NUMERO 15 MARZO/MAGGIO 2013
La vittoria mutilata contributi di Stefano Camatarri • Franco Cassano • Carlo Galli • Andrea Giorgis • Alessandro Leogrande • Claudio Martini Franco Monaco • Massimo Mucchetti • Michele Nicoletti • Francesco Palermo • Walter Tocci • Giorgio Tonini
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SOMMARIO FOCUS
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Il voto e oltre
Carlo Galli Noi investiti dal risentimento popolare Michele Nicoletti Come uscire dal bipolarismo sociale Franco Cassano
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Il peso della crisi sul voto
Massimo Mucchetti I nostri errori Giorgio Tonini Il nocciolo della nostra debolezza Claudio Martini
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Movimento 5 stelle, dogmatismo seducente e corrosivo Alessandro Leogrande Movimento 5 stelle, ciò che non mi piace Franco Monaco Restituire dignità alla funzione parlamentare Walter Tocci Sindrome di Weimar? Francesco Palermo Il costituzionalismo e le riforme Andrea Giorgis
Movimento 5 stelle, le ragioni del successo Stefano Camatarri
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FOCUS
La vttoria mutilata
Il voto e oltre Carlo Galli
Insegna storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna
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lle elezioni di febbraio si sono fronteggiate forze politiche divise da cleavages multipli. In primo luogo politica e antipolitica; a quest’ultima si sono iscritti, certamente in modi diversi, Berlusconi e Grillo, con la loro demagogia; ma anche alcune mosse dei tecnici - ‘saliti’ in politica, e collocatisi in uno spazio di destra tecnocratica, e che pure vogliono essere ‘moderati’ - hanno negato validità (con una tipica assunzione della destra tecnocratica) alla contrapposizione fra destra e sinistra che invece è insuperabilmente iscritta nello spazio politico moderno e nella sua originaria parzialità, e hanno affermato che l’unica contrapposizione reale è quella fra innovatori e arcaici conservatori, dando così una manifestazione oltre che di intolleranza anche di ingenua (o ideologica) fiducia nell’univocità del progresso e nell’oggettività del corso del mondo. Ma un altro cleavage, che non escludeva il primo e che anzi vi si sovrapponeva, benché non replicandolo perfettamente, era quello fra populisti e responsabili (verso l’Europa e verso il nostro futuro di grande Paese occidentale); e da questo punto di vista, non vi è dubbio che Monti e Bersani (e anche Vendola) si siano collocati da una parte, e Berlusconi pur nelle differenze ancora una volta insieme a Grillo (e per certi versi anche a Ingroia) dall’altra. Infine, è rimasta centrale, al tempo stesso, anche la distinzione fra destra e sinistra: e sotto questo profilo si sono viste all’opera due destre - quella tecnocratica di Monti e quella populista di Berlusconi - e due sinistre: il centrosinistra e il quarto polo. Il cleavage destra/sinistra, pur presente, ha messo in evidenza, quindi, che tanto la destra quanto la sinistra sono al loro interno divise, anche aspramente. Per di più, dallo schema destra/sinistra restava fuori il mondo che andava da Grillo agli astenuti. 4
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Con l’aiuto della legge elettorale, da questo caos ci si poteva attendere, con qualche probabilità, che la destra di Monti e la sinistra di Bersani e Vendola, ovvero i tecnici moderati e i politici progressisti, fossero in grado di cooperare - con diverse assunzioni di responsabilità - in un’azione di governo riformatrice. Si sarebbe trattato di una decisione che avrebbe potuto essere anche una separazione (fra responsabili e populisti), e al contempo una collaborazione tra forze realmente diverse, cioè fra destra moderata e centrosinistra, nonché fra politici e tecnici, nel segno dell’emergenza. Di un’emergenza però che, questa volta, avrebbe potuto essere critica in senso positivo, cioè decidente, ricostruttiva, progettuale. Alle elezioni del 24 e del 25 febbraio 2013 si è invece rivelato decisivo un quarto cleavage: quello fra continuità e discontinuità. Molti cittadini si aspettavano una decisa discontinuità morale ed economica rispetto alla fase di crisi che stiamo vivendo; una discontinuità che rispondesse alla disperazione e al furore di tutti coloro che si sono trovati improvvisamente nella parte di chi non ha né reddito né futuro e quindi neppure un’identità sociale; né, quindi, può nutrire lealtà verso le istituzioni democratiche così come esse sono e si presentano. E questa discontinuità - che non si è atteggiata come di destra o di sinistra, ma come populista (cioè capace di mescolare in modo autonomo temi e linguaggi di destra e di sinistra) - non è stata individuata nel Pd. Il cui slogan “L’Italia Giusta” non ha trasmesso con sufficiente forza ciò che vi era implicito: che cioè l’Italia attuale è ingiusta, e che per renderla giusta bisogna rovesciarla, o almeno cambiarla profondamente. Il che è stato invece promesso, a buon mercato, da chi non si è fatto scrupolo di violare i più elementari principi di obiettività e verosimiglianza; mentre sulla linea del Pd hanno molto pesato il realismo, il senso di responsabilità, la fedeltà ai patti europei. Valutazioni di merito, insomma, più che messaggi simbolici forti: l’individuazione di difficoltà oggettive piuttosto che di un nemico (o di un responsabile, o di un capro espiatorio). Così, mentre gli italiani (sia da destra sconfitta ma tutt’altro che eliminata dal gioco - sia dalle posizioni populiste del Movimento 5 Stelle) bocciavano Monti e la sua austerità (si deve osservare al riguardo che le élites sociali, benché non più riluttanti e anzi organizzate in un nuovo Centro, si sono rivelate incapaci di egemonia culturale), il Pd non otteneva un risultato soddisfacente. Alle tre spiegazioni possibili (sul loro rispettivo tasso di
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Dare forma nuova ai rapporti sociali (questo significa alla lettera riformismo) può essere fatto nelle direzioni più diverse ed opposte. Per noi, nel senso di un di più di diritti e di giustizia sociale.
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validità non si intende qui discutere) - insufficienza comunicativa, scelta non ottimale del candidato premier, inadeguata analisi della crisi economica e delle sue conseguenze politiche - se ne può forse aggiungere un’altra, strutturale: la debolezza della stessa forma-partito nel gestire la politica in un contesto che, come quello italiano d’oggi, si sottrae in larga misura alla mediazione intellettuale e organizzativa, e che impone stili di analisi e di azione molto più rapidi e diretti di quelli bene o male storico-critici sui quali il Pd ha impostato la propria presenza - e infatti i due competitors del Pd non sono, a rigore, partiti in senso tradizionale -. Soprattutto, ha pesato la difficoltà o l’impossibilità di individuare con sicurezza l’avversario principale (dopo una campagna prevalentemente rivolta contro le responsabilità della destra, solo pochi giorni prima del voto il nemico fu indicato in Grillo); e ancora oggi di fatto il Pd si batte su due fronti, in una posizione più che scomoda, quindi, contro un avversario politico più tradizionale benché insidioso (il Pdl) e contro uno iper-politico, ad alto tasso di conflittualità (il Movimento 5 Stelle). Il che implica l’esigenza di un’ardua strategia doppia: di contrapposizione e sfida verso Grillo, di
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grande cautela politica e di apertura istituzionale verso Berlusconi. Ma se è ancora presto per capire il significato di lungo periodo della cattiva prova del Pd e dell’affermazione del Movimento 5 stelle (la destra, da parte sua, non è né un’incognita né una sorpresa, e si rivela adattabile a ogni stagione, sorretta dalla fede in una personalità carismatica), è invece già possibile misurare il caos - che non nasce solo dalla legge elettorale - in cui queste elezioni hanno gettato l’Italia, divisa non in due ma in tre parti, che rendono il parlamento incapace di esprimere un governo (caso da manuale di maggioranza negativa), e il vecchio esecutivo di legittimarsi davanti al nuovo legislativo; insieme all’obiettivo strategico che il Pd si era prefissato alle elezioni (mettere all’opposizione i due populismi) è oggi reso impossibile anche ogni altro disegno che non sia dettato dalla necessità (dai vincoli esterni, dall’emergenza non assunta come occasione di crescita, ma subita come una coazione) o che non nasca da accordi parziali, pensati come soluzioni a breve termine. Col rischio che il Pd con la sua ipotesi riformistica sia preso in mezzo, e schiacciato, nel conflitto fra Grillo (rappresentante degli have-not) e Berlusconi (ultimo rifugio di chi ha, o spera di avere, qualcosa da perdere). Che non abbia più la forza di esser il perno sistemico della politica italiana. In quest’ottica, come il Pci fu travolto dalla fine del comunismo così il Pd potrebbe essere travolto dalla crisi del neoliberismo e dalla austera e cocciuta imposizione dell’ordoliberalismo monetarista tedesco. Il cambio di ‘repubblica’ - dalla Seconda, bipolare, siamo alla Terza, tripolare - richiede un’iniziativa politica forte e spregiudicata. E non a caso, infatti, il dibattito politico verte, anche se non esplicitamente, su quale possa essere, fra le tre che sono in campo oggi, quella più utile al Pd e all’Italia l’indissolubilità di questo binomio, declinato in chiave riformista, è assiomatica -: quella ufficiale di Bersani, fondata sulla teoria del ‘doppio livello’ verso la destra e sull’attesa che maturino le contraddizioni dentro il Movimento 5 Stelle; quella sottotraccia di un accordo forte con la destra; quella, circolata apertamente, delle elezioni anticipatissime. Si tratta, per il Pd, di una scelta vitale.
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Se è ancora presto per capire il significato di lungo periodo della cattiva prova del Pd e dell’affermazione del Movimento 5 stelle è invece già possibile misurare il caos in cui queste elezioni hanno gettato l’Italia.
Si pubblicano qui - con il permesso dell’Editore, che si ringrazia - le pagine conclusive, largamente rielaborate, di un libro di prossima uscita: Carlo Galli, Itinerario nelle crisi, Milano, Bruno Mondadori, 2013. 7
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La vttoria mutilata
Noi investiti dal risentimento popolare Michele Nicoletti
Insegna filosofia politica all’Università di Trento
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hiunque abbia fatto la campagna elettorale volantinando fuori dai supermercati - là dove hai modo di incontrare lo spaccato del Paese reale e non una sua fetta che ti scegli a piacimento perché a fare la spesa ci vanno tutti si è reso facilmente conto che era arrivato il dies irae, il giorno dell’ira e della punizione divina. «Fate campagna elettorale con i soldi nostri» dicevano i pensionati. «I soldi per pagarvi i volantini lo Stato ve li dà, a noi non dà i soldi per comprarci il pane. È giustizia questa? È uguaglianza di trattamento?». Agli imprenditori piaceva l’idea di sbloccare i crediti che le imprese vantano nei confronti dello Stato, ma la musica era la stessa: «Non ci importa quanto siete pagati, ma perché i vostri crediti non si bloccano mai? Perché ogni mese arrivano puntualmente i pagamenti delle indennità, dei costi per i gruppi consiliari, dei rimborsi elettorali e i pagamenti alle imprese non arrivano mai? Bloccate i finanziamenti ai partiti fino a che non avrete sbloccato i crediti alle imprese, così sarete più credibili e convinti quando vi batterete per sbloccare tutti i crediti, i vostri e i nostri!». Di nuovo ciò che emergeva in questi tentativi di dialogo era il problema dell’uguaglianza di trattamento: non solo l’uguaglianza sociale tra ricchi e poveri, ma l’uguaglianza politica tra governanti e governati, la crux di ogni regime democratico. Insomma non era difficile respirare l’atmosfera che prepara i grandi rivolgimenti, le grandi rivoluzioni. Nel tentativo di decifrare questa rabbia, venivano alla mente le pagine straordinarie che Tocqueville, nel suo L’ancien regime e la rivoluzione, dedica al crollo dell’aristocrazia francese allo scoppio della Rivoluzione. Alla fine del ‘700 la
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nobiltà francese era morta anzitutto nel cuore della gente. Per secoli il sogno di ogni persona era stato quello di nascere nobile o di poter conquistare un qualche grado di nobiltà con la spada, il commercio o l’intrigo: la nobiltà era stata l’oggetto costante di un antico e perdurante desiderio. Ora, quasi all’improvviso, era diventata l’oggetto del disprezzo e di un odio profondo, perché aveva perduto la sua funzione sociale. Detentrice di privilegi ingiustificati, svelava la sua natura di classe parassitaria: non solo inutile, ma dannosa. E come non abbiamo fatto ad accorgercene, noi - cresciuti sui banchi di scuola imparando i versi del Parini sul “Giovin Signore”: colui "che da tutti servito a nullo serve" - che ci stava capitando addosso lo stesso destino? I politici come gli aristocratici: “sanguisughe” del popolo. Per questo da eliminare. Non c’era solo sofferenza sociale e tanta rabbia dietro al voto, c’era anche risentimento. Bisogna riandare alle pagine della Genealogia della morale di Nietzsche sul risentimento per capire il suo nesso profondo con il populismo novecentesco: “È tutta gente di risentimento, […] tutta una razza tremante di vendetta inesauribile, insaziabile in sfoghi contro i felici e in mascherate di vendetta, in pretesti di vendetta; quando giungerebbero essi al trionfo ultimo, più raffinato e più sublime della vendetta? Allora, senza dubbio, se riuscisse loro di cacciare la loro propria miseria, ogni miseria in genere, nella coscienza dei felici”. Il risentimento è l’odio verso tutto ciò che sta in alto. Non potendo innalzare me stesso, almeno si abbassi l’altro. E ciò provoca l’identificazione con chi propone di abbattere, azzerare, mandare tutti a casa. Non è vero che l’umiliazione di chi sta in alto non porta immediato giovamento alla condizione del risentito. Non si capirebbe il ruolo della satira. E non c’è forse uno strabordare della satira nella politica italiana? Nel dileggio di chi sta in alto, nel vederlo cadere, inciampare, balbettare, nella dissacrazione esasperata, nella sua spoliazione vedo compiersi un’anticipazione del giudizio finale, quando arriverà la grande Eguagliatrice. Chi ripete che i tagli ai costi della politica non muterebbero di molto le condizioni del Paese, sembra non vedere questa dinamica: la condizione di privilegio è insopportabile alla vista. Tanto più quando quella “aristocrazia” non è il frutto di una conquista militare o di una potenza economica, ma quando è il frutto della
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Il risentimento è l’odio verso tutto ciò che sta in alto. Non potendo innalzare me stesso, almeno si abbassi l’altro. E ciò provoca l’identificazione con chi propone di abbattere, azzerare, mandare tutti a casa.
