NUMERO 13 DICEMBRE 2012
Gli USA di Obama Secondo
contributi di Mauro Calise • Bruno Cartosio • Alessandro Coppola • Paolo Corsini • Massimo De Giuseppe Massimo Faggioli • Massimo Livi Bacci • Silvana Mangione • Pietro Marcenaro • Ugo Papi Laura Pennacchi • Lapo Pistelli • Umberto Ranieri • Filippo Sensi • Federico Testa • Giorgio Tonini
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SOMMARIO FOCUS
LA VISIONE
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Paolo Corsini
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Tam Tam Democratico spazio di approfondimento del Partito Democratico
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Barack Hussein Obama, la biografia come programma Esiste una dottrina Obama? Giorgio Tonini Il ritorno dei partiti Mauro Calise
LA VITTORIA
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Il team digitale del Presidente
Filippo Sensi
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Le minoranze e il declino dei wasp Massimo Livi Bacci Quando le minoranze fanno maggioranza Alessandro Coppola
LE SFIDE DEL SECONDO MANDATO
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Economia e welfare per lo sviluppo umano Laura Pennacchi La rivoluzione energetica Federico Testa Diritti umani, democrazia, multilateralismo Pietro Marcenaro Il mandato domestico della "potenza indispensabile" Lapo Pistelli Politica estera nel segno della continuità Umberto Ranieri Gli Usa si volgono all'Asia Ugo Papi Gli Usa e l'America latina Massimo De Giuseppe
Industria dell'auto e classe operaia Bruno Cartosio Le suore battono i vescovi Massimo Faggioli Il voto degli italoamericani Silvana Mangioni
DOCUMENTO
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Obama, discorso per la rielezione
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La visione
FOCUS
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Barack Hussein Obama, la biografia come programma Paolo Corsini è deputato del Pd
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‘avvento della politica biografica”: così, tempo fa, nell’introduzione al suo Obama. La politica nell’era di Facebook (Venezia, Marsilio, 2008), Giuliano da Empoli si apprestava ad una disamina del fenomeno costituito dall’allora neo candidato alla Casa Bianca. L’ennesima conferma, seppure in forme nuove, del fatto che quanto è significativo e produce comunicazione nella vicenda degli uomini assume la forma di una storia, di un racconto. Ed in effetti i diversi, successivi svolgimenti della vita di Obama, il suo personale diremmo, preannunciano e coincidono con il suo programma politico, col tentativo di ridare forma, di plasmare la vita di una nazione. Al contrario di quanto è avvenuto in Italia con Silvio Berlusconi nel quale si riproduce, pur con le modalità proprie dell’era mediatica, una storia sostanzialmente già scritta, vale a dire l’autobiografia del nostro Paese, con i suoi vizi di origine, le sue sedimentate storture, i suoi archetipi apparentemente immodificabili. In Obama, dunque, una storia ed insieme una profezia che si autoadempie. Come quella di Bob Kennedy che, con preveggente lungimiranza, nel 1968 ebbe a teorizzare che “tra 40 anni sarà possibile per l’America eleggere un Presidente nero”. La riprova, insomma, di quell’astuzia della storia che talora dà compimento all’impossibile, che, al di là di interpretazioni eroistiche, accetta di veder condizionati i propri sviluppi dalla presenza e dall’azione di un singolo, comunque espressione di un movimento profondo, di cambiamenti tellurici, qual è, appunto, BARACK Hussein Obama. 6
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Del resto la stessa sua ascesa è stata accompagnata da un continuo racconto, da una narrazione diretta dei percorsi di vita affidata, in prima battuta, a I sogni di mio padre. Un racconto sulla razza e sull’eredità – un racconto, va sottolineato, non una elaborazione teorica o un manifesto politico – e successivamente a L’audacia della speranza in cui la trattazione di temi cruciali e scottanti quali il futuro del welfare, la questione mediorientale ed irachena, l’uso pubblico della religione, i fondamenti costituzionali della convivenza negli Stati Uniti d’America, il ruolo