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NUMERO 10 LUGLIO 2012

Il Nord dopo la Lega

contributi di Marco Alfieri • Giuseppe Berta • Roberto Briorcio • Stefano Camatarri • Ferruccio Capelli • Mauro Ceruti Paolo Corsini • Aldo Cristadoro • Lorenzo Dellai • Guglielmo Epifani • Vasco Errani • Piero Fassino • Paolo Feltrin Giuseppe Galasso • Enrico Letta • Mauro Magatti • Maurizio Martina • Gianluca Passarelli • Graziella Priulla Debora Serracchiani • Leonida Tedoldi • Walter Tocci • Dario Tuorto



Stefano Di Traglia Direttore responsabile

Franco Monaco Direttore editoriale

Alfredo D’Attorre Coordinatore del Comitato editoriale

Valentina Santarelli Segretaria di redazione

COMITATO EDITORIALE Massimo Adinolfi Mauro Ceruti Paolo Corsini Stefano Fassina Chiara Geloni Claudio Giunta Miguel Gotor Roberto Gualtieri Marcella Marcelli Eugenio Mazzarella Anna Maria Parente Francesco Russo Walter Tocci Giorgio Tonini

SOMMARIO FOCUS_LA LETTURA

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Roberto Biorcio

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SITO INTERNET www.tamtamdemocratico.it

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E-MAIL redazione@tamtamdemocratico.it

Tam Tam Democratico spazio di approfondimento del Partito Democratico

COMUNICAZIONE progetto grafico/sito internet dol - www.dol.it

Il voto al nord : tengono ancora i blocchi tradizionali? Aldo Cristadoro e Paolo Feltrin La Lega oltre i clichè Gianluca Passarelli e Dario Tuorto Travaglio e prospettive della Lega

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Marco Alfieri

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Proprietario ed editore Partito Democratico Sede Legale - Direzione e Redazione VIa Sant’Andrea delle Fratte n. 16, 00187 Roma Tel. 06/695321 Direttore Responsabile Stefano Di Traglia Registrazione Tribunale di Roma n.270 del 20/09/2011 I testi e i contenuti sono tutelati da una licenza Creative Commons 2.5 CC BY-NC-ND 2.5 Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate

La questione settentrionale dopo la crisi dell’asse del nord

FOCUS_LA RISPOSTA

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L'Italia in sé e per sé passa per Milano e Roma Walter Tocci

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Dove va il nord dopo la Lega Giuseppe Galasso

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Finalmente un federalismo che unisce Mauro Ceruti Movimento 5 stelle, oltre l’antipolitica Stefano Camatarri Beppe Grillo e i figli delle stelle Paolo Corsini Parole tossiche Graziella Priulla

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Missione Europa Enrico Letta Ora tocca a noi Piero Fassino Il nostro federalismo Vasco Errani Zaino in spalla: il civismo delle Terre Alte Lorenzo Dellai Il nord e noi Debora Serracchiani Patto sociale per crescita ed equità Guglielmo Epifani Una piattaforma per lo sviluppo del nord Giuseppe Berta Una bussola umanistica Ferruccio Capelli Documento: Per la ricostruzione nazionale Maurizio Martina

ALTRI CONTRIBUTI

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Lo Stato nella globalizzazione Leonida Tedoldi Seconda globalizzazione: un nuovo inizio Mauro Magatti

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La lettura


FOCUS

Il Nord dopo la Lega

La Lettura

La questione settentrionale dopo la fine dell’asse del Nord Roberto Biorcio

insegna Sociologia Politica all’Università di Milano Bicocca

I

risultati delle elezioni amministrative del 2012 hanno segnato la fine del cosiddetto “asse del Nord”: l’alleanza fra Belusconi e Bossi che aveva condizionato la politica italiana negli ultimi venti anni. La crisi della coalizione di centrodestra ha permesso al centrosinistra di conquistare molti comuni, soprattutto nelle regioni del Nord. Ma il forte aumento dell’astensione e i successi imprevisti del movimento 5 stelle rendono più incerto e problematico il quadro politico. Si aprono molti interrogativi su quale può essere il futuro della questione settentrionale. La sconfitta della Lega nelle ultime elezioni amministrative non è solo l’effetto degli scandali provocati dagli affari del tesoriere Belsito. Le difficoltà della Lega erano già emerse con le elezioni amministrative dello scorso anno. È in crisi il modello di rappresentanza politica che il partito di Bossi aveva cercato di dare al Nord? La “questione settentrionale” era emersa nel dibattito pubblico venti anni fa. Gli effetti dalla globalizzazione dell’economia, una pressione fiscale in aumento e l'inefficienza di molti servizi pubblici creavano molte difficoltà per le possibilità di sviluppo delle regioni del Nord. Questi problemi si intrecciavano con una forte insofferenza verso i partiti e la politica tradizionale. La Lega aveva proposto un nuovo modello di rappresentanza: da un lato si presentava come partito regionalista, come portavoce di specifici interessi locali (il “sindacato del territorio”), dell’altra gestiva la protesta populista contro “Roma ladrona”. A questi contenuti, il Carroccio ha successivamente aggiunto un forte impegno per contrastare l’immigrazione. Si

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FOCUS

La Lettura è così affermato un partito con una identità forte, radicato sul territorio, con un numero rilevante di attivisti e un vasto consenso elettorale. La situazione è però notevolmente cambiata negli ultimi dieci anni. La Lega ha via via ridimensionato il ruolo dell'antipolitica nelle sue campagne, spostando l'attenzione su altre tematiche. Le pratiche sempre più disinvolte degli amministratori leghisti nel gestire i rapporti fra politica e affari vanificavano le differenze rispetto agli altri partiti. Le accuse della magistratura a Bossi e ai suoi familiari colpivano poi una componente fondamentale dell’identità leghista, costringendo alle dimissioni lo stesso leader carismatico. Maroni ha cercato di mobilitare l’antipolitica e la rabbia su bersagli interni al movimento, riuscendo a conquistare la segreteria. Ma non è riuscito a rilanciare la mobilitazione e il consenso elettorale. E ha prodotto l'effetto indesiderato di accreditare l'idea che la Lega non sia diversa da tutti gli altri partiti, e che i suoi dirigenti appartengano a pieno titolo alla «casta». In parallelo alla crisi della Lega si è sviluppata quella del Pdl, con la sconfitta di un modello di rappresentanza che era apparso vincente per molti anni. Berlusconi aveva inventata nel 1994 una proposta politica che riprendeva e superava la stesa formula del “partito personale”. Il nuovo leader metteva in scena il progetto della conquista del potere politico da parte di un soggetto forte della società civile, che recuperava le idee diffuse fra gli imprenditori, i professionisti e gli operatori economici delle regioni settentrionali: liberismo, antistatalismo, riduzione delle aree protette dal welfare state. La retorica di Berlusconi riproponeva due elementi essenziali del populismo: l'appello diretto al popolo, come sede di virtù e valori autentici, e il legame diretto fra popolo e leadership. Non caso, il Cavaliere ha cercato di trasformare tutte le scadenze elettorali in un plebiscito sulla propria persona. La vittoria nelle elezioni poteva però essere garantita solo con la formazione del cosiddetto “asse del Nord” fra i due populismi, rappresentati da Berlusconi e dalla Lega. I due partiti alleati offrivano una rappresentanza a diverse strutture sociali e alle differenti aree territoriali del Nord. Fra il due tipi di populismo si erano inizialmente prodotti conflitti e concorrenza, ma dal 2001 era stata soprattutto ricercata la convergenza. Gli scandali nella vita privata e le inchieste della magistratura 7


FOCUS

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La Lettura hanno progressivamente logorato l’immagine personale di Berlusconi. La crisi economica ha fatto poi emergere problemi ancora più gravi. La crescita dei livelli di pressione fiscale smentiva tutte le speranze di riduzione delle tasse. Non solo Berlusconi, ma anche i ministri leghisti sono stati considerati responsabili degli insuccessi rispetto alle attese suscitate. Nelle elezioni amministrative del 2011 sia il Pdl e che Lega, ancora alleate, hanno subito una netta sconfitta elettorale. Falliva l’ultimo tentativo di Berlusconi di trasformare (a Milano) le elezioni in un referendum sulla sua persona. Nelle elezioni amministrative del 2012 la sconfitta è stata ancora più marcata. Erano ormai gravemente incrinati i punti di forza fondamentali dei due partiti: per la Lega, l’identità di soggetto politico diverso dagli altri partiti, per il Pdl la fiducia nelle qualità e nelle capacità del leader. Restano però, e si aggravano, molti dei problemi che avevano consentito alla Lega di affermarsi come portavoce della questione settentrionale. La situazione attuale è diversa rispetto agli anni Novanta: più che sulla redistribuzione delle risorse fra Nord e Sud, il malcontento e le proteste si orientano contro le politiche di austerità imposte dalla Bce e dal Fmi. Aumentano le difficoltà per le piccole e le medie imprese anche all'interno delle regioni dell'Italia settentrionale, mentre crescono sempre più la disoccupazione e la precarietà. E d’altra parte è molto diffusa la sfiducia verso i partiti e il ceto politico, che raggiunge livelli superiori a quelli di venti anni fa, al tempo delle inchieste di “mani pulite”. Chi può oggi rappresentare le proteste e le domande, più forti, ma anche più frammentate, che emergono nelle regioni settentrionali? La Lega di Maroni cerca di valorizzare il ruolo di «sindacato del territorio», ma si è fortemente indebolita le capacità del Carroccio di guidare l'opposizione alle politiche del governo Monti. Viene proposto come riferimento il modello della Csu bavarese: una 8


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La Lettura formazione politica che si allea con un partito conservatore nazionale, per ottenere in cambio maggior potere e più autonomia di gestione degli interessi regionali. In questa prospettiva, la Lega dovrebbe abbandonare progressivamente l'identità di partito populista/regionalista per assumere quella di partito regionalista/conservatore. Questo progetto appare però molto problematico per la crisi profonda che investe il Pdl, ed è difficile ricostruire un altro «asse del nord». La nuova “discesa in campo” di Berlusconi e i tentati di riproporre l’alleanza con la Lega di Maroni non sembrano in grado di invertire le tendenze in corso. Il movimento di Grillo ha raddoppiato i consensi dopo le ultime elezioni amministrative, grazie alla enorme sovraesposizione mediatica del suo leader. Il comico genovese da diversi anni si è impegnato come imprenditore politico del movimento, utilizzando soprattutto le possibilità di mobilitazione offerte dal web e le sue capacità di “grande comunicatore”. Il movimento 5 stelle assume – come lo stesso Grillo sembra auspicare – una funzione analoga a quella svolta della Lega rispetto ai partiti della Prima repubblica. Il nuovo soggetto politico è però molto diverso dal Carroccio e presenta forti analogie con il partito dei Piraten tedeschi, che cercano di offrire nuovi canali alla domanda di partecipazione dei cittadini. Restano però molti dubbi sulle capacità del movimento di Grillo di assumere funzioni di rappresentanza e di governo a livello nazionale o almeno per ampie comunità territoriali. La crisi e la dissoluzione dell’asse del nord ha consentito al centrosinistra di conquistare il governo di molte amministrazioni locali nell’Italia settentrionale: ma la sua capacità di intercettare, rappresentare e interpretare la domanda di cambiamento è apparsa indebolita rispetto alle elezioni dell’anno scorso. Le vittorie spesso inattese nelle amministrative del 2011 erano state caratterizzate dal nuovo modo di presentarsi di molti candidati sindaci che riuscivano a intercettare le proteste e le richieste di cambiamento rispetto alle politiche del governo e degli amministratori locali. Un diverso modo di rapportarsi ai cittadini, più attento alle loro domande e a sollecitare la partecipazione, riusciva a ridimensionare fortemente gli atteggiamenti antipolitici. Queste tendenze sono state meno evidenti nelle recenti elezioni, anche se il centrosinistra nelle regioni del Nord ha nettamente aumentato il numero dei sindaci e governa ormai tutte le città capoluogo di regione. 9


FOCUS

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La Lettura

Il voto al nord: tengono ancora i blocchi tradizionali? Aldo Cristadoro è direttore del Dipartimento politico elettorale di Tolomeo Studi e Ricerche Paolo Feltrin insegna Scienza politica all’Università di Trieste

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remessa Secondo molti commentatori le ultime elezioni amministrative costituiscono un punto di svolta nei comportamenti di voto degli ultimi anni, in particolare al Nord. E’ davvero così? In soli due anni l’orientamento degli elettori, in particolare quelli del Nord, ha subito davvero mutamenti così profondi da oscurare i protagonisti della vita politica italiana degli ultimi 20 anni? Anche se le prime impressioni sembrano confermare convincimenti di questo genere, un’analisi attenta dei risultati elettorali conduce a conclusioni meno scontate e lascia spazio a più di un interrogativo. Il Nord e la frattura territoriale: una storia lunga 30 anni Negli ultimi lustri il dibattito pubblico è stato spesso incentrato sulla “questione settentrionale”, in contrapposizione polemica con la tradizionale “questione meridionale”, vale a dire sulle conseguenze della frattura territoriale che fin dalla nascita dello stato unitario caratterizza il nostro Paese. Specificità ed esigenze delle regioni settentrionali hanno modellato da un lato la domanda degli elettori, dall’altro lato hanno contribuito in maniera sostanziale a definire l’offerta politica che a essi veniva proposta. Già a partire dai primi anni ’80, infatti, in molte realtà settentrionali si afferma con forza questo tema, agli inizi attraverso organizzazioni regionaliste e/o localiste, poi con un movimento sempre più organizzato, facendo scoprire una pulsione latente nell’opinione pubblica settentrionale – l’antimeridionalismo – fino a quel momento tenuta a bada dai partiti tradizionali. Di qui un’improvvisa frattura tra

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La Lettura politica tradizionale e territorio. Il protagonista principale di questo processo, la Lega Nord, ha avuto la capacità di farsi interprete (e imprenditore politico) di istanze che fino ad allora nessuno aveva raccolto: al conflitto redistributivo di tipo verticale, a base sociale, la propaganda del partito guidato da Bossi ha avuto la capacità di dare voce ad un conflitto latente, redistributivo di tipo orizzontale, a base territoriale. Con in più l’astuzia di rivestire la polemica antimeridionale delle mille nobili sfumature dell’ideologia federalista. Il Carroccio in primis e, in alcune fasi, la stessa Forza Italia, hanno avuto la capacità di trasformare queste rivendicazioni in consenso elettorale e di porre questi temi al centro delle campagne elettorali e dell’agenda di governo. I risultati delle recenti amministrative: il centro sinistra vince sulle ceneri del centro destra Sono passati solo 4 anni dallo straripante successo del ticket Bossi – Berlusconi alle ultime elezioni politiche e ancor meno dalle regionali 2010 quando, fra gli altri, i successi di Zaia (in Veneto) e Cota (in Piemonte) hanno portato la Lega ai vertici di due importanti regioni e spostato almeno in maniera simbolica il baricentro del potere politico italiano al Nord e, in parte, sulla Lega. Dal marzo del 2010, invece di stabilizzarsi, il quadro politico è mutato repentinamente, in particolare per le conseguenze della crisi economica e le difficoltà derivanti dal debito pubblico nazionale. A pagarne lo scotto sono stati inevitabilmente i partiti di centro destra al governo, e una prima avvisaglia dei malumori dell’elettorato moderato si era vista con la vittoria di Pisapia a Milano nel 2011. Il centro sinistra in quell’occasione aveva ottenuto un successo con una caratterizzazione territoriale molto evidente: il maggior numero di passaggi di amministrazioni da destra a sinistra si erano verificati in Piemonte, Lombardia e Veneto, vale a dire nelle regioni settentrionali che fino ad allora erano sempre state il serbatoio più sicuro di voti per la coalizione di centro destra. A distanza di un anno i risultati delle recenti amministrative indicano una notevole accelerazione delle tendenze allora appena accennate, ma con alcune incognite nuove. Se facciamo il conto aritmetico delle amministrazioni conquistate, il centro sinistra registra nel 2012 un successo ben più ampio di quello ottenuto un anno prima: a livello nazionale conquista 103 amministrazioni comunali su 168 (ne aveva 57), mentre il centro destra nel suo complesso ne 11


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La Lettura

Nelle regioni settentrionali stupisce però il risultato negativo dei due protagonisti della vita politica locale. Il Pdl con le proprie liste ufficiali ottiene circa il 13% dei voti, 15 punti in meno rispetto alle regionali del 2010

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conquista 40 (2 monocolore leghista) a fronte dei 101 comuni amministrati in precedenza. Il successo è stato molto forte nelle regioni settentrionali e soprattutto nel Nord Ovest (Piemonte e Lombardia in particolare), dove sindaci del centro sinistra sono stati eletti anche in alcune roccaforti storiche di Pdl e Lega. Alessandria, Asti, Como e Monza sono solo gli esempi più eclatanti di una tendenza diffusa anche nei comuni più piccoli e che porta il centro sinistra a triplicare il numero di sindaci. Se si ragiona in termini di amministrazioni conquistate l’interpretazione è quindi univoca: il centro sinistra vince e Pdl e Lega subiscono una pesante sconfitta; se invece si studiano i flussi di voti il discorso cambia e, almeno in parte, si fa più complesso. Il peso dei partiti al Nord: la vittoria di Grillo con un’eco leghista Pur coscienti delle difficoltà che comporta cercare di calcolare il bacino di voti di ciascun partito alle elezioni comunali e cercare di metterlo in relazione con le elezioni più recenti, possiamo però delineare alcune tendenze soprattutto per quanto concerne il Nord Italia. In queste regioni il primo dato evidente è che i partiti del centro sinistra vincono le amministrative pur non guadagnando voti : in particolare Idv (3,7%) subisce un arretramento consistente (oltre la metà dei voti) rispetto alle regionali con flussi in uscita verso il Movimento 5 Stelle; Sinistra e Libertà aumenta il suo bacino complessivo recuperando al Nord (3,5%) ciò che perde nel resto del Paese; il Partito Democratico si attesta al 20%, perdendo oltre 6 punti nel confronto con le recenti regionali. Il trend negativo è solo in parte controbilanciato dai voti recuperati da liste civiche direttamente o indirettamente riconducibili al Pd. Nelle regioni settentrionali stupisce però il risultato negativo dei due protagonisti della vita politica locale. Il Pdl con le proprie liste ufficiali ottiene circa il 13% dei voti, 15 punti in meno rispetto alle regionali del 2010. Pur tenendo conto delle difficoltà di valutazione complessiva del bacino del Pdl, simili a quelle del Pd, per la presenza di numerose liste civiche e di candidati di area che sottraggono voti alle liste ufficiali, non possiamo che registrare un calo senza precedenti. Discorso simile può essere fatto per la Lega Nord presente, anche nei comuni più piccoli, con il proprio simbolo: il partito di Bossi ottiene un risicato 10,9%


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La Lettura riportando perdite di oltre 11 punti. Dove vanno i voti in uscita dai principali partiti tradizionali? Non certamente verso il Terzo Polo e l’Udc, che non riescono ad attirare i consensi degli elettori delusi (di centro destra in primis) e rimangono sostanzialmente sui livelli delle ultime consultazioni. L’unica formazione che sembra in grado di catalizzare i flussi in uscita dai competitor è quella guidata da Beppe Grillo che oltre a conquistare Parma, Mira e Sarego, aumenta sensibilmente il proprio bacino elettorale. Nei 101 comuni italiani in cui si è presentato, il Movimento 5 Stelle ha conquistato complessivamente l’8,7%

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La Lettura con una forte caratterizzazione di tipo territoriale: all’11,7% ottenuto nel Nord, corrisponde una performance altrettanto positiva nelle cosiddette regioni rosse e un risultato molto più contenuto nel Sud. L’analisi dei flussi elettorali, utilizzando il metodo di Goodman, rafforza l’idea del Movimento 5 Stelle come l’unico partito in grado di intercettare gli elettori del Nord (e delle regioni rosse), delusi dai partiti tradizionali. Una formazione in grado quindi di raccogliere da una parte il voto di protesta di centro sinistra che si riconosceva non solo nell’Idv ma anche in un certo voto di appartenenza genericamente di sinistra (o Ulivista), dall’altra il consenso di ampie fette dell’elettorato leghista deluso dai propri rappresentanti. La questione settentrionale: gli scenari e i possibili interpreti Nell’interpretare i risultati delle recenti elezioni, molti commentatori spesso hanno fatto ricorso alla categoria dell’antipolitica, al distacco fra partiti e cittadini che ha favorito Grillo. Si tratta di una chiave di lettura condivisibile ma, a nostro avviso, parziale. I partiti politici infatti non godono di buona salute in nessun grande Paese europeo. La politica viene guardata con sospetto anche da gran parte degli elettori francesi, tedeschi, spagnoli e inglesi, con percentuali non dissimili da quelle italiane, come testimoniano le ultime ricerche Eurobarometro. Tuttavia, nelle grandi democrazie europee, la crisi delle forme tradizionali della politica, amplificata negli ultimi anni dall’andamento negativo dell’economia, dall’aumento della disoccupazione e dalla riduzione delle politiche redistributive, ha sì provocato avvicendamenti alla guida dei governi, ma non ha comportato profonde ristrutturazioni nell’offerta politica paragonabili a quelle avvenute in Italia dagli anni ’90 in poi. Se la crisi dei partiti e la sfiducia nei politici sono un male comune, la provvisorietà delle sigle politiche e la debolezza del radicamento sociale e territoriale costituiscono un’anomalia. E da questa diversa sorte dei partiti politici tradizionali dipende la fragilità tutta italiana dell’offerta politica e la conseguente volubilità degli orientamenti elettorali. Specie in elezioni ritenute non “decisive”, come sono quelle locali, partiti come quello di Grillo possono trarre vantaggio dal cavalcare il malessere dell’opinione pubblica. 14


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La Lettura Quali sono quindi gli scenari possibili? Come evolveranno le preferenze partitiche degli elettori settentrionali? Si potrebbe immaginare il ritorno in forza, per quanto improbabile, dei vecchi protagonisti. Sulla falsa riga di quanto avvenuto nel 2006, Lega Nord e Pdl potrebbero riuscire a riattivare il proprio elettorato e riportarsi su un livello di consensi simile a quello del passato più recente. Come già osservato, si tratta dello scenario meno realistico a causa, in particolare, della crisi economica che continua a mettere in discussione la capacità di governo della coalizione di centro destra. Si potrebbe immaginare la nascita di nuovi soggetti politici di centro destra capaci di riempire il vuoto lasciato da Pdl e Lega Nord: si tratta però di uno scenario che in questo momento sta affascinando troppi protagonisti, con un conseguente aumento dei rischi di insuccesso. Secondo molti sondaggi le prossime elezioni politiche dovrebbero incoronare il Movimento 5 Stelle, addirittura con percentuali sopra il 20%, come nuovo interprete della frattura centro-periferia. Si tratta di uno scenario possibile ma altamente improbabile, a causa della diversa “decisività” del voto nazionale e delle conseguenti diverse logiche che motivano le scelte di voto degli elettori. Quanto più la campagna elettorale si giocherà in termini di drammatizzazione della congiuntura economica internazionale, tanto meno gli elettori saranno tentati dalla carta del voto di protesta. Lo stesso clima di drammatizzazione, come avvenuto nel 1948, 1976, 1994 e 2006, potrebbe avere conseguenze negative anche sulla performance del centro sinistra. Dopo le recenti amministrative, sono in molti a ipotizzare un rafforzamento della coalizione, in quanto capace di catalizzare il consenso di elettori delusi e di attrarre voti anche in regioni tradizionalmente avverse. A nostro avviso, si tratta di una convinzione, che per molti versi ricorda il clima di opinione che si respirava nell’estate del 1993, a pochi mesi dall’esito infausto della “gioiosa macchina da guerra” guidata da Occhetto. Per una forza politica nazionale, che non può fare leva sulla frattura territoriale per conquistare gli elettori del Nord, la vera sfida sarà quindi riuscire a formulare una proposta credibile per il Paese, offrendo garanzie sulla capacità di governo (anche alle aree più sviluppate) e sulla tenuta della compagine stessa. Cosa fin qui non troppo ben riuscita al centro sinistra anche quando la congiuntura politica gli è stata favorevole. 15



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La Lettura

La Lega oltre i cliché Gianluca Passarelli

è ricercatore di ricerca presso la facoltà di Scienze Politiche, Università di Bologna

Dario Tuorto

è ricercatore presso la facoltà di Scienze della Formazione, Università di Bologna

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a Lega Nord è morta, que viva la Lega Nord! Nonostante la politica, e i partiti, come tutte le vicende sociali siano molto complesse, il partito di Bossi è stato sovente osservato e analizzato attraverso un atteggiamento che definire schizofrenico appare eufemistico. Purtroppo gli abbagli, gli ammiccamenti e le censure sono state sovente impressionistiche, congiunturali e non ben meditate né approfondite. Le semplificazioni, le visioni olografiche e rassicuranti sono durate quasi quanto l’esistenza del Carroccio e connesse, e si tratta di un’aggravante, alla cattiva comprensione di cosa fosse la «questione settentrionale» che della Lega è in qualche modo figlia. Le recenti vicende giudiziarie e politiche hanno potentemente enfatizzato gli aspetti contradditori, ma non hanno affatto scoraggiato affrettate analisi sulle sorti future del partito ex bossiano. Il de profundis del Carroccio è stato immediatamente evocato, confondendo però la mesta, prevedibile e inevitabile, uscita di scena del Senatur con la disgregazione, per ora presunta e rinviata, del partito. La sovrapposizione concettuale ha raggiunto l’acme nelle considerazioni di chi fa risalire la crisi del movimento con l’inizio della malattia di Bossi, cioè al 2004 quando sarebbe terminata la spinta propulsiva leghista. In realtà proprio dal 2005, e fino al 2011, il costante progresso elettorale è stato celebrato ma a volte incompreso. Qual è, dunque, alla luce degli eventi attuali, il futuro politico ed elettorale del partito nato ormai vent’anni fa? Partiamo da un dato, o meglio da una considerazione, ossia la spesso evocata «diversità» leghista. Che cosa si intende con questo termine? Bisogna 17


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La Lettura distinguere vari aspetti: quello elettorale, ideologico, organizzativo, etico. La commistione tra le varie dimensioni analitiche ha generato sovente confusione, fino a creare dei veri e propri ossimori concettuali. Il rischio è che il disordine si ripresenti, sotto le mentite spoglie della vicenda giudiziaria e umana della famiglia Bossi, e che sfugga perciò il cuore dell’analisi. Del resto la distorsione ottica su «cosa fosse la Lega» si ebbe già nel 2008, quando si teorizzò che l’exploit leghista alle elezioni politiche fosse dovuto al flusso di voti da sinistra solo perché qualche giornalista della porta accanto si affrettò a sentenziare che «siccome» il calo della sinistra era percentualmente pari alla crescita delle camicie verdi, «allora» non poteva che esserci stato un travaso di voti. E via tutti a declamare le virtù del leghismo di lotta che riesce a insediarsi nelle fabbriche mentre la sinistra sarebbe ormai solo presente nei salotti, il vetero padanismo alla conquista dei sindacati e della Cgil, degli operai orfani della rappresentanza storica dei movimenti progressisti. Quando si provava ad argomentare, magari con l’ausilio dei dati, che tale collasso di movimento da «sinistra verso la Lega Nord» in realtà non c’era stato o comunque non con dimensioni titaniche, anche i politici più accorti ammettevano una maggiore complessità della questione rimanendo intimamente convinti del contrario perché – come ammiccavano al collega politico seduto accanto dandogli di gomito – «conosco uno che è iscritto alla Fiom e ha votato Ln …». Fatica sprecata, il pregiudizio è più solido di un atomo, come direbbe Einstein. In realtà, a volere essere spietati, la Lega Nord aveva conquistato il cuore e il consenso di molti operai già prima del 2008, e poi non era più scontato (se mai lo fosse stato) che la classe operaia per andare in paradiso preferisse il traghetto del centrosinistra. By the way difendere gli operai delle fabbriche minacciati (si può scrivere?) dalla protervia patronale di Marchionne, che incidentalmente viola l’art. 3 della Costituzione escludendo lavoratori iscritti a un certo sindacato, NON implica condividere le posizioni della FIOM, ma avrebbe consentito di ri-avvicinare, almeno idealmente, la politica riformista alla società italiana. 18


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La Lettura La miopia sulla Lega cela in realtà un tabù ben più saldo e un velo di ipocrisia che avvolge da anni il Carroccio e che è difficile da squarciare. Solo alcuni autorevoli commentatori e qualche politico, ma senza continuità, hanno segnalato quanto però non è mai (ancora) diventato pensiero diffuso: la Lega Nord è un partito di estrema destra, xenofobo e razzista. Da qui la domanda che, forse, il Paese non vorrebbe porsi perché non pronto alla risposta sottesa: Come è stato possibile che la Lega Nord abbia governato l’Italia per quasi dieci anni negli ultimi diciotto? Il razzismo rubricato a boutade, la trasversale ammirazione per la franca (e sgrammaticata) vis verbale finanche a trattiinvidiata. Il biasimo per i modi grevi e le provocazioni salutate come folclore, mentre in molti casi si trattava di (incitazione alla) violenza, e in Francia o Germania molti esponenti leghisti sarebbero stati già condannati e/o arrestati proprio per le loro dichiarazioni en plein air. La Lega è stata al governo grazie a Berlusconi certo (e viceversa!), ma non solo. Oltre a una pudica paura di confessare che «questo è stato», e al martellante refrain dei media allineati, la favola della Lega quale movimento solo «sopra le righe» è stata reiterata e sbandierata in ragione della malcelata condiscendenza di parte dell’opposizione, della strumentale alleanza del centrodestra e della debolezza del ceto intellettuale e della borghesia. Nonché alimentata da una subdola e forse inconscia ammirazione per alcuni suoi tratti peculiari. Non ultimo l’assioma, e come tale mai dimostrato, che la Lega Nord altro non fosse che una costola della sinistra: una provocazione mai confermata, quasi una profezia e uno sconcio pio desiderio. Detto altrimenti, è stato sacrificato sull’altare della ragion di Stato di partiti, coalizioni e carriere personali, il livello di decenza che in altri contesti (vedi Chirac vs Le Pen) non è mai stato in pericolo, mentre anche le forze progressiste e riformiste in Italia hanno manifestato debolezza culturale e politica, altro che egemonia!