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rappresentanza popolare. Insopportabile non è il miliardario, ma il popolano che in forza del mandato popolare si eleva e si sottrae al destino di miseria di quello che un tempo era il suo padrone: il cittadino. «Non chiamatemi onorevole, ma cittadino» dicono i neoeletti del Movimento 5 Stelle in Parlamento. Basterebbe questo per respirare aria da Rivoluzione Francese. Come non sentire in questa parola le antiche aspirazioni dei levellers all’uguagliamento? Un po’ di Rousseau, un po’ di anarcoprimitivismo. L’”onore” - ci insegna Montesquieu - è il tratto distintivo delle monarchie e della nobiltà ad esse legata. Nelle repubbliche l’unico onore che può essere tributato è quello a chi ha servito la patria, non certo a chi si è servito di essa. E quanto molti “onorevoli” del passato hanno disonorato la funzione di rappresentanti del popolo? Davanti ai supermercati non è facile spiegare la funzione dei partiti, snodo essenziale delle democrazie rappresentative. «Se ritenete che siano così importanti - dicono - perché non ve li pagate?» «Se non credete voi, fino in fondo, in ciò che fate, se non ci credete al punto di sacrificare qualcosa di vostro per questo ideale, perché dovremmo crederci noi?» E noi a parlare dei rischi del populismo e dell’involuzione autoritaria di una democrazia plebiscitaria. E allora l’inevitabile ironia: «Forse Sturzo, Gobetti, Turati e Gramsci ricevevano soldi dallo Stato?». In tanti discorsi di casa nostra sui partiti permane ancora l’idea del partito come Grande Mediatore secondo quella catena di successione teologico-politica che dal Cristo dei primi secoli va alla Chiesa medievale e poi allo Stato moderno e infine al Partito contemporaneo, secolarizzazioni successive del Corpo Mistico, retto da un funzionariato che è l’esatta replica del clero organizzato. Ma davanti al supermercato una signora si ferma davanti al nostro gazebo, posa le borse a terra e sconsolata ci dice: «Pure il Papa si è dimesso ed è tornato umano. Ed era stata eletto dallo Spirito Santo. E voi che siete stati eletti da noi, quando tornate umani?». E forse per questo qualcuno invoca un francescanesimo politico. E dunque questo è il tempo di tornare umani, di spogliarsi della natura divina e di assumere fino in fondo la conditio humana. Al populismo non si reagisce riproponendo il paternalismo delle oligarchie o quello delle elites tecnocratiche, ma riproponendo con coraggio la via di un nuovo repubblicanesimo che metta al centro la sovranità del popolo, 10
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l’uguaglianza dei cittadini e la centralità del Parlamento. Non sarà certo ai democratici che farà paura riprendere lo spirito della Dichiarazione dei diritti della Virginia: «Tutto il potere è nel popolo, e in conseguenza da lui è derivato; i magistrati sono i suoi fiduciari e servitori, e in ogni tempo responsabili verso di esso». Con questo sentimento nel 1789 i rappresentanti del Terzo Stato nella Sala della Pallacorda giurarono che non si sarebbero sciolti fino a che non avessero dato una Costituzione alla Francia. Nel tempo della grande espropriazione della sovranità popolare, è a quelle origini che non bisogna stancarsi di guardare, tenendo ben ferma nella mente e nell’agire l’idea della sovranità dell’uomo nella sua drammatica libertà. E per chi vuole combattere per l’ideale democratico dell’autogoverno dei singoli e delle comunità, non resta che ripensare alla radice come il governo di una società, le sue istituzioni e il suo personale, possano essere al servizio dell’autogoverno di ciascuno.
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Come uscire dal bipolarismo sociale Franco Cassano
Insegna Sociologia della conoscenza nell'Università di Bari
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icuramente la mutilazione della “vittoria” del 25 febbraio è la madre di quelle successive e di quelle, ancora più dolorose, che potrebbero seguire. Credo che per evitare questa spirale perversa, che ci farebbe rotolare sino a valle, sia necessario spostare il piano della riflessione sul voto collocandola all’interno di un arco tempora-le più lungo e sottraendosi alla tentazione di una spiegazione iper-politicista. A dilettarsi in questo gioco, infatti, c’è già un’enorme armata di specialisti, dai politici ai giornalisti, tutti appassionati di tattica e strategia, tutti seguaci di Sun Tzu o Machiavelli. Accade così che troppo spesso gli insuccessi elettorali vengano imputati a limiti e di-fetti delle strategie adottate, aprendo ciclicamente, all’indomani delle sconfitte, l’antico gioco crudele delle rese dei conti e dei capri espiatori. Non intendiamo certo negare che la dimensione soggettiva e le scelte fatte abbiano avuto un ruolo rilevante nel determinare i rapporti di forza tra gli schieramenti, ma pensiamo anche che troppo facilmente nella costruzione del ragionamento sia stato rimosso un dato che, come accadeva per la lettera rubata di Poe, abbiamo di fronte agli occhi, ma ci rifiutiamo di vedere. L’unico pregio del recente risultato elettorale è proprio quello di aver reso ancor più evidente questo dato e impossibile la sua rimozione: da tempo il centrosinistra possiede un bacino elettorale ristretto e non espansivo, e il voto di febbraio dimostra che neanche i fenomeni di radicalizzazione prodotti dalla crisi riescono a modificare tale situazione a suo favore. Non si tratta certo di una novità: anche se
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sistematicamente ignorato, questo convitato di pietra esiste da molti anni, e tutte le ricerche sul comportamento elettorale degli italiani hanno ripetutamente segnalato che la base sociale della coalizione di centrosinistra è caratterizzata dalla sovra-rappresentazione di tre aree sociali: quella del lavoro dipendente prevalentemente pubblico, e sempre più quella dei pensionati (ben il 37 per cento il 25 febbraio!) e quella delle figure dotate di un alto livello di istruzione. Si tratta di una base sociale fortemente legata al sistema del welfare, la cui composizione è in buona misura il riflesso dell’espansione della sfera dei diritti che si produsse negli anni settanta. In altre parole il centrosinistra rappresenta oggi quella vasta area sociale del lavoro dipendente, che riuscì in quegli anni a costruire un complesso di garanzie capace di sottrarla all’incertezza e alle intemperie del mercato. Se ci si sofferma su questa composizione dell’elettorato del centrosinistra non si può non cogliere lo scarto esistente tra l’immagine che esso ha di sé e la sua condizione reale. In contraddizione con la narrazione che gli è cara, esso si trova, specialmente nel settore pubblico, in una condizione molto diversa da quella ritratta nel “Quarto stato” del famoso quadro di Pellizza da Volpedo. Certo, attraverso le sue lotte esso ha realizzato conquiste cruciali per la civiltà di un popolo, ma non riesce neanche ad avvertire come esse, in una situazione drammatica come quella che attraversa il paese, possano apparire ad altri come un privilegio, una sottrazione corporativa all’incertezza generale. La maggior parte di coloro che non vengono raccolti da questa rete giocano infatti un'altra partita e finiscono per approdare altrove. La figura dominante nell’area sociale esterna al centrosinistra è infatti quella del lavoratore autonomo, che va dal padrone in senso classico al professionista, all’artigiano, al commerciante: è il mondo delle partite Iva e del capitalismo personale, un mondo spesso vitale, ma sistemati-camente allergico alle regole. La linea di demarcazione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo lascia quindi fuori del centrosinistra la grande maggioranza di questo popolo, che in Italia è particolarmente esteso. Non solo: anche l’area del lavoro dipendente privato, molto più esposta di quello pubblico alle vicende del mercato, sembra esodare almeno in parte dal bacino elettorale del centrosinistra e assestarsi in quello del centrodestra. Tutti sappiamo che in alcune aree del nord è esistita a lungo una sorta di doppia mili-tanza, iscrizione alla Cgil, voto alla Lega,
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L’area del lavoro dipendente privato, molto più esposta di quello pubblico alle vicende del mercato, sembra esodare almeno in parte dal bacino elettorale del centrosinistra e assestarsi in quello del centrodestra.
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e che da tempo la classe operaia ha smesso di votare prevalentemente a sinistra. All’interno dei due schieramenti lo Stato si configura in modo diametralmente opposto: se dal lato del centrosinistra esso appare come lo strumento per la difesa dei diritti e della legalità e per la maturazione civile del paese, dal lato del centrodestra esso appare invece come un’entità nemica che, aumentando la pressione fiscale e i controlli, viola la libertà della proprietà e dell’impresa. Questa allergia unifica figure molto diverse, dai comitati di affari e le fameliche cordate che si assiepano intorno agli appalti pubblici alle imprese esposte sul mercato internazionale, al piccolo esercizio commerciale, assillato dalla precarietà e dalla concorrenza “sleale” degli ipermercati. Questo popolo si protegge con strategie ben diverse da quelle codificate nel popolo di centrosinistra, e sogna una mobilità sociale che, non essendo più garantita dal tradizionale canale dell’istruzione, sembra potersi incarnare molto di più nel successo dei divi dello sport e dello spettacolo. L’antistatalismo di questo popolo viene da lontano, ma Berlusconi ha saputo utilizzarlo a lungo come collante egemonico, occultando il proprio personale conflitto di interessi nel quadro di un neoliberismo all’italiana, preoccupato molto più di privatizzare e condonare che di mettere in grado di competere. La seconda repubblica è fondata su questo bipolarismo prima sociale che politico, sull’opposizione tra questi due popoli e sulla ridefinizione della destra e della sinistra che si produce intorno a questo passaggio. Si afferma così una composizione sociale dello scontro che non consente mai al centrosinistra di conquistare una maggioranza stabile per governare: esso rappresenta sicuramente la parte più “civile” e presenta-bile del paese, ma ne costituisce una minoranza. È da questo scarto e da questa impotenza che è nata quella polemica morale sulle tare civili del carattere degli italiani che ha caratterizzato la lotta politica in modo sempre più acuto nell’ultimo decennio e che ha fatto divenire un bestseller il Discorso di Leopardi di quasi due secoli fa. Ma anche quando il cappio egemonico di Berlusconi si allenta ed egli appare corrispondere sempre più all’immagine morettiana del “caimano”, la maggioranza degli italiani non si fida dei suoi avversari politici. E anche quando la crisi strozza il paese, radicalizzando 14
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aree estese di entrambi i blocchi sociali, dai giovani disoccupati o precari, estranei per sempre al sistema delle garanzie, alle piccole imprese decimate dalla contrazione dei mercati e del credito, questo inasprimento non incontra il centrosinistra, ma la protesta avventurista ed ambigua del grillismo (il 37% degli studenti e il 39% dei lavoratori autonomi). Il corollario politico che si può ricavare dall'analisiproposta è molto semplice: è necessario disincagliare lo scontro politico tra destra e sinistra da una configurazione che è stata costantemente sfavorevole alla sinistra. In questo gioco si corre il rischio di perdere sempre e di frenare lo sviluppo stesso del paese. Ma questo passaggio sarà possibile solo a due condizioni: da un lato il centrodestra dovrà mettersi alle spalle la leadership pesantemente personalistica che lo ha dominato in questo ventennio, il vero ostacolo ad ogni stabile collaborazione istituzionale, dall’altro il centrosinistra dovrà prendere atto della limitatezza difensiva della propria base elettorale, spingerla a mettersi in gioco e ripensare seriamente a quali sono le condizioni necessarie per costruire un sistema di protezione sociale ca-pace di coprire tutti in modo più equo. Due missioni che allo stato delle cose sembrano impossibili. Riducendo la nostra idea ad una formula necessariamente sommaria potremmo e-sprimerla così: è necessario riconnettere quanto prima e con grande decisione cultura e produzione, ricerca scientifica e presenza nello scenario globale, ricono-scendo che un sistema di protezione sociale non può conservarsi se un paese sta declinando. La contrapposizione che ha segnato la vita della seconda repubblica ha impedito che impresa e cultura interagissero in modo fecondo: da un lato un’impresa a basso con-tenuto tecnologico, incapace, tranne alcune eccezioni, di inserirsi con successo nel regno delle lavorazioni di punta, dall’altro una cultura diffidente e capace di vedere nella produzione solo il pericolo della devastazione, come se per sperimentare nuove forme di compatibilità sociali ed ambientali non fosse necessaria più ricerca. Questa polarizzazione tra il mondo della produzione e quello del sapere è stata sia la conseguenza, che la causa della progressiva perifericizzazione del nostro paese, di quello che non è azzardato chiamare declino. Solo partendo dal superamento di questa polarizzazione è possibile rilanciare 15
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un’idea ambiziosa dell’Italia, sparigliare il gioco perverso in cui essa sembra avvitata, facendone una protagonista dello scenario politico europeo, un soggetto vitale del mondo globale. Ma per far questo il paese ha bisogno di innescare circoli virtuosi e non contrapposizioni che balcanizzano le risorse. Questo scarto in avanti non verrà certo dalle dinamiche spontanee dei mercati, ma solo se la politica saprà pensarlo come una priorità assoluta. Non si tratterà di schierarsi pro o contro il mercato, ma di indicare come stare nel mercato, di produrre quelle decisioni forti che sono necessarie per contrastare la perifericizzazione del paese. Solo allora ci saremo affacciati nella Terza Repubblica.
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Il peso della crisi sul voto Massimo Mucchetti è giornalista, Senatore PD
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ittoria mutilata? Non direi. Gabriele D'Annunzio coniò quell'espressione per lamentare l'esiguità delle nostre conquiste territoriali dopo la Grande Guerra. Il 25 febbraio 2013, invece, il centro-sinistra non ha vinto la contesa elettorale, ma, a differenza dell'Italia del Piave, ha strappato ugualmente notevoli conquiste, se tali possono essere definite le seggiole e le poltrone ottenute
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nelle istituzioni e nel governo. Se proprio vogliamo ricorrere a sintesi storiche, suona meglio l'espressione della rivoluzione tradita, usata da Trotkzi per bollare gli esiti dell'Ottobre sovietico e poi dal partigianato più radicale per contestare il seguito democratico della Resistenza italiana. Di certo, questa delusione di stampo secchian-trotkzkista si coglie in estese aree della militanza e dell'elettorato del centro-sinistra di fronte all'accordo quadripartito tra il Pd, il Pdl, Scelta Civica e il PdQ, dove per PdQ si intende il Partito del Quirinale, al quale va riconosciuto il merito di aver inserito nell'esecutivo le persone più accreditate fuori dal Palazzo, molto più accreditate di taluni ministri, viceministri e sottosegretari, indicati da Pd e Pdl. E tuttavia la delusione del popolo della sinistra non deriva tanto dalla qualità professionale dell'esecutivo quanto dall'abbraccio con l'avversario. Benché dettata dalla realpolitik postelettorale, l'intesa Pd-Pdl è stata improvvisata in una notte per vie oligarchiche e opache. Un abbraccio sentito come osceno dai tanti che, nel centro-sinistra, hanno sempre cercato di fare i conti con Berlusconi sul piano antropologico e giudiziario più che sul piano politico. Niente a che vedere, insomma, con il compromesso storico tra Pci e Dc, che, dopo anni di gestazione, avrebbe tentato di rifondare la Repubblica rinnovando il comune patto antifascista. Eppure, anche l'idea della rivoluzione tradita - o più modestamente, parafrasando Bersani, del cambiamento tradito - non ci offre la chiave di lettura più profonda del perché il centro-sinistra non ce l'ha fatta nemmeno questa volta. L'idea della rivoluzione tradita, infatti, trascura la circostanza di un centro-sinistra che non riesce a vincere contro un centro-destra profondamente logorato dall'interminabile stagione berlusconiana, mentre l'economia, dominata dal capitalismo finanziario, langue da anni e le disuguaglianze si approfondiscono in modo drammatico per le persone ed esiziale per la produzione e i commerci, nella misura in cui si svolgano sul mercato domestico. Il centro-sinistra non ha vinto, e ha lasciato un così ampio spazio al M5S, perché l'opinione pubblica lo ha considerato corresponsabile della Grande Crisi e coautore di un'Unione europea matrigna e crudele. E tuttavia l'onda lunga dei populismi nell'intero Vecchio Continente ci avverte che il fronte progressista fatica anche in altri Paesi.
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La delusione del popolo della sinistra non deriva tanto dalla qualità professionale dell'esecutivo quanto dall'abbraccio con l'avversario.
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Il centro-sinistra non ha vinto perché l'opinione pubblica lo ha considerato corresponsabile della Grande Crisi e coautore di un'Unione europea matrigna e crudele.