dell’Occidente e dell’Europa, si intreccia ad aneddoti, alla divulgazione di episodi di vita, alla esposizione di indizi che diventano rappresentazione di una scena in cui il personaggio Obama campeggia come al centro di un riflettore che lo illumina, rendendolo pienamente visibile, al di là di tutte le finzioni e dissimulazioni della politica. Il racconto dunque che diviene politica, politica biografica. Obama nella sua persona – il suo bagaglio multietnico, l’impegno nel volontariato, la disposizione intellettuale al dialogo, la capacità di essere a proprio agio negli ambienti più disparati, l’abilità nel valorizzare lo spirito bypartisan, l’ispirazione religiosa in un Paese in cui fondamentalismi ed orientamenti conservatori si moltiplicano lungo un processo di “settarizzazione” che ingloba nella sfera del sacro temi della vita civile – incarna il suo stesso programma, il sogno americano che in lui diventa realtà e storia, rappresentazione, tangibile traduzione di un movimento autobiografico di massa reso possibile dalla comunicazione mediatizzata e dalla pratica internautica. Chi è dunque, Obama, questo figlio di un esponente politico keniota e di un’antropologa del Kansas? Di quale entroterra, di quale cultura, di quali storie è espressione se non di un’identità sempre più globalizzata ora che, dai tempi lontani della Mayflower, i Wasp – gli White Anglo Saxon Protestants – si sentono quasi minoranza nel loro Paese, se non di una mixité multiculturale e multietnica dalle radici pluricontinentali che modifica sino a sconvolgerla progressivamente la composizione demografica degli States? Ed ancora: Obama come uomo di un tempo in cui sempre più rilevante è il peso della black culture nella sfera pubblica statunitense e sempre più ragguardevole il ruolo assunto dagli ispanos nel sistema delle relazioni e della vita pubblica? Obama è insieme tradizione e innovazione, ripresa di una
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Obama campeggia come al centro di un riflettore che lo illumina, rendendolo pienamente visibile, al di là di tutte le finzioni e dissimulazioni della politica.
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continuità e assunzione del moderno, sintesi del passato e speranza del nuovo, oltre la politica praticata e conosciuta all’interno dello stesso filone democratico, sino a Bill Clinton. Da un lato la reviviscenza del mito kennedyano della “nuova frontiera” all’origine stessa della storia americana, il recupero di quel fiume carsico di idealismo, di quell’immaginario collettivo che, sin dai padri pellegrini, si materializza nell’idea della “città sulla collina” – la “missione” di questo Paese nel mondo, il perseguimento di rinnovate mete di civiltà e di progresso rese possibili da quella permanente innovazione che scaturisce dalla democrazia e dalla libertà – ; dall’altro l’ancoraggio alla “religione del libro”, a quel sentiment religioso che vede nella fede uno straordinario fattore di mobilitazione spirituale e di trasformazione sociale, sottraendo ai repubblicani
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conservatori il vantaggio del cosiddetto God gap e sforzandosi di colmare la lacerante frattura fra l’America laica e secolare e l’America religiosa e confessionale. Alla sua prima elezione un outsider, rispetto ai soliti insider della politica europea ed italiana , se si esclude, forse, il primo Sarkozy, che, oltre le novità costituite dagli elementi autobiografici ( infanzia in Indonesia, adolescenza alle Hawaii, giovinezza in Kansas, università a New York, volontariato nei ghetti di Chicago, un fratellastro in Cina ), affonda le ragioni del proprio successo nelle grandi trasformazioni di un Paese che conferma la propria identità, cambiando perennemente se stesso: la grande impresa fordista che cede il passo alla new economy, l’affermazione della technology information che si struttura in sistema di produzione, la costituzione di un rinnovato associazionismo civico e l’esperienza delle “città creative” di cui teorizza Richard Florida, là dove gruppi sociali innovativi stanno sovvertendo le convenzioni, l’uso del tempo, i rapporti tra lavoro e divertimento, vita privata e professionale, ridisegnando