezione di un’area limitata che occupa la fascia superiore destra, giungono fino al sesto dell’arco praticamente senza soluzione di continuità. Fra essi, colpiscono principalmente le notevoli proporzioni, a cominciare dall’imponente monolite di base che, con i suoi m 1,41 x 0,47, occupa l’intera estensione della muratura. Nei ricorsi superiori, poi, si passa dai m 0,89 x 0,47 e 0,53 x 0,46 del secondo filare, ai m 0,80 x 0,33 del terzo e ai m 0,58 x 0,38 e 0,64 x 0,50 del quarto, al di là del quale le sequenze diventano più discontinue con una contrazione dimensionale dei blocchi. Tipologicamente da segnalare è il primo esemplare da destra della seconda fila nel quale è riconoscibile il piano d’attesa, presentato qui in facciavista, di una grande lastra con riquadro di anatirosi sui lati lunghi e superficie levigata a gradina fine.646 Il pezzo ci testimonia il buon livello tecnico al quale erano pervenute le locali maestranze di cantiere in epoca romana. Nel settore sommitale, oltre a ricorrere sempre più frequentemente integrazioni cementizie che invadono quasi del tutto l’area destra, cambia in maniera netta anche la qualità delle pietre di reimpiego. Scomparso, infatti, il bel calcare compatto color bianco gesso, a tratti appena smorzato, subentra la solita breccia calcarea bruno-rosata interessata da diffuse e profonde bucherellature ed erosa nei profili la quale muta radicalmente l’aspetto cromatico e tessiturale dell’intera struttura. La trasformazione è così drastica, da indicarci, anche lungo questo tratto interno di parete, ma con evidenza ancora maggiore rispetto al settore murario di sinistra, le tracce delle due distinte fasi edilizie che è stato possibile determinare all’esterno di tutto il corpo absidale.647 Sembrano nuovamente contrapporsi due diverse concezioni architettoniche le quali danno vita a esiti formali e strutturali che attingono a differenti tradizioni: una di palese matrice classica, riconoscibile nel coerente e preciso allineamento di conci regolari, di grossa taglia, a giunti sfasati e sottili, influenzata dall’ “opera quadra-
Fig. 238 Parete Est, settore sinistro: particolare della risega del secondo blocco della zoccolatura. Fig. 239 Zoccolatura angolare Est-Sud.
ta” romana tardo-repubblicana e imperiale in grado di garantire perfetta stabilità e, contemporaneamente, adeguato decoro estetico all’edificio. L’altra, invece, tipica dell’edilizia del primo Medioevo e peculiare, soprattutto, delle aree suburbane e rurali del territorio centro-italico. Qui sono all’opera maestranze sovente di estrazione locale, di debole substrato culturale e il più delle volte arruolate nell’ambito di una cantieristica monastico-plebana in cui alla penuria di materia prima da costruzione, determinata dall’abbandono di molte cave estrattive e dal venir meno di gran parte delle manifatture laterizie, si accompagna una mentalità improntata, molto spesso, ad esigenze esclusivamente pratico-utilitaristiche. Ne consegue uno scarso interesse attribuito gli aspetti stilistico-for-
315
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
ZOCCOLO
ZOCCOLO SEMICOLONNA F
PAVIMENTO CRIPTA
Tav. XLI Cripta: prospetto absidiola (scala 1:10).
PAVIMENTO ABSIDE
mali tramandati dall’esperienza antica ai quali, in certi casi, si preferisce contrapporre una nuova estetica fondata su contenuti simbolico-ideologici in aperta rottura con l’eredità antica. Potrebbe anche darsi, in via subalterna e meno probabile, che una simile eterogeneità sia stata il risultato di una casualità dipendente, non tanto da opposti orientamenti da parte di una manodopera attiva in momenti distinti, quanto da una sostanziale indifferenza nei confronti della uniformità strutturale all’interno dei nuovi progetti in fase di realizzazione. Da ciò, la scelta di ricorrere a soluzioni improvvisate e all’uso di tutto quello che risultava reperibile sul posto nell’ambito di quella grande “cava a cielo aperto” che doveva essere l’antica città di Plestia con le sue rovine più o meno affioranti sparse un po’ dappertutto. Questa seconda eventualità, al momento, però, poco convincente, potrebbe trovare una generica legittimazione dall’esame delle murature della conca absidale nelle quali, al contrario delle pareti laterali, esiste in effetti una totale mescolanza fra tipologie e qualità diverse di materiali da costruzione senza distinzione fra zona inferiore e superiore.
316
SEMICOLONNA G
PAVIMENTO CRIPTA
A conclusione dell’analisi dei due setti murari orientali, è utile soffermarsi brevemente sullo zoccolo di base. Esso è costituito da sei pezzi diseguali per forma e dimensioni e con allineamento sfasato di circa 8° tra segmento destro e sinistro il quale determina una sporgenza di m 0,16 del primo rispetto al secondo. In corrispondenza delle due semicolonne E e H, da dove ha inizio e termina l’emiciclo, sono state posizionate due grandi lastre in duro calcare compatto, rispettivamente di m 0,96 x 0,94 e m 0,82 x 0,78, che svolgono la funzione di solidi plinti di sostegno sui quali si appoggiano, scaricando il loro peso, i giunti angolari di innesto fra murature rettilinee e struttura semicircolare. Oltre a questi ultimi, meritano una segnalazione alcuni blocchi (soprattutto il secondo della metà sinistra e quello angolare della metà destra ortogonale al gemello della parete Sud)(Tav. XXXVIII, Figg. 238-239) sagomati da una risega lungo il margine anteriore che dà origine ad una breve gradino. Sulla finalità di tale lavorazione, che investe più in generale il discorso relativo alla funzione che anticamente doveva svolgere, con tutta probabilità, l’intera zoccolatura, si rinvia alla specifica trattazione del Cap. XI.
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
Fig. 240 Abside: inquadratura generale. Fig. 241 Abside: particolare della base della colonna 6.
d. L’absidiola
Ampia m 3,32 e profonda m 1,66, la piccola abside(Tav. XLI, Fig. 240) è introdotta da due colonnine di spoglio (n. 5-6) realizzate, al pari delle altre, nella consueta brecciola calcarea spugnosa, con colorazione dal bruno-rosato (n. 5) al grigio (n. 6) ed entrambe interessate in buona parte da estese formazioni di alghe cloroficee. La seconda si distingue per la presenza di un’alta base (h. m 0,25; Ø m 0,44) la quale, in realtà, è un capitello dorico rovesciato,(Fig. 241) anch’esso di fattura piuttosto rozza e ricavato dalla medesima pietra del fusto. Considerato il rapporto fra il diametro della colonna (m 0,20) e dell’echino, appare subito evidente la non pertinenza del secondo alla prima; tuttavia, la identica qualità del materiale e la mediocrità del livello esecutivo, rendono plausibile la loro attribuzione allo stesso contesto architettonico. Ricordiamo, come già approfondito in altra sede,648 che qui, in posizione centrale lungo l’asse mediano dell’intercolumnio ampio m 1,35, fino alla metà
317
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 242 Abside: particolare della pavimentazione antica. Fig. 243 Abside: particolare del capitello della semicolonna G.
degli anni ’60 del secolo scorso era sistemato l’altare, oggi trasferito sul presbiterio, destinato probabilmente all’ostensione di una statua di culto o di una teca porta reliquie. Questo è l’unico spazio dell’intero edificio sacro nel quale si è conservata la originaria pavimentazione,(Fig. 242) sicuramente messa in posa nel corso della più antica fase edilizia del cantiere. Per realizzarla, sono stati utilizzati
318
frammenti di antiche lastre tagliate, nella maggior parte dei casi, in modo molto approssimativo e sistemate con evidente imprecisione, senza preoccuparsi di creare un piano di calpestio omogeneo e continuo: lo dimostrano le frequenti lacune risultanti dalla accentuata irregolarità delle forme e degli accostamenti, colmate da pietrame, scaglie e gettiti di malta. Il risultato, pertanto, è quello di un rivestimento rudimentale, privo persino di un corretto allineamento lungo il lato frontale che, a destra, arretra di quasi 10 cm. Venendo all’alzato, esso appare sostanzialmente uniforme nei tre settori suddivisi dalle due semicolonne perimetrali e per quasi tutta l’altezza di circa m 2,70, fino alla linea di intradosso degli archi raggiunta da conci e lastre in massima parte di reimpiego. Qualche dubbio rimane su una ridotta percentuale di masselli di piccole dimensioni e, spesso, informi che potrebbero anche essere arrangiamenti medievali di pietre raccogliticce. A tale coerenza strutturale non corrisponde, tuttavia, altrettanta conformità tipologica e qualitativa dei materiali di spoglio: questi ultimi si presentano, infatti, di natura varia, distribuendosi qua e là senza concentrazioni significative che lascino intendere l’alternarsi di distinte fasi edilizie. Le tre principali qualità che abbiamo visto caratterizzare soprattutto le murature interne della chiesa (le due varianti, bruno-rosata e grigia, della locale breccia calcarea fragile e porosa e il compatto e duro calcare biancastro-cenere medio-appenninico) occupano indifferentemente posizioni di base, mediane e sommitali. Ne consegue un paramento vario, tanto dal punto di vista tessiturale, quanto dell’effetto cromatico. La tecnica costruttiva, come si è accennato, è sufficientemente curata e precisa nelle procedure di montaggio dei conci i quali, calibrati su grosse dimensioni quasi quadrate lungo lo spiccato parietale (si notino, in special modo, l’angolare sx. di m 0,58 x 0,53, e i tre del settore dx., rispettivamente di m 0,54 x 0,54; 0,46 x 0,47 e 0,58 x 0,50), rimpiccioliscono progressivamente verso l’alto diventando, in molti casi, lastre piuttosto lunghe e di ridotto spessore. Di particolare interesse è il capitello che si appoggia sulla seconda semicolonna dell’emiciclo (G)(Fig. 243) il quale, del tutto analogo, sia per forma e decorazione, sia per la qualità del marmo Tasio, a quelli di tutti i restanti
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
SEMIPILASTRO MEDIANO STIPITE SINISTRO INGRESSO NORD
ANGOLO OVEST ANGOLO EST
STIPITE DESTRO INGRESSO NORD
SCALA ZOCCOLATURA PARETE EST
1° GRADINO INGRESSO NORD PIANO PAVIMENTALE
PAVIMENTO
piedritti perimetrali e delle colonne n. 1 e 6 precedentemente nominati, si distingue per una particolare lavorazione ben visibile sulla faccia anteriore del kalathos. Verso destra, infatti, si riconosce un foro rettangolare largo 5 cm, posto di traverso, al di sotto del quale parte uno stretto incavo che si prolunga con andamento perfettamente rettilineo per circa 10 cm. Esso si interrompe poi, in basso, in corrispondenza della successiva decorazione geometrica. Si tratta di una cavità destinata all’inserimento di un perno metallico verticale, larga a sufficienza per contenere la colata di piombo fuso la cui eccedenza poteva defluire convogliandosi nel sottostante canale di scolo. É un noto e antico sistema di fissaggio fra blocchi da costruzione, già applicato nell’edilizia greca di età classica e molto diffuso anche nella cantieristica romana del periodo imperiale, che ha lasciato segni molto evidenti nel manufatto in esame. Esso, dunque, prima di essere rimodellato e trasformato in capitello nel Medioevo, costituiva il piano d’attesa di un concio (o rocchio ?) marmoreo inferiore, predisposto per assemblarsi, sfruttando il metodo c.d. “maschio/femmina”, con un pezzo gemello al quale veniva sigillato attraverso l’immersione del perno di quest’ultimo entro l’incavo
sottostante riempito di metallo liquido.649 Questo particolare, molto significativo come prova del protrarsi di una precisa tecnica costruttiva di remota tradizione, conferma in pieno l’appartenenza dei capitelli plestini ad un unico stoccaggio di frammenti architettonici, scelti, in virtù delle qualità estetiche del marmo, per essere modificati a fini statico-decorativi e sistemati nello spazio più sacro dell’intero edificio.
e. La parete Nord
La parete Nord è, forse, quella più compromessa nella sua struttura originaria di tutta la cripta.(Tav. XLII, Fig. 244) Saltuari e spesso mal conservati, i pezzi di reimpiego si alternano, specie nella parte inferiore, ad ampie zone nelle quali si mescola pietrame di ogni tipo, con una abbondanza di interventi a malta grezza grossolanamente distribuita tale da trasformare la superficie muraria in un caotico impasto al cui interno, a volte, si distinguono a stento le sagome dei singoli conci. Dell’originario semipilastro centrale, largo m 0,42, che divide approssimativamente in due metà la parete, sono sopravvissuti soltanto i conci più interni, quasi a filo del-
319
Tav. XLII Cripta: prospetto parete Nord (scala 1:10).
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 244 Parete Nord: inquadratura generale.
la muratura, che si elevano fino ad una altezza di m 1,85. Dei blocchi di spoglio, lungo lo spiccato del settore sinistro se ne è conservato solo uno, a stento riconoscibile al di sotto dell’invadente rivestimento cementizio, mentre qualcuno in più è ancora visibile in quello destro. In quest’ultimo, le ragioni che stanno all’origine della accentuata precarietà dello stato di conservazione sono, in buona misura, imputabili allo sfondamento operato, in età moderna, nella parte mediana e alta della struttura allo scopo di aprire la finestrella che aumenta l’illuminazione nell’area settentrionale del sotterraneo. Come si è già detto, gli indizi al riguardo sono numerosi e si palesano con evidenza, al pari dell’esterno, attraverso integrazioni e suture murarie ottenute con materiale posticcio, facilmente riconoscibile da quello più antico e annegato in abbondanti quantitativi di malta rozzamente impastata. Più difficile comprendere, invece, i motivi che hanno
320
determinato i vistosi danni coinvolgenti, in buona parte, la metà sinistra prossima all’ingresso Nord. Le modalità seguite nelle operazioni di reintegrazione strutturale, frettolose, imprecise e totalmente in contrasto con le precise e ordinate procedure seguite nell’innalzamento delle altre pareti perimetrali, in special modo quelle Est e Sud, assomigliano molto ai tipici modi sbrigativi degli interventi di ricostruzione seguiti ad uno o più crolli. É questo il caso, infatti, in cui si rende necessaria rapidità di esecuzione, senza badare tanto al ripristino degli antichi paramenti selezionando i materiali più acconci da inserirsi in maniera coerente e organica nella compagine muraria precedente. Un analogo fenomeno sembra aver coinvolto anche parte dell’alzato del semipilastro e un tratto dello spiccato del settore destro ad esso adiacente che giunge fin sotto la monofora, dove una congerie di schegge e pietrame sembra essere stata inserita con funzione di tampona-
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
mento fra il grande concio sopravvissuto in situ alla base dell’angolo con la parete Est (m 0,74 x 0,54), e la fila di blocchi squadrati impilati di fianco al piedritto mediano. La situazione, come si può notare, si presenta abbastanza complessa e priva di soluzioni certe. Tuttavia lo studio scientifico delle stratigrafie murarie, affrontato nell’ambito delle diverse fasi della ricerca svolta in questa sede (Capp. IX A., X A.c. – B. 3.e.) coordinando l’analisi fra esterno e interno cripta, può forse aver fornito qualche dato utile a chiarire parte delle vicende edilizie di questo problematico settore dell’ipogeo. Unici esemplari dell’intero contesto meritevoli di attenzione sono costituiti da due frammenti epigrafici inseriti, l’uno sull’altro, alla base del settore sinistro. Il primo (h. m 0,86; largh. max. m 0,48),(Fig. 245) a giudicare da quanto è stato risparmiato dall’estesa cementificazione distribuita tutta intorno, è senz’altro interpretabile come parte di una stele funeraria murata in orizzontale, con rotazione di 90° in senso orario.650 L’identificazione è suggerita dal profilo del lato superiore (in origine il sinistro), ancora in condizioni di parziale integrità, nel quale è riconoscibile l’angolo determinato dalla verticalità del bordo con la diagonale dello spiovente superiore i quali si direbbero dar vita ad uno spazio timpanato liscio. L’inquadratura del campo epigrafico, conservata in minima parte, è costituita da una sottile e semplice cornicetta ottenuta con due solchi paralleli ravvicinati che risparmiano un ispessimento di m 0,03. Anche in questo caso, come nell’esemplare murato nella parete Est, tanto la porzione superstite della specchiatura centrale, quanto la superficie a triangolo del sovrastante fastigio non rivelano alcuna traccia del testo o di qualche motivo ornamentale. Nessuna oggettiva possibilità, dunque, di accertare la natura della iscrizione, anche se la sfera funeraria appare la più probabile per analogia con altri simili documenti provenienti da quest’area urbana e confluiti nella cripta. Scarsamente indicativo è pure il tipo di materiale: un anonimo calcare micritico pseudobrecciato color bianco-avorio (codice di riferimento PL 3b), molto comune nella zona, che poco o nulla è in grado di suggerirci in merito all’estrazione sociale del titolare dell’epitafio, forse di ceto non elevato come sembrerebbero indicarci, oltre alle qualità litologiche piuttosto modeste del sup-
Fig. 245 Parete Nord: particolare della stele murata alla base del settore sinistro (ruotata di 90°in senso antiorario). Fig. 246 Parete Nord: particolare del concio con iscrizione inserito al di sopra della stele (ruotato di 90°in senso antiorario).
321
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
FINESTRA
STIPITE DX INGRESSO SUD
PILASTRINO ANGOLARE PARETI EST-SUD
ZOCCOLO PARETE EST
Tav. XLIII Cripta: prospetto parete Sud (scala 1:10).
STIPITE SX INGRESSO SUD
SEMIPILASTRO MEDIANO
1° GRADINO INGRESSO SUD
PIANO PAVIMENTALE
porto, anche l’apparente assenza di particolari apparati ornamentali e di pregi formali. Ma le condizioni del manufatto sono troppo frammentarie per azzardare giudizi in merito. Al di sopra, come si è detto, è stato inserito un massello calcareo quadrato (m 0,215 x 0,215) che, esaminato attraverso una illuminazione a luce radente, si rivela essere un frammento ricavato da una originaria iscrizione(Fig. 246) e murato, anche in questo caso come la stele sottostante, in orizzontale con rotazione in senso orario di 90°. Del testo si scorgono, a fatica, poche lettere disposte su tre linee (ll. 1-2: h. cm 6,2; l. 3: h. conservata cm 3), forse ricostruibili parzialmente in: [R ?]A/- - -INI/- P(?)O. Malgrado l’mpossibilità di decifrarne il senso, è di indubbio interesse, come si approfondirà nel prossimo capitolo, la presenza in questo tratto di parete, e in quella adiacente a Est, di ben tre epigrafi. É una concentrazione significativa la quale, assieme agli esemplari, di cui ci parla il Mengozzi, un tempo conservati dentro la cripta e oggi in parte sopravvissuti e in parte dispersi, ci testimonia la assai probabile vicinanza dell’edificio sacro ad una
322
PAVIMENTO
necropoli romana che può spiegarci il confluire di un così singolare numero di documenti iscritti nel ristretto spazio dell’ipogeo.
f. La parete Sud
Rispetto alla parete Nord, pesantemente coinvolta dagli estesi interventi ricostruttivi che hanno risparmiato solo una minima percentuale di antico materiale di riutilizzo, quella Sud(Tav. XLIII, Fig. 247) presenta, al contrario, un aspetto tuttora sostanzialmente integro ed esente, se si esclude l’apertura della finestrella posticcia, da manipolazioni significative. Le limitate trasformazioni strutturali, concentrate nel settore superiore della metà sinistra, non hanno, di fatto, stravolto nel suo insieme la fisionomia della primitiva compagine muraria, preservandone gran parte dell’alzato nelle forme e nelle procedure costruttive progettate e messe in opera dalle maestranze del più antico cantiere medievale. É in questa parte dell’ipogeo, assieme all’emiciclo dell’absidiola(Fig. 240) e al segmento parietale destro del lato Est,(Fig. 235) dove è possibile riconoscere, anche se
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
Fig. 247 Parete Sud: inquadratura generale.
circoscritta solo ad alcuni filari della fascia inferiore, la stessa tecnica edilizia pseudoisodoma che abbiamo potuto riscontrare all’esterno, in special modo lungo quanto ci rimane del primitivo spiccato absidale edificato a secco. Particolarmente rispettato, soprattutto nella metà a sinistra del semipilastro mediano conservatosi, qui, intatto nella sua totale elevazione, il sistema dei ricorsi a giunti sfasati. Questi ultimi sono costituiti, in prevalenza, da ortostati, anche di taglia ragguardevole (alla base: m 1,10 x 0,59; 0,72 x 0,46; settimo filare del settore destro: m 0,62 x 0,38) ma mediamente di m 0,50 x 0,36, intercalati, ogni tanto, da pezzi di dimensioni più contenute inseriti in posizione diatona. Alcuni si presentano eseguiti nel bel calcare locale, a superficie ben levigata di aspetto quasi marmoreo, di un biancore, in genere, un po’ più smorzato, inframmezzati da conci nella consueta brecciola porosa bruno-rosata e grigio chiaro. È interessante notare come la parziale messa in opera dei conci “in fascia” e “in chiave” non appaia, in questo
caso, un espediente tecnico finalizzato a migliorare la resistenza meccanica della muratura, vista l’episodicità del suo manifestarsi e le posizioni poco significative e sensibili dal punto di vista statico in cui è applicata. Essa va, invece, più semplicemente interpretata come scelta pratica per chiudere, in maniera strutturalmente organica, i vuoti creatisi qua e là nei filari usando pietre più strette e lunghe, adatte a completare la sequenza dei conci senza dover ricorrere ad improvvisate integrazioni cementizie o a scaglie di pietrame e laterizi. Il rifiuto di adottare quest’ultimo rimedio, indubbiamente comodo e rapido ma rudimentale ed antiestetico, denota un livello tecnico-operativo delle squadre attive nella cripta molto diverso e ben più qualificato rispetto a quanto è ripetutamente osservabile altrove. Abbiamo, infatti, visto come in numerose altre analoghe situazioni, al contrario, gli aspetti formali siano stati con disinvoltura sacrificati al fine di giungere ad una soluzione immediata ed economica del problema. Uniche eccezioni a questa diversa e più elaborata appli-
323
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 248 Parete Sud: particolare del paramento murario superiore con i rifacimenti posticci. Fig. 249 Parete Sud: particolare dello zoccolo angolare con modanatura stondata.
cazione delle metodologie costruttive, si colgono in un limitato ritaglio di parete adiacente allo stipite destro dell’ingresso e, soprattutto, come si è già accennato, in corrispondenza della porzione muraria superiore della metà sinistra.(Fig. 248) In questo punto, infatti, l’antico rivestimento lapideo, quasi certamente in età moderna, è stato in parte abbattuto per realizzare quella che, oggi, si presenta come una finestrella posta quasi di fronte alla gemella aperta nella parete Nord e rispetto alla quale è rilevabile un disassamento di m 0,31 (distanza dall’angolo orientale: finestra Sud m 0,37; finestra Nord m 0,68. All’esterno tali distanze equivalgono, rispettivamente, a m 1,54 e a m 1,85). A questo proposito è di estrema utilità la testimonianza verbale di Don Mario Sensi, parroco di Colfiorito proprio in quegli anni ’60 del Novecento che coincisero con i radicali lavori di ripristino della chiesa dopo più di un secolo di abbandono. Dalle sue parole apprendiamo, in-
324
fatti, che fino ad allora per accedere alla cripta non era possibile utilizzare le due scalette laterali provenienti dalla chiesa in quanto il passaggio era completamente ostruito dall’accumulo di terra che, col trascorrere del tempo, aveva invaso quasi del tutto l’ipogeo. L’unico modo per raggiungerla era attraverso una porticina laterale che, in un momento imprecisato, ma sicuramente dopo l’ispezione del Mengozzi, era stata aperta nel muro Sud, con una luce di circa 1 m, e che consentiva di penetrare nell’ambiente trasformatosi, ormai da tempo, in una stalla per animali appartenenti a qualche contadino del luogo. Una volta ultimati i lavori di ricostruzione dell’edificio, fra cui il recupero dei due originari ingressi posti lateralmente al presbiterio, e dopo aver svuotato la cripta dalla massa di detriti che la invadevano, la vecchia porta venne parzialmente tamponata e trasformata nella monofora che adesso vediamo (al riguardo si confronti lo schizzo planimetrico eseguito negli anni precedenti i
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
restauri alla Tav. XXXIX).651 La quota corrispondente al punto in cui doveva giungere questo varco laterale sembra essere indicata dalla discontinua sequenza di pietrame e masselli del quarto filare dal basso, pari a m 1,35 dal pavimento, dove è stata ricavata una sorta di fittizio davanzale interno sovrapposto alla regolare orditura dei ricorsi sottostanti. Da qui in su il paramento murario è, dunque, cosa recente, verosimilmente ottocentesca, e la sua conformazione ne porta evidenti tutti i segni, soprattutto sulla superficie a sinistra della finestra. È proprio qui che essi sono ancor più manifesti per lo stridente contrasto con la bella tecnica edilizia, memore della tradizione antica, ben conservata nel resto di quasi tutta la struttura muraria. Abbastanza integro, lungo l’intero sviluppo perimetrale, è anche lo zoccolo di base, composto da una sistematica successione di cinque lunghe lastre (da sinistra: m 0,92 x 0,15; 0,74 x 0,15; 0,44 x 0,15; 0,72 x 0,15; 0,87 x 0,16) concluse dall’innesto ortogonale della grande soglia della porta Sud (m 1,20 x 0,56; spess. m 0,12). Nell’insieme, esse si presentano lavorate con sufficiente precisione: i tagli sono tutti antichi, senza segni di adattamento, tranne un solo caso al di sotto del semipilastro mediano. Ciò dimostra che si tratta, molto probabilmente, di pezzi prelevati da un contesto primario comune, come certificano tanto le dimensioni, in particolare l’identità di larghezze e spessori, quanto il tipo di materiale: una pietra calcarea di buona qualità, di colore biancastro tendente al beige, molto compatta e in genere ben levigata, forse anche in seguito a prolungato calpestio, al punto da apparire, in certi casi, quasi simile al marmo (zoccoli n. 4-5 e soglia), o lasciata in uno stato un po’ più grezzo in superficie. É un litotipo che trova confronto con quello che incontriamo, sia in qualcuno dei gradini di entrambe le scalette di accesso, sia in un limitato numero di conci reimpiegati nell’alzato murario: lungo lo spiccato e, saltuariamente, in qualche ricorso alle quote medio-alte (quarto e settimo filare del settore destro), ma anche all’interno della parete Est, dove però spesso le superfici appaiono biodeteriorate da diffuse formazioni di alghe e muffe, e solo in un caso in quella Nord. All’esterno, invece, non risulta nessun pezzo di reimpiego riconducibile esattamente a questa particolare categoria di calcari locali.
Da segnalare, per concludere, i primi due esemplari all’angolo con lo zoccolo della parete orientale,(Figg. 239, 249) il cui margine esterno appare, per tutta la lunghezza, sagomato da una risega, dal profilo un po’ discontinuo, che dà origine ad una modanatura stondata e leggermente ribassata rispetto al piano della lastra. Si tratta dello stesso tipo di lavorazione che è riconoscibile, come abbiamo appena visto,652 in altri segmenti del lato Est(Figg. 238-239) e, in parte, nella grande soglia dell’ingresso Sud.
g. La parete Ovest
Si è lasciata per ultima la parete occidentale in quanto è l’unica di tutta la cripta a non essere stata edificata, ad esclusione dello zoccolo di base, attraverso il reimpiego di materiale di spoglio. Fa indubbiamente specie, in un contesto così ricco e vario di presenze antiche, trovare un’intera struttura perimetrale completamente priva, all’apparenza, di pezzi di riuso. Si tenga, però, presente che una parte dei masselli che ne costituiscono l’alzato può essere stata, probabilmente, ricavata da operazioni di smontaggio e frantumazione di conci maggiori e di diversa foggia estratti da qualche rudere plestino. Sembrano indicarlo i caratteri petrografici che, ad un esame macroscopico, non risultano differenziare in modo significativo gli uni dagli altri. Una possibile spiegazione di tale anomalia potrebbe esserci suggerita proprio dalla particolare collocazione della muratura: poco visibile, sia nel momento dell’entrata nella cripta, dentro la quale l’impatto visivo si determinava con la parete di fondo (Est) e le due laterali, sia durante la permanenza al suo interno quando i fedeli si rivolgevano verso la zona liturgicamente più importante dando le spalle al muro di fondo. Una posizione, dunque, che non richiedeva di essere particolarmente valorizzata attraverso l’inserimento di pezzi destinati ad imporsi all’attenzione degli astanti. Del resto, che la parete occidentale, nell’ambito soprattutto delle cripte “ad oratorio”, sia di solito quella più anonima e priva di inserti antichi degni di nota, può considerarsi un fatto generalizzato e comune a gran parte degli edifici sacri dell’alto e basso Medioevo umbro-marchigiano. Al loro interno, infatti, gli ipogei rivelano una precisa gerarchizzazione degli spazi in
325
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 250 Marmo Tasio (Cripta, capitello semicolonna G). Fig. 251 Marmo Pario (Cripta, epigrafe parete Est).
rapporto al ruolo che ognuno di essi svolgeva e, di conseguenza, all’importanza e al significato che assumeva nel contesto del luogo consacrato. Non mancano, comunque, accorgimenti volti, quanto meno, a coordinare l’aspetto di questa parete con quello che, nell’insieme, caratterizza il resto dell’ambiente. In primo luogo, inserendo alla base del muro, come lungo il resto del perimetro, lo zoccolo di appoggio, anche se realizzato, qui, allineando otto frammenti diseguali (lungh. da un minimo di m 0,23 ad un max. di m 0,80) e non sempre regolari nelle forme. Secondariamente, dotando le quattro semicolonne (A-B-C-D) di capitelli tipologicamente identici a quelli già noti, di cui due (CD) in pregiato marmo Tasio.