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La socialdemocrazia tedesca non riesce a incassare il dividendo delle riforme di Schroeder. Idem il Labour post Blair. È probabile che pesino debolezze di leadership. In Gran Bretagna, in Germania e pure in Italia. Ma bastano le debolezze degli epigoni di Blair, Schroeder e, diciamolo, di Prodi e D'Alema a spiegare tutto o c'è dell'altro che va ricercato fin dentro quelle leadership? Se così è, in che cosa consistono le responsabilità del centro-sinistra? In quest'area politica convivono da vent'anni due tendenze culturali: una liberale e l'altra socialdemocratica. Esse hanno come punti di riferimento, schematizzando, il modello capitalistico anglosassone e quello renano. Come scrisse a suo tempo Michel Albert, i successi thatcherian-reaganiani hanno provocato una profonda e diffusa contaminazione del secondo modello a opera del primo. L'Europa di Maastricht ne è la più conturbante dimostrazione: il mercato unico che cancella le politiche industriali (salvo lasciare spazio alle peggiori incentivazioni, vedi i 170 miliardi in vent'anni concessi alle fonti energetiche rinnovabili); la Borsa che dovrebbe disintermediare le banche e alimentare lo sviluppo (salvo scoprire che è molto più il denaro drenato dalle imprese quotate di quello che vi convoglia); le obbligazioni variamente coperte dai derivati che soppiantano il credito industriale (salvo accorgersi che, quando serve davvero, emettere bond diventa impossibile e in ogni caso abitua all'indisciplina finanziaria); il sistema pensionistico che si trasforma da gestore cost oriented di un diritto di cittadinanza a business finanziario a solidarietà limitata (salvo verificare che i fondi pensione rendono meno del Tfr e distolgono risorse dal sistema produttivo del Paese verso l'estero); la contrattazione sindacale che si modernizza tra concertazione nazionale e accordi aziendali (salvo dover constatare che nella ripartizione del valore aggiunto il lavoro perde colpi da 20 anni); l'apertura indiscriminata del mercato unico europeo alle economie extracomunitarie nella convinzione di avere, con gli Usa, un inattaccabile primato tecnologico, organizzativo, produttivo e finanziario (salvo subire senza saper reagire l'espansione della Cina e delle altre macroregioni emergenti, ormai divenute le officine e le banche del mondo); il rigore della finanza pubblica sul modello del Washington Consensus (salvo constatare come la Grande Crisi divampi a causa del default del settore privato cui si pone rimedio aumentando il debito pubblico in precedenza demonizzato); il contrasto dell'inflazione come
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bussola unica (salvo subire la nuove concorrenza di Paesi del G8 come Usa, che dal 2006 non dà più notizie sulla massa monetaria aggregata, e Giappone che non esita a stampare moneta in gran quantità). Forse dovremmo ripensare senza nostalgie ma con spirito critico, e conti alla mano, decisioni riformatrici come il divorzio tra il Tesoro e la Banca d'Italia e lo smantellamento dello Stato imprenditore. Ma quanto pesano le legacy del passato dei leader storici e quanto pesa la debolezza dei legami con la società del nuovo ceto dirigente del partito? Certo è che Barak Obama ha vinto per la seconda volta nonostante risultati economici assai inferiori alle attese. Forse perché ha dato l'impressione alla maggioranza degli americani di non essere corresponsabile delle scelte pro Wall Street dei suoi predecessori. Obama ha consegnato meno merce di quanta se ne sperasse, sicuramente è stato un riformista a metà, e tuttavia il segno di una svolta ha cominciato a darlo. Obama dice New Deal e salva Detroit, noi diciamo New Deal ma temiamo il fantasma dell'Iri. Perché, da italiani senza Riforma, non coltiviamo abbastanza il libero arbitrio nella rilettura della nostra storia, antica e recente, alla ricerca controriformista di continuità con l'altro ieri che non possono esistere, essicano le radici e precludono il futuro.
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I nostri errori Giorgio Tonini Senatore PD
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na riflessione sulle cause della sconfitta del 24-25 febbraio, che voglia essere di una qualche utilità, deve svolgersi all'insegna del rispetto per le persone e della solidarietà di partito, ma anche della sincerità e della schiettezza. È con questo spirito che dirò che mi ha sorpreso la sorpresa che ha colto il gruppo dirigente del Partito democratico nella notte del 25 marzo, quando il sogno di un governo BersaniVendola si è infranto contro il muro dei numeri. La sorpresa, che si è tradotta in un "no comment" durato 24 interminabili ore, fino alla conferenza-stampa con la quale Bersani provava a riprendere comunque il sogno così bruscamente interrotto, è la prova che il nostro quadro di comando aveva creduto davvero alla propria stessa propaganda. E non aveva neppure contemplato il caso che le elezioni si potessero "non vincere". Eppure, i sondaggi, che certo davano il centrosinistra avanti, non erano affatto tranquillizzanti. Dipingevano, è vero, la coalizione "Italia bene comune" come vincitrice, ma in quanto "migliore perdente": che non è precisamente una condizione nella quale dormire sonni tranquilli. Anche perché tutti conoscevano l'insidia rappresentata dalla legge elettorale del Senato: tanto più con un sistema politico ridiventato multipolare. E infatti, alla Camera, il piano degli strateghi del Pd era riuscito: l'operazione "sorpasso in discesa" aveva portato alla coalizione di centrosinistra quello che il presidente Napolitano, nel suo discorso del giuramento, ha definito "l'abnorme premio di maggioranza" previsto dal Porcellum. Col 29,55 per cento dei voti, nemmeno 100 mila di scarto rispetto al centrodestra, fermatosi al 29,18, la coalizione guidata dal Pd si era aggiudicata 340 dei 617 seggi in palio (al netto del valdostano e dei 12 italiani all'estero): un regalo di quasi 150 deputati. Sia detto per inciso: una vera e propria aberrazione che, a parti rovesciate, ci
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avrebbe visti in piazza con le fiaccole, in una motivatamente angosciata e indignata "veglia per la democrazia". Ma comunque, missione compiuta. Senonchè in Italia c'è il bicameralismo perfetto. E al Senato, la magrezza del risultato elettorale, senza la protesi del premio nazionale, ha mandato il sogno in frantumi. "Un fatto certo non imprevedibile" (Napolitano). Perché al Senato era matematicamente impossibile vincere con i rapporti di forza registrati dal voto. E infatti, la lotteria dei premi regionali ha assegnato al centrosinistra solo 113 seggi (contro i 116 al centrodestra), che sono diventati 123, grazie alla conquista (storica) di tutti e 6 i collegi uninominali del Trentino - Alto Adige e di 4 seggi su 6 tra gli italiani all'estero. Ma 123 senatori, a Palazzo Madama, non fanno maggioranza. Neppure se ad essi si sommano i 19 "montiani", portando finalmente alla luce del sole quel "matrimonio morganatico", mai del tutto negato e mai veramente ammesso, che aveva caratterizzato la confusa campagna elettorale del centrosinistra. 123+19 fa infatti 142, ben 16 voti sotto la maggioranza minima (e al netto dei senatori a vita) di 158 su 315. La "non vittoria" non era affatto imprevedibile e non c'era quindi nulla di cui sorprendersi. Del resto, alcuni (pochi) di noi, mal sopportati nel partito, era qualche anno che dicevano, senza malanimo e con sincera preoccupazione, che la strategia del Pd, non solo era contraddittoria con la natura del "partito nuovo" che insieme avevamo voluto far nascere, ma era anche assai rischiosa, sul piano elettorale: perché puntava tutte le sue carte sulla debolezza dell'avversario, anziché sulla nostra forza. Era una strategia che pretendeva di essere astuta senza essere intelligente, perché si basava sul presupposto, verificatosi clamorosamente infondato, che si potesse vincere "di default", per abbandono del campo dell'avversario, anziché per la strada maestra della conquista delle menti e dei cuori della maggioranza degli elettori. Un errore tragico, che ha condotto il centrosinistra a sprecare, in modo clamoroso e incomprensibile, proprio come è incomprensibile il comportamento delle balene che vanno a spiaggiarsi quando avrebbero l'oceano davanti a sé, l'occasione più favorevole dal 1994 ad oggi. Dinanzi ad un centrodestra che perdeva metà dei voti conquistati nel 2008 (una disfatta, altro che rimonta di Berlusconi!), il Partito democratico, anziché proporsi, attraverso una coraggiosa innovazione politica e
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Al Senato era matematicamente impossibile vincere con i rapporti di forza registrati dal voto. E infatti, la lotteria dei premi regionali ha assegnato al centrosinistra solo 113 seggi.
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Il Pd "progressista" è riuscito a perdere non solo, come è evidente, milioni di voti a vantaggio dell'astensione, del Movimento Cinque Stelle o, in misura minore, di Scelta Civica, ma perfino 400 mila elettori in favore della sinistra alla sua sinistra.
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programmatica, di sfondare le linee avversarie e produrre quel riallineamento elettorale che era stato la missione impossibile prima dell'Ulivo e poi del primo Pd, si rinchiudeva nella cittadella fortificata delle aree geografiche, sociali e culturali del suo tradizionale insediamento: le regioni rosse, le aree urbane, il ceto medio impiegatizio, prevalentemente pubblico, più in generale l'elettorato storicamente "di sinistra", notoriamente splendido, ma irrimediabilmente minoritario. La riabilitazione di miti e riti certo rispettabili, ma regressivi, del tipo "finalmente possiamo tornare a chiamarci compagni", l'abuso dilagante del rosso bandiera, fino all'abbandono della autodefinizione di "riformisti", in favore di quella (oltre tutto sfortunata) di "progressisti" (la famosa "alleanza tra progressisti e moderati", per non dire dell'espressione "fronte progressista"), ha fatto il resto, in termini di auto ghettizzazione. Risultato: non solo il Pd non riusciva ad intercettare nemmeno uno dei voti persi da Pdl e Lega, ma finiva per perdere a sua volta 3 milioni e mezzo dei 12 milioni di voti conquistati da Veltroni nelle terribili condizioni del 2008, con un Berlusconi che pareva inarrestabile, dopo il fallimento del governo dell'Unione. Stando ai dati dell'Istituto Cattaneo di Bologna, il Pd "progressista" è riuscito a perdere non solo, come è evidente, milioni di voti a vantaggio dell'astensione, del Movimento Cinque Stelle o, in misura minore, di Scelta Civica, ma perfino 400 mila elettori in favore della sinistra alla sua sinistra. Perché è sempre così: quando si perde, perché ci si chiude in difesa, si perde da tutti i lati. Si diventa preda, anziché predatore. Le cause, insieme remote e immediate, della nostra sconfitta, a me sembrano tre. Innanzi tutto, la mancanza di una proposta di governo per il Paese, che presentasse le caratteristiche che, come ebbe a dire Antonio Giolitti, deve avere un'alternativa potenzialmente vincente: credibilità, affidabilità, praticabilità. E invece, per tutta la campagna elettorale, si è alluso ad un possibile accordo post-elettorale con Monti, peraltro mai ammesso pienamente da Bersani e invece drasticamente escluso da Vendola, che ha così finito per rappresentare il nostro unico alleato di governo. Ma alla credibilità, affidabilità e praticabilità di un governo Bersani-Vendola neppure noi, il Pd, sembravamo credere. Senza una vera proposta di governo, siamo rimasti soli. Paradossalmente, dopo anni di dispute teologiche tra i sostenitori della "vocazione maggioritaria", cioè della conquista
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direttamente da parte del Pd di quote di elettorato centrale (tra i quali certamente mi annovero) e i sostenitori di un'alleanza con un partito di centro al quale demandare questo compito (linea che non condivido ma che rispetto), non siamo riusciti a praticare né l'una né l'altra strategia e ci siamo ritrovati da soli con un (piccolo) alleato alla nostra sinistra. Chiusi in difesa, quando tutti si aspettavano da noi una manovra all'attacco. Ed ecco allora le altre due concause della sconfitta: insieme alla vaghezza della proposta di governo, la mancanza sia di una strategia di alleanze, sia di una strategia di conquista dell'elettorato "mobile", da tutti gli analisti stimato (e dai risultati elettorali dimostrato) di proporzioni e dimensioni del tutto inedite. Il passaggio decisivo è stato, a mio modo di vedere, il governo Monti. È vero, dopo la crisi del governo Berlusconi, abbiamo saputo, grazie all'onestà intellettuale e politica di Bersani, mettere l'interesse del Paese davanti a tutto, anche davanti al calcolo che poteva spingerci ad andare subito al voto per approfittare della condizione di sbandamento dell'avversario. Senonché, quella scelta è stata poi nei fatti rinnegata: non dalle nostre azioni, ma dalle nostre parole. Anziché basare su questo nostro grande atto di responsabilità, una linea politica che facesse della esperienza del governo Monti la punta di diamante per la conquista di elettori nuovi, tanto più necessari in presenza di scelte che sapevamo avrebbero avuto caratteri di impopolarità, ci siamo concentrati sull'obiettivo di difendere i confini del nostro consenso: col risultato che, anche grazie alla nostra propaganda sul carattere "di destra", o "neo-liberista" del governo dei tecnici, abbiamo perso comunque voti tradizionali, sul crinale della "protesta", senza però conquistarne di nuovi, ma anzi perdendone anche di vecchi, sul versante dell'elettorato, per così dire, "di governo". Si sarebbe potuto fare diversamente? Per il poco che può valere, la mia esperienza mi dice di sì. La mia campagna elettorale si è svolta tutta in una piccola area del Paese, uno dei sei collegi del Trentino-Alto Adige (dove al Senato si vota ancora col "Mattarellum"): il collegio di Pergine Valsugana, che comprende quasi tutto il Trentino orientale. Un collegio che il centrosinistra non aveva mai vinto, dal 1994 ad oggi. Un collegio privo di una vera area urbana e composto da valli montane dedite al turismo, all'agricoltura di montagna, alla piccola e media industria e all'artigianato: tutti mondi nei quali, pur in un contesto di autonomia speciale, la crisi morde in
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Ecco allora le altre due concause della sconfitta: insieme alla vaghezza della proposta di governo, la mancanza sia di una strategia di alleanze, sia di una strategia di conquista dell'elettorato "mobile".