La favola della Lega quale movimento solo «sopra le righe» è stata reiterata e sbandierata in ragione della malcelata condiscendenza di parte dell’opposizione

Sul versante delle politiche l’innovazione apportata dalla Lega e da Bossi è stata certamente efficace. Praticamente tutti i partiti ripetono oggi come un mantra la necessità di riforme federaliste, salutate da strali e 19


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La Lettura accuse quando a teorizzarle era Gianfranco Miglio. La Lega è riuscita a mettere in agenda la «questione settentrionale» superando e sparigliando anni di politiche basate su un concetto accompagnato da riflessioni opposte: la questione meridionale. Alla scontata uscita di scena del partito diversi commentatori hanno pertanto accompagnato un’altrettanto ineludibile «rappresentanza Nord» orfana del suo primo imprenditore politico. Addirittura Luca Ricolfi ha ipotizzato un legame tra la «fine» della Lega Nord e l’abbandono delle posizioni oltranziste sul tema del federalismo, anche se così non si spiega la sopravvivenza di Forza Italia alle mancate liberalizzazioni o del Pci all’abbandono della via verso il «sol dell’avvenire». In ogni caso essere riuscita a inserire un tema, il federalismo, nell’agenda delle riforme, è un merito da ascrivere principalmente al lavorìo della classe dirigente leghista. Anche la «questione settentrionale» è stata un’occasione persa, per la politica italiana e anche per il PD, si parva licet. La politica riformista si è attestata su posizioni difensive, conformiste e timide. Viceversa sarebbe stato opportuno e meritevole rilanciare la questione «nazionale», avendo in mente il Paese come complesso sociale da sanare e salvare. Purtroppo antiche e mai sopite antipatie per il concetto di nazione e il timore di essere non à la page con lo spirito del tempo, hanno reso marginale e residuale l’attenzione per la vera tematica nazionale, la «questione meridionale». Se l’azione fosse stata costante ed empatica l’anniversario del 150° dell’Unità d’Italia sarebbe stata l’occasione per proporre il PD come vero e unico partito nazionale (alle politiche del 2008 il PD è risultato primo partito in molti centri medio-grandi del Nord-Est e finanche nel Veneto era dietro al Pdl di soli 25.000 voti, ma oggi del partito sul «territorio» si ha poca o punto traccia e si intravede un difficile dialogo non solo con i «ceti produttivi» ma addirittura con i pendolari dei treni...), mentre le «celebrazioni» – ipso facto – hanno lasciato in bocca un sapore da naftalina risorgimentale senza condivisione popolare, ma anzi acuito tanti localismi a nord e a sud. Rimanendo sul versante leghista, emerge 20


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La Lettura chiaramente quanto sia utile tenere distinti i vari aspetti della vita del partito. Solo così è possibile provare a (intra) vedere meglio quali siano le plausibili prospettive del partito fondato da Umberto Bossi. Ideologia, politiche, organizzazione e raccolta del consenso possono, come accennato, far riferimento a schemi e codici diversificati e persino contradditori senza che questo però rappresenti per forza un ibrido. A volte lo è solo nel pre-concetto di chi analizza. Un partito di estrema destra, può avere un’organizzazione solida, diffusa, personale spesso competente e militanti attivi e legati all’organizzazione da vincoli volontaristici e incentivi collettivi. I due aspetti non sono mutuamente esclusivi anche se la predilezione per le dicotomie, a volte truci, e l’ostilità per gli approfondimenti è un segno dei tempi. Grami. La giusta attenzione alle squallide vicende di uso del denaro pubblico a fini personali da parte di alcuni esponenti leghisti rischia di oscurare le potenzialità del partito. Che serba molte risorse. Non solo per la persistente «questione settentrionale» – o meglio per la sperequazione tra Nord e Sud –, che si ri-candida a rappresentare, ma anche per le caratteristiche politiche e organizzative. Iscritti altamente fidelizzati, organizzazione efficiente e rilancio di tematiche quanto mai attuali: immigrazione, sicurezza e soprattutto lavoro. A una prima lettura, il terremoto che ha investito la cerchia di Bossi e lo stesso capo non sembra derivare direttamente da un indebolimento della presenza leghista sul territorio, da un appannamento delle ragioni che ne hanno promosso la ripresa durante gli ultimi anni. Per quanto dirompente, lo scandalo interno al partito si pone su un piano squisitamente politico, è destinato sicuramente a scompaginare la configurazione del suo apparato e a provocare più di un mal di pancia a iscritti e fedelissimi, turbati nel ritrovarsi a combattere contro la casta di casa loro. Non s’intravedono invece, con la stessa nettezza, ragioni oggettive tali da mettere in discussione la funzione sociale sin qui esercitata dalla Lega, riflesso o conseguenza di questa crisi politica. Si potrebbe osservare come lo spostamento 21


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La Lettura all’opposizione seguito all’insediamento del governo Monti abbia consentito al partito di riposizionarsi come attore politico in grado di interpretare in modo radicalmente altro le istanze dei ceti sociali investiti dalla crisi. Lontano dai banchi del governo non è stato difficile per la Lega ritrovare il monopolio (certo politico, non sociale) della contestazione alle riforme economiche. Fuori dalle secche del governo Berlusconi e contro la «soluzione dall’alto» prospettata dal governo dei tecnici. Neolaburismo e preferenza per i lavoratori nazionali, difesa dei diritti acquisiti e lotta contro le nuove tasse, contro un riformismo iniquo. Questo repertorio, vecchio ma efficace, non viene scalfito dalla crisi interna alla classe dirigente leghista. E non è da escludere che la stessa dissonanza cognitiva, potenzialmente lacerante per i militanti divisi tra una rappresentazione gloriosa e una assai meno nobile del loro partito, venga sorprendentemente digerita. I militanti, la cerchia più solida e originale del partito. Più che manifestare spinte centrifughe, nei primi giorni successivi allo scandalo si sono mossi come un corpo unico, compattamente fedele, pronti a sostenere il partito, innanzitutto e nonostante tutto. Scossi dall’appannamento del loro leader, ma anche determinati nel chiedere pulizia e rinnovamento. D’altro canto, il disvelamento del mito del capo non è più un tabù anche per la Lega. Basti ricordare che, solo qualche mese fa, la retromarcia clamorosa sul caso Maroni aveva già fatto intravedere elementi di laicismo, corredo indispensabile per la sopravvivenza nell’era del dopo Bossi. Lo stesso banco di prova delle elezioni amministrative ha riservato in questo senso alcune sorprese. Il risultato negativo è stato certamente il cuore della prestazione leghista. Ma la vicenda di Verona, con l’abile azione di Tosi, e l’analisi del voto a livello territoriale forniscono informazioni interessanti. A fronte di una perdita di circa 2/3 del proprio elettorato (in valore assoluto!) degli anni 2007, 2008, 2009 e 2010, la Lega perde solo il 25% nei centri con meno di 15.000 abitanti. Questa fase potrebbe cioè rappresentare un momento di arroccamento per ripartire proprio dai luoghi di storico insediamento. Nonché l’orgoglio dell’altra Lega che si autorappresenta diversa dal suo apparato centrale. Una 22


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La Lettura prova di autonomia e protagonismo degli amministratori locali che rispondono con la politica dei fatti alla crisi morale della loro classe dirigente. Il PD può insinuarsi in questa frattura, una vera e propria faglia tellurica, ma è necessaria un’azione al tempo stesso rapida, per rispondere a eventi congiunturali, ma anche di lungo periodo per recuperare credibilità. Anziché ritrarsi e aspettare un’alleanza “centrista” elettoralmente incompresa. Il Nord è oggi una prateria elettorale, con il PdL in rotta, la Lega in fase di ri-organizzazione e la montante protesta. O meglio richiesta di nuova politica. Il PD può ripartire da Milano, Genova, Bologna, ma deve fronteggiare anche le sacrosante richieste provenienti dai cittadini impegnati in politica, come nel caso del Movimento 5 stelle. Troppo frettolosamente derubricato ad antipolitica demagogica, come avvenne nel caso del Carroccio nel 1992. Meditiamo. Intanto il futuro della Lega Nord appare dunque lapalissianamente connesso alla sua natura che ne influenza vizi e virtù, potenzialità e limiti. Evitare le dicotomie, gli assiomi, non mitizzare il partito «sul territorio», «vicino ai cittadini» e il giorno dopo denigrarlo, saltando a piè pari l’esperienza di governo. Si tratta di un partito carismatico (non anche patrimoniale o personale come Forza Italia) ed era difficile che una forza politica tale riuscisse a istituzionalizzarsi, a succedere cioè al proprio fondatore/padre nobile/capo. In realtà nella Lega Nord il processo di transizione della classe dirigente era iniziato da tempo. L’affaire Belsito lo ha fatto esplodere. La presenza di fratture, fazioni e correnti ci ricorda che la politica non è un «beauty contest». È crudele. Uno scontro di persone che lottano per il potere. Forse non è stato sottolineato abbastanza quanto rilevante sia quello che è accaduto nella LN in quanto organizzazione: il partito, di natura carismatica, come Forza Italia-PDL, ma senza aggravante padronale, si è istituzionalizzato. E i casi del genere sono al mondo poche unità. È stato cioè in grado, grazie all’abilità di Maroni (e alla debolezza fisica e politica di Bossi), a condurre in porto una transizione «democratica», a sostituire la leadership, a rinnovare i quadri dirigenti e, per ora il messaggio. Ma anche a condizionare, come con la «Bicamerale D’Alema» il dibattito sulle riforme 23


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Forse non è stato sottolineato abbastanza quanto rilevante sia quello che è accaduto nella LN in quanto organizzazione: il partito, di natura carismatica, come Forza Italia-PDL, ma senza aggravante padronale, si è istituzionalizzato

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istituzionali. La Lega sta cambiando pelle, ma la sua azione nel sistema politico potrebbe ancora essere rilevante se il nuovo imprenditore politico, Maroni, ne raccogliesse e rilanciasse in tempi brevi le molte potenzialità. Del resto lo spazio per una Lega Nord stile neo-DC del Nord che ne rappresenti le istanze è ancora disponibile, anche se permangono rischi di divisioni, di fratture promosse da gruppi ortodossi e oltranzisti. Vedremo.


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Travaglio e prospettive della Lega Marco Alfieri

è giornalista della Stampa

C

‘ è un futuro per la Lega Nord? Dopo Umberto Bossi ci può essere una seconda stagione padana? Con tutto l’impegno che ci mette l’ex delfino Roberto Maroni ci sono almeno due fattori che remano contro: uno è di sistema e investe il nord Italia; l’altro è interno a quel che resta del Carroccio. In termini “macro” siamo al capolinea di un lungo ciclo politico: quello del forzaleghismo. Bossi più Berlusconi e l’egemonia del nord. Una stagione politica che ha monopolizzato la parola “territorio”, calamitando a destra imprenditori e lavoratori insieme. E poi agricoltori, artigiani, operai, pensionati. Un movimento interclassista che per anni ha maneggiato senza rivali le parole della politica: sicurezza, impresa, infrastrutture, immigrazione, crisi, tasse, federalismo. Dopo il biennio tragico di Mani Pulite lo sviluppo locale è stata la via italiana alla modernizzazione del Paese. Anche se il mitico “territorio”, dopo vent’anni di boom mediatico, deve fare i conti con un bilancio piuttosto scarno. Il piatto piange. A pagare il conto sono anzitutto gli attori politici che ne hanno fatto una bandiera: in primis la Lega che 25


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La Lettura nel 1992 aveva certificato la morte della Prima Repubblica. Spostando il baricentro del Paese dal centro alla periferia. Per capire la zeppa che ha davanti Maroni occorre fare un passo indietro. In principio fu il triangolo industriale Milano-Torino-Genova. Per quasi trent’anni teatro del miracolo economico italiano. Vi emigrava chi voleva lavorare in fabbrica, alla catena di montaggio Fiat e Pirelli ma anche negli uffici della Olivetti. Nord Ovest e grande impresa manifatturiera, sindacati e partiti di massa, paesaggio urbano fordista e le grandi famiglie del capitalismo raccolte nel salotto della Mediobanca di Enrico Cuccia. Con la fine degli anni Settanta e la crisi/ristrutturazione delle grandi imprese private e pubbliche il paese “scopre” la Terza Italia dell’impresa diffusa lungo la dorsale nordestinaemiliana-adriatica. Inizia il ciclo dei distretti industriali a cui si deve la gran parte della presenza italiana sui mercati internazionali. Poi, dopo Tangentopoli, i sistemi di sviluppo locale si riattiveranno in chiave localista accompagnando l’esplosione elettorale della Lega di Bossi. Nasce mediaticamente la Padania a trazione lombardoveneta. Passa ancora qualche anno e il forzaleghismo diventa talmente egemone da esondare dalla Pedemontana al Piemonte e alla bassa Lombarda, veicolando la lettura di un unico grande Nord integrato politicamente a destra e, sul terreno economico, egemonizzato dal modello della piccola media impresa, dal protagonismo delle fondazioni di territorio e dalla rete delle Camere di commercio. Dopo il 2007 il vento del Nord scende addirittura sulla via Emilia, fino ad allora espulsa dal perimetro padano. Gli analisti parleranno di “leghizzazione” del centro Italia. Sembra l’abbrivio di una egemonia destinata a pesare sugli assetti di potere della galassia del Nord. Penetrando dietro le baionette leghiste i consigli di amministrazione di banche e fondazioni, fiere, aeroporti e assicurazioni che contano con una nuova classe dirigente diffusa, pescata dal territorio e decisa a prendersi il suo spazio. Bene, con la crisi mondiale tutto cambia alla radice con una velocità mai vista prima. Il paradigma del “Piccolo e bello” mostra la corda nella nuova economia globale. Al nord prima ancora che al sud. Al pari di una stagione forzaleghista che per anni è parsa essere la casa politica e il modello di un intero territorio che andava a letto la sera 26


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La Lettura sognando il federalismo. Insieme alla risacca arrivano i nodi al pettine: bassa crescita e non riforme che oggi ci espongono alla speculazione sono infatti il riflesso del fallimento della Seconda Repubblica, morta delle troppe promesse mancate di chi ha preso in mano un paese uscito dall’abisso del 9293, doveva riformarlo per tenerlo al passo della globalizzazione, invece lo ha ricacciato nel baratro, costringendo i tecnici a tornare in campo. Un’altra volta. Lo dicono i numeri. Se compariamo 20 anni dopo i principali indicatori del sistema paese (debito, spesa pubblica, Pil, redditi, evasione, pressione fiscale, produttività, Borsa, dualismo nord-sud e commercio mondiale) scopriamo che l’Italia del 2011 ereditata dal governo Monti è messa uguale, se non peggio, al terribile 1993, quando nasce in emergenza la Seconda Repubblica e, da Maastricht, comincia il lungo viaggio verso la moneta unica. È di questo che è morto il forzaleghismo: delle troppe promesse mancate. Gli scandali del premier, il Rubygate, la malattia di Bossi, il familismo di Gemonio e gli intrallazzi di Belsito sono solo il degno corollario. I primi a saperlo sono gli elettori del nord. La mitica base dei produttori non la beve più. Quando si governano due grandi regioni come la Lega, quasi 400 comuni e una dozzina di province, sbraitare contro Monti può servire a rifarsi una verginità ma non risolve la vera urgenza: traghettare il sistema produttivo, il cuore dell’elettorato padano, fuori della crisi. La gente vuole risposte concrete sui ritardi di pagamento, le banche che non danno fidi, la disoccupazione, le crisi industriali, i tagli ai comuni. E che fa il Carroccio? Organizza manifestazioni No Imu ma il giorno dopo, archiviata la propaganda, i suoi sindaci alzano come tutti le addizionali. Il focus è l’economia, non la demagogia. Vale lo stesso per il federalismo, la specialità della casa: oggi si assiste ad una potente ri-centralizzazione delle scelte. Purtroppo l’autonomia e il decentramento non sembrano in cima alle priorità dei tecnici alle prese con lo spread. Ma le colpe non nascono con Monti. Ad una discreta legge delega sul federalismo varata dal governo Berlusconi nel 2009 ha fatto seguito una serie di misure di attuazione pilotate dal tandem Tremonti-Calderoli francamente deludenti. Il senso del federalismo fiscale consiste nella

Insieme alla risacca arrivano i nodi al pettine: bassa crescita e non riforme che oggi ci espongono alla speculazione sono infatti il riflesso del fallimento della Seconda Repubblica

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La Lettura trasformazione delle risorse trasferite agli enti locali in una compartecipazione ai tributi e in autonomia impositiva. Peccato che i tagli delle ultime due finanziarie del centrodestra a valere sul 2011-2014, pari al 40% delle risorse 2010, abbiano prosciugato il “tesoretto” dei trasferimenti fiscalizzabili. Peggio. Secondo i calcoli dell’Anci, dal 2001 al 2011 la spesa dello Stato è addirittura aumentata di 300 miliardi mentre se ne sono spostati 100 dai territori verso Roma. Dov’era in quei mesi la Lega, al netto di un federalismo a parole? La caduta del consenso, ma soprattutto l’ipoteca su un possibile rilancio futuro, si spiega anche così. Qualcuno in questi mesi già lo chiama “grilleghismo”: il travaso dall’ex partito sindacato di territorio, infarinatosi al mulino romano, al M5S. A fidarsi del movimento di Grillo, secondo i sondaggi, sarebbero soprattutto “uomini di età 25-44 anni, di professione impiegati, imprenditori, liberi professionisti e disoccupati”, insomma tipico ceto medio leghista. Quanto ai temi, sarebbe proprio la protesta “anti casta” e “anti partiti” il segreto del successo a 5 Stelle. Parole d’ordine simili a quando il Carroccio nacque 25 anni fa. Solo che nel mazzo da scartare questa volta è finita anche la Lega in discredito. Il mutato contesto di sistema al nord sotto la sferza della crisi, ossia il primo ostacolo che gioca contro al rilancio maroniano, si abbina poi ad un secondo nodo, quello interno al partito. Riassumibile in una domanda: ci può essere un leader unitario dopo Bossi, dentro un movimento nato come formazione tribale, con uno sciamano alla guida, protagonista di un’ascesa formidabile grazie a questo tratto? In realtà, dopo la malattia del Senatùr, sembrava che il Carroccio stesse evolvendo in qualcosa di più tradizionale. Si pensava avesse raggiunto una sua governance corale, un consiglio di tribù capace di affiancarsi allo sciamano malato. Con un primus inter pares, Maroni, a cui spettava naturalmente il passaggio del testimone. Era il profilo adatto: neutrale, leghista dialogante, buon amministratore. Maroni incarna la continuità dei valori leghisti da istituzionalizzare in partito, grazie al passaggio di consegne con il capo tribù. Questo schema si è però complicato con gli scandali, che hanno lesionato fortemente l’identità e il marchio del Carroccio: fine della diversità antropologica del partito dalle “mani pulite”. Il cuore coraggioso, mitologico, del leghismo, si è 28


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La Lettura smarrito definitivamente, bruciando la naturale staffetta Bossi-Maroni. A questo punto il neo segretario potrà davvero diventare il leader autentico della Lega solo cambiando schema di gioco, differenziandosi fortemente dal presepe esistente. Non potrà più tenere unita la Lega nella continuità con Bossi, dovrà entrarci in collisione. Meno democristiano e più rivoluzionario, per rigenerare il partito e dargli una seconda identità, tanto più quanto il Senatùr gli farà la fronda. Ne avrà il coraggio? Difficile. L’alternativa, nel medio termine, è di ereditare solo un feudo post leghista, con il partito che si frammenta in lighe, leghe, ex bossiani dissidenti e territori in conflitto. In molti gioiscono della rotta leghista. Ma il problema vero è che “il declino del territorio come base del governo, della rappresentanza e dell’identità politica”, si sta consumando senza che emergano altre soluzioni. Altri riferimenti. Senza che lo Stato e la politica “nazionale” abbiano assunto maggiore autorevolezza, al di là della tecnocrazia indispensabile ma emergenziale incarnata da Mario Monti. Di più. “Senza che l’opacità del progetto federalista sia compensata da un progetto abbozzato, se non definito, di riforma dello Stato e del governo.” Il risultato è che un’intera agenda resta inevasa, vent’anni dopo. Per dire: lo spaesamento dei piccoli della vallate pedemontane che la Lega degli inizi quotò al mercato della politica, riecheggiano nella crisi dei piccoli comuni di oggi; gli orfani del fordismo di allora, artigiani e Pmi vessati da fisco e burocrazia, in questi mesi si sono trasformati nei drammatici suicidi di imprenditori e nella crisi del capitalismo molecolare. E ancora. Il debito pubblico abnorme causato nella vulgata leghista da “Roma ladrona”, richiama da vicino il quasi default di oggi, senza che il federalismo sia arrivato a bersaglio. In una parola: la questione settentrionale monopolizzata dal leghismo, certo mutata di segno (dalle originarie pulsioni anti stataliste dei ceti del nord fino al più recente spaesamento per la modernizzazione incompiuta, la paura dell’invasione cinese e la protezione della “roba”), resta sul tavolo. Anzi con la crisi riemergono profili e interessi diversi. Il debito pubblico, la globalizzazione, la trasformazione dei distretti produttivi, per anni sigillati sotto il manto Lega-Pdl,

Il debito pubblico abnorme causato nella vulgata leghista da “Roma ladrona”, richiama da vicino il quasi default di oggi

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La Lettura stanno stressando i territori. Anche il dualismo nord-sud rischia di esplodere. Paradossalmente Bossi e Berlusconi, certo in un mix simbolico di populismo e liberismo, hanno tenuto insieme il quadro. Per anni hanno ottenuto consensi oceanici sopra il Po, e quando i rapporti di forza si spostavano, avveniva solo dentro al centrodestra. Ora quello schema è finito. Sia che Maroni corra da solo con la sua Lega sia che nel 2013 torni all’ovile del centrodestra, la stagione d’oro non tornerà. Domanda fatidica: chi sarà in grado di sostituirsi e di dare rappresentanza al nord?