C. Le tipologie lapidee riutilizzate nelle strutture ecclesiali e nei monumenti epigrafici tuttora in situ o un tempo ivi conservati. Classificazione preliminare Scopo del presente paragrafo, come si evince dal titolo, è quello di fornire un inquadramento generale dei materiali litici di epoca classica reimpiegati nella chiesa di Santa Maria di Pistia, esteso anche a quei documenti epigrafici che, in vario modo, hanno avuto, o hanno ancora oggi, un rapporto diretto con le strutture dell’edificio. Questa indagine, pertanto, travalica in parte i limiti circoscritti all’analisi specifica del monumento
326
medievale e dei suoi plurisecolari legami con le vestigia dell’antica città. Si entra infatti, ora, nel merito del più ampio panorama tipologico, al momento ricostruibile, delle pietre e dei marmi provenienti dalle diverse emergenze architettoniche, in parte note o ancora da esplorare, del municipium romano. Ciò può contribuire, quindi, a restituirci un interessante spaccato concernente lo "standard" qualitativo dell’edilizia plestina dell’età repubblicano-imperiale, almeno per quel che riguarda il centro politico-istituzionale. Inoltre, per il tramite delle varietà petrografiche più o meno pregiate delle iscrizioni superstiti,653 è possibile tentare di risalire, entro certi limiti, al potenziale livello socio-economico di alcuni membri, a volte anche di spicco, della comunità residente. Come si è avuto occasione di sottolineare in precedenza, mancano purtroppo, a tutt’oggi, studi scientifici al riguardo, inerenti non solo l’area urbanizzata in oggetto, ma anche l’intero comprensorio regionale umbro-marchigiano, con particolare riferimento al settore medio-appenninico. Le rare indagini litotipologiche svolte fino ad ora sono limitate, sostanzialmente, ai soli marmi colorati attestati, in giacitura primaria o in situazioni di reimpiego, in un numero assai ridotto di contesti archeologico-monumentali.654 Sono, invece, del tutto assenti analisi specialistiche mineralogico-sedimentarie e petrografiche sulle diverse facies che contraddistinguono questo esteso comparto geografico. Di conseguenza, non disponiamo, per il momento, di banche-dati sulle molteplici varietà delle formazioni calca-
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
ree locali le quali costituiscono la percentuale più elevata dei materiali utilizzati anticamente negli svariati settori architettonico-decorativi e della produzione artigianale (scultorea, ornamentale, epigrafica) di età romana. Quanto è contenuto nelle pagine che seguono, dunque, considerati i limti imposti dalle profonde e persistenti lacune su tali aspetti, è da intendersi esclusivamente come tentativo di catalogazione preliminare. Quest’ultima infatti, anche quando basata su approfondite analisi archeometriche, non è ancora in grado di giungere ad una precisa individuazione delle cave estrattive. È facile comprendere come ciò sarebbe di estrema utilità per stabilire l’esatta provenienza della materia prima e risalire, di conseguenza, tanto all’eventuale contesto di origine dei singoli manufatti, quanto agli aspetti organizzativi che regolavano lo sfruttamento delle risorse disponibili sul posto e la gestione della forza-lavoro. Si è ritenuto, ad ogni modo, opportuno avviare una operazione di sistematico e programmatico riordino del complesso universo delle qualità di rocce calcaree, brecce e travertini presenti nell’edilizia antica di questa zona, includendo, naturalmente, i pochi marmi bianchi finora accertati, allo scopo di individuare, per lo meno, alcuni parametri di riferimento ai quali, in un futuro, rapportare i risultati estrapolabili da indagini estese più capillarmente ad altri centri di interesse archeologico sparsi sul territorio. Anche in questo caso, le analisi dei diversi campioni prelevati in loco sono state affidate ai Laboratori “L.A.M.A.” dell’Università di Venezia (IUAV) dove la ricerca è stata svolta seguendo le medesime procedure illustrate già in precedenza.655 Si ricorda, come riportato nell’apparato finale del presente volume, che le sigle utilizzate, sia nelle singole schede di catalogazione, sia nella tabella sinottica finale, vanno interpretate come segue: PL = Plestia; MAC = Museo Archeologico di Colfiorito; DEPL = Depositi Area Archeologica di Plestia; PLC = Plestia, loc. Cesi. Si ricorda, infine, che con l’abbreviazione M.G.S. (= Maximum Grain Size) si intende la dimensione massima del grano maggiore di calcite/dolomite che misura il grado metamorfico più elevato (cioè la temperatura) raggiunto da un marmo: dato fondamentale per deter-
Fig. 252 Marmo Lunense (MAC, epigrafe 734930).
minarne con precisione la natura e risalire alla sua provenienza. 1. Marmi bianchi a. Marmo Tasio.(Figg. 250, 271-272) Distribuzione: Cripta: capitelli colonna 1 e semicolonne C-D-E, G-H (solo collarino). Codice di riferimento: PL 1. La combinazione dei dati forniti dall’analisi della sezione sottile e dei rapporti isotopici, ha stabilito la natura dei sei campioni come tipica del marmo Tasio, nella variante T-1 (2) proveniente dalle cave della località di Alikì (o forse anche di Capo Phanari), entrambe sul litorale Sud dell’isola greca di Thasos situata all’estremità settentrionale del Mare Egeo, di fronte alle coste della Tracia. Pur figurando nell’Edictum de pretiis di Diocleziano (301 d.C.) fra i marmi meno costosi, valutato in 50 denari al piede cubico, 656 esso era assai diffuso già dal VI sec. a.C. e molto apprezzato, più tardi, nel mondo romano soprattutto per la statuaria, 657 tanto da meritare una menzione, per la sua preziosità, dallo stesso Seneca.658 Fra i diversi distretti estrattivi (Capo Vathy, Capo Phanari, Limenas, corrispondente all’acropoli della città di Thasos), quello del promontorio di Alikì, notevolmente esteso, si segnala per la caratteristica colorazione bianco-grigiastra a cristalli piuttosto grandi (valori M.G.S.
327
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 253 Brecciola calcarea bruno-rosata a grossi clasti. Fig. 254 Particolare dell’accentuata porosità superficiale. Fig. 255 Calcare micritico grigio travertinoso. Fig. 256 Variante grigio cenere.
Fig. 257 Brecciola calcarea porosa grigio chiaro. Fig. 258 Brecciola calcarea porosa grigiorosata. Fig. 259 Brecciola calcarea biancastro-brunorosata a porosità ridotta. Fig. 260 Brecciola calcarea grigio cenere a porosità ridotta.
dei nostri campioni: 2,80 mm), risultando inadatto, perciò, ad un impiego nel campo della scultura e destinato, quindi, principalmente alla realizzazione di elementi architettonici: blocchi parallelepipedi, trabeazioni, fusti di colonne, basi, capitelli.659 I frammenti plestini, sicuramente riferibili, come si è dimostrato, ad antichi elementi strutturali appartenenti ad un originario contesto edilizio e rimodellati come capitelli nel Medioevo, rientrano pienamente in questo filone produttivo che aveva come fronti di cava quelli affacciati direttamente sul mare, sfruttati in particolar modo in età imperiale. É questo il momento in cui ebbe inizio una massiccia produzione di componenti architettoniche, spesso semilavorate sul posto prima dell’imbarco e della loro esportazione che si protrasse fino ad età tarda (si vedano a tale proposito le consistenti attestazioni, ad esempio, nel deposito dei Fabri Navales a Ostia).660
328
Il commercio del Tasio di Alikì conobbe un raggio di diffusione decisamente molto ampio in gran parte del bacino del Mediterraneo fino almeno al VI sec. d.C., quando ricorre ancora con notevole frequenza in Cirenaica, a Delfi, Corinto, Ravenna, Costantinopoli, in special modo attraverso manufatti destinati all’edilizia, spesso parzialmente preconfezionati e pronti per essere ultimati una volta giunti nelle varie località di destinazione.661 b. Marmo Pario.(Figg. 251, 273-274) Distribuzione: Cripta: parete Est, epigrafe di reimpiego murata nel settore sinistro. Codice di riferimento: PL 3a. L’esemplare plestino rientra nella variante Paros 2 la quale, come si è già avuto modo di precisare in altra sede,662
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
non è la più pregiata fra quelle provenienti dalle rinomate cave dislocate nell’omonima isola egea. Essa, originaria del distretto di Lakkoi (Valle Chorodakia), mostra, infatti, un aspetto leggermente opaco e privo di quegli effetti di trasparenza i quali, unitamente al candore uniforme e purissimo, caratterizzano, invece, la qualità migliore, la cosiddetta “lychnites”, estratta dalla vicina località di Stephànis. Fu quest’ultima quella prediletta per la piccola e grande statuaria e che, sfruttata già a partire dal periodo proto-cicladico, si affermò soprattutto in età arcaica nella produzione scultorea di kouroi e korai appartenenti alla celebre scuola ionica fiorita nel corso del VI sec. a.C. Il nostro può, comunque, catalogarsi come un marmo di buon livello qualitativo, considerate la sua struttura a grana fine (M.G.S.: 2,0 mm) e la bassa percentuale di minerali accessori, limitati a Grafite e, in minima parte, a ossidi di ferro. L’analisi condotta sulla sezione sottile del campione non ha evidenziato manifestazioni di decoesione inter o intracristallina: ciò testimonia la tenuta strutturale del manufatto, posto al riparo dall’aggressione diretta delle acque meteoriche e dagli effetti erosivi delle componenti chimiche presenti nel terreno o prodotti da eoloazione, pur essendo, comunque, inserito da secoli in un ambiente interessato da accentuate escursioni termoigrometriche e da diffuse formazioni di flora microbatterica. Queste ultime, mentre hanno coinvolto una buona percentuale dei materiali calcarei riutilizzati nelle murature, o presenti nelle colonne, attecchendovi tenacemente con conseguente alterazione cromatica delle superfici, hanno invece risparmiato il nostro esemplare, nonostante la sua prossimità alla finestrella aperta nella parete Nord, se si eccettua un lieve alone verdognolo appena diffuso superficialmente. Analogo comportamento, peraltro, è rilevabile anche nei sei capitelli in marmo Tasio appena esaminati. Ciò dimostra la resistenza nettamente superiore dei litotipi marmorei, in special modo quelli più pregiati d’importazione, di fronte ai fattori microclimatici di un contesto ipogeo i quali si rivelano sostanzialmente ininfluenti, tanto sui livelli superficiali, quanto su quelli delle stratificazioni più profonde.
Fig. 261 Brecciola calcarea “spugnosa” grigio chiaro ad accentuata porosità. Fig. 262 Brecciola calcarea grigio-rosata a porosità diradata.
c. Marmo Lunense.(Figg. 252, 275-276) Distribuzione: Area circostante la chiesa: epigrafe fuori contesto (Colfiorito, Museo Archeologico, inv. 734930). Codice di riferimento: MAC 4. Partendo dalle caratteristiche minero-petrografiche emerse attraverso l’analisi della sezione sottile, appare subito evidente la buona qualità del Lunense utilizzato per il manufatto in oggetto. Ce lo confermano, sia il valore particolarmente basso di M.G.S. (mm 0,62), riferibile, quindi, ad una granulazione molto fine, sia il tipo di struttura caratterizzata da una sostanziale purezza. Quest’ultima dipende principalmente da una presenza minima di Grafite, Quarzo e Pirite fra i minerali accessori, e dai valori δ18O e δ13C dei rapporti isotopici che si collocano lontani da interferenze con altri tipi di marmi bianchi.663 Le apprezzabili peculiarità del nostro esemplare ben si addicono al suo utilizzo primario il quale, è opportuno ricordarlo, è stato quello di componente architettonico-decorativa di un edificio, forse pubblico, già demolito in età antica prima che il pezzo venisse recuperato per essere convertito in iscrizione celebrativa nel corso della seconda metà del II sec. d.C. Una simile ridestinazione funzionale, avvenuta sfruttando la faccia posteriore dell’originario fregio naturalistico, trova spiegazione nei pregi litotipologici, giudicati, evidentemente, consoni all’ufficialità del nuovo contesto monumentale di riutilizzo dedicato alla figura di un imperatore. Ad indirizzare verso tale scelta contribuirono, con ogni
329
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
probabilità, anche le caratteristiche cromatiche della lastra le quali, grazie alla percentuale di cristalli giallo-oro di Pirite presenti nella struttura calcitica, assumono una delicata intonazione giallino-rosata di fondo che viene a costituire un valore aggiunto alla natura, già di per sé pregiata, del marmo.
Fig. 263 Calcare compatto bianco gesso a scaglie stratificate disposte “a mosaico”. Fig. 264 a Calcare monogenico compatto bianco gesso a superficie ben levigata.
2. Calcari
Fig. 264 b Variante a leggere venature rosate.
Al momento, le ricerche condotte nei laboratori L.A.M.A. dell’Università di Venezia hanno riguardato solo una parte dei calcari riutilizzati nelle strutture ecclesiali, per cui, dove non ancora disponibili referti scientifici, le osservazioni riportate nelle seguenti pagine vanno considerate come il risultato di esami autoptici, basati sugli aspetti macroscopici apparentemente peculiari delle diverse litotipologie e in attesa di essere passati al vaglio di più approfondite indagini scientifiche. Onde facilitare l’individuazione di ciascuna delle varianti riconosciute nei diversi pezzi antichi di reimpiego, si è deciso di procedere per singoli settori dell’edificio, distinguendo fra materiali prevalenti ed accessori, e facendo riferimento, quando è risultato possibile, alle specifiche schede ogni qual volta un calcare ha rivelato aspetti giudicati compatibili con quelli accertati dagli esami minero-petrografici in altri analoghi frammenti. Una trattazione a sé, invece, è stata riservata ai documenti epigrafici a cui segue, alla fine, la schedatura specifica dei singoli campioni prelevati e sottoposti ad analisi della sezione sottile.
Fig. 265 a Calcare compatto xenolitico biancastro con inclusi sottili ed allungati di colorazione rosata.
a. Pareti esterne
FACCIATA Materiale prevalente. Il materiale antico di reimpiego presente in facciata è costituito, in prevalenza, dalla caratteristica brecciola calcarea mal cementata,(Figg. 253-254) formata da clasti di calcare massiccio bianco, a grana molto grossa, immersi in scarsa matrice decoesa e porosa color bruno-rosato per dispersione di ossidi di ferro di tipo ematitico/limonitico. Campionatura sottoposta ad analisi di laboratorio attraverso microscopio polarizzatore (L.Lazzarini). Materiale accessorio. In percentuale assai ridotta sono
330
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
documentati anche il calcare compatto, nella variante grigio-chiaro, e il calcare grigio-rosato.
Fig. 265 b Variante con inclusi a nucleo compatto nero-rosati.
PARETE NORD Materiale prevalente. Micrite fossilifera grigia di aspetto travertinoso, contenente dal 2% al 5% circa in volume di elementi allochimici, appartenenti ad una formazione geologica di calcari pelagici.(Figg. 255) Le varianti dal grigio più scuro al cenere(Fig. 256) sono dovute a differenti stratificazioni di selce nera e grigiastra, con intervalli marnoso-argillosi scuri. Il litotipo presenta una consistenza dura e compatta, con marginali fenomeni di aggressioni lichenose biancastre e color ruggine debolmente attecchite solo in superficie. Materiale accessorio. Brecciola calcarea porosa e mal cementata come in facciata, ma nella variante color grigio chiaro e con inserti diradati rosa pallido.(Fig. 257) Schede di riferimento. PL 5.
Fig. 266 Calcare bianco a struttura scistosa con intrusione xenolitica color ocra. Fig. 267 Calcare compatto bianco ad aloni grigio-rosati. Fig. 268 Brecciola calcarea biancastro-brunorosata a superficie compatta.
PARETE SUD Materiale prevalente. Brecciola calcarea porosa a grossi clasti bianchi, color bruno-rosato come in facciata, a cui si aggiunge una variante di analoga consistenza, ma caratterizzata da una porosità più profonda e da una intonazione rosata più tendente al grigio.(Fig. 258) Materiale accessorio. Calcare duro color bianco gesso, a scaglie stratificate (un unico esemplare); calcare biancastro con xenoliti nero-rosati a nucleo compatto (un unico esemplare).(Fig. 265 b) ABSIDE Materiale prevalente. Brecciola calcarea biancastro-bruno-rosata, del tipo consueto, ma a clasti rimpiccioliti e con indice inferiore di porosità.(Fig. 259) Calcare micritico travertinoso, nelle due varianti grigio scuro, molto compatto, e grigio chiaro di consistenza, in questo caso, più tenera. Materiale accessorio. Brecciola calcarea grigio cenere a porosità ridotta.(Fig. 260) Calcare duro color bianco gesso sporco. Schede di riferimento. PL 2a - PL 2b, PL 5.
b. Pilastri del porticato
Materiale prevalente. Brecciola calcarea porosa color gri-
331
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 269 Brecciola calcarea grigia a porosità profonda e diffusa. Fig. 270 Calcare compatto bianco lievemente smorzato, a superficie rifinita.
gio chiaro. Calcare compatto bianco gesso a scaglie stratificate con disposizione “a mosaico”. Materiale accessorio. Brecciola calcarea grigio-rosata. Brecciola calcarea bruno-rosata. Calcare bianco molto compatto, a superficie accuratamente levigata. Calcare compatto bianco a sottili venature rosate. Calcare “xenolitico” biancastro. Calcare bianco a struttura “scistosa”. Il contesto della struttura porticata ci fornisce due tipi fondamentali di roccia calcarea: il primo è costituito dalla consueta brecciola “spugnosa”, formata da clasti di calcare massiccio bianco immersi in poca matrice costituita da un cemento impoverito e molto poroso, interessato da fenomeni disgregativi giunti a stadi differenziati di avanzamento. É stato possibile riconoscerne tre varianti cromatiche, dipendenti dagli indici di dispersione degli ossidi di ferro che hanno dato vita ad altrettante distinte colorazioni. La più diffusa(Fig. 261) è quella grigio chiaro, a volte zonata a tinte più cariche, con accentuata porosità che ricorre praticamente in tut-
332
ti i pilastri, ad esclusione del n. 8. Ne esiste, poi, un secondo tipo(Fig. 262) caratterizzato da una delicata intonazione grigio-rosata, presente nei pilastri n. 6, 8-9-10, il quale sembra rivelare una struttura mediamente un po’ più coesa con porosità diradata e meno profonda. Infine, una terza variante color bruno-rosato,(Fig. 253) al pari della prima con porosità diffusa e di debole struttura, la quale, come abbiamo visto, è la più comune lungo i muri perimetrali esterni ed interni della chiesa (eccetto quello Nord), ma è quella che appare, qui, la meno frequente. La seconda qualità di pietra di largo impiego, le cui caratteristiche sono apprezzabili solo nei casi in cui essa conserva la originaria integrità dal momento che di solito risulta frantumata in schegge di piccola e media taglia, è il calcare compatto color bianco gesso. A volte è contraddistinto da un elevato grado di purezza ed è spesso presente sotto forma di regolari conci di media grandezza o di lastre di moderato spessore. Ne sono state individuate quattro varianti fondamentali distinguibili, in questo caso, non in base a significative diversità cromatiche, ma principalmente a peculiarità di natura strutturale: la più comune (pilastri n. 3-4, 6, 8-9)(Fig. 263) si distingue per una conformazione a scaglie stratificate, disposte “a mosaico”, di dimensioni variabili da millimetriche a centimetriche. Segue la qualità migliore (pilastri n. 7-8-9),(Fig. 264 a) un olotipo bianco a struttura monogenica di consistenza molto compatta e resistente, con superficie accuratamente levigata dall’aspetto quasi marmoreo; sporadicamente essa risulta documentata anche in una versione attraversata da leggere venature rosate (variante 2 a) (pilastro 8).(Fig. 264 b) La terza variante, invece, documentata unicamente dal pilastro n. 10,(Fig. 265 a) e parzialmente dal n. 6, è costituita da un calcare “xenolitico” biancastro a superficie liscia nel quale compaiono lembi di roccia con colorazione rosa pallido e di sagoma lunga ed assottigliata, di natura diversa rispetto a quella ospitante (cfr. qualità analoga lungo la parete esterna Sud(Fig. 265 b), nella prossima quarta variante e in cripta), la cui definizione petrografia andrebbe sottoposta a specifica indagine di laboratorio.
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
Esiste, infine, una quarta e ultima tipologia, riconoscibile nei pilastri n. 6 e 8,(Fig. 266) che abbiamo definito “scistosa” per il disporsi su piani paralleli di sottili schegge soggette a distacco e caduta. Nel pilastro 6 la scistosità include una intrusione xenolitica color ocra. Schede di riferimento. Variante 2 della brecciola calcarea grigio-rosata: PL 4. Per l’olotipo a struttura monogenica si rinvia alla scheda SMI 3.(Fig. 140)
c. Pareti interne
CONTROFACCIATA Materiale prevalente. Brecciola calcarea porosa biancastro-bruno-rosata a porosità ridotta.(Fig. 259) Materiale accessorio. Calcare molto compatto bianco ad aloni grigio-rosati.(Fig. 267) PARETE NORD Materiale prevalente. Micrite fossilifera travertinosa, compatta, di colorazione grigio scuro e cenere, come all’esterno.(Figg. 255-256) Materiale accessorio. Brecciola calcarea biancastro-bruno-rosata, a struttura più compatta con microbucherellature poco profonde e diradate.(Fig. 268) Schede di riferimento. PL 4 (cippo di Costantino) - PL 5.
Materiale accessorio. Brecciola calcarea grigio chiaro a porosità ridotta. Calcare duro, color biancastro-beige (zoccolo). Calcare grigio-rosato ad aloni nocciola. Calcare biancastro “xenolitico” a striature rosate. Calcare compatto grigio-biancastro-rosato. Calcare compatto grigio cenere/grigio scuro. Marmo Tasio (capitelli). Marmo Pario (epigrafe lato Est). Schede di riferimento. PL 1 (capitelli), PL 2a – PL 2b - PL 3a (epigrafe Est) – PL 3b (epigrafe Nord). Per l’olotipo/ variante 2 dei calcari del portico, si rinvia alla scheda SMI 3.(Fig. 140)
e. Epigrafi
Allo scopo di fornire una sinossi esplicativa inerente le diverse epigrafi plestine, si è ritenuto utile inserire la tabella, di seguito riportata, nella quale si sintetizzano gli aspetti principali emersi nel corso delle specifiche trattazioni svolte nei capitoli IX e X e nell’ambito della schedatura minero-petrografica di laboratorio.
PARETE SUD Materiale prevalente. Calcare molto compatto bianco ad aloni grigio-rosati (come in controfacciata e nel presbiterio).(Fig. 267) PRESBITERIO Materiale prevalente. Calcare molto compatto bianco ad aloni grigio-rosati (come su parete Sud e in controfacciata).
d. Cripta
Materiale prevalente. Brecciola calcarea porosa biancastro-bruno-rosata. Brecciola calcarea grigia a porosità profonda e molto diffusa.(Fig. 269) Calcare bianco molto compatto e ben levigato (olotipo/variante 2 dei calcari del portico), con intonazione cromatica leggermente smorzata.(Fig. 270)
333
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Epigrafe (sigla di riferimento)
Rimandi alle figure
Dedica
Materiale
Provenienza (giacitura secondaria)
Luogo di conservazione (attuale)
Data
PL 3a
236, 251, 273-274
ignota
Marmo Pario
cripta, parete Est, sett. sx
in situ
non determinabile
PL 3b
245, 280-281
ignota
calcare micritico/ dismicritico cataclastico
cripta, parete Nord, sett. sx.
in situ
non determinabile
PL 4
228, 282
Imperatore Costantino
calcare micritico fossilifero
scavi sottopavimentali, sett. Sud-Ovest della chiesa
Chiesa, a ridosso della parete Nord presso la controfacciata
prima metà IV sec. d.C. (post 337 )
MAC 1
283
Titus Liconios
calcarenite lutitica/ spatica di aspetto travertinoso
da un punto imprecisato della cripta
Museo Archeologico Colfiorito (inv. 734907)
metà I sec. a.C.
MAC 2
284
Tarquitius Gelos
calcarenite travertinosa tipo “Grainstone”
dall’angolo Sudorientale del presbiterio
Museo Archeologico Colfiorito (inv. 739845)
I sec. d.C.
MAC 3
285
Cornelia Sabina (?) e coniuge
calcare micritico con rari modelli calcitici e noduli di selce
dall’area circostante la chiesa
Museo Archeologico Colfiorito (inv. 734927)
seconda metà I sec. d.C.
MAC 4
169a, 252, 275-276
Imperatore Marco Aurelio (o Lucio Vero)
Marmo Lunense a grana molto fine
da ignoto contesto archeologico dell’area forense antistante la chiesa
Museo Archeologico Colfiorito (inv. 734930)
161-180 d.C.
DEPL 1
286
Titus Lavvius Gratus
calcare micritico fossilifero a grana fine
dal settore sx. della cripta
Area archeologica di Plestia-Depositi Sopr. Arch. Umbria (inv. 134914)
prima metà I sec. d.C.
PLC 1
287
Titus Appius
calcare miciritico con dispersione di ossidi di ferro
Colfiorito, loc. Cesi - muro esterno abitazione privata
in situ
fine I sec. a.C. – inizi I sec. d.C.
f. Schede minero-petrografiche dei marmi bianchi e delle rocce calcaree Nel presente paragrafo si è riunita l’intera schedatura compilata sulla base delle analisi isotopiche e delle sezioni sottili svolte sui vari campioni di marmi e rocce calcaree prelevati dallo scrivente. Essa comprende, tanto una selezione dei materiali da costruzione, quanto l’intero corpus epigrafico illustrato nella precedente tabella. Per ciò che concerne le procedure seguite nel corso delle diverse indagini di laboratorio, si rinvia a quanto già illustrato in proposito nel Cap. IV B.
334
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Capitelli colonna 1 e semicolonne C-D-E, G-H (collarino)
Ubicazione
Cripta
Provenienza
S. Maria di Plestia (Serravalle del Chienti – MC)
Campione
PL 1
Prelevato da
I. Rainini
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Struttura
eteroblastica a mosaico, tensionata e leggermente lineata a tratti
Cristalli di calcite, contorni
suturati a golfi
M.G.S.
2,80 mm
Minerali Accessori
grafite ++ ; apatite ±;
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Rapporti isotopici
δ 18O (PDB) = -1,41
δ 13C (PDB) = 2,41
Fig. 271 / Fig. 272 Micrografie campione PL 1.
Legenda
Pa-2 = Pario(Lakkoi) Pa-3=Pario(Karavos) Pr = Proconnesio T-1(2)= Tasio (Aliki) T-3 = Tasio (Vathy) N = Nassio Aph = Afrodisio
Provenienza probabile
Tasio (Alikì, Isola di Thasos, Grecia)
Analisi eseguite da
L.Lazzarini/F.Antonelli
Data
24/09/2012
335
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Epigrafe di reimpiego
Ubicazione
Cripta, parete Est (settore sx, 4° filare)
Provenienza
Chiesa di S. Maria di Plestia (Serravalle del Chienti – MC)
Campione
PL 3a
Prelevato da
I. Rainini
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Struttura
eteroblastica a mosaico
Cristalli di calcite, contorni
a golfi ± suturati
M.G.S.
2,0 mm
Minerali Accessori
grafite ++; ossidi di ferro ±
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Rapporti isotopici
δ 18O (PDB) = -2,54
Legenda
Pa-2 = Pario(Lakkoi) Pa-3=Pario(Karavos) Pr = Proconnesio T-1(2)= Tasio (Aliki) T-3 = Tasio (Vathy) N = Nassio Aph = Afrodisio
Provenienza probabile
Paros 2 (Lakkoi, isola di Paros, Grecia)
Analisi eseguite da
L.Lazzarini/F.Antonelli
Data
12/02/2013
δ 13C (PDB) = 0,91
Fig. 273 / Fig. 274 Micrografie campione PL 3a.
336
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
L.A.M.A. Scheda di analisi marmi bianchi Oggetto
Epigrafe
Ubicazione
Museo Archeologico di Colfiorito, inv. 734930
Provenienza
area archeologica di Plestia (Serravalle del Chienti – MC), da contesto monumentale di ignota identificazione circostante la chiesa
Campione
MAC 4
Prelevato da
I. Rainini
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Struttura
eteroblastica, a mosaico leggermente lineata
Cristalli di calcite, contorni
curvi a golfi
M.G.S.
0,62 mm
Minerali Accessori
grafite+; quarzo±; pirite±
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Rapporti isotopici
δ 18O (PDB) = -1,52
δ 13C (PDB) = 1,84 Fig. 275 / Fig. 276 Micrografie campione MAC 4.
Legenda
Pe-1/2 = Pentelico Pa-1= Pario(Stephani) C = Lunense D = Docimio
Provenienza probabile
Carrara (Alpi Apuane, Italia)
Analisi eseguite da
L.Lazzarini/F.Antonelli
Data
12/02/2013
337
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
L.A.M.A. Scheda di analisi rocce Oggetto
Lastra parietale
Ubicazione
Cripta, parete Est (settore dx, 2° filare basso)
Provenienza
Chiesa di S. Maria di Plestia (Serravalle del Chienti - MC)
Campione
PL 2a
Prelevato da
I. Rainini
Fig. 277 Micrografia campione PL 2a.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Si tratta di una roccia calcarea la cui massa micritica risulta attraversata da una rete a sviluppo irregolare di piccole vene e fessure chiuse da calcite spatica che conferiscono un aspetto cataclastico. Il contenuto in elementi allochimici è stimabile intorno al 5% in volume ed è costituito essenzialmente da modelli calcitici di radiolari ai quali si accompagnano rari noduli di selce e piccole masserelle arrotondate di ossidi di ferro rossicci. La roccia può essere classificata come micrite fossilifera secondo lo schema proposto da Folk (1959; 1962) o come Mudstone secondo quello avanzato da Dunham (1962). Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM, 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121
Note
Questo campione e i campioni recanti le sigle PL 2b, PL 3b, PL 4, MAC 3, DEPL 1 presentano caratteristiche petrografiche assai simili e sono con tutta probabilità da riferirsi alla medesima formazione geologica di calcari pelagici. Date le caratteristiche strutturali e il contenuto in bioclasti è assai probabile che si tratti della Formazione della Maiolica (Maiolica bacinale), la cui età geologica attraversa il limite Giurassico – Cretaceo (Titonico sup./ Aptiano inf. p.p.). Da un punto di vista litologico essa è costituita da calcari micritici bianco-avorio a fratturazione concoide e stratificazione netta, con selce nera e grigiastra e con intervalli marnoso argillosi scuri concentrati nella parte superiore della serie.
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino Marchigiano
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
24/09/2012
338
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
L.A.M.A. Scheda di analisi rocce Oggetto
Lastra parietale
Ubicazione
Cripta, parete Sud (settore dx, 2° filare basso)
Provenienza
Chiesa di S. Maria di Plestia (Serravalle del Chienti - MC)
Campione
PL 2b
Prelevato da
I. Rainini Fig. 278 Micrografia campione PL 2b.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche La roccia presenta caratteristiche simili a quelle descritte per il campione precedente dalla quale si differenzia solo per un contenuto lievemente maggiore di componenti allochimici (6-8% ca.). Questi ultimi sono costituiti prevalentemente da bioclasti quali modelli calcitici di radiolari, calpionelle, più rari foraminiferi pelagici, cristalli minuti di ossidi di ferro e noduletti di selce. La roccia si classifica come micrite fossilifera (Folk, 1959; 1962) o Mudstone (Dunham, 1962). Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM, 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121
Note
Questo campione e i campioni recanti le sigle PL 2a, PL 3b, PL 4, MAC 3, DEPL 1 presentano caratteristiche petrografiche assai simili e sono con tutta probabilità da riferirsi alla medesima formazione geologica di calcari pelagici. Date le caratteristiche strutturali e il contenuto in bioclasti è assai probabile che si tratti della Formazione della Maiolica (Maiolica bacinale), la cui età geologica attraversa il limite Giurassico – Cretaceo (Titonico sup./ Aptiano inf. p.p.). Da un punto di vista litologico essa è costituita da calcari micritici bianco-avorio a fratturazione concoide e stratificazione netta, con selce nera e grigiastra e con intervalli marnoso argillosi scuri concentrati nella parte superiore della serie.
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino Marchigiano
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
10/02/2013
339
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
L.A.M.A. Scheda di analisi rocce Oggetto
Concio parietale
Ubicazione
Parete esterna nord
Provenienza
Chiesa di S. Maria di Plestia (Serravalle del Chienti - MC)
Campione
PL 5
Prelevato da
I. Rainini
Fig. 279 Micrografia campione PL 5.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Si tratta di una roccia calcarea a grana fine di origine pelagica la cui massa carbonatica è talora attraversata da piccole vene sparitiche parallele tra loro (vedi figura). I pochi elementi allochimici (ca. 2% in volume) sono costituiti da modelli calcitici di radiolari, rari cristalli minuti di ossido di ferro rossicci e di quarzo e rarissime valve disarticolate di piccoli bivalvi non identificabili. La roccia può essere classificata come come micrite fossilifera (Folk, 1959; 1962) o Mudstone (Dunham, 1962) Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM, 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121
Note
Le caratteristiche petrografiche di questo campione sopra descritte sono del tutto compatibili con quelle note per la formazione geologica della “Maiolica” la cui età geologica attraversa il limite Giurassico – Cretaceo (Titonico sup./Aptiano inf. p.p.). Da un punto di vista litologico essa è costituita da calcari micritici bianco-avorio a fratturazione concoide e stratificazione netta, con selce nera e grigiastra e con intervalli marnoso argillosi scuri concentrati nella parte superiore della serie. La micrografia della sezione sottile del campione mostra la massa micritica attraversata da diverse vene parallele di calcite spatica.
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino Marchigiano
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
22/07/2013
340
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
L.A.M.A. Scheda di analisi rocce Oggetto
Epigrafe di reimpiego
Ubicazione
Cripta, parete Nord (settore sx, 1° filare basso)
Provenienza
Chiesa di S. Maria di Plestia (Serravalle del Chienti - MC)
Campione
PL 3b
Prelevato da
I. Rainini Fig. 280 / Fig. 281 Micrografie campione PL 3b.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Si tratta di un calcare con struttura pseudobrecciata conferita dalla presenza di rari e piccoli clasti composti da mosaici di calcite spatica collegati tra loro da un reticolo di vene/fessure chiuse. La componente allochimica non è superiore all’1% in volume e si compone di granuli minuti di quarzo, pirite e rari modelli calcitici di radiolari. La roccia si classifica come micrite passante a dismicrite (Folk, 1959; 1962) cataclastica. Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM, 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121
Note
Questo campione e i campioni recanti le sigle PL 2a, PL 2b, PL 4, MAC 3, DEPL 1 presentano caratteristiche petrografiche assai simili e sono con tutta probabilità da riferirsi alla medesima formazione geologica di calcari pelagici. Date le caratteristiche strutturali e il contenuto in bioclasti è assai probabile che si tratti della Formazione della Maiolica (Maiolica bacinale), la cui età geologica attraversa il limite Giurassico – Cretaceo (Titonico sup./ Aptiano inf. p.p.). Da un punto di vista litologico essa è costituita da calcari micritici bianco-avorio a fratturazione concoide e stratificazione netta, con selce nera e grigiastra e con intervalli marnoso argillosi scuri concentrati nella parte superiore della serie.