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modo assai doloroso e il centrosinistra è da sempre minoritario. Ho considerato quella mia candidatura un servizio e una testimonianza, con possibilità pressoché nulle di successo. E invece ho battuto il mio avversario (il leghista Sergio Divina, che nel 2008 aveva vinto il collegio di Trento, altrimenti sempre vinto da noi...) 43,5 per cento a 28,5, col candidato del M5S che ha comunque preso il 20. Credo che la spiegazione di questo mio/nostro successo derivi dal fatto che come candidato, come partito e come coalizione abbiamo adottato una strategia di campagna elettorale per molti aspetti diversa, per non dire opposta, a quella nazionale. Innanzitutto la proposta di governo: per noi era esplicitamente e chiaramente il governo Bersani-Monti, in continuità, sia pure evolutiva (della serie: proprio perché abbiamo fatto le cose giuste con Monti sul versante del rigore, ora potremo affrontare con decisione il problema della crescita e dell'occupazione...), col governo al quale, dicevo tutte le sere, "insieme al Pd ho votato la fiducia 55 volte e lo rivendico, perché pur tra limiti ed errori, so che abbiamo fatto il bene del Paese". Proporsi chiaramente come coalizione di governo, senza peraltro mai polemizzare con le "proposte di protesta", a cominciare dal M5S, di cui riconoscevamo le ragioni, pur non condividendone gli esiti, non ci ha messo al riparo dai colpi dei grillini (che hanno comunque rastrellato il 20 per cento dei voti), ma ci ha reso competitivi nella conquista del voto "moderato", cioè costruttivo e di governo, alla ricerca di proposte e persone capaci di un discorso di verità, proprio mentre i nostri avversari berlusconian-leghisti sterzavano decisamente verso il populismo protestatario, nel vano tentativo di arginare l'onda grillina. Questa proposta era resa credibile dall'unità della coalizione che si presentava insieme nei collegi uninominali: noi del Pd, insieme ai montiani di Lorenzo Dellai (col quale avevo collaudato un "numero" quotidiano, replicato in tutte le contrade del collegio, nel quale il "più montiano dei democratici" convergeva politicamente e programmaticamente col "più democratico dei montiani"), e agli autonomisti del PATT. Certo, una coalizione resa credibile da quindici anni di governo comune della Provincia autonoma. E tuttavia, questo valeva anche nel passato, ma non era mai stato sufficiente a vincere, alle politiche, nel collegio di Pergine Valsugana. Infine, la campagna che abbiamo condotto insieme, come partito e come coalizione, è stata tutta mirata a conquistare gli 26
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elettori mediani, secondo i canoni più classici della "vocazione maggioritaria": dagli albergatori che avevano sempre votato Forza Italia, agli artigiani (e agli operai) in passato terreno di caccia della Lega. Ne ho tratto il convincimento che solo un partito che abbia l'ambizione di conquistare in proprio e direttamente queste fasce di elettorato, tragicamente così lontane dal voto per il centrosinistra, può anche stringere alleanze con formazioni politiche cosiddette "di centro", nazionali o territoriali che siano. Mentre non vale il contrario: con buona pace dei teorici dell'alleanza tra progressisti e moderati, se il Pd, invece di fare il Pd, ossia il grande partito nazionale e popolare, riformista e democratico, aperto e inclusivo, regredisce allo stadio infantile del progressismo, finisce come con Monti, che l'alleanza non si può fare e diventa anzi competizione polemica. Si tratta, come è evidente, di un esperimento dal quale sarebbe improprio inferire una teoria generale. E tuttavia, la teoria generale con la quale siamo andati al voto è stata falsificata dal l'esito del voto. Mentre il mio modesto esperimento trentino è comunque un fatto: capovolgendo la teoria generale, abbiamo vinto anche dove non eravamo mai riusciti prima.
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Il nocciolo della nostra debolezza Claudio Martini Senatore PD
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ntorno al 10 gennaio, alla presentazione delle liste, Bersani era ancora considerato da molti uno che le aveva azzeccate tutte e che aveva dimostrato coraggio, apertura e capacità di innovazione. Basta rileggere le cronache di quei giorni. E il PD era dato certo vincitore delle elezioni, non solo da noi. Poi, invece, il voto deludente e il ritrovarsi in una situazione senza sbocchi, la 'tempesta perfetta'. Come si spiega questa amara parabola? Non diamo tutta la colpa alla campagna elettorale. Certo l'abbiamo gestita male, con una mobilitazione fiacca o di facciata. L'eccessiva sicurezza di vincere ha abbassata la soglia di responsabilità di chi era tentato dal voto di protesta, anche a fini interni. Si è data troppa importanza ai sondaggi, senza cogliere lo smottamento verso Grillo negli ultimi giorni. E non si è saputo fronteggiare l'esproprio della campagna elettorale fatto da giornali e televisioni, che ci hanno imposto temi e ritmi. Sul piano dei contenuti ha pesato negativamente l'inversione che abbiamo fatto della coppia pregiudiziale/sostanziale, ossia dei costi della politica rispetto alla questione sociale. Deboli e reticenti sul primo punto si è appannata la forza delle nostre proposte per uscire dalla crisi. Comunque non è solo qui che bisogna guardare. Se sono bastati trenta giorni di comunicazione impacciata per farci perdere un quarto del consenso del 2008 (3,4 milioni di voti) vuol dire che la falla era molto grande. C'è qualcosa di più profondo. Gli errori della campagna non sarebbero bastati a determinare la nostra sconfitta se non si fossero inseriti dentro una preesistente situazione di consenso problematico nei confronti del PD. E questa è cosa che viene da lontano. Riassumerei così: dalla sua nascita, con l'eccezione del grande risultato delle politiche 2008 (ottenuto prosciugando la sinistra radicale con l'arma del 'voto utile'), il PD ottiene dei
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buoni risultati elettorali e di convincente presa sull'opinione pubblica solo in momenti particolari (vedi le primarie BersaniRenzi) o nella dimensione amministrativa locale(con qualche eccezione). Ma questi successi non fanno regola, non sono la sintonia consolidata con il paese e con lo spirito del tempo. E spesso sono più l'effetto dell'arretramento della Destra che non di veri meriti nostri. Bisognerà dunque rileggere con occhio attento gli avvenimenti politici e sociali degli ultimi anni, dal 2008 in avanti, dal momento in cui lo scenario viene sconvolto e determinato da una rottura storica: la grave crisi finanziaria ed economica che ancora attanaglia il mondo occidentale. Arriverò più dettagliatamente a trattare di questo. Vorrei intanto accennare ai risultati del voto alle Europee del 2009, quando il PD prese il 26,1% e otto milioni di voti, perdendone quindi quattro milioni, un terzo esatto, in soli dodici mesi. Era questo un segno preciso che fuori dall'eccezionalità dello scontro campale nelle elezioni politiche la forza attrattiva del PD era più fiacca, non aveva trovato una sua stabilità, la continuità che certifica il radicamento culturale e sociale. Bisognerà poi cercare di comprendere meglio il significato dell'affanno dimostrato dal PD e dai suoi candidati 'ufficiali' in molti ballottaggi locali svolti dal 2008 in poi. I casi sono stati tanti: la Puglia, Milano, Napoli, Genova, Cagliari, la Sicilia, al di là del caso particolare di Firenze. In questi passaggi si è affermata una regola: i candidati del Partito perdono, vincono gli outsider. E questo fatto, quasi paradossalmente, aiuta a vincere le elezioni! Perché quei candidati funzionano meglio dei nostri. Alla fine siamo felici lo stesso, ma il segno di una debolezza 'ordinaria' del nostro messaggio è inequivoco. Aggiungo ancora le incertezze e gli ondeggiamenti palesati in occasione di alcuni referenda sensibili, cito fra tutti quello sui beni pubblici. In molti casi siamo arrivati in ritardo a schierarci, quasi trascinati dall'opinione pubblica, senza poter nascondere la fatica nel creare un nesso fluido e limpido tra iniziativa istituzionale e movimenti culturali e sociali. A mio avviso il problema più grande di questi cinque anni sconvolgenti è stato però la nostra difficoltà a stare, culturalmente e politicamente, sui temi duri e complicati posti dalla crisi finanziaria. Sta qui il nocciolo duro delle nostre fragilità. Il grande paradosso nostro e di tutta la sinistra europea e mondiale è quello di non aver saputo cogliere, per debolezza d'analisi e per inerzia politica, la grande opportunità offerta
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Bisognerà dunque rileggere gli avvenimenti politici e sociali degli ultimi anni, dal momento in cui lo scenario viene sconvolto e determinato da una rottura storica: la grave crisi finanziaria ed economica che ancora attanaglia il mondo occidentale.
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Manca ormai da anni un'analisi del potere finanziariocomunicativoindustriale. Non sappiamo esattamente come si organizza la macchina dei poteri reali.
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dalla crisi del turbocapitalismo e dalle sue lampanti distorsioni, persino antropologiche. Invece di lanciare un nuovo forte discorso, capace di chiarire le responsabilità della crisi e di incrociare la domanda di nuova politica che saliva da ogni dove, siamo ripiegati in trincee difensive o nella trappola delle ricette 'oggettive', indiscutibili. L'imbarazzante discussione svoltasi dentro il PD sulla famosa lettera della BCE dell'agosto 2011 che dettava le cose da fare in Italia è ancora lì a dimostrare questo approccio sostanzialmente subalterno. Sulle cruciali questioni squadernate dalla crisi (crescere delle disparità sociali, governance democratica globale, crescita sostenibile, nuove domande di partecipazione) è stata più evidente l'afasia che la nuova capacità di progetto. Non solo qui da noi, certo. Tutta la sinistra europea ha mancato alla prova. Forse solo Obama, in parte e in certi momenti topici, è riuscito a dire cose nuove e forti, specie contro il potere finanziario. C'è qui per noi un grande problema di cultura politica, di visione aggiornata del mondo e dei suoi rapporti di forza. Manca ormai da anni un'analisi del potere finanziario-comunicativo-industriale. Non sappiamo esattamente come si organizza la macchina dei poteri reali e così non sappiamo chi sono i nostri 'avversari'. Il politicismo ottunde la comprensione del potere reale. Torno alla mia tesi. Il PD gode dalla sua nascita di un consenso problematico, non solidificato, non 'strategico' se così vogliamo dire. L'errore della campagna elettorale e della fase di avvicinamento è stato innanzitutto non percepire, non riconoscere questa fragilità strutturale e non lavorare con determinazione sulla 'qualità' dell'offerta politica. Abbiamo discusso troppo di candidati, di generazioni e di componenti interne, mentre si poteva e doveva far leva su una domanda di senso e di futuro che proprio la crisi aveva sollevato, in ogni parte del paese. Sono queste le cose che definiscono il profilo fondamentale del PD, la sua capacità di svolgere la missione per cui è nato: costruire un'uscita democratica, europeista, socialmente equa dal ventennio della Destra. Su tutto questo ancora non ci siamo. E nel voto incerto che ci arriva si avverte un dubbio popolare sulla possibilità di esserlo, di farcela. Questo è il nodo della discussione, a mio avviso. Non sono piccole questioni tattiche o problemi, pur rilevantissimi, di comunicazione. Di questo dovrà discutere il prossimo Congresso, che tutto potrà essere meno che una conta tra candidati Segretari.
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Serve discutere, finalmente, di politica, grande e concreta, cosa in realtà mai fatta dal 2007 ad oggi. Ossia della natura e della qualità di questo partito. Consapevoli dell'estenuarsi della parola 'riformismo', che oggi dice più del come operare che del cosa vogliamo. Così come della sua organizzazione. O del fatto che le primarie vanno bene, anche se non sempre e comunque, ma non bastano. Non fanno da sole la cultura politica del PD, anzi spesso la distorcono o la imprigionano. Ho sempre pensato che, per farcela, il PD dovesse essere innanzitutto un partito 'colto', non nel senso elitario del termine ma in quello della voglia di studiare, capire, elaborare, sfuggendo dalle semplificazioni e dai 'pensieri corti'. Faccio un solo esempio, tra i mille possibili: l'abbaglio di pensare che tutto si risolvesse rincorrendo il Centro, gli elettori delusi del PdL. Certo c'è anche questo, come non vederlo. Ma il voto e le difficoltà degli ultimi anni dicono che, ancor di più, noi abbiamo il problema di confermare la fiducia degli elettori di sinistra, delusi dal PD. Tanti hanno votato con sofferenza anche il 24 e 25 febbraio. Tutte le analisi demoscopiche e politologiche dicono che questo è il problema principale. Il che però non vuol dire semplicisticamente che al PD serve un asse politico spostato a sinistra. Secondo me questo spostamento è necessario, ma non secondo un vecchio schema, da dibattito tardonovecentesco. Occorre recuperare una certa radicalità, in un panorama politico dominato dalla confusione, dall'approssimazione, dal populismo. Essere radicali non significa cedere all'estremismo. Tutt'altro. Significa piuttosto fare davvero e bene ciò che si dice. Uscire dai tentennamenti e dalle ambiguità. Dal non essere né carne né pesce. Contro il populismo servono certo l'affidabilità e la serietà ma bisogna anche dire che le useremo per fare cose diverse, innovative ed efficaci. E che le faremo sul serio.
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Movimento 5 stelle, le ragioni del successo Stefano Camatarri
Ricercatore presso facoltĂ di Scienze Politiche, UniversitĂ di Milano
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ome ci si poteva ampiamente aspettare, di fronte al clamoroso esito elettorale fuoriuscito dalle urne lo scorso 25 Febbraio, l’immediata, e in un certo senso fisiologica, reazione delle principali forze politiche non è stata tanto quella di guardare al passato, rielaborando il trauma di un voto tanto frammentato quanto imprevedibile, quanto quella di sondare le diverse strade future percorribili per la formazione di un nuovo Governo, lanciandosi in una serie di tattiche, strategie, attendismi e veti incrociati i quali non
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hanno avuto alcun effetto se non quello di mantenere le istituzioni del Paese in una condizione “acefala” per più di due mesi. Ciò non toglie, però, che il vero dato di rilievo ad emergere dalle ultime elezioni politiche risieda più che altro nella mutazione genetica subita dal nostro sistema partitico, passato nel giro di pochissimo tempo da una logica di confronto tutto sommato bipolare ad un’altra che invece è di natura sostanzialmente tripolare, in cui a fare da terzo polo non è tanto la coalizione centrista facente capo a “Scelta Civica”, la formazione guidata dall’ex Presidente del Consiglio Mario Monti, quanto il Movimento 5 Stelle, un soggetto politico che con il suo 25% dei voti raccolto in occasione del suo debutto elettorale rappresenta un unicum nell’intera storia dell’Europa occidentale. Tale unicità si manifesta tanto nel drastico abbassamento della quota di consensi raccolta dai due principali interpreti della competizione bipolare nel nostro Paese (Pd e PdL), oggi in calo di circa venti punti percentuali rispetto al 2008, quanto nel forte innalzamento del livello di volatilità aggregata presente nel nostro sistema elettorale, altrimenti definibile come l’aggregazione delle differenze nelle percentuali di voti ottenute dai vari partiti fra un’elezione e la precedente. Di fronte a questa moltitudine di dati resta però da capire per quale motivo un esito tanto eclatante non sia stato adeguatamente previsto dagli specialisti del settore. Soprattutto, occorre riflettere sulle condizioni socio-politiche che hanno permesso al Movimento 5 Stelle di compiere un’ascesa elettorale tanto imponente. Lungi infatti dal voler risolvere la questione, come molti hanno fatto, portando sul banco degli imputati i soli sondaggi pre-elettorali, giudicati eccessivamente incapaci di riprodurre con buona approssimazione il modo in cui le preferenze elettorali si distribuiscono nel nostro Paese, credo in realtà che le dinamiche relative all’accumulazione del consenso da parte del Movimento 5 Stelle abbiano alla propria base qualcosa ben di più complesso e profondo, che necessita ancora di approfondite riflessioni per poter essere pienamente compreso. Da che cosa deriva, dunque, il repentino successo elettorale del Movimento 5 Stelle? Ma soprattutto, come è stato possibile che una forza politica nata poco più di quattro anni fa e dotata di un apparato burocratico molto leggero rispetto a quello dei partiti tradizionali, abbia potuto
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Come è stato possibile che una forza politica nata poco più di quattro anni fa abbia potuto capitalizzare una quota di consensi tanto vasta ed omogenea su tutto il territorio nazionale?