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L'Italia in sé e per sé passa per Milano e Roma Walter Tocci è deputato del Pd

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sempre utile tornare a riflettere sulla relazione tra Roma e Milano per comprendere presente e futuro del nostro paese. La globalizzazione non solo non archivia il vecchio dualismo nazionale, ma per certi versi ne illumina aspetti prima nascosti. Le due città, diceva Prezzolini, sono come due annotazioni sul passaporto spirituale degli italiani, due caratteri irriducibili e non di meno entrambi indispensabili per definire la fisionomia italiana. Tutto ciò è la conseguenza dell'eccentricità o meglio della mancata centralità di Roma, una capitale anomala che non è mai riuscita a rappresentare da sola l'intero carattere nazionale, come invece hanno saputo fare, ad esempio, Londra o Parigi. Dopo aver accolto gli immigrati meridionali per oltre un secolo è riuscita almeno a rappresentare l'Italia del centro-sud, senza mai introiettare però la mentalità lombarda. Questa, d'altro canto, si è fatta rappresentare per l'intera Seconda Repubblica dall'unilateralità leghista, rinunciando all'ambizione del primato morale sulla sensibilità nazionale, come invece ha avuto dalla fine dell'Ottocento, quando, in seguito alle delusioni del mito risorgimentale per la Terza Roma e alla rivoluzione industriale settentrionale, comincia il dualismo spirituale tra le due città. Questa abdicazione milanese nel passaggio di secolo ha lasciato a Roma per la prima volta la possibilità di rappresentare lo spirito di coesione nazionale. Le amministrazioni capitoline di centro-sinistra riuscirono a cogliere l'occasione dando l'impressione che davvero potesse diventare la vera capitale per i meriti contemporanei e non solo in virtù delle glorie antiche. Il successo del Grande Giubileo costruì un'immagine 31


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La Lettura inedita, riconquistò la fiducia degli italiani e il prestigio internazionale. La grande narrazione veltroniana propose al Paese un Modello Roma di governo mite e solidale che sembrò un buon ritiro di serenità rispetto alle spacconate leghiste e forzaitaliote. Poi la sconfitta del 2008 rivelò la fragilità dell'illusione e improvvisamente emersero gli istinti del vecchio plebeismo romano che trovarono immediata rappresentazione nella destra postfascista. L'inadeguatezza del sindaco Alemanno ha riportato indietro le lancette verso la città burocratica e clientelare. Oltre tutto per pagare i debiti delle sue follie, come un questuante ha ottenuto da Tremonti finanziamenti speciali alle spalle degli altri comuni, riaprendo così un conflitto tra gli interessi romani e quelli del paese. Il centro-sinistra che vincerà le prossime elezioni avrà non solo da risanare l'amministrazione cittadina ma dovrà ricostituire una credibilità nazionale della capitale. Con la fine del leghismo è possibile aprire un discorso nuovo tra il settentrione e il paese. Le parole “lombardo” e “ambrosiano” perdono il significato aggressivo di questi anni per tornare ad indicare risorse preziose dell'italianità. Di colpo è cambiato anche lo stile dei politici lombardi: da Bossi e Berlusconi a Pisapia e Monti la sobrietà e la responsabilità sono tornate come virtù che parlano al Paese. È possibile che Roma e Milano convergano nell'interesse nazionale. I loro caratteri irriducibili potranno ancora distinguere il passaporto italiano se non saranno rivolti al passato e, anzi, se verranno rielaborati nel nuovo mondo. Da sempre essi sono rappresentati da paradigmi opposti, uno orizzontale e l'altro verticale. Mediolanum è la città di mezzo, anche etimologicamente, che mette in relazione i territori, le culture e le economie. Non ha mai comandato sul contado, ma ha saputo alimentarsi della sua linfa restituendo i frutti della civiltà urbana. Non è mai rimasta chiusa nei confini nazionali, ma ha sempre cercato le strade del mondo. Al contrario, la Città Eterna ha rappresentato sempre il potere che agisce dall'alto e in virtù di questa memoria storica ha realizzato la centralizzazione statale, lasciando ai suoi codici simbolici di mantenere i rapporti col mondo. Intorno a sé ha creato il vuoto, prima con l'inerzia dello Stato pontificio e poi con lo sprawl immobiliare. Si confrontano due modelli: la relazione regione-mondo e il

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La Lettura potere città-Stato. La rete e l'obelisco ne costituiscono i simboli e lasciano tracce peculiari nelle rispettive immagini urbane. Non a caso il monumento di Milano è la fabbrica del Duomo come frutto di una comunità operosa. Mentre Roma, solo nell'unica riforma urbanistica della sua storia è stata pensata come una rete, ma delimitando i grandi assi sistini con l'obelisco per indicare ai pellegrini la direzione del cammino e l'innalzamento del potere. Tutto ciò appartiene ai geni delle due città, ma in futuro dovranno imparare qualcosa l'una dall'altra. Milano deve diventare un po' obelisco per aiutare l'economia dei distretti a percorrere le vie del mondo, perché essi non ce la fanno più solo con le proprie gambe e hanno bisogno di una leadership che li sostenga con i servizi del terziario avanzato e con i saperi contemporanei. E poi è anche nel suo interesse porsi di nuovo il problema dell'unità nazionale, in modo diverso dal passato, collocando la questione meridionale all'interno della politica euromediterranea. Molto può fare il rigore ambrosiano per convincere i tedeschi che al sud non ci sono solo dei perdigiorno, ma esistono le potenzialità per una nuova fase di crescita civile ed economica, come ha già capito la Camera di Commercio. Se la politica europea sarà generosa con le nuove democrazie nordafricane, più di quanto sia stata con i tiranni, raccoglierà molti frutti della cooperazione mediterranea. Se l'Expo risolvesse i problemi gestionali e si dedicasse davvero al tema del Nutrire il pianeta sarebbe la grande occasione di Milano per affermarsi come capitale della cooperazione internazionale, proprio come riuscì con le grandi Esposizioni di fine Ottocento a creare il mito della capitale morale. La vera discontinuità è da individuare nella politica territoriale. Non è più solo una città, ma una vera macroregione che distende le sue funzioni in un territorio amorfo, diradato e non strutturato. La città infinita, come è stata chiamata dai suoi apologeti, è una galassia di villette, capannoni e svincoli stradali che costituisce oggi uno dei più preoccupanti casi di sprawl in Europa. Le classi dirigenti si sono consolate descrivendo come sindrome di Nimby gli ostacoli insormontabili che si pongono alla realizzazione di qualsiasi nuova opera, ma la causa è invece nella sciagurata saturazione a bassa densità che ha compromesso troppo territorio rispetto a quanto sarebbe stato 33


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L'aeroporto di Malpensa non è degno di una grande capitale europea; l'alta velocità ha rincorso i deboli flussi del corridoio Lisbona-Kiev, trascurando le strategiche connessioni della logistica nella direzione del Sempione e del Gottardo

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necessario per le funzioni insediate. Si sarebbe dovuto condensare e strutturare questa conurbazione e invece l'establishment ambrosiano ha mancato le occasioni più importanti degli ultimi trenta anni. L'aeroporto di Malpensa non è degno di una grande capitale europea; l'alta velocità ha rincorso i deboli flussi del corridoio Lisbona-Kiev, trascurando le strategiche connessioni della logistica nella direzione del Sempione e del Gottardo verso l'area tedesca e l'asse verticale europeo molto più utile per l'Italia, come risulta anche da uno sguardo superficiale alla carta geografica; la nuova Fiera è un'astronave chiusa, mentre doveva essere un nodo strutturante del territorio e un vero gate-way dell'economia dei distretti. Nel cattivo rapporto con lo spazio si è consumata la più grave perdita dell'antropologia ambrosiana. La comunità operosa conosceva il lavoro che riverbera il bello, la produzione che migliora l'habitat, l'attività che prepara il benessere sociale. Di queste antiche virtù Milano avrebbe ancora più bisogno di ieri per competere nell'economia immateriale. Dovrebbe riconciliare innanzitutto la funzione con il senso, senza che la forza della prima finisca per oscurare il secondo. La capitale morale oggi è in sé, ma non per sé. Alla sua potenza di trasformazione non corrisponde un potere capace di regolare gli esiti del cambiamento. Se ne hanno tante conferme: con la privatizzazione gli istituti di credito hanno raccolto la sfida del modello anglosassone, smarrendo però la specializzazione e il radicamento territoriale che oggi sarebbero utili per uscire dalla crisi; il sistema universitario costituisce ormai un pivot delle reti lunghe della conoscenza, ma è molto difficile trasferire i suoi risultati di ricerca alle piccole imprese; la trasformazione dall'industria al terziario avanzato è ormai compiuta, ma è diventata la città più diseguale nella distribuzione della ricchezza, perdendo la capacità di ibridazione sociale che ha saputo esprimere per secoli e da ultimo mirabilmente col miracolo economico. Nella vittoria di Pisapia un anno fa, oltre alle contingenze politiche, si era forse fatta sentire per la prima volta questa volontà di tornare a curare il per sé della città, dopo il lungo soliloquio dell'in sé. Il problema di Roma è opposto. Il suo per sé è fin troppo sviluppato e in alcuni momenti della storia oltre tutto è degenerato nelle difese corporative, nella dissipazione di risorse e nel centralismo burocratico. Manca invece l'in sé come capacità del contemporaneo di produrre un senso all'altezza del


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La Lettura patrimonio ricevuto in eredità e anzi, in senso davvero latino, di accrescerlo per i posteri. A tale scopo, il percorso che deve compiere la capitale va proprio nella direzione contraria di quello indicato sopra per Milano. Deve cioè allontanarsi sempre più dall'obelisco per dirigersi verso le reti locali e globali, deve pensarsi sempre meno nell'angusto binomio città-Stato e aprirsi alla relazione regione-mondo. Anche il buongoverno del centro-sinistra ha avuto l'illusione di governare la città entro il raccordo anulare, senza porsi il problema di rafforzare e qualificare l'area regionale e di allargare le reti funzionali all'intera Italia centrale, come hanno saputo fare Monaco con la Baviera e Barcellona con la Catalogna. Nel contempo la relazione col mondo non può più essere affidata solo ai simboli della storia, ma deve trovare alimento nel moderno saper fare dei cittadini, delle imprese e delle istituzioni. Si tratta di di reincarnare i simboli nell'in sé del contemporaneo. Se nel compiere questi due cammini opposti Roma e Milano si incontreranno in una terra di mezzo ne verrà un grande beneficio all'intero paese. Dalla dialettica in sé e per sé, anche se la sintesi hegeliana non è mai definitiva, può almeno emergere un'Italia più consapevole del proprio destino.

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Dove va il nord dopo la Lega Giuseppe Galasso

è professore emerito di Storia Medievale e Moderna all’Università Federico II di Napoli

L

a domanda che subito, in maniera molto sintetica, ma anche sostanziale ed esauriente, è più o meno questa: la Lega Nord è finita? È cessata per essa la possibilità di avere nel gioco politico italiano la parte, così rilevante che ha avuto negli ultimi venti o venticinque anni? È quel che sembrano credere in molti. E lo pensano, naturalmente, nella scia degli scandali che hanno posto fina alla monarchia di Umberto Bossi sulla stessa Lega, e nella scia, altresì, dei risultati delle ultime elezioni amministrative, che ne hanno visto talora più che dimezzarsi le percentuali che la Lega costantemente confermava, frazioni in più, frazioni in meno, a ogni turno elettorale. Se è così, bisognerebbe ampiamente tornare e ritornare su questo giudizio negativo. Un tale giudizio comporta, infatti, a nostro avviso, una frettolosa sottovalutazione sia del radicamento territoriale della Lega, sia delle ragioni di fondo che nel corso degli anni ne hanno determinato o favorito il successo, sia, infine, della reale condizione morale e materiale del Nord. Un triplice errore, dunque, di cui il terzo appare a noi ancora più grave dei primi due. Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, la Lega conserva integro tutto il suo apparato territoriale di organizzazione politica: associazioni, sezioni, federazioni, direzioni, segreterie e quant’altro. Conserva tutte le organizzazioni e presenze collaterali di cui nel corso degli anni si è dotata, anche finanziariamente non deve essere affatto in difficoltà o in affanno, visto e considerato che si è proclamata pronta offrire un milione di euro per le popolazioni emiliane colpite dal recente sisma. Non ha intorno a sé – è vero, ed è evidente – un alone o una

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La Lettura corona di presenze e proiezioni culturali di qualche rilievo, e ciò induce legittimamente a ritenere che quando i capi leghisti parlano di progetti politici, istituzionali, economici, sociali, lo facciano, come accadeva con Bossi, soprattutto sulla base delle loro intuizioni, visioni e finalità politiche. Un limite, certamente, ma già per la Lega è stato sempre così, e, poi, questo non ha mai impedito a nessuno di organizzare e realizzare azioni politiche anche di forte rilievo, e specialmente quando lo si è fatto sulla base di intuizioni politiche particolarmente fondate, quali sono state quelle di Bossi all’inizio della sua attività. In secondo luogo, sempre a provare di guardare un po’ più a fondo delle impressioni e delle emozioni del giorno, nulla ci autorizza a credere che mentalità, interessi, pregiudizi, esigenze, orientamenti morali e basi mater ali dell’elettorato che finora ha dato il suo sostegno alla Lega siano spenti radicalmente mutati. Certo, la sorpresa per gli scandali intorno a Bossi e per altri vistosi fenomeni analoghi a varii livelli del mondo leghista, ivi compreso il vertice delle istituzioni lombarde, c’è stata, ed è stata tanto più profonda quanto meno prevista. E altrettanto certo appare che gli effetti negativi non siano destinati a spegnersene facilmente e rapidamente, e, tanto meno, totalmente. Tuttavia, già il processo di riorganizzazione avviato con Maroni, il completo cambio della maggiore dirigenza interna che vi sembra associato, e una serie di altri elementi, fra i quali primeggia la sostanziale compattezza mostrato dal maggiore notabilato leghista intorno al nuovo segretario, sembrano indicare che aspettarsi un crollo, per dir così strutturale della base del patrimonio politico accumulato dalla Lega in tanti anni è alquanto irrealistico. In terzo luogo, come sta oggi il Nord? Fino a ieri, lo sfondo sul quale si muoveva la Lega era quello di un Nord baldanzoso e fiducioso nella sua profonda convinzione di costituire un’area avanzata d’Italia e d’Europa, in buone o più che tollerabili condizioni di salute economica e sociale, vanto del paese e sua punta di lancia oltre le Alpi, anche se afflitto da un supposto, pesante taglieggiamento del mondo politico romano, ossia dal governo e dell’amministrazione centrale dello Stato, sia a vantaggio di un Mezzogiorno inetto e parassitario, ancor più corrotto del mondo romano, sia vantaggio di questo mondo. Oggi non è più così. Il morso della crisi globale e gli effetti della politica di risanamento e di riforma che essa ha reso necessaria si sono fatti pesantemente 37


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La Lettura sentire e hanno alquanto spento o attutito orgogli e certezze, senza, però, far venire meno né il risentimento antiromano e antimeridionale, né la convinzione di essere diversi e migliori rispetto alla restante Italia e di ritrovarsi troppo sacrificati e stretti nel quadro italiano. Da quanto precede sono possibili alcune deduzioni. La prima è che è presto per cantare con sufficiente probabilità di non sbagliare clamorosamente il De profundis per la Lega. A meno che non si verifichino eventi oggi poco verosimili (come, ad esempio, una scissione del genere di quella che alcuni ipotizzano da parte di Bossi, che respingerebbe così nel modo più evidente una reale accettazione del suo passaggio nelle seconde o terze file del partito da lui creato dal nulla), la Lega rimarrà sulla scena come una espressione per nulla trascurabile del mondo politico e sociale delle regioni in cui ha avuto maggiore fortuna (e c’è perfino chi pensa che una scissione ne faciliterebbe il mantenimento complessivo dei suffragi, benché in ordine più sparso. Un’altra deduzione è, però, subito che fino ad oggi tutti i

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La Lettura discorsi politici sul Nord facevano perno sulla Lega e ne vedevano in essa il punto di riferimento centrale, ma oggi questo punto di riferimento va cercato altrove. Dove? La risposta non è facile. Anzi, non è neppure sicura. Un punto di riferimento centrale c’è? A parere di molti, proprio l’area più avanzata del paese ne sarebbe oggi la meno strutturata e strutturabile dal punto di vista della sua reale fisionomia politica. non senza qualche ragione, se ne vede un indizio sicuro nel successo che proprio in gran parte del Nord ha conseguito il movimento di Grillo, che al Sud si è, invece, rivelato finora alquanto meno dinamico e proiettivo. Questo successo – si dice – è il segno evidente che siamo di fronte a un disorientamento profondo, alla manifestazione dell’esigenza profonda di individuare e seguire una strada diversa da quelle del passato. È nell’intercettare questo disorientamento che consiste il primo e maggiore compito e problema di chi deve affrontare i problemi di orientamento e di guida politica nel Nord. Svanito o attenuato, in materia, il riferimento alla Lega, è giudizio generale che un ben più grave problema, anzi il problema dei problemi sia costituito dalla crisi economica in atto, nonché nella sola Italia, a livello globale. E qui, certamente, da sbagliare c’è ben poco. Il morso della crisi cresce in intensità e in profondità di mese in mese, con ripercussioni evidenti e via via più corpose su tutta la scena sociale – dall’occupazione ai consumi, dal peso crescente e ormai quasi paralizzante del fisco alla riduzione di attività e iniziative economiche, dalla granitica pertinacia del debito pubblico e delle sue conseguenze sui mercati finanziari alla parallela e costante diminuzione del PLI – e con un ovvio, parallelo aggravamento della tenuta politica e sociale del sistema. E, perciò, dopo che lo sforzo massiccio degli ultimi anni ha fatto registrare un’assoluta scarsezza dei risultati ottenuti, e dopo la tanta fiducia e le tante aspettative riposte sul governo Monti, ci si comincia ormai a chiedere se, prima ancora che del problema del governo, non ci si debba porre quello della governabilità del paese. Indicando in quelli economici e sociali il punto critico dei problemi da affrontare, in particolare, al Nord, si è, quindi, sicuramente su un terreno affidabile e si centra una realtà, purtroppo, indiscutibile. Ma basta questo per porre sulle più solide fondamenta possibili il problema politico del Nord nel prossimo futuro? Ne dubitiamo fortemente. Ci sembra, infatti, che la crisi politica italiana abbia trovato nel Nord 39


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Il Nord dopo la Lega

La Lettura

Il successo del Movimento 5 Stelle è stato preceduto – non lo si dimentichi – da vari episodi indicativi di insoddisfazioni e di tensioni forti e crescenti nel rapporto fra la società e i partiti in tutta l’area settentrionale

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l’amplissima manifestazione e ripercussione che tutti sanno non solo e non tanto in relazione alla crisi economica e alle sue conseguenze sociali, bensì soprattutto per ragioni interne al mondo politico italiano precedenti alla crisi economica e, in non trascurabile misura, indipendenti da tale crisi. Il successo del Movimento 5 Stelle è stato preceduto – non lo si dimentichi – da vari episodi indicativi di insoddisfazioni e di tensioni forti e crescenti nel rapporto fra la società e i partiti in tutta l’area settentrionale, da Milano a Firenze e a Bologna, dal Piemonte al Veneto; e, questo, su tutto l’arco dello schieramento politico, ossia da destra a sinistra. È facile dedurne una sostanziale inadeguatezza, una notevole incapacità delle forze politiche e dell’intero sistema politico nel rendersi conto del grave processo di indebolimento della loro capacità di ascolto e di espressione delle esigenze e del sentire in maturazione nell’area settentrionale negli ultimi anni. La crisi economica ha indubbiamente aggravato e ha reso esplosiva questa situazione, ma non è stata il punto di partenza, il luogo genetico della odierna condizione politica del Nord, che, molto a ragione, si vede preoccupare un po’ tutti gli ambienti politici italiani. Bisogna, insomma, andare più a fondo, e attingere livelli più profondi e, anche, più duraturi dell’attuale “questione settentrionale”. E se si nota che questa espressione ha conquistato un forte e inedito rilievo in tutti gli ultimi anni, a partire da quando di crisi economica non si parlava ancora, o almeno non se ne parlava affatto nei termini in cui se ne parla, all’incirca, da tre anni, si capisce ancora meglio la problematica in questione, e la conseguente rilevanza e difficoltà dello sforzo di intelligenza e di creatività politica necessario per affrontare una tale problematica, nonché la necessità di non continuare a proseguire criteri e comportamenti più che esauriti per orientarsi e agire al riguardo.


Soldi e democrazia

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La Lettura

Finalmente un federalismo che unisce Mauro Ceruti è senatore del Pd

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La Lega non è stata un partito federalista, bensì un partito nazionalista. Il federalismo unisce; il nazionalismo divide. La Lega non ha mai affrontato seriamente la questione della riforma federale dello stato nazionale italiano: questa impone una prospettiva unitaria e solidale di tutte le regioni e di tutte le aree del paese, per far sì che le diversità storiche, sociali, culturali, economiche di cui l’Italia è intessuta 41


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La Lettura diventino risorse per la comunità nazionale. Al contrario, la Lega ha proposto la costituzione di una nuova nazione, isolata dal resto del paese: un “grande Nord” la cui presunta identità è stata alimentata dalla mitologia unilaterale di un’area di eccellenza e di efficienza che avrebbe dovuto integrarsi in un Nord d’Europa altrettanto mitizzato. E forse la maggiore carenza di visione della Lega è stata proprio quella di proporre una vieta e perniciosa contrapposizione fra un’Europa nordica e un’Europa mediterranea, proprio quando l’Italia tutta intera (e anche e soprattutto l’Italia settentrionale) è chiamata a svolgere il ruolo di cerniera fra le molte aree d’Europa: non solo quella centrosettentrionale e quella mediterranea, ma anche quella occidentale e quella centro-orientale. Non solo. Il nord è tutt’altro che omogeneo: è differenziato per economie, modi di vita, anche all’interno di una stessa regione. L’Italia è policentrica, per nulla separabile in modo semplice fra un nord e un sud: se il nord è assai diversificato, il sud appare addirittura frammentato. La Lega ha scorporato la questione del Nord dalla questione ineludibile della sistematica riforma delle autonomie e delle istituzioni locali. L’invenzione di un’identità nordista ha occultato, nel discorso politico, la diversità delle esigenze concrete delle singole regioni e delle singole aree dello stesso nord. Se si fosse concretizzata l’opzione leghista di una radicale autonomia (o di una secessione) del “grande Nord”, avremmo avuto non un mosaico di identità federate, ma una sorta di nuovo stato centralistico. Storicamente, le difficoltà dello sviluppo istituzionale dello stato nazionale italiano hanno prodotto problemi e squilibri in tutte le aree del paese. Se c’è stato un vizio di fondo nella struttura del nostro stato, questo è consistito nell’adozione irriflessa del modello centralistico francese nel momento stesso della sua costituzione, e con ciò nella rimozione di ogni possibile alternativa federalista. L’Italia è nata come adesione incondizionata dei suoi antichi stati ad uno solo di essi: la monarchia sabauda. I plebisciti che regolarono tale adesione furono appunto definiti di annessione, per cui gli ordinamenti giuridici degli antichi stati cessarono, sostituiti in toto dall’ordinamento giuridico dello stato piemontese. Inoltre, agli albori della vita del nuovo stato non ebbero seguito neppure le proposte di regionalizzazione: le regioni, come è noto, furono istituite solo con la Costituzione del 1947 e, per quanto riguarda le regioni a statuto ordinario, 42


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La Lettura iniziarono a esistere effettivamente solo nel 1970. Oggi, le questioni che devono essere affrontate da una riforma che voglia accelerare i processi della decisione politica e avvicinare maggiormente i cittadini alle istituzioni locali sono molteplici. Si impone anzitutto di scegliere fra due modelli: un modello federale in senso proprio, in cui tutte le unità istituzionali abbiano in linea di principio le medesime attribuzioni; oppure un modello a geometria variabile (è il caso delle comunità autonome spagnole), in cui differenti unità istituzionali posseggano attribuzioni differenti. Si deve poi affrontare la questione di quali possano essere le unità federali dello Stato italiano. Non è scontato che debbano essere le attuali regioni. Opportuni accorpamenti vengono spesso prospettati nella convinzione che le future unità federali debbano essere anzitutto economicamente solide: ma questa logica va nella direzione opposta al senso di identità locale assai forte in molte aree del nostro paese (e che talvolta porta a prefigurare, al contrario, nuove regioni). La questione degli accorpamenti viene oggi posta anche in Germania, per ovviare a taluni squilibri economici e progettuali: si prospetta ad esempio la creazione di un grande Nord-Land attraverso la fusione di quattro o cinque degli attuali Länder. Alcuni anni fa, la fondazione Agnelli aveva proposto una semplificazione del mosaico regionale italiano sulla base di una dozzina di nuove unità federali, suscitando la reazione di alcune regioni (Umbria, Basilicata) che si vedevano abolite e divise. Peraltro, in nome della vivibilità economica, la proposta trascurava le esigenze delle regioni a statuto speciale del nord (Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia), alle quali sarebbe spettato il ruolo incerto di province autonome nell’ambito di unità federali più ampie. Il conflitto fra esigenze economiche ed esigenze identitarie locali non è meccanicamente risolvibile, ma deve dare il via a un processo decisionale multipolare. E’ evidente, ad esempio, che la Lombardia e il Molise non sono collocate sullo stesso piano. E’ troppo popolosa la Lombardia, e troppo poco popoloso il Molise? Eventuali smontaggi e rimontaggi sono possibili, ma come parti integranti di una visione più ampia. Bisogna poi tener conto della creazione imminente di dieci nuove province metropolitane nelle aree più popolate del paese. Per due o tre di esse (Roma, Milano e anche Napoli) sarebbe plausibile – a motivo del loro popolamento e della loro

Il conflitto fra esigenze economiche ed esigenze identitarie locali non è meccanicamente risolvibile, ma deve dare il via a un processo decisionale multipolare

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Il Nord dopo la Lega

La Lettura importanza - una parificazione alle altre unità federali della nazione, come già avviene in taluni casi europei. Ma, soprattutto, una riforma in senso federale non potrà che essere fondata su una riforma del quadro generale delle istituzioni locali. Gli accorpamenti delle province attualmente proposti non possono che essere una misura transitoria: è difficile separare un’effettiva riforma delle province dalla riforma del mosaico regionale di cui fanno parte. E poi non si può oggi eludere una corrispettiva riforma delle istituzioni comunali. Novemila e più comuni sul territorio italiano sono controfunzionali, ostano a ogni progettualità a vasto raggio e a ogni esigenza di governo del territorio. Anche in questo caso non è facile sciogliere il conflitto fra esigenze funzionali, che imporrebbero radicali accorpamenti, ed esigenze identitarie, che alimentano l’attuale polverizzazione. Sono necessarie soluzioni di adeguata complessità: per esempio, l'introduzione dei due livelli sussidiari di “comune” e ”distretto”, già embrionalmente operanti nelle grandi città. Soprattutto, al di là delle scelte specifiche, è decisivo far sì che le riforme istituzionali dello stato italiano debbano essere definite da una nuova visione delle identità storiche e culturali, delle relazioni fra locale e globale, del ruolo costruttivo delle diversità in una comunità politica, del valore e dei limiti degli stati nazionali, del loro significato nell’Europa dei nostri giorni. E questo significa: delineare un paese non duale, ma policentrico; concepire le nuove unità federali non come territori chiusi e autosufficienti, ma come nodi di molteplici reti funzionali e progettuali a seconda degli obiettivi in gioco; favorire le relazioni fra le regioni d’Italia e le analoghe regioni d’Europa; valorizzare, nell’opzione federale, la flessibilità, la rapidità e l’agilità delle decisioni politiche; attuare meccanismi di consultazione permanente fra i cittadini e la classe politica; ricostruire l’antica coesione della polis su scala più ampia (metropolitana, appunto, e regionale). Al fondo si impone una risposta innovativa, e completamente opposta a quella della Lega, alla domanda tradizionale di cosa siano le identità statali, nazionali, regionali, locali, culturali: cessare di pensare in termini di identità rigide, statiche e contrapposte e adottare una prospettiva di identità multiple, flessibili, in continua interazione reciproca.

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La Lettura

Movimento 5 stelle, oltre l’antipolitica Stefano Camatarri

è ricercatore presso facoltà di Scienze Politiche, Università di Milano

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l di là del drammatico crollo del PDL e della sostanziale tenuta del PD, non c’è ombra di dubbio che il Movimento 5 Stelle sia la vera sorpresa di queste ultime elezioni amministrative. L’inatteso successo di questa nuova formazione politica, di gran lunga superiore a quello della maggior parte degli analisti, ha infatti provocato ampie discussioni tra professionisti della politica e non, tutti costantemente alla ricerca di un “perché”. Grazie alle conoscenze elaborate dagli analisti nel corso delle settimane successive al voto oggi sappiamo che il “non-partito” di Beppe Grillo ha saputo basare il proprio successo sul consenso proveniente da una quota non indifferente di cittadini scontenti dalle forze politiche tradizionali e dei recenti scandali che hanno interessato alcune forze della ex-maggioranza di Governo (vedi Lega Nord). Eppure esiste un ulteriore dato, a mio parere ancor più decisivo di qualunque osservazione legata all’analisi dei flussi elettorali, in grado di problematizzare il posizionamento complessivo del Movimento 5 Stelle all’interno del panorama politico contemporaneo. Si tratta della distribuzione territoriale dei suoi consensi. A ben vedere, infatti, la potenza elettorale dei grillini si concentra soprattutto nelle regioni centro-settentrionali del Paese, dove oltre ai quattro Sindaci complessivamente eletti, le liste riconducibili al Movimento 5 Stelle si sono assestate su percentuali comprese tra l'8 e il 12%. Nel Sud, invece, la situazione è completamente diversa. Qui, infatti, i consensi raccolti dai grillini non vanno oltre la media del 3,6%, una percentuale che, tradotta in termini di rappresentanza politica, equivale a un solo consigliere comunale eletto al di sotto di Roma (il candidato sindaco di San Giorgio a Cremano, in provincia di Napoli), il cui 6,59% è certo un 45


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Il Nord dopo la Lega

La Lettura risultato interessante, ma non esageratamente positivo rispetto ai consensi ottenuti dalla stessa forza politica nel Centro-Nord del Paese. Ora, di fronte a questo evidente gap territoriale in termini di consensi raccolti, mi sembra doveroso compiere alcune considerazioni. Da un lato, infatti, il dato che viene qui presentato non costituisce certo una novità, dacché già nelle precedenti amministrative del 2011, e prima ancora nelle regionali del 2010, la distribuzione territoriale dei voti raccolti dal Movimento presentava grosso modo le medesime caratteristiche; dall’altro, però, pone all’ordine del giorno importanti questioni riguardanti la morfologia socioculturale dell’elettorato grillino. In questo senso, logiche di spiegazione come quella che indica il vero motore del “boom” a due velocità del Movimento nelle differenti opportunità di accesso a Internet e ai social network esistenti sul territorio nazionale o quella che ne individua le cause in un voto di protesta contro una classe politica ingessata di fronte alla crisi e sempre più lontana dalle reali esigenze dei cittadini, rischiano di rivelarsi eccessivamente semplicistiche e parziali. Non si capisce, infatti, per quale motivo questo ipotetico voto punitivo non si sia espresso nelle dovute proporzioni al Nord come al Sud, ma soprattutto al Sud, dove clientele e sprechi hanno da sempre fatto scempio dei conti pubblici dando vita a un malgoverno diffuso e dove, proprio per questo motivo, maggiore dovrebbe essere l'istanza di rinnovamento di persone e di programmi. Altre cause, evidentemente riconducibili a una sfera più profonda, avente a che fare con specifiche caratteristiche socio-culturali dell’elettorato, devono quindi aver favorito l’affermazione del Movimento 5 Stelle all’ultima tornata amministrativa, e per individuarle credo sia necessario partire non tanto dagli esiti della competizione politica, quanto dai suoi input, ovvero dai suoi contenuti programmatici. Mi spiego meglio. Ciò a cui si perviene attraverso la lettura di un programma politico è la ricostruzione non solo dell’offerta politica complessiva di un partito, ma anche, più indirettamente, del tipo di domanda sociale (e quindi di elettore) di cui esso intende, non sempre volontariamente, farsi promotore nella sua opera di posizionamento strategico. Per questo un’analisi approfondita del programma politico grillino assume un ruolo fondamentale all’interno di questa discussione. Con buona probabilità, infatti, le issues di cui esso risulta 46


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La Lettura composto fanno tutte comune riferimento a un particolare tipo di elettore, dotato di specifiche caratteristiche socioculturali, che possono spiegarci tanto il perchĂŠ di un voto territorialmente cosĂŹ disomogeneo, quanto le logiche di rappresentanza su cui si costruisce il consenso verso il Movimento 5 Stelle. Ad emergere dai testi, infatti, dovrebbe essere, una sorta di “altro generalizzatoâ€? a cui il Movimento 5 Stelle rivolge in misura prevalente i propri messaggi nel tentativo di intercettarne il consenso elettorale.