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino Marchigiano
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
12/02/2013
341
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
L.A.M.A. Scheda di analisi rocce Oggetto
Cippo con dedica all’imperatore Costantino
Ubicazione
A ridosso della parete Nord, presso l’ingresso
Provenienza
Chiesa di S. Maria di Plestia (Serravalle del Chienti – MC), dagli scavi sotto la pavimentazione, settore Sud-Ovest
Campione
PL 4
Prelevato da
I. Rainini
Fig. 282 Micrografia campione PL 4.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Roccia calcarea a grana fina la cui massa carbonatica è talora attraversata da piccole vene sparitiche. I pochi elementi allochimici (ca. 2% in volume) sono costituiti da modelli calcitici di radiolari, valve generalmente disarticolate e sparitizzate di piccoli bivalvi e rare calpionelle riempite di sparite ai quali si uniscono più rari noduli di selce e ossidi di ferro. La roccia può essere classificata come micrite fossilifera (Folk, 1959; 1962) o Mudstone (Dunham, 1962). Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM, 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121
Note
Questo campione e i campioni recanti le sigle PL 2a, PL 2b, PL 3b, MAC 3, DEPL 1 presentano caratteristiche petrografiche assai simili e sono con tutta probabilità da riferirsi alla medesima formazione geologica di calcari pelagici. Date le caratteristiche strutturali e il contenuto in bioclasti è assai probabile che si tratti della Formazione della "Maiolica" (Maiolica bacinale), la cui età geologica attraversa il limite Giurassico – Cretaceo (Titonico sup./ Aptiano inf. p.p.). Da un punto di vista litologico essa è costituita da calcari micritici bianco-avorio a fratturazione concoide e stratificazione netta, con selce nera e grigiastra e con intervalli marnoso argillosi scuri concentrati nella parte superiore della serie.
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino Marchigiano
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
12/02/2013
342
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
L.A.M.A. Scheda di analisi rocce Oggetto
Epigrafe
Ubicazione
Museo Archeologico di Colfiorito, inv. 734907
Provenienza
Chiesa di S. Maria di Plestia (Serravalle del Chienti â&#x20AC;&#x201C; MC), dalla cripta
Campione
MAC 1
Prelevato da
I. Rainini Fig. 283 Micrografia campione MAC 1.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Si tratta di una roccia carbonatica vacuolare di aspetto travertinoso, con struttura isotropa e tessitura cristallina contraddistinta da supporto prevalentemente granulare, ma, a tratti, con micrite intergranulare. La roccia può essere classificata come calcarenite lutitica passante a calcarenite spatica (Folk, 1959; 1962) o come Packstone passante a Grainstone (Dunham, 1962). Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM, 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino Marchigiano?
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
12/02/2013
343
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
L.A.M.A. Scheda di analisi rocce Oggetto
Epigrafe
Ubicazione
Museo Archeologico di Colfiorito, inv. 739845
Provenienza
Chiesa di S. Maria di Plestia (Serravalle del Chienti â&#x20AC;&#x201C; MC), dal presbiterio
Campione
MAC 2
Prelevato da
I. Rainini
Fig. 284 Micrografia campione MAC 2.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche La roccia presenta caratteristiche del tutto simili a quelle descritte per il campione MAC 1 dal quale si differenzia solo per un minore contenuto di calcite micritica intergranulare. La roccia si classifica come Grainstone (Dunham, 1962). Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM, 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino Marchigiano?
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
12/02/2013
344
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
L.A.M.A. Scheda di analisi rocce Oggetto
Epigrafe
Ubicazione
Museo Archeologico di Colfiorito, inv. 734927
Provenienza
Chiesa di S. Maria di Plestia (Serravalle del Chienti – MC), nei pressi della chiesa di S. Maria
Campione
MAC 3
Prelevato da
I. Rainini Fig. 285 Micrografia campione MAC 3.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Calcare micritico con rari modelli calcitici di radiolari e piccoli noduli di selce talora associati a ossidi di ferro dispersi nella massa carbonatica. Contenuto in allochimici ≤ 1 %. La roccia si classifica come micrite (Folk, 1959; 1962) o Mudstone (Dunham, 1962. Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM, 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121
Note
Questo campione e i campioni recanti le sigle PL 2a, PL 2b, PL 3b, PL 4, DEPL 1 presentano caratteristiche petrografiche assai simili e sono con tutta probabilità da riferirsi alla medesima formazione geologica di calcari pelagici. Date le caratteristiche strutturali e il contenuto in bioclasti è assai probabile che si tratti della Formazione della "Maiolica" (Maiolica bacinale), la cui età geologica attraversa il limite Giurassico – Cretaceo (Titonico sup./ Aptiano inf. p.p.). Da un punto di vista litologico essa è costituita da calcari micritici bianco-avorio a fratturazione concoide e stratificazione netta, con selce nera e grigiastra e con intervalli marnoso argillosi scuri concentrati nella parte superiore della serie.
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino Marchigiano?
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
12/02/2013
345
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
L.A.M.A. Scheda di analisi rocce Oggetto
Epigrafe
Ubicazione
Area archeologica di Plestia, deposito della Soprintendenza, inv. 134914
Provenienza
area archeologica di Plestia (Serravalle del Chienti - MC), dal settore sinistro della cripta
Campione
DEPL 1
Prelevato da
I. Rainini
Fig. 286 Micrografia campione DEPL 1.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Si tratta di una roccia carbonatica a grana fina contenente circa il 5% in volume di elementi allochimici. Questi sono dati prevalentemente da modelli calcitici di radiolari (che talora conservano parte della loro originaria composizione silicea), rare valve disarticolate di bivalvi non identificabili e altrettanto rari noduli e liste di selce, granuli minuti di quarzo monocristallino e piccole masserelle di ossidi di ferro. La roccia può essere classificata come micrite fossilifera (Folk, 1959; 1962) o Mudstone (Dunham, 1962). Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM, 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino Marchigiano
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
10/02/2013
346
Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie
L.A.M.A. Scheda di analisi rocce Oggetto
Epigrafe
Ubicazione
Colfiorito, loc. Cesi – Reimpiego in abitazione privata
Provenienza
area archeologica di Plestia (Serravalle del Chienti - MC)
Campione
PLC 1
Prelevato da
I. Rainini Fig. 287 Micrografia campione PLC 1.
Sezione sottile: caratteristiche minero-petrografiche Si tratta di una roccia calcarea la cui massa micritica risulta attraversata da una rete a sviluppo irregolare di piccole vene e fessure chiuse da calcite spatica che conferiscono un aspetto cataclastico. Il contenuto in elementi allochimici è stimabile intorno al 5% in volume ed è costituito essenzialmente da modelli calcitici di radiolari ai quali si accompagnano consistenti dispersioni di ossidi di ferro rossicci. La roccia può essere classificata come micrite fossilifera secondo lo schema proposto da Folk (1959; 1962) o come Mudstone secondo quello avanzato da Dunham (1962). Bibliografia
FOLK 1959, pp. 1-38; IDEM, 1962, pp. 62-84; DUNHAM 1962, pp. 108-121
Note
Questo campione e i campioni recanti le sigle PL 2a, PL 2b, PL 3b, PL 4, MAC 3, DEPL 1 presentano caratteristiche petrografiche assai simili e sono con tutta probabilità da riferirsi alla medesima formazione geologica di calcari pelagici. Date le caratteristiche strutturali e il contenuto in bioclasti è assai probabile che si tratti della Formazione della "Maiolica" (Maiolica bacinale), la cui età geologica attraversa il limite Giurassico – Cretaceo (Titonico sup./ Aptiano inf. p.p.). Da un punto di vista litologico essa è costituita da calcari micritici bianco-avorio a fratturazione concoide e stratificazione netta, con selce nera e grigiastra e con intervalli marnoso argillosi scuri concentrati nella parte superiore della serie.
Micrografia
Nicols perpendicolari; 33 X
Provenienza probabile
Appennino Marchigiano
Analisi eseguite da
F.Antonelli
Data
22/07/2013
347
Note
580 Per ciò che riguarda l’aspetto civile e amministrativo, l’edificio è attualmente di proprietà del Seminario di Nocera Umbra e rientra, pertanto, nell’ambito della diocesi di Assisi. Per quanto concerne la territorialità, però, esso appartiene alla regione Marche e, più specificatamente, al Comune di Serravalle del Chienti, in provincia di Macerata, salvo il sagrato antistante la chiesa e il pilastro dell’angolo Sud-occidentale del porticato i quali si trovano, invece, già sul suolo umbro, quindi nella giurisdizione del Comune di Foligno (PG). Dal punto di vista canonico, infine, Santa Maria di Pistia si situa esattamente all’incrocio dei confini delle diocesi di Assisi, Foligno e Camerino, quindi mentre la proprietà rimane della prima, sulla base di una convenzione stipulata in seguito alla riforma delle diocesi del 1984, la gestione è stata affidata a quella di Camerino. Tuttavia, considerando, come si è detto, la pertinenza del pilastro angolare al territorio umbro e anche la contiguità del monumento al centro abitato di Colfiorito, il diritto d’uso è riconosciuto alla diocesi folignate per il tramite delle parrocchie di Dignano e Colfiorito. Un’utile sintesi delle vicende storiche e architettoniche del nostro edificio si trovano in M.SENSI, Uomini e insediamenti nell’alta valle del Chienti, in “AMDSPMarche” n.s. 84, 1979 (Uomini, insediamento, territori nelle Marche nei secoli XIII-XVI), Ancona 1981, p. 153 ss., in particolare pp. 164-165; BETTONI-PICUTI 2007, pp. 218222; MANCA-MENICHELLI 2014, pp. 65-66. 581 Sull’analisi specifica dell’ipogeo si rinvia ai Capp. IX B., X B. 3. b-g. 582 Cfr. infra, par. A. f. 583 I.ROSSETTI, Plestia e i suoi dintorni, Camerino 1910, p. 8. 584 Sull’antica istituzione della Fiera di Pistia si vedano già le testimonianze storiche di D.DORIO, Istoria della famiglia Trinci, Fulginae 1648, p. 23; L.JACOBILLI, Di Nocera nell’Umbria e sua diocesi e cronologia de’ vescovi di essa città, Fulginae 1653, p. 59. Cfr. al riguardo anche M.SENSI, Vita di pietà e vita civile di un altopiano tra Umbria e Marche (Storia e Letteratura, Raccolta di studi e testi, n. 159), Roma 1984, pp. 225-227; IDEM, Plestia si racconta: dalla “fiera” alla “Sagra della patata rossa”, Colfiorito 1988; BETTONI-PICUTI 2007, p. 221. 585 Cfr. infra, par. A. c.; B. 1. b. 586 MENGOZZI 1781, cap. XI, pp. XXXI-XXXII. 587 PERNA et Alii 2011, pp. 120-121, Fig. 17. 588 PERNA et Alii 2011, p. 151. 589 PERNA et Alii 2011, pp. 113, 117, Fig. 13. 590 PERNA et Alii 2011, p. 111, Fig. 6 ; p. 114, Fig. 9. 591 PERNA et Alii 2011, p. 111-112, Figg. 6-7.
348
592 PERNA et Alii 2011, pp. 111, 115, Fig. 10. 593 MANCA-MENICHELLI 2014, p. 66; non è chiaro se la fotografia della tomba illustrata a p. 64, Fig. 2 (“rinvenuta presso la chiesa”) sia riferibile a quella in oggetto o ad altra deposizione longobarda portata alla luce più a Sud, in prossimità della domus publica. 594 Cfr. infra, par. B. 1. b. 595 Cfr. supra, cap. IX A., pp. 223-224. 596 Su tale argomento cfr. nota prec. 597 ADNU apud ASP, Reg. n. 598 “III Visitatio Il(lustrissi)mi D(omini) E(pisco)pi Chiappè sub annis D(omi)ni 1738-1739-1740 (1738 apr 27-1743 lug 17)”, ff. 265-266, visita del 16 ottobre 1741. 598 Esame eseguito al microscopio polarizzatore nei laboratori “L.A.M.A.” dell’Università di Venezia (IUAV), Prof. L.Lazzarini. 599 C.BRANDI, Teoria del restauro, Torino 1963 (Rist. 1977), in particolare pp. 77-80. 600 Nel 1967, in seguito all’interessamento dell’allora Sindaco di Serravalle del Chienti Giuseppe Giunchi, la Soprintendenza ai Monumenti di Ancona, con l’appoggio del Ministero della Pubblica Istruzione, diede inizio ai lavori di restauro della chiesa che si conclusero nel giugno del 1971 e furono inaugurati il 27 dello stesso mese. 601 Th.MOMMSEN (a cura di), in “MGH” Scriptores, Auctores Antiquissimi XII. Cassiodoris Senatoris Variae, Additamentum II: Acta Synhodorum habitarum Romae a. CCCCXCVIIII-DI-DII, Berolini 1894, pp. 399-400, 409-410, n. A44. B.49 (a. 499); A53. B42 (a. 502): “Florentius episcopus ecclesiae Plestinae (Plestanae)”. Sulle problematiche relative all’esistenza dell’episcopato plestino, si veda già MENGOZZI 1781, art. III, pp. XXXVIII-XLIII.; MANCA-MENICHELLI 2014, p. 64. 602 BETTONI-PICUTI 2007, p. 219. 603 Cfr. supra, pp. 254-255. 604 Cfr. supra, pp. 208-209. 605 In proposito si rinvia al par. C. 2. b., pp. 332-333. 606 MANCA-MENICHELLI 2014, p. 57. Per gli analoghi esemplari inseriti alla base del muro Nord del presbiterio, cfr. infra, par. B. 2. 607 Sugli aspetti specifici inerenti le problematiche legate al restauro e al recupero dei contesti monumentali di valore storico-archeologico, la letteratura è molto vasta, a partire dai principi basilari ormai di vecchia data emanati già agli inizi degli anni ’30 del Novecento dalla “Carta Italiana del Restauro” (art. 7) e dalla “Carta di Atene” (art. V) e ribaditi, successivamente, dalla “Carta di Venezia” del 1964 (art. 11-12-13). Si veda, ad esempio,
Note
quanto afferma in proposito U.BALDINI, Teoria del restauro e unità di metodologia, vol. I, Firenze 1991, in particolare alle pp. 68-69. 608 A.NESTORI, Rambona e la sua abbazia. Studio archeologico, Roma 1984, p. 113, Fig. 92; RAININI 2011, p. 75, Tav. X; p. 78, Figg. 61-62 (Cingoli, San Lorenzo); pp. 98-99, Tav. XVII, Figg. 7677 (Cingoli, Sant’Esuperanzio); sempre a Cingoli, si veda anche il caso interessante dell’edificio su podio medievale di Via Bonifazi: Ibidem, pp. 112-113, Tav. XX, Figg. 87-88. 609 Cfr. supra, par. A. c. 610 Cfr. supra, pp. 212-217. 611 PERNA et Alii 2011, pp. 106, 109 e note 11-12. 612 Le risultanze planimetriche già furono, fortunatamente, documentate all’epoca: PERNA et Alii 2011, p. 108, Fig. 3. 613 BONOMI PONZI 2012, p. 291; MANCA-MENICHELLI 2014, p. 34. 614 L.SENSI, Plestia, in “EAA” II suppl., IV 1996, p. 388; PERNA et Alii 2011, p. 149. 615 PERNA et Alii 2011, p. 144, Fig. 21; p. 149, Fig. 25. 616 PERNA et Alii 2011, p. 144, Fig. 22. 617 R.PERNA, in G.M.FABRINI-G.PACI-R.PERNA (a cura di), Beni Archeologici della Provincia di Macerata, Pescara 2004, p. 150. Secondo qualcuno (ma non si capisce sulla base di quali riscontri), il cippo proverrebbe, invece, sempre dalla zona forense ma esterna alla chiesa, e non dal suo interno. 618 GASPERINI 1976, pp. 391-401. 619 MARGUTTI 2012, pp. 138-139, n. 15. 620 Su tali problematiche si vedano i recenti contributi di Th. GRÜNEWALD, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stuttgart 1990, n. 237; AMICI 2000, pp. 187-216; A.MARCONE, Pagano e cristiano. Vita e mito di Costantino, Bari 2002, pp. 42-46; IDEM, L’editto di Milano: dalle persecuzioni alla tolleranza, in G.SENA CHIESA (a cura di), Costantino 313 d.C. L’Editto di Milano e il tempo della tolleranza, Milano 2012, pp. 42-47; L.FRANCO, Costantino nelle fonti letterarie fra storia e mito, Ibidem, pp. 56-59. 621 Vedi supra, nota 616; “AE” 1977, n. 246. 622 Molto rare sono le dediche a Costantino decretate dopo la sua morte: si vedano quella sull’arco di Augusto a Fano (CIL XI, 6218), una dal Foro Boario a Roma (CIL VI, 1151), un’altra rinvenuta sulla antistante sponda di Trastevere (CIL VI, 1152) e infine una dedica frammentaria da Ostia (CIL XIV, 4406). 623 AMICI 2000, p. 199. 624 MARGUTTI 2012, p. 139. 625 CIL XI, 5265; ILS, 705; “AE” 2002, 442. Gli studi storico-e-
pigrafici più recenti in merito si devono a F.COARELLI, Il rescritto di Spello e il santuario ’etnico’ degli Umbri, in Umbria Cristiana, pp. 39-51; G.BONAMENTE, Dall’imperatore divinizzato all’imperatore santo, in P.BROWN-R.LIZZI TESTA (a cura di), Pagans and Christians in the Roman Empire: the Breaking of a Dialogue (IVth-VIth Century AD), (Proceedings of the International Conference at the Monastery of Bose, 20-22 ottobre 2008), Zurich-Münster 2011, pp. 339-370; G.A.CECCONI, Il rescritto di Spello: prospettive recenti, in G.BONAMENTE-N.LENSKI-R.LIZZI TESTA (a cura di), Constantine before and after Constantine/Costantino prima e dopo Costantino (Atti del Convegno internazionale, Perugia-Spello 2730 aprile 2011), Bari 2012, pp. 273-292; G.L.GREGORI-A.FILIPPINI, L’epigrafia costantiniana, in “EC” I, p. 520. 626 Il fianco sinistro, invece, era concepito per essere lasciato a vista: si conserva, infatti, una specchiatura liscia (h. m 0,87; largh. m 0,44) delimitata sul lato destro e inferiormente da una larga cornice sgusciata (spess. m 0,05). Quest’ultima, lungo il profilo superiore, è sormontata da un toro poco sporgente (m 0,03) e da un listello piatto (m 0,03) assieme ai quali dava origine ad una modanatura tripartita, alta complessivamente m 0,11. 627 Cfr. infra, par. C. 2. e., pp. 334, 342. 628 GASPERINI 1976, p. 400. 629 Cfr. supra, Cap. IX B., p. 238 e nota 561. L’ipotesi è stata sostenuta recentissimamente anche in MANCA-MENICHELLI 2014, p. 34. 630 Cfr. nota prec. 631 R.DUTHOI, Recherches sur la répartition géographique et chronologique des termes sevir Augustalis, Augustalis et sevir dans l’Empire romain, in “EpSt” 11, 1976, pp. 143-214 ; IDEM, Les Augustales, in “ANRW” II 16, Berlin-New York 1978, pp. 1254-1309. 632 Che il principato augusteo prima, e quelli adrianeo, antonino e costantiniano poi, siano stati quelli che, probabilmente più di altri, hanno rivestito un ruolo di rilievo per lo sviluppo sociale ed economico della comunità locale, sembrerebbe suggerito, tanto dalla consistente crescita architettonico-urbanistica che la città conobbe, soprattutto durante la prima e media età imperiale, quanto dalle dediche ufficiali riportate nel testo, ma anche dall’abbondanza della monetazione risalente a tali periodi già rilevata da Giovanni Mengozzi il quale ci riferisce che “Le molte Medaglie trovate fra le sue ruine [scil. plestine], che io ho avuto sott’occhio, e che serbo in parte nel mio Studiolo, sono per lo più de’ tempi della Repubblica, e dell’alto Imperio, e principalmente di Comodo; molte de’ tempi di Costantino…” (art. IV, par. IX, p. L). Nell’ambito del materiale numismatico plestino di epoca roma-
349
Note
na, attualmente conservato ed esposto al Museo Archeologico di Colfiorito (Medagliere, primo piano, Sala “Plestia”: 56 esemplari), che ricopre l’intero arco cronologico compreso fra l’età repubblicana e quella tardo-antica, le emissioni monetali in oggetto ammontano al 30% del totale. Ad esse vanno, inoltre, aggiunti altri due Assi bronzei, restituiti dagli scavi 1999 e 2001, dedicati ad Antonino Pio e a Marco Aurelio: PERNA et Alii 2011, pp. 140142, n. 2-3, Fig. 20 b-c. Cfr. anche MANCA-MENICHELLI 2014, pp. 70-71. 633 Si tratta di una micrite fossilifera, ampiamente attestata nella zona, per la cui dettagliata analisi di laboratorio si rinvia alla scheda relativa: cfr. supra, nota 625. 634 A Cingulum incontriamo Flavio Fortunio, palatinus onorato con una statua decretata dall’ordo Cingulanorum nel 386 d.C. (CIL IX, 5684), mentre a Sestinum viene ricordato un Veseno Frontiniano, curator rei publicae, il quale nel 375 d.C. dedica un simulacro al Genius curiae (CIL XI, 5696; ILS 5519), cioè al nume tutelare della Curia della propria città: cfr. PACI 1999 (2008), pp. 452-453. 635 Su tali problemi inerenti, nello specifico, il territorio marchigiano si veda PACI 1999 (2008), pp. 446-461, in particolare p. 455 e nota 49; IDEM 2004 (2008), in particolare pp. 601-603. Un significativo segno di vitalità da parte delle comunità locali nel corso del IV sec. d.C., si può cogliere negli sforzi compiuti per mantenere funzionante la rete stradale cosiddetta “minore”, indispensabile per i collegamenti locali e intervallivi, di cui sono testimoni i numerosi milliari pervenutici e risalenti tutti proprio a questo periodo: Ibidem, pp. 603-604, e nota 44. 636 A.H.M.JONES, Lo sfondo sociale della lotta tra paganesimo e cristianesimo, in A.MOMIGLIANO (a cura di), Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Torino 1968, pp. 21-43, in particolare pp. 32-33, 39; D.M.NOVAK, Constantine and the Senate: an Early Phase of the Christianisation of the Roman Aristocracy, in “AS” 10, 1979, pp. 271-310; G.ASDRUBALI PENTITI, Paganesimo e Cristianesimo nell’Italia Centrale, in “MGR” 12, 1987, pp. 211-263. 637 ADNU apud ASP, Reg. n. 556 “Florentii visita 1612 (1612 ago 4 -1614 feb 3)”, f. 63 v., visita del 7 ottobre 1612: “Adest in Summitate Scala per quam ascenditur ad Presbiterium cancellum ligneum devastatum…”. 638 Cfr. supra, par. A. e. 639 Riguardo a tale reperto, si rinvia alla trattazione specifica svolta nell’ambito della rilettura critica del testo di Giovanni Mengozzi dedicato alla descrizione dell’edificio sacro: Cap. IX A.
350
640 MARTELLI 1966, Tav. 51, Fig. 22. 641 Cfr. infra, par. C. 1. b. 642 Non dimentichiamoci, come verrà ripreso tra poco, che questo ingresso e il gemello aperto a Sud erano le uniche fonti di luce naturale, oltre a quella proveniente dalla finestrella absidale, che penetrava nella cripta dando modo di vedere, soprattutto, proprio la parete che stava di fronte. 643 Per un approfondimento critico di questi concetti, che sono all’origine della diffusa pratica del reimpiego nell’ambito della cantieristica del Medioevo marchigiano, e non solo, si veda da ultimo RAININI 2007, pp. 59-71, con ampia bibliografia di riferimento. 644 A titolo esemplificativo, si vedano i casi di San Vittore alle Chiuse (Frasassi) e delle cripte di San Pietro di Monte Conero, di San Vincenzo al Furlo, dei Santi Rufino e Vitale di Amandola, di Sant’Urbano ad Apiro, e, per certi aspetti, di Santa Maria in Insula a Monastero di Cessapalombo. 645 MANCA-MENICHELLI 2014, p. 57; per la qualità particolare di marmo “Bigio Antico”, si veda LAZZARINI 2007, p. 108, Fig. 2. 646 ORLANDOS 1966-1968, pp. 99-100; GINOUVÈS-MARTIN 1985, p. 106, Tav. 27, Fig. 1 (“anathyrose à un bandeau”); ADAM 2006, pp. 53-54, Figg. 111, 113-114. 647 Cfr. supra, par. A. e. 648 Cfr. supra, Capp. IX A., X B. 2. 649 ADAM 2006, p. 55, Fig. 120; pp. 58-59, Figg. 130-131. 650 Operazione analoga a quella eseguita sull’epigrafe introdotta nel primo tratto della parete Est: par. B. 3. c. 651 Pur accordando il massimo credito alla testimonianza di Don Sensi, esiste, tuttavia, la possibilità che la dinamica degli eventi possa aver seguito un corso un po’ diverso: e cioè che, in un primo tempo, siano state in realtà aperte due monofore, una a Nord e l’altra a Sud, e che la seconda sia stata trasformata, poi, in porticina quando la cripta, dopo il lungo abbandono, diventò una stalla. Questo, fino ai restauri del secolo scorso allorché, al fine di aumentare l’illuminazione naturale dell’ambiente e ridare integrità alla muratura, il varco venne riconvertito in finestra. 652 Cfr. supra, p. 316. 653 Per quanto riguarda i contenuti dei testi epigrafici e i personaggi in essi nominati, si rinvia al Cap. IX B.-C. 654 ANTONELLI-LAZZARINI 2002; RAININI 2007; IDEM 2011; si veda, nel presente volume, il Cap. IV della Sez. I, dove, per la prima volta, è stata affrontata l’analisi scientifica sia dei marmi colorati, sia dei marmi bianchi, sempre relativamente, comunque, a situazioni di reimpiego secondario.
Note
655 Vedi supra, Cap. IV A. 656 GIACCHERO 1974, ll. 5-14; M.GUARDUCCI, Epigrafia Greca, Roma 1987, pp. 152-153; GNOLI 1988, p. 15; P.BARRESI, Il ruolo delle colonne nel costo degli edifici pubblici, 2, costi dei marmi, in DE NUCCIO-UNGARO 2002, pp. 72-81; LAZZARINI 2010, p. 487, Fig. 1. 657 Nell’ambito della produzione scultorea, però, più che la qualità calcitica di Alikì, era particolarmente apprezzata quella proveniente dalle cave del distretto di Vathy, sia per la maggior facilità di estrazione/lavorazione del prodotto, sia, soprattutto, per il suo biancore uniforme, privo di venature grigie e, per tali caratteristiche, confondibile in certi casi con il marmo Pario e di Naxos, anch’essi, come il Tasio, marmi bianchi “Dolomitici” (carbonato di calcio+ magnesio): si veda al riguardo LAZZARINI 2010, p. 486. Fin dall’età tardo-arcaica, e per l’intero periodo ellenistico, abbondano sculture e rilievi eseguiti in questa qualità di marmo a Roma, Magna Grecia, Macedonia, Tracia e Asia Minore; in quest’ultima area del Mediterraneo orientale (Efeso) si diffonde il Tasio statuario, soprattutto in epoca imperiale, che trova le attestazioni più frequenti, però, in Italia e a Roma: si vedano, ad esempio, le figure di togati e loricati del Foro di Traiano. 658 SEN., Epist., LXXXVI: “Ai nostri giorni…uno crederebbe di essere povero e senza gusto…se il marmo di Taso, che un tempo si poteva ammirare, e di rado, solo nei templi, non circondasse le sue vasche…”. 659 N.HERZ, Classical Marble Quarries of Thasos, in G.A.WAGNER-C.WEISGERBER (a cura di), Antike Edel-und Buntmetallgewinnung auf Thasos, Bochum 1987, pp. 232-240; MOENS et Alii 1988, pp. 243-250; J.J.HERRMANN-V.BARBIN, The Exportation of Marble from the Aliki Quarries of Thasos: Cathodoluminescence of Samples from Turkey and Italy, in “AJA” 97, 1993, pp. 91-103; J.J.HERRMANN-V.BARBIN-A.MENTZOS, The Quarries of Aliki and Cape Fanari, in Thasos, Matières premières et technologie de la préhistoire à nous jours (Actes du Colloque international, Thasos 1995), Athènes 1999, pp. 66-90 ; un’utile sintesi si trova, ultimamente, in LAZZARINI-TURI 2007, pp. 593-594. 660 P.PENSABENE-T.SEMERARO-L.LAZZARINI-B.TURI-M. SOLIGO, The Provenance of Marbles from the Depository of the Temple of the Fabri Navales at Ostia, in SCHVOERER 1999, pp. 147-156; L.LAZZARINI-M.PREITE MARTINEZ-B.TURI-S.CANCELLIERE, L’identificazione dei marmi di cava di Porto, della Fossa Traiana e del deposito del Tempio dei Fabri Navales a Ostia, in PENSABENE 2007 (Parte II, Cap. II. 1), pp. 599-606. 661 Su tali aspetti si veda, in generale, PENSABENE 2002, pp. 208-212.
662 Cfr. supra, Cap. IV D. 2. a. 663 Cfr. supra, Cap. IV D. 1. a.
351
Capitolo 11 Ipotesi di provenienza dai contesti edilizi ed infrastrutturali urbani dei materiali di epoca romana reimpiegati nellâ&#x20AC;&#x2122;edificio ecclesiale o ad esso un tempo pertinenti
Ipotesi di provenienza dai contesti edilizi ed infrastrutturali urbani dei materiali di epoca romana reimpiegati nell’edificio ecclesiale o ad esso un tempo pertinenti
L’obbiettivo che si prefigge il presente capitolo, pur se limitato alla formulazione di ipotesi sulle possibili provenienze di alcune categorie di materiali archeologici da strutture architettoniche o settori urbani della Plestia romana, risulta indubbiamente molto ambizioso e irto di ostacoli e difficoltà tali da scoraggiare, al primo impatto, qualunque ricerca in tal senso. Lo sarebbe se avessimo a che fare con una realtà sufficientemente nota dal punto di vista architettonico-urbanistico, dal momento che risalire a specifici contesti edilizi antichi attraverso un universo eterogeneo e disarticolato di frammenti anonimi e forzatamente sradicati dalla loro destinazione primaria è, comunque, già di per sé operazione ardua ed esposta a facili travisamenti. A maggior ragione in una realtà come la nostra, così marginalmente interessata da sistematici interventi esplorativi; così priva di un’adeguata documentazione scientifica relativa ai pochi scavi, di fatto inediti, condotti in anni ormai troppo lontani; così scarsamente valorizzata, oggi, da una cronica mancanza di investimenti in grado di mantenerne in vita quel poco che rimane. Malgrado ciò, in seguito alla individuazione del grande complesso della domus publica, ma soprattutto grazie alle ultime proficue, anche se parziali, indagini svolte negli anni 1999 e 2001 più volte ricordate in questo libro, è stato, però, possibile acquisire nuovi importanti dati scientifici ed utili elementi di valutazione sulle sequenze stratigrafiche e sugli sviluppi planimetrici dell’area abitativa posta nelle immediate adiacenze dell’edificio medievale. Essi, infatti, combinati con le poche informazioni restituiteci dagli scavi degli anni ’60 del secolo scorso, consentono di ricostruire, nelle sue linee generali e con un discreto margine di attendibilità, l’originario assetto planimetrico-monumentale del settore cittadino gravitante attorno alla chiesa di Santa Maria di Pistia.664 Analizzando, dunque, la dislocazione delle strutture emerse di recente e di quelle rinvenute in passato, alla luce dei vecchi rilievi, del matrix di scavo elaborato nel corso delle ultime esplorazioni,665 delle tecniche edilizie e delle tipologie dei materiali da costruzione, si è ritenuto non troppo azzardato pervenire ad alcune ipotesi sulle origini di una parte, almeno, dei pezzi di spoglio. Di questi ultimi, per cominciare, sono state attentamente valutate le specifiche proprietà morfologiche e mine-
1 cm 3 cm 5 cm 7 cm 9 cm 0
2 cm 4 cm 6 cm 8 cm 10 cm
353
Fig. 288 Campionatura di marmi colorati provenienti dall’area urbana prossima alla chiesa (domus publica: peristilio e ambiente termale adiacente) (Colfiorito, Museo Archeologico): a. Crusta in “Pavonazzetto”. b. Lastrina modanata in “Greco Scritto”. c. Crusta in “Bigio Antico”. d. Cornice modanata in marmo bianco (“Lunense”?).