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Oggi il Movimento 5 Stelle raccoglie voti pressoché uniformemente su tutto il territorio nazionale, assumendo le sembianze di un vero e proprio partito di massa strutturato.
capitalizzare una quota di consensi tanto vasta ed omogenea su tutto il territorio nazionale? A questo proposito, va quantomeno sottolineato che un ruolo di primaria importanza è stato senz’altro esercitato dall’instabilità intrinseca di un sistema politico decisamente frammentato e in cui l’alto tasso di ricambio di partiti, nomi e simboli messo in atto dai dirigenti politici nel corso degli anni non ha certo aiutato gli elettori a sviluppare un certo senso di attaccamento psicologico nei confronti di singole forze politiche, ma anzi ha posto parzialmente le basi per una il verificarsi di quanto accaduto. In fondo, è proprio grazie all’esistenza di un contesto elettorale privo di radici socio-culturali profonde e radicate che il movimento grillino ha potuto sviluppare i propri consensi attraverso tre ondate successive, intercettando dapprima gli elettori delusi di Centro Sinistra, per poi veder crescere la componente di Destra e tornare, infine, ad attingere al bacino di Centro Sinistra nei giorni immediatamente precedenti il voto. Ma non è solo ricorrendo all’analisi di alcuni fattori strutturali come l’enorme tasso di ricambio delle sigle e dei soggetti partitici nella Seconda Repubblica che potrà essere trovata una risposta alle domande presentate sopra. Ciò che infatti cercherò di dimostrare nelle pagine successive è che rintracciare i meccanismi esplicativi alla base di una rivoluzione elettorale come quella avvenuta lo scorso 25 Febbraio significa anche approfondire e valorizzare, attraverso una serie di misure sintetiche, la complessa rete di giudizi, credenze e motivazioni di cui sono imbevute le singole decisioni di voto. In altre parole, significa scavare nella dimensione socio-psicologica dell’elettorato. Prima di compiere questo passo, però, occorre tratteggiare il nuovo identikit dell’elettore grillino, al fine di liberare il campo da vecchie idee fuorvianti e costruire una nuova ipotesi di lavoro. Riordinare le idee: il profilo del votante a 5 Stelle nel 2013 Qualche tempo fa, in occasione delle elezioni amministrative del 2012, la maggior parte degli studiosi, tra cui il sottoscritto, non poteva fare a meno di notare come i consensi raccolti dal Movimento 5 Stelle tendessero a scemare man mano che si passava dal Centro Nord al Sud del Paese. L’ipotesi con cui tentai di spiegare tale relazione dipingeva l’elettore tipo del Movimento 5 Stelle come un soggetto
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istruito, prevalentemente collocato nelle aree più metropolitane economicamente e culturalmente più evolute del Paese, impiegato nel settore del terziario avanzato. Si trattava, insomma, di un tipo di elettore certamente più diffuso al Nord che al Sud del Paese, dotato di una mentalità post-materialista, ovvero interessata non tanto a temi di natura economica, quanto a issues di natura immateriale, come le questioni legate all’ambiente, alle differenze di genere, agli stili di vita in generale e alle nuove istanze di democrazia partecipativa. I risultati delle ultime elezioni politiche, però, raccontano una storia completamente diversa: oggi il Movimento 5 Stelle raccoglie voti pressoché uniformemente su tutto il territorio nazionale, assumendo le sembianze di un vero e proprio partito di massa strutturato. E faremmo un grande errore a sostenere che il diverso modo con cui il voto oggi si distribuisce sul territorio rispetto a un anno fa dipenda più che altro dalla natura, rispettivamente amministrativa e politica, delle due consultazioni in questione. Certo, i meccanismi di selezione del candidato innescati dalle due diverse leggi elettorali sono nettamente diversi e possono anche incentivare strategie di voto alternative. Tuttavia è innegabile che differenze tanto grandi, soprattutto in termini di distribuzione territoriale delle preferenze, portino con sé tutta una serie di nuovi fenomeni e caratteristiche sociali, le quali non hanno tanto l’effetto di rimpiazzare completamente l’identikit dell’elettore grillino originario, quanto quello di integrarlo con altre caratteristiche del tutto inedite. Ciò fa della nostra ipotesi iniziale, che, come diceva Albert Einstein, altro non è che una verità momentaneamente presunta, un artefatto mentale oramai da sostituire con nuove plausibili interpretazioni. Qual è, dunque, la logica alla base del consenso ottenuto dal Movimento 5 Stelle alle scorse elezioni politiche? Per capirlo, partiamo dalla descrizione dell’elettorato grillino. Come è noto, buona parte dei sondaggi descrive questa categoria di votanti come piuttosto giovane (la quota di soggetti al di sotto dei 34 anni supera il 50%), ben istruita (circa il 70% di essi detiene un titolo di studio medio superiore) e, per una certa quota, politicamente ortogonale, ossia collocata in maniera trasversale rispetto alla tradizionale dimensione ideologica di destra-sinistra. Come vedremo, è soprattutto quest’ultima caratteristica 35
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ad assumere un ruolo decisivo ai fini della nostra analisi. Sebbene, infatti, il sostanziale rifiuto del votante a 5 Stelle di auto-posizionarsi lungo il continuum ideologico destra sinistra possa essere inizialmente inteso come il sintomo di un ampio grado di analfabetismo politico e di marginalità socio-culturale, non possiamo in realtà fare a meno di notare come questa sua caratteristica risulti per lo più associata al possesso di un titolo di studio superiore o di una Laurea (all’incirca nel 70% dei casi), così come di un’età anagrafica relativamente bassa (solo il 7% di essi è al di sopra dei 65 anni). Se non fosse per il semplice fatto che gli aspetti appena elencati tendono ad amplificarsi quanto più ci si avvicina al Sud del Paese, saremmo probabilmente spinti a riconfermare l’ipotesi della natura post-materialista, culturalmente ed economicamente avanzata dell’elettorato grillino. Inoltre, l'assenza di una precisa auto-collocazione politica tra gli elettori del Movimento risulta tendenzialmente più elevata all'interno delle categorie socio-professionali che più stanno soffrendo il peso dell’attuale crisi economica (nello specifico, commercianti/artigiani, operai, studenti e disoccupati). Ciò ci induce a interpretare la diffusa reticenza dei grillini nell’esprimere il proprio posizionamento politico-ideologico come un forte e generale segnale di distacco, disillusione, sfiducia e protesta verso una politica da cui essi non si sentono rappresentati, a prescindere dal loro livello d’istruzione e dall’area territoriale in cui vivono. Una nuova teoria per il cambiamento, tra interessi e rappresentanza Per poter confermare quanto appena sostenuto alla luce dei dati fuoriusciti dai più recenti sondaggi pre-elettorali, passiamo ora a verificare se la nostra nuova ipotesi possa trovare lo spazio all’interno di una cornice teorica ben definita. A questo proposito, è bene tenere presente che, vista la relazione significativa tra assenza di auto-collocazione politica e specifiche categorie socio-occupazionali rilevata all’interno di alcuni dei più recenti sondaggi pre-elettorali, la questione riguardante la reticenza in termini di posizionamento ideologico lungo l’asse destra-sinistra da parte dell’elettorato grillino sembrerebbe poter essere inquadrata come un problema di rappresentanza, non solo politica, ma anche di interessi. Come infatti sostenuto dal celebre sociologo Alessandro 36
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Pizzorno, tutti i sistemi pluralistici di carattere democratico, per potersi mantenere e riprodurre nel corso del tempo, necessitano di una certa costanza nella cosiddetta definizione sociale degli interessi, ovvero nell’inclusione di quante più fasce sociali possibili all’interno di un vasto sistema di rappresentanza organizzata che garantisca loro protezione e identificazione. Purtroppo, però, non sempre è così. Lo studioso triestino fa non a caso l’esempio dei giovani (una delle categorie più rappresentative dell’elettorato grillino, spesso affiancata a quella degli operai e dei disoccupati), affermando che quanto più tardi questi ultimi entrano a far parte del sistema professionale, quanto più a lungo, quindi, dura la loro sospensione dalla rappresentanza organizzata degli interessi, tanto maggiore sarà l’instabilità dell’intero contesto rappresentativo. Il giovane, infatti, all’interno di un sistema che posticipa sistematicamente il suo inserimento nel mondo del lavoro e della rappresentanza socio-economica, finisce per trovarsi senza definizione, senza identità, arrivando persino a sottrarre il proprio sostegno a quelle forze politiche che costituiscono da decenni il perno di quel sistema. Lo stesso accade, specie in gravi periodi di crisi economica come quello attuale, anche ad altre categorie sociali, soprattutto quando si è in presenza di un soggetto collettivo esterno particolarmente organizzato e di un leader dotato dell’abilità persuasiva necessaria per tramutare in voti lo scontento delle masse. Non è quindi un caso se, come ha scritto di recente Ilvo Diamanti, Centro Destra e Centro Sinistra hanno smesso di costituire poli alternativi per le diverse categorie professionali. Diversi sono infatti i lavoratori “in fuga”, i quali, specie se appartenenti ai cosiddetti nuovi lavori a basso tasso di sindacalizzazione, una volta esclusi dalla cerchia delle categorie occupazionali socialmente protette, hanno reagito rifiutandosi di utilizzare le tradizionali categorie ideologiche di destra e sinistra e decidendo di votare il Movimento 5 Stelle.
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Di fronte ad un quadro politico travagliato come quello contemporaneo l’unica certezza che abbiamo è quella di dover rincorrere le sempre più veloci dinamiche dei fenomeni sociali, ivi compresi quelli elettorali.
Nuovi scenari e sfide future Di fronte ad un quadro politico travagliato come quello contemporaneo l’unica certezza che abbiamo è quella di dover rincorrere le sempre più veloci dinamiche dei fenomeni sociali, ivi compresi quelli elettorali. Mentre i tempi del mondo si contraggono grazie all’intervento dei 37
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mass media e dei social network, che ridefiniscono le nostre opportunità di azione all’interno dei più svariati processi (anche decisionali), le logiche che presiedono le scelte di voto paiono inesorabilmente svincolarsi dai loro originali criteri identitari, sia che questi riguardino specifiche coalizioni di governo, singoli partiti o particolari gruppi sociali, per assumere un carattere sempre più effimero e transitorio. Tale è l’evidenza che emerge dalle più recenti analisi del Centro Italiano di Studi Elettorali, le quali portano alla luce tanto gli ampi e imprevedibili mutamenti delle opinioni e delle auto-rappresentazioni politiche lungo l’asse destrasinistra messe in atto nel corso del 2012 da specifici gruppi di elettori (soprattutto quelli che non si collocano lungo l’asse destra-sinistra e quelli che si collocano al centro), quanto le oscillazioni relative all’identificazione psicologica di singoli intervistati con specifici partiti politici, le quali coinvolgono all’incirca il 30% del campione considerato. L’ascesa del Movimento 5 Stelle rappresenta in un certo senso il fulcro di questo sommovimento socio-politico. Appare quindi particolarmente azzeccato paragonare, come ha fatto Ilvo Diamanti, questa forza politica, dopo una prima fase in cui certamente è stata post-materialista e tendenzialmente composta da elettori di Centro Sinistra, a un autobus su cui possono salire tutti coloro che si sentono in un certo senso orfani della politica tradizionale e vogliono condividere con altri una parte del loro viaggio verso la fine del bipolarismo, anche in virtù di credenze, sentimenti e ragioni molto contrastanti tra loro. Stiamo parlando, infatti, di quello che la politologia ha definito a suo tempo un “partito pigliatutti”, interclassista, votato da individui di estrazione socio-economica molto diversi tra loro (operai, imprenditori, lavoratori, disoccupati, lavoratori autonomi, liberi professionisti e studenti), ma uniti dalle condizioni di disagio che vivono a causa della crisi economica. Ed è forse proprio per via di questa sua natura elettoralmente e ideologicamente composita che oggi vi sono tante difficoltà nel comprenderne il reale ruolo all’interno della società italiana così come il suo impatto sull’attuale sistema dei partiti. Probabilmente, se delle ricerche su questi temi verranno condotte, esse richiederanno agli esperti di sviluppare un approccio in qualche maniera bidimensionale, finalizzato sia ad approfondire le condizioni sociali, culturali ed economiche che oggi permettono al Movimento 5 Stelle di 38
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creare e mantenere il proprio consenso, sia a comprendere gli schemi di interazione che gli eletti instaurano tra loro e con gli altri esponenti politici nelle sedi rappresentative. Ma la grande sfida, sia per la scienza sia per gli addetti ai lavori, sarà soprattutto quella di capire in che termini i partiti tradizionali potranno riconquistare i voti dei propri exelettori, ovvero di quei soggetti che, in quanto scarsamente coinvolti e protetti dai tradizionali sistemi di rappresentanza organizzata degli interessi hanno deciso di estraniarsi dalla logica di confronto bipolare per aderire all’area, per così dire, “anti-sistema” interpretata dal Movimento. Quali meccanismi di persuasione serviranno a questo scopo? Quali sono le politiche su cui dovrà concentrarsi l’attuale Governo per far sì che a uscirne rafforzata sia la credibilità della propria base parlamentare? Solo il tempo, ovviamente, potrà aiutarci a rispondere a tali domande. Un’unica frase, quindi, possiamo pronunciare con certezza in questo momento: il retroterra socio-culturale delle tradizionali forze politiche, dopo un lungo processo di erosione, è franato, lasciando spazio ad una storia totalmente nuova, la quale attende soltanto di essere esplorata per poter essere pienamente compresa.
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Movimento 5 stelle, dogmatismo seducente e corrosivo Alessandro Leogrande Giornalista e scrittore
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e piazze, alle volte, dicono molto. E il comizio tenuto da Beppe Grillo a Piazza San Giovanni il 22 febbraio scorso davanti a centinaia di migliaia di uomini e donne ha detto - almeno a chi c’era con occhio critico e privo di pregiudizi - molte cose. Il M5S è una struttura fragile, ma allo stesso tempo stratificata. Per cogliere il suo successo bisogna comprendere che al suo interno girano almeno tre cerchi concentrici: il leader assoluto Grillo e il suo consulente Casaleggio; i militanti più attivi, in parte candidati e (nel numero incredibile di 163 rappresentanti) eletti alla Camera e al Senato; la vasta base degli elettori. La sensazione che trasmetteva la piazza, molto più che il blog di Grillo, era una strana forma di peronismo. Non nel senso del populismo, che pure c’era, ma soprattutto per una singolare capacità di unire al suo interno gente che proviene dalla destra e gente che proviene dalla sinistra; tematiche di destra, anche estrema (sovranità monetaria, scioglimento dei sindacati, odio verso i giornalisti...) e tematiche di sinistra, anche radicale (acqua pubblica, riduzione dell’orario di lavoro, reddito minimo garantito...). Il movimento che si dice “né di destra né di sinistra”, in realtà ha una destra e una sinistra interne. Il fatto nuovo (o molto vecchio) è che esse sono frullate insieme - nel discorso che dal Capo ridiscende verso gli accoliti - in unico miscuglio i cui temi forti sono in realtà altri (l’odio verso la casta e la politica; la riduzione dei suoi costi...). Tra i militanti e gli eletti del movimento ci sono anche brave persone. Come dimostrato anche da una ricerca del
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Censis, è del tutto ovvio che almeno il 30% di eletti ed elettori proviene dalla sinistra (anche radicale) e da esperienze di movimento degli ultimi anni. Ma il punto è un altro, al di là del fatto che poi, tra gli eletti e gli elettori c’è un altro 70% (e questo è costituito, oltre che da settori che provengono dalla destra, soprattutto da ex-astenuti e giovani che hanno votato per la prima volta; e quanto agli stessi eletti, da uomini e donne che si sono “scoperti” a una nuova forma di partecipazione negli ultimi due anni; oltre che ad alcuni sostenitori delle più disparate forme di complottismo). Il vero punto è che questo strato fragile di militanti e nuovi parlamentari rischia di essere schiacciato (come è stato costantemente schiacciato in campagna elettorale) dal rapporto diretto Capo-elettori. E questo rapporto diretto, che ha prodotto un consenso tale da sfondare omogeneamente dal Nord al Sud la soglia del 25%, non si è determinato sull’acqua pubblica o sull’energia pulita, ma sul canalizzare la collera contro la casta. O meglio: nell’individuare nella corruzione della casta politica, e nel suo necessario abbattimento, la soluzione di ogni male di natura socio-economica che attanaglia un’Italia in recessione. Lo sfascio del paese non è il berlusconismo, non è il meccanismo che genera ineguaglianze sociali: è la corruzione di “tutti” i politici, moralisticamente e demagogicamente intesa. Proponendo questo meccanismo sacrificale Grillo intercetta un malessere vero. La collera è reale. L’assenza di una sua rappresentanza è reale: l’arco politico non la interpreta più, se non marginalmente. Ma ciò che inquieta è la soluzione che offre. Abbattere il Palazzo, non certo il Sistema, per poi occupare il medesimo Palazzo e dirigere il Paese: è questo il mantra grillino. È questo il primo, unico dogma del movimento. Tutto il resto è solo un magma indistinto che fa da corollario a questo unico assunto. La pluralità degli eletti rischia di essere schiacciata dalla verticalità Grillo-elettori, così come è stata schiacciata nelle piazze. Altro che rete: Grillo ha vinto perché ha fatto comizi estremamente fisici e passionali in tutte le piazze d’Italia, mentre tutte le altre forze politiche (sinistra compresa) le hanno di fatto evitate. E, per chi ha avuto modo di seguire dal vivo o nelle dirette sul suo blog i comizi sera dopo sera, era evidente un dato. Il discorso del Capo è un monologo teatrale di un’ora ripetuto con le stesse pause, le stesse invettive, gli stessi tic, le stesse battute, la stessa foga, la stessa indignazione in ogni città.