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La Lettura Ma che aspetto ha questo elettore “a 5 Stelle”? E fino a che punto conoscere tale informazione può aiutarci a comprendere le logiche di rappresentanza elaborate da buona parte dell’elettorato grillino? Per scoprirlo, non ci resta che immergerci nella Rete e iniziare a sfogliare il programma del Movimento. Il “prototipo” dell’elettore grillino: uno sguardo al programma politico del Movimento Spesso accade che le conclusioni di un problema siano già contenute nelle sue premesse. E in questo senso, lo scarno ma efficace programma della forza politica fondata da Beppe Grillo non fa eccezione. Basta infatti dare una prima e veloce lettura all’indice dei capitoli per accorgersi di quanto la sua offerta politica di quest’ultima si ponga nettamente in linea con quella che i sociologi hanno definito la dimensione postmaterialista dei valori, ovvero lo storico slittamento, avvenuto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, dell’asse di attenzione dell’opinione pubblica dai tradizionali temi di natura economica e sociale a quelli inerenti l’ambiente, le questioni di genere e gli stili di vita. A confermarcelo sono le sette aree di cui il documento si compone (Stato e cittadini, Energia, Informazione, Economia, Trasporti, Salute, Istruzione), tutte incentrate sulla soddisfazione delle domande politiche più “immateriali” della società italiana, afferenti la sfera dei bisogni che Ronald Inglehart ha definito di natura espressiva, come l’autorealizzazione privata, l’ecologismo e le nuove forme di partecipazione politica, a discapito di temi, per così dire, tradizionali, e quindi legati alla sfera “materiale” come il benessere economico e la sicurezza personale e collettiva. Ora, se ciò è quel che emerge dalla lettura dei punti programmatici del Movimento 5 Stelle, dovremmo allora chiederci quale sia, ad oggi, l'insieme sociale che più di altri pone al centro delle proprie richieste politiche questioni aventi a che fare con la sfera immateriale della vita umana quali, ad esempio, la sostenibilità socio-ambientale dello sviluppo economico e il miglioramento del legame rappresentativo tra governanti e governati. E visto che una nutrita serie di studi individua la risposta a questa domanda nella cosiddetta classe media urbana, da sempre orientata verso nuovi stili di vita e concezioni del bene più laiche, appare dunque sensato ipotizzare che il Movimento 5 Stelle abbia saputo fungere da polo di attrazione di un 48


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La Lettura elettorato tendenzialmente metropolitano, istruito, insediato in contesti urbani relativamente floridi da un punto di vista socioeconomico e in un mercato del lavoro ad elevata intensità di conoscenza. Solo un gruppo di soggetti così caratterizzato appare infatti dotato degli strumenti cognitivo - relazionali e delle motivazioni necessarie a sostenere esigenze immateriali di realizzazione personale e di qualità della vita come quelle di cui si occupa l’offerta politica grillina. A sostegno di quest’ipotesi si pongono alcuni indicatori, tanto di tipo territoriale quanto socio-demografico. Uno di questi è la percentuale di voti raccolti dal Movimento aggregata in base all’ampiezza demografica della società locale di riferimento, che ci descrive come sin dalle elezioni regionali del 2010 i grillini presentino trend crescenti di consensi correlati all'ampiezza demografica dei comuni. L’altro, invece, è il potenziale elettorale del Movimento 5 Stelle, incrociato con l’età. il titolo di studio e il settore d’impiego di una serie di soggetti intervistati dal Centro Italiano di Studi Elettorali, da cui emerge come l’elettorato grillino sia prevalentemente composto da individui giovani (soprattutto di età compresa tra i 26 e i 45 anni), istruiti (quelli privi di ttitolo di studio e quelli con sola licenza elementare non superano insieme il 13% del totale), e appartenenti a professioni per la maggior parte riconducibili al settore terziario avanzato (la maggioranza relativa di essi è composta dall’aggregazione di impiegati pubblici e privati, seguiti da “borghesi” e solo dopo da disoccupati, operai e studenti). È evidente, insomma, che il Movimento 5 Stelle abbia saputo esercitare un notevole appeal politico nei confronti di ampi segmenti della classe media urbana, tra cui certamente quello dei cosiddetti attivisti socioculturali, soggetti che, per via delle loro competenze specifiche, sono impegnati nei servizi sociali e culturali e manifestano tendenze decisamente liberali in ambito etico, e quello dei ceti professionali dirigenti, sempre più propensi a radicalizzare le proprie forme di partecipazione politica (si vedano, ad esempio, i noti “girotondi” di inizio anni Duemila). La sua capacità è stata, infatti, quella di porsi come un credibile interprete di un nuovo e complesso bagaglio di domande politiche ora in crescita all’interno ai segmenti culturalmente più vivaci dell’elettorato. Ciò che invece non appare ancora chiaro è se in definitiva le informazioni finora raccolte sulle caratteristiche socio-culturali 49


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La Lettura dell’elettorato grillino possano o meno rivelarsi utili al fine di spiegare la notevole disomogeneità territoriale dei consensi ottenuti dal Movimento 5 Stelle alle ultime elezioni amministrative. E’ possibile, in altre parole, ricondurre le forti disparità in termini di voti tra Nord e Sud del Paese a cause di natura più socioculturale che, ad esempio, tecnologica, scandalistica o antipolitica? Il Movimento 5 Stelle tra territori e fratture sociali. L’alba di una nuova politica? Esiste una relazione tra “voto grillino”, territorio e cultura, più di quanto non esista, ad esempio, una relazione tra Movimento 5 Stelle e antipolitica o tecnologia? Tale dubbio verrà presto risolto. Non vi è alcun dubbio, infatti, che partendo dal presupposto secondo cui il Movimento 5 Stelle ottiene ampi successi laddove esistono società locali sufficientemente urbanizzate e dinamiche, ossia in grado di comprendere ed apprezzare i tratti immateriali della sua offerta politica, la forte disomogeneità territoriale dei suoi voti possa essere interpretata nei termini dello storico divario socioeconomico esistente fra i grandi conglomerati urbani del Nord e una realtà relativamente meno metropolitana e dinamica come quella del Mezzogiorno. Tale divario si trova, infatti, all’origine di una evidente disparità nella diffusione delle risorse materiali e simboliche di cui gli elettorati locali si servono per elaborare domande sociali sempre più immateriali, come quelle al centro dell’offerta politica grillina. Quindi, mentre nelle regioni centro-settentrionali assistiamo al verificarsi di una crescente volontà partecipativa dell’elettorato, nelle regioni del Sud un’iniqua distribuzione delle risorse favorisce invece il consolidarsi di strutture di potere informale verticalmente organizzate, che si impongono sulle già deboli comunità sociali, impedendo lo sviluppo di quelle reti sociali che tanto sarebbero necessarie per alimentare nuovi progetti politici come il Movimento 5 Stelle. Non è un caso, in questo senso, che i grillini ottengano i risultati migliori proprio laddove già sussistono ampie e consolidate reti relazionali e fiduciarie tra individui e gruppi sociali. Sembrerebbe, infatti, il Movimento 5 Stelle tragga vantaggio dalla presenza, entro certi contesti territoriali, di quei dispositivi culturali che pongono l’elemento immateriale del “civismo” al centro della lotta politica, incrementando l’efficienza nelle relazioni di una comunità. 50


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La Lettura Ciò è confermato, in buona parte, dal grande successo elettorale nella cosiddetta Zona Rossa, dove la formazione grillina ottiene la sua percentuale più elevata di consenso medio, pari al 13%, un dato che certamente porta con sé un’ulteriore serie di osservazioni. L’ improvvisa espansione di consensi verso il Movimento 5 Stelle all’interno di zone almeno un tempo connotate culturalmente, ossia tradizionalmente “rosse”, ci pone infatti di fronte a tutta una serie di interrogativi riguardanti le possibili evoluzioni che il nostro sistema politico potrebbe intraprendere nel corso dei prossimi anni. È possibile, ad esempio, che la progressiva crescita di consensi verso il Movimento 5 Stelle all’interno di aree territoriali come la Zona Rossa possa costituire il segnale di alcuni profondi cambiamenti attualmente in corso all’interno della nostra cultura politica? Ed è possibile che le nuove domande sociali di cui oggi il Movimento 5 Stelle si pone come rappresentante costituiscano l’alba di un nuovo paradigma politico, che trae legittimazione da nuove fratture sociali, meno ideologiche rispetto a quelle del passato (capitale e lavoro) e più orientate verso issues specifiche, concrete? Per quanto riguarda il primo quesito, va detto che numerosi studi suggeriscono come, a fronte della modernizzazione avvenuta in Italia negli ultimi decenni, specifici mutamenti culturali abbiano sempre fatto seguire particolari trasformazioni nell’ambito delle preferenze e degli stili di voto. A titolo di esempio, si consideri la progressiva liberazione dei cittadini da elementi culturali trasmessi per decenni come il conformismo nei comportamenti elettorali e la reiterazione di ritualità come l’affluenza alle urne. Questa ha infatti provocato tanto la liberazione individuale da una serie di fedeltà storiche inamovibili, quanto un grado crescente di autonomia nella scelta di voto. Aveva quindi ragione Almond, uno dei padri della politologia contemporanea, nel dire che le preferenze espresse in sede elettorale non sono altro che l’epifenomeno di una complessa e sottile rete di atteggiamenti, opinioni, comportamenti che evolvono nel corso del tempo. È infatti proprio questo tipo di evoluzioni a permettere oggi l'ascesa di soggetti politici inediti come il Movimento 5 Stelle. Ciò apre la strada alla considerazione della seconda domanda, relativa a quelle che potrebbero essere le future forme del sistema politico. A tal proposito, una ristrutturazione progressiva dei temi,

È possibile, ad esempio, che la progressiva crescita di consensi verso il Movimento 5 Stelle all’interno di aree territoriali come la Zona Rossa possa costituire il segnale di alcuni profondi cambiamenti attualmente in corso all’interno della nostra cultura politica?

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La Lettura degli aspetti comunicazione e delle infrastrutture organizzative nel senso indicato dal Movimento 5 Stelle sembra essere preannunciata da alcuni indizi, tra cui la sempre più marcata immaterialità delle issues al centro della competizione politica (moralità privata e etica pubblica, qualità e stili di vita, questione ambientale, differenze di genere ecc.), e la sempre minore capacità dei partiti di interpretare domande, preferenze, bisogni e identità di individui e gruppi sociali sempre più molteplici e differenziati, nonché di indirizzare le loro richieste all’interno del circuito decisionale parlamento-governo-pubblica amministrazione, per produrre risposte sostenute dal consenso. Ovviamente, quanto sostenuto finora non vuole assolutamente dire che le categorie di destra e sinistra non contino più nulla. Queste ultime, infatti, nonostante le evidenti trasformazioni in corso, mantengono l’importante ruolo di riduttori della complessità che è intrinseca a qualsiasi ambiente politico. Eppure, nonostante questo importante accorgimento, rimane innegabile il progressivo spostamento del fuoco d’interesse della competizione partitica dalla tradizionale contrapposizione tra destra e sinistra verso una nuova dimensione dialettica, ancora nebulosa, ma quasi certamente di natura valoriale. Il Movimento 5 Stelle, in questo senso, rappresenta oggi un caso di studio estremamente interessante, che ha saputo reagire in maniera originale a un sistema di domande sociali sempre più complesse ricorrendo alla strategia, finora vincente, di introdurre nel sistema politico una serie di novità programmatiche, comunicative e organizzative le quali, per quanto in parte discutibili e forse esageratamente sbilanciate verso la sfera “immateriale” della vita umana, sono state in grado di attrarre il consenso crescente di un buon numero di elettori scontenti dei partiti tradizionali e in precedenza astensionisti. È evidente, quindi, che all'origine del successo del Movimento 5 Stelle in occasione delle ultime elezioni amministrative non vi siano solo cause antipolitiche o di protesta sociale, ma anche, se non soprattutto, elementi culturali che oggi ci pongono al centro di un radicale mutamento nella dimensione valoriale della politica. Per concludere, ci si potrebbe chiedere verso quali lidi ci condurranno le sorprendenti evoluzioni della politica contemporanea, di cui il Movimento 5 Stelle è chiaramente parte integrante. Da un certo punto di vista, la tendenza di 52


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La Lettura quest’ultimo a voler bypassare ogni possibile forma di mediazione per intervenire direttamente nelle decisioni politiche potrebbe avere l’effetto di rivitalizzare la nostra democrazia dall'interno, innescando magari particolari meccanismi imitativi nei partiti politici tradizionali; dall'altra, potrebbe presto provocarne un ulteriore indebolimento, specie qualora venisse consentito a eventuali mobilitazioni su singoli temi di eludere o scavalcare i canali della politica ufficiale. Di fronte a questo inquietante bivio, dunque, nulla sembra essere certo tranne una cosa: soggetti politici costruiti sulla base di offerte politiche post-materialistiche e dotati di infrastrutture organizzative sempre più decentrate e tecnologicizzate, sembrano godere di un riconoscimento sociale sempre maggiore. Ed è proprio sulla base di questo crescente riconoscimento, che essi riescono ogni giorno di più a incanalare l’attenzione dell’opinione pubblica verso issues e pratiche politiche sostanzialmente inedite. Nel lungo periodo, ciò potrebbe costringere le forze politiche tradizionali ad affrontare un serio problema di ridefinizione della propria funzione sociale, la cui risoluzione richiederà ad esse tanto di assecondare la crescente domanda di partecipazione elaborando strategie di consultazione diretta sempre più innovative ed efficaci, quanto di mantenere posizioni nette e possibilmente avanzate su temi etici riguardanti issues immateriali, il cui trattamento da parte della singola forza politica assume, come si è visto in precedenza, un’importanza decisiva ai fini del suo successo elettorale presso le categorie più avanzate e vivaci dell’elettorato.

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Il Nord dopo la Lega

La Lettura

Beppe Grillo e i figli delle stelle Paolo Corsini è deputato del Pd

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Il successo del Movimento 5 Stelle – il riferimento è ad un orizzonte valoriale e politico in cui campeggiano ambiente, acqua, sviluppo connettività e trasporti – alle recenti consultazioni amministrative è stato indubbio, al di là dell’impasse immediatamente vissuta a Parma, il caso più eclatante, sul piano della composizione della Giunta di governo e dell’assunzione di un’immediata operatività amministrativa. Tuttavia proprio l’irrilevanza delle contraddizioni emerse nella città emiliana quanto alle misurazioni del consenso registrato dai diversi rilevatori di opinione – un consenso in impetuosa espansione ed in rapida impennata, soprattutto al nord, da rapportare, peraltro, anche allo spazio concesso a Beppe Grillo da parte dei vari organi di informazione – depone per una lettura critica del fenomeno, per un’interpretazione non banale dei suoi tratti caratterizzanti, oltre la categoria ricorrente, quanto semplificatoria, di “antipolitica” con cui, nella vulgata, viene abitualmente decifrato sino, talora, al neoqualunquismo. Sullo sfondo vanno collocati fenomeni di recente emersione o di più lontana ascendenza: particolarmente la crisi di quella democrazia “identitaria”, retta sulla sovrapposizione fra l’”Eletto” (Silvio Berlusconi) e la totalità della Nazione, fra legge e volontà popolare – il Capo addirittura come impersonificazione del nomos secondo il classico canone della teologia bizantina – cui tendenzialmente il sistema politico sembrava destinato grazie al supporto di fattori fra loro convergenti quali l’ideologia dell’antiStato sociale e quella localistica delle “piccole patrie”. E ancora: il progressivo degrado della 54


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La Lettura rappresentanza consegnata a “cartelli” ristretti ed oligarchici, l’occupazione delle Istituzioni da parte della “repubblica dei partiti”, la crisi di rappresentatività degli organismi legislativi, la sovrabbondanza di un populismo alimentato a piene mani da formazioni politiche “personali”, rette su di un centralismo carismatico teso ad affermare una “tirannide” di maggioranza, una sorta di “dispotismo” che si autolegittima in quanto diretta emanazione del popolo sovrano, della sua identità ed unità politica. Fatte pure salve le debite differenze – differenze certamente rilevanti fra i partiti, sia per quanto riguarda il loro funzionamento interno, sia circa il loro posizionamento rispetto alle Istituzioni –, resta un dato più generale e pervasivo che chiama in causa complessivamente la loro insostenibile leggerezza nella società civile e la loro insopportabile pesantezza in ambito statuale, sino al punto di una caduta verticale di consenso, di una perdita del loro ruolo di soggetti di diritto

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La Lettura

Il comico beffardo e irridente, moralista e fustigatore, il “grande vecchio” del Movimento 5 Stelle, che conosce e padroneggia i meccanismi propri dell’”egemonia sottoculturale” e della spettacolarizzazione, è ormai dentro l’arena politica

costituzionale, luogo in cui i cittadini liberamente si associano per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, come recita l’art. 49 della nostra Costituzione. Ebbene è dentro la rottura della diga costituita dal sistema dei partiti verso la quale dovrebbero affluire i molteplici alvei in cui si incanalano le energie politiche, dentro il varco ormai aperto sino a diventare voragine, che si mobilita un attivismo civile, un protagonismo civico che vede operanti molteplici attori e che viene assumendo declinazioni diverse ed obiettivi diversificati a seconda dei soggetti promotori, delle finalità di ciascuno. Alla base sta ora un sentimento di insoddisfazione e di frustrazione, ora una spinta fatta di insofferenza e di indignazione, di ribellione e di protesta verso i riti standardizzati e le liturgie obsolete della società politica, di “mobilitazione cognitiva”, di sindrome del “cittadino critico”, una spinta animata da volontà di presenza e partecipazione, da esigenze di coinvolgimento, e insieme di autonomia, sostanzialmente inappagate, se non neglette da un sistema di rappresentanza autoreferenziale, scarsamente accogliente, spesso sordo e indisponibile, repulsivo. Come scrive Edoardo Greblo è come se la “società degli individui” stesse “iniziando a ricomporsi in una società vera e propria, in nome di un bisogno di aggregazione, di solidarietà, di regole, di normalità”, sulla base di bisogni quali il lavoro, la conoscenza, i beni comuni, i diritti fondamentali, la libertà di tutti, l’ambiente, la dignità della persona, il rifiuto di una pratica che riduce a merce e consumo l’essere e l’esistenza. “Fuori dai partiti” non significa necessariamente “contro i partiti” in quanto tali. Qui sta la discriminante fondamentale. Una politica senza partiti, una democrazia politica senza rappresentanza pluralistica degli interessi e diversificazione degli ideali e riconoscimento dei valori è, infatti, populismo, è negazione della cittadinanza democratica.

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Beppe Grillo, il comico beffardo e irridente, moralista e fustigatore, il “grande vecchio” del Movimento 5 Stelle, che conosce e padroneggia i meccanismi propri dell’”egemonia sottoculturale” e della spettacolarizzazione, è ormai dentro l’arena politica, la contesa fra i partiti; è oggi la forma più espressiva della postpolitica tipicamente 56


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La Lettura postmoderna e critica della rappresentanza liberaldemocratica in nome dell’antipartitismo. Un postmodernismo che, per parafrasare il più recente Maurizio Ferraris del Manifesto del nuovo realismo, usa persino gestualmente l’ironizzazione, agitando l’indice e il medio delle mani – il vaffanculo day – e abusa “della risata, della facezia, della farsa […], confermando l’ipotesi etologica secondo cui la mimica del riso è un retaggio del mostrare i denti che, nell’animale, precede l’aggressione”. Quell’aggressività con la quale Beppe Grillo utilizza il web come medium-messaggio dell’ormai imminente iperdemocrazia cybernetica e post-convenzionale. Uno scenario comunicativo che associa contatti personali diretti, quel bisbiglio che diventa passaparola ed include quanti vivono emigrazione interiore e clandestinità politica, alle nuove tecnologie della comunicazione rese praticabili dalla diffusione della Rete. Sino alla costruzione “scientificamente” organizzata di un modello reticolare che trova nei Meetup degli Amici il proprio impianto connettivo e nella capacità di generazione mediatica dello spin doctor Gian Roberto Casaleggio – il sistema degli influencer – il proprio artefice più efficace. Un’esperienza, per altro, dai riferimenti continentali, solo a pensare all’affermazione dei “Pirati” in Svezia o Germania, allo stesso movimento degli Indignados in Spagna e, seppur con connotazioni diverse, sperimentata nel corso della primavera araba. Come ha osservato Massimiliano Panarari, un modello, i nodi di una rete, anzi di un rizoma, che rimandano ad “una sorta di versione realizzata in politica dell’idea di sapere teorizzata da Gilles Deleuze e Felix Guattari nel loro libro del 1980 “Mille piani ”. Dunque non un partito leggero, vale a dire un partito spoglio di bardature burocratiche e privo di apparati, diffusi quanto macchinosi e ingessati, versione aggiornata delle vecchie strutture novecentesche, ma un “partito” altro, etereo, regolamentato da un “non statuto”, che agisce uno scenario comunicativo, interattivo, argomentativo-deliberativo, in grado di suscitare mobilitazione, di attribuire visibilità alla volontà politica, di porre rimedio alla frammentazione, alla polverizzazione delle presenze, di dar voce ad un universo altrimenti anonimo, desolidarizzato e desocializzato, quanto alla ricerca di riconoscibilità e di ruolo. Un cyberottimismo di fondo, pertanto, e insieme la proposta di una democrazia critica della tradizionale rappresentanza, della delega agli eletti, di un conferimento di potere senza controllo e senza

Un “partito” altro, etereo, regolamentato da un “non statuto”, che agisce uno scenario comunicativo, interattivo, argomentativodeliberativo, in grado di suscitare mobilitazione, di attribuire visibilità alla volontà politica

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Il Nord dopo la Lega

La Lettura revoca. Prima ancora del programma “non programma”, delle proposte politiche avanzate spesso in uscite sempre provocatorie da parte di Beppe Grillo e di qualche raro altro esponente, si evidenziano qui nodi a dir poco problematici, non esenti da un elevato tasso di ambiguità. Quale iperdemocrazia? Sono indubbie le risorse democratiche della Rete, le sue possibilità di interazione orizzontale, di infrastrutturazione cooperativa delle informazioni, di scambio tra pari in termini flessibili. Così come non si può sottovalutare il potenziale di creatività grassroots, dal basso, popolare della politica on-line con il suo accesso molecolare ed il suo effetto moltiplicatore, ma, parimenti, valgono per la società digitale i “vizi capitali” sottolineati da Stefano Rodotà nel suo ormai classico Repertorio di fine secolo: “disuguaglianza; sfruttamento commerciale e abusi informativi; rischi per la privacy; disintegrazione delle comunità; plebisciti istantanei e dissoluzione della democrazia; tirannia di chi controlla gli accessi; perdita del valore del servizio pubblico e della responsabilità sociale”. E così pure resta irrisolto ed equivoco il modello di democrazia che s’intende perseguire, un modello in continua oscillazione tra democrazia diretta e democrazia partecipativa (che non sono propriamente la stessa cosa), al di là della loro concreta praticabilità, se ha ancora valore il giudizio di Norberto Bobbio secondo il quale “nessun sistema complesso come quello di uno Stato moderno può funzionare” soltanto con l’assemblea dei cittadini deliberanti senza intermediari e con l’istituto del referendum. Un’oscillazione che – ed è questo un riscontro sul quale hanno già insistito alcuni osservatori – talora porta a considerare i diversi fori deliberativi come strumenti di “correzione democratica”, talora, invece, come occasioni concorrenziali o sostitutive di una rappresentanza che implica di per sé rinuncia alla sovranità del cittadino nel momento stesso in cui sceglie chi decide in vece sua. Insomma la predilezione per l’agorà virtuale come nuova frontiera dell’autogoverno comunitario.

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Non c’è solo un’esplicita volontà di disintermediazione e l’appello diretto al popolo dei cittadini, la sostituzione del mezzo televisivo – il veicolo principe del partito pubblicitario del presidente, il partito blob di Berlusconi – con il blog e la Rete, anzi con il partito-Rete che catalizza quanti si ribellano al degrado della vita 58


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FOCUS

La Lettura pubblica, si propongono di sbaragliare il ceto dei “nominati“ che si è fatto Casta e vengono associandosi al di fuori del riferimento ai partiti. Non c’è solo una sfiducia diffusa verso la politica istituzionale spesso adulterata in nome del consenso elettorale e ridotta a “malapolitica”, una sfiducia che si alimenta di un fiume carsico di indignazione e che mescola le denunce di Stella e Rizzo con il demagogico giustizialismo di trasmissioni televisive a grande seguito, una sfiducia che riflette esigenze assolutamente veritiere e comprensibili di onestà, trasparenza, legalità, pulizia morale andate deluse, riprese ed issate sui loro vessilli da tantissimi elettori del Movimento 5 Stelle. C’è al fondo un pot-pourri magmatico, la condensazione di culture spesso contraddittorie che affastellano green-economy e ambientalismo radicale, neoromanticismo preindustriale e tecnoentusiasmo – qualcuno segnala persino una sorta di neoluddismo che un tempo si manifestava contro i computers distrutti da Grillo a conclusione delle sue performances e che oggi sceglie a proprio bersaglio i termovalorizzatori e la Tav. E così pure la sottovalutazione e la genericità sui temi più controversi dalle questioni del lavoro alla giustizia distributiva -, nonché la teorizzazione della decrescita sino ad apocalittiche profezie sull’imminente esaurimento del capitalismo. Per essere postideologico, dichiarandosi né di Destra né di Sinistra – categorie superate ed inservibili –, il Movimento 5 Stelle annovera elettori, simpatizzanti, militanti di provenienza politica e affiliazione culturale assai eterogenea, transfughi della Sinistra – il Sindaco di Parma Pizzarotti in passate elezioni ha votato anche per Rifondazione comunista – e conservatori tradizionalisti, “laici furiosi” e cattolici integralisti, moderati delusi, integrati frustrati e apocalittici pentiti. Certo ridurre il Movimento a semplice braccio operativo del suo leader, un leader che probabilmente non ha dimestichezza con l’antica dottrina della gnosi della quale, tuttavia, riprende la separazione manichea tra “noi” e “loro”, tra il bene e il male, applicandola alla politica in un’indistinta e indifferenziata assimilazione al vizio per tutti i partiti ed un’acritica esaltazione delle virtù di ogni sorta di attivismo, sarebbe forviante. Al di là della sua stessa predisposizione ad emettere editti e lanciare fatwe, del suo indubbio ascendente, dell’empatia che caratterizza Beppe Grillo in 59


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Il Nord dopo la Lega

La Lettura

Per essere postideologico, dichiarandosi né di Destra né di Sinistra – categorie superate ed inservibili –, il Movimento 5 Stelle annovera elettori, simpatizzanti, militanti di provenienza politica e affiliazione culturale assai eterogenea

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quanto capace di forti pulsioni, di trasmettere un sentiment immediatamente riconoscibile dalla platea–cerchia degli spettatori-sostenitori. Sarebbe forviante perché anche il fenomeno 5 Stelle va ricondotto a più generali processi che hanno incoraggiato l’emergere dei populismi contemporanei: la globalizzazione con i suoi effetti destabilizzanti le forme tradizionali della politica, la crisi di legittimazione delle democrazie e del potere decisionale delle elites, le promesse abortite e le innovazioni non mantenute dai riformismi nazionali, il dilagare della corruzione e dello spreco nei regimi politici occidentali. Resta, tuttavia, il fatto che Beppe Grillo costituisce un riferimento ineludibile e svolge una funzione catalizzatrice, oltre le stesse modalità di esercizio della propria leadership, fungendo da detonatore di messaggi che dalla sua figura hanno ricevuto amplificazione e tratto moltiplicata eco. Senza contare che gli articoli del “non statuto” fanno di lui l’assoluto padre-padrone del Movimento 5 Stelle, incontrastabile e incontendibile quanto alla titolarità del simbolo e della guida. Quel movimento che soprattutto a lui, nella compresenza di attori di disparata provenienza e formazione – quindi anche i nativi – deve imprinting politico e reductio ad unum. Qui le esternazioni, le prese di posizione di Beppe Grillo, soprattutto le più recenti, dicono di un’ispirazione antipartitica ed antipartitocratica di tipo selettivo quanto all’uso delle argomentazioni e alla stessa individuazione dell’avversario politico, con una torsione evidente contro il Pd dopo la disgregazione del forzaleghismo, nonché di una progressiva utilizzazione di tematiche volte alla precipitazione in chiave destabilizzante della crisi: dall’attacco all’euro al ritorno alla lira, dalla polemica anti Europa, ben oltre le tendenze euroscettiche, alla santificazione della “democrazia” iraniana. Un battage polemico teso all’acquisizione su base populistica di un più largo consenso – l’esacerbazione del circuito delle ostilità in materia di immigrazione, il rifiuto dello ius soli per gli stranieri nati in Italia, la celebrazione di una giustizia “rieducativa” di piazza –, sino alla valorizzazione del Porcellum come possibile remunerazione elettorale e come tornaconto presso un’opinione pubblica sempre più indignata nel caso del suo mantenimento. Senza contare l’adozione di un machismo offensivo e degradante. Linee politiche, tendenze culturali, orientamenti che vanno apertamente contrastati nella loro portata illiberale e


Il Nord dopo la Lega

FOCUS

La Lettura valenza regressiva, rispetto ai quali finiscono con l’opacizzarsi le legittime aspirazioni ad una democrazia attiva, ad una cittadinanza responsabile, ad una modernizzazione riflessiva che certamente appartengono a elettori ed esponenti del Movimento 5 Stelle impegnati a riscattare il Paese dai ricorrenti pericoli costituiti dal predominio di interessi particolari, dalla persistenza delle oligarchie, dalla scarsa visibilità del potere, dalla mancanza di un’etica pubblica, dalla degenerazione partitocratica. Una sfida che il Pd deve raccogliere ed un cimento sul quale misurare la propria credibilità riformistica e le proprie aspirazioni di governo.