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
Fig. 289 Serravalle del Chienti: chiesa dell’Immacolata.
ro-petrografiche. Esse si sono rivelate di grande utilità, consentendo, in alcuni casi, di individuare, in via preliminare, stoccaggi abbastanza ben definiti di materiali da costruzione che è presumibile riferire ad ambiti monumentali o infrastrutturali comuni. Non è fenomeno raro, infatti, nella cantieristica medievale, procedere alla demolizione di più o meno ampie porzioni dello stesso edificio. Ciò è accaduto, soprattutto, quando si rendeva necessario riutilizzare blocchi omogenei dal punto di vista, sia dimensionale, sia dei caratteri litotipologici (marmi, calcari duri, calcari teneri, arenarie, brecce), per rispondere al meglio alle esigenze statico-costruttive di un determinato contesto edilizio. A seconda della posizione che essi erano destinati ad occupare, si imponevano di volta in volta precisi requisiti di robustezza, oppure di elasticità, di proporzioni, di spessore, di taglio e forma, di aspetto estetico, di preziosità, ai quali potevano rispondere molto meglio frammenti facenti parte di una medesima struttura, anche se magari, in origine, con diversa vocazione architettonica. In secondo luogo, è risultato abbastanza intuitivo con-
354
siderare le misure imponenti di numerosi conci, o parti di colonne, come indizi molto probabili della loro appartenenza a edifici pubblici o, comunque, di una certa rilevanza sul piano religioso o amministrativo all’interno del tessuto urbano, innalzati, verosimilmente, nel centro della vita civile, sociale ed economica identificabile nell’area forense. Alla stessa stregua, anche la qualità dei pochi marmi documentati, finora, in alcuni manufatti inseriti nel nucleo più sacro dell’edificio religioso, la cripta, (marmo Tasio, marmo Pario)(Figg. 250-251) o recuperati nelle aree contermini,(Figg. 288 a-d) 666 è stata giudicata come prova indiretta dell’esistenza, seppur limitata, di realtà monumentali di un certo prestigio, o di componenti sociali di rango elevato. Particolarmente interessanti, al riguardo, si sono rivelati i sei capitelli in marmo Tasio sistemati sui piedritti ipogei, la cui omogeneità petrografica e la comune estrazione da originari elementi architettonici rilavorati, hanno dimostrato la cantierizzazione di un unico lotto di materiali di spoglio e la loro sicura appartenenza ad un identico contesto edilizio di età romana.
Ipotesi di provenienza dai contesti edilizi ed infrastrutturali urbani dei materiali di epoca romana reimpiegati nell’edificio ecclesiale o ad esso un tempo pertinenti
Di contro, invece, la predominante povertà della materia prima, costituita in prevalenza da un certo numero di varianti di alcuni calcari e calcareniti locali, in massima parte di scadente valore, e la tecnica impiegata per la loro lavorazione, non di rado piuttosto rudimentale e priva di appariscenza, hanno condotto alla ricostruzione, seppur parziale, di un panorama architettonico, nel suo insieme, abbastanza povero e disadorno. Prova ne sono, a parte alcune eccezioni riferibili ai resti a tutt’oggi documentati di edilizia residenziale, talvolta impreziositi da eleganti tessuti musivi pavimentali, tanto la rarità di litotipi di pregio, quanto il ricorso a più economici surrogati. Questi ultimi, nel migliore dei casi, sono costituiti in buona percentuale da una micrite fossilifera di discreta qualità, molto compatta, liscia e caratterizzata da una colorazione bianca, giunta a diversi stadi di purezza,(Figg. 263-267, 270) non di rado a struttura monogenica dall’aspetto quasi marmoreo.(Fig. 264) Si tratta di una qualità nota anche in altri contesti di riuso della zona (Chiesa dell’Immacolata a Serravalle del Chienti)(Figg. 289-290) fino ai territori pedemontani dei Sibillini settentrionali (Santa Maria in Insula/Cessapalombo),(Fig. 140) dove ha rimpiazzato il ricorso, assai più dispendioso, a materiali di importazione. Ad essa è possibile accostare la variante a superficie rosata,(Fig. 267) apparentemente un po’ più rara, i cui esempi di utilizzo primario a tutt’oggi accertati sembra possano essere quelli individuati all’interno di alcuni ambienti di rappresentanza della domus publica. Questi ultimi risulterebbero, quindi, al momento i potenziali contesti di spoglio a cui ascrivere questo particolare tipo di calcare. Occorre, comunque, ribadire, a tale proposito, quanto è già stato in precedenza precisato riguardo alla provvisorietà dei dati finora raccolti e alla prudenza con la quale essi vanno temporaneamente valutati. La documentazione archeologica in nostro possesso sulla configurazione urbana e monumentale del centro abitato, infatti, risulta ancora troppo scarsa e frammentaria per giungere a conclusioni definitive. Non è escluso, quindi, che future indagini più sistematiche e capillari possano modificare il panorama sull’edilizia plestina che, allo stato attuale, sembra delinearsi. Passando all’analisi delle iscrizioni, considerate, in questo caso, in base alla tipologia e alla natura del supporto, si sono potuti ricavare dati utili per ricostruire, anche se
Fig. 290 Chiesa dell’Immacolata: particolare di una delle finestre murate.
in modo parziale e in via del tutto preliminare, uno spaccato relativo alla stratificazione sociale della comunità indigena. Nei casi, abbastanza frequenti, in cui ci troviamo, infatti, di fronte o a esemplari anepigrafi, o a documenti in cui la lacunosità del testo è tale da non fornire sufficienti indicazioni sui personaggi nominati, le qualità petrografiche delle lapidi, e in un esemplare isolato il repertorio ornamentale, hanno, in qualche misura, supplito suggerendo la probabile disponibilità economica, o meno, del soggetto. In base a ciò, nel primo caso si è potuta, dunque, ipotizzare la loro potenziale appartenenza ai ceti elitari della popolazione locale,(Figg. 165, 236) mentre nel secondo a quelli più umili.(Figg. 168, 245-246) Riguardo a ciò, ad ogni modo, è bene ricordare che le le varietà litotipologiche e l’eventuale presenza/assenza di elementi decorativi non sempre vanno considerati, in sé, un dato assoluto in grado di informarci sullo status sociale dell’intestatario: lo dimostra, ad esempio, il cippo di Costantino il quale, pur rivolgendosi direttamente alla figura dell’imperatore e nonostante ne sia stata decretata l’esecuzione da parte dei membri del Senato municipale, si presenta in veste spoglia e dimessa ed eseguito in una
355
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
pietra calcarea di qualità assai scadente. Altrettanto interessante si è rivelata, quando non più presenti in situ, la primitiva dislocazione, da intendersi come giacitura secondaria, dei documenti epigrafici attualmente andati dispersi, o distribuiti fra Museo Archeologico di Colfiorito e Depositi della Soprintendenza alle Antichità dell’Umbria. La loro plurisecolare conservazione, forse già dalle origini dell’edificio religioso, all’interno della cripta, ha lasciato intendere, infatti, come si è anticipato e si approfondirà fra breve, l’esistenza di una necropoli nelle sue adiacenze. A dispetto, dunque, di una situazione indubbiamente molto carente sotto il profilo della ricerca scientifica, che investe ancora larga parte dell’area archeologica plestina, e malgrado la parzialità delle conoscenze acquisite nel corso del tempo, è stato possibile pervenire ad alcune ipotesi che, per prudenza, si sono volute limitare alle evidenze più appariscenti e assodate, rivelatesi quelle meno soggette a conclusioni aleatorie. Affrontando, ora, il discorso inerente le procedure costruttive e la selezione dei materiali edilizi di spoglio, uno dei primi aspetti sui quali vale la pena soffermarsi è rappresentato dalla palese diversità che contraddistingue l’aspetto del fianco esterno Nord da quello Sud. É già stata, a suo tempo, sottolineata la particolare concezione strutturale riscontrabile nel muro settentrionale,667 sufficientemente omogenea e caratterizzata da una ininterrotta sequenza di conci di medie e grandi dimensioni lungo la fascia perimetrale inferiore.(Figg. 193-194) Tutti sono costituiti da una micrite fossilifera travertinosa grigiastra di consistenza molto dura, in grado di creare un solido cordolo lapideo di notevole robustezza e capace, sia di garantire affidabilità al sistema portante, sia di svolgere un’efficace funzione di controventatura. Una cortina del genere era, infatti, nelle condizioni di contrastare le forti sollecitazioni e i potenziali dissesti derivanti dall’azione erosiva dei freddi e impetuosi venti di maestrale che, di frequente e a lungo, soffiano da Nord-Ovest, e anche di opporsi al biodeterioramento provocato, tanto dall’aggressione di batteri autotrofi (alghe, licheni, muschi), quanto dalle formazioni di efflorescenze saline. Che il contesto edilizio di età romana sia lo stesso o, comunque, circoscritto ad un’area strutturalmente unita-
356
ria, lo conferma la sostanziale uniformità litologica dei pezzi antichi la cui unica effettiva differenza si limita, in diversi casi, ad una morfologia ora più lunga e stretta, ora maggiormente sviluppata in altezza con sagome quasi quadrate. Nei primi, non è escluso che possano riconoscersi resti appartenenti ad una originaria area lastricata aperta, prossima o addirittura corrispondente al Foro cittadino. L’impossibilità di rilevare gli spessori, tuttavia, non consente di formulare tale ipotesi con sufficiente convinzione (malgrado la sua alta probabilità). Appare, invece, ammissibile l’attribuzione di buona parte degli altri conci ad un alzato murario, posizionati lungo la fascia di spiccato i più grandi, compresi presumibilmente i frammenti erratici che ancora oggi fiancheggiano per un certo tratto la parete,(Fig. 181) e nei ricorsi mediani quelli di misura più ridotta. Riguardo a questi ultimi, considerati gli aspetti macroscopici delle litotipologie in uso, non si può escludere una loro parziale provenienza dalle strutture, anch’esse in travertino, appartenenti, tanto alla domus publica sorta a Sud-Ovest dell’insediamento, quanto, e forse in modo più verosimile, a quelle della imponente porticus (Basilica forense?) per un tratto sottostante la chiesa. Certo è, ad ogni modo, che le modeste qualità della pietra, nonostante i tagli di frequente piuttosto precisi e regolari, non depongono a favore di un edificio di particolare prestigio estetico, anche se le volumetrie lasciano intuire una sua probabile monumentalità. A questo proposito, l’eventualità della pertinenza almeno di una buona percentuale degli spolia in oggetto ad un organismo architettonico con destinazione pubblica, presumibilmente di tipo sacrale/amministrativo del centro cittadino, trova sostegno nella presenza di un grande frammento di rocchio di colonna,(Fig. 195) sistemato in posizione rovesciata alla base della seconda metà dello sviluppo longitudinale della muratura. Esso si presenta realizzato in una rozza breccia calcarea, anch’essa di scarsissimo valore, il cui diametro, oggi rilevabile, di ben 1,10 m ci riporta, però, ad un esemplare originariamente di quasi m 3,50 (m 3,454) di circonferenza e con una conseguente altezza proporzionalmente elevata, senz’altro superiore alla media. Stiamo, dunque, parlando di una emergenza edilizia di notevole impegno, dotata di una peristasi, o anche di un
Ipotesi di provenienza dai contesti edilizi ed infrastrutturali urbani dei materiali di epoca romana reimpiegati nell’edificio ecclesiale o ad esso un tempo pertinenti
semplice propylon, funzionale ad uno spazio d’uso collettivo e di particolare rilevanza. L’esistenza di un colonnato in questo settore urbano trova indiretta conferma nell’ormai noto rilievo planimetrico relativo agli scavi condotti tra il 1967 e il 1968 dalla Soprintendenza Archeologica dell’Umbria(Tavv. XXV, XXXV) 668 nel quale viene illustrato il grande edificio, orientato Nord-Ovest/SudEst, rinvenuto dinnanzi alla facciata della chiesa e, come è stato approfondito nelle pagine precedenti (Cap. X B. 1. d.), in parte intersecante di questa l’angolo Sud-occidentale. Nel settore Nord, sono riportate quattro colonne all’apparenza di considerevoli proporzioni, anche se l’assenza della scala metrica impedisce di calcolarne con maggior precisione il diametro reale. Esse, sommandosi ad altri sette grossi rocchi, fra quelli reimpiegati e quelli attualmente erratici, ancora rintracciabili in situ (nell’ipotesi che questi ultimi appartenessero al medesimo contesto), delineano un impianto corredato da un imponente fronte porticato affacciato su quella che, si è più volte già detto, può verosimilmente identificarsi come area forense. Fra i primi, si vedano, oltre al frammento della parete Nord, quelli inseriti nel portico Ovest, rispettivamente alla base del pilastro 3(Fig. 210) e nel tratto inferiore del pilastro 4(Fig. 211), e il tamburo collocato all’inizio del muro tardo visibile all’esterno dell’angolo Nord-occidentale della chiesa.(Fig. 186) Riguardo ai secondi, si segnalano il rocchio depositato sotto il portico meridionale, quello sistemato all’estremità sinistra del presbiterio (un tempo nella cripta dove fungeva da sostegno dell’altare),(Fig. 163) e un terzo, infine, parzialmente murato dentro l’antica porta tamponata della parete interna Sud.(Fig. 223) Quest’ultimo, però, essendo di proporzioni inferiori, sembrerebbe pertinente ad un diverso contesto architettonico. Tutti sono stati realizzati nel medesimo tipo di materiale (la brecciola calcarea locale biancastro-bruno-rosata) il quale, assieme alle dimensioni dei diametri abbastanza simili, indica la loro probabile appartenenza allo stesso sistema edilizio. Passando al fianco meridionale, invece, la fisionomia, come si è detto, muta radicalmente. Non solo per il diradarsi dei conci di reimpiego, ma anche per la qualità del tutto diversa della pietra da costruzione (in questo caso la consueta brecciola locale ripetutamente nominata, nel-
le due varianti a clasti più o meno sviluppati). Sappiamo che essa rappresenta il litotipo classico e maggiormente diffuso nell’edilizia dell’antica città,(Figg. 200, 253-254, 258) presumibilmente riconducibile alla fase di età tardo-imperiale, il quale diventa qui in assoluto quello predominante al posto del calcare micritico travertinoso grigio. Stabilire a quale potenziale ambito sia possibile riferire questo anonimo e grossolano materiale, nelle sue numerose varianti cromatiche, che ricorre in abbondanza, non soltanto nella parete Sud, ma anche nella facciata, nell’abside, in numerosi pilastri del porticato e nella maggior parte delle murature interne della chiesa, è impresa decisamente ardua. E lo è ancor di più nel caso della cortina esterna meridionale, in quanto la particolare consistenza calcarenitica, costituita da calcite granulare mal cementata sottoposta a prolungati e forti “stress” da parte degli agenti climatici, ha portato come conseguenza ad uno stato di conservazione, in generale, estremamente precario. In diversi esemplari si è giunti, infatti, ad uno stadio di erosione tale da renderne difficile, addirittura, la ricostruzione della sagoma e delle dimensioni primitive. Un dato interessante che è emerso dall’analisi specifica dei singoli pezzi è che tali condizioni dovevano spesso risultare, così come le vediamo ora, fin dalle origini. Lo dimostrano le vistose e frequenti integrazioni cementizie, eseguite all’epoca della costruzione dell’edificio dalle maestranze medievali, le quali, in questo modo, hanno cercato di regolarizzare forme già compromesse e di colmare le ampie lacune che si venivano spesso a creare nella tessitura muraria a causa della frammentarietà dei conci di recupero.669 Consapevoli della loro fragilità strutturale, non è un caso, infatti, che si sia deciso di inserire questi ultimi in percentuale maggiore in quelle parti del fabbricato giudicate meno esposte ai fenomeni climatico-ambientali più aggressivi: lato Sud, pilastratura porticata Sud, interno chiesa. Conci del genere, dunque, in quale contesto potevano anticamente trovare la loro collocazione? A prima vista si direbbe in rivestimenti lapidei esterni, considerati i diffusi danni subiti, forse anche in seguito ad eventi traumatici, quali incendi, terremoti, devastazioni belliche. Certo, si può ritenere non in ambienti architettonicamente di rilievo e di prestigio, considerando, a prescindere da come oggi essi sono giunti a noi, proprio le peculiarità
357
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
intrinseche di questa pietra: debole e totalmente priva di valore e di qualità estetiche. Si potrebbe pensare a qualche impianto infrastrutturale, ma forse, con maggiore probabilità, a murature pertinenti ad una edilizia domestica di epoca tarda, corrispondente ad un momento di declino dello “standard” qualitativo delle condizioni di vita. Ciò giustificherebbe la natura assai scadente del materiale e la sommarietà delle procedure di lavorazione, ma spiegherebbe anche la rilevante eterogeneità morfologica dei conci e la loro elevata diffusione in ogni parte della chiesa. Tali caratteristiche sono riscontrabili, tra l’altro, in un gran numero di frammenti erratici o riutilizzati in un raggio territoriale piuttosto ampio, che travalica i confini dell’insediamento romano giungendo fino al centro di Colfiorito e a diverse contrade contermini. In modo particolare i tagli, dipendenti in molti casi da adattamenti successivi, ma spesso risalenti a lavorazione antica, caratterizzano blocchi di dimensioni medio-grandi (lungo la muratura Sud, con medie comprese fra m 1,30 x 0,65 e m 0,86 x 0,73; nei pilastri n. 1, 3-4, 6-7, 10; nell’absidiola ipogea), pezzi di misure più contenute (media di m 0,50 x 0,35/40, specie nelle pareti della cripta), fino ad arrivare a masselli di proporzioni ridotte (si vedano in particolare quelli in facciata e nella parete interna Nord, con medie di m 0,35 x 0,18/20). Una varietà ed una abbondanza che si spiegano pensando alla molteplicità di contesti d’uso all’interno di abitazioni semplici e modeste, che andavano dai muri portanti, agli alzati, ai tramezzi, alle strutture accessorie e di servizio, sulla base di tipologie e procedure costruttive non troppo diverse da quelle che, per secoli, hanno continuato quasi fino ad oggi ad essere applicate nell’architettura rurale della zona. Un panorama un po’ diverso, almeno in parte, ci viene offerto dalle strutture absidali relative, in special modo, allo spiccato murario conservatosi nell’emiclo di base. Dal punto di vista delle litotipologie, non cambia molto rispetto a quanto è riscontrabile anche altrove, se non che, in questo caso, è possibile rilevare una particolare mescolanza di brecciole e calcari locali, documentati da un discreto numero di varianti individuate fino a questo momento. Quello che, invece, sembra differenziarsi è il numero delle pietre lunghe e piatte, realizzate anche in materiali
358
diversi, che preannunciano quelle di gran lunga più numerose, percentualmente addirittura quasi predominanti, che incontriamo all’interno della cripta. Per comprendere le ragioni di una loro concentrazione così massiccia, fra i materiali di spoglio, in questo settore orientale dell’edificio, che ne presuppone una singolare abbondanza e disponibilità in situ, occorre valutare attentamente quanto hanno consentito di riportare alla luce le esplorazioni archeologiche svolte proprio in quest’area negli anni 1999 e 2001. Un dato molto significativo emerso dalle stratigrafie di scavo, riguarda un importante intervento di modifica della topografia urbana, messo in atto nell’area Nord-orientale rispetto alla chiesa, che segna il passaggio dalla fase insediativa più antica (Fase I), risalente all’età repubblicana medio-tarda (fine III-II sec. a.C.), a quella successiva (Fase II) corrispondente alla istituzione municipale (seconda metà del I sec. a.C.). In questa occasione venne realizzato uno spazio aperto verso Sud-Ovest, delimitato da strutture isorientate rispetto alle precedenti, sul quale prospettano ambienti interpretati, forse, come botteghe.(Tav. XXV) 670 Al suo interno, l’aspetto di maggior interesse è rappresentato dai resti dell’antica pavimentazione, costituita da un basolato formato da lastre abbastanza regolari (US 207, m 0,60 x 0,45/0,85) sistemate perpendicolarmente rispetto ad un muro, sviluppato in direzione Nord-Ovest/ Sud-Est (UUSS 211, 106 e 118), lungo il quale si conservano parti di un gradino (US 212) composto da consistenti conci in pietra calcarea con lunghezze variabili da m 0,48 a m 1,75, larghezza di m 0,60 e spessore di circa m 0,25.671 Si è voluto riportare, in sintesi, questo specifico passaggio della relazione di scavo, così come redatto dai responsabili, in quanto dalle risultanze riferite e dalla documentazione che le accompagna (rilievi planimetrici, fotografici e ortofotorettificati) si evincono elementi sufficienti per avanzare alcune ipotesi sulla provenienza di questa particolare categoria di materiali da costruzione. Se osserviamo i reimpieghi suddetti, ed assieme ad essi tanto quelli dell’absidiola della cripta, quanto, in quest’ultima, soprattutto le trentatre lastre che costituiscono lo zoccolo perimetrale comprendente anche le due soglie d’ingresso,(Tav. XXXVIII) è possibile rilevare sagome e misure spesso coincidenti, o comunque, compatibili con quelle del marciapiede che delimitava l’area lastricata a
Ipotesi di provenienza dai contesti edilizi ed infrastrutturali urbani dei materiali di epoca romana reimpiegati nell’edificio ecclesiale o ad esso un tempo pertinenti
Nord-Est. Oltre alla morfologia stretta ed allungata, sono interessanti le affinità dimensionali, in special modo le lunghezze, tenendo presente che larghezze e spessori risultano, in genere, alterati dall’innesto dei pezzi antichi alla base dei muri medievali e dalla moderna pavimentazione che, quasi sempre, è stata messa in posa rialzandola di diversi cm rispetto al piano antico. Da notare, inoltre, un particolare tipo di lavorazione che è possibile ravvisare in numerose porzioni della zoccolatura. La riconosciamo con particolare chiarezza soprattutto lungo il lato Est, nel secondo blocco della metà sinistra;(Fig. 238) in quelli della metà destra e nei due segmenti innestati consecutivamente a partire dall’angolo del lato Sud;(Figg. 239, 249) infine nella soglia dell’ingresso destro del lato Ovest. In tutti i pezzi, specie nei due sistemati in posizione angolare, si distingue perfettamente una netta e regolare risega lungo il margine anteriore destinata, con ogni probabilità, a segnare lo stacco del cordolo del marciapiede dal basolato pavimentale sottostante. Anche il tipo di materiale, a giudicare dalla documentazione fotografica edita, sembra all’apparenza appartenere alla stessa qualità di calcare caratterizzato da una micrite fossilifera molto compatta, color biancastro-bruno scuro, che ricorre unicamente nella bordatura di base della cripta. Dagli elementi raccolti, ne deriva la plausibile conclusione che la crepidine perimetrale dell’ipogeo sia stata realizzata, se non tutta, almeno in buona parte recuperando parti pertinenti allo spesso gradino sviluppato a filo del lungo muro di fondo dell’area Nord-orientale che si estendeva a pochi metri di distanza dal settore absidale della chiesa. Ragionando in termini stratigrafici, dal momento che le poche strutture pertinenti alla fase più antica (Fase I) sono state individuate “alla profondità di m 1,5 ca. dal p.d.c. attuale” (UUSS 108-109)672 e che le successive risultano aver obliterato le precedenti “su un interro di 1,0 m”673, significa che l’impianto più recente, con relativa superficie pavimentata, è stato portato in luce ad appena m 0,50 circa di profondità. Poiché il dislivello esistente fra l’odierno p.d.c. e la quota minima della cripta, corrispondente all’antico piano di frequentazione dello spazio absidato, si aggira mediamente attorno ai m 1,45, lo sbancamento operato in questo punto dalla manovalanza medievale
per ricavare l’ambiente sotterraneo fu, all’incirca, di m 0,95 più profondo rispetto ai livelli di giacitura delle murature romane di II Fase. Appare, quindi, evidente che, in corso d’opera, ci si dovette necessariamente imbattere nei ruderi antichi i quali poterono, così, essere facilmente asportati e riutilizzati, sia come robusto zoccolo di sostegno dei nuovi muri in costruzione, sia, in misura minore, come conci per erigere porzioni dell’emiciclo absidale. Analoga situazione deve, di conseguenza, essersi determinata anche per i basoli del lastricato. Questi, data la loro conformazione a lastroni geometrici grosso modo quadrati o rettangolari (m 0,60 x 0,45/0,85), furono, invece, giudicati più appropriati per altri usi: innanzi tutto per gli alzati murari, come suggeriscono sia diversi ricorsi inseriti, sempre nella cripta, soprattutto lungo le pareti Est e Sud, sia, forse soprattutto, i filari in travertino grigio della parete esterna Nord. In secondo luogo per pavimentare la superficie dell’absidiola674 dove numerosi pezzi conservano morfologie del tutto compatibili con quelle di una originaria lastricatura esterna. A tale proposito, tuttavia, si affaccia una seconda possibilità che nasce osservando il piano corrispondente all’impianto pavimentale. Si è detto che quest’ultimo si colloca a – m 1,45 circa dal p.d.c., ad una quota, cioè, praticamente solidale con quella della I Fase (“ca. m 1,5”). Pertanto, non si può escludere che durante le operazioni di sistemazione di quest’area dell’ipogeo, le maestranze possano aver riutilizzato i resti della via basolata più antica (Fase I, US 109)675 realizzata con lastre anch’esse, a quanto pare, proporzionalmente conformi e a portata di mano in quanto giacenti a breve distanza e più o meno alla medesima profondità delle strutture medievali.676 Indicative, comunque, sono le accentuate affinità dimensionali con i frammentari resti emersi nel corso degli scavi: i riscontri più stringenti sono rilevabili nei lati Est (1° e 2° filare inferiore del settore sinistro; 1°-2°-3°, 5° filare del settore destro), Sud (1° filare inferiore del settore sinistro; 1° filare inferiore, 7° filare nel settore destro), Nord (1° filare inferiore all’angolo Nord-Est) e nel pavimento absidale, compresi i due grossi lastroni quadrati posti alle estremità dell’emiciclo sui quali insistono le semicolonne E e H. Anche dal punto di vista degli aspetti petrografici dei diversi esemplari, si ripropongono le medesime caratte-
359
Sezione terza / L'altopiano di Colfiorito
ristiche che ci riportano al compatto calcare micritico di cui si è già più volte parlato. Questo ci conferma la realizzazione, nell’originario contesto edilizio di epoca romana, di un progetto coerentemente strutturato che prevedeva l’utilizzo di due distinte qualità di litotipi: una per la lastricatura dello spazio non edificato, di colore bianco a superficie ben rifinita, e un’altra per la crepidine che lo delimitava, con intonazione biancastro-bruno scuro. Ciò doveva caratterizzare con un’impronta unitaria questo importante intervento di ristrutturazione urbana attraverso il ricorso a materiali selezionati non solo sotto l’aspetto dei requisiti di robustezza e resistenza all’usura, ma anche per quanto concerne il loro aspetto estetico, offrendo un impatto visivo che doveva richiamare, quasi, quello di una superficie marmorea. Nel suo insieme, dunque, la cripta, vale a dire la parte più antica dell’edificio, sembra configurarsi in buona misura come il risultato dello smontaggio e del reimpiego di una parte del complesso edilizio tardo-repubblicano/ primo-imperiale sorto nell’area Nord-Est del municipium plestino. In via preferenziale ci si servì, forse, più dei rivestimenti pavimentali, che non degli alzati murari, parte dei quali sembrerebbero aver mantenuto inalterata la loro funzione primaria, adattandosi ad un riutilizzo analogo, anche se in piccolo, a quello originario. É necessario, però, trattenersi ancora in questo ambiente per prendere in esame l’ultimo aspetto inerente la possibile correlazione fra riuso medievale e città romana. In precedenza (Capp. IX B.-C., X B. 3. c., e.) si è avuto occasione di porre l’accento sulla singolare abbondanza di materiale epigrafico documentato, sotto varie forme e in momenti cronologicamente anche lontani fra loro, al suo interno. La presenza, oggi, di tre iscrizioni tuttora in situ e di altre quattro qui conservate, ancora a fine Settecento, costituisce un corpus, come si è detto, di tutto rispetto, tenendo conto della quantità di esemplari in rapporto alla limitatezza dello spazio ad essi destinato. Appare abbastanza evidente e giustificata la individuazione di una necropoli, in uso entro un “range” cronologico compreso fra la metà del I sec. a.C. e l’intero arco di svolgimento del successivo, nelle adiacenze della chiesa, forse proprio nei terreni ad oriente dell’edificio sacro. In effetti, che tale area fosse da tempo adibita a luogo di sepoltura, in concomitanza col passaggio da un modello di
360
popolamento di tipo paganico-vicano ad una realtà insediativa già urbanizzata (fine III-II sec. a.C.), sembrano confermarlo i risultati emersi nel corso degli scavi del 1968(Tav. XXIV) 677 i quali documentano “…dietro l’abside e al di sotto dei livelli d’uso di età repubblicana…una tomba alla cappuccina ed una tomba a fossa rivestita di lastre calcaree”, più una “tomba tarda”. Si tratta, quindi, presumibilmente di un settore a vocazione funeraria che potrebbe aver continuato, nel tempo, a svolgere questo ruolo, con una dislocazione, forse, spostata rispetto agli sviluppi edilizi di I e II Fase che, in parte, si sono progressivamente estesi lungo l’asse NordEst/Sud-Ovest. Questo spiegherebbe il motivo della singolare presenza di documenti epigrafici, non così comuni, solitamente, in situazioni di reimpiego e, comunque, inconsueti come materiali erratici depositati senza una apparente funzione pratica. Ma di ciò si è già discusso in sede più appropriata, dove si è cercato di fornire una plausibile spiegazione basata su considerazioni di ordine storico-culturale alle quali si rinvia.678 Sulle problematiche inerenti reimpieghi antichi e contesti architettonici primari di spoglio, di più non è possibile dire, al momento. Attraverso le ipotesi avanzate, sempre con la massima prudenza e solo a fronte di un numero sufficiente di oggettivi riscontri tipologici, petrografici e documentari di natura archeologica, si è cercato di affrontare, entro i limiti imposti dalla carenza di dati scientifici disponibili, una questione che riveste, a nostro avviso, una importanza centrale in tema di studio dei rapporti fra mondo classico e edilizia religiosa medievale. In fondo, lo scopo principale di una ricerca in questo settore, oltre all’analisi dei manufatti in sé, è proprio quello di ricostruire, fino a dove è ragionevole spingersi, da quale possibile realtà topografico-monumentale essi provengono. Solo in questo modo, ci pare, si rivela utile lo studio del pezzo antico inserito in un organismo edilizio più recente al fine di ricostruire, per il tramite di queste preziose sopravvivenze, un panorama che spesso ci è oscuro, soprattutto quando manca, come a Plestia, il necessario supporto di una adeguata ed aggiornata ricerca sul campo.