il nostro futuro. Ed ancora: l’esplosione delle community dei blogger e dei videogamer che utilizzano le risorse dei social network uscendo da Internet per tornare al territorio, le mutazioni di una politica emozionale che sa riscoprire passioni, motivare fiducia, promuovere gli interessi della middle class, rassicurare identità, rompere gli schemi ideologici in nome di un riformismo pragmatico sì, ma non disancorato da precisi riferimenti valoriali e principi ideali. E così pure il ricambio generazionale con la successione ai baby boomers da parte dei Millenial – i giovani del nuovo millennio –, l’inversione della tendenza alla depoliticizzazione, la rivalutazione dell’intervento pubblico e la crisi del neoliberismo dei Chicago boys accompagnata alla recessione economico-finanziaria e al rischio incombente di “un’età del disagio”. Tutto questo, probabilmente spiega Obama. Ma per andare dove? Per restituire all’America quale prospettiva, dopo il fallimentare esperimento di George Bush? In un tempo in cui, come scrive Fareed Zakaria, è in atto “il terzo spostamento di potere nella storia moderna” dopo le precedenti ere in cui l’Europa prima e gli Stati Uniti poi hanno governato il pianeta, orientato stili e ritmi di vita influenzando usanze e culture. E come restituire credibilità, simpatia, autorevolezza ad un Paese che uno
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Tutto questo, probabilmente spiega Obama. Ma per andare dove? Per restituire all’America quale prospettiva, dopo il fallimentare esperimento di George Bush?
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studioso – Andrei S. Markovits, direttore del centro di politica comparata dell’Università del Michigan – definisce “la nazione più odiata”? Quegli States nei confronti dei quali è andata crescendo in tutto il mondo, e particolarmente in Europa, un’ostilità diffusa a causa di politiche che hanno scatenato un’ondata di insofferenza senza precedenti, da sentimento elitario ad atteggiamento popolare di massa, soprattutto all’indomani della “grande depressione” dovuta alla dèbâcle finanziaria. Le risposte non possono che essere provvisorie, anche se talune linee di tendenza sono emerse nel corso del primo mandato di Obama con sufficiente chiarezza. Anzitutto la conclusione, sul piano della politica internazionale, dell’unilateralismo e la ripresa del dialogo in nome di un multipolarismo rinnovato. Come a dire una dichiarazione di dipendenza degli Stati Uniti d’America dalla realtà e dal mondo: gli americani che tornano tra noi, che dismettono l’abito di chi crede di poter vivere sopra tutti con il contributo di tutti. Una sfida esaltante lungo la quale liberarsi dalle vecchie logiche diplomatiche, creare alleanze inedite, definire una nuova guida globale e promuovere un rinnovato New Deal che dia impulso ad una democrazia mondiale vitale e competitiva. In effetti il futuro dipenderà sempre più dalla capacità di Obama di restituire al suo Paese, in un mondo ormai postamericano, le perdute potenzialità di attrazione, di ripristinare quei meccanismi di integrazione che una politica puramente muscolare ha finito con lo smarrire e dissolvere. In particolare di fronte alla progressiva affermazione dell’”impero di Cindia” e al revanchismo autocratico di Putin il quale, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, persegue l’obiettivo di restituire grandezza economicomilitare alla Russia, di rivitalizzare il mito slavofilo di una nuova egemonia eurussa. “Empatia” la parola chiave, vale a dire la disposizione a guardare la realtà “con gli occhi del nemico”, a prendere in considerazione tutte le prospettive possibili, ad ancorare difesa della democrazia e sua affermazione alle condizioni materiali di vita dei popoli in nome di una realpolitik e di un approccio non ideologico alle grandi questioni internazionali, con l’afflato ideale e l’autorevolezza di un prestigio da riconquistare. Così Obama il 29 agosto del 2008, a Denver: “Creerò nuove alleanze per sconfiggere le minacce del XXI secolo: terrorismo e proliferazione del nucleare; povertà e 10