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Abbattere il Palazzo, non certo il Sistema, per poi occupare il medesimo Palazzo e dirigere il Paese: è questo il mantra grillino.
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Ai militanti, elettori, simpatizzanti, semplici incazzati del web è lasciato, come unico spazio di partecipazione, quello di scrivere dei commenti a margine del Verbo quotidiano del Capo.
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Le differenze da piazza a piazza sono di appena 1-2 minuti. Il resto è un unico monologo. In questa costruzione retorica abilissima, conta il carisma e conta il corpo reale del Capo intorno al quale si costruisce un nuovo corso populista. Il resto sono dettagli, ma rivelatori, e farebbe bene a tenerne conto chiunque intende aprire un confronto con il M5S, per avere o meno un voto di fiducia. Basta interpretarli per capire quanto poco margine di manovra avranno i singoli deputati. Al di là del pragmatismo di alcuni (pochi) militanti, il duo Grillo-Casaleggio ha un obiettivo chiarissimo, e lo ripete senza nascondersi: vedere crollare sotto le macerie l’attuale sistema dei partiti, fare in modo che Pd e Pdl siano costretti ad allearsi per una brevissima legislatura sotto il cappello di un “governo del presidente”, andare a nuove elezioni e ottenere la maggioranza assoluta. A quel punto - ha sostenuto Grillo - il movimento potrà anche essere sciolto... Prima domanda: questo programma ci inquieta? Dovrebbe farlo altamente, più di ogni altra cosa. Seconda domanda: all’interno del M5S ci sono degli anticorpi contro questo delirio messianico-totalitario? Purtroppo molto pochi. Per suo statuto, il movimento ha come unico obiettivo quello di propagandare le idee contenute nel blog www.beppegrillo.it, e organizzare un’azione politica intorno a esse. Chi scrive sul blog? Il solo Beppe Grillo e alcuni rarissimi collaboratori selezionati dal suo staff. Ai militanti, elettori, simpatizzanti, semplici incazzati del web è lasciato, come unico spazio di partecipazione, quello di scrivere dei commenti a margine del Verbo quotidiano del Capo. C’è anche chi - sotto la protezione dell’anonimato dissente. Ma questi sono solo i frequentatori esterni i cui messaggi - come è invece prassi ricorrente - non vengono cancellati perché troppo critici. Nessuno che abbia dissentito è stato mai candidato o accettato nel movimento. E, quanto agli iscritti, la storia del movimento in Emilia-Romagna e altrove è piena di epurazioni decise dalla sera alla mattina dal Capo e dal suo Consigliere senza la possibilità di potersi appellare a qualche organo interno. Non è un caso che la prima regola che Grillo ha voluto imporre nel funzionamento dei gruppi parlamentari sia l’introduzione del vincolo di mandato. Chi non vota ciò che dice il movimento (e quindi il blog, e quindi Grillo medesimo), viene espulso e costretto a dimettersi.
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Ovviamente Grillo conduce la sua campagna liberticida sostenendo che l’assenza di un vincolo di mandato è la principale causa della scilipotizzazione della politica italiana (cioè del cambio di casacca e del trasformismo). Ma essa è un male quando il trasformismo ha un tornaconto, economico o politico. Quando nell’Assemblea costituente si decise invece di abolire il vincolo di mandato, il senso dell’articolo 67 era ovvio: stabilire, dopo il fascismo, l’indipendenza di ogni singolo parlamentare dal suo medesimo gruppo parlamentare, e quindi dal comitato centrale del partito o dal suo sommo capo, che altrimenti eserciterebbero un controllo totalitario sugli eletti. Ancora una volta, ciò che Grillo vuole è proprio questo, il controllo totalitario, in una nuova forma di giacobinismo del web in cui la lotta contro ogni forma di rappresentanza delegata, e per la distruzione di ogni corpo intermedio, non nasconde il desiderio di creare un nuovo deserto, per poi controllarlo con una truppa che non può dissentire. Il nodo irrisolto del M5S è tutto qua. Grillo ha costruito un movimento in cui ha distrutto ogni struttura intermedia, ha eliminato ogni dissidio interno, ogni momento di verifica. Un mondo destrutturato in cui comandano solo lui e Casaleggio. Il suo obiettivo ora è trasformare il Palazzo e l’intera Italia in un enorme M5S. Per il momento, opposizione interna a questa visione non c’è e non ci sarà. Ci saranno nei prossimi mesi delle defezioni, ma nessuna implosione. Il movimento continuerà a crescere nei consensi, in maniera direttamente proporzionale all’arrancare della “vecchia” politica. Vedere un numero cospicuo di intellettuali saltare sul carro del vincitore, parlare di nuova rivoluzione, di salutare rigenerazione del vecchio parlamentarismo, mette solo molta tristezza. Sono comprensibili i tentativi di creare una possibile maggioranza che eviti il ritorno di Berlusconi, ma non la minimizzazione dei lati oscuri del M5S (i cui vertici, tra l’altro, non hanno alcuna intenzione di stabilire un accordo con la sinistra, e non pensano affatto che il berlusconismo sia stato il principale male di questo paese). Quando Grillo dice che o governa lui o l’Italia sprofonda nella violenza alimentata dalla recessione riproduce lo stesso identico discorso del fascismo delle origini. Non stiamo qui ad accusare Grillo di sansepolcrismo, a ricordargli dei suoi parlamentari che parlano di “fascismo buono” e sdoganano
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Grillo ha costruito un movimento in cui ha distrutto ogni struttura intermedia, ha eliminato ogni dissidio interno, ogni momento di verifica.
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Casa Pound, o ancora a rimarcare alcune truci sparate xenofobe cui si è abbandonato in passato. Le analogie sono più profonde, così come molte delle seduzioni grilline contro il “vacuo parlamentarismo” e “i morti che camminano” sembrano ricordare le seduzioni esercitate dal “fascismo di sinistra”, ribelle e “rivoluzionario”, su un’intera generazione. Basta rileggersi I silenzi di Rosai di Romano Bilenchi o Il garofano rosso di Elio Vittorini per comprendere ciò che intendiamo dire. Forse l’assenza di strutture reali sarà il vero limite di questo movimento: in fondo la violenza verbale di Grillo e gli obiettivi post-democratici di Casaleggio non hanno - ancora, per fortuna - un corrispettivo violento nella base, se si escludono le anonime minacce di morte piovute sul web contro gli epurati... Cosa deve fare la sinistra contro tutto questo? Innanzitutto riflettere sul voto giovanile. Secondo una ricerca sui flussi elettorali condotta da Tecné, tra gli under 30 Grillo ha ottenuto il 38% dei consensi, contro il 26% del Pd. Ma tra gli studenti, Grillo ha raggiunto addirittura il 54,8% dei consensi contro il 22% del Pd e l’11% del Pdl. Altre inchieste rivelano come nella fascia 18-25 anni il consenso per il M5S
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oscilli intorno al 50%. È un vero terremoto generazionale, da cui nascono almeno tre riflessioni. La prima. Perché un ventenne dovrebbe votare Bersani o il gruppo dirigente del Pd? Non è una domanda provocatoria, è una questione reale. Il 24 e 25 febbraio hanno votato per la prima volta i nati tra il 1992 e il 1995, cioè coloro che sono venuti al mondo dopo Tangentopoli, dopo la strage di Capaci, in concomitanza con il successo di Berlusconi... Questa generazione venuta “dopo” è cresciuta in un mondo radicalmente post-politico. Il problema non è riflettere semplicemente sul programma, sulla riduzione dei costi della politica, ma su quali canali di comunicazione è possibile stabilire con questa enorme fetta della società. Obama, ad esempio, ha intuito che ciò era possibile farlo non solo interpretando la rete, ma creando una nuova oratoria pubblica, che traghettasse l’epopea del new deal e del movimento dei diritti civili in un nuovo progressismo del XXI secolo. I discorsi di Obama sono stati una parte essenziale del suo successo. A volte le sue politiche concrete sono rimaste indietro, ma sul piano delle idee e della comunicazione ha decisamente vinto, non concedendo niente ai repubblicani e all’antipolitica. In Italia invece è cresciuto a dismisura un enorme vuoto, ed è stato presto riempito da Grillo. La seconda. A dieci anni dalla crisi del movimento no global e a quattro dalla crisi dell’Onda, stupisce vedere come tra gli universitari spopoli il M5S. Da una parte c’è da riflettere sulla crisi di quei movimenti, e sul fatto che lo spazio da loro abbandonato è stato in massima parte occupato dal grillismo, il quale ha reinterpretato a suo vantaggio alcune delle tematiche da essi proposte. Dall’altra è indubbio che il M5S sia stato il catalizzatore delle incertezze degli esclusi. Ha dato una risposta alle prime vittime delle politiche di austerità: coloro i quali non intravedono un futuro dignitoso. Perché il M5S e non altro? Perché non c’era un’alternativa altrettanto comprensibile. Tuttavia ciò che inquieta è che la nevrosi degli esclusi - non ancora giunta alla soglia della rabbia, per il momento - veda in un movimento tiranneggiato da un miliardario ultrasessantenne il “proprio” movimento. Il Don’t follow leaders (“non seguite i leader”) di una nota canzone di Bob Dylan, proposito intorno a cui si sono organizzati buona parte dei movimenti di contestazione degli ultimi cinquant’anni (e che quantomeno era una sorta di verso-antidoto alla loro degenerazione sulle
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Perché un ventenne dovrebbe votare Bersani o il gruppo dirigente del Pd? Non è una domanda provocatoria, è una questione reale.
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strade della vecchia politica) è stato rovesciato in qualcos’altro, molto più vecchio, molto più plumbeo, come si diceva prima. La critica contro tutti (meno uno) invalida se stessa, e diviene culto. La terza. La questione è culturale, prima ancora che politica. Come ricreare delle reti di partecipazione orizzontale, non verticistica, in un mondo radicalmente mutato. Come aggregare il disgregato in un paese profondamente incupito e atomizzato. Il timore è che la rottura creata dal successo del M5S non si rimarginerà presto e che, anzi, verrà allargata nei prossimi mesi, tra lo stallo politico, l’incancrenirsi della crisi sociale e i ricatti della Banca centrale europea. La cruna dell’ago è sempre più stretta. Indipendentemente da come evolverà la crisi istituzionale, il tema concreto è la democrazia, la sua tenuta, la sua estensione. Le sue mistificazioni e i nuovi autoritarismi. (Questo articolo è uscito in forma più lunga su “Lo straniero”, n. 154, aprile 2013)
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Movimento 5 stelle, ciò che non mi piace Franco Monaco Deputato PD
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el rapportarsi a quell’oggetto nuovo e misterioso che è il movimento 5 stelle - un movimento che si sottrae ai canoni di lettura convenzionali - giova ispirarsi alla seguente massima: scavare in profondità nelle ragioni del suo straordinario consenso ma, insieme, mettere a fuoco con onestà intellettuale ciò che di esso non ci convince. Meglio: ciò che ci fa problema. Un serissimo problema. Un approccio che coniughi lucido, penetrante discernimento e franchezza ed equilibrio nel giudizio di valore. Sulle ragioni del consenso molto si è scritto. Intanto sul sommovimento che sta sullo sfondo. Vado per le spicce: gli italiani (e non solo) se la passano male e sono arrabbiati. Alla sofferenza sociale acuta e diffusa si unisce la collera verso la politica. Su questa condizione oggettiva e su questo stato d’animo esacerbato si innesta una domanda di protagonismo politico da parte di cittadini decisi a fare piazza pulita di un intera classe politica bollata, senza distinzioni, come parassitaria e inadeguata. Ci piaccia o meno - e certo l’indistinzione è sbagliata e ingiusta - questo è il sentimento di massa che gonfia le vele di M5S. Come accennavo, abbiamo il preciso dovere di comprendere (nel senso forte e profondo della parola, cioè di riconoscere l’anima di verità di quello stato d’animo) gli elettori e di interloquire con i loro eletti. Non solo in ragione dei numeri, cioè per il risultato che ci hanno consegnato le urne di un parlamento privo di una maggioranza di governo. Quel risultato inatteso e certo scomodo tuttavia aveva 47
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Vi sono profili di M5S, del suo messaggio politico e soprattutto della sua concezione e pratica della democrazia, sui quali dobbiamo fermamente dissentire. Trattasi di punti qualificanti e non negoziabili.
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fornito una opportunità da gran tempo attesa che i rappresentanti del M5S hanno irresponsabilmente affossato: quella di chiudere finalmente con l’infausta e devastante stagione berlusconiana, con il suo portato di immoralità pubblica e di lesione alla legalità costituzionale. Quel berlusconismo cui in larga misura si deve appunto il suddetto generalizzato discredito sulla politica e sulle istituzioni, piegate apertamente a interessi personali e di parte. Alcuni degli otto punti di programma formulati da Bersani rispondevano esattamente a quell’obiettivo. Ciò detto, vi sono profili di M5S, del suo messaggio politico e soprattutto della sua concezione e pratica della democrazia, sui quali dobbiamo fermamente dissentire. Trattasi di punti qualificanti e, direi così, non negoziabili. Perché, per chi non misconosce un intimo nesso tra etica e politica, si danno principi non negoziabili dentro l’azione politica. Rinunciando ai quali ne va della nostra dignità e onorabilità, cioè delle ragioni meta-politiche per le quali si fa politica. Sul messaggio-programma, per esempio, penso agli accenti antieuropeisti e a un certo civettare con umori regressivi congeniali semmai alla destra populista: l’occhiolino agli evasori e la diffidenza verso gli immigrati. Ma mi preme indugiare sulla visione della democrazia di M5S. In primo luogo, il mito fallace della democrazia diretta e il ripudio della mediazione in capo ai partiti e persino degli istituti della rappresentanza. Ripudio contraddittorio e bizzarro per chi siede in parlamento, la più alta istituzione della rappresentanza! Dove non a caso l’appello al popolo del web è, insieme, impossibile e praticato solo quando fa comodo. In secondo luogo, l’assemblearismo, la retorica della decisione presa insieme e concordemente e che, all’atto in cui si manifesta un dissenso, si risolve o nel despotismo del capo o in quello della maggioranza. Ignorando secoli di elaborazione di regole e procedure che si misurano con il problema di coniugare disciplina di gruppo e diritto al dissenso. Penso all’art. 67 della Costituzione, che tanto dispiace a Grillo, circa la non imperatività del vincolo di mandato, pure inscritto in una Carta che costituzionalizza i gruppi parlamentari. Trattasi di un caposaldo del costituzionalismo liberale e democratico. In terzo luogo, la chiusura e l’arroccamento quasi settario. L’opposto di una delle celebri definizioni della
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democrazia coniate da Bobbio: quella delle decisioni pubbliche assunte in pubblico, in trasparenza, sotto i riflettori e il controllo della pubblica opinione. Si converrà che il rapporto stabilito dai rappresentanti di M5S con gli organi di informazione non è dei più sani e maturi (riunioni sempre al chiuso, conferenze stampa senza domande, fuga dai media, reticenza nell’esprimere una personale opinione, nomina di commissari per la comunicazione). A questo vistoso deficit di democrazia, si aggiungono tre altri elementi a mio avviso problematici. Innanzitutto, quasi il culto del dilettantismo. Denunciare i limiti del professionismo politico non comporta lo svilimento delle competenze e delle conoscenze. Comprese quelle che attengono più specificamente alla politica e alle istituzioni. È bello che i parlamentari si sentano cittadini, ma non è elitarismo pretendere che essi dispongano di qualche conoscenza in più in ragione di un di più di responsabilità. E’ giusto apprezzare l’approdo in parlamento di persone normali e possibilmente libere (specie dopo vent’anni di legioni mercenarie a servizio di un uomo solo), male tuttavia non sarebbe se oltre che normali fossero in qualche modo preparate al lavoro politico-istituzionale che specificamente le attende.