Note
664 I risultati delle due campagne di scavo sono stati pubblicati nel più volte citato volume XXXI (2011) della rivista “Picus” ad opera di Roberto Perna, Roberto Rossi e Valeria Tubaldi. 665 PERNA et Alii 2011, p. 113, Fig. 8. 666 OCCHILUPO 2009, pp. 79-87; MANCA-MENICHELLI 2014, p. 57; cfr. anche supra, pp. 312-314. 667 Cfr. supra, Cap. X A. c. 668 PERNA et Alii 2011, p. 108, Fig. 3. 669 Sui danni e le alterazioni subite in passato dalla struttura, si vedano supra le pp. 223-224 e quanto riferito dalla già citata Visita Pastorale dell'ottobre 1741 a p. 269 e nota 597. 670 PERNA et Alii 2011, pp. 111-113, Figg. 6-7; p. 116, Fig. 12; p. 144, Fig. 21. 671 PERNA et Alii 2011, pp. 116-117, Figg. 12-13. 672 PERNA et Alii 2011, pp. 111. 673 PERNA et Alii 2011, pp. 113. 674 Non si può escludere che la lastricatura si estendesse anche al resto dell’ambiente, malgrado non ne rimanga traccia dal momento che la moderna pavimentazione a piastrelle in cotto riveste interamente la superficie. É molto più probabile, però, che quest’ultima fosse semplicemente in battuto, sempre, però, ad una quota un po’ più bassa rispetto all’absidiola la quale, in questo modo, riceveva un certo risalto dalla leggera sopraelevazione, oltre che dalla sistemazione più strutturata del piano di calpestio. Di tale situazione, ad ogni modo, nessuno oggi conserva ormai più memoria. 675 PERNA et Alii 2011, pp. 111 ; pp. 114-115, Figg. 9-10 ; p. 143. 676 Nella relazione di scavo illustrata in PERNA et Alii 2011, p. 108, Fig. 3, viene pubblicata una planimetria relativa alle indagini condotte tra il 1967 e il 1968 a cura della SAU, nella quale sono rilevate le strutture antiche emerse al di sotto della chiesa, compreso l’edificio porticato antistante la facciata (si veda anche nel presente volume la Tav. XXXV al Cap. X). Per completezza di documentazione, ci sembra doveroso segnalare quanto riportato in corrispondenza dell’area absidale dove compaiono le sagome di alcune lastre quadrangolari pertinenti, apparentemente, ad una pavimentazione. Non essendo indicate le quote, non si capisce se esse siano stratigraficamente solidali con i resti delle strutture romane adiacenti (I Fase), oppure no. Nel caso fossero state rappresentate come giacenti sul piano di frequentazione antico, allora significherebbe che esse non furono sistemate come reimpieghi prelevati da altro contesto all’epoca della edificazione della cripta, ma che si trovavano già in situ. Ciò vorrebbe dire, quindi, che quello che vediamo oggi appartiene al lastricato originario
di epoca romana, sfruttato in parte per innalzarvi sopra le murature dell’abside. Tale eventualità sembra, a prima vista, assai poco probabile, soprattutto per la evidente assenza di uniformità rilevabile nella sistemazione del lastricato; tuttavia, l’ambiguità del rilievo grafico e il fatto che i livelli di giacitura della prima fase repubblicana siano pressoché coincidenti con la profondità dell’ipogeo medievale, hanno reso necessaria questa breve precisazione la quale, per essere confermata o smentita, necessiterebbe di ulteriori approfondimenti. 677 PERNA et Alii 2011, pp. 146-148, Fig. 23. 678 Cfr. supra, Cap. IX C.
361
Apparati Elenco delle abbreviazioni, Bibliografia, Elenco delle illustrazioni, Elenco delle tavole grafiche, Cartografia, Indice dei nomi propri, Indice dei nomi geografici, Indice degli autori, Indice delle fonti antiche, Indice generale
Elenco delle abbreviazioni
Annales, Archivi, Atti, Biblioteche, Collane, Corpora, Dizionari, Enciclopedie, Lessici, Periodici, Raccolte Cartografiche, Regesta AA = Archäologischer Anzeiger. AAAd = Antichità Altoadriatiche. AAAH = Acta ad Archaeologiam et artium historiam pertinentia. Serie altera. Institutum Romanum Norvegiae (Roma). AAPGBull = American Association of Petrol Geology. Bulletin. AAPGMem = American Association of Petrol Geology. Memoir. ABen = Annali Benacensi. ABSLCC = Annali della Biblioteca Statale e Libreria Civica di Cremona. ABull = Art (The) Bulletin. ACFLM = Atti del…Convegno della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata. ACIAM = Actes du…Congrès International d’Archéologie Médiévale. ACNAC = Atti del ....Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana. ACStM = Atti del …Convegno di Studi Storici Maceratesi. ADNU = Archivio Diocesano di Nocera Umbra. AE = Année (L’) Épigraphique. AFLM = Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Macerata. AFLP = Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Perugia. 1. Studi Classici. AIONArchStAnt = Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Sezione di Archeologia e Storia Antica. AIRN = Acta Instituti Romani Norvegiae. AISCOM = Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico AIV = Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Classe di Scienze Morali.
364
AJA = American (The) Journal of Archaeology. AMDSPMarche = Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Marche. AnAEspA = Anejos de Archivo Español de Arqueologìa. ANAQ = Associazione Nazionale per Aquileia. Quaderni. Ann Cam = J.B.Mittarelli - D.A.Costadoni, Annales Camaldulenses Ordinis Sancti Benedicti. Quibus plura interferuntur tum ceteras Italico-monasticas res, tum historiam Ecclesiasticam remque Diplomaticam illustrantia, Venetiis 1759, t. IV. ANRW = Aufstieg und Niedergang der römischen Welt. ANS = Archivio Notarile di Sarnano. AnTard = Antiquité Tardive. APCE = Archivio Parrocchiale di Cessapalombo. APMO = Archivio Parrocchiale di Montefortino. ArchCl = Archeologia Classica. ArchMéd = Archéologie Médievale. ARID = Analecta Romana Instituti Danici. AS = Ancient Society. ASAA = Annuario della Scuola Archeologica di Atene e delle Missioni Italiane in Oriente. ASAF = Archivio Storico Arcivescovile di Fermo. ASCC = Archivio Storico Comunale di Camerino. ASC/FC = Archivio di Stato di Camerino/ Fondo Catasti. ASCOF = Archivio Storico Comunale di Fermo. ASCSG = Archivio Storico Comunale di San Ginesio. ASM/FC = Archivio di Stato di Macerata/ Fondo Catasti. ASMOSIA = Association for the
Study of Marble and Other Stones in Antiquity. ASP = Archivio di Stato di Perugia. AST = Araştirma Sonuçlari Toplantisi. ASU = Atti del … Convegno di Studi Umbri. ATTA = L.Quilici-S.Quilici Gigli (a cura di), Atlante Tematico di Topografia Antica. AUF = Annali dell’Università di Ferrara. BAR = British Archaeological Reports. BBCU = Bollettino per i Beni Culturali dell’Umbria. BCSStArch = Bollettino del Centro Studi di Storia dell’Architettura. BdA = Bollettino d’Arte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. BEFAR = Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome. BKMR = Beiträge zur Kunstgeschichte des Mittelalters und der Renaissance. BMIR = Bullettino del Museo Imperiale Romano. BollArch = Bollettino di Archeologia. BollStBas = Bollettino Storico della Basilicata. BollStFol = Bollettino Storico della Città di Foligno. BSGI = Bollettino dei Servizi Geologici Italiani. BSJF = Biblioteca Seminariale Jacobilli di Foligno. BullComm = Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma. CAI = Città Antiche in Italia. CAH = A.Cameron-P.Garney (a cura di), The Cambridge Ancient History, 13, The Late Empire A.D. 337-425, Cambridge 1998. CArch = Cahiers Archéologiques. CCARB = Corsi di Cultura sull’Arte Ravennate e Bizantina. CEFR = Collection de L’École Française de Rome.
Elenco delle abbreviazioni
CeStFarf = Centro di Studi Farfensi. CIL = Corpus Inscriptionum Latinarum. CISAM = Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo. CISBaM = Centro Italiano di Studi sul Basso Medioevo. CMAV = Collezioni e Musei Archeologici del Veneto. CollLat = Collection Latomus. CTHS = Comité des Travaux Historiques et Scientifiques. DArch = Documenti di Archeologia. DialArch = Dialoghi di Archeologia. DSAStAnt = Dipartimento di Scienze Archeologiche e Storiche dell’Antichità – Università di Macerata. DSPM/FS = Deputazione di Storia Patria per le Marche/Fonti per la Storia delle Marche. DT = AA.VV., Dizionario di Toponomastica. Storia e Significato dei Nomi Geografici Italiani, Torino 1997. EAA = Enciclopedia dell’Arte Antica Classica e Orientale. EAM = Enciclopedia dell’Arte Medievale. EC = G.L.Gregori-A.Filippini, Costantino I. Enciclopedia Costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore del cosiddetto Editto di Milano, 313-2013, vol I, L’epigrafia costantiniana. La figura di Costantino e la propaganda imperiale, Roma 2013. EMC = Échos du Monde Classique. EpSt = Epigraphische Studien. ÉtPél = Études Péloponnesiennes. EurJMin = European Journal of Mineralogy. FA = Fasti Archeologici. FR = Felix Ravenna: rivista di antichità ravennati cristiane e bizantine. GAL = Guide Archeologiche Laterza. GCActa = Geochimica et Cosmochimica Acta. GFRF = Giornale Ferrarese di Retorica e Filologia.
HAAN = Histoire et Archéologie de l’Afrique du Nord. HistArt = Histoire de l’Art. HistEinz = Historia Einzelschriften. IFulch = Insula Fulcheria. Rassegna di Studi del Civico Museo di Crema. IGM = Istituto Geografico Militare. ILS = Inscriptiones Latinae Selectae, Ed. H.Dessau, I-III, Berolini 1892-1916 (rist. 1954-1955). ISIME = Istituto Storico Italiano per il Medioevo. JAT = Journal of Ancient Topography. JCH = Journal of Cultural Heritage. JChemPhys = Journal of Chemical Physics. JEH = Journal (The) of Ecclesiastical History. JHS = Journal (The) of Hellenic Studies. JRA = Journal of Roman Archaeology. JRS = Journal (The) of Roman Studies. LTUR = E.M.Steinby, Lexicon Topographicum Urbis Romae, I-V Roma 19911999. MarmoraIJAMS = Marmora. An International Journal for Archaeology, History and Archaeometry of Marbles and Stones. MEFRA = Mélanges de L’École Française de Rome. Antiquité. MEFRM = Mélanges de L’École Française de Rome. Moyen Âge. MGH = Monumenta Germaniae Historica. MGR = Miscellanea Greca e Romana. MNR = Museo Nazionale Romano. MonAL = Accademia Nazionale dei Lincei. Monumenti Antichi. NATO ASI = NATO Advanced Study Insititute, Series E, vol. 153. NSAL = Notiziario della Soprintendenza Archeologica della Lombardia. NSc = Notizie degli Scavi di Antichità dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
OJA = Oxford Journal of Archaeology. OMCA = Oxford Monographs on Classical Archaeology. PAA = Praktikà tis Akademìas Athìnon. PBSA = Papers of the British School at Athens. PBSR = Papers of the British School at Rome. PCA = European Journal of Post-Classical Archeologies. PCIA = Popoli e Civiltà dell’Italia Antica (Biblioteca di Storia Patria, Roma). PG = Patrologia Graeca, Ed. J.P.Migne, Parisiis 1857-1858. PIA = Papers in Italian Archaeology. QdAC = Quaderni dell’Appennino Camerte. QdASAF = Archivio Storico Arcivescovile di Fermo. Quaderni. QdLFUM = Quaderni Linguistici e Filologici dell’Università di Macerata. QdSLun = Quaderni del Centro Studi Lunensi. RAL = Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filosofiche. Rendiconti. RAN = Revue Archéologique de Narbonnaise. RChIt = Regesta Chartarum Italiae. RDM = Rationes Decimarum Marchia (Sella 1950). RDU = Rationes Decimarum Umbria (Sella 1952). REA = Revue des Études Anciennes. RIASA = Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte. RM = Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts. Römische Abteilung. RM-EH = Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts. Römische Abteilung. Ergänzungshefte. RMar = Rassegna Marchigiana. RPAA = Rendiconti della Pontificia
365
Elenco delle abbreviazioni
Accademia Romana di Archeologia. RSA = Rivista Storica dell’Antichità. RStBCAM = Raccolta di Studi sui Beni Culturali ed Ambientali delle Marche. RTA = Rivista di Topografia Antica. SASF = Sezione Archivio di Stato di Fermo. SCI = Scripta Classica Israelica. SCO = Studi Classici e Orientali. SFLM = Studi della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata. SHA = Scriptores Historiae Augustae. SMM = Studi Medievali e Moderni (Università di Chieti). SSF = Studi Storici Fermani. StEtr = Studi Etruschi. StMac = Studi Maceratesi. StMisc = Studi Miscellanei (Seminario di Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana dell’Università di Roma “La Sapienza”). StPic = Studia Picena. StRom = Studi Romagnoli. StSc = Studi e Scavi (Dipartimento Storia, Cultura, Civiltà, Università di Bologna). StTro = Studia Troica. TEI = Thesaurus Ecclesiarum Italiae.
366
Elenco delle abbreviazioni
Sigle a./aa. = anno/i. A. = Autore. AA.VV. = Autori Vari. app. = appendice. A.V. = Archivio Vecchio. Art. = Articolo. c./cc. = carta/e. ca. = circa. Cap./Capp. = Capitolo/i. cart. = cartella. cass. = cassetta. cat. = catalogo. c.d. = così detto. cfr. = confronta. cit. = citato/a. cm = centimetro/i. Cod. = Codice. col./coll. = colonna/e. Coll. = Collana. contr. = contrada. c.s. = in corso di stampa. DEPL =Depositi Area Archeologica di Plestia. doc./docc. = documento/i. Dpt. = Dipartimento. dx. = destro/a. Ed. = Edizione. f./ff. = foglio/i. fasc. = fascicolo/i. Fig./Figg. = figura/e. fr. = frammento/i. fraz. = frazione. f.t. = fuori testo. h. = altezza. Km = chilometro/i. inf. = inferiore. inv. = inventario. l./ll. = linea/e. largh. = larghezza. loc. = località. lungh. = lunghezza. m = metro/i.
MAC= Museo Archeologico di Colfiorito. max. = massimo/a. mbr. = membranaceo (Cod.) M.G.S. = Maximum Grain Size. MIBAC = Ministero per i Beni e le Attività Culturali. min. = minimo/a. mm = millimetro/i. ms. = manoscritto. MS = Montespino. n. = numero/i. n.d.a. = nota dell’autore. N.S. = Nuova Serie. Ø = diametro. p./pp. = pagina/e. par. = paragrafo. part. = particella/e. pd = piede. p.d.c. = piano di campagna. perg. = pergamena. PL = Plestia. PLC = Plestia, loc. Cesi. prec. = precedente/i. prof. = profondità. prot. = protocollo. Quad. = Quaderno. r. = recto. Reg. = Registro. rg./rgg. = riga/e. Rist. = Ristampa. S. = Serie. SAM = Soprintendenza Archeologica delle Marche. SASA = Dpt. di Scienze Archeologiche e Storiche dell’Antichità (Università di Macerata). SAU = Soprintendenza Archeologica dell’Umbria. scil. = scilicet. sec./secc. = secolo/i. segm. = segmento. Sez. = sezione.
s.l.m. = sul livello del mare. SMI = Santa Maria in Insula. SP = Strada Provinciale. spess. = spessore. ss. = seguenti. SS = Strada Statale. sup. = superiore. suppl. = supplemento. s.v. = sub voce. sx. = sinistro/a. T. = tomba. t. = tomo. tab. = tabella. Tav./Tavv. = tavola/e. tot. = totale. US/UUSS = Unità Stratigrafica/che. v. = verso. vol./voll. = volume/i. vv. = versi.
367
Bibliografia
Abbreviazioni delle fonti bibliografiche più frequentemente citate nel testo ADAM 2006 = J-P.ADAM, L’arte del costruire presso i Romani. Materiali e Tecniche, Milano 2006. ALLEVI 1965 = F.ALLEVI, Con Dante e la Sibilla ed altri. Dagli antichi al volgare, Milano 1965. ALLEVI 1975 = F.ALLEVI, Lungo il torrente Entogge, in “ACStM” IX 1975 (“StMac” 9), pp. 208-335. ALLEVI 19871 = F.ALLEVI, Con i monaci di Ferentillo dall’alto Nera all’ultimo Chienti, in Strade nelle Marche, II, pp. 869-957. ALLEVI 19872 = F.ALLEVI, Ancora fra oracoli e sibille dell’Appennino piceno, in Montagna Maceratese, pp. 45-109. AMICI 2000 = A.AMICI, Divus Constantinus: le testimonianze epigrafiche, in “RSA” 30, 2000, pp. 187-216. ANGELELLI 2009 = C.ANGELELLI (a cura di), Atti del XIV Colloquio “AISCOM”, Spoleto 7-9 febbraio 2008, Tivoli 2009. ANTONELLI-LAZZARINI 2002 = F.ANTONELLI-L.LAZZARINI, I marmi policromi dell’antica Urbs Salvia, in AA.VV., Antiqua Frustula. Urbs Salvia. Materiali sporadici dalla città e dal territorio, (Abbazia di Fiastra, 4 ottobre-31 dicembre 2002), Pollenza 2002, pp. 17-29. ASGARI 1990 = N.ASGARI, Objets de marbre finis, semifinis, et inachevés du Proconnese, in M.WAELKENS (a cura di), Pierre Eternel : Du Nil au Rhin. Carrières et Préfabrication, Bruxelles 1990, pp. 106-126. Atlante BBCC = G.De MARINIS-G.PACI (a cura di), Atlante dei Beni Culturali dei territori di Ascoli Piceno e di Fermo. Beni Archeologici, Cinisello Balsamo 2000. Aurea Roma = S.ENSOLI-E.LA ROCCA (a cura di), Aurea Roma. Dalla città pagana alla città cristiana, Roma 2000. Aurea Umbria = A.BRAVI (a cura di), Aurea Umbria. Una regione dell’Impero nell’era di Costantino, in “BBCU” 10, a. V, 2012, Quad. 6. AVARUCCI 1996 = G.AVARUCCI (a cura di), Liber Iurium dell’Episcopato e della Città di Fermo (977-1266). Codice 1030 dell’Archivio storico comunale di Fermo, 1, Documenti 145-350 (DSPM/FS, N.S. I, 2), Ancona 1996. AVARUCCI 2002 = G.AVARUCCI (a cura di), Il santuario dell’Ambro e l’area dei Sibillini, Atti del Convegno di Studi, Santuario dell’Ambro 8-9 giugno 2001 (Fonti e Studi 11), Ancona 2002. Benedettini = I Benedettini nelle valli del Maceratese, in “ACStM” II, 9 ottobre 1966 (“StMac” 2), Macerata 1967 (Rist. 1995).
368
BETTONI-PICUTI 2007 = F.BETTONI-M.R.PICUTI (a cura di), La Montagna di Foligno. Itinerari tra Flaminia e Lauretana, Foligno 2007. BINAZZI 1991 = G.BINAZZI (a cura di), L’Umbria meridionale fra tardo antico ed alto medioevo, (Atti del Convegno si studio, Acquasparta 6-7 maggio 1989), Assisi-Roma 1991. BITTARELLI 1987 = A.A.BITTARELLI, Stipi votive e strade sui valichi dell’Appennino sud occidentale, in Strade nelle Marche, I, pp. 583-595. BLANCK 1970 = H.BLANCK, Foligno (Perugia), in “AA” 85, 3, 1970, p. 323. BONOMI PONZI 1982 = L.BONOMI PONZI, Alcune considerazioni sulla situazione della dorsale appenninica umbro-marchigiana tra il IX ed il V sec. a.C., in “DialArch” IV 1982, pp. 137-142. BONOMI PONZI 1987 = L.BONOMI PONZI, Colfiorito, in Bibliografia Topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole tirreniche, V, Pisa-Roma 1987, pp. 372-376. BONOMI PONZI 1999 = L.BONOMI PONZI, Fulginates et Plestini. Popolazioni antiche nel territorio di Foligno, (Mostra Archeologica, Foligno – Palazzo Trinci 10 aprile-31 dicembre 1999), Foligno 1999. BONOMI PONZI 2012 = L.BONOMI PONZI, Plestia tardoantica (Colfiorito), in Aurea Umbria, pp. 290-292. BONOMI PONZI-ERMINI PANI- GIONTELLA 1995 = L.BONOMI PONZI-L.ERIMINI PANI-G.GIONTELLA, L’Umbria meridionale dalla protostoria all’alto medioevo, Terni 1995. BONORA MAZZOLI 1987 = G.BONORA MAZZOLI, Rapporti tra centuriazione e viabilità nella valle del Tenna, in Strade nelle Marche, I, pp. 417-430. BONVICINI 1978 = P.BONVICINI, La centuriazione augustea della Valtenna, (SSF 1), Fermo 1978. BORMANN 1901 = E.BORMANN, in CIL XI, 1901, pp. 813-814. BRANCHESI 2007 = F.BRANCHESI, Assetti fondiari del Piceno romano: dal III sec. a.C. al III sec. d.C., in Piceno Romano, pp. 183-237. BRUNO 2002 = M.BRUNO, Il mondo delle cave in Italia: considerazioni su alcuni marmi e pietre usati nell’antichità, in De NUCCIO-UNGARO 2002, pp. 277-289. BRUNO et Alii 2002 = M.BRUNO-S.CANCELLIERE-C.GORGONI-L.LAZZARINI-P.PALLANTE-P.PENSABENE, Provenance and distribution of white marbles in temples and public buildings of Imperial Rome, in HERMANN-HERZ-NEWMAN 2002, pp. 289-307. CAGIANO DE AZEVEDO 1966 = M.CAGIANO DE AZEVEDO, Ville rustiche tardoantiche e installazioni agricole altomedievali, in
Bibliografia
Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell’alto medioevo (XIII Settimana di studi “CISAM”, Spoleto 22-29 aprile 1965), Spoleto 1966, pp. 663-694. CAMPAGNOLI-GIORGI 2001-2002 = P.CAMPAGNOLI-E. GIORGI, Alcune considerazioni sul saltus nell’Appennino umbro-marchigiano e sulle forme di uso collettivo del suolo tra Romanità e Altomedioevo, in “Ocnus” 9-10, 2001-2002, pp. 35-46. CAMPAGNOLI-GIORGI 2002 = P.CAMPAGNOLI-E.GIORGI, La romanizzazione della dorsale umbro-marchigiana: i casi dei Monti Sibillini e del Monte Catria, in D.POLI (a cura di), La battaglia del Sentino. Scontro fra nazioni e incontro in una nazione (Atti del Convegno di Studi, Camerino-Sassoferrato 10-13 giugno 1998), “QdLFUM” XIV 2002, pp. 209-227. CAMPAGNOLI-GIORGI 2007 = P.CAMPAGNOLI-E.GIORGI, Via Salaria e viabilità minore tra età romana e primo Medioevo nel settore ascolano, in CATANI-PACI 2007, pp. 29-54. CAMPANILE-LETTA 1979 = E.CAMPANILE-C.LETTA, Studi sulle magistrature indigene e municipali in area italica, Pisa 1979. CANTINO WATAGHIN 1999 = G.CANTINO WATAGHIN, …ut haec aedes Christo Domino in ecclesiam consecretur. Il riuso cristiano di edifici antichi tra tarda antichità e alto medioevo, in Ideologie e pratiche del reimpiego nell’alto medioevo (“CISAM”, XLVI), Spoleto 1999, pp. 673-749. CATALANI 1783 = M.CATALANI, De Ecclesia Firmana eiusque episcopi et archiepiscopis commentarius, Firmi 1783. CATANI-PACI 1999 = E.CATANI-G.PACI, La viabilità nelle Marche, in “JAT” IX 1999, pp. 175-192. CATANI-PACI 2000 = E.CATANI-G.PACI (a cura di), La Salaria in Età Antica, Atti del Convegno di Studi, Ascoli Piceno-Offida-Rieti 2-4 ottobre 1997 (Coll. “ICHNIA”, DSAStAnt, S. II, 1), Roma 2000. CATANI-PACI 2007 = E.CATANI-G.PACI (a cura di), La Salaria in Età Tardoantica e Altomedievale, Atti del Convegno di Studi, Rieti-Cascia-Norcia-Ascoli Piceno 28-30 settembre 2001 (Coll. “ICHNIA”, DSAStAnt, S. II, 3), Roma 2007. CHERUBINI 1992 = A.CHERUBINI, Territorio e abbazie nelle Marche, in SIMI VARANELLI 1992, pp. 249-362. CHIAVARI 1991 = A.CHIAVARI, Note di topografia medievale nell’area dell’Abbazia di Fiastra, in“ACStM” XXV, Corridonia 18-19 novembre 1989 (Nell’area di Montolmo) (“StMac” 25), Pollenza 1991, pp. 117-213. CICCONI 1990 = R.CICCONI, Il castello di Cessapalombo e il medio corso del Fiastrone, in Valle del Fiastra, pp. 427-474. CIOTTI 1964 = U.CIOTTI, Nuove conoscenze sui culti dell’Umbria antica, in F.UGOLINI (a cura di), Problemi di storia e archeo-
logia dell’Umbria, (“ASU” I, Gubbio 26-31 maggio 1963), Perugia 1964, pp. 99-112. COLONNA 1993 = G.COLONA, Il santuario di Cupra fra Etruschi, Greci, Umbri e Picenti, in G.PACI (a cura di), Cupra Marittima e il suo territorio in età antica, Atti del Convegno di Studi, Cupra Marittima 3 maggio 1992 (“Picus” suppl. II), Tivoli 1993, pp. 3-31. Comunità Monastiche = AA.VV., I rapporti tra le comunità monastiche benedettine italiane tra alto e pieno Medioevo, Atti del III Convegno “CeStFarf”, Santa Vittoria in Matenano 11-12-13 settembre 1992, San Pietro in Cariano 1994. CONTA 1982 = G.CONTA, Il territorio di Asculum in età romana, in G.CONTA-U.LAFFI, Asculum II, 1-2 (Biblioteca di studi antichi, 31.1), Pisa 1982. CRISPINI 1966 = G.CRISPINI, Un’Abbazia romualdina nell’antico territorio di S.Ginesio. Analisi delle strutture architettoniche, in Benedettini, pp. 255-266. CROCETTI 1978 = G.CROCETTI, Località di Amandola e di Montefortino in un documento del 977, in NEPI 1978, pp. 151-155. CROCETTI 1988 = G.CROCETTI, Montefortino. Guida storico-turistica, Fermo 1988, pp. 25-31. CROCETTI 1994 = G.CROCETTI, Abbazie e Priorati nell’alta valle del Tenna, in Comunità Monastiche, pp. 45-156. DALL’AGLIO-GIORGI 20001 = P.L.DALL’AGLIO-E.GIORGI, La mutatio di Surpicano e i diverticoli della Salaria nell’alta valle del Tronto, in CATANI-PACI 2000, pp. 171-182. DALL’AGLIO-GIORGI 20002 = P.L.DALL’AGLIO-E.GIORGI, La bonifica e la centuriazione nelle valli del Tronto e del Tenna, in Atlante BBCC, pp. 85-90. De FRANCESCHINI 2005 = M.De FRANCESCHINI, Ville dell’agro romano (Monografie della Carta dell’agro romano, 2), Roma 2005. De NUCCIO-UNGARO 2002 = M.De NUCCIO-L.UNGARO (a cura di), I Marmi Colorati della Roma Imperiale, Venezia 2002. DELPLACE 1993 = CH.DELPLACE, La romanisation du Picenum. L’exemple d’Urbs Salvia (CEFR 177), Roma 1993. DEL LUNGO 2001 = S.DEL LUNGO, Luoghi del sacro e culto dei santi in Umbria attraverso la toponomastica, in Umbria Cristiana, pp. 631-712. DEL LUNGO 2002 = S.DEL LUNGO, Luoghi del sacro e culto dei santi nella Marca attraverso la toponomastica, in MENESTÓ 2002, pp. 143-200. DI GIUSEPPANTONIO-GUERRINI-ORAZI 2003 = P.DI GIUSEPPANTONIO- P.GUERRINI-S.ORAZI, Trasformazione dell’insediamento rurale nel territorio dell’Umbria: il caso delle
369
Bibliografia
villae. Alcune considerazioni, in Longobardi, pp. 1377-1396. DI MICELI 2012 = A.DI MICELI, Popolamento tra città e campagna nell’Umbria tardoantica. Una nuova analisi, in Aurea Umbria, pp. 225-248. DIEBNER 1979 = S.DIEBNER, Aesernia-Venafrum. Untersuchungen zu den römischen Steindenkmälern zweier Landstädte Mittelitaliens, Roma 1979. DIOSONO 2012 = F.DIOSONO, Paesaggio rurale, produzioni e commerci nella valle del Tevere in età tardoantica, in Aurea Umbria, pp. 199-208. DONATI 1974 = A.DONATI, I milliari delle regioni IV e V dell’Italia, in “Epigraphica” XXXVI 1974, pp. 155-222. Ducato di Spoleto = AA.VV., Il Ducato di Spoleto, Atti “CISAM” IX (Spoleto 27 settembre-2 ottobre 1982), Spoleto 1983. DUNBABIN 1978 = K.M.D.DUNBABIN, The Mosaics of Roman North Africa: Studies in Iconography and Patronage (OMCA 16), Oxford 1978. DUNBABIN 1991 = K.M.D.DUNBABIN, Triclinium and Stibadium, in W.J.SLATER (a cura di), Dining in a Classical Context, Ann Arbor 1991, pp. 121-148. DUNBABIN 2003 = K.M.D.DUNBABIN, The Roman Banquet, Images of Conviviality, Cambridge 2003. DUNHAM 1962 = R.J.DUNHAM, Classification of carbonate rocks according to depositional texture, in HAM 1962, pp. 108-121. ELLIS 2000 = S.ELLIS, Roman Housing, London 2000. FABRICIUS HANSEN 2003 = M.FABRICIUS HANSEN, The Eloquence of Appropriation. Prolegomena to an Understanding of Spolia in Early Christian Rome (“ARID”, suppl. XXXIII), Roma 2003. FOLK 1959 = R.L.FOLK, Practical petrographic classification of limestones, in “AAPGBull” 43, 1959, pp. 1-38. FOLK 1962 = R.L.FOLK, Spectral subdivision of limestone types, in HAM 1962, pp. 62-84. GABBA-PASQUINUCCI 1979 = E.GABBA-M.PASQUINUCCI, Strutture agrarie e allevamento transumante nell’Italia romana (III-I sec. a.C.), Pisa 1979. GANZERT-KOCKEL 1988 = J.GANZERT-V.KOCKEL, Augustus forum und Mars-Ultor-Tempel, in AA.VV., Kaiser Augustus und die verlorene Republik, Berlin 1988, pp. 149-199. GASPERINI 1976 = L.GASPERINI, Dedica dei Plestini a Costantino, in “AFLM” IX 1976, pp. 391-401. GIACCHERO 1974 = M.GIACCHERO, Edictum Diocletiani et collegarum de pretiis rerum venalium in integrum fere restitutum e latinis graecisque fragmentis, (Istituto di Storia Antica e Scienze Ausiliarie, Università di Genova, 8), Genova 1974.