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genocidio; cambiamento climatico e malattie. E ripristinerò la nostra reputazione morale così che l’America sarà ancora l’ultima, migliore speranza per tutti coloro che sono chiamati alla causa della libertà”. Dunque il primato della politica, il sostegno alle prospettive di nation building più che non al potenziamento dell’offensiva militare, la pratica di peacekeeping come strumento di regolazione dei conflitti interni nelle aree regionali , il confronto con l’Europa , in nome di un nuovo occidentalismo , se essa vorrà e saprà essere “grande potenza” e non una semplice dépendance. Infine: il riequilibrio dell’economia di un Paese che oggi è il massimo debitore mondiale, l’adozione dopo la reaganomics, di quell’”economia sociale di mercato” cui Obama assegna il compito di affrontare disuguaglianze di reddito e disparità, quando – è il caso della sanità – non addirittura mancanza di servizi pubblici. Insomma la sfida di un cambiamento epocale, per l’America e, con essa, per l’intera umanità del nuovo secolo.
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Esiste una dottrina Obama? Giorgio Tonini è senatore del Pd
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uattro anni fa, la parola d'ordine vincente di Obama fu "Change", accompagnata dallo slogan "Yes, we can!" Cambiare è necessario e cambiare è possibile: se vogliamo, noi possiamo cambiare. Quattro anni dopo, Obama ha conquistato il secondo mandato presidenziale (e un posto nella storia, non più "solo" come primo presidente nero) grazie a un'altra parola: "Forward", avanti! E a un altro slogan: "Four more years!", datemi, diamoci, altri quattro anni, il tempo necessario per provare a trasformare un episodio di rottura, che ha corso il rischio di ridursi all'ennesimo sogno spezzato della storia americana, un po' Kennedy e molto Carter, in un vero ciclo riformista, meno lontano dal modello Roosevelt. Obama li ha ottenuti, dagli elettori americani, questi altri quattro anni. Per continuare a cambiare gli Stati Uniti e dare un volto nuovo alla globalizzazione. Ma perché cambiare, con quale intenzione, con quale progetto, con quale "dottrina"? Già: ma esiste, in effetti, una "dottrina Obama"? La risposta che azzardo in queste poche pagine è si, esiste una dottrina Obama. Come una moneta, essa ha due facce: una, rivolta verso gli Stati Uniti, il loro sistema economico e sociale e il loro sistema politico-istituzionale; l'altra, la seconda faccia, è invece rivolta verso il mondo, i suoi equilibri geopolitici, e i rapporti di forza che li sorreggono, vuoi nei settori, per dirla con Joseph Nye, di hard-power (militare ed economico), vuoi in quelli di soft-power (cultura, stili di vita, valori). La dottrina Obama si è formata nel confronto critico, per un verso nei riguardi dell'ideologia neo-conservatrice, in
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particolare nella versione proposta, nel primo decennio del Duemila, da George W. Bush; e per altro verso, facendo i conti, in modo impietoso, con le debolezze del pensiero liberal, tanto radicale nella critica dell'avversario, quanto incapace di contendergli effettivamente la conquista del mainstream della società americana, condannandosi così ad una strutturale minorità. La dottrina Obama è pertanto una specie evoluta, adattatasi con successo all'ambiente del nuovo secolo, del più ampio genere di pensiero, progressista e riformista, che va sotto il nome generico di "Terza Via": una corrente di pensiero politico, che ha conosciuto il suo massimo splendore a cavallo del passaggio di secolo, con Clinton e Blair, Schröder e Prodi, chiaramente collocata sul versante di centrosinistra dello schieramento politico (dunque aliena da qualsiasi tentazione "terzaforzista" e limpidamente alternativa al pensiero neoconservatore e alle forze di centrodestra), ma non per questo incapace di interrogarsi sui limiti nella capacità di comprensione, rappresentanza e in definitiva governo delle società nuove, da parte dei tradizionali paradigmi culturali e politici della sinistra, e sulla necessità di contaminarli con gli elementi di "verità interna" della proposta neo-conservatrice, per trarne una sintesi nuova, convincente e vincente. Ma se la dottrina Obama è riuscita ad affermarsi e a prevalere, nel 2008, è stato