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La Lettura

Parole tossiche Graziella Priulla

insegna Sociologia dei processi culturali all’Università di Catania

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orse non sufficiente, certo necessaria, la comunicazione è chiave della politica almeno per due motivi. Il primo: discorsi diversi costruiscono diversamente il mondo. La lingua non ha solo la funzione di rispecchiare i valori, ma anche quella di concorrere a determinarli, organizzando le nostre menti. Parlare non è mai neutro. Il secondo: se la democrazia è una convivenza umana basata sul dialogo, il mezzo che permette il dialogo deve essere oggetto di una cura particolare.

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FOCUS

La Lettura Le parole sono fragili: possono essere tradite, violentate, storpiate, o ingozzate di significati perversi, o svuotate dall’assenza di pensiero. Possono diventare veleni, diffondere tossine man mano che i confini della decenza si spostano in avanti. Spetta ai cittadini sentirle proprie, difenderle come bene prezioso. L’abitudine fa accettare l’inaccettabile. Mentre ci abituiamo allo stravolgimento del linguaggio il nostro palato si fa più rozzo, la nostra soglia di attenzione si abbassa. Alla fine, sopporteremo di tutto. E’ quanto è accaduto in questi vent’anni? A forza di dosi quotidiane, siamo già mitridatizzati? Si è cominciato con lo stile, il gentese in canottiera studiato da linguisti e massmediologi: ha sdoganato in sedi ufficiali il dito medio alzato, la pernacchia, la sintassi zoppicante, entro un arsenale di metafore bellicose. La plurilodata rottura con i codici politici si è basata sul primitivismo dei corpi e dei gesti (il cappio in Parlamento …) più che sulle argomentazioni. La tecnica dell’esaltazione della folla, purtroppo di antica memoria, si è attuata per mezzo di invettive e di provocazioni al solo scopo di eccitare il pubblico. Tutti abbiamo convenuto: che bravi comunicatori!, e tra un gestaccio, un rutto, un insulto ci siamo ridotti a chiamare schiettezza la trivialità esibita come marchio di fabbrica. Il celodurismo è stato derubricato a spirito colorito, innocua sparata a salve. Per la gente del nord rude e virile, che lavora e va al sodo, decenni di femminismo sono passati invano. “Io sono come voi!”: la politica tribunizia, talvolta anche entro i travagli identitari di una sinistra esangue, ha blandito “l’uomo della strada” immaginandolo come un gran cafone, di contro agli intellettuali snob e radical-chic. Imbarazzante e grottesca, una classe dirigente che fa sentire “non popolo” chi sia minimamente istruito e costumato; l’antipatia per Monti, varesotto sì ma professore british style, è antropologica prima d’essere politica. Sono stati definiti “grandi leader” quelli che “parlavano alla pancia”. Si è dimostrato fruttuoso blandire il vasto blocco sociale del risentimento e del mugugno, il malcontento generalizzato, i rancori inespressi non solo dei padroncini brianzoli, ma dei cassintegrati piemontesi,

La plurilodata rottura con i codici politici si è basata sul primitivismo dei corpi e dei gesti (il cappio in Parlamento …) più che sulle argomentazioni

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Il Nord dopo la Lega

La Lettura dei pensionati veneti. La pancia di un Paese impoverito, invecchiato e stagnante fabbrica spauracchi, rincorre e amplifica ansie e paure, stimola pulsioni razziste e xenofobe. E’ l’etnia più pericolosa che esista, quella che ragiona con la pancia: parla il linguaggio dell’odio. Nella desemantizzazione guidata dalle viscere le ronde non sono squadracce ma “volontari della sicurezza”, i lager si presentano come “centri di accoglienza”, la violazione deontologica dei medici nei confronti dei “clandestini” diventa dovere civico. Un consigliere leghista di Albenga dichiarò che “per gli immigrati ci vogliono i forni”, e il sindaco della graziosa cittadina ligure lo scusò dicendo:“si tratta di persona briosa e genuina”. Quando li abbiamo sentiti inserire nella “coalizione dei moderati”, perché non siamo stati capaci di esprimere nessuna rivolta? Uno degli araldi dei moderati era ed è Mario Borghezio, quello che vuol “ramazzar via” omosessuali, zingari e prostitute. Fu multato per aver picchiato un bambino marocchino. Sul treno Milano-Torino disinfettò gli scompartimenti in cui erano sedute alcune nigeriane. Subì una condanna a 5 mesi, assieme ad altri “volontari verdi”, per l’incendio di un ricovero di migranti. Ci rappresenta in Europa. I moderati coltivano l’igiene pubblica: un armamentario di violenza non solo linguistica. Gli uomini della Lega chiedono “controlli igienicosanitari nelle residenze degli stranieri” e, invocando “maggior rigore di fronte al reato di immigrazione clandestina”, invitano - parola di Davide Boni - i milanesi “doc” a trasformarsi in agenti della Stasi, “segnalando gli immigrati irregolari”. “Dobbiamo armare la marina col bazooka e sparare ad altezza uomo”; “gli immigrati bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucile” (Gentilini, il sindaco-sceriffo figlio della Lega più ortodossa). Intanto leggi crudeli trasformano il Mediterraneo in cimitero, e noi ci stiamo disumanizzando. Perché l’abbiamo tollerato? Anzi, imitato? Nella Toscana che fu rossa il tentativo di costruire una moschea in un fazzoletto di terra fuori da un paese come Colle Val d’Elsa vide mobilitazioni simili a quelle dei leghisti davanti a un campo rom. Nelle Case del popolo 64


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FOCUS

La Lettura serpeggiano strani discorsi, velate insofferenze, rabbiose insicurezze. Un altro tema caldo è l’omosessualità. “Invece di creare la Margherita, questi signori, visto che esaltano il gaypride, utilizzino come simbolo il finocchio!” (Calderoli, il ministro, quello della maglietta anti-Islam del 2006). “Darò disposizioni ai vigili urbani affinché facciano pulizia etnica dei culattoni” (Gentilini). “Qua rischiamo di diventare un popolo di ricchioni”, “essere cullatoni è un peccato capitale” (Calderoli). “Possiamo riconoscere le coppie gay solo a patto che si facciano castrare come i capponi e donino i loro organi alla scienza” (Bertozzo, consigliere comunale a Verona, 1995). L’istigazione all’odio non è un reato? (“della condanna per razzismo vado fiero”: Flavio Tosi, sindaco di Verona, 2007). E l’idea di pulizia etnica, non fa rabbrividire? Diffidenze, confini, barriere, chiusure hanno costruito un apartheid nostrano fuori del tempo (“Carrozze metro solo per milanesi”, Salvini, eurodeputato), nel nome di una stravolta sicurezza che imbarbarisce le relazioni umane, poggia sulla ricerca del nemico e del capro espiatorio, radicalizza le polarizzazioni dei più rozzi pregiudizi, resuscita il concetto di etnia (dobbiamo dimenticare l’elogio al “patriota” Mladic?). Sono stati in tanti, nel mondo accademico, in quello giornalistico, in quello politico, a dargli credito, a sostenere che questo “grande partito” (a un certo punto - Dio ci guardi - perfino “costola della sinistra”) interpreta “la questione settentrionale”, “il malessere del nord”, oppure “le vocazioni del territorio”. Un povero territorio cui è stata strappata ogni bellezza, uniformato dai capannoni e sfregiato dagli scarichi industriali, ridiventa importante se si fa sinonimo di bacino elettorale. A proposito: l’incerto toponimo Padania è per il vocabolario un bacino idrografico, per la Società Geografica Italiana (cfr. Bollettino 2010) un termine privo di fondamento storico-culturale. Figuriamoci il popolo padano, che difende la lingua autoctona ma non sa quale: la base linguistica dei vari dialetti settentrionali è diversa. D’altronde non servono confini, non si cercano definizioni: la Padania è stata inventata per escludere (i meridionali, gli extracomunitari, Roma); importa non ciò che è (la Lega sa benissimo che la secessione non si farà mai), ma ciò che non è (la preposizione più ricorrente è contro). 65


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La Lettura Alla base del rifiuto e della chiusura c’è una ragione economica: temo che “l’altro” porti via la mia roba. Ciò che accomuna friulani, veneti, bergamaschi, milanesi, piemontesi, liguri - diversi per storia, cultura, tradizioni e spesso, nei secoli, in conflitto fra loro - è oggi la condizione relativamente più florida rispetto al resto d’Italia. Insomma, i baiocchi come collante, un collante che aiuta a decifrare il lungo sodalizio con mister B., seppur definito da Bossi “mafioso di Arcore” (“la Fininvest è nata da Cosa Nostra”, ne la Padania del 27 ottobre 1998). Strani cattolici, che adorano i dané e odiano gli stranieri. La Chiesa ha trovato a lungo in questa barbarie un referente politico: com’è stato possibile? Forse perché la Lega di governo faceva da stampella ai traffici di Cl? Strano ministro dell’interno, quel Maroni cui sarebbe spettato il compito istituzionale di reprimere i movimenti secessionisti in difesa della Repubblica una e indivisibile. Strana, quest’Italia postmoderna: nelle regioni che furono “bianche” un partito dalle sbavature caricaturalblasfeme al limite della goliardia, che tra Soli delle Alpi, cosmogonie celtiche, epopee druidiche e saghe di elmi vichinghi coltivava riti come l’ampolla dell’acqua del dio Po, ha mietuto consensi per vent’anni. Solo ora - all’epilogo della mesta parabola biografica del leader maximo - i Bobo-boys tentano di procedere oltre il sacro prato di Pontida, vedremo con quanta fortuna. Cercano un’implicita svolta in quel ‘Nord’, che ha sostituito la ‘Padania’ nel nuovo claim maroniano. Non c’è nulla di improvvisato. Dietro i miti c’è un’accorta regia, dietro l’apparente spontaneità si cela la pianificazione del marketing politico. Fu ad esempio grazie a uno studio che già rivelava l’usura del modello bossiano, che la Lega nel 2008 raddoppiò i propri consensi. I toni vennero abbassati e venne proposto, accanto al solito stile urlato, un doppio regime più morbido, quello degli esponenti oggi “in”, da Cota a Zaia (non più lanciafiamme, ma: “È reato offrire anche solo un the caldo a un immigrato clandestino”). Purché gli italiani non si facciano incantare da questo o da altri restyling; purché la sinistra riesca a costruire un altro tipo di rappresentanza. Il futuro potremo inventarcelo più degno solo se rifiuteremo di accettare i significati altrui; se riprenderemo 66


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La Lettura a rispettare le parole e a pretendere che vengano usate con attenzione e onestĂ , coraggio e coerenza. Il linguaggio avvelena solo se glielo consentiamo.

Solo ora - all’epilogo della mesta parabola biografica del leader maximo - i Boboboys tentano di procedere oltre il sacro prato di Pontida, vedremo con quanta fortuna

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La risposta


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La rISPOSta

Missione Europa Enrico Letta

è deputato e vicesegretario del Pd

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olpiscono, nella stagione drammatica che l'Italia sta oggi attraversando, le tante analogie con quanto avvenne nel Paese esattamente vent'anni fa, nel biennio '92-93. Allora come oggi, un sistema politico e istituzionale in crisi si trovò dinanzi all'imperativo di auto-riformare se stesso per reggere l'urto di trasformazioni tumultuose. Allora come oggi, il Paese reagì con un'ondata di indignazione anti-politica agli errori commessi dal sistema medesimo tanto in termini di etica pubblica quanto sul versante della capacità amministrativa e di governo. Allora come oggi, il risentimento nei confronti dei partiti tradizionali ebbe effetti particolarmente pervasivi – e, col senno di poi, duraturi – nelle regioni produttive del Nord Italia. Il Nord laborioso “tradito dal pentapartito”, costretto a sostenere la zavorra dell'"assistenzialismo clientelare del Mezzogiorno”, diffidente verso le forze di sinistra, spaventato al cospetto dei nuovi scenari e dalla nuova competizione economica che la fine della guerra fredda stava già dischiudendo. Di istanze di questo tenore, complice anche l'approssimazione con le quali le si tratteggiò nel dibattito pubblico, la Lega Nord si fece, com'è noto, portavoce. E sullo sfondo di Tangentopoli Umberto Bossi riuscì a emanciparsi dai ritratti caricaturali delle cronache locali per divenire, nell’arco di pochi mesi, un personaggio d'interesse internazionale: il capo di uno dei primi movimenti dichiaratamente secessionisti in una democrazia avanzata dell'Europa post-bipolare. Di quanto questa prospettiva secessionista fosse, nel biennio '92-93, concreta e temuta si è forse appannata la memoria nella ricognizione storica della parabola della

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La rISPOSta Lega, nei decenni successivi associata prevalentemente alla deriva xenofoba, alla (presunta) grande capacità di radicamento sui territori, alle contraddizioni di un partito per anni di lotta e di governo, all'abbraccio col berlusconismo. Eppure, è proprio in quell'orizzonte, evocato, di separazione del Nord dal resto del Paese che può individuarsi, ancora oggi a mio avviso, il cuore stesso della questione settentrionale. Una questione che è con tutta evidenza nazionale, per gli squilibri abnormi storicamente sedimentatisi con il Sud d'Italia, ma che, al contempo, ha una proiezione europea profonda e assai rilevante. Nasce dalla vicinanza geografica e culturale con le regioni produttive più dinamiche del Vecchio Continente. Si nutre del contrasto tra i fattori di svantaggio competitivo che condizionano le performance degli attori economici e sociali nei diversi Paesi. Cresce in misura proporzionale all'evocazione delle grandi opportunità di eccellenza che il Nord, da solo, potrebbe avere se messo nelle condizioni di competere ad armi pari con gli altri. È la carica politicamente esplosiva di questa evocazione che Bossi – paradossalmente poi trasformatosi nel leader più anti-europeista della seconda Repubblica – intuì per primo nel '92. E lo fece proprio nel momento in cui l'Europa viveva, con Maastricht, uno degli snodi più cruciali del percorso d'integrazione comunitaria e l'Italia mostrava il fianco delle sue molteplici fragilità di sistema, con l'uscita dallo SME e lo spettro di un'esclusione, apparentemente inevitabile, dalla prima fase del processo di unificazione monetaria. Come andò in seguito è storia recente di questo Paese e dell'Unione europea. Di certo c'è che alle pulsioni separatiste, e al rischio effettivo che esse potessero diventare qualcosa di più dello slogan di un movimento comunque marginale nel panorama politico italiano, posero un argine invalicabile solo l'azione diplomatica, il risanamento economico e lo straordinario sforzo collettivo per portare l'Italia in Europa condotto negli anni successivi da Carlo Azeglio Ciampi e da Romano Prodi. Dopo, i leghisti si accontentarono di sventolare la ben più sbiadita bandiera del federalismo. Dopo, il furore secessionista si smorzò nel folklore delle ampolle sul Po e nelle provocazioni della Padania. Fu con Ciampi e Prodi, dunque, che il Paese tutto 71


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Il Nord dopo la Lega

La rISPOSta

Fu con Ciampi e Prodi, dunque, che il Paese tutto intero, non solo la sua parte più ricca e competitiva, riuscì a centrare l'obiettivo dell'ingresso nell'euro

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intero, non solo la sua parte più ricca e competitiva, riuscì a centrare l'obiettivo dell'ingresso nell'euro. E lo fece con lo spirito di una missione condivisa, realmente nazionale e unitaria. Di quella missione siamo stati testimoni o protagonisti. Senz'altro ne siamo eredi e senz'altro dobbiamo esserne orgogliosi, perché si tratta della più qualificante esperienza di governo del centrosinistra italiano. È un'eredità tanto più onerosa e gravida di responsabilità in un momento complesso come quello attuale, nel quale alle scosse che minano la tenuta delle istituzioni e della politica si accompagna una crisi epocale, la peggiore che le generazioni contemporanee abbiano mai conosciuto. È crisi europea e globale: di senso e di valori, di strategie e di proposte. E il populismo, nelle sue differenti e pericolosissime varianti italiane, se ne alimenta. Così come si alimenta dei nostri limiti: del ritardo – ancora – di un'autoriforma rigorosa della rappresentanza politica e dei corpi intermedi, di una deviazione endemica dalle regole nella gestione della cosa pubblica, dell'incapacità di fornire, a livello nazionale ed europeo, risposte concrete e multidimensionali a problemi complessi e spesso inediti. L'impatto, a ben vedere, è ben più corrosivo di quello del leghismo. Non solo Nord contro Sud, ma tutti contro tutti. Contro politici e governanti: parassiti, sciacalli, profittatori. Contro l'euro e l'Europa. Contro le istituzioni terze e garanti della tenuta della Repubblica. Rispetto a questa offensiva senza precedenti una grande forza come il Partito Democratico ha l'obbligo di parlare e di praticare il più possibile il linguaggio della verità e dell'unità, abbandonando ogni tentazione malsana di un ritorno alla logica del conflitto, dello scontro ideologico, degli elettorati di riferimento, degli interlocutori privilegiati. E ha il dovere di farlo a partire dal Nord, dove la spinta populista – dopo il tracollo della Lega e l'inizio della fine di Berlusconi – pare attecchire con più rapidità e intensità. Dove il lavoro, autonomo o dipendente, è progressivamente eroso dalla crisi e le opportunità di realizzazione umana e professionale si restringono ogni giorno di più. Dove il capitalismo sta cambiando pelle e da “molecolare” si fa “di coalizione”, con le imprese, quelle che resistono, che provano a mettersi insieme per


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La rISPOSta competere meglio o tentare strategie di penetrazione sui mercati esteri che nulla hanno a che vedere con le delocalizzazioni vecchia maniera. Dove lo Stato viene percepito come assente quando si tratta di erogare servizi e prestazioni, o di pagare i propri debiti, e presentissimo, invece, quanto c'è da riscuotere le tasse. Per arginare questo populismo e fornire risposte autorevoli a una trasformazione del genere, che del resto procede a ritmi inarrestabili ovunque, è indispensabile, anche oggi, una missione alta e di prospettiva, che indichi una luce in fondo al tunnel delle difficoltà e della disperazione, che restituisca parzialmente un senso ai sacrifici affrontati e a quelli da affrontare, che abbia davvero il sapore della costruzione di futuro e dell'interesse generale. Questa missione, oggi come allora, si chiama Europa. O meglio, si chiama Stati Uniti d'Europa. Ed è di gran lunga più ambiziosa e più faticosa di quella degli anni Novanta. In discussione non ci sono, infatti, solo i tempi, variabili, dell'integrazione di questo o quel Paese, di questa o quella regione, e neanche le pur rilevanti procedure di europeizzazione di questa o quella politica pubblica. In gioco ci sono, piuttosto, la ridefinizione dei concetti

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La rISPOSta stessi di sovranità politica ed economica in Europa e la sopravvivenza di un modello di pace e di benessere, di crescita e di protezione sociale, eretto lungo tutto il Novecento ma oggi non più sostenibile così com'è. È il futuro di questa e delle generazioni a venire che si deciderà nei prossimi mesi. E solo chiamando a raccolta le migliori energie a disposizioni del Paese e riguadagnando il suo consenso – a maggior ragione al Nord, che troppo a lungo non siamo stati in grado di capire e di guidare – potremo farci interpreti e sostenitori più convinti degli Stati Uniti d'Europa, sventando quel rischio-conflitto che tutti i populismi e tutti i separatismi, per definizione, inevitabilmente riflettono e amplificano.

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La rISPOSta

Ora tocca a noi Piero Fassino

è sindaco di Torino

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ra le molte manifestazioni della crisi che vive l’Italia vi è la caduta di consenso della destra, in particolare nel nord del Paese. L’esito fallimentare dell’azione di governo di Berlusconi prima e la crisi morale e politica che ha investito la Lega nord poi hanno aperto infatti un vuoto di rappresentanza politica di quella parte di opinione pubblica che nel nord per quasi vent’anni ha scelto di affidarsi alla destra. Sono ceti - in primo luogo professionali e produttivi, ma anche popolari – che avevano creduto ad una destra capace di modernizzare uno Stato burocratico e lento, di ridurre una pressione fiscale vissuta come vessatoria, di restituire competitività e mercati a imprese insidiate dalla globalizzazione, di offrire a ciascuno più opportunità per la propria vita. Erano questi i messaggi forti lanciati dalla destra ad un nord che si sentiva mortificato nella sua capacità imprenditoriale, oppresso nel suo dinamismo sociale, frustrato nella sua ricerca di modernità. E che considerava lo Stato, i partiti, la politica responsabile di tutto ciò. La crisi si è incaricata di dimostrare quanto fossero illusori, velleitari e propagandistici i messaggi della destra. E via via è così maturata una crisi di fiducia e di credibilità che ha incrinato e poi infranto il rapporto tra destra e nord. Una crisi peraltro resa manifesta dal profondo mutamento conosciuto nell’ultimo anno dalla geografia politica e istituzionale del nord, che oggi vede tutti i capoluoghi di regione – Torino, Milano, Genova, Venezia, Bologna, Trieste, Trento e Bolzano – guidati da giunte di centro sinistra. Così come di centro sinistra sono oggi la maggioranza dei capoluoghi di provincia del nord Italia. Tre regioni – Liguria, Emilia Romagna, Trentino – sono da sempre guidate dal centro sinistra. E nelle quattro regioni governate dal centro 75


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La rISPOSta destra sono evidenti i segni profondi di consenso in quei settori che pure alla destra hanno dato i loro voti per anni. Al punto che se si votasse oggi, almeno due di quelle quattro Regioni verrebbero perdute dal centro destra. C’è, dunque, oggi un grande spazio al nord per chi voglia ascoltarne le ragioni, comprenderne le ansie, raccoglierne le domande. Ma per farlo occorre saper leggere la questione settentrionale, riconoscerne i caratteri, coglierne la specificità, cosa che in questi anni spesso non è avvenuta, suscitando in una vasta parte di opinione pubblica del nord un sentimento di estraneità - quando non di ostilità e di rancore - verso lo Stato, la politica, i partiti. Cosa si intende, dunque, per “questione settentrionale”?

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La rISPOSta Ci si riferisce all’emergere di fenomeni e dinamiche che, pur manifestandosi in tutto il Paese, hanno nel nord una particolare intensità o criticità. Alcune cifre spiegano più di ogni parola. Nel nord si concentra il 70% dei lavoratori dipendenti privati e si manifestano con maggiore acutezza le tante criticità che vive il mondo del lavoro, a partire dalla condizione di precarietà occupazionale che insidia tanti giovani e inquieta le loro famiglie. Nel nord si concentra il 65% del lavoro autonomo italiano, che vive con sofferenza il mancato riconoscimento del patrimonio di sapere, saper fare, spirito imprenditoriale, capacità innovativa che migliaia di piccole e medie imprese e vasti ceti esprimono. Dal nord viene il 70% del gettito fiscale del Paese, il che rende manifesto perché qui il tema delle tasse sia così sentito da un’opinione pubblica che vive con fastidio un sistema fiscale ritenuto inquisitorio e punitivo, tanto più quando ampio è il divario tra ciò che un cittadino allo Stato dà e ciò che riceve. Dal nord partono l’85% delle esportazioni italiane, mettendo ogni giorno migliaia di imprenditori in diretta relazione con paesi e mercati nei quali ogni operatore può comparare ciò che trova lì e ciò che gli offre l’Italia. E quando la comparazione è sfavorevole al proprio Paese, ne discende un giudizio severo e duro che si traduce in una critica aspra in primo luogo alla politica, alle istituzioni, allo Stato. A fronte di una presenza di cittadini stranieri che in Italia si attesta sull’8% della popolazione, nel nord quella quota è ormai attestata al 15% (con aree che già sfiorano il 20%). Il che dà al fenomeno un impatto economico e un’incidenza sociale molto più alti e significativi. Ciascuna di quelle cifre ci indica, dunque, criticità specifiche che tutte corrono sotto la pelle della società settentrionale. È questo l’humus su cui è cresciuto a partire dagli anni ’90 il fenomeno leghista, che non a caso ha raccolto e radicato consensi con parole d’ordine – Roma ladrona, padroni a casa nostra, Padania libera, prima di tutto i figli di qui – che tutte davano voce ad un sentimento di estraneità all’Italia e di ostilità alle sue istituzioni. La crisi economica e sociale – se per un verso ha inizialmente radicato nel nord l’illusione di potersi salvare da soli – ha ben presto reso manifesto quanto fosse velleitario credere di evitare la bufera facendosi più piccoli e rifugiandosi nel giardino di casa. Nel mondo grande della globalizzazione, 77


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Quando si ha a che fare con Cina, India, Brasile, Indonesia e tanti altri giganti economici, rinchiudersi nel Veneto o in Lombardia o nella presunta Padania è illusione che conduce inesorabilmente in un vicolo cieco e senza uscita

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farsi piccoli rende solo ancora più piccoli e fragili. Quando si ha a che fare con Cina, India, Brasile, Indonesia e tanti altri giganti economici, rinchiudersi nel Veneto o in Lombardia o nella presunta Padania è illusione che conduce inesorabilmente in un vicolo cieco e senza uscita. Così come la crisi ha reso evidente che l’Unione europea – per quante criticità possa esprimere - è dimensione necessaria e ineludibile per non essere travolti dalla crisi. È in questo scenario che è maturata la crisi elettorale e politica di Berlusconi e della Lega nord, che hanno pagato non solo la mediocrità di una classe dirigente che rapidamente si è omologata ai comportamenti della peggiore politica; ma soprattutto hanno manifestato l’assenza di visione politica e l’incapacità di leggere e comprendere le trasformazioni del mondo di oggi. C’è dunque uno spazio grande, al nord, per chi voglia capirne le domande, le ansie, le istanze e raccoglierle traducendole in azione politica e di governo. Una responsabilità grande che le forze democratiche, il centro sinistra e il PD non possono, non devono declinare. Per dirla come Bersani, “tocca a noi”. Tocca a noi parlare al nord per dare risposte, offrire certezze, suscitare speranze. E così liberare il nord dall’illusione della solitudine, della separazione, del ripiegamento corporativo, per tornare a essere quell’area forte del Paese che traini l’Italia intera nella rinascita.