370
GIARDINA 1986 = A.GIARDINA (a cura di), Società Romana e Impero Tardoantico. II (Roma: politica, economia, paesaggio urbano) – III (Le merci, gli insediamenti), Roma-Bari 1986. GIARDINA-SCHIAVONE 1981 = A.GIARDINA-A.SCHIAVONE (a cura di), Società Romana e Produzione Schiavistica. I. L’Italia: insediamenti e forme e conomiche, Roma-Bari 1981. GINOUVÈS 1992 = R.GINOUVÈS, Dictionnaire Méthodique de l’architecture grecque et romaine, II, Éléments constructifs : Supports, Couvertures, Aménegements intérieurs (CEFR 84), Roma 1992. GINOUVÈS 1998 = R.GINOUVÈS, Dictionnaire Méthodique de l’architecture grecque et romaine, III, Espaces Architecturaux, Bâtiments et Ensembles (CEFR 84), Roma 1998. GINOUVÈS-MARTIN 1985 = R.GINOUVÈS-R.MARTIN, Dictionnaire Méthodique de l’architecture grecque et romaine, I , Matériaux, Techniques de construction, Techiniques et Formes du Décor (CEFR 84), Roma 1985. GIONTELLA 1995 = G.GIONTELLA, Gli Umbri, in BONOMI PONZI - ERMINI PANI - GIONTELLA 1995, pp. 40-44. GIORGI 2006 = E.GIORGI, La viabilità delle Marche centro meridionali in età tardo antica e altomedievale, in Tardo Antico, pp. 111-156. GNOLI 1988 = R.GNOLI, Marmora Romana, Roma 1988. GROS 2001 = P.GROS, L’Architettura Romana, dagli inizi del III secolo a.C. alla fine dell’alto impero. I monumenti pubblici, Milano 2001. GUIDOBALDI 1986 = F.GUIDOBALDI, L’edilizia abitativa unifamiliare nella Roma tardoantica, in GIARDINA 1986, II, pp. 165-237. GUIDOBALDI-SALVATORI 1988 = F.GUIDOBALDI-A.SALVATORI, The introduction of Polychrome Marbles in Late Republican Rome: the evidence from Mosaic Pavements with Marbles Insertions, in HERZ-WAELKENS 1988, pp. 171-175. HAM 1962 = W.E.HAM (a cura di), Classification of carbonate rocks, in “AAPGMem” 1, 1962. HEILMEYER 1970 = W.D.HEILMEYER, Korintische Normalkapitelle. Studien zur Geschichte der römischen Architekturdekoration, in “RM-EH” XVI, Heidelberg 1970. HERRMANN-HERZ-NEWMAN 2002 = J.J.HERMANN-N. HERZ-R.NEWMAN (a cura di), “ASMOSIA V”, Interdisciplinary Studies on Ancient Stone (Museum of Fine Arts, Boston 1998), London 2002. HERZ-WAELKENS 1988 = N.HERZ-M.WAELKENS (a cura di), Classical marble: Geochemistry, Technology, Trade, in “NATO ASI” (Workshop on Marble in Ancient Greece and Rome: Geology,
Bibliografia
Quarries, Commerce, Artifacts – Lucca, May 9-13 1988), Dordrecht-London-Boston 1988. HUMBERT 1978 = M.HUMBERT, Municipium et civitas sine suffragio. L’organisation de la conquête jusqu’à la guerre sociale, Roma 1978. JOULIA 1988 = J.CL.JOULIA, Les frises doriques de Narbonne (“CollLat” 202), Bruxelles 1988. KÄHLER 1969 = H. KÄHLER, La villa di Massenzio a Piazza Armerina, in “AIRN” IV 1969, pp. 41-49. Inv. Franc. = Inventario Di tutti i Beni Mobili, Stabili, Semoventi, Frutti, Rendite, Azzioni e Pesi di qualsivoglia sorte spettanti alla Chiesa Pievania sotto il Titolo di S.Angelo in Monte Spino nella Terra di Montefortino, fatto da me Gaetano Franceschini Pievano nell’anno di nostra Salute 1771: per ordine dell’Emo, e Rmo Signore Cardinale Urbano Paracciani Arcivescovo e Principe di Fermo, (APMO, ms. cartaceo). Inv. Nardi = Marco Antonio Nardi Pievano, In Nomine Domini nostri Jesu Christi. Questo è l’Inventario di tutti i Beni Mobili, Stabili, Semoventi, Frutti, Rendite, Azzioni, e Pesi di qualsivoglia sorte della Chiesa Parrocchiale Pieve nella Terra di Montefortino della Diocesi di Fermo, sotto l’invocazione di S.Angelo in Monte Spino. 1728, (APMO, ms. cartaceo). LAFFI 2007 = U.LAFFI, Studi di storia romana e di diritto, Roma 2007. LANDOLFI 2000 = M.LANDOLFI, I Centri Piceni. Amandola, in Atlante BBCC, pp. 42-43. Landuse = AA.VV., Landuse in the Roman Empire, in “ARID” suppl. XXII, 1994. LAVAN 2001 = L.LAVAN (a cura di), Recent Research in Late-antique Urbanism, in “JRA” suppl., S. 42, 2001. LAVIN 1962 = I.LAVIN, The House of the Lord. Aspects of the Role of Palace Triclinia in the Architecture of Late Antiquity and Early Middle Ages, in “ABull” 44, 1962, pp. 1-28. LAZZARINI 1987 = L.LAZZARINI, I graniti dei monumenti italiani e i loro problemi di deterioramento. Il Marmo Troadense, in “BdA” suppl. 41 (Materiali Lapidei. Problemi relativi allo studio del degrado e della conservazione, II), 1987, pp. 159-172. LAZZARINI 1997 = L.LAZZARINI, Le pietre e i marmi colorati della Basilica di S.Marco a Venezia, in R.POLACCO (a cura di), Storia dell’arte marciana: l’Architettura, Venezia 1997, pp. 309-326. LAZZARINI 2002 = L.LAZZARINI, La determinazione della provenienza delle pietre decorative usate dai Romani, in De NUCCIO-UNGARO 2002, pp. 223-265. LAZZARINI 2004 = L.LAZZARINI (a cura di), Pietre e Marmi
Antichi. Natura, caratterizzazione, origine, storia d’uso, diffusione, collezionismo, Padova 2004. LAZZARINI 2007 = L.LAZZARINI, Poikiloi Lithoi, Versiculores Maculae: I Marmi Colorati della Grecia Antica . Storia, uso, diffusione, cave, geologia, caratterizzazione scientifica, archeometria, deterioramento, (“Marmora” 2/2006, suppl. 1), Pisa-Roma 2007. LAZZARINI 2010 = L.LAZZARINI, Considerazioni sul prezzo dei marmi bianchi e colorati in età imperiale, in S.CAMPOREALE-H. DESSALES-A.PIZZO (a cura di), Arqueologìa de la construcciòn, II, Los procesos constructivos en el mundo romano: Italia y provincias orientales (Certosa di Pontignano-Siena 13-15 de noviembre de 2008), in “AnAEspA” LVII, Madrid-Mérida 2010, pp. 485-490. LAZZARINI-MOSCHINI-STIEVANO 1980 = L.LAZZARINI-G. MOSCHINI-A.STIEVANO, A contribution to the identification of Italian, Greek and Anatolian marbles through a petrological study and evaluation of Ca/Sr ratio, in “Archaeometry” 22, 1, 1980, pp. 173-183. LAZZARINI-TURI 2007 = L.LAZZARINI-B.TURI, L’identificazione dei marmi bianchi più usati nell’antichità, in PENSABENE 2007 (Parte II, Cap. I.2), pp. 592-595. LEOPARDI 1783 = Memorie Istoriche di Montefortino nella Marca raccolte dal Conte Leopardo Leopardi Patrizio Recanatese e Cittadino di essa Terra dedicate e presentate dal medesimo all’Ill.mo Sig.e Abate Alberto Devoti Delegato Apostolico, L’Anno MDCCLXXXIII, (APMO, ms. cartaceo). LEPORE 2005 = G.LEPORE, La pratica del reimpiego nella valle del Cesano. Note per lo studio di un territorio, in “Picus” XXV 2005, pp. 139-192. Lib Col = Libri Coloniarum, in F.BLUME-K.LACHMANN-A. RUDORFF, Die Schriften der Römischen Feldmesser, voll. I-II, Berolini 1848 (ora anche in D.CONSO et Alii, Libri Coloniarum. Corpus Agrimensorum Romanorum VII (Presses Universitaires de Franche-Comté), Besançon 2008). Lib Iur = Liber diversarum copiarum bullarum, privilegiorum et instrumentorum civitatis et episcopatus Firmi, ms. mbr. SASF/ ASCOF, Iura episcopatus Firmi, Cod. 1030 (sec. XIII). Longobardi = AA.VV., I Longobardi dei Ducati di Spoleto e Benevento, Atti “CISAM” XVI (Spoleto 20-23 ottobre 2002, Benevento 24-27 ottobre 2002) I-II, Spoleto 2003. LORENZINI-TRIGONA 1999 = C.LORENZINI-L.TRIGONA, La romanizzazione del territorio plestino (IV-III sec. a.C.), in BONOMI PONZI 1999, p. 33. LUNI 2004 = M.LUNI (a cura di), Archeologia nelle Marche dalla preistoria all’età tardo-antica, Prato 2004.
371
Bibliografia
LUSUARDI SIENA 1986 = S.LUSUARDI SIENA, Milano: la città nei suoi edifici. Alcuni problemi, in Milano e i Milanesi, pp. 227-228. MALPIEDI 2004 = A.MALPIEDI, San Salvatore di Monastero: Storia di un’Abbazia Romualdina nelle Marche, Tesi di Laurea (Università degli Studi di Firenze - Facoltà di Architettura, Dpt. di Storia dell’Architettura e della Città), A.A. 2003-2004. MANCA-MENICHELLI 2014 = M.L.MANCA-A.MENICHELLI (a cura di), MAC. Museo Archeologico Colfiorito. Guida, Foligno 2014. MANCONI-TOMEI-VERZAR 1981 = D.MANCONI-M.A.TOMEI-M.VERZAR, La situazione in Umbria dal III a.C. alla tarda antichità, in GIARDINA-SCHIAVONE 1981, pp. 371-406. MARALDI 2002 = L.MARALDI, Falerio (“ATTA” XIII suppl., Città Romane, 5), Roma 2002. MARTELLI 1966 = G.MARTELLI, Le più antiche cripte dell’Umbria, in Aspetti dell’Umbria dall’inizio del secolo VIII alla fine del secolo XI (“ASU” III, Gubbio 23-27 maggio 1965), Perugia 1966, pp. 323-353. MARGUTTI 2012 = S.MARGUTTI, Onori ed evergesie: gli spazi pubblici. 15 – Base Divo Costantino, in Aurea Umbria, pp. 138-139. MARIANO 1995 = F.MARIANO (a cura di), Architettura nelle Marche dall’età classica al Liberty, Fiesole 1995. MENESTÓ 2002 = E.MENESTÓ (a cura di), Ascoli e le Marche tra tardoantico e altomedioevo, Atti del Convegno di studio XVI Ed. “Premio internazionale Ascoli Piceno”, Ascoli Piceno 5-7 dicembre 2002 (Fondaz. “CISAM”), Spoleto 2002. MENGOZZI 1781 = De’ Plestini Umbri, del loro lago e della battaglia appresso di questo seguita tra i Romani e i Cartaginesi. Dissertazione dell’abate Giovanni Mengozzi P.A. Socio Etrusco Cortonese, in Fuligno MDCCLXXXI (Rist. anastatica, Camerino 2000). MERCANDO-BRECCIAROLI TABORELLI-PACI 1981 = L.MERCANDO-L.BRECCIAROLI TABORELLI-G.PACI, Forme d’insediamento nel territorio marchigiano in età romana: ricerca preliminare, in GIARDINA-SCHIAVONE 1981, pp. 311-347. Milano Capitale = AA.VV., Milano Capitale dell’Impero Romano 286-402 d.C. (Milano, Palazzo Reale 24 gennaio-22 aprile 1990), Milano 1990. Milano e i Milanesi = Milano e i Milanesi prima del Mille (VIII-X sec.), Atti “CISAM” X (Milano 1983), Spoleto 1986. MOENS et Alii 1988 = L.MOENS-P.ROOS-J.DE RUDDER-P. DE PAEPE-J.VAN HENDE-R.MARECHAL-M.WAELKENS, A multi-method approach to the identification of white marbles used in antique artifacts, in HERZ-WAELKENS 1988, pp. 243-250. MONACCHI 1991 = D.MONACCHI, La cultura materiale delle
372
ville romane del territorio amerino in età tardo antica, in BINAZZI 1991, pp. 181-195. MONNA-PENSABENE 1977 = D.MONNA-P.PENSABENE, Marmi dell’Asia Minore, Roma 1977. Montagna Maceratese = Ambiente e Società Pastorale nella Montagna Maceratese, “ACStM” XX (Ussita 29-30 settembre 1984) (“StMac” 20), Macerata 1987. MORETTI 2009 = G.MORETTI, La Pieve di Sant’Angelo in Montespino. Originale esempio di architettura religiosa d’epoca altomedievale nelle Marche, in “StMac” 45, 2009, pp. 459-480. MORVILLEZ 1995 = E.MORVILLEZ, Les salles de réception triconques dans l’architecture domestique tardive en Occident, in “HistArt” 31, 1995, pp. 15-26. MORVILLEZ 1996 = E.MORVILLEZ, Sur les installations de lits de table en sigma dans l’architecture domestique du Haut et du Bas-Empire, in “Pallas” 44, 1996, pp. 119-158. MOSCATELLI 1984 = U.MOSCATELLI, Studi di viabilità antica. Ricerche preliminari sulle valli del Potenza, Chienti e Fiastra , (“RStBCAM” 10), Cagli 1984. MOSCATELLI 19911 = U.MOSCATELLI, Approcci complementari per lo studio della toponomastica prediale romana nelle Marche, in L’entroterra marchigiano nell’antichità: ricerche e scavi, (Atti del Congresso, Arcevia 16-17 novembre 1991), Fano 1991, pp. 99-140. MOSCATELLI 19912 = U.MOSCATELLI, Resti di divisioni agrarie nel territorio tra Amandola e Sarnano in età romana, in “AFLM” XXIV 1991, pp. 533-548. NEPI 1978 = G.NEPI (a cura di), Storia dei Comuni piceni, vol. VIII, Fermo 1978. OCCHILUPO 2009 = S.OCCHILUPO, L’apparato decorativo dei pavimenti della domus di Plestia (Regio VI) di età tardo-repubblicana, in ANGELELLI 2009, pp. 79-87. ONIANS 1988 = J.ONIANS, Bearers of Meaning. The Classical Orders in Antiquity, the Middle Ages and Renaissance, Princeton 1988. ORLANDOS 1966 = A.K.ORLANDOS, Les matériaux de construction et la technique architecturale des anciens grecs, I-II, Paris 1966-1968. PACI 1988 = G.PACI, Schede per l’identificazione di antichi predii in area picena, in P.JANNI-E.LANZILLOTTA, ΓΕΩΓΡΑΦΙΑ. Atti del II Convegno maceratese su “Geografia e cartografia antica” (Macerata 16-17 aprile 1985), Macerata 1988, pp. 161-198 (ora in PACI 2008, pp. 249-284). PACI 1999 = G.PACI, Documentazione epigrafica e trasforma-
Bibliografia
zione tardoantica in area marchigiana, in “ACStM” XXXIII (Potenza Picena 22-23 novembre 1997) (“StMac” 33), Macerata 1999, pp. 1-23 (ora in PACI 2008, pp. 437-461). PACI 2004 = G.PACI, Le Marche in età tardoantica: alcune considerazioni, in Ascoli e le Marche tra tardoantico e altomedioevo (Atti del Convegno di studio, Ascoli Piceno 5-7 dicembre 2002), Spoleto 2004, pp. 1-24 (ora in PACI 2008, pp. 583-605). PACI 2008 = G.PACI, Ricerche di storia e di epigrafia romana delle Marche (Coll. “ICHNIA”, DSAStAnt, 11), Tivoli 2008. PACINI 1966 = D.PACINI, I monaci di Farfa nelle valli picene del Chienti e del Potenza, in Benedettini, pp. 129-174. PACINI 1991 = D.PACINI, Le pievi dell’antica diocesi di Fermo (secoli X-XIII), in Le Pievi nelle Marche, “StPic” N.S. 56, I-II, 1991, pp. 31-147. PACINI 1996 = D.PACINI (a cura di), Liber Iurium dell’Episcopato e della Città di Fermo (977-1266). Codice 1030 dell’Archivio storico comunale di Fermo, 1, Documenti 1-144 (DSPM/FS, N.S. I, 1), Ancona 1996. PACINI 2002 = D.PACINI, Il territorio dei Sibillini nei secoli X-XI e le origini della chiesa di S.Maria dell’Ambro, in AVARUCCI 2002, pp. 1-41. PAGNANI 1974 = G.PAGNANI, Il “Monastero” di Monastero. Una fondazione romualdina attestata da S.Pier Damiani, in “AMDSPMarche” S. VIII, VII (1971-1973), Ancona 1974, pp. 101145. PAGNANI 1987 = G.PAGNANI, Una via francisca transappenninica, in Strade nelle Marche, I, pp. 567-582. PELLEGRINI 1974 = G.B.PELLEGRINI, Attraverso la toponomastica urbana medievale in Italia, in Topografia urbana e vita cittadina nell’alto medioevo in Occidente (Atti XXI settimana di studio “CISAM”, Spoleto 26 aprile-1 maggio 1973), II, Spoleto 1974, pp. 401-476. PELLEGRINI 1983 = G.B.PELLEGRINI, Appunti di toponomastica marchigiana, in Istituzioni e Società nell’Alto Medioevo Marchigiano, Atti del Convegno, Ancona-Osimo-Jesi 17-20 ottobre 1981, parte I (“AMDSPMarche” 86, 1981), Ancona 1983, pp. 217-300. PENSABENE 1971 = P.PENSABENE, La villa del Casale a Piazza Armerina. Problemi: elementi decorativi architettonici, in C.AMPOLO-A.CARANDINI-P.PENSABENE-G.PUCCI, La villa del Casale a Piazza Armerina. Saggi stratigrafici ed altre ricerche, in “MEFRA” 83, 1971, pp. 207-233. PENSABENE 1972 = P.PENSABENE, Considerazioni sul trasporto di manufatti marmorei in età imperiale a Roma e in altri
centri occidentali, in “DialArch” a. VI, 1972, 2-3, pp. 317-362. PENSABENE 1973 = P.PENSABENE, Scavi di Ostia, VII. I Capitelli, Roma 1973. PENSABENE 1977 = P.PENSABENE, Elementi Architettonici, in R.CALZA (a cura di), Antichità di Villa Doria Pamphilj, Roma 1977, pp. 311-331. PENSABENE 1986 = P.PENSABENE, La decorazione architettonica, l’impiego del marmo e l’importazione di manufatti orientali a Roma, in Italia e in Africa, in GIARDINA 1986, III, pp. 285-422. PENSABENE 1998 = P.PENSABENE (a cura di), Marmi Antichi II. Cave e tecnica di lavorazione, provenienze e distribuzione (StMisc 31), Roma 1998. PENSABENE 2002 = P.PENSABENE, Le principali cave di marmo bianco, in De NUCCIO-UNGARO 2002, pp. 203-221. PENSABENE 2007 = P.PENSABENE, Ostiensium Marmorum Decus et Decor. Studi architettonici, decorativi e archeometrici (StMisc 33), Roma 2007. PERNA et Alii 2011 = R.PERNA-R.ROSSI-V.TUBALDI, Scavi e ricerche nell’antica Plestia, in “Picus” XXXI 2011, pp. 103-168. Piceno Romano = Il Piceno Romano dal III sec. a.C. al III sec. d.C., “ACStM” XLI, Abbadia di Fiastra (Tolentino) 26-27 novembre 2005 (“StMac” 41), Macerata 2007. PIERUCCI-POLVERARI 1977 = C.PIERUCCI-A.POLVERARI, Carte di Fonte Avellana. II. Regesti degli anni 1140-1202, Roma 1977. PIVA 2003 = P.PIVA, Marche Romaniche, Milano 2003. PIVA 2012 = P.PIVA, Il Romanico nelle Marche, Milano 2012. QUILICI 1987 = L.QUILICI, La Transumanza nell’Italia centrale in età moderna e medioevale come contributo alla conoscenza di quella antica, in Montagna Maceratese, pp. 143-164. RADKE 1991 = G.RADKE, Viae Publicae Romanae, Roma 1991. RAININI 2007 = I.RAININI, L’Abbazia di Chiaravalle di Fiastra. La cultura dell’Antico, Macerata 2007. RAININI 2011 = I.RAININI, Antiqua Spolia. Reimpieghi di epoca romana nell’architettura sacra medievale del Maceratese, Macerata 2011. Reimpiego = J.F.BERNARD-Ph.BERNARDI-D.ESPOSITO (a cura di), Il Reimpiego in Architettura. Recupero, Trasformazione, Uso, Atti del Convegno, Roma 8-10 novembre 2007 (CEFR 418), Roma 2008. RICCOMANNI 1750 = P.MORICHELLI RICCOMANNI, Della Cupramontana Ginesina, 1750, ms. cartaceo conservato presso ASCSG.
373
Bibliografia
ROFFIA 1997 = E.ROFFIA (a cura di), Ville romane sul Lago di Garda, Brescia 1997. ROTH CONGÈS 1983 = A.ROTH CONGÈS, L’acanthe dans le décor architectonique proto-augustéen en Provence, in “RAN” 16, 1983, pp. 103-134. SANTORO BIANCHI 1990 = S.SANTORO BIANCHI, Capitelli romani di reimpiego a Montesorbo, Sarsina, San Leo e Rimini, Bologna 1990. SCAGLIARINI CORLÁITA 1990 = D.SCAGLIARINI CORLÁITA, Le grandi ville di età tardoantica, in Milano Capitale, pp. 257-258. SCAGLIARINI CORLÁITA 19971 = D.SCAGLIARINI CORLÁITA, Le ville romane nell’Italia settentrionale, in ROFFIA 1997, pp. 53-81. SCAGLIARINI CORLÁITA 19972 = D.SCAGLIARINI CORLÁITA, La villa di Desenzano sul Garda, in ROFFIA 1997, pp. 191-215. SCHILARDI et Alii 2000 = D.SCHILARDI-D.KATSONOPOULOU et Alii (a cura di), Paria Lithos. Parian Quarries, Marble and Workshops of Sculpture, Proceedings of the 1st International Conference on the Archaeology of Paros and the Cyclades (Paros 2-5 october 1997), Athens 2000. SCHMIEDT 1966 = G.SCHMIEDT, Contributo della foto-interpretazione alla conoscenza della rete stradale dell’Umbria nell’Alto Medioevo, in Aspetti dell’Umbria dall’inizio del secolo VIII alla fine del secolo XI (“ASU” III, Gubbio 23-27 maggio 1965), Perugia 1966, pp. 177-210. SCHULZE 19662 = W.SCHULZE, Zur Geschichte lateinescher Eigennamen, 2. Unveränderte Auflage, Berlin-Zürich-Dublin 1966. SCHVOERER 1999 = M.SCHVOERER (a cura di), Archéomatériaux. Marbres et autres roches, Actes IV Conférence “ASMOSIA” (Bordeaux 1995), Bordeaux 1999. SELLA 1950 - 1952 = P.SELLA (a cura di), Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Marchia, Umbria, (Studi e Testi 148), Città del Vaticano 1950 (Marchia) -1952 (Umbria). SENSI 1994 = M.SENSI, Transumanza e cattedrali nel deserto del territorio montemonachese, in Comunità Monastiche, pp. 195-218. SENSI 2000 = M.SENSI, Giovanni Mengozzi, erudito ecclesiastico di San Marino umbro di adozione [ 1726-1783], Colfiorito di Foligno 2000. SENSI 2007 = M.SENSI, Santuari e culto di S.Michele nell’Italia centrale, in P.BOUET-G.OTRANTO-A.VAUCHEZ (a cura di), Culto e santuari di san Michele nell’Europa medievale, Atti del Congresso Internazionale di studi, Bari-Monte Sant’Angelo 5-8 aprile 2006, Bari 2007, pp. 241-280. SENA CHIESA 2012 = G.SENA CHIESA (a cura di), l’Editto di Milano e il tempo della tolleranza. Costantino 313 d.C., (Milano,
374
Palazzo Reale 25 ottobre 2012-17 marzo 2013), Milano 2012. SERENI 1974 = E.SERENI, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1974. SERRA 1929 = L.SERRA, L’arte nelle Marche. Dalle origini cristiane alla fine del gotico, Pesaro 1929. SFAMENI 2006 = C.SFAMENI, Ville residenziali nell’Italia tardoantica, Bari 2006. SIMI VARANELLI 1992 = E.SIMI VARANELLI (a cura di), Le Abbazie delle Marche. Storia e Arte, Atti del Convegno Internazionale, Macerata 3-5 aprile 1990 (ACFLM 20, n. 66), Roma 1992. STORTONI 2008 = E.STORTONI, Monumenti funerari di età romana nelle province di Macerata, Fermo e Ascoli Piceno (Coll. “ICHNIA”, DSAStAnt, S. II, 5), Urbino 2008. Strade nelle Marche = AA.VV., Le Strade nelle Marche. Il problema nel tempo, in “AMDSPMarche” 89-91, 1984-1986 (Atti del Convegno, Fano-Fabriano-Pesaro-Ancona 11-14 ottobre 1984), voll. I-II, Ancona 1987. SUSINI 1965-1966 = G.SUSINI, Coloni Romani dal Piceno al Po, in “StPic” 33-34, 1965-1966, pp. 82-143. Tardo Antico = AA.VV., Tardo Antico e Alto Medioevo tra l’Esino ed il Tronto, “ACStM” XL, Abbadia di Fiastra (Tolentino) 20-21 novembre 2004 (“StMac” 40), Macerata 2006. TROSCÈ 1987 = M.TROSCÈ, Toponimi e coltivazioni silvo-pastorali in una zona del Vissano, in Montagna Maceratese, pp. 439476. Umbria Cristiana = AA.VV., Umbria Cristiana. Dalla diffusione del culto al culto dei santi (secc. IV-X), Atti del XV Congresso Internazionale “CISAM” (Spoleto 23-28 ottobre 2000) I-II, Spoleto 2001. Valle del Fiastra = AA.VV., La Valle del Fiastra fra Antichità e Medioevo, “ACStM” XXIII, Abbadia di Fiastra (Tolentino) 14-15 novembre 1987 (“StMac” 23), Macerata 1990. VERZÁR 1974 = M.VERZÁR, Frühaugusteischer Grabbau in Sestino (Toscana), in “MEFRA” 86, 1974, pp. 385-442. Ville e Insediamenti = AA.VV., Ville e Insediamenti Rustici di età Romana in Umbria, (MIBAC/SAU), Perugia 1983. ZAMPETTI 1988 = P.ZAMPETTI, Pittura nelle Marche. I. Dalle Origini al Primo Rinascimento, Firenze 1988.
Elenco delle illustrazioni
L’apparato illustrativo grafico e fotografico, ove non altrimenti specificato, è stato realizzato dallo scrivente, da Massimo Zanconi (“Fotostudioprint”, Macerata), dai Laboratori L.A.M.A. dell’Università di Venezia e dalla Cooperativa “Archeologia” di Firenze. L’ottimizzazione delle immagini si deve a “Tadao” Studio di Macerata. Per altre referenze relative alla documentazione foto-planimetrica, si rimanda alle specifiche annotazioni riportate tra parentesi accanto alle singole figure. Riguardo ai materiali sporadici provenienti dal sito di Santa Maria in Insula, sempre tra parentesi è inserita la numerazione di catalogo di ciascun pezzo presente nel testo. Fig. 1 Panoramica dei Monti Sibillini. Fig. 2 Il Monte Sibilla. Fig. 3 Montefortino: scorcio delle “Gole dell’Infernaccio”. Fig. 4 “Gole dell’Infernaccio”: un tratto dell’alto corso del Tenna nei pressi della “Stretta le Pisciarelle”. Fig. 5 a L’altura di Montespino con la Pieve di Sant’Angelo (dalla SP 83 Subappenninica diretta a Montemonaco). b Panoramica sulla zona circostante la Pieve (in alto a dx.). In primo piano la fraz. “Cerretana”, sullo sfondo a sx. Montefortino Fig. 6 Il paese odierno di Montefortino. Fig. 7 Montefortino nella rappresentazione grafica del Catastino Franceschini (1771). Fig. 8 Lastra con dedica (trafugata) già murata nel presbiterio della Pieve di Sant’Angelo (da O.DIAMANTI, Inediti Fortinesi, Amandola 1998). Fig. 9 La Pieve di Sant’Angelo in Montespino, da Sud. Fig. 10 La Pieve di Sant’Angelo in Montespino, da Sud-Ovest. Fig. 11 La Pieve di Montespino nella rappresentazione grafica del Catastino Nardi (1728). Fig. 12 La Pieve di Montespino nella rappresentazione grafica del Catastino Franceschini 1 (1771). Fig. 13 La Pieve di Montespino nella rappresentazione grafica del Catastino Franceschini 2 (1772). Fig. 14 Cripta: inquadratura da Sud-Ovest. Fig. 15 a Cripta: inquadratura da Ovest. b Cripta: inquadratura da Est. Fig. 16 Ortofotomosaico digitale delle semicolonne lungo la parete Nord. Fig. 17 Parete Sud. Fig. 18 Parete Est (abside).
Fig. 19 Parete Ovest (ingressi). Fig. 20 Colonna 1. Fig. 21 Base della colonna 1. Fig. 22 Capitello della colonna 1. Fig. 23 a. Colonna 2. b. Particolare delle scanalature tortili del fusto. Fig. 24 Chiesa, navata destra: semicolonna T. Fig. 25 Base della colonna 2. Fig. 26 Capitello della colonna 2. Fig. 27 Colonna 3. Fig. 28 Capitello della colonna 3. Fig. 29 Colonna 4. Fig. 30 Imoscapo e base della colonna 4. Fig. 31 Colonna 5. Fig. 32 Capitello della colonna 5. Fig. 33 Colonna 6. Fig. 34 Capitello della colonna 6. Fig. 35 Colonna 7. Fig. 36 Capitello della colonna 7. Fig. 37 Colonna 8. Fig. 38 Capitello della colonna 8. Fig. 39 Parete Nord: semicolonna G. Fig. 40 a Foto d’epoca della cripta con l’antico altare collocato nella zona absidale: scorcio da Sud-Ovest. b. Inquadratura dall’ingresso. Fig. 41 Un frammento superstite della mensa d’altare. Fig. 42 Colonna 1. Fig. 43 Colonna 2. Fig. 44 Colonna 3. Fig. 45 Colonna 4. Fig. 46 Colonna 5. Fig. 47 Colonna 6. Fig. 48 Colonna 7. Fig. 49 Colonna 8. Fig. 50 Chiesa: tratto terminale della navata destra. Fig. 51 Dinos bronzeo da Amandola (loc. “Taccarelli”) – Ancona, Museo Archeologico Nazionale inv. 4868 (Concessione MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche – SAM, prot. 0008537 del 16/10/2012, Cl. 28.13.10/1). Fig. 52 a Cippo gromatico augusteo da Amandola (loc. “Cerrara”)
375
Elenco delle illustrazioni
- Ancona, Museo Archeologico Nazionale inv. 19757 (Concessione MIBAC, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche – SAM, prot. 0008537 del 16/10/2012, Cl. 28.13.10/1). b Particolare della faccia superiore. Fig. 53 Montefortino: loc. “Colmartese”. Fig. 54 Montefortino: loc. “I tre Ponti”, sullo sfondo “Colmartese”. Fig. 55 Loc. “I tre Ponti”: il corso del Tenna alla confluenza del torrente Cossudro. Fig. 56 Montefortino: probabile localizzazione della contrada “Mercuri”. Fig. 57 / Fig. 58 Micrografie campione MS 1. Fig. 59 / Fig. 60 Micrografie campione MS 2a. Fig. 61 / Fig. 62 Micrografie campione MS 2b. Fig. 63 / Fig. 64 Micrografie campione MS 3. Fig. 65 / Fig. 66 Micrografie campioni MS 5 – MS 6. Fig. 67 / Fig. 68 Micrografie campione MS 7. Fig. 69 / Fig. 70 / Fig. 71 Micrografie campione MS 8a. Fig. 72 / Fig. 73 Micrografie campione MS 8b. Fig. 74 / Fig. 75 Micrografie campione MS 9. Fig. 76 Marmo Rosso Ammonitico (fusto colonna 1). Fig. 77 Marmo Rosso venato di Chios (base colonna 1). Fig. 78 Frammento di rocchio erratico in marmo di Chios giacente all’interno della cripta. Fig. 79 Marmo Tessalico (fusto colonna 5). Fig. 80 Marmo Tessalico: particolare del degrado superficiale. Fig. 81 Marmo Caristio (fusto colonna 6). Fig. 82 Marmo Caristio: particolare del degrado superficiale e strutturale. Fig. 83 Marmo Caristio (imoscapo colonna 4). Fig. 84 Marmo Sagario (fusto colonna 7). Fig. 85 Marmo Sagario: particolare del degrado superficiale. Fig. 86 Cripta, parete Nord: depositi di alghe e muschi. Fig. 87 Marmo Troadense (fusto colonna 8). Fig. 88 Marmo Lunense (capitello 8). Fig. 89 Marmo Pario (lastra ex altare). Fig. 90 Marmo Pentelico (capitello 2). Fig. 91 Marmo Proconnesio (capitello 6). Fig. 92 Marmo Proconnesio (semicolonna G). Fig. 93 Santa Maria in Insula: panoramica da Nord-Ovest dell’area insediativa. All’estrema destra l’edificio ecclesiale. Fig. 94 Santa Maria in Insula: panoramica da Sud-Ovest. Fig. 95 Un tratto delle “Gole del Fiastrone”.