grazie al carattere epocale, di netta cesura storico-politica, oltre che socio-economica, della grande crisi finanziaria e poi economica globale, esplosa nel 2007. Proprio perché si è trattato, per usare parole di Tommaso Padoa-Schioppa, di "una crisi di sistema e non nel sistema", è stato possibile vedere in essa l'esaurirsi della lunga stagione di egemonia del pensiero neo-conservatore, fondato sulla convinzione che fosse la disuguaglianza sociale, insieme allo squilibrio macroeconomico globale, l'unico vero motore dello sviluppo. E l'emergere della necessità di un nuovo paradigma, che faccia dell’equilibrio internazionale e dell’uguaglianza sociale, insieme alla sostenibilità ambientale, i nuovi motori dello sviluppo. L'impresa è titanica, ha bisogno di molto tempo e di grandi risorse intellettuali, morali e politiche. Anche perché, per citare ancora Padoa-Schioppa, "non c'è politica economica che possa evitare un rallentamento, per molti anni, della crescita dei paesi più ricchi". Robustezza di pensiero, innanzi tutto. È il pensiero "democratico", quello
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Se la dottrina Obama è riuscita ad affermarsi e a prevalere, nel 2008, è stato grazie al carattere epocale, di netta cesura storicopolitica, oltre che socio-economica, della grande crisi finanziaria e poi economica globale, esplosa nel 2007.
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Ma sul piano internazionale, alla nuova dottrina, che di per sé ha cambiato lo scenario (basti pensare alla primavera araba), non hanno ancora corrisposto successi tangibili nella gestione delle tante crisi regionali.
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che con Obama si sta oggi cimentando nell'impresa di ridisegnare il volto della globalizzazione, per governarne la rotta. Un pensiero antico, nelle sue radici. Ma anche un "pensiero nuovo", nel suo approccio alle sfide storiche del presente: come fu nuovo il pensiero neo-conservatore della Thatcher e di Reagan, che non si limitarono a riproporre la destra del passato, ma cercarono di impadronirsi (e ci riuscirono alla grande) della frontiera strategica dell'innovazione e del cambiamento. Allo stesso modo, il pensiero neo-democratico, "new-dem", nasce dalla consapevolezza, assai presente e viva nella riflessione di Obama, che dopo la crisi finanziaria e la grande recessione di questi anni, non si tratta di tornare all’era socialdemocratica: quel mondo non tornerà più, perché è venuto meno uno dei suoi presupposti fondamentali, la dimensione prevalentemente nazionale dei problemi economici e sociali e delle politiche necessarie per affrontarli, e si è manifestato invece un mondo nuovo, globalizzato, nel segno di una fortissima interdipendenza. Obama deve indurre e accompagnare gli Stati Uniti a "declinare crescendo", per prendere a prestito un fortunato ossimoro di Bruno Manghi: declinare in termini relativi, dal rango di iperpotenza solitaria e imperiale (o meglio dalla illusione di possederlo) che ha caratterizzato la stagione di George W. Bush, ma per crescere, fino ad esercitare il ruolo di "presidente democratico" di una comunità internazionale che ha ancora e forse più che mai bisogno di un "egemone responsabile". E declinare da un modello di sviluppo fondato sull'indebitamento, ormai insostenibile, in favore di una crescita solida, basata sulla straordinaria capacità degli Stati Uniti di inventare, innovare, creare non solo prodotti, ma idee, paesaggi umani, in definitiva mondi immaginari e realizzabili al tempo stesso: dal grattacielo, allo spazio, fino al computer e all'ipod. Nei quattro anni del suo primo mandato, Obama ha posto premesse significative di questa ambiziosa impresa. Ma sul piano internazionale, alla nuova dottrina, che di per sé ha cambiato lo scenario (basti pensare alla primavera araba), non hanno ancora corrisposto successi tangibili nella gestione delle tante crisi regionali, a cominciare dalla questione israelopalestinese. Su quello interno, il principale insuccesso di Obama è stato il blocco del Congresso, figlio della deriva hyperpartisan della politica americana, e in particolare della egemonia della destra religiosa e ideologica sul Partito repubblicano.