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Il nostro federalismo Vasco Errani

è presidente della Regione Emilia Romagna

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presto per fare un’analisi, a maggior ragione storica, del fenomeno Lega. Tanto più ora, con la crisi del nuovo partito di Maroni e la nuova discesa in campo dell’ex alleato. Un dato però è sotto gli occhi di tutti: l’ambizione – giusta o sbagliata che fosse – di rappresentare e far governare il Nord del Paese è fallita. Quell’idea ideologica e separatista del Nord come eccellenza produttiva contrapposta all’arretratezza parassitaria della capitale e soprattutto del Sud non ha innovato le istituzioni, non ha portato efficienza, non ha dato impulso all’economia e al lavoro. E il blocco Lega-Forza Italia e destra che su quell’idea ha fondato la sua identità non ha fatto gli interessi né del Nord né del nostra Paese.. Perché l’Italia, in questa complessa realtà non può (e non potrà) essere guidata facendo leva su un gruppo di regioni sopra il Po animate da uno spirito di rivincita e di rivalsa nei confronti di un apparato statale pesante e burocratico identificato con “Roma ladrona”. È giunto il momento allora di affermare con nettezza che con l’armamentario ideologico molto mediatico messo in campo dalla Lega ad uso di Berlusconi, il centrodestra non ha saputo governare e riformare il Paese. Anzi, lo ha messo in crisi ulteriore, e fatto arretrare. E in vent’anni non ha nemmeno saputo fare il federalismo, che è il core business della Lega, la sua ragione d’essere. Quel po’ di federalismo che c’è è merito prima di tutto del governo di centrosinistra che, pur con maggioranze non ampie, ha comunque riformato il Titolo V della Costituzione imboccando la strada giusta e, ricordiamolo, con un disegno 79


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Il federalismo, come la questione del Nord produttivo, è stato dall’inizio sventolato dalla Lega in chiave separatista e demagogica

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bipartisan uscito da una commissione bicamerale e condiviso con le Autonomie locali. E poi dell’ostinata battaglia che hanno condotto in questi dieci anni le Regioni, i Comuni e le Province. Il federalismo, come la questione del Nord produttivo, è stato dall’inizio sventolato dalla Lega in chiave separatista e demagogica. In questa stessa chiave, poi, è stato bocciato dagli italiani al referendum sulla devolution ed è naufragato: hanno capito che era uno strappo irresponsabile. Bisogna ricordarsi quegli anni. Di fronte (e in opposizione propagandistica) alla riforma del 2001, che fu invece confermata da un referendum popolare, abbiamo speso anni a rincorrere proclami, annunci e testi cosiddetti di riforma nati di volta in volta sui campi di Pontida, declamati in Tv, scritti da quattro amici in una baita di Lorenzago. Il federalismo è stato per anni sequestrato dalla trattativa interna alla Casa delle libertà. E in questo scambio di merce, ne abbiamo sentite di tutti i colori: dalla scuola in dialetto, alle ronde, al nuovo corpo di polizia (il sesto) regionale che avrebbe garantito la sicurezza dei cittadini più degli altri cinque. Salvo poi vincere le elezioni con la promessa di abolire l’unica tassa federalista che era l’ICI, tagliare i soldi trasferiti e accentrare a Roma funzioni e poteri (hanno ricreato perfino un ministero, quello del Turismo, con competenze esclusivamente regionali). Rivendico il lavoro svolto dalle istituzioni locali perché nel solco della riforma del 2001, le Regioni e le Autonomie locali hanno continuato ad impegnarsi con una visione che coniugava responsabilità e solidarietà, poteri delegati e forte coesione nazionale. Non è stato facile tenere insieme il Nord e il Sud, le Regioni governate dai partiti di Governo e quelle guidate dai partiti di opposizione, le Regioni e i Comuni. Voglio aprire qui una parentesi. In Emilia-Romagna, approvata la riforma costituzionale e fino al 2005, abbiamo attuato un processo di riorganizzazione federalista coerente con il nuovo Titolo V, adeguando il “sistema Regione” alle nuove competenze e stringendo con le istituzioni locali un “patto” per il federalismo che ha rafforzato un modo di governare vicino alle realtà dei territori, capace di sollecitare la collaborazione e la partecipazione di tutti i soggetti pubblici e privati. Così è stato per la riforma dell’assistenza, per le leggi sulla polizia locale, sulla scuola, sull'immigrazione, sull’organizzazione della sanità, sulla difesa del suolo. La legge sul patto di stabilità regionale approvata alla fine dello scorso


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La rISPOSta anno è l’ultima dimostrazione di come sia possibile governare con la collaborazione di tutte le istituzioni e con atti di solidarietà, di sistema, frutto di una condivisione di obiettivi. Per costruire uno Stato più semplice (non più ristretto) e vicino ai cittadini, che chiede risorse in cambio di servizi e di opportunità, che garantisce uguali diritti a chi ha e a chi ha meno, a chi abita nelle aree più avanzate e a chi no. E non è che il centralismo regionale sia migliore di quello statale! Ma noi lo abbiamo evitato. Perché resto convinto che il centralismo sia un modo vecchio e inadeguato per rispondere ai problemi sociali, alle necessità dei territori e della competitività del sistema produttivo, ai bisogni dei cittadini. Oggi, non sessant’anni fa. A Roma come a Bologna. E che – come dimostra anche il lavoro fatto in Emilia-Romagna – sia possibile costruire un federalismo solidale e cooperativo. Accantonati i propositi di devolution che ci hanno fatto perdere un bel po’ di anni, possiamo dire che con la legge delega sul federalismo fiscale del maggio 2009, la 42, siamo arrivati a scrivere un punto fermo e condiviso, grazie al contributo sia della commissione parlamentare che delle Regioni. Quella legge presenta molti tratti positivi, che ricordano – come ho avuto modo di sottolineare anche nelle sedi ufficiali – il progetto del Governo Prodi. Penso ad alcuni principi, di progressività fiscale, di equità di trattamento tra Nord e Sud, tra piccole e grandi Regioni. Su quella legge sarebbe stato possibile costruire un nuovo patto unitario per il Paese, superando il centralismo sprecone e inefficiente. Ma di cosa parliamo se sono anni che, a fronte della legge e degli otto decreti che nel frattempo sono stati approvati, si tagliano risorse? Risorse legate, beninteso, alle stesse competenze che sono state trasferite alle Regioni! Anche con i decreti attuativi si è proceduto a strappi, senza una visione d’insieme organica e con decisioni incoerenti perché di volta in volta centraliste. Il federalismo fiscale è fermo. L’IMU è in gran parte sequestrata dal bilancio dello Stato; della sanità si occupano le Regioni ma a tagliare i posti letto ci pensa il Governo e in tre anni – mentre noi si discuteva di attuare il federalismo fiscale – sono venuti meno 20 miliardi. Di cosa parliamo se dal 2012 al 2014 saranno tagliati quattro miliardi e mezzo in sanità e un miliardo e settecento milioni ai trasporti? Due mesi fa ponemmo noi il problema della revisione della spesa, disponibili – Regioni e Autonomie locali – a fare uno sforzo per scegliere insieme dove contenere i costi senza però 81


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La costruzione di uno Stato federalista, fondato sul principio di responsabilità della spesa e sulla solidarietà nazionale, è un processo complesso e delicato che non era nella volontà e nelle capacità dei Governi di centrodestra

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colpire ancora una volta i servizi, la sanità, l’istruzione. E poi è arrivata la spending review. Va bene la riorganizzazione della spesa, ma con questi tagli il servizio sanitario pubblico non regge. E lo dico anche per le regioni dove quel servizio è efficiente e i conti sono in ordine. Ma, allora, di che cosa parliamo? Federalismo demaniale (il primo decreto, mai attuato), fabbisogni e costi standard, autonomia tributaria, sanzioni e premi per Regioni ed Enti locali, perequazione e rimozione degli squilibri: basta leggere i titoli dei decreti per capire che oggi non c’è spazio per riprendere il cammino del federalismo fiscale con gli altri decreti ministeriali e regolamenti necessari. La verità è che la costruzione di uno Stato federalista, fondato sul principio di responsabilità della spesa e sulla solidarietà nazionale, è un processo complesso e delicato che non era nella volontà e nelle capacità dei Governi di centrodestra, privi di una visione generale del bene dello Stato e dell’interesse generale. Ma è un processo strettamente legato alla riforma dello Stato (a cominciare dalla fine del bicameralismo perfetto) e ad un’idea di lungo respiro delle istituzioni e della società che non può essere attuato da un Governo tecnico.



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Zaino in spalla: il civismo delle Terre Alte Lorenzo Dellai

è presidente della Provincia Autonoma di Trento

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iamo in un tempo nuovo, nella nostra Italia di sempre. Non è chiaro quale sarà la prossima realtà politica che il tempo ci riserva, ma le analisi catastrofiche sulla situazione italiana, quasi fossimo, come paese, vicini alla fine, ci inducono a pensieri neri. Poi però guardiamo a ciò che abbiamo, a quel che siamo capaci di fare e il futuro si rischiara e ci fa sentire un popolo che ha il benessere più a portata di mano di tanti altri. Ci tormenta il pensare ondivago, tra il pessimismo e l’ottimismo, che ci ostacola a vedere le cose come sono e ci impedisce di concentrarci sul fare, lasciandoci adagiare sulla schiuma delle nervature psicologiche medianiche. Quel che è certo e che abbiamo bisogno di ritrovare il senso della nostra marcia. Non possiamo giocare in difesa. La politica ha questo compito, non da sola, non la sola, di aiutare il paese a trovare la sua strada. Negli ultimi anni la politica è invece apparsa sostanzialmente l’ostacolo in questa ricerca. Il governo Berlusconi, tanta è la distanza che aveva creato fra sé e il paese, sembra ormai appartenere a un’epoca remota. Il fallimento di Berlusconi è il fallimento dell’intero progetto che aveva venduto al paese, ed è crollato sotto le macerie della crisi finanziaria. Aveva promesso un liberalismo di massa, ma si sono viste solo tasse. Aveva esordito in politica sull’onda dell’emozione anti corruzione di Tangentopoli per portare pulizia, ma tutti abbiamo sotto gli occhi il profilo etico offerto nella vita pubblica e anche in quella privata. E che dire della Lega Nord, la più grande mistificazione della politica italiana degli ultimi vent’anni? Dovevano spazzare via il malgoverno e gli sprechi, dare un ruolo nuovo al nord, di protagonista del cambiamento epocale. Dopo una lunga esperienza di governo, che vorrebbero far dimenticare

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La rISPOSta con questi ultimi mesi di opposizione, tornano a casa con le mani vuote. Non le loro, che magari saranno anche piene di nuovi sindaci, presidenti di provincia, di governatori, ma della gente del nord, che si ritrova oggi più tasse di prima, servizi meno soddisfacenti e con l’impressione, profonda e lacerante, di aver sprecato un’occasione, di aver giocato il buon nome del nord per nulla. Il tutto condito con lo scandalo dei fondi pubblici destinati al partito e finiti in maniera che forse è meglio definire rocambolesca, per non usare espressioni più crude. La Lega ha fallito nel suo compito di dare al nord più autonomia, più libertà, più sicurezza. Un movimento politico nato come anti-sistema ha contribuito a sostenere il più personale, il più accentrato, il più inefficiente dei governi.Le colpe della Lega non solo d’inefficienza, ma sono più grandi ancora. Ha speso tutto il credito del nord non per riformare il Paese, bensì più semplicemente per affermare un potere di gruppo, di partito, in nome di un popolo che meritava ben altra rappresentanza.Oggi ahimè i problemi del nord rimangono intatti. C’è un’autonomia da difendere da rigurgiti di neocentralismo; c’è la sicurezza a cui tutti i cittadini hanno diritto e c’è una tradizione che deve essere difesa e sviluppata; c’è una crisi economica che deve trovare migliori soluzioni. Ma non può più essere la Lega Nord l’interprete del riscatto e dell’orgoglio del nord. Il nord ha fatto l’Italia; ha creato le maggiori imprese e dispone del tessuto più ricco di piccole imprese di tutta Europa. Ha diritto a rivendicare la qualità della spesa pubblica e ha diritto a reclamare le risorse per lo sviluppo. Ma deve cambiare l’approccio: meno folclore e più strategia. Più pensiero sulle cose di cui il nord ha bisogno e meno “masanielli”, sia pure con la parlata del nord. La tradizione del nord non è fatta da “arruffapopoli”, ma da gente concreta che ha ben presenti i problemi e le necessità di un territorio, che sa vedere oltre il proprio naso e sa guardare oltre i suoi confini. Questo nord aspetta nuovi interpreti politici generali, che sappiano far pesare le nostre regioni sul piano delle scelte strategiche nazionali. Abbiamo bisogno di mettere la responsabilità personale al centro della politica, ma abbiamo anche bisogno di maggiore relazionalità a tutti i livelli. Abbiamo il nostro modo peculiare, italiano, di fare impresa e di fare sociale, non è il decisionismo che ci manca (semmai

La Lega ha fallito nel suo compito di dare al nord più autonomia, più libertà, più sicurezza

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La rISPOSta le decisioni), ma il crescere insieme, un darsi obiettivi collettivi e condivisi. Dobbiamo riprendere il primato della comunità, che ha permesso a molti di avere una promozione economica e sociale senza penalizzare nessuno. Nel mio Trentino comunità e cooperazione sono due tratti distintivi di cui siamo molto orgogliosi. Coniugano il fare impresa con la solidarietà e soprattutto con la libertà. Ognuno persegue il proprio successo non prescindendo però dal resto del mondo, ma proprio grazie all’agire collettivo, di cui le Comunità di valle sono buona prova, ognuna rafforza l’altra. Il mio invito è che la politica, che è collettiva per definizione, riprenda e sviluppi questa caratteristica peculiare del nostro paese e l’accompagni con proposte, norme di legge, contesti amministrativi che ne valorizzino l’operato. La responsabilità personale, il coraggio di metterci la faccia per le cose in cui si crede devono andare di pari passo con la riscoperta della politica come formazione della volontà collettiva e nella liberta di scelta di ciascuno. Su queste basi può essere costruito il futuro del nord e il futuro dell’Italia. Non si tratta di un’attitudine e neppure di formule schematiche, quanto di linee guida che aiutino la creazione di una nuova fase del paese. C’è, nel nord, un’area particolare, dove questi processi impattano in maniera ancora forte: è l’area alpina, della montagna e delle valli. Queste “Terre Alte” sono, oggi, insieme, luogo esponenziale di cambiamenti e di contraddizioni, ma anche un grande giacimento di “risorse”. Sono territori nei quali si esprime il rischio di spaesamento, di fronte al venir meno delle forme tradizionali dei servizi, pubblici e privati – dagli uffici postali ai piccoli negozi; dalle piccole scuole ai parroci – del lavoro, della rete istituzionale. Ma le “terre Alte” custodiscono anche risorse preziose per tutti. Risorse naturali, paesaggistiche, culturali e civili. Custodiscono una grande parte del patrimonio di volontariato, di mutuo aiuto, di autogoverno: insomma, di quei valori civili ai quali bisogna pur attingere per ritrovare la via d’uscita dal labirinto dei falsi valori nel quale il paese si è cacciato dagli anni novanta in poi. Le “Terre Alte” hanno custodito anche, in questi anni, un’altra risorsa preziosa: una cultura politica autonomistica, vera alternativa sia al neocentralismo sia al separatismo. Una cultura politica autonomistica che si esprime oggi attraverso tante formazioni politiche territoriali che, lungo tutto l’arco 86


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alpino, interpretano antichi valori e bisogni di modernità. Noi trentini siamo autonomisti da sempre. Lo eravamo quando il Trentino era parte dell’Impero Austro-Ungarico; lo siamo stati e lo siamo nell’ambito dell’Italia. Sappiamo, lo abbiamo imparato sulla nostra pelle, che nazionalismi e separatismi sono due facce della stessa medaglia. Una medaglia che non ci piace. Abbiamo imparato da Alcide Degasperi e dagli altri padri fondatori del nostro assetto istituzionale che l’autonomia è prima di tutto responsabilità, è esercizio difficile di “appartenenze plurime”. Queste espressioni politiche oggi sono molto marginali nella rappresentazione stereotipata ed artificiosa che la politica dà del nostro Paese e sono escluse dal circuito mediatico che mette in scena un racconto tutto ambientato nei paraggi dei palazzi del potere. In questo racconto la voce politica della montagna, delle sue città come delle sue valli, semplicemente non c’è. Ma c’è nella vita reale.

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Abbiamo bisogno anche noi italiani di ripartire, di non indugiare oltre, di ritrovare le tracce del sentiero

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Per quanto mi riguarda, ho deciso di impegnarmi a fondo, affinché queste forze si mettano in rete, si facciano conoscere, si rafforzino in modo federato, per offrire così il proprio contributo ad una politica italiana che torni a essere più vera, meno artificiale, più capace non tanto di “parlare al Paese”, quando di abitarlo, di capirlo, di viverlo. Ritornare al Paese è qualcosa che va oltre le sue esigenze economiche, di sistema, ma è un profondo ripensare a ciò che fa di noi, del nostro paese, qualcosa di significativo, che merita di essere amato, di crescere nei tempi nuovi, non solo come memoria del passato. Ritornare al Paese è perciò un’operazione che richiede grande creatività, perché il nostro passato rappresenta un vantaggio competitivo non da riservare alla contemplazione, ma per innovare, inventare il nuovo che si agganci al mondo che cambia. E allora, “Zaino in spalla!”. Sono queste le parole che precedono la partenza di una comitiva in montagna, quando un gruppo di amici sta per cominciare il cammino oppure per riprenderlo, dopo una pausa. Parole dai molti significati. Invitano a partire, a non indugiare oltre nell’attesa, perché spesso il cammino non è né breve né agevole. Si intende che ognuno porta la sua parte, il peso che è giusto: non di più, non di meno. Nel primo caso non si supera la salita e si resta indietro; nel secondo si fa i furbi e si viaggia “a spalle degli altri”. E questo è contrario allo spirito della montagna, che è spirito di condivisione. Vuol dire stare insieme. In cordata. E davanti va chi conosce il sentiero. Il capo cordata, che tale è perché tutti hanno fiducia in lui, della sua capacità di leggere i segni e di portare gli amici fino al rifugio, anche se il tempo peggiora, anche nelle nebbie che talvolta nascondono le cime e confondono il paesaggio conosciuto. Abbiamo bisogno anche noi italiani di dirci e sentirci dire: “zaino in spalla!”. Di riprendere il cammino, in cordata, dietro capi degni di fiducia e di rispetto, caricati di un peso giusto e proporzionato alle capacità. Abbiamo bisogno anche noi italiani di ripartire, di non indugiare oltre, di ritrovare le tracce del sentiero. Perché le nebbie nascondono le cime e coprono la meta, ma non le cancellano. Basta ritrovare il sentiero, se per un attimo lo si è perso. Riprendere il cammino per ritrovare l’Italia. E allora... “Zaino in spalla!”.


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Il nord e noi Debora Serracchiani è europarlamentare del Pd

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l 17 ottobre del 2009, intervenendo a Vicenza davanti ad una platea di imprenditori del Nordest, l'allora segretario del Partito Democratico Dario Franceschini fece un mea culpa che non mancò di suscitare polemiche: “Abbiamo sbagliato a guardare con sospetto e diffidenza il mondo dell'impresa, quelle migliaia e migliaia di piccole e medie imprese, di artigiani, di chi rischia di tasca sua. Abbiamo sbagliato a trattarvi come un popolo di potenziali evasori, interessati solo al profitto”. E per tutto questo concludeva chiedendo scusa. Dopo quasi tre anni il mondo è cambiato completamente, e noi dobbiamo tornare a parlare di Nord e del rapporto fra questa parte vitale del Paese e il Partito Democratico, chiedendoci se in questo periodo siamo stati effettivamente in grado di colmare il gap politico indicato da Franceschini. Si arriva alla nozione matura di nord attraverso una serie di récits iniziati con il triangolo industriale e il Limonte, il nord-est e la piattaforma alpina, con MiTo fino alla Padania passando per la ‘questione settentrionale’ a far da contraltare alla ‘questione meridionale’. Una parte delle classi dirigenti, più locali che nazionali, ha cercato di indicare una prospettiva e, dentro di essa, di risolvere il tema della rappresentanza politica e sociale. Nel passato, questo sforzo è stato compiuto dai socialisti, che hanno cercato di dare voce ai ceti emergenti urbani; più recentemente la Lega ha fatto prevalere istanze conflittuali con il potere centrale individuando il fisco, la burocrazia, l'uso della spesa pubblica e la sicurezza, come questioni reali su cui ha trovato non solo consenso popolare ma pure credibilità e opportunità di governo. La spinta al federalismo incompiuto ha queste origini. Le componenti cattolica e comunista per un lungo tempo 89


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La rISPOSta hanno privilegiato il governo locale, riuscendo a presidiare il territorio anche nei momenti di debolezza elettorale, ma senza diventare soggetti riconosciuti come capaci di una rappresentanza profonda del nord e delle sue aspettative. Neanche il partito dei sindaci è riuscito nell'intento di dare forma compiuta alle istanze del nord all'interno del federalismo, del glocalismo, della globalizzazione e dell'economia mondo. Quando qualcuno di essi, come Riccardo Illy, ha trovato una sintesi efficace, ha affermato che al nord si vince con "fisco e strade". Anche nel Partito democratico abbiamo parlato molto di

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La rISPOSta Nord, declinandolo in vario modo. All’indomani della fondazione, nel 2008, si è ad esempio acceso il dibattito sul ‘Pd del Nord’, cui sono seguite iniziative come la riunione del Cooordinamento del Nord a Genova nel 2009, passando per convegni come quello di Torino su "Il Nord, l'Italia e lo sviluppo", fino alla convention “Da Nord” di pochi giorni or sono (da cui le regioni speciali sono state incomprensibilmente escluse). Nel tempo, non sono mancati i richiami a far assumere al Partito una forte impronta federale, nella convinzione che essa potesse rappresentare un fattore di maggiore aderenza alle esigenze dei territori produttivi e dei soggetti sociali. Al di là di rilevanti gesti amministrativi locali, da Torino a Padova, le discussioni sono restate spesso teoriche e le riunioni non hanno generato decisioni e atti legislativi e programmatici, in ciò, paradossalmente, procedendo di pari passo con le velleità autonomiste vessillo della Lega e del Governo Berlusconi. Non siamo andati oltre le formule scaramantiche contro le arretratezze della proposta leghista, e abbiamo mancato di misurarci su questioni stringenti come l'economia e i flussi, le reti locali e globali tra l'Europa e il Mediterraneo, quali occasione di empatia tra Partito e nord. Nel frattempo parte del vuoto politico ha attratto tentativi di spin off come “verso Nord”. Sotto le increspature di superficie, nel pieno del travaglio della Lega e dell'esplodere dei populismi, l’affermazione diffusa del Pd nei governi locali è una delle condizioni per non accantonare nuovamente il tema del nord, inevitablmente intrecciato con quello del Paese e il destino del Partito. Se ci chiediamo perché finora si è andati in una direzione opposta e, contemporaneamente, siamo disposti a darci una risposta non ortodossa, potremmo sostenere in prima battuta che non ci siamo posti il problema in modo corretto. Il Pd ha affrontato la questione del Nord a partire dal Pd, piuttosto che porsi dal punto di vista dei bisogni e delle aspirazioni del Nord, delle sue città e dei soggetti protagonisti del lavoro. L'obiettivo della guida del Paese e la presenza radicata nei governi locali e regionali favoriscono l'inversione del processo e ci devono rendere maggiormente consapevoli che qualunque progetto nord e aspettativa di leadership elettorale non possono eludere, ad esempio, le domande preliminari su cosa serve all'Italia per raggiungere il

All’Italia, per diventare virtuosa, serve meno fisco, meno burocrazia, più efficienza della pubblica amministrazione, più federalismo

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La rISPOSta gruppo di testa dei Paesi sviluppati. All’Italia, per diventare virtuosa, serve meno fisco, meno burocrazia, più efficienza della pubblica amministrazione, più federalismo; per competere servono più investimenti, maggiore celerità dei procedimenti, reti ferroviarie e porti, integrazione di reti e logistica, medie imprese votate all'export, ricerca e sviluppo; e per avere un futuro bisogna dare spazio ai giovani nei luoghi del lavoro e del governo, annullare le precarietà, credere nella ricerca delle eccellenze nei vari settori, città in rete, tutelare i patrimoni e l'autenticità. E' più semplice a questo punto affrontare e risolvere il problema della soggettività che il Nord sta cercando o, faticosamente, acquisendo sia attraverso le affermazioni politiche sia le relazioni costruite nel mondo. Il Pd è chiamato a superare un tradizionale ruolo di rappresentanza, concentrato nella raccolta del pubblico impiego, dei lavoratori subordinati sindacalizzati e dei pensionati. Può riuscirci se è capace di fornire una risposta a domande come queste: "in che rapporto il nord intende porsi con il contesto politico istituzionale e con le difficoltà dello Stato?"; "in che modo può praticare l'alleanza con altre regioni dell'Europa, dal momento che la globalizzazione e l'UE sollecitano una diversa regionalizzazione?"; "come il nord sta in Italia e nel mondo, qual è la sua missione e dov’è il suo futuro". Non sono riflessioni nuove: sono riflessioni che però non sono mai entrate nell’agenda politica del Pd a livello nazionale. Dobbiamo far leva sui governi delle città e delle Regioni; e dobbiamo recuperare un bagaglio di esperienze che paiono disperse e non avere prodotto effetti degni di nota. Ad esempio, con la sottoscrizione nel 2007 della “Carta di Venezia” e poi degli “Impegni di Milano” si è formato il Tavolo interregionale per lo sviluppo territoriale sostenibile della macro regione padana-alpina; l’Emilia Romagna, il Friuli Venezia Giulia, la Lombardia, la Liguria, il Piemonte, la Valle d’Aosta e Veneto, e le Province Autonome di Bolzano e di Trento hanno cercato di confrontarsi al fine di rappresentare al meglio le esigenze della macro-regione, con un territorio di 120.000 km quadrati e 27 milioni di abitanti, con oltre il 54% del Pil italiano, in grado di contribuire ulteriormente alla ricchezza e all’innovazione in ambito nazionale. Un’area che, va osservato, benché auto-riconosciutasi porta dell’Europa verso il Mediterraneo e i paesi 92


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La rISPOSta dell’economia emergente, non è stata capace di compiere atti concreti; o meglio, le sue istituzioni e rappresentanze politiche non sono state capaci di ripensare alle esistenti singole strutture. Con la Conferenza dell'ottobre 2010 a Genova, le Regioni hanno riproposto gli intenti originari in un apposito Tavolo chiamato ad affrontare e approfondire, tra gli altri, il nesso tra sviluppo sostenibile e identità sovraregionale, gli strumenti di pianificazione e la condivisione delle buone pratiche, le possibili sinergie per progetti condivisi di cooperazione europea, le questioni delle risorse idriche, delle reti ecologiche e dei nodi infrastrutturali. Il 27 gennaio 2012 si è tenuta a Bologna un’altra iniziativa del Tavolo interregionale per lo sviluppo territoriale sostenibile dell’area Padano-Alpino-Marittima (MAP), cui hanno partecipato le stesse Regioni del nord, alla ricerca di un collaborazione interistituzionale per favorire la ricerca di soluzioni in vari campi; l'esito dell'incontro è dato dalla sottoscrizione di una Agenda, battezzata “Agenda di Bologna”, che indica gli impegni comuni per uno sviluppo territoriale omogeneo dell’area riconducibile al minor consumo del suolo, alla riduzione delle criticità ambientali e alla semplificazione delle procedure. Non possiamo disperdere occasioni di questo tipo. Al Pd del Nord compete condividere esperienze e riflessioni, indicare questioni e percorsi concreti, da cui prenda forma una più elevata consistenza della nostra capacità di rappresentanza politica e sociale. Un lavoro ancora più importante in un periodo politico in cui l'harakiri della Lega Nord lascia prive di rappresentanza diverse fasce di consenso. Un vuoto politico che non rimarrà tale a lungo, perché la disillusione e la rabbia hanno già trovato in Grillo il loro ascoltato profeta. E la trasformazione della Lega Nord, da movimento che lascia dietro di sé il folklore padano a serio partito territoriale sul modello della Cdu tedesca, è un opzione che troppo spesso sottovalutiamo e che la figura di Roberto Maroni può in una qualche maniera facilitare. Solo se sapremo raccogliere queste sfide e vincerle saremo in grado di ridare attrattività al nostro territorio e di tornare dai nostri imprenditori, ma anche dai lavoratori, senza la cenere sul capo.