376
Fig. 96 Il corso del Fiastrone all’interno delle “Gole”. Fig. 97 Panoramica del Lago di Fiastra (dal belvedere in loc. “La Ruffella”). Fig. 98 Pian di Pieca (contr. “Morichella”): bivio per Monastero (SP 91). Sullo sfondo la catena dei Sibillini. Fig. 99 Il Monte dei Cancelli sovrastante l’insediamento di Santa Maria in Insula. Fig. 100 La vaschetta di pietra attualmente sistemata presso l’angolo Sud-orientale della chiesa (cat. n. 1). Fig. 101 Grossa tegola fittile (cat. n. 2). Fig. 102 Materiale sporadico proveniente da uno scarico recente presso il muro 1 del complesso edilizio a Sud-Est della chiesa. Fig. 103 Coppia di vasetti fittili: a Frammento di collo e orlo (cat. n. 3). b Frammento di fondo di coppetta (cat. n. 3). Fig. 104 a Frammento di lastra marmorea pavimentale (cat. n. 4). b Particolare del Marmo “Greco Scritto Efesino”. Fig. 105 a Frammento di soglia marmorea con bordo modanato (cat. n. 5). b Particolare del Marmo Lesbio. Fig. 106 Frammento di lastra marmorea (cat. n. 6). Fig. 107 Particolare del Marmo Lunense. Fig. 108 Chiesa: il fianco Nord. Fig. 109 I resti della navata Nord edificata con antichi conci di reimpiego in travertino (da Nord-Est). Fig. 110 I resti della navata Nord (da Nord-Ovest). Fig. 111 La navata Nord in una vecchia fotografia degli inizi degli anni ’60 del Novecento. Fig. 112 Particolare del vano Nord della cripta in una vecchia fotografia che mostra l’antica colonna di sostegno andata perduta. Fig. 113 Navata Nord: particolare della porta laterale. Fig. 114 Particolare dell’absidiola. Fig. 115 Particolare del travertino locale poroso. Fig. 116 Particolare della pietra calcarea biancastra e rossiccia. Fig. 117 Particolare della brecciola bruno-rosata porosa . Fig. 118 La canaletta al di sotto del muro absidale Nord. Fig. 119 Canaletta: particolare delle lastre di copertura. Fig. 120 Dettaglio della pietra calcarea di una delle lastre . Fig. 121 Particolare del condotto in laterizio. Fig. 122 Particolare dello spiccato murario dell’abside
Elenco delle illustrazioni
centrale Est. Fig. 123 Dettaglio della pietra calcarea rossa utilizzata nel settore absidale. Fig. 124 Il tratto terminale del muro Sud. Fig. 125 Il tratto terminale del muro Sud prima dei recenti interventi di restauro. Fig. 126 La cisterna e le strutture annesse durante gli scavi degli anni ’60 del secolo scorso. Fig. 127 Il complesso idraulico terrazzato a Sud-Est della chiesa: inquadratura generale da Nord-Est. Fig. 128 Il muro 1 (da Nord). Fig. 129 Muro 1: particolare dell’alzato. Fig. 130 La cisterna/fonte (da Ovest). Fig. 131 L’edificio con le strutture annesse (da Nord-Est). Fig. 132 Prospetto del muro 2: a sx. il suo innesto nella struttura cilindrica della cisterna/fonte; in secondo piano il tratto terminale del muro 1. Fig. 133 I muri 3-4-5. Fig. 134 Particolare del muro 5. Fig. 135 La vaschetta (da Est). Fig. 136 Particolare della ciotola in ceramica invetriata. Fig. 137 La vaschetta: fianco esterno Nord. Fig. 138 Micrografia campione SMI 1. Fig. 139 Micrografia campione SMI 2. Fig. 140 Micrografia campione SMI 3. Fig. 141 Micrografia campione SMI 4. Fig. 142 Micrografia campione SMI 5. Fig. 143 La cripta ad oratorio dopo i recenti interventi di restauro. Fig. 144 Cripta: resti dell’assise di fondazione dei muri antichi individuati nei pressi dell’ingresso laterale. Fig. 145 Cripta: la tomba rinvenuta presso la parete Nord. Fig. 146 a Piatto in argento dorato da Cesena (Cesena, Biblioteca Malatestiana, inv. SAE 129) (da Milano Capitale). b Particolare del medaglione centrale. Fig. 147 Frammento di mosaico pavimentale da Oderzo (Oderzo, Museo Civico, inv. 561) (da BERTACCHI 1980). Fig. 148 Frammento di mosaico pavimentale dalla villa del Dominus Julius di Cartagine (da BIANCHI BANDINELLI 1985). Fig. 149 Un tratto della “Via della Spina” all’imbocco della frazione di Cesi. Fig. 150 Percorso della “Via della Spina” ai piedi del Monte Trella.
Fig. 151 Tracciato della “Via Plestina” lungo la sponda settentrionale della Palude di Colfiorito. Fig. 152 Uno scorcio della Palude di Colfiorito. Fig. 153 La “Via Nocerina” nei pressi della Basilica di Santa Maria di Pistia. Fig. 154 Il tracciato della “Via Nocerina” (attuale “Strada Comunale Cimitero”) tra Monte Orve (a sx.) e Col Falcone (a dx.) in direzione della Valle Vaccagna e in prossimità dell’innesto nella SP 440 di Annifo. Fig. 155 Il bivio fra la “Via Lauretana” (a sx.) e la “Strada di Val Sant’Angelo” (a dx.) all’altezza della frazione di Taverne. Fig. 156 Tracciato della “Strada di Bocchetta della Scurosa” (a dx.) in corrispondenza del bivio diretto al Convento di Brogliano (a sx.). Fig. 157 Frontespizio del volume “De’ Plestini Umbri” di GIOVANNI MENGOZZI (1781). Fig. 158 Chiesa, fianco Nord: particolare della finestrella esterna. Fig. 159 Cripta, parete Nord: particolare della finestrella interna. Fig. 160 Chiesa, fianco Sud: particolare della finestrella esterna. Fig. 161 Cripta, parete Sud: particolare della finestrella interna. Fig. 162 Cripta: le alterazioni prodotte dai fattori microclimatici sulle colonne rivolte a Est. Fig. 163 Antica colonna con lastra modanata di spoglio un tempo utilizzata come altare all’interno della cripta e oggi sistemata sopra il presbiterio. Fig. 164 Epigrafe del magistrato Titus Appius murata in un’abitazione privata della frazione di Cesi (ruotata di 90° in senso antiorario). Fig. 165 a Epigrafe di Titus Liconios Serapio (Colfiorito, Museo Archeologico). b Particolare del campo epigrafico e dei motivi ornamentali. Fig. 166 Epigrafe di Tarquitius Gelos (Colfiorito, Museo Archeologico). Fig. 167 Epigrafe di Titus Lavvius Gratus (Colfiorito, Depositi della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria). Fig. 168 Epigrafe di Cornelia Sabina (?) (Colfiorito, Museo Archeologico). Fig. 169 a Epigrafe con dedica all’imperatore Marco Aurelio (o Lucio
377
Elenco delle illustrazioni
Vero) (Colfiorito, Museo Archeologico). b Il retro dell’epigrafe con resti di decorazione naturalistica (ruotata di 180°). Fig. 170 Veduta aerea dell’area archeologica di Plestia. Al centro la Basilica di Santa Maria. Fig. 171 Area archeologica di Plestia : scorcio della zona orientale confinante con la Basilica medievale. Fig. 172 L’edificio ecclesiale da Sud-Ovest. Fig. 173 Il deambulatorio porticato antistante la facciata. Fig. 174 Il deambulatorio porticato Sud. Fig. 175 Parete interna Nord: parziale intonacatura moderna con a vista il paramento originario in conci antichi di reimpiego. Fig. 176 La ricostruzione del settore absidale e la sopraelevazione posticcia del corpo presbiteriale. Fig. 177 La cripta (da Ovest). Fig. 178 Litografia che illustra la trasformazione della Basilica di Plestia in deposito militare (1883). Fig. 179 Tracce delle fondamenta superstiti appartenenti al corpo di fabbrica addossato alla parete Nord. Fig. 180 Fianco Nord: la porta murata. Fig. 181 Allineamento di antichi blocchi lapidei lungo la parete Nord. Fig. 182 Due dei blocchi lapidei sagomati giacenti di fianco alla parete Nord. Fig. 183 Foto d’epoca della chiesa antecedente la trasformazione del corpo presbiteriale (per gentile concessione di Dante Santoni). Fig. 184 Foto d’epoca con la chiesa ancora priva del piccolo campanile a vela (per gentile concessione di Dante Santoni). Fig. 185 Troncone del muro tardo conservato all’esterno dell’angolo Nord-occidentale della chiesa. Fig. 186 Muro esterno tardo: particolare dei blocchi lapidei superstiti; in primo piano il rocchio di colonna. Fig. 187 Lastra erratica in calcare bianco presso il fianco Sud. Fig. 188 Spezzone di muro, di dubbia datazione, innestato all’angolo esterno Sud della chiesa. Fig. 189 Spezzone, forse, di antica lastricatura pilastrata alle spalle dell’abside. Fig. 190 Tomba tarda a Sud-Est della chiesa. Fig. 191 Basilica di Santa Maria di Pistia: facciata. Fig. 192 Facciata: particolare dei conci di reimpiego. Fig. 193 Fianco Nord: inquadratura generale. Fig. 194 Fianco Nord: particolare di un tratto dei ricorsi
378
lapidei di reimpiego. Fig. 195 Fianco Nord: particolare del rocchio di colonna inserito nello spiccato murario. Fig. 196 Fianco Nord: particolare del grande concio di spoglio inserito nel tratto terminale. Fig. 197 Fianco Sud: inquadratura generale. Fig. 198 Fianco Sud: particolare della finestrella posticcia aperta verso la scaletta di accesso alla cripta. Fig. 199 Fianco Sud: particolare dei ricorsi lapidei di reimpiego. Fig. 200 Particolare degli aspetti macroscopici che caratterizzano la brecciola calcarea riutilizzata in gran parte dell’edificio. Fig. 201 Abside: inquadratura generale. Fig. 202 Abside: particolare del tamburo inferiore con i ricorsi lapidei di reimpiego. Fig. 203 Frammento marmoreo di sostegno a scanalature tortili di epoca altomedievale (Colfiorito, Museo Archeologico). Fig. 204 Abside, settore sinistro: particolare del paramento murario inferiore di I Fase. Fig. 205 Abside, settore sinistro: particolare dell’alzato di II Fase. Fig. 206 Il porticato antistante la facciata. Fig. 207 Il porticato lungo il fianco Sud. Fig. 208 Pilastro 1. Fig. 209 Pilastro 2. Fig. 210 Pilastro 3. Fig. 211 Pilastro 4. Fig. 212 Pilastro angolare 5: a Faccia Ovest. b Faccia Sud. Fig. 213 Pilastro 6. Fig. 214 Pilastro 7. Fig. 215 Pilastro 8. Fig. 216 Pilastro 9: a Faccia Sud. b Faccia Est: particolare del grosso concio di base con ampia risega superiore Fig. 217 Pilastro 10: a Faccia Sud. b Faccia Est. Fig. 218 Particolare della controfacciata. Fig. 219 Angolo Sud-Ovest del podio medievale. Fig. 220 Podio medievale, lato Ovest: particolare dei mate-
Elenco delle illustrazioni
riali lapidei romani di reimpiego. Fig. 221 Parete interna Nord: inquadratura d’insieme. Fig. 222 Parete interna Nord: particolare della porta laterale murata. Fig. 223 Parete interna Sud: particolare della porta murata. Fig. 224 Settore sottopavimentale Ovest: resti di edificio romano (scavi SAU 1967-1968). Fig. 225 Settore sottopavimentale Est: avanzi di lastricato e di sostruzioni in conglomerato cementizio antistanti le fondamenta del podio presbiteriale (scavi SAU 1967-1968). Fig. 226 Settore sottopavimentale Sud-Ovest: sacca di fondazione del podio medievale contenente i resti dell’edificio porticato romano (scavi SAU 1967-1968). Fig. 227 Particolare dello spiccato murario pilastrato (in secondo piano il podio medievale). Fig. 228 Il “Cippo di Costantino” nella sua odierna collocazione a ridosso del tratto iniziale della parete Nord. Fig. 229 Scaletta Nord di ingresso alla cripta: particolare del paramento murario con grossi conci di spoglio. Fig. 230 Scaletta Nord: particolare dell’architrave. Fig. 231 Scaletta Sud di ingresso alla cripta: particolare del paramento murario e della finestrella posticcia. Fig. 232 Cripta: inquadratura generale da Nord-Ovest. Fig. 233 Cripta: inquadratura generale da Sud-Ovest. Fig. 234 Parete Est: settore sinistro. Fig. 235 Parete Est: settore destro. Fig. 236 Parete Est, settore sinistro: particolare dell’epigrafe di reimpiego (ruotata di 90° in senso antiorario). Fig. 237 Parete Est: particolare del capitello della semicolonna E. Fig. 238 Parete Est, settore sinistro: particolare della risega del secondo blocco della zoccolatura. Fig. 239 Zoccolatura angolare Est-Sud. Fig. 240 Abside: inquadratura generale. Fig. 241 Abside: particolare della base della colonna 6. Fig. 242 Abside: particolare della pavimentazione antica. Fig. 243 Abside: particolare del capitello della semicolonna G. Fig. 244 Parete Nord: inquadratura generale. Fig. 245 Parete Nord: particolare della stele murata alla base del settore sinistro (ruotata di 90°in senso antiorario). Fig. 246 Parete Nord: particolare del concio con iscrizione inserito al di sopra della stele (ruotata di 90°in senso antiorario). Fig. 247 Parete Sud: inquadratura generale Fig. 248 Parete Sud: particolare del paramento murario
superiore con i rifacimenti posticci. Fig. 249 Parete Sud: particolare dello zoccolo angolare con modanatura stondata. Fig. 250 Marmo Tasio (Cripta, capitello semicolonna G). Fig. 251 Marmo Pario (Cripta, epigrafe parete Est). Fig. 252 Marmo Lunense (MAC, epigrafe 734930). Fig. 253 Brecciola calcarea bruno-rosata a grossi clasti. Fig. 254 Particolare dell’accentuata porosità superficiale. Fig. 255 Calcare micritico grigio travertinoso. Fig. 256 Variante grigio cenere. Fig. 257 Brecciola calcarea porosa grigio chiaro. Fig. 258 Brecciola calcarea porosa grigio-rosata. Fig. 259 Brecciola calcarea biancastro-bruno-rosata a porosità ridotta. Fig. 260 Brecciola calcarea grigio cenere a porosità ridotta. Fig. 261 Brecciola calcarea “spugnosa” grigio chiaro ad accentuata porosità. Fig. 262 Brecciola calcarea grigio-rosata a porosità diradata. Fig. 263 Calcare compatto bianco gesso a scaglie stratificate disposte “a mosaico”. Fig. 264 a Calcare monogenico compatto bianco gesso a superficie ben levigata. b Variante a leggere venature rosate. Fig. 265 a Calcare compatto xenolitico biancastro con inclusi sottili ed allungati di colorazione rosata. b Variante con inclusi a nucleo compatto nero-rosati. Fig. 266 Calcare bianco a struttura scistosa con intrusione xenolitica color ocra. Fig. 267 Calcare compatto bianco ad aloni grigio-rosati. Fig. 268 Brecciola calcarea biancastro-bruno-rosata a superficie compatta. Fig. 269 Brecciola calcarea grigia a porosità profonda e diffusa. Fig. 270 Calcare compatto bianco lievemente smorzato, a superficie rifinita. Fig. 271 / Fig. 272 Micrografie campione PL 1. Fig. 273 / Fig. 274 Micrografie campione PL 3a. Fig. 275 / Fig. 276 Micrografie campione MAC 4. Fig. 277 Micrografia campione PL 2a. Fig. 278 Micrografia campione PL 2b. Fig. 279 Micrografia campione PL 5. Fig. 280 / Fig. 281 Micrografie campione PL 3b.
379
Elenco delle illustrazioni
Elenco delle tavole grafiche
Fig. 282 Micrografia campione PL 4. Fig. 283 Micrografia campione MAC 1. Fig. 284 Micrografia campione MAC 2. Fig. 285 Micrografia campione MAC 3. Fig. 286 Micrografia campione DEPL 1. Fig. 287 Micrografia campione PLC 1. Fig. 288 Campionatura di marmi colorati provenienti dall’area urbana prossima alla chiesa (domus publica: peristilio e ambiente termale adiacente) (Colfiorito, Museo Archeologico): a Crusta in “Pavonazzetto”. b Lastrina modanata in “Greco Scritto”. c Crusta in “Bigio Antico”. d Cornice modanata in marmo bianco (“Lunense”?). Fig. 289 Serravalle del Chienti: chiesa dell’Immacolata. Fig. 290 Chiesa dell’Immacolata: particolare di una delle finestre murate.
Tav. I - Pieve di Sant’Angelo in Montespino: planimetria generale (da PIVA 2012). Tav. II – Cripta: planimetria generale (scala 1:250). Tav. III – Cripta: sezioni longitudinali e sezione trasversale (scala 1:250). Tav. IV – Assonometria della zona absidale con inserimento virtuale dell’antico altarino. Tav. V – Assonometria dalla zona absidale verso l’ingresso. Tav. VI – Assonometria dall’ingresso verso la zona absidale. Tav. VII – Assonometria con riferimenti alfabetici alle diverse qualità di marmi utilizzate (vedi tabella p. 75). Tav. VIII – Chiesa: assonometria della navata destra (settore presbitero-absidale). Tav. IX – Navata destra: ortofotomosaico digitale della parete Nord (particolare della scala discendente dal presbiterio). Tav. X – Monastero di Cessapalombo, Chiesa di Santa Maria in Insula: prospetto dei ruderi appartenenti all’antica navata Nord, all’absidiola e al suo innesto nel fianco dell’edificio (scala 1:20). Tav. XI – I resti della navata Nord relazionati all’alzato della chiesa (scala 1:50) (da MALPIEDI 2004). Tav. XII – Il prospetto Est con i resti dell’abside centrale. In 2° piano: a sx. innesto con le presunte strutture dell’ex monastero; a dx. raccordo con l’absidiola laterale dell’antica navata Nord (scala 1:50) (da MALPIEDI 2004). Tav. XIII – Il prospetto Sud con i probabili reimpieghi di epoca romana del settore orientale e, forse, del primo tratto Ovest (scala 1:50) (da MALPIEDI 2004). Tav. XIV – Sezione longitudinale del lato interno Sud con la collocazione della cripta (scala 1:50) (da MALPIEDI 2004). Tav. XV – Planimetria generale del complesso edilizio con la cisterna/fonte nell’area esterna a Sud-Est della chiesa (scala 1:20). Tav. XVI – Complesso edilizio Sud-Est: sezioni A-A’/B-B’/C-C’ (scala 1:10). Tav. XVII – Complesso edilizio Sud-Est: sezione D-D’ (scala 1:10) e prospetti muri 1-4 (scala 1:20). Tav. XVIII – Cripta: ricostruzione del primitivo impianto planimetrico (da CRISPINI 1966). Tav. XIX – Cripta: planimetria generale (scala 1:50) (da MALPIEDI 2004). Tav. XX – Ipotesi evolutiva del complesso ecclesiale (da MALPIEDI 2004). Tav. XXI – Esemplificazioni di sale triabsidate appartenenti
380
Elenco delle tavole grafiche
a villae padronali di epoca tardo-imperiale (da SFAMENI 2006). Tav. XXII – Plestia : planimetria generale della domus publica (da BONOMI PONZI-OCCHILUPO-SCALEGGI 2005). Tav. XXIII – Plestia : schizzo planimetrico dell’edificio porticato intersecante l’angolo Sud-occidentale della chiesa (scavi SAU 1967-1968); sulla dx. scavi SAM 1999, 2001 (da PERNA et Alii 2011, per gentile concessione). Tav. XXIV – Chiesa di Santa Maria di Pistia, settore esterno Est: particolare delle sepolture e dei lacerti pavimentali cementizi a tessere musive di età repubblicana individuati a ridosso dell’abside (scavi SAU 1967-1968) (da PERNA et Alii 2011, per gentile concessione). Tav. XXV – Planimetria generale delle strutture archeologiche di I e II Fase riportate in luce a Sud-Ovest e a Nord-Est della chiesa (scavi SAU/SAM 1967-2001) (da PERNA et Alii 2011, per gentile concessione). Tav. XXVI – Plestia : planimetria generale dell’area archeologica e del territorio limitrofo su cui sono indicati gli ipotetici assi programmatici rapportati alla odierna divisione catastale (rilievo Università di Macerata, Dpt. di SASA) (da PERNA et Alii 2011, per gentile concessione). Tav. XXVII – Chiesa di Santa Maria di Pistia: planimetria generale con localizzazione dei resti delle strutture archeologiche esterne tuttora in situ (scala 1:50). Tav. XXVIII – Chiesa di Santa Maria di Pistia: prospetto facciata (scala 1:20). Tav. XXIX – Chiesa di Santa Maria di Pistia: prospetto fianco esterno Nord (scala 1:20). Tav. XXX – Chiesa di Santa Maria di Pistia: prospetto fianco esterno Sud (scala 1:20). Tav. XXXI – Chiesa di Santa Maria di Pistia: prospetto esterno abside (scala 1:20). Tav. XXXII – Chiesa di Santa Maria di Pistia, portici Ovest e Sud: sequenza dei pilastri (scala 1:20). Tav. XXXIII - Chiesa di Santa Maria di Pistia: saggio di scavo sottopavimentale nell’angolo Sud-Ovest (scavi SAU 1967-1968; rilievo dello scrivente comprendente il podio medievale della chiesa e i conci antichi di spoglio della controfacciata e dello spiccato murario Sud: a. 2013) (scala 1:20). Tav. XXXIV - Chiesa di Santa Maria di Pistia: prospetto parete interna Nord (scala 1:20). Tav. XXXV - Chiesa di Santa Maria di Pistia: planimetria dell’edificio porticato e degli avanzi architettonici individuati al di sotto del pavimento (scavi SAU 1967-1968) (da PERNA et Alii 2011).
Tav. XXXVI – Sezioni delle strutture relative agli scavi SAU/ SAM 1967-2001 (da PERNA et Alii 2011). Tav. XXXVII -Chiesa di Santa Maria di Pistia: prospetti e sezione del settore presbitero-absidale (spiccati murari Nord e Est) e delle due scale di accesso alla cripta (scala 1:20). Tav. XXXVIII – Cripta: planimetria generale (scala 1:20). Tav. XXXIX – Cripta: schizzo planimetrico che evidenzia le irregolarità di intercolumni e campate (da MARTELLI 1966). Tav. XL – Cripta, parete Est: prospetto settori sinistro (Nord) e destro (Sud) (scala 1:10). Tav. XLI – Cripta: prospetto absidiola (scala 1:10). Tav. XLII – Cripta: prospetto parete Nord (scala 1:10). Tav. XLIII – Cripta: prospetto parete Sud (scala 1:10).
381
Cartografia
Tav. A – Carta geografica del Piceno meridionale comprendente le province di Fermo e Ascoli Piceno, dalla catena dei Sibillini ai Monti della Laga in territorio teramano (scala 1:300.000). Tav. B – Carta corografica con la rappresentazione delle valli e dei fiumi del Piceno meridionale (da Atlante BBCC). Tav. C – Carta ricostruttiva della viabilità antica nel Piceno meridionale (da CAMPAGNOLI-GIORGI 2007). Tav. D – Dettaglio della Tabula Peutingeriana, segm. V, 2-3 (da RAININI 2007). Tav. E – Carta geografica delle valli del Tenna, dell’Aso e del Tronto e del territorio nursino (da CAMPAGNOLI-GIORGI 2007). Tav. F - Carta topografica dei territori di Amandola, Montefortino e Montemonaco (da AVARUCCI 2002). Tav. G – Cartografia IGM 1:25.000 FF. 325 I Montemonaco – 326 IV Amandola comprendente il territorio di Montefortino, la valle dell’Ambro e dell’alto Tenna. Tav. H – Cartografia IGM 1:50.000 F. 313 Camerino. Tav. I – Cartografia IGM 1:25.000 F. 123 II SE Colfiorito.