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Su entrambi i fronti, Obama sa di non potersi aspettare miracoli. Ma la sua autorevolezza esce indubbiamente rafforzata dalla conferma elettorale: un dato che potrà rivelarsi prezioso ad esempio nella gestione dell'intricato dossier mediorientale, così come nel rapporto col Congresso. In particolare, la sconfitta per quanto onorevole di Romney, insieme alla vittoria dello spirito unitario e bipartisan di Obama, potrebbe indurre ad una più matura riflessione nel Partito repubblicano, circa la sterilità politica e perfino elettorale del radicalismo di destra, schiudendo la possibilità di una nuova stagione di cooperazione tra Casa Bianca e Campidoglio. Per l'Europa, la rielezione di Obama presenta il vantaggio di confermare un rapporto ormai rodato e nel complesso positivo. E non solo per la popolarità di Obama nel Vecchio Continente: non è vero infatti che Obama si disinteressi dell'Europa, anche se è indubbio che il Pacifico ha da tempo conquistato una posizione centrale nell'agenda della Casa Bianca. Obama sa che solo insieme all'Europa potrà affrontare i due principali dossier che ingombrano il suo tavolo nello studio ovale: la crisi economica e il rapporto col mondo arabo-islamico.
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La vittoria di Obama parla anche a noi, democratici italiani. Innanzi tutto perché mantiene vivo e anzi rilancia poderosamente il pensiero democratico, quello che avevamo voluto porre alla base del partito nuovo, della casa comune dei riformisti italiani. Un pensiero che, proprio perché fa della democrazia, con la sua umanistica consapevolezza del limite radicale della politica, il suo ideale regolativo, rifugge dall'ideologia e dallo spirito conservatore che essa porta con sé (insieme e non casualmente con una buona dose di cinismo), in favore di un impasto originale di radicalità dei valori, dei principi, dei comportamenti, degli stili di vita, e di pragmatismo creativo e curioso, nella ricerca di soluzioni innovative ai problemi collettivi. Un pensiero che considera semplicemente insensata la distinzione e ancor più la divisione del lavoro, tra sinistra e centro, tra progressisti e moderati. Obama è irriducibile ad una sola di queste due dimensioni: come ogni vero riformista democratico, egli è al tempo stesso un progressista, un uomo di sinistra, per i fini che persegue, a cominciare dalla promozione della pace tra i popoli e dell'uguaglianza sociale e civile. Ed è un moderato, un centrista, per la capacità di dialogo, lo spirito bipartisan, la disposizione alla gradualità nel cambiamento di cui pure avverte l'urgenza. Una "dottrina vivente", sulla quale riflettere.