Al Pd del Nord compete condividere esperienze e riflessioni, indicare questioni e percorsi concreti, da cui prenda forma una più elevata consistenza della nostra capacità di rappresentanza politica e sociale

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La rISPOSta

Patto sociale per crescita ed equità

Guglielmo Epifani

è presidente dell’Associazione Bruno Trentin

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uesti lunghi anni della crisi stanno cambiando profondamente assetti produttivi, condizioni sociali, interessi, aspettative e domande del nord del paese. Non serve ricorrere alle statistiche per comprendere che dietro i numeri della crisi, il calo del prodotto industriale e dei servizi, l'entità della disoccupazione, si cela la fotografia di quella parte storicamente più sviluppata e più ricca dell'Italia. Il Mezzogiorno conserva ed esprime la realtà più pesante, soprattutto in termini di in occupazione giovanile e ritardi nella infrastrutturazione civile; ma è evidente che la caduta del prodotto interno, quasi 8 punti fino ad oggi dall'inizio della crisi, passa per il nord, per la condizione delle sue imprese,dei suoi servizi,delle sue filiere. Fa parte di questa trasformazione una crescente divaricazione nei risultati e nelle prospettive interne al sistema produttivo. Quello che colpisce di più infatti in un quadro generale di grandissima e crescente difficoltà, è la contrapposta situazione in cui si trovano le aziende che hanno innovato processi e prodotti, e si sono internazionalizzate investendo nei relativi nuovi mercati, e tutte le altre. Le prime macinano utili e prospettive di crescita,assumono anche in Italia, programmano investimenti e acquisizioni. Le seconde arrancano, perdono quote di mercato, rinviano investimenti e piani di sviluppo e in molti casi pagano con crisi e chiusure la loro 94


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La rISPOSta sottocapitalizzazione e gli errori fatti negli ultimi 10 anni. Le catene dell'indotto e delle subforniture e quelle dei servizi seguono la condizione dei mercati e dell'impresa di riferimento. Più omogenea sembra la condizione dell'artigianato e delle piccole catene di consumo, dove però la scarsa reperibilità di credito, il suo costo crescente e la crescente contrazione della domanda mettono fuori dal mercato un numero sempre più alto di aziende familiari. Infine la crisi di un settore tradizionalmente anticiclico come quello delle costruzioni e dell'edilizia aggiunge, a differenza del passato, problemi ai problemi e apporta un differenziale negativo in termini di disoccupati e stasi degli investimenti davvero impressionante. Tutto questo quadro ha delle conseguenze inevitabili su differenziali di produttività, politiche della formazione e del lavoro, ricadute sulla situazione territoriale,anche all'interno delle stesse provincie e delle stesse regioni. Prima del terremoto, ad esempio, una zona come quella di Modena presentava pochissimi problemi di carattere produttivo. Nel Veneto, pur in presenza di una contrazione dei livelli della produzione, si mantengono punti di assoluta eccellenza e dinamismo e in tutta la fascia pedemontana in Lombardia la situazione sembra ragionevolmente sotto controllo. Un patto per la produttività e la crescita richiede quindi, tenendo presenti i bisogni vecchi e nuovi di questa parte del paese, più piani di intervento correlati e più ambiti di lavoro. l primi riguardano il bisogno di attivare, dentro la crisi e dentro la ricerca di una politica di bilancio rigorosa, politiche mirate di sostegno alla innovazione, di stimolo fiscale agli investimenti e di rilancio della domanda nei settori anticiclici. Non va bene una politica dei due tempi, prima i tagli poi la crescita, perché abbiamo bisogno oggi di uscire dalla spirale depressiva in cui siamo caduti, dove le inevitabili scelte di rigore finiscono anche per ridurre ulteriormente domanda, consumi ed occupazione, deflazionando salari e investimenti. E se una parte di questa domanda passa per la capacità di spesa dei comuni, ci vogliono scelte di bilancio che non centralizzino di nuovo tutto svuotando di senso le linee e i bisogni dei fattori di sviluppo locale. Nel nord questo

Un patto per la produttività e la crescita richiede quindi, tenendo presenti i bisogni vecchi e nuovi di questa parte del paese, più piani di intervento correlati e più ambiti di lavoro

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La rISPOSta sembra il primo problema da correggere, unitamente all'esigenza di riaprire i flussi di credito verso imprese e famiglie, anche per evitare quel che si è verificato fino ad oggi e che ha costretto alla chiusura tanti esercizi e tante attività di piccolissime imprese spesso a carattere artigianale colpite, prima ancora che dalla crisi di domanda, dalle difficoltà di ordine finanziario. Il secondo punto di un patto sociale deve muovere dalla ripresa di una politica industriale fortemente legata agli strumenti di programmazione regionale, fondata sul rapporto tra istituti di ricerca e innovazione, università e punti di formazione d'eccellenza, e il sistema delle imprese. Come ha suggerito per ultimo anche il governatore della Banca d'Italia, il campo delle energie rinnovabili e delle reti, quello della messa in sicurezza del territorio e delle città, la frontiera del risparmio energetico e della bioedilizia, rappresentano il cuore di una diversa e più moderna idea di politica industriale. E proprio per questo la dimensione regionale è quella maggiormente adatta ad un governo efficiente delle scelte e dell'allocazione territoriale. Naturalmente bisogna evitare che le modalità dei tagli lineari decisi dal governo abbiano gli effetti negativi lamentati dagli enti locali e che si tengano assieme anche a questo livello le scelte del rigore e quelle della crescita. Il terzo punto di un lavoro condiviso tra le parti sociali riguarda il tema della produttività. Qui scontiamo come paese il ritardo più pesante, soprattutto rispetto alla situazione tedesca nel corso del decennio che abbiamo alle spalle. Occorre essere chiari: il nostro ritardo si gioca soprattutto su due fattori, gli investimenti in innovazione e l'organizzazione della produzione, a partire dalla gestione dei tempi e della formazione del lavoro. Qualsiasi accordo deve quindi partire da questi terreni,come pure in molte aziende si è fatto e continua a fare. E bisogna rendere più efficiente tutta l'infrastrutturazione, soprattutto quella immateriale. Uno spazio che andrà affrontato in maniera totalmente nuova riguarda la gestione delle crisi e delle ristrutturazioni in relazione agli strumenti disponibili. Con la inopinata riforma del lavoro verranno infatti a mancare una parte degli ammortizzatori esistenti e questo, in rapporto alle modifiche introdotte nella età del pensionamento, renderà superato lo schema del passato, quando gli ammortizzatori 96


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La rISPOSta potevano accompagnare alla pensione i lavoratori coinvolti nelle crisi aziendali. Dobbiamo prendere esempio dalla Germania, favorire politiche di solidarietà tra i lavoratori riducendo l'orario e favorendo percorsi di riqualificazione, con un diverso valore da attribuire all'esperienza, alla seniority, alla coesione sociale. Su questo aspetto faremo una delle verifiche dei mutamenti in corso. Da molte parti si dice che con la crisi si supera quella cultura dell'individualismo proprietario, dell'identità ristretta e chiusa che ha contrassegnato l'ondata liberista anche nel nostro paese. Molti segnali ci dicono che qualcosa sta realmente cambiando e che si fa strada una idea più cooperativa dell'agire e della responsabilità individuale e anche un diverso rapporto tra il ruolo del pubblico e le nuove domande sociali prodotte dalla durezza della crisi. Se si guarda al terremoto e alle dinamiche sociali che ha determinato, effettivamente si coglie lo spirito di un possibile cambiamento. E la stessa maturità si coglie nel rapporto tra impresa e lavoro,con l'eccezione della Fiat, e nella volontà di condividere un progetto di fuoriuscita dalla crisi, senza rassegnazione o reciproche subalternità. La nuova Confindustria di Squinzi si vuole muovere in questa direzione e tuttidovrebbero apprezzare questa scelta e anche il linguaggio di verità e poco paludato che comporta. Ma ora, come pure Squinzi ci dice, tocca alla politica tornare a guidare i processi sociali e culturali necessari. Una politica di vera concertazione in Italia manca da quasi 12 anni. Con la concertazione si superò la gravissima crisi del '92, si stabilì il patto sulla politica dei redditi dell'anno successivo, si affrontò la prima riforma radicale, basata sul sistema contributivo, del sistema pensionistico, si costruirono le condizioni per l'ingresso nell'Euro. Con i governi di centrodestra si affermò un'altra strada, quella degli accordi separati,delle trattative clandestine,della divisione sindacale. Gli anni del declino sono stati accompagnati dall'abbandono di una vera e trasparente concertazione. Per questo tocca alla politica decidere, e soprattutto al centrosinistra. Un patto per la crescita nel mezzo di una crisi come quella che viviamo sembra una sfida temeraria e ai limiti del possibile. Ma non lo è certo tornare a

Dobbiamo prendere esempio dalla Germania, favorire politiche di solidarietà tra i lavoratori riducendo l'orario e favorendo percorsi di riqualificazione

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La rISPOSta scommettere sulla coesione tra i soggetti della rappresentanza sociale e a porsi, come paese, l'obiettivo di una maggiore uguaglianza e giustizia sociale come fattore di crescita e di sviluppo magari riprendendo, attualizzandola, la grande suggestione del piano del lavoro.

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La rISPOSta Nel 1949, nell'Italia di quel tempo, fu l'occasione per affermare che ci voleva una diversa politica economica per l'occupazione. Oggi potrebbe essere l'occasione per ridare speranza e fiducia ad un paese scosso e in profonda difficoltĂ .

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La rISPOSta

Una piattaforma per lo sviluppo del nord Giuseppe Berta

insegna Storia Contemporanea all’Università Bocconi di Milano

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e aree metropolitane del Nord (Milano, Torino, Genova), hanno esercitato in passato un ruolo di guida e di traino dello sviluppo italiano, sia per la massa di risorse che hanno coagulato sia per la loro visibilità. È innegabile, tuttavia, che da tempo hanno smesso di svolgere questa funzione. Più in generale, nel corso dell’ultimo anno si è fortemente attenuata l’attenzione politica per i temi della società settentrionale. Sembra quasi che il declino della Lega Nord – il soggetto che aveva impresso valenza politica alla “questione settentrionale” e avanzato la proposta federalista abbia sopito l’interesse per la specificità del Nord nell’ambito di una visione della società italiana. In realtà, la questione settentrionale è stata oscurata, in larga misura, per effetto delle politiche di riequilibrio finanziario, che posseggono un’inevitabile caratterizzazione centralistica. Ciò tuttavia ha prodotto la conseguenza di depotenziare la capacità di elaborare una rappresentazione dello sviluppo italiano, che non può evidentemente fare a meno di attribuire un risalto particolare alla funzione del Nord. Del resto, le elezioni amministrative che si sono svolte nella primavera di quest’anno non hanno condotto a una rivitalizzazione delle tematiche dello sviluppo locale, le quali anzi hanno subìto a loro volta un ridimensionamento. Pensiamo, per esempio, al caso di Genova, che ha assistito a un cambiamento importante nella compagine che amministra la città, senza peraltro che sia stato identificato un nuovo asse di sviluppo per il capoluogo ligure e il territorio che influenza. Anche Milano, del resto, la città del Nord che ha da sempre le maggiori dotazioni economiche e strutturali e la

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La rISPOSta rete più fitta di collegamenti internazionali, non è riuscita a esprimere una leadership del Nord Italia come nei suoi momenti migliori. Lo prova l’offuscamento di un’iniziativa come l’Expo 2015, via via svuotata non soltanto di significato, ma anche di quel valore di riferimento che all’inizio era parso dovesse avere. Quanto a Torino, è forse l’area metropolitana che sta pagando il prezzo più alto alla crisi, con una gelata che sta frenando la sua evoluzione in un sistema polisettoriale capace di operare una graduale diversificazione rispetto al monocromatismo industriale di un tempo. Difficilmente i tre grandi poli urbani di Milano, Torino e Genova sapranno ritrovare il sentiero dello sviluppo se guarderanno soltanto all’interno dei propri confini. Nemmeno Milano, pur con la concentrazione di relazioni e di risorse che la contraddistingue, riuscirà a proporsi come un vettore di crescita, se farà perno soltanto su di sé. Nella realtà composita, policentrica e sempre più mobile che connota la rete competitiva delle città contemporanee, i nostri sistemi metropolitani rischiano di perdere posizioni, se si illuderanno di poter muovere in primo luogo da se stessi, senza far leva invece su un’interazione più ravvicinata e stringente. Nello stesso tempo, non si può pensare a una riedizione degli schemi di cooperazione fra le città evocati a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Diciamo la verità: “MiTo”, l’alleanza fra Milano e Torino, non ha dato fin qui risultati significativi. E il tentativo di integrare Genova in questa forma di collaborazione si smonta già dall’acronimo: “Ge-Mi-To” suona francamente inquietante… Non è questa, dunque, la strada maestra. Anche perché esclude, piuttosto di includere: i territori provinciali, persino quelli dislocati nelle aree limitrofe, soffrono (spesso non a torto) del sospetto di essere tagliati fuori da un dialogo che li sorvola, accentrandosi soltanto sulle città di dimensioni più estese. È ora di alzare il tiro. Le aree metropolitane devono lavorare insieme a uno schema di cooperazione in grado di affrontare alcuni nodi irrisolti del passato. Per fare questo, esse dovrebbero quanto meno porsi nella logica di costituire una piattaforma per il Nord. Operare cioè nella logica di una filiera d’integrazione che non può avere né limiti né confini prestabiliti, ma che si proponga come una geografia in costruzione, un sistema territoriale aperto. Occorre saper andare oltre la vecchia divisione fra Nord

Nella realtà composita, policentrica e sempre più mobile che connota la rete competitiva delle città contemporanee, i nostri sistemi metropolitani rischiano di perdere posizioni

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La rISPOSta Ovest e Nord Est. Una distinzione che sta diventando obsoleta perché questi due universi territoriali (una volta così ben ravvisabili nei loro caratteri di fondo) da più di un decennio stanno subendo un processo di avvicinamento. Così, un nuovo ragionamento sul Nord che parta dai poli urbani non può non misurarsi con Verona, oltre che con Brescia. Si tratta di progettare una mappa in cui sia ridisegnata una rete di interdipendenze funzionali. Che si proponga di accelerare le tendenze all’integrazione con coerenti scelte amministrative. Che miri a mettere in rilievo quanto si può mettere in comune con vantaggio reciproco, in modo da costituire una massa critica di fattori per lo sviluppo tale da risultare di per sé un elemento incentivante, di vantaggio competitivo. È chiaro che un simile obiettivo richiede la capacità di compiere uno scarto rispetto a una storia amministrativa che sollecita innovazioni risolute: non bastano più, infatti, le “narrazioni pubbliche locali” (come scrive acutamente il sindaco di Forlì, Roberto Balzani, nel suo bel saggio Cinque anni di solitudine. Memorie inutili di un sindaco, Il Mulino 2012) a sorreggere piani di sviluppo locali che si sono fatti troppo esili, dopo lo sconquasso della crisi. I sindaci dovrebbero assumere consapevolmente il compito di una nuova classe dirigente che guarda al Nord come al principale motore di sviluppo dell’Italia. Dovrebbero raccogliere su di sé la missione incompiuta e tradita di un federalismo che è stato solo ideologia e che oggi, con la propria rimozione dal mercato della politica, rischia di veder rimosse anche le istanze migliori delle autonomie locali. Esistono nodi e questioni che possono essere affrontati soltanto in questo modo, con la lungimiranza di politiche orientate a creare opportunità di sistema. Pensiamo per esempio alla logistica, su cui l’Italia registra un ritardo considerevole rispetto ai maggiori partner europei. L’agenda delle infrastrutture costituisce la cornice entro cui far crescere capacità, qualità e livello degli operatori. In altri termini, va riattivata una logica di complementarietà fra l’investimento infrastrutturale pubblico e l’iniziativa imprenditoriale privata, privilegiando le opere che tendono in questa direzione e corrispondono a criteri di sistema per tutto il territorio settentrionale. Il presente non permette più a ogni area di perseguire opere pubbliche che obbediscano in primo luogo a sollecitazioni locali e non muovano invece 102


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La rISPOSta dall’identificazione di convenienze condivise. Inoltre, esiste già un primo traguardo a cui rapportarsi, il 2016, quando entrerà in funzione il nuovo traforo del S. Gottardo. Altrettanto strategico per il Nord è il versante delle public utilities. Fin qui ci si è orientati sverso una strategia di fusioni, puntando a elevare le dimensioni d’impresa, con l’ipotesi di qualche proiezione internazionale. Il disegno di coesione territoriale che si è evocato suggerisce di prendere in esame anche un’altra via, che miri a una politica di federazione e alleanze fra le società locali di servizio, senza sfociare necessariamente in vere e proprie fusioni, ma considerandole piuttosto come un arcipelago unitario. Questo modello “alla tedesca” consentirebbe, da un lato, di mantenere il bacino territoriale da cui queste imprese traggono la loro specificità e, dall’altro, di sospingerle a uscire dal loro alveo locale. Il contributo che una piattaforma per lo sviluppo del Nord, sostenuta dalla forza di autonomie locali rinnovate, potrebbe dare per il rilancio dell’Italia appare di primo piano. Non da ultimo perché, riattivando un circuito virtuoso tra politica e amministrazione, restituirebbe smalto e valore alla partecipazione civile.

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La rISPOSta

Una bussola umanistica Ferruccio Capelli

è direttore della Casa della Cultura di Milano

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È durata all’incirca un anno la lunga agonia dei populismi leghista e berlusconiano, ovvero delle due formazioni che per vent’anni hanno dato il segno alla vita politica italiana: scalzate dal governo a seguito della drammatica crisi finanziaria dell’agosto 2011, alcuni mesi dopo, alle elezioni amministrative della primavera 2012, hanno subito un autentico tracollo elettorale. Entrambe non hanno retto all’inasprirsi della crisi. Nel drammatico passaggio dello scorso agosto Lega e Pdl sono state paralizzate proprio dalle promesse cui erano solite abbandonarsi. Il governo Berlusconi – Bossi è caduto perché impossibilitato a prendere misure urgenti di contenimento del bilancio pubblico: il rifiuto della Lega a ogni intervento sulle pensioni e l’impossibilità del Pdl di ripristinare la tassazione sulla casa hanno reso inevitabile la caduta del governo. Contemporaneamente i due leader, padri padroni dei rispettivi partiti, indeboliti politicamente dalla crisi del governo, non sono riusciti a reggere due bufere mediatico – giudiziarie parallele: Berlusconi ha pagato il prezzo del bunga – bunga e della sua corte dei miracoli mentre Bossi è stato travolto dal Trota, da Belsito e dalla Tanzania. Leghismo e berlusconismo sono accomunati in una medesima parabola politica. Essi si erano affacciati quasi in concomitanza sulla scena politica italiana, assieme hanno poi raggiunto il massimo dell’influenza e del potere e, sempre assieme, hanno ora imboccato la strada del declino, per altro assai rapido. Emersi entrambi nella crisi politica dei primi anni Novanta toccarono l’apice della loro influenza il decennio successivo quando, accantonata la competizione reciproca, siglarono un patto di ferro con il quale garantirono la lunga durata dei governi berlusconiani. La loro ascesa vertiginosa e il loro lungo successo erano 104


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La rISPOSta dovuti all’abilità e alla determinazione con la quale hanno usato alcuni cliché populisti: l’identificazione dell’elettorato con il leader, la contrapposizione tra il “loro” popolo e gli altri cittadini, la critica aggressiva al resto del sistema politico. Bossi e Berlusconi sono stati infatti due leader carismatici, padri - padroni dei rispettivi partiti; entrambi hanno agitato il loro elettorato contro altri cittadini, fossero essi i meridionali o i comunisti ed ambedue hanno cavalcato la critica contro il vecchio sistema politico, contro Roma – ladrona e le estenuanti mediazioni della politica. Questi punti di forza durante l’ultimo anno, nella stretta della crisi, si sono trasformati in talloni di Achille. La demagogia si è rivelata un’arma spuntata dinnanzi all’aggressione speculativa dei mercati: le promesse spudorate si sono sgonfiate tra le mani e sono state loro rinfacciate dagli elettori. Nel contempo anche il leaderismo, potente arma di semplificazione della lotta politica, si è trasformato in una palla ai piedi: leader appannati e azzoppati sono diventati facile bersaglio del malumore popolare. Insomma, le due formazioni populiste della destra italiana, il populismo mediatico berlusconiano e il populismo etno-escludente bossiano, hanno imboccato la parabola discendente nella stretta della crisi economica.

Bossi e Berlusconi sono stati infatti due leader carismatici, padri - padroni dei rispettivi partiti; entrambi hanno agitato il loro elettorato contro altri cittadini, fossero essi i meridionali o i comunisti

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Il governo formato dai due partiti della destra populista è stato dimissionato: al suo posto sono subentrati Monti e i tecnici. Non per questo la pressione populista si è dissolta nell’aria. La Lega e il Pdl restano ancora in campo, sia pure con traiettorie politiche al momento differenziate: l’una all’opposizione e l’altra in appoggio al governo Monti. Difficile oggi dire che esito avranno i tentativi dei due partiti di ridefinire strategia e immagine politica. Alle elezioni amministrative di primavera i consensi che Lega e Pdl hanno perso per strada sono finiti o nell’astensione o hanno ingrossato le fila di un’altra formazione populista, il Movimento Cinque Stelle guidato dal comico Beppe Grillo. Di certo nella nostra opinione pubblica continuano a sedimentare, o forse perfino si stanno allargando, disaffezione e insofferenza per il sistema politico e apprezzamento per scorciatoie e suggestioni demagogiche. Le ragioni che alimentano questa persistente e inquietante minaccia populista meritano di essere meditate attentamente. Il fenomeno, notoriamente, non è solo italiano: nessun paese europeo ne è immune. In Italia esso assume però una 105


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La rISPOSta continuità e un’aggressività particolare. Con ogni probabilità al fondo di questo fenomeno inquietante vi è proprio la povertà e la debolezza della politica. Da tempo essa ha perso la capacità di rappresentanza e l’autorevolezza per indicare dove andare. Tutto ciò si è ulteriormente accentuato durante questi anni di crisi: la politica “responsabile” sa dire solo che bisogna “rassicurare i mercati”. Si tratta di un mantra ripetuto ossessivamente, cui devono corrispondere inesorabilmente tutte le essenziali scelte politiche. Proposte e ricette politiche sono fissate dalla potentissima tecnostruttura globale. Essa non ha nessuna legittimazione democratica ed è composta, generalmente, dalle stesse persone che hanno portato il mondo verso la crisi. Eppure i governi e le forze politiche devono semplicemente applicare e adattare ai vari contesti nazionali gli orientamenti e le decisioni fissate dagli organismi che presiedono alla finanza e all’economia globale. Essi parlano a un tempo il linguaggio della ragionevolezza e della inesorabilità: sono generosi di buoni consigli, ma anche inflessibili, perfino spietati ( alla Grecia hanno perfino chiesto di abbattere il salario minimo! ). Essi indicano una sola strada possibile, non accettano oscillazioni e defezioni, ma lo dicono sempre con tatto e con garbo. Non ricorrono mai a minacce: se qualcuno non segue i loro consigli incorrerà

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La rISPOSta - purtroppo, aggiungerebbero - nella punizione di un soggetto impersonale, i “mercati”. Questi nuovi signori del mondo sono affabili e sorridenti, vestono perfino in casual, come quelli che nei giorni scorsi, dopo aver parcheggiato i propri jet personali, si sono incontrati in una località di vacanza dell’Idaho per un seminario di lavoro. Semplicemente, essi ribadiscono a ogni passo che non ci sono margini per sfuggire alla loro volontà. E’ inesorabile che tutto ciò alimenti uno sconcerto e un fastidio diffuso e che a lungo andare provochi la ribellione della “piccola gente”. Proprio come accadde nell’America a cavallo tra Ottocento e Novecento quando l’arroganza e lo strapotere dei nuovi “baroni” provocò la rivolta populista dei piccoli proprietari agrari. Fu quella la prima protesta populista nel mondo occidentale: essa ricorda e contiene alcuni aspetti dell’ondata populista che si sta formando nel nuovo mondo globale.

La politica sembra stretta in una morsa tra la spietata ragionevolezza imposta della super élite globale e la confusa e inconsulta protesta populista

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La politica sembra stretta in una morsa tra la spietata ragionevolezza imposta della super - élite globale e la confusa e inconsulta protesta populista. Lo scenario al momento sembra occupato solo da due narrazioni, quella potente dell’élite tecno – globale e quella arruffata e semplificatoria della protesta populista. Il punto essenziale sta proprio qui, ovvero se è possibile allentare questa morsa paralizzante e soffocante. Le forze “responsabili” sono schiacciate in un’identificazione innaturale con la super – élite globale: sembrano costrette ad accettare e applicare ogni suggerimento e orientamento della tecnostruttura economico – finanziaria globale. Ogni tanto qualche scatto di dignità come, qui in Italia, con una legge su lavoro meno indecente di quanto richiesto, ma il tutto sempre di rimbalzo, tra mille remore, incertezze e preoccupazioni. Nulla che lasci intravedere un’altra lettura della crisi, un’altra griglia di priorità, un altro discorso. Serve qualcosa di più. Bisogna ritrovare la capacità di declinare assieme responsabilità e cambiamento. In altre parole, è urgente mettere in campo un’altra narrazione, un altro logos, inteso - suggerisce Mauro Magatti nel suo ultimo saggio – come la “capacità di raccogliere ( e legare/ legein ) attorno a un filo … la molteplicità delle esperienze”, di “trascendere e integrare i frammenti in una direzione”. In poche parole, servirebbero forze responsabili, ovvero “non populiste”, capaci di indicare altri obiettivi e un altro percorso. 107


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“Bene comune” è un concetto antico, tanto e forse perfino più di quello di democrazia. Anch’esso però sta tornando di prepotente attualità

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Mentre l’élite globale ripete ossessivamente che bisogna “rassicurare i mercati” servirebbe uno scarto, a un tempo radicale e ragionevole, per fissare altre finalità. E’ l’accavallarsi stesso dei problemi ad indicarci le due idee centrali attorno a cui ricostruire un altro ragionamento: democrazia e bene comune. Esse appaiono come il nucleo di un’altra possibile narrazione, di un altro logos con cui costruire una griglia di scelte e di priorità. “Democrazia”, innanzitutto. Essa subisce un grave vulnus quotidiano proprio in quell’Europa dove vengono prese le decisioni più importanti in modo opaco, in organismi privi di legittimazione democratica. Da qui una possibile stringente conclusione operativa: accantonare le discussioni sulla riforma della Costituzione italiana che si trascinano in modo inconcludente da vent’anni e spostare tutta la discussione sull’impossibilità di continuare a operare in un’Europa dove c’è una moneta senza uno stato e dove operano poteri ultrapotenti senza la cornice di una Costituzione democratica. “Bene comune” è un concetto antico, tanto e forse perfino più di quello di democrazia. Anch’esso però sta tornando di prepotente attualità proprio perché minato nei suoi presupposti: esso è stato buttato fuori dal discorso pubblico nella convinzione che l’autoregolamentazione dei mercati rendesse superfluo pensarlo e costruirlo. I mercati, si è argomentato con una virulenza che non accettava obiezioni, sono in grado di garantire “naturalmente” le migliori soluzioni possibili. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Proprio per questo “bene comune” oggi è un obiettivo che ritorna, da ridefinire e riconquistare. Esso implica un’azione lunga e tenace per riportare sotto controllo quei “mercati” che sembrano essersi autonomizzati dalla volontà umana e fanno gravare sul nostro orizzonte una minaccia permanente di instabilità e insicurezza. Nel contempo esso richiede il coraggio di riproporre e ripensare le questioni del legame sociale e del sistema di protezione: isolamento e solitudine sono le minacce più inquietanti che stanno corrodendo il nostro tessuto sociale. Detto in altre parole, si tratta di optare per una “bussola umanistica” con cui costruire giorno per giorno un’altra narrazione, con cui spezzare la falsa alternativa tra il razionalismo disumanizzante dell’élite globale e la pericolosa e inconcludente reazione populista. Con la speranza che un nuovo discorso umanistico renda possibile anche riassorbire almeno in parte - quegli umori populisti nei quali, in forme non di rado perfino allarmanti e minacciose, si convogliano motivi reali di inquietudine e di disagio.