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Come interpretare lo psicodramma che si è prodotto e persino il principio di scomunica verso chi ha trasgredito scegliendo tra Grasso e Schifani? Un dilemma che si è puntualmente riproposto sul governo.
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Così pure non mi piace la scoperta vena di moralismo e di manicheismo che affiora nelle parole e nei comportamenti. Al punto da negare il saluto ai colleghi. La diffidenza e il sospetto verso gli altri, l’ossessione di non essere intaccati nella propria incontaminata purezza. Penso alla teorizzata collocazione dei gruppi parlamentari M5S nella parte alta e centrale degli emicicli di Camera e Senato al fine, si è detto, di controllare gli altri gruppi. Dall’alto. Come ha osservato Michele Serra: i Superiori, che disdegnano la secolare coppia politica destra-sinistra per erigersi sopra. Infine, l’impressione, in verità veicolata soprattutto dal capo sommo, di essere attratti dalla prospettiva del tanto peggio tanto meglio. Come interpretare diversamente lo psicodramma che si è prodotto e persino il principio di scomunica (poi fortunatamente rientrata) verso chi ha trasgredito scegliendo tra Grasso e Schifani? Un dilemma che si è puntualmente riproposto sul governo: assumersi la responsabilità di cambiamenti tanto attesi e invocati dallo stesso M5S ovvero consegnare il paese al caos o concorrere attivamente a restituire centralità alla destra berlusconiana. Come sono andate le cose lo sappiamo. Sicuri che ne siano lieti i loro elettori e che il nostro paese e, segnatamente, la nostra democrazia ne abbiano tratto vantaggio?
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Restituire dignità alla funzione parlamentare Walter Tocci Deputato PD
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n Italia si approvano troppe leggi. Eppure è di moda sostenere che bisogna velocizzare l’attività parlamentare. È uno dei tanti luoghi comuni che sviano il dibattito pubblico. L’attività legislativa è stata piegata ad esigenze di autorappresentazione del potere politico, prescindendo da concrete esigenze di regolazione della vita pubblica. Legifero, ergo sum è il motto del politico mediatico. Questa riduzione della politica alla legislazione ha reso quasi ingestibile la macchina statale. Ci sono le “leggi manifesto”, ad esempio molte leggi sulla sicurezza o sulla corruzione scritte sull'onda di eventi drammatici si rivelano successivamente insensati appesantimenti burocratici. Ci sono poi le leggi ideologiche che spesso finiscono per arenarsi nel contenzioso costituzionale, come nei casi delle ronde o della procreazione assistita. Ci sono le leggi bugiarde che dicono una cosa positiva per nascondere quella negativa facendo conto sulla confusione mediatica, come la legge Gelmini che prometteva più competizione tra gli atenei mentre li soffocava con la burocrazia. Ci sono le leggi approvate per calmare i mercati, che si sono sempre risolte con il peggioramento del debito, come dimostrano tutte le finanziarie di Tremonti. L’attività legislativa è stata dominata dalle ossessioni del dibattito politico. Il fisco è stato travolto da un’alluvione normativa che non consentiva di applicare neppure le regole appena emanate perché nel frattempo erano già cambiate. Il governo Monti ha portato alla paralisi i Comuni sconvolgendo in pochi mesi tutti i tributi locali già ripetutamente modificati negli anni precedenti. In 51
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Può funzionare un Paese in cui si cambiano ogni anno le norme sulla scuola, sulla sanità, sugli incentivi alle imprese, sui servizi pubblici?
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generale, può funzionare un Paese in cui si cambiano ogni anno le norme sulla scuola, sulla sanità, sugli incentivi alle imprese, sui servizi pubblici? E poi, senza senso del ridicolo, si istituisce perfino un ministero della semplificazione addetto a cancellare le norme che prima erano state ritenute miracolose. I ministri ormai hanno perduto il senso del proprio ruolo, non amministrano più la macchina statale ma si sentono obbligati a lasciare un segno riscrivendo le norme di propria competenza. Il governo chiede tante deleghe legislative che poi non è in grado di utilizzare. Non si approvano più leggi organiche, ma solo leggi omnibus costituite da micro norme, che creano problemi interpretativi e contenziosi senza fine. Perfino nel linguaggio corrente la parola riforma ormai indica la mera approvazione di una legge. Invece, la vera riforma dovrebbe essere un processo graduale e multifunzionale: definizione condivisa degli obiettivi; ricognizione delle risorse finanziarie, professionali e organizzative; analisi di esperienze analoghe; implementazione sociale delle regole; organizzazione delle strutture preposte all'attuazione; formazione degli operatori; monitoraggio degli interventi; valutazione dei risultati e modifiche in corso d’opera. In questo contesto, la norma dovrebbe essere solo uno degli strumenti per dare cogenza al processo. Al contrario, proprio il riduzionismo normativo è la causa principale del fallimento delle pseudo riforme italiane. La bulimia legislativa rischia di soffocare la funzionalità dello Stato e la vitalità sociale. Eppure, nella mia esperienza parlamentare ho constatato scarsa consapevolezza del problema. Si è fatto credere all’opinione pubblica che con le regole di oggi non è possibile approvare leggi in tempi brevi; non solo è falso, ma di solito le più veloci sono anche le più sbagliate: il Porcellum e le norme ad personam sono state approvate in poche settimane; la manovra pensionistica della Fornero, viziata da errori gravi sugli esodati, in soli quindici giorni. Ciò nonostante si reclama la velocità parlamentare . Con un argomento tanto banale quanto falso: il mondo cambia e le leggi devono correre. È solo un insensato futurismo legislativo. Aveva ragione Luigi Einaudi che considerava la lentezza parlamentare una fortuna per il Paese proprio perché limita l’ipertrofia normativa. Bisogna riscoprire la virtù dell'indugio parlamentare che fa decantare la discussione pubblica fino a che non si deposita in solide certezze alle quali si potrà dare il sigillo della forza dello Stato.
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Restituire centralità al Parlamento è oggi un’esigenza ampiamente sentita, anche all’estero, come dimostra ad esempio il rapporto Norton sul caso britannico. Sulla base della mia esperienza propongo cinque miglioramenti che sono possibili anche a Costituzione invariata.
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Ridurre l’attività legislativa che oggi impegna quasi totalmente il tempo di lavoro parlamentare e limita tutte le altre funzioni. Sono sufficienti poche leggi l’anno, purché affrontino in modo organico i diversi argomenti, stabilizzando le decisioni per gli anni a venire ed eliminando tutta la micro legislazione che si è accumulata negli anni precedenti. Le prime dovranno essere ampie delegificazioni che delegano molte competenze all'amministrazione. In questo modo si ottengono due vantaggi, da una parte il Governo può provvedere alla gestione della cosa pubblica senza ricorrere a modifiche normative e nel contempo l'attività del Parlamento viene liberata da minuzie amministrative, compresi alcuni impegni di spesa, e può dedicarsi ad alta legislazione con la produzione di Codici unitari nei diversi campi.
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Restituire centralità al Parlamento è oggi un’esigenza ampiamente sentita, anche all’estero, come dimostra ad esempio il rapporto Norton sul caso britannico.
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A fronte di una maggiore autonomia nella gestione della cosa pubblica il Governo è sottoposto ad un effettivo potere di indirizzo e controllo, che va reso cogente con regole molto più precise. Oggi una mozione serve come bandierina per chi la propone ma nella maggior parte dei casi non ha alcuna conseguenza pratica. Le interrogazioni sono attività burocratiche la cui risposta dipende dal ghiribizzo del Governo. Le stesse interrogazioni formali dovrebbero essere ridotte a questioni di rilevanza generale, mettendo però a disposizione dei parlamentari e dei cittadini strumenti diretti di accesso alle informazioni. Le audizioni parlamentari di funzionari dell’amministrazione e di manager di aziende pubbliche dovrebbero diventare strumenti temuti dalle burocrazie come accade nel parlamento americano.
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Le Camere devono dotarsi di strumenti efficienti di monitoraggio di tutte le attività amministrative. In particolare, bisogna istituire una struttura professionale di Policy analysis per verificare i risultati ottenuti dal Governo 53
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Bisogna cancellare la parola privilegio dal dibattito politico. Gli emolumenti dei parlamentari si possono almeno dimezzare. Già oggi, infatti, il 50% di quello che ricevono non va nelle loro retribuzioni, ma finanzia la politica .
nell’attuazione delle leggi e acquisire indicazioni utili per la legislazione successiva. Questa attività di rendiconto è oggi completamente ignorata e spesso si approvano leggi che ripetono pedissequamente gli errori già compiuti. All'attività di controllo e indirizzo bisognerebbe dedicare gran parte del tempo disponibile.
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Il Parlamento deve essere la Casa delle Autonomie, il luogo di confronto e di concertazione permanente con le Regioni e gli Enti Locali, secondo l'ispirazione dell'articolo cinque della Costituzione, quel mirabile principio del Riconoscimento che fonda un prius storico e nazionale nelle comunità territoriali rispetto alla formazione statale. L’intuizione dei padri costituenti è stata smarrita da quando si è preso a parlare di federalismo e si è affermata l'usanza di collocare la Conferenza Stato-Regioni presso il Governo, escludendo il Parlamento da questa fondamentale relazione costituzionale.
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Infine, l'ascolto delle forze vive del paese dovrebbe essere il cuore dell'attività parlamentare. Non solo utilizzando tutte le tecnologie disponibili per garantire l'accesso alle informazioni e il dialogo con i cittadini, ma attivando canali di consultazione delle forze sociali, di associazioni e di esperienze significative della vita sociale e culturale. I lavoratori di una fabbrica, i cittadini che organizzano una petizione, gli studenti che invocano provvedimenti a favore dell'istruzione - per fare solo alcuni esempi - sono esperienze che devono trovare udienza e confronto secondo procedure ordinarie e ben definite. Le competenze, le istituzioni culturali, le personalità che danno lustro al Paese dovrebbero essere di casa nelle sedi parlamentari per essere consultate sulle decisioni da prendere. Anche col supporto di un rinnovato ruolo del Cnel la concertazione sociale dovrebbe trovare un punto di riferimento costante nel Parlamento. Le iniziative legislative dei cittadini devono avere una maggiore garanzia di accesso al dibattito parlamentare, costringendo le parti politiche a dare risposte chiare sia positive sia negative. Ma tutte queste innovazioni non sono sufficienti se non si ricostruisce il prestigio del Parlamento e dei suoi membri. 54
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Bisogna cancellare la parola privilegio dal dibattito politico. Gli emolumenti dei parlamentari si possono almeno dimezzare. Già oggi, infatti, il 50% di quello che ricevono non va nelle loro retribuzioni, ma finanzia la politica scaricando però su di loro un prezzo di immagine rispetto ai colleghi europei. La gestione coordinata di una parte di tali risorse consentirebbe ulteriori risparmi e aumenterebbe la qualità del nostro lavoro. Si potrebbe condividere una moderna piattaforma tecnologica, utilizzando alte professionalità, per realizzare una potente macchina di comunicazione. Ci consentirebbe di tenere informati e ascoltare tutti i giorni i cittadini delle primarie, seguendo l’esempio della piattaforma Organizing for America di Obama. Infine, è ineludibile la legge di attuazione dell’articolo 49 sui partiti al fine di assicurarne la trasparenza democratica e di ripensarne le modalità di finanziamento. L’unica via che può legittimare un contributo pubblico è il coinvolgimento dei cittadini nella scelta di finanziamento di ciascun partito. Ne abbiamo ragionato in un gruppetto di parlamentari ed è venuto fuori un disegno di legge che individua due strumenti: contributo pari all’uno per mille del gettito Irpef da ripartire secondo le indicazioni dei contribuenti; forte credito d’imposta per le libere donazioni private, secondo la proposta di Pellegrino Capaldo. Anche il presidente Letta ha espresso analoghi intendimenti nelle sue dichiarazioni programmatiche. Si può fare presto. Questo modo di finanziamento sarebbe un incentivo a riformare la nostra organizzazione. Tutti i giorni, non solo le domeniche dei gazebo, dovremmo cercare il sostegno del popolo delle primarie, non solo per ottenere i finanziamenti, ma per mettere a frutto la disponibilità di milioni di elettori, coinvolgendoli nelle decisioni e nell’ampliamento dei consensi. Sarebbe il primo passo per costruire il grande partito popolare che il PD non è ancora riuscito a diventare.