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Il ritorno dei partiti Mauro Calise
insegna Scienza Politica all’Università Federico II di Napoli
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‘era una volta l'America. Un paese senza partiti, che l'Europa guardava con un mix di disprezzo e altezzosa supponenza. Per una volta, la profezia marx-engelsiana sembrava proprio avere fatto cilecca. Eravamo noi, il vecchio continente, a mostrare il futuro agli USA. Noi la culla della democrazia e della partecipazione di massa. E tutto questo grazie ai partiti, l'invenzione europea attraverso cui la lotta di classe era cresciuta in grande sfida politica. I partiti, nel bene e nel male, come artefici del cambiamento. Partiti rivoluzionari in Russia, partiti reazionari in Germania, e partiti socialdemocratici in quel laboratorio scandinavo che avrebbe fatto scuola e proseliti in tante democrazie del dopoguerra. L'America, invece, prigioniera del suo presidenzialismo impotente, un modello costituzionale antiquato sempre sull'orlo di diventare preda di derive populiste e mediatiche. Prendete – fino a vent'anni fa – un qualunque manuale di storia dei partiti politici, qualunque testo – anche i più blasonati – sulla loro organizzazione, e troverete questa vulgata: da un lato l'Europa felix, la patria della democrazia fondata e ancorata sui partiti; dall'altro lato, gli Stati Uniti con i loro partiti vetrina, buoni tutt'al più a tenere in vita un meccanismo elettorale che serviva soltanto a eleggere un presidente. Il risveglio da questa vulgata – quanto meno approssimativa e, almeno per una metà, infondata – è stato brusco, anzi burrascoso. Su entrambe le sponde dell'Atlantico. Al punto che, oggi, il quadro si è – quasi – capovolto. Siamo noi europei che cominciamo a invidiare i partiti americani – oltre che ad imitarli a mani basse, come 17
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Il secolo breve fa segnare una inversione di tendenza. I partiti che avevano dominato da padroni la scena politica, cedono il passo ai presidenti. Che non saranno più - come scriveva Lord Bryce in The American Commonwealth sullo scorcio del diciannovesimo secolo - uomini senza qualità.
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mostra l'adozione ed esplosione delle primarie. Non si è trattato, però, di una inversione di ruoli, quanto piuttosto di un ritorno alle origini. Abbiamo scoperto con ritardo quello che gli studiosi americani – e i pochi esperti europei della materia – avevano sempre saputo. Che i partiti organizzati erano nati nella prima metà dell'Ottocento, con cinquant'anni di anticipo rispetto a quelli made in Europe, nella young republic o first new nation che aveva dato il voto a un elettorato di massa. E, che per tutto il diciannovesimo secolo, avevano dominato da padroni la macchina del governo federale. Con scontri durissimi sul filo, a più riprese, della guerra civile. Che infine – come si sa – scoppiò, all'insegna di una questione che più hyperpartisan non si poteva. Questo anticipo americano aveva innanzitutto tracciato la via maestra per la mobilitazione – e integrazione – di fasce amplissime di elettorato alle regole più elementari della democrazia contemporanea: partecipare alla vita politica, schierandosi da una parte, eleggendone i rappresentanti e aspettandosi – dopo la vittoria – un qualche tipo di ricompensa. Spetterà ad Andrew Jackson, nel suo discorso al Congresso del 1829, inaugurare il sistema delle spoglie enunciando quella Doctrine of simplicity secondo cui, per gestire lo stato, non ci volevano i supertecnici, ma l'unico requisito era di essere un affidabile uomo di partito. Un tema che sarebbe echeggiato quasi un secolo dopo nel discorso sulla cuoca di Lenin, e che ritroviamo, dopo un altro secolo, nell'ideologia delle parlamentarie grilline… Insomma, un esordio americano che ha fatto molta strada! Questo prologo – due secoli contano più di due decenni – per mettere in chiaro i due caratteri originari dell'anticipo americano: scontro ideologico al calor bianco, portato avanti attraverso macchine – è proprio il caso da dire – da guerra elettorale, forgiate con lo scopo primario di ottenere consensi a tappeto e ingenti risorse pubbliche. Rispetto a questa primogenitura partitica, che attraversa tutto l'Ottocento, il secolo breve fa segnare una inversione di tendenza. I partiti che avevano dominato da padroni la scena politica, cedono il passo ai presidenti. Che non saranno più – come