382
Indice dei nomi propri
A Adriano (imperatore) 11, 93, 116, Alberico (Vescovo) 32 Allieia (Gens) 229, 237, 242 Antonina (Gens) 238, 300 Antonino Pio (imperatore) 25, 94, 110, 143, 350 Apollo in Circo 66, 95 Apollo Palatino 66 Appia (Gens) 232, 242 Arnila Secunda 230 Augusto (imperatore) 51, 95, 112, 128, 238, 349 B Benedettino/a (Ordine, Regola) 9, 20, 34, 38, 40, 56, 135, 143, 181, 187, 188, 189, 197, 199 Bigio Antico (marmo) 314, 350, 353, 380 Biomicrite (calcare) 51, 54, 57, 68, 75, 76, 96, 102, 104, 175 Bona Dea 87, 96, 209 Bonifacio VIII (Papa) 32, 40 Borgia Alessandro (Arcivescovo) 32, 70, 95 Brecciola calcarea 155, 162, 222, 262, 266, 270, 271, 276, 280, 281, 283, 285, 286, 287, 293, 295, 309, 310, 316, 328, 329, 330, 331, 332, 333, 357, 378, 379 Breccione (calcare) 222, 223, 244 C Caius Liconios/Caio Liconio 230 Caius Allieius Martialis 231, 243 Caius Veianius Rufus 237, 243 Cammidienus Hicetes 242 Caristio (marmo) 97, 111, 112, 113, 116, 117, 118, 376 Castore 25, 28 Castorius 25 Cipollino (marmo) 57, 60, 61, 74, 75, 76, 77, 80, 81, 82, 83, 97, 116, 118, 129 Claudio (imperatore) 140 Commodo (imperatore) 238, 243, 248 Cornelia Sabina 236, 237, 242, 334, 377 Costante (imperatore) 299
Costantino (il Grande, imperatore) 114, 116, 199, 215, 237, 243, 292, 298, 299, 302, 333, 334, 342, 349, 355, 365, 379 Costantino II (imperatore) 299 Costanzo II (imperatore) 299 Cupra (Dea) 25, 87, 88, 89, 92, 96, 97, 198, 208, 217, 218, 232, 249 D Decurionum (Ordo) 243, 299, 302 Diocleziano (imperatore) 126, 128, 152, 190, 199, 248, 327 Domiziano (imperatore) 112 E Eigenkirche 37 Eigenkloster 37 F Farfense/i (Ordine) 20, 147 Fiera di Pistia 209, 348 Fortuna Primigenia 232 Franceschini Gaetano (pievano Montespino) 33, 34, 38, 39, 40, 71, 371, 375 G Gaidulfus (Vescovo) 31 Gavia Tuenda 236, 242 Gavius Marcus Maximus 25 Gesù Cristo 32, 71, 113, 116 Giustiniano (imperatore) 116 Greco Scritto (marmo) 151, 177, 179, 183, 184, 197, 314, 353, 376, 380 Greco Scritto efesino (marmo) 151, 183, 376 H Hirpia (Gens) 239 I Impollata (Madonna della) 144 Insula (Santa Maria in, Monastero) 11, 27, 133, 134, 135, 136, 138, 139, 141, 142, 145, 149, 155, 174, 175, 176, 177, 178, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 191, 192, 193, 350, 355, 365, 367, 375, 376, 380 L Lateranense (basilica, Roma) 111 Lavvia (Gens) 236
Lesbio (marmo) 151, 178, 183, 184, 376 Liconia (Gens) 230, 233, 242 Lucio Vero (imperatore) 238, 243, 334, 377 Lucio Licinio Lucullo 112 Lucius Publicius 242 Luculleo (marmo) 110, 112, 113 Lunense (marmo) 50, 58, 61, 63, 64, 67, 68, 72, 75, 78, 79, 101, 103, 106, 108, 123, 124, 152, 178, 183, 184, 238, 314, 327, 329, 334, 337, 353, 376, 379, 380 M Mainardo (conte) 31, 90 Maison Carrée 51 Mamilio Nepote 143 Manlio Vopisco 191 Marangoni Giovanni 114, 128 Marco Aurelio (imperatore) 116, 238, 243, 249, 334, 350, 377 Marte 51, 85, 89, 90, 91, 92, 93, 95, 144 Marte Ultore 51, 93, 95 Massimiano (imperatore) 190 Mercurio 85, 90, 91, 92 Micrite fossilifera (calcare) 330, 333 Minerva 144 Mithra 59 N Nardi Marco Antonio (pievano Montespino) 34, 37, 39, 40, 41, 69, 70, 71, 95, 97, 375 Nerone (imperatore) 112 Numerius Trebius 182 Numidico (marmo) 111, 112, 113 O Oufentina (tribù) 212, 230, 233, 242 P Pario (marmo) 70, 72, 75, 84, 92, 101, 103, 105, 106, 108, 109, 124, 130, 178, 249, 326, 328, 333, 334, 335, 336, 337, 351, 354, 376, 379 Pavonazzetto (marmo) 275, 314, 353, 380 Pentelico (marmo) 51, 53, 72, 75, 76, 100, 101, 103, 106, 108, 125, 126, 178, 337, 376
383
Indice dei nomi propri
Pescennio Nigro 191 Poblicius Antiocus 234, 242 Pollio Felice 111 Ponzio Leonzio 191 Portasanta (marmo) 110, 111, 112, 128 Proconnesio (marmo) 53, 58, 59, 60, 61, 63, 67, 68, 72, 75, 77, 105, 109, 116, 126, 127, 183, 335, 336, 376 R Robusta 234, 242 Rossetti (pievano Montespino) 69 Rosso Ammonitico (marmo) 50, 54, 75, 76, 80, 81, 96, 110, 376 Rosso Chiota / Rosso venato di Chios (marmo) 50, 75, 80, 110, 111, 112, 376 Rosso Tenario (marmo) 112 S Sabini 230 Sagario/Breccia Corallina (marmo) 61, 64, 75, 78, 80, 82, 96, 119, 120, 121, 376 San Carpoforo 43 San Claudio 43 San Demetrio 116 San Donato 19, 31, 88 San Firmano 92, 131, 245, 249 San Francesco 38 San Gervasio (in Bulgaria) 56, 92, 93 San Giorgio (all’Isola, di Valpolicella) 19, 27, 37, 41, 43, 80 San Giorgio (al Velabro) 80 San Giovanni 89, 90, 97, 113, 114, 116, 136, 193, 210 San Giuliano 71 San Leo 92, 374 San Leonardo (in Volubrio) 89, 91, 97 San Lorenzo 18, 19, 27, 37, 41, 92, 93, 144, 188, 289, 349 San Luigi 116 San Marco 116, 155, 174 San Michele (arcangelo) 19, 32, 35, 39, 43, 69, 71, 93 San Nicola (in Carcere) 80 San Pancrazio 71 San Paolo (Fuori le Mura) 111
384
San Pier Damiani 181 San Pietro (al Monte) 43 San Romualdo 181 San Saba 113 San Salvatore 17, 18, 135, 197, 372 San Savino 71 San Tito 116 San Vincenzo (al Volturno) 43, 92, 188, 350 San Vitale 116 San Vito 92 San Vittore 56, 350 Sant’Abbondio 92 Sant’Alessio 116 Sant’Anastasio 38, 41 Sant’Andrea 116 Sant’Angelo 26, 30, 31, 35, 36, 40, 42, 43, 89, 91, 93, 96, 97, 98, 99, 136, 211, 245, 247, 249, 251, 313, 375, 377, 380 Sant’Esuperanzio 289, 349 Sant’Eustachio 35 Santa Maria 18, 19, 20, 24, 25, 27, 37, 41, 56, 89, 90, 92, 93, 95, 96, 97, 111, 116, 133, 135, 136, 138, 142, 144, 145, 147, 149, 155, 181, 183, 188, 192, 205, 206, 208, 209, 210, 214, 217, 221, 222, 226, 227, 238, 241, 245, 247, 249, 251, 253, 257, 260, 261, 264, 265, 269, 273, 277, 278, 287, 288, 289, 291, 296, 301, 326, 348, 350, 353, 355, 367, 375, 376, 377, 378, 380, 381 Santa Sabina 113 Santa Sofia 114, 116, 121 Santi Apostoli 116 Santi Sergio e Bacco 116 Santi Vincenzo e Anastasio 19, 27 Santi Vitale e Ruffino 20 Saturno 66, 232 Scaglia Rossa (calcare) 157, 161, 163, 175, 176 Scipione Barbato 232, 248 Seviri Augustales 215 Sibilla/Sibille 19, 20, 36, 89, 375
T Tabula Peutingeriana 17, 18, 382 Tarquitius Gelos 232, 234, 242, 334, 377 Tasio (marmo) 105, 109, 111, 311, 314, 318, 326, 327, 328, 329, 333, 335, 336, 351, 354, 379 Teodorico (imperatore) 190, 192, 202 Titus Appius 229, 237, 243, 334, 377 Titus Lavvius Gratus 234, 237, 242, 243, 334, 377 Titus Liconios /Tito Liconio Serapione 230, 237, 243, 334, 377 Traiano (imperatore) 112, 351 Travertino (calcare) 153, 155, 156, 159, 163, 169, 171, 172, 174, 184, 263, 264, 266, 276, 294, 297, 328, 330, 331, 333, 334, 343, 356, 357, 359, 376, 379 Troadense (marmo) 64, 67, 75, 79, 80, 82, 84, 107, 122, 123, 130, 371, 376 U Udalrico (Vescovo) 32, 43, 93 V Valente (imperatore) 302 Valentiniano (imperatore) 302 Varano Giulio Cesare 209 Verde Tessalico/Verde Antico (marmo) 58, 75, 76, 83, 84, 113, 114, 115, 116, 129 Vettius Rufinus 25, 143 Virgilius Florentius (Vescovo) 226 W Wackstone (roccia calcarea) 102, 104, 175
Indice dei nomi geografici
A Acero (fiume, valle dell’) 17 Acquacanina 144 Aesernia/Isernia 35, 232, 248 Aesis 136 Afernano (loc.) 142 Africa Proconsolare 182, 184, 194 Afrodisia (di Caria) 53, 62, 64, 93, 100, 124 Alfanaro (loc.) 88 Alife 57 Alikì (isola di Thasos) 311, 327, 328, 335, 351 Alpi Apuane 101, 106, 108, 337 Alviano (loc.) 188 Amandola 16, 17, 18, 19, 20, 21, 23, 24, 25, 27, 28, 31, 32, 35, 38, 41, 85, 86, 87, 88, 91, 96, 136, 137, 141, 143, 146, 350, 375, 382 Ambro (torrente) 18, 19, 23, 24, 28, 39, 85, 86, 92, 382 Amiternum/Amiterno 35, 230, 248 Anatolia 100 Ancona 86, 87, 93, 146, 201, 211, 212, 218, 348, 375 Antegnano (loc.) 144 Appennino centrale / Appennino marchigiano 102, 104, 135, 156, 302 Appia (via) Appoiano (loc.) 25 Aquileia 63, 94, 122, 203, 232, 248, 364 Argos 93, 182, 197 Arzago d’Adda (villa) 188, 192 Asculum/Ascoli Piceno 15, 18, 25, 27, 28, 29, 35, 56, 88, 93, 94, 136, 138, 174, 197, 382 Aso/Asis (fiume, valle dell’) 17, 18, 19, 23, 24, 26, 27, 34, 36, 382 Asia Minore 63, 100, 182, 351 Assisi 53, 94, 208, 211, 232, 248, 348 Assuan 123 Atene 126, 348, 364 Atrace 114, 129 Attica 59 Auximum/Osimo 63, 93, 249
B Badia di Fiastra 11, 183, 197 Basilea 194 Belforte (del Chienti) 135, 144, 146 Bevagna 232 Bitinia 121 Bocchetta della Scurosa (passo) 211, 377 Britannia 184, 192 Bussonico 91, 97 C Caldarola 230 Cales 113 Camerino 10, 28, 97, 137, 141, 142, 146, 150, 209, 247, 251, 254, 277, 348, 364, 382 Camporotondo (di Fiastrone) 142, 144 Cancelli (monte dei) 135, 141, 145, 158, 182, 195, 376 Cantù 43 Capannaccia, La (loc.) 208, 217 Capotornano (loc.) 26 Caprafico (loc.) 24 Capriglia (loc.) 136, 138 Caprignano (loc.) 25 Capua 122, 248 Caria 63, 124 Carogno (torrente) 25 Carrara 85, 100, 101, 106, 108, 129, 337 Cartagine (Tunisia, villa del Dominus Iulius) 94, 126, 184, 193, 196, 203, 377 Casale Litta (villa) 188 Casali di Ussita 35 Casalicchio (loc.) 19, 24, 28, 37, 41 Casauria (abbazia) 136, 143 Casciano (loc.) 142 Casigliano (loc.) 142 Castel di Lama 25 Castelfusano (villa di Plinio) 188 Castorano (loc.) 25 Castrum Insulae (Monastero) 187, 195 Castrum Novum (Martinsicuro) 232 Catania 122 Cerquette (contr.) 24 Cerrara (contr.) 21, 24, 86, 87, 375
Cerretana (fraz.) 24, 32, 38, 375 Cesano (fiume, valle del) 56, 63, 92, 93 Cese 24 Cesena 193, 194, 202, 203, 377 Cesi (fraz.) 208, 210, 213, 218, 229, 240, 251, 327, 334, 347, 367, 377 Cessapalombo 25, 27, 133, 135, 136, 137, 138, 141, 142, 143, 144, 146, 155, 174, 175, 176, 177, 178, 187, 192, 197, 350, 355, 364, 380 Chiaravalle di Fiastra (abbazia) 56 Chienti (fiume, valle del) 19, 41, 43, 93, 135, 136, 138, 141, 143, 144, 146, 209, 211, 214, 229, 251, 270, 335, 336, 337, 338, 339, 340, 341, 342, 343, 344, 345, 346, 347, 348, 354, 355, 380 Chios (isola) 50, 75, 82, 110, 111, 112, 128, 376 Cilicia 63, 94 Cinante (torrente) 26 Cingoli/Cingulum 56, 289, 302, 349, 350 Cirenaica 328 Cirene 113 Civate 43, 93 Civitella del Tronto 25 Cluana (Portocivitanova Marche) 136, 211 Col di Pietra (loc.) 137, 142, 376 Colfano 141, 144 Colfiorito 35, 136, 138, 205, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 217, 218, 219, 228, 230, 232, 233, 234, 235, 236, 237, 238, 239, 240, 241, 247, 251, 253, 256, 270, 274, 324, 327, 329, 334, 337, 343, 344, 345, 347, 348, 350, 356, 358, 367, 377, 378, 382 Colle della Cerasa (loc.) 24 Colle della Marnacchia (loc.) 87 Colmartese (loc.) 24, 88, 89, 376 Colombarone (villa) 192, 202 Colonnalta (rocca) 141 Como 43, 201 Comunanza 17, 22, 24, 25, 26, 32, 87, 90, 97 Comunitore (monte) 22
385
Indice dei nomi geografici
Consilvano (loc.) 22 Cordoba (palazzo imperiale) 190 Corinto 328 Cossudro (torrente) 18, 19, 23, 24, 86, 89, 376 Costantinopoli 114, 116, 190, 202, 328 Cremore (contr.) 24 Creta (isola) 116 Cugnolo (monte) 91 Cuicul/Gemila (Algeria, villa) 182 Cupra Maritima 25, 97, 218, 232 Cupra Montana 218, 249 D Dalmazia 63 Danubio (fiume) 63 Delfi 328 Delos (isola) 113 Desenzano (del Garda, villa) 188, 192, 200, 201 Dignano (fraz.) 228, 229, 235, 240, 348 Dugga/Thugga (Tunisia, villa) 182, 193 E Efeso 100, 113, 116, 123, 183, 351 Egitto 63, 94 El Alia (Tunisia, villa) 196 Ercolano 113, 121, 130 Esculano 181 Esino (fiume) 27, 184 Eubea (isola) 116 Ezine (Turchia) 107, 122 F Faggeto (Fagieto Rotundo, loc.) 24 Falerio/Falerone 18, 19, 21, 25, 26, 27, 29, 92, 123, 136, 138 Faragola (villa) 193, 202 Farfa (abbazia) 29, 34, 136 Farneto (monte) 147 Fenicia 63 Ferentillo (abbazia) 188 Fiastra (fiume, valle del) 19, 41, 56, 122, 135, 136, 138, 141, 143, 144, 146, 158, 183, 197, 376 Fiastrone (fiume, valle del) 19, 135, 137, 138, 139, 140, 141, 144, 145, 186, 376
386
Filippi 26, 116 Firmum/Fermo 15, 16, 18, 19, 20, 23, 24, 25, 27, 28, 29, 31, 32, 35, 39, 40, 70, 89, 90, 93, 147, 221, 222, 364, 365, 366, 382 Flaminia (via) 28, 35, 136, 138, 146, 188, 210, 211, 219 Fonte Avellana (abbazia) 89, 146 Fonte Cupa (loc.) 24, 86, 89 Forca di Presta (loc.) 17 Force (fraz.) 24, 26, 41 Foro Romano 66, 93, 95, 129 Forum Flaminii (San Giovanni Profiamma) 136, 138, 210 Fossato di Vico 209, 218 Fosso (contr.) 17, 24, 29, 90, 144 Fosso del Moricone (contr.) 17 Fosso della Pianella (contr.) 17 Fosso delle Moie (contr.) 17, 24 Fraia (fraz.) 251 Fulginiae/Foligno 36, 138, 210, 211, 218, 219, 221, 242, 247, 248, 251, 252, 254, 348, 364 Furlo (gole del) 92, 110, 350 G Gabbiano (loc.) 25, 29 Gallia 200 Galliano 43, 93 Gargano 35, 36 Ghisalba (villa) 188, 201 Ginestreta (loc.) 24 Gรถktepe (Turchia) 63, 95, 124 Gortina (isola di Creta) 116 Graincourt 194 H Hasanรงavuslar (Turchia) 177, 183 Helvia Ricina/Ricina (Villa Potenza di Macerata) 18, 136, 211, 232, 248 Hildesheim 43, 93 Hippo Regius/Cap de Gard (Algeria) 151, 179, 197 I Iberica (penisola) 184 Illice (fraz.) 24, 25
Illiria 126 Infernaccio (loc.) 21, 22, 25, 89, 375 Isola Dovarese (villa) 188, 201 Isola San Biagio (fraz.) 19 Istria 184 J Jesi 144 K Kรถnisberg 194 L La Cupa (contr.) 86, 88, 91 La Roscia (contr.) 25 La Rota (contr.) 24, 91 Laga (monti della) 15, 28, 382 Lago di Borgiano 135 Lago di Fiastra 135, 143, 376 Lago Plestino 208 Lakkoi (isola di Paros) 105, 109, 125, 130, 328, 335, 336 Larissa (Grecia, Tessaglia) 113, 114, 128 Lauretana (via) 211, 254, 377 Le Macchie (contr.) 56, 146, 245, 249 Leptis Magna (Libia) 113, 116, 123 Lesbo (isola) 179 Lisciano (loc.) 25 Lontignano (loc.) 25 Loreto 208, 211 Lucera (villa) 188 Lugnano in Teverina (villa) 188, 201 M Macchie San Ginesio 56 Macerata 11, 41, 149, 158, 181, 197, 211, 213, 216, 348, 349, 364, 365, 366, 367, 375, 381 Maddalena di Muccia 136, 211 Manciano (loc.) 142 Mandarella (loc.) 90, 97 Mar di Marmara 53 Marche 27, 28, 35, 40, 86, 87, 93, 136, 138, 146, 181, 197, 199, 210, 211, 214, 218, 219, 348, 364, 365, 366, 367, 375, 376 Marone (villa) 188 Massa Martana (villa) 28, 188 Mauretania 63, 94
Indice dei nomi geografici
Mazzano Romano (villa) 188 Melfi (Leonessa, villa) 188 Mesia 184 Milano (palazzo imperiale) 93, 94, 190, 194, 197, 199, 200, 201, 202, 203, 219, 248, 349, 365, 377 Mildenhall 194 Mitilene (isola di Lesbos) 183 Monastero 133, 134, 135, 136, 137, 138, 141, 144, 145, 150, 155, 159, 174, 175, 176, 177, 178, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 188, 189, 190, 191, 192, 193, 195, 197, 199, 200, 201, 241, 350, 376, 380, 383 Montatteglia 91 Monte Sorbo 63, 93 Montefortino 18, 19, 21, 23, 24, 25, 28, 31, 32, 33, 34, 40, 69, 85, 87, 88, 89, 90, 91, 93, 97, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 143, 146, 364, 375, 376, 382 Montegallo 17, 19 Montegiorgio 25, 27 Monteleone Sabino 57 Montelupone 131, 245 Montemonaco 18, 19, 23, 31, 32, 41, 89, 90, 375, 382 Monterubbiano 18 Montes Romani 22, 24, 25, 143 Monte Sorbo 63 Montespino 18, 19, 23, 24, 26, 30, 31, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 42, 43, 46, 57, 59, 70, 74, 80, 81, 84, 85, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 98, 99, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 113, 123, 245, 247, 249, 313, 367, 375, 380, 383 Moria (isola di Lesbos) 178, 183 Morichella (contr.) 136, 144, 376 Musone (fiume) 56 N Narni 28, 90, 137, 143 NĂŽmes 51, 93, 182 Nocera 28, 35, 53, 94, 113, 138, 210, 211,
247, 252, 254, 260, 348, 364 Norico 184 Nuceria Camellaria/Nocera Umbra 28, 35, 53, 94, 138, 210, 211, 247, 252, 254, 260, 348, 364 Nucerina (via) 35, 209, 210 Numidia 63 Nursia/Norcia 28, 41, 230, 232, 248 Nursina (via) 17 Nuvolento (villa) 188 O Oderzo 195, 203, 377 Oppido Lucano (villa) 193, 202 Orsara (valle) 17 Orte 137 Orve (monte) 210, 377 Ostia 53, 59, 94, 110, 112, 122, 126, 130, 328, 349, 351 Otricoli 90 Oudna (Tunisia, villa) 184, 196, 203 P Palatino (colle) 66, 112, 128, 383 Palazzi di Casignana (villa) 193, 202 Palazzo Pignano (villa) 188, 189, 201 Palazzolo (villa) 188 Palestina 63 Palestrina 232 Palmiano (loc.) 25 Palude di Colfiorito/Palude Plestina 209, 210, 377 Panfilia 188 Pannonia 184 Paros (isola) 69, 100, 109, 125, 130, 312, 328, 336 Passo del Galluccio 17 Patti Marina (villa) 192, 193 Pausolae/San Claudio al Chienti 43, 93, 136, 211 Penna in Teverina (villa) 188 Pennino (monte) 36 Pergamo 183 Perugia 28, 29, 41, 53, 94, 96, 147, 200, 212, 218, 219, 247, 248, 288, 349, 364 Pesaro 28, 93, 192, 202
Petritoli 18, 27 Petroniano (loc.) 25 Pian di Pieca 19, 27, 137, 138, 141, 142, 143, 144, 146, 376 Piana di Castelluccio 17 Pianello della Macchia (monte) 17 Piano del Casone (loc.) 209, 218 Piano di Annifo (loc.) 210, 213 Piano di Ricciano (loc.) 210, 213 Pianura Padana 184 Piazza Armerina (villa) 93, 94, 192, 193 Piceno 15, 17, 18, 20, 22, 23, 26, 27, 28, 29, 40, 41, 56, 93, 94, 141, 146, 155, 174, 197, 198, 199, 218, 249, 382 Piedilama 17 Piedivalle 85, 89, 90, 97 Pievefavera 138, 141, 143, 144 Pievetorina 35, 97, 136, 138, 211, 251 Piobbico 19, 22 Pisciano (colle) 17 Plestia/Pistia 95, 136, 205, 206, 208, 209, 210, 211, 212, 213, 214, 216, 217, 218, 219, 220, 221, 222, 226, 227, 228, 229, 231, 233, 235, 237, 238, 239, 240, 241, 242, 243, 245, 247, 248, 251, 252, 253, 255, 257, 260, 261, 264, 265, 269, 273, 274, 278, 287, 290, 291, 296, 299, 301, 311, 312, 314, 316, 326, 327, 334, 335, 336, 337, 338, 339, 340, 341, 342, 343, 344, 345, 346, 347, 348, 349, 350, 353, 360, 367, 377, 378, 381, 383 Plestina (via) 209, 210, 211, 227, 377 Poggio la CittĂ (loc.) 137, 138, 142 Pollenza 183 Pompei 113, 121, 130, 151, 182, 248 Popola (fraz.) 213, 218, 251 Porto Saturo (villa) 192, 193, 202 Potentia/Porto Recanati 138, 211 Potenza (fiume) 41, 92, 138, 141, 211 Prato Comune (loc.) 22 Pretare 17 Proconneso (isola) 53, 58, 63, 83, 100, 105 Prolaquense-Septempedana (via) 138,
387
Indice dei nomi geografici
146, 211 Prolaqueum/Pioraco 211 Puglia 184, 192 Q Quinzano (loc.) 26 R Rambona 92, 183, 245, 249, 289, 349 Ravenna 116, 188, 190, 192, 202, 218, 328, 365 Rimini 203, 232, 247 Ripatransone 25, 199, 218 Roma 53, 54, 66, 80, 89, 93, 94, 95, 96, 97, 111, 112, 116, 126, 128, 129, 130, 136, 146, 147, 179, 183, 188, 197, 198, 199, 200, 201, 202, 203, 208, 210, 211, 218, 219, 248, 249, 348, 349, 351, 364, 365, 366, 383 Rovitolo (loc.) 24, 25, 28, 89, 97 Rubbiano (loc.) 25, 28 Ruoti (villa) 193, 202 S Sabina 20, 22 Salaria (via) 16, 18, 19, 20, 23, 35, 88, 136, 138 Salaria Gallica (via) 18, 19, 20, 35, 88, 136, 138 Salaria Picena (via) 20 Salaria Truentina (via) 35 San Ginesio 56, 142, 181, 199, 245, 249, 364 San Giustino (villa di Plinio) 188, 200 San Pietro di Castagna (loc.) 24 San Pietroburgo 194 Sarnano 19, 21, 26, 27, 96, 136, 137, 364 Sarsina 63, 93 Sassonia 43 Scisiano (loc.) 142 Senigallia 28, 141, 144 Sentino 211 Septempeda/San Severino Marche 35, 138, 146, 211 Serrapetrona 138 Sessa Aurunca 113 Sestinum (Sestino) 302, 350
388
Sette Carpini (loc.) 24 Serravalle del Chienti 136, 211, 214, 229, 337, 338, 339, 340, 341, 342, 343, 344, 345, 346, 347, 348, 354, 355, 380 Sibillini (monti) 15, 16, 19, 20, 21, 22, 24, 25, 26, 27, 28, 34, 35, 37, 41, 86, 91, 95, 97, 133, 135, 138, 141, 143, 144, 145, 155, 183, 186, 355, 375, 376, 382 Sicilia 63, 192 Siria 63, 129 Smerillo 20, 25, 29 Smirne 110, 123 Sossasso 24 Sorrento 111 Spalato (palazzo imperiale) 190, 196 Spello 232, 248, 299, 349 Spina (via della, torrente) 35, 208, 210, 213, 218, 377 Spoleto 28, 35, 41, 53, 90, 94, 137, 146, 199, 201, 248, 251 Stretta (valle) 17, 22 Sulmona 35 Surpicanum/Arquata del Tronto 16, 17, 18, 20, 27, 35, 38, 89, 90 T Taccarelli (loc.) 86, 375 Taormina 113 Taranto 193, 202 Taverne (fraz.) 138, 211, 217, 251, 377 Teano 113 Tenna (fiume, valle) 16, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 27, 34, 35, 36, 39, 86, 89, 91, 92, 141, 375, 376, 382 Tennacola (torrente, valle) 21, 24, 137 Terro di Sarnano (fraz.) 21 Tesino (torrente) 24 Tessaglia 59, 76, 80, 81, 113, 129 Tessalonica 116 Tevere (fiume) 41, 137 Thabraca/Tabarka (Tunisia, villa) 184, 196, 203 Thamugadi/Timgad (Tunisia, villa) 182 Thasos (isola) 59, 100, 116, 130, 249, 311,
327, 335, 351 Thuburbo Maius (Henchir el Kasbat, Tunisia, villa) 192, 193 Ticinum (Pavia) 122 Tivoli 57, 97, 113, 116, 122, 129, 130, 188, Todi 28, 188, 201 Tolentinum/Tolentino 136, 211 Tolve (villa) 188 Topino (fiume) 210, 218 Toscana 184, 191 Tre Ponti (loc.) 88, 89, 376 Trea/Treia 183, 211, 249 Trebula Mutuesca/Monteleone Sabino 57, 94, 230 Trella (monte) 208, 210, 251, 377 Trevi 36 Tribio/Trebbio (loc.) 24, 28, 85, 138, 141, 142 Tripolitania 63, 179 Trisungo (fraz.) 17 Troade 122 Tronto (fiume, valle) 15, 17, 18, 19, 25, 27, 184, 382 Tunisia 182, 192, 193 Turchia 63, 105, 107, 121, 122, 177, 183 U Umbria 28, 41, 91, 94, 142, 184, 200, 212, 214, 218, 219, 227, 228, 234, 235, 246, 248, 295, 299, 334, 348, 349, 356, 357, 364, 365, 367, 377 Urbino 141, 146, 221 Urbs Salvia/Urbisaglia 18, 27, 35, 95, 97, 122, 136, 183, 197, 211 V Val dâ&#x20AC;&#x2122;Aso 17, 19, 36 Val Tiberina 188 Valle Cupa (loc.) 24, 87, 96 Valle Vaccagna 208, 210, 377 Vallegrascia (loc.) 18, 19, 37, 41 Valnerina 17, 41, 89, 137, 138, 188, 210 Valpolicella 43, 383 Valsantangelo 35, 138, 211 Valtopina 210, 218 Venezia 96, 99, 113, 115, 116, 129, 203,
Indice dei nomi geografici
Indice degli autori
327, 330, 348, 375 Verona 63, 85, 94 Vesciano (loc.) 25, 143, 147 Vestignano (loc.) 138, 141, 143 Vetremastro (torrente) 23, 24, 38, 89, 91, 92 Vettore (monte) 17 Villa Adriana (Tivoli) 112, 122, 129, 130 Villano di Ticineto (villa) 188 Visiano (loc.) 25, 147 Visso 17, 89, 97, 136, 138, 210 Volubrio (promontorio) 24, 89, 91, 97, 383 Vomano (fiume) 15 Z Zoccolanti (contr.) 21
A Allevi Febo 40, 87, 93, 95, 96, 97, 146, 197, 199, 200 Andreae Bernard 139, 146 Annibaldi Giovanni 139, 146, 218 Antonelli Fabrizio 10, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 108, 109, 128, 130, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 335, 336, 337, 338, 339, 340, 341, 342, 343, 344, 345, 346, 347, 350, 368 B Bittarelli Angelo 138, 146, 218, 368 Bonomi Ponzi Laura 10, 212, 218, 219, 228, 248, 249, 349, 368, 370, 371, 381 Bonvicini Pompilio 27, 28, 69, 85, 93, 94, 95, 96, 97, 368 Bormann Eugen 228, 239, 247, 249, 368 Brandi Cesare 272, 348 C Calzolari Mauro 142, 146 Cherubini Alvise 43, 93, 146, 197, 369 Cicconi Rossano 142, 146, 147, 197, 200, 369 Colucci Giuseppe 222 Crocetti Giuseppe 27, 28, 31, 40, 93, 96, 97, 369 D Del Lungo Stefano 28, 29, 97, 142, 146, 147, 218, 369 Dorio Durante 227, 228, 247, 348 Dunham Robert John 102, 104, 175, 176, 338, 339, 340, 341, 342, 343, 344, 345, 346, 347, 370 F Fabricius Hansen Maria 80, 96, 370 Folk Robert 102, 104, 175, 176, 338, 339, 340, 341, 342, 343, 344, 345, 346, 347, 370 G Gasperini Lidio 27, 138, 146, 248, 249, 298, 300, 349, 370 Ginouvès René 55, 93, 94, 350, 370 J Jacobilli Ludovico 227, 228, 229, 233,
235, 244, 247, 248, 348 K Kähler Heinz 53, 93, 94, 371 L Lazzarini Lorenzo 10, 95, 96, 99, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 112, 123, 128, 129, 130, 179, 330, 335, 336, 337, 348, 350, 351, 368, 371 Leopardi Leopardo 40, 95, 97, 371 Lollini Delia 139, 146 M Malpiedi Adriana 11, 146, 157, 158, 160, 179, 190, 191, 197, 199, 200, 201, 372, 380 Mengozzi Giovanni 221, 222, 223, 224, 225, 226, 227, 228, 229, 230, 231, 233, 235, 236, 237, 238, 239, 240, 241, 242, 244, 246, 247, 248, 249, 256, 257, 322, 324, 348, 349, 350, 372, 374, 377 Mercando Liliana 27, 96, 139, 146, 147, 198, 248, 372 Moscatelli Umberto 27, 28, 29, 41, 96, 142, 146, 147, 149, 197, 218, 372 O Olivieri Giordani Annibale (degli Abbati) 221, 225, 226, 227, 228, 230, 233, 241, 247 P Paci Gianfranco 10, 27, 28, 29, 96, 147, 198, 218, 248, 249, 349, 350, 368, 369, 372, 373 Pacini Delio 20, 27, 28, 40, 85, 93, 95, 96, 97, 147, 197, 373 Pagnani Giacinto 27, 97, 137, 142, 146, 147, 197, 199, 201, 373 Pellegrini Giovan Battista 28, 29, 41, 96, 142, 147, 209, 211, 373 Pensabene Patrizio 9, 10, 53, 62, 93, 94, 95, 96, 128, 129, 130, 131, 179, 198, 351, 368, 371, 372, 373 Perna Roberto 10, 27, 213, 214, 215, 216, 217, 218, 219, 249, 296, 296, 348, 349, 350, 361, 373, 381 Piva Paolo 40, 41, 43, 93, 373, 380
389
Indice degli autori
Indice delle fonti antiche
R Rainini Ivan 6, 8, 9, 18, 27, 41, 42, 94, 95, 96, 97, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 128, 129, 130, 131, 146, 174, 175, 176, 177, 178, 197, 198, 218, 219, 249, 335, 336, 337, 338, 339, 340, 341, 342, 343, 344, 345, 346, 347, 350, 373, 382 Riccomanni Paolo 138, 139, 146, 199, 200, 374 S Sahler Hildegard 43, 93 Sensi Mario (Don) 11, 27, 41, 218, 219, 247, 248, 249, 324, 348, 349, 350, 374 Sfameni Carla 185, 192, 193, 198, 199, 200, 201, 202, 203, 374, 381
Cassiodoro 186 Cicerone 111 Costantino Rodio 114 Eustazio 114 Giulio Polluce 114 Gregorio di Catino 143, 147 Gregorio di Nissa 114, 191 Libanio di Antiochia 190 Paolo Silenziario 114, 121 Plinio il Giovane 188, 200 Plinio il Vecchio 111 Teofrasto 111 Tito Livio 114 Seneca 327 Siculo Flacco 22 Sidonio Apollinare 191 Simmaco 186 Stazio 111, 199 Stefano Bizantino 114 Strabone 111, 113
390
Indice generale
Presentazione Franco Gazzani
7
Introduzione Patrizio Pensabene
8
Tabula Gratulatoria
10
Sezione prima Catena dei Sibillini: area pedemontana orientale Montefortino: la chiesa e la cripta di Sant’Angelo in Montespino. Rediviva marmora e Renovatio christiana in un’ antica pieve medievale alle falde dei Sibillini
13
Capitolo 1 Aspetti topografici e organizzazione del territorio in etá antica
15
Capitolo 2 La pieve di Sant’Angelo in Montespino: le origini e il suo ruolo nel contesto appenninico sud-piceno
31
Capitolo 3 La cripta di Sant’Angelo in Montespino: reimpieghi di epoca romana e ipotesi di provenienza A . Introduzione B . Le procedure investigative e documentarie informatizzate applicate alle analisi condotte nella cripta della pieve di Montespino C . Analisi dei materiali di epoca romana D . I reimpieghi antichi e lo spazio consacrato E . Le ipotesi di provenienza
43 43 46 50 71 81
Capitolo 4 99 Antichi marmi e rocce reimpiegati nella cripta di Sant’Angelo in Montespino: analisi minero-petrografiche, delle cause di degrado fisico-chimico e delle cave di provenienza A . Introduzione 99 B . Analisi minero-petrografiche di laboratorio su campioni di marmi e rocce 101 C . Marmi colorati 110 1. Marmi italici 110 a. Rosso Ammonitico (“Rosso Veronese”) 110 2. Marmi greci 110 a. Marmo Rosso venato di Chios (“Portasanta”) 110 b. Marmo Tessalico (“Verde Antico”) 113 c. Marmo Caristio (“Cipollino verde Euboico”) 116
391
Indice generale
3. Marmi microasiatici 119 a. Marmo Sagario (“Breccia Corallina”) 119 b. Marmo Troadense 122 D . Marmi bianchi 124 1. Marmi italici 124 a. Marmo Lunense 124 2. Marmi greci 124 a. Marmo Pario 124 b. Marmo Pentelico 125 3. Marmi microasiatici 126 a. Marmo Proconnesio 126
Sezione seconda Catena dei Sibillini: area pedemontana settentrionale Il cenobio di Santa Maria in Insula e l’insediamento di epoca tardo-romana a Monastero di Cessapalombo
133
Capitolo 5 L’Insula di Monastero nell’antico contesto topografico e viabilistico regionale
135
Capitolo 6 Le preesistenze dell’insediamento romano tardo-antico A . I rinvenimenti sporadici B . I reimpieghi antichi nelle strutture ecclesiali esterne C . I reimpieghi antichi nel complesso edilizio Sud-orientale. La cisterna/fonte e le strutture annesse D . Analisi minero-petrografiche di laboratorio sugli antichi materiali lapidei sporadici e di reimpiego
149
Capitolo 7 Ipotesi sulla tipologia insediativa di epoca tardo-romana
392
149 152 158 174
181
Indice generale
Sezione terza L’altopiano di Colfiorito Archeologia e continuitá nell’area dell’antica Plestia. Il municipium romano e la chiesa medievale di Santa Maria: un dialogo ininterrotto
205
Capitolo 8 La chiesa medievale di Santa Maria di Plestia nell’ambito dell’antico tessuto viabilistico transappenninico e nel contesto architettonico-urbanistico del municipium romano
207
Capitolo 9 221 Il contributo dell’erudizione locale settecentesca allo studio archeologico della basilica di Plestia: la “Dissertazione de’ Plestini Umbri ” di Giovanni Mengozzi A . La descrizione dell’edificio ecclesiale e del “Sotterraneo, ossia Confessione” 221 B . “L’ubicazione di Plestia dimostrasi colle Lapide, e con altri avanzi dell’Antichità”. 227 Analisi dei documenti epigrafici e del materiale archeologico rinvenuto attorno alla chiesa C . Considerazioni sulle epigrafi plestine documentate 242 nella “Dissertazione” di Giovanni Mengozzi Capitolo 10 Analisi dei materiali edilizi di reimpiego e delle stratigrafie murarie A . Le strutture esterne a. L’impianto generale, le trasformazioni strutturali e lo spazio circostante b. La facciata c. Il fianco Nord d. Il fianco Sud e. L’abside f . Il porticato Ovest e Sud B . Gli spazi interni 1. La navata a. La controfacciata b. La parete Nord c. La parete Sud d. I saggi di scavo sottopavimentali degli anni ’60 nell’angolo Sud-Ovest 2. Il presbiterio 3. La cripta a. I due ingressi laterali b. L’organizzazione planimetrico-strutturale c. La parete Est d. L’absidiola e. La parete Nord f . La parete Sud g. La parete Ovest
251 251 251 260 262 266 272 277 286 286 286 291 294 295 302 305 305 307 311 317 319 322 325
393
Indice generale
C . Le tipologie lapidee riutilizzate nelle strutture ecclesiali e nei monumenti epigrafici 326 tuttora in situ o un tempo ivi conservati: classificazione preliminare 1. MARMI BIANCHI 327 a. Marmo Tasio 327 b. Marmo Pario 328 c. Marmo Lunense 329 2. CALCARI 330 a. Pareti esterne 330 b. Pilastri del porticato 331 c. Pareti interne 333 d. Cripta 333 e. Epigrafi 333 f. Schede minero-petrografiche dei marmi bianchi e delle rocce calcaree 334 Capitolo 11 Ipotesi di provenienza dai contesti edilizi ed infrastrutturali urbani dei materiali di epoca romana reimpiegati nellâ&#x20AC;&#x2122;edificio ecclesiale o ad esso un tempo pertinenti
353
Apparati Elenco delle abbreviazioni Annales, Archivi, Atti, Biblioteche, Collane, Corpora, Dizionari, Enciclopedie, Lessici, Periodici, Raccolte Cartografiche, Regesta Sigle
363 364 364
Bibliografia Abbreviazioni delle fonti bibliografiche piĂš frequentemente citate nel testo
368
Elenco delle illustrazioni
375
Elenco delle tavole grafiche
380
Cartografia
382
Indice dei nomi propri
383
Indice dei nomi geografici
385
Indice degli autori
389
Indice delle fonti antiche
390
Indice generale
391
394
367
Finito di stampare nel mese di novembre 2014 presso Bieffe S.p.A., Recanati (MC)