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Sindrome di Weimar? Francesco Palermo Senatore PD
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ei giorni concitati di inizio della XVII Legislatura si è spesso evocata la Repubblica di Weimar. Molti hanno sottolineato i paralleli sociali, politici e istituzionali, tra l’attuale crisi di governabilità italiana e la tragica fine di un esperimento costituzionale innovativo per la sua epoca. Al di là delle immagini forti e dei paragoni ad effetto, occorre chiedersi se l’Italia sia davvero in preda ad una “sindrome di Weimar”, o meglio se le condizioni attuali del nostro Paese presentino analogie con quelle che portarono alla fine del sistema weimariano, avvenuta formalmente solo nel 1945 ma di fatto già con la cd. “Gleichschaltung” del 1933, quando il partito nazionalsocialista cancellò nella sostanza il sistema democratico. Alcuni precedenti storici appaiono certamente evocativi. Nel 1930, per fronteggiare la drammatica crisi economica, il Presidente Hindenburg nominò cancelliere un autorevole economista, Heinrich Brüning, creando ciò che fu chiamato “governo del Presidente”, per l’assenza di una reale maggioranza in Parlamento. Quando il Parlamento non approvò un drastico decreto governativo per risanare le finanze, Hindenburg sciolse l’assemblea, e dalle successive elezioni emerse con quasi il 20% il partito nazionalsocialista (NSDAP), che rese impossibile qualunque coalizione di governo. Si continuò per qualche tempo a governare con decreti presidenziali fondati sul potere di emergenza (art. 48 cost.), assumendo iniziative sempre più impopolari, attaccate a gran voce da Hitler. In un clima di sostanziale guerra civile, con la classe politica ormai screditata, nell’aprile del 1932 l’anziano Hindenburg (85 anni) fu rieletto Presidente. Su Hindenburg confluirono al secondo turno tutte le forze democratiche, per opporsi a Hitler, che fu sconfitto ma che ottenne una forza politica tale da costringere poi Hindenburg a nominarlo Cancelliere, non dopo avere sciolto altre due volte il Parlamento col solo effetto di far crescere ad ogni elezione il peso elettorale dei
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nazionalsocialisti. Qualche affinità con l’attuale situazione italiana indubbiamente si riscontra. Attenzione però ai facili confronti, perché se anche la storia crocianamente ritorna, non lo fa mai in modo facilmente visibile. Al di là degli aspetti politici, sociali ed economici, pur rilevanti, è alle regole costituzionali che occorre guardare per capire quanto certi precedenti possano ripetersi. È la regola a creare il percorso entro il quale possono svolgersi gli sviluppi politici; è la costituzione il campo di gioco della politica. E la costituzione italiana, con le sue ampie lacune in tema (tra l’altro) di forma di governo, differisce profondamente da quella di Weimar, da cui anzi si è voluto consapevolmente prendere le distanze in assemblea costituente (fondamentale in tal senso il libro di Mortati, La Costituzione di Weimar, pubblicato nel 1946). In particolare, le forme di razionalizzazione della forma di governo parlamentare utilizzate a Weimar, quali l’elezione diretta del Presidente, i suoi poteri emergenziali, referendari e di scioglimento, che ne facevano un organo prevalente sul governo in situazioni di emergenza, furono scartate in Italia. La costituente italiana preferì invece disegnare la figura del Presidente della Repubblica sul modello del Re dello Statuto albertino e mantenere bassissimo il grado di razionalizzazione della forma parlamentare, nella convinzione che il rapporto tra istituzioni dovesse funzionare “a fisarmonica”: si pensava infatti che senza eccessivi irrigidimenti, i giocatori responsabili (i partiti di allora, esaltati dal clima di liberazione e dalla loro struttura democratica) avrebbero potuto esprimere il meglio e fronteggiare, attraverso istituzioni flessibili, le difficoltà del governo del Paese. Si è trattato, come noto, di una scelta in controtendenza rispetto ad altre costituzioni coeve, specialmente di quella della Repubblica federale tedesca, che scelse di impedire il ripetersi della crisi weimariana attraverso una razionalizzazione estrema dei rapporti tra gli organi costituzionali, con la disciplina dettagliata di ogni possibile ipotesi, anche patologica, che possa presentarsi nella vita politica. In astratto, un po’ di flessibilità non guasta, e una macchina con ingranaggi flessibili corre meno rischi di rompersi. Col senno di poi, tuttavia, il punto debole della scelta dei costituenti italiani è stata la fiducia nella funzione regolatrice del sistema dei partiti; sistema che si è invece
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È la regola a creare il percorso entro il quale possono svolgersi gli sviluppi politici; è la costituzione il campo di gioco della politica.
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Ogni elezione accentua le difficoltà dei partiti e manda in cortocircuito il sistema costituzionale pensato per funzionare con partiti forti
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rivelato, con progressive accelerazioni negli ultimi decenni, non la cura ma la malattia. La conseguenza paradossale è il rischio di trovarsi in una situazione in parte simile a quella di Weimar (un’emergenza politica e istituzionale permanente), avendo a disposizione strumenti diversi, che presuppongono tuttavia per funzionare un attore-ombra (i partiti) un ruolo chiave che questo non è più in grado di svolgere. Si rischia così di produrre un analogo inceppamento della macchina istituzionale e di non avere gli strumenti per uscirne: da punto di forza, la flessibilità della forma di governo è divenuta fattore di debolezza. Il Presidente della Repubblica, nuovamente dotato del potere di scioglimento, si fa interprete dell’emergenza. In assenza di accordi politici può prorogare (per quanto?) il governo in carica, nominare governi ogni 10 giorni (poi serve la fiducia delle camere), o finire con lo sciogliere ripetutamente il Parlamento se nuove elezioni continuassero a produrre ingovernabilità. Per contro, ogni elezione accentua le difficoltà dei partiti e manda in cortocircuito il sistema costituzionale pensato per funzionare con partiti forti, e premia le spinte verso una democrazia referendaria o populista. Dimenticando che il principio di maggioranza è da maneggiare con estrema cura. I partiti, a loro volta, vengono a trovarsi in una condizione di dilemma che li pone al margine - e talvolta persino in contraddizione - con le disposizioni costituzionali: o operano con metodo democratico, valorizzando l’assenza di vincoli di mandato degli eletti e quindi la natura parlamentare del sistema (e allora perdono il controllo e la loro stessa funzione di determinare la politica nazionale, ex art. 49 cost.), oppure privilegiano l’unità e la compattezza interna a scapito della libertà di mandato e perfino della democraticità del loro agire. L’auspicio è che si sappiano sfruttare le condizioni per un cambiamento, che includa l’aggiornamento della forma di governo, nell’ottica della razionalizzazione di un sistema sempre più pericolosamente plebiscitario perché privato dei suoi intermediari, peraltro indispensabili nell’attuale quadro costituzionale. Le condizioni per un passaggio riformatore e razionalizzatore della forma di governo non sono mai state così presenti come nell’attuale legislatura: un Parlamento rinnovato, giovane, istruito e con accressciuta presenza
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femminile, una forte pressione dell’opinione pubblica e il vantaggio dato dal fatto che non esiste una forza politica egemone, per cui le riforme vanno fatte in modo condiviso. Il che – se ci sarà responsabilità degli attori politici – è garanzia per superare il principio di maggioranza e le sue storture, che hanno seppellito il sistema di Weimar. Se questo processo riformatore partirà, invece di rischiare il ripetersi degli ultimi giorni di Weimar con strumenti diversi, potrebbe portarsi a compimento la speranza degli anni in cui quel sistema funzionava ancora. Gli anni in cui Gustav Stresemann fu prima Cancelliere e poi Ministro degli esteri, quando sembrava possibile una ripresa economica. La macchina costituzionale italiana può funzionare solo con partiti responsabili. In mancanza di questa condizione, occorre un intervento riformatore per aumentare gli automatismi e ridurre il ruolo dei partiti. Ma potranno farlo solo partiti che sappiano ricominciare a funzionare per potersi poi forse superare. Un altro paradosso neo-weimariano?
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Il costituzionalismo e le riforme Andrea Giorgis Deputato PD
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el discorso programmatico con il quale il 62° governo della Repubblica, presieduto da Enrico Letta, si è presentato alle Camere per ottenere la fiducia, il tema delle riforme costituzionali occupa un posto di primo piano. Per la prima volta nella storia della Repubblica - come è stato subito osservato da Marco Olivetti sulle pagine de L’Unità - il Presidente del Consiglio ha esplicitamente collegato la nascita e il destino dell’esecutivo all’esito di un percorso di revisione della Costituzione. Le ragioni di una simile proposta sono note e potrebbero essere sintetizzate nella necessità e nell’urgenza di ricostruire un rapporto di fiducia nelle istituzioni rappresentative e di rafforzare la loro capacità di governo. Nel discorso, il Presidente del Consiglio si è soffermato sia su alcuni aspetti di metodo, sia su alcuni aspetti di merito. Per quanto riguarda il metodo - richiamando il lavoro del Comitato dei Saggi nominato dal Presidente Napolitano - ha proposto di istituire, fin da subito, una Convenzione costituzionale composta da parlamentari e personalità esterne alle Camere e di attribuire a tale Convenzione il compito di elaborare una proposta di riforma della Costituzione da sottoporre al Parlamento. In prima battuta la Convenzione dovrebbe essere istituita sulla base di due mozioni, rispettivamente della Camera e del Senato, secondo modalità già sperimentate nel 1993 con la Commissione De Mita - Jotti; quindi dovrebbe essere presentata una legge costituzionale che ne formalizzi il lavoro e ne definisca i rapporti con le commissioni permanenti e con le Assemblee. A tale riguardo il documento
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dei Saggi si spinge a ipotizzare che la Convenzione operi con poteri “redigenti” e che il Parlamento sia di conseguenza chiamato solo più ad approvare o respingere la proposta, senza alcun potere di emendamento. La deroga all’art. 138 e al procedimento in esso previsto sarebbe significativa e, per molti aspetti, problematica. Soggetti privi di legittimazione democratica diventerebbero protagonisti di rilievo del procedimento legislativo di revisione, mentre la maggior parte dei parlamentari vedrebbe limitato il proprio potere decisionale ad un mero prendere o lasciare quanto proposto dalla Convenzione. Qualsiasi ipotesi di modifica o di deroga della procedura prevista dall’art.138 Cost., per essere ammissibile, non deve trasformarsi in esercizio di potere costituente: e affinché ciò non avvenga è necessario che essa non intacchi i c.d. principi supremi e tra questi in primo luogo il principio di rigidità, che si sostanzia tra l’altro (come ha ricordato la stessa Corte costituzionale nella sent. n. 496/2000) nel carattere parlamentare della procedura e nella presenza di strumenti di tutela delle minoranze, idonei a scongiurare che - attraverso riforme deliberate dalla sola maggioranza parlamentare ed eventualmente confermate dalla sola maggioranza elettorale venga deformata la natura pattizia della Carta costituzionale. A tal proposito sarebbe altresì opportuno che vi fosse, anche nella discussione politica, un utilizzo più accorto e rigoroso del linguaggio e, in particolare, delle nozioni di potere costituente (che per sua natura è potere illimitato e illegale) e di potere costituito di revisione costituzionale (che per sua natura è invece potere limitato ed assoggettato a una regola giuridica). Per quanto riguarda il merito e i contenuti della riforma, il Presidente Letta - richiamando anche in questo caso il lavoro dei Saggi - si è soffermato soprattutto sulla necessità di superare il bicameralismo perfetto e di modificare l’attuale legge elettorale. Con saggia cautela, non si è pronunciato sulla forma di governo e, in particolare, sulla ipotesi di introdurre un modello presidenziale o semipresidenziale. La questione tuttavia è al centro del confronto politico e da più parti è ritenuta una ipotesi desiderabile se non ormai necessaria e, di fatto, in via di attuazione. Che il Presidente della Repubblica in Italia, nel corso degli ultimi anni, abbia assunto un ruolo sempre più rilevante (e di supplenza nei confronti di un sistema politico debole e
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Qualsiasi ipotesi di modifica o di deroga della procedura prevista dall’art.138 Cost., per essere ammissibile, non deve trasformarsi in esercizio di potere costituente.
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frammentato e di un assetto parlamentare in difficoltà) è un dato di realtà difficilmente negabile. Che però imboccare la strada della sua elezione diretta e dell’esplicito conferimento di poteri di governo conduca a risolvere i problemi di rappresentatività e di efficienza istituzionale è lecito dubitare, specie in un contesto nel quale i partiti e i corpi intermedi 62
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Che il Presidente della Repubblica in Italia, nel corso degli ultimi anni, abbia assunto un ruolo sempre più rilevante è un dato di realtà difficilmente negabile.
vivono una stagione di profonda crisi e la confusione di poteri pubblici e privati ha assunto caratteri preoccupanti. In un simile contesto, l’elezione diretta di un capo dello stato governante, più che sostenere un processo di rilegittimazione dei partiti politici e, al tempo stesso, rafforzare l’autonomia della sfera democratica dal potere 63
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I profili di irragionevolezza e di illegittimità e gli effetti della vigente disciplina elettorale sono noti.
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economico e da quello dei mezzi di comunicazione, rischia di incentivare pratiche populiste e demagogiche che, nell’immediato, possono dare l’impressione di sopperire alle difficoltà della partecipazione organizzata e alla frammentazione politica, ma alla fine si dimostrano incapaci di conferire alle istituzioni quella forza e quella legittimazione di cui necessitano per orientare le dinamiche economiche e finanziarie all’interesse generale e alle ragioni della “democrazia emancipante” e dell’uguaglianza. La capacità di governo delle istituzioni rappresentative e, in particolare, la loro capacità di realizzare politiche redistributive e di sviluppo economico e, prima ancora, politiche in grado di ammodernare e rendere efficiente la pubblica amministrazione in tutte le sue diverse articolazioni, ha bisogno di partecipazione organizzata e meditata, ha bisogno di partiti politici in grado di interpretare attese e domande sociali e di promuovere processi di integrazione sostanziali e “razionali”. Se viene marginalizzato il ruolo dei corpi intermedi e i partiti perdono capacità rappresentativa e capacità di integrazione viene meno anche la capacità decisionale e di governo delle istituzioni politiche (e la perdita di capacità di governo alimenta ulteriore sfiducia). Più impegnativo, ma preferibile perché alla fine più efficace, è rimanere nel solco della Costituzione e della maggior parte delle democrazie occidentali e, in tale prospettiva, rafforzare il ruolo e la capacità decisionale del Parlamento. Innanzitutto superando l’attuale bicameralismo paritario e razionalizzando il rapporto ParlamentoGoverno, anche attraverso l’introduzione della sfiducia costruttiva e l’incremento dei poteri del Presidente del Consiglio sia nell’ambito del Governo, sia nell’ambito del procedimento legislativo. Si tratta di modifiche costituzionali importanti che tuttavia, per essere davvero efficaci, devono essere accompagnate (oltre che da un riassetto delle autonomie regionali e locali, dall’istituzione di un Senato delle Regioni coerente a tale riassetto e al nuovo Titolo V, e dal rafforzamento del sistema delle garanzie costituzionali) da una modifica dei regolamenti parlamentari (volta a contenere la nascita di gruppi parlamentari che non sono espressione di liste votate dai cittadini), da una disciplina sui partiti (attenta a garantire agli iscritti e agli elettori il potere di incidere sulle scelte politiche e sulla selezione dei candidati) e soprattutto
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da una nuova legge elettorale (a sua volta accompagnata da una efficace disciplina delle cause di ineleggibilità e di incompatibilità e da una altrettanto efficace legislazione elettorale di contorno in grado di assicurare pari opportunità sostanziali a tutte le proposte politiche, e di contrastare quella confusione tra potere politico, potere economico e potere dei mezzi di comunicazione di cui si diceva sopra). I profili di irragionevolezza e di illegittimità e gli effetti della vigente disciplina elettorale sono noti. Anche su questo piano, nel definire le nuove disposizioni elettorali, occorre rifuggire dalla tentazione di risolvere i problemi del pluralismo e della frammentazione politica imponendo per legge eccessive semplificazioni e/o “immediate” legittimazioni al Governo. Ciò ovviamente non significa negare che la semplificazione del sistema politico e la costruzione di una democrazia dell’alternanza siano esigenze reali. Ma solo evidenziare, ancora una volta, i limiti del potere conformativo delle prescrizioni giuridiche (che peraltro non è mai meccanico e univoco, ma dipende dal contesto in cui le prescrizioni medesime sono chiamate a operare) e il rischio che una eccessiva e astratta semplificazione, priva di sostanza programmatica, si traduca esattamente nel suo contrario, ovverosia nella polverizzazione dell’intero sistema rappresentativo e nel conseguente incentivo a pratiche populiste e demagogiche. Per contenere le spinte alla frammentazione e promuovere una dinamica tendenzialmente bipolare - anche per quanto riguarda la legge elettorale - risulta perciò preferibile, perché alla fine più efficace, muovere alla ricerca di soluzioni normative che sostengano il radicamento dei partiti (quali strutture che organizzano la partecipazione e concorrono a tessere legami sociali) e che, nel mentre garantiscono rappresentanza anche a quelli minori (che superano una certa soglia), premino quelli più grandi che si propongono come aggregatori di maggioranze alternative.
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