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Documento: Per la ricostruzione nazionale Maurizio Martina

è il segretario regionale del Pd Lombardia

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L’individualismo proprietario di Berlusconi e l’ideologia del localismo di Bossi non hanno retto l’urto dei cambiamenti che la globalizzazione ha scaricato sui territori

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siste ancora una questione settentrionale? E se esiste, come possiamo raccogliere la sfida misurandoci con le novità che stanno emergendo? La premessa che ci sentiamo di fare è semplice ma essenziale: noi non possiamo più permetterci di oscillare tra la negazione del tema (com’è spesso avvenuto in questi anni) e la sua esaltazione acritica. Abbiamo bisogno di affermare un nostro punto di vista autonomo perché solo così possiamo essere utili e credibili. E abbiamo bisogno di collocare il senso di questo lavoro dentro la sfida della ricostruzione nazionale, nella crisi di sistema radicale che l’Italia sta attraversando. Senza retorica e senza inutili conflittualità perché anche per il nord il tema cruciale è quale Italia in Europa nel tempo della globalizzazione. Abbiamo sempre riconosciuto che non usciremo da questo passaggio storico come ci siamo entrati. Chiamiamola Terza Repubblica o come altro vogliamo ma il nodo di fondo è chiaro: dobbiamo riorganizzare i tratti essenziali del nostro stare assieme perché la statualità che ci ha portato fino a qui, senza cambiamento e riforme, non è in grado di farci reggere le novità che stanno emergendo. E proprio il rinnovamento della statualità è una condizione essenziale per rispondere alla questione sociale profonda che abbiamo di fronte. Anche per questo, quando riflettiamo della crisi della nostra democrazia dobbiamo approfondire il tema delle fratture territoriali. Parliamo di questioni molto concrete: di modello di sviluppo, di sistemi economici, di reti di protezione sociale, di rapporto pubblico/privato, di rapporto centro/periferia, di nuova composizione sociale e demografica. La destra egemone per lunghi anni ha fallito questa sfida. L’individualismo proprietario di Berlusconi e l’ideologia del localismo di Bossi non hanno retto l’urto dei cambiamenti che la globalizzazione ha scaricato sui territori. L’investimento elettorale sulle paure ha avuto il fiato corto. Ha generato smarrimento, rabbia, solitudine. E’ vero che la speculazione che i populismi hanno giocato sulle domande di cambiamento che il nord ha espresso è stata parte del cortocircuito che si è alimentato. Ma piaccia o non piaccia, il forza-leghismo è stato anche un formidabile collante che ha unito mondi spesso assai diversi. Non si è trattato solo di marketing elettorale. E’ stata una vera e propria operazione culturale prima ancora che una sponda politica. E va detto chiaro, con spirito autocritico, che troppo


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La rISPOSta spesso la nostra iniziativa di fronte a questa avanzata è risultata subalterna e debole. Ora possiamo dire che si è aperto un vuoto di rappresentanza con molte incognite e che tocca a noi avanzare una proposta all’altezza della situazione. Sapendo che abbiamo davanti gli stessi cittadini e che certe domande non sono andate in soffitta. Il capitalismo molecolare dell’impresa famiglia di questi territori, ad esempio, c’è ancora: ieri magari chiedeva solo libertà, oggi domanda certamente più protezione. Le istanze di maggiore efficienza nel rapporto con la pubblica amministrazione non sono più solo un fatto per le imprese, sono temi sempre più acuti anche per le famiglie e per i cittadini. La richiesta di una maggiore giustizia fiscale e di un equilibrio nuovo tra ciò che dai e ciò che ricevi rimane uno dei nodi decisivi. Il punto è ancora accompagnare questi territori e questi soggetti sociali nella modernità. Offrire loro un’idea positiva dello spazio pubblico ricordando a tutti innanzitutto che proprio il nord, forse più di altri, è legato indissolubilmente all’orizzonte europeo. Altro che le sparate folli sull’uscita dall’Euro. Sapendo che la crisi ha battuto e batte ancora forte, cambiando spesso radicalmente i comportamenti e la quotidianità. Basta guardare alle ultime ricerche sulle difficoltà e le trasformazioni del ceto medio nelle nostre regioni per rendersi conto della profondità di certe trasformazioni. La crisi riporta la questione settentrionale nel suo alveo originario: è innanzitutto questione sociale ed economica. Lo sviluppo spontaneo che ha accompagnato il nord per anni è finito, la crescita si è fermata. Nel frattempo, i livelli di tassazione di redditi e imprese e la ripartizione dei carichi fiscali è rimasta pesantemente squilibrata. La sola fotografia dei cosiddetti “residui fiscali” e li a dimostrarci una situazione disomogenea che non ha pari in Europa. Nell’idea della ricostruzione nazionale penso occorra affrontare alcuni nodi di fondo. Il primo è dato dalla qualità della macchina pubblica. Dalla burocrazia dell’amministrazione ai tempi della giustizia, dalla formazione all’efficienza e ai tempi delle decisioni della politica. Il secondo nodo è quello delle reti infrastrutturali. Dalla mobilità di persone e merci, alla velocità delle informazioni, alle reti dell’energia e della finanza. Il terzo è la questione istituzionale e statuale. Al di là della propaganda di fine corsa di qualcuno a destra, il nodo delle riforme costituzionali, dalla fine del bicameralismo perfetto in 111


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L’essenza della questione settentrionale oggi è una sfida che si gioca anche su nuovo rapporto tra città e territorio, tra capitalismo delle reti e manifatturiero, tra crescita economica e coesione sociale

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poi, è un tema che non possiamo sottovalutare. Così come è nostro dovere offrire una prospettiva diversa al sistema delle Autonomie Locali completamente sotto scacco e batterci fino all’ultimo minuto utile per una nuova legge elettorale che cambi il disastro prodotto dal Porcellum. Sul versante delle proposte utili non siamo all’anno zero. Molti dei contenuti prodotti all’Assemblea nazionale Pd di Varese rimangono un punto di riferimento. Ora alcune sfide vanno assunte fino in fondo. Penso alla questione produttiva. A impresa e lavoro. Alla drammatica urgenza di scelte incisive per il tessuto manifatturiero. A un modello di relazioni industriali nuove. La nostra base produttiva si sta restringendo ed oggi vengono colpite dalla crisi anche imprese forti e robuste. I dati di questi giorni sulla produzione industriale e sul Pil sono molto preoccupanti. Se vogliamo raccogliere sul serio questa sfida dobbiamo ambire a rappresentare l’insieme del mondo dei produttori: lavoro dipendente e lavoro autonomo. Perché cultura d’impresa e mondo del lavoro stanno insieme in queste terre, molto più di quello che si possa pensare. Penso alla sussidiarietà. Non certo nella versione ideologica e pelosa che la destra ci ha mostrato in questi anni, ma nell’idea di un grande investimento sulle responsabilità diffuse e sul protagonismo della società consapevole. A partire dalla riorganizzazione del welfare e delle protezioni sociali. Penso alla questione federalista. Cominciando dal tema fiscale, per riannodare i fili tra chi incassa e chi spende e per premiare gli innovatori piuttosto che gli speculatori. Declinando anche così un nuova idea di coesione dello stivale. Quindi, riforma fiscale, semplificazione burocratica, accesso al credito, politiche industriali e del lavoro, reti infrastrutturali, capitale umano e internazionalizzazione: sono alcuni capitoli per un impegno serio al fianco di questi territori. Niente facili promesse e niente slogan roboanti. Meno parole useremo, più saremo apprezzati e riconosciuti. L’essenza della questione settentrionale oggi è una sfida che si gioca anche su nuovo rapporto tra città e territorio, tra capitalismo delle reti e manifatturiero, tra crescita economica e coesione sociale. Governare le grandi città del nord sull’asse Torino, Milano, Venezia, Trieste è una opportunità da mettere a frutto e le ultime vittorie anche nei centri di piccole e medie dimensioni ci aprono una prospettiva nuova visto che abbiamo sempre faticato a radicarci in provincia e in periferia. Ha ragione chi sostiene che oggi al nord, come all’Italia, non


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La rISPOSta basta il mercato. Questa crisi ci insegna che non basta il mercato e non si può crescere “nonostante” lo Stato e la politica. Per noi si apre l’opportunità di un passo avanti. Perché occorre una nuova cultura civica in grado di riorganizzare il rapporto tra pubblico e privato, tra questione ambientale e sviluppo, tra sicurezza e welfare. Perché occorre un progetto per la ricostruzione italiana che sia in grado di produrre un vero e proprio sforzo costituente per la prossima legislatura. Siamo consapevoli che in campo ci saranno ancora varianti populiste pronte a far saltare il banco. Pronte a scommettere sul fallimento di una riscossa democratica. Ma tocca a noi, ora, avanzare un’idea di cambiamento. Misurando bene le parole, evitando la facile propaganda e investendo tutto nella ricostruzione della credibilità dello spazio pubblico. (Introduzione al Forum delle Assemblee regionali Pd di Lombardia, Emilia Romagna, Liguria, Veneto e Piemonte tenutosi a Milano il 30 Giugno scorso)

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Altri Contributi


ALTRI CONTENUTI

Lo Stato nella globalizzazione Leonida Tedoldi

insegna Storia delle istituzioni politiche e storia delle istituzioni internazionali, Università di Verona

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egli ultimi decenni, il dibattito sullo Stato è stato spesso indirizzato quasi esclusivamente verso la constatazione di una crisi irreversibile della statualità nella

globalizzazione. Oggi, nel pieno dei mutamenti contraddittori delle democrazie, per dirla con Marc Lazar, in cui gli Stati europei risultano incapaci di rispondere in maniera efficace alle sfide poste in essere 116

dalla complessità dei problemi, imposti dalla crisi economica, i caratteri di questo supposto processo di «destatalizzazione» appaiono però segnati da un profondo ripensamento; anzi, sebbene la globalizzazione possa mettere in discussione i fondamenti anche del costituzionalismo occidentale, non necessariamente questa possibile evidenza è destinata a portare alla fine dello Stato, o meglio del suo nucleo duro. A questo poi si aggiunge il processo di avvicinamento tra i due poli antagonisti,


ALTRI CONTENUTI delle imprese e dello Stato, ormai consolidatosi durante la crisi economica, che ha determinato un rinsaldamento di quello State Capitalism analizzato con efficacia dall’Economist di qualche mese fa. Comunque, l’idea stessa della crisi, del superamento dell’esperienza statuale e «del suo narrarsi oltre la fine» - che ha tenuto banco per gran parte delle ultime decadi del Novecento - è ormai logora e dimostra di non essere più in grado di colmare il ritardo delle analisi storiche e politologiche sullo sviluppo e sul distendersi complesso della cosiddetta era globale; inoltre il venir meno di un certo «fondamentalismo antistatale» - presente nella politologia - ha forse consentito la ripresa del confronto sul ruolo dello Stato e della statualità. Già negli anni novanta, nel dibattito anglosassone, si mostrava come fosse fuorviante contrapporre in qualche modo lo Stato alla globalizzazione, sostenendo che non solo quest’ultima non avrebbe smantellato definitivamente il suo ruolo, ma che piuttosto essa tendeva a includere le “forme della trasformazione” dello Stato, anche perché non aveva (e non ha) prodotto actors più efficaci degli Stati. Del resto la visione di un mondo con un unico mercato in cui dominano incontrastate le corporations transnazionali è stata più volte contraddetta dalla forza sempre più rilevante delle istituzioni nazionali nella regolazione del commercio e del trasporto dei prodotti; e su questo la riflessione della sinistra riformista italiana, ma anche europea, dovrebbe maggiormente concentrarsi. Non per nulla, negli ambienti della ricerca politologica anglosassone di quel decennio si sosteneva che il ruolo dello Stato nella governance della politica economica era vitale e, per questo, i

processi di internazionalizzazione dell’economia non facevano che rafforzare la centralità dello Statonazione. Una centralità che derivava dalla forte capacità, nonostante tutto, di integrare, secondo l’abbondante ricerca di quegli anni, i poteri di governo (governing powers) e di controllarne il trasferimento al livello internazionale - come ad esempio all’Unione europea - così come al livello regionale e decentrato. Infatti, anche di recente, la riflessione politologica europea ha ormai respinto l’idea dell’impotenza degli Stati nei confronti degli imperativi dell’economia internazionale, proprio perché ha mostrato che la presenza di un settore pubblico solido, di un apparato burocratico-amministrativo radicatosi nel tempo, in sostanza di uno Stato forte, abbia costituito, e costituisca, un vantaggio nell’economia globalizzata. In ogni caso, la correlazione - messa in mostra in realtà ancora negli anni settanta - tra apertura economica e «dimensione» dei governi e dello Stato, si tiene ancora oggi, tanto che diversi studiosi parlano ancora di crescita del «Leviatano amministrativo»; allo stesso modo lo Stato sociale risulta ad uno stadio di riduzione, ma non di conclamato declino. Anzi, il settore dei servizi sociali appare ancora strategico e in grado di dare contenuto alla cittadinanza, di condizionare i progressi della coesione sociale; rimane in sostanza un pilastro dell’identità e dell’appartenenza. Oltre a ciò, possiamo anche aggiungere che lo Stato costituzionale dei diritti sta acquistando caratteri strutturali europei e internazionali, nonostante, certo, allo stato attuale rimanga ancora un’«entità porosa, “arena” di policy-making 117


ALTRI CONTENUTI frammentata e percorsa da forze che sottraggono poteri e competenze al governo centrale». Oggi, agli inizi della seconda decade del nuovo secolo, si sta assistendo quindi ad un cambio di paradigma; il dibattito volge verso l’affermazione di una tenuta complessiva, seppure faticosa, del sistema-Stato e quindi di un suo possibile passaggio ad un’organizzazione forse diversa, ma certo ancora ben solida, rispetto alle analisi dei decenni precedenti, tanto che di recente da più parti si è sostenuto che lo schema della crisi degli Stati nazionali sovrani e della cosiddetta cessione di sovranità è ormai debole e, al contrario, bisogna intravedere e riconoscere una rinnovata vitalità. Anche se risulta plausibile che la sintesi moderna Stato, diritto e costituzione sia ormai incrinata, il tramonto della costruzione classica della sovranità non determina, nella situazione attuale, la frantumazione definitiva della formaStato, sebbene ne vengano messi alla prova i fondamenti. Si tende, cioè, ad utilizzare meno il concetto di declino irreversibile, più

strutture domestiche dello Stato nazionale; quindi, è, credo, preferibile, parlare di intreccio e rafforzamento strutturale e politico, piuttosto che di trasferimento del potere statale. In questo senso, lo Stato tende a rimanere l’attore principale dello sviluppo economico e sociale, anziché autorità residuale nel mondo globalizzato. Su questo tema, forse, il nostro impegno di riflessione, anche a livello di incontri e seminari di partito, potrebbe essere proficuo ed importante. Nonostante tutto, però, sappiamo di essere sempre più indotti a pensare i singoli Stati solo all’interno dell’Europa che, a sua volta, però, non può pensarsi Unione - disciplinata dal diritto - se non percependo il ruolo dei singoli stati come suo fondamento. E la complessità attuale del contesto europeo, in cui si inseriscono le aspirazioni di «egemonia» di Germania e Francia, seppure da angolazioni diverse, è un riflesso della situazione descritta. Non so se i processi evolutivi della globalizzazione conserveranno o ridurranno il ruolo dello Stato ad «unità elementare di un nuovo ordinamento

Già negli anni novanta, nel dibattito anglosassone, si mostrava come fosse fuorviante contrapporre in qualche modo lo Stato alla globalizzazione quello appunto di trasformazione, caro a Massimo Severo Giannini fin dagli anni Ottanta. In diversi casi, la crescita dello Stato è andata di pari passo con l’ascesa delle multinazionali e delle istituzioni multilaterali ed inoltre le reti globali sono ormai fortemente interconnesse con le 118

globale», credo piuttosto che sia necessario il superamento del legame troppo forte e comodo con lo schema della crisi del sistema degli Stati nazionali, e confrontarsi con il paradigma della trasformazione, del mutamento, ma non nel senso di preludio alla scomparsa.


ALTRI CONTENUTI

Seconda globalizzazione:

un nuovo inizio Mauro Magatti

insegna Sociologia presso l'Università Cattolica di Milano

tre anni dalla crisi, il mondo naviga in acque tempestose. Fermato l'infarto con interventi d'urgenza - l'iniezione di soldi pubblici per ripianare i debiti privati -, i problemi strutturali rimangono irrisolti e bussano alla porta dell'intero pianeta. Lasciato a se stesso, il procedere degli eventi scava in profondità nuovi solchi che pongono questioni molto diverse da quelle che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. Nell'opinione pubblica occidentale continua a prevalere l'idea di una crisi che si ostina a trascinarsi. Eppure, a dire il vero, dopo la battuta d'arresto del 2009, su scala globale la ripresa si è già avviata, almeno secondo i dati del World Economic Outlook, del Global Financial Stability Report e del Fiscal Monitor, visto che, a partire dal 2011 il ritmo della crescita è tornato superiore al 4% annuo. Le ragioni di tale divergenza sono molteplici, ma fondamentalmente riconducibili a tre ordini di fattori: i) il formarsi di un gruppo di imprese multinazionali appartenenti ai paesi emergenti in grado di condizionare in modo sostanziale i flussi degli investimenti globali; ii) l'allargamento dei mercati interni ai paesi emergenti dove per i prossimi anni sono previsti i tassi di crescita più significativi;

A

iii) l'evoluzione del sistema monetario internazionale da un modello in cui il dollaro era l'unica moneta di riferimento ad un regime dove, oltre al dollaro, avranno un ruolo crescente l'euro e il renminbi. In sostanza, all'uscita dalla crisi, il mondo si ritrova molto diverso da quello che era trent'anni fa. La globalizzazione non è passata invano. E, quello che più conta, le prospettive sono diverse per le varie aree del mondo. In effetti, la crisi finanziaria, cumulandosi con quanto già accaduto negli ultimi dieci anni, mette in luce un mondo a due velocità, con le economie avanzate in difficoltà (con tassi di aumento del PIL inferiori al 2% nel biennio 2010-11 e il rischio di recessione per il 2012) e quelle emergenti che viaggiano ad un ritmo superiore al 6%. Dalla relazione 2011 della Banca Mondiale (Global Development Horizons 2011), si evince che nel 2025 le sei maggiori economie emergenti - ovvero Brasile, Cina, India, Indonesia, Corea del Sud e Russia - genereranno più della metà della crescita globale. Lo spostamento dei centri di crescita economica dalle economie avanzate a quelle emergenti è considerato ormai imminente. Sul piano geo-economico è il Pacifico l'area a cui tutti guardano per il prossimo decennio. Il riequilibrio nella distribuzione della ricchezza globale - in parte già avvenuto, se si considera che le economie emergenti 119


ALTRI CONTENUTI detengono il triplo di riserve internazionali rispetto alle economie avanzate - mette dunque sotto pressione gli equilibri economico-politici internazionali usciti dalla seconda guerra mondiale che, negli ultimi tre decenni, hanno consentito ai paesi occidentali, e in particolare a quelli anglosassoni, di influenzare in modo molto forte l'azione delle agenzie internazionali. Pur conservando un notevole vantaggio, i paesi avanzati si dibattono in uno stato di difficoltà da cui stentano ad uscire. Il Giappone ha alle spalle oltre un decennio di stagnazione che ha prodotto un enorme debito pubblico e si trova ora a dover gestire anche le conseguenze dello tsunami; l'Europa è alle prese con un passaggio difficilissimo, con bassissimi tassi di crescita e lo spettro del default che si aggira per il continente, minacciando la tenuta dell'euro; gli USA fanno i conti con le distorsioni profonde del loro modello di sviluppo: alto debito pubblico, bilancia dei pagamenti fortemente negativa, tassi di disoccupazione in crescita, crisi del mercato immobiliare. La situazione è alquanto intricata dato che gli USA si trovano, da un lato, con un alto grado di esposizione finanziaria rispetto al resto del mondo - la sola Cina al momento della crisi deteneva il 23%

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dei titoli di Stato americani e ne rimane anche oggi il primo creditore - e, dall'altro, con una difficoltà crescente a sostenere i costi dell’unilateralismo - che comporta un livello di spese militari pari al 50% del totale della spesa mondiale. Sull'altro versante, negli ultimi anni, le previsioni ottimistiche sulla crescita dei paesi emergenti nascondono i tanti nodi che rimangono da sciogliere. Se è vero che lo sviluppo di questi paesi potrebbe indurre effetti ridistributivi maggiori su scala planetaria e stravolgere la gerarchia geopolitica ed economica globale, resta da vedere la loro capacità di tenuta del ritmo di crescita, che appare minacciata innanzitutto dall’instabilità politica derivante dall’aumento delle disuguaglianze all’interno di questi paesi. La capacità di sostenere uno sviluppo


ALTRI CONTENUTI accelerato dipende, infatti, non solo dalla creazione di un ampio mercato di consumo interno e di alleanze trasversali tra questi paesi, ma anche da riforme istituzionali a favore dello sviluppo sociale, umano e ambientale, cioè, in ultima istanza, al progresso della democratizzazione che permetta di stabilire un nesso tra crescita e giustizia sociale. D'altro canto, ancora non è chiaro quale ruolo questi paesi vorranno giocare sullo scenario internazionale, quanto adotteranno politiche di potenza o di collaborazione, quanto chiederanno di assumersi responsabilità di governance mondiale, quanto saranno disposti ad assumersene gli oneri. Dunque, la crisi finanziaria si inserisce e complica un quadro internazionale profondamente mutato, rispetto a qualche anno fa, in forte

movimento e privo di capisaldi sicuri e punti di riferimento stabili. In questo senso la crisi scoppiata nel 2008 è ben lontana dall'aver trovato una soluzione. Le misure tempestive che sono state prese nei primi mesi del 2009 sono state efficaci nella gestione dell'emergenza, ma non hanno risolto i problemi di fondo. Aver trasformato l’esposizione delle banche in debito pubblico ha finito per spostare pericolosamente il problema: per rimborsare i debiti occorre risparmiare e crescere di più o, in alternativa, affrontare fallimenti e inflazione. Tutti si rendono conto che la scelta che si deve compiere è la prima. Ma il problema è che non ci sono idee su come farlo. E, d'altra parte, il debito sovrano comporta il pieno coinvolgimento della politica nella gestione della crisi. Cosa che può essere foriera di buoni risultati - se servirà a ricostruire un equilibrio tra economia e società - ma anche di grandi problemi, laddove la politica si facesse attirare dall'idea di scaricare all'esterno i costi dell'aggiustamento. Le difficoltà non sono, prima di tutto, di ordine tecnico. È che il capitalismo tecno-nichilista ha intossicato le società del Nord al punto da renderle incapaci di tornare a capire che lo sviluppo è qualcosa che procede gradualmente e

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ALTRI CONTENUTI che, per essere solido, ha bisogno di coinvolgere le tante fibre del tessuto sociale. È, più in profondità, come ha insegnato Max Weber, lo sviluppo per potersi produrre deve essere sostenuto da uno "spirito", senza il quale diventa impossibile riuscire ad attivare le energie migliori presenti nel tessuto sociale. La verità è che il modello di sviluppo adottato negli ultimi decenni non funziona più: sul lato interno, una crescita basata sui consumi a debito non ha margini significativi. Sul lato esterno, le condizioni della concorrenza appaiono ormai mutate: il formarsi di nuove grandi economie apre nuove possibilità di crescita, ma in un quadro che sarà necessariamente più negoziato, con molti attori in campo e con un sistema di interessi multiplo, contraddittorio e in continuo movimento. È l'era della "seconda globalizzazione", dove oltre all'economia tornerà a contare la politica e a fianco della tecnica riacquisterà peso la religione e dove nessuno potrà più pensare di poter agire senza tener conto del punto di vista altrui. Per parafrasare Fukuyama, la storia non è finita. Sta per ricominciare. Molti paesi occidentali si trovano stretti in una morsa micidiale che nasce dalla

manovre di consolidamento fiscale devono essere portate avanti senza mai perdere di vista crescita e occupazione: un passo troppo lento potrebbe uccidere la credibilità, un passo troppo veloce potrebbe uccidere la crescita. È importante cogliere correttamente la natura del problema che abbiamo di fronte: si tratta di smaltire un debito e, nello stesso tempo, alimentare la crescita, di mantenere un equilibrio finanziario e di contenere le tensioni sociali. Comunque la si metta, i paesi avanzati si trovano a gestire una fase - ciò un periodo che non durerà mesi ma anni - che si presenta sotto un segno completamente diverso rispetto al recente passato. Messe così le cose, non è fuori luogo affermare che, per questi paesi si ripropone oggi la stessa domanda che segnò la crisi degli anni '70: nelle nuove condizioni (economiche, politiche, culturali, sociali), che cos'è la crescita economica? E come si origina, con quali modalità si sviluppa? Per impostare il problema occorre considerare la crisi del 2008 come una discontinuità storica che separa la fase precedente da quella che stiamo attraversando in questi anni.

È importante cogliere correttamente la natura del problema che abbiamo di fronte: si tratta di smaltire un debito e, nello stesso tempo, alimentare la crescita, di mantenere un equilibrio finanziario e di contenere le tensioni sociali combinazione di diversi fattori tra cui: gestione complessa di un debito sovrano molto consistente; esigenze di rilancio economico; alti tassi di disoccupazione; risanamento delle banche e del sistema finanziario. La difficoltà sta nel fatto che le 122

Con la prima globalizzazione, i Paesi sviluppati hanno esportato lavoro e capitali in quelli emergenti, sfruttando la propria superiorità, economica, tecnologica, politica, culturale. Sarebbe ingeneroso, come ha fatto il movimento no-global parlare di


ALTRI CONTENUTI neocolonialismo. Infatti, se è evidente che gli ultimi trent'anni sono incomprensibili se non in rapporto al definitivo superamento della forma tradizionale di colonialismo, non si può negare che tra quel modello e quello della prima globalizzazione c'è un'importante differenza che é poi la ragione che spiega perché il mondo è cambiato tanto velocemente. E cioè, che i paesi terzi sono stati direttamente coinvolti nel nuovo sistema economico, senza un dominio politico militare esplicito. Ciò, come si è visto, ha permesso di fare un balzo in avanti dal punto di vista dello sviluppo economico globale. Per molti versi, l'operazione ha avuto un successo tale da provocare, nel giro di un paio di decenni, un cambiamento profondo tanto al Nord quanto al Sud: i paesi ricchi sono progressivamente diventati consumatori con una crescita del PIL realizzata attraverso il debito finanziato anche dai paesi emergenti; questi ultimi hanno sfruttato l'occasione e, nel giro di pochi anni, hanno acquisito una crescente autonomia produttiva, non solo nei prodotti a basso costo, ma anche nei

comparti ad alto contenuto tecnologico. Nei prossimi anni, questi paesi, che dispongono ancora di manodopera a basso costo, diventeranno anche forti consumatori, attraendo una quota crescente dei capitali circolanti su scala globale, finora in larga parte appannaggio delle economie occidentali. Il centro di gravità dell'economia rischia così di cambiare rapidamente, spostando i flussi dei nuovi investimenti verso i paesi emergenti e mettendo nei guai i paesi del Nord, appesantiti da un PIL in calo, alto debito pubblico e invecchiamento demografico. Per i paesi del Nord, si tratterà di imparare a navigare in questo nuovo mare, che loro stessi hanno creato e che adesso in buona misura gli sfugge dalle mani. Una nuova stagione è cominciata. Per farvi fronte, occorre un nuovo pensiero, una nuova cultura, una nuova politica (da Mauro Magatti, La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto, Feltrinelli, Milano 2012)

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NUMERI PRECEDENTI

NUMERO 9 MAGGIO/GIUGNO 2012

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NUMERO 0 LUGLIO 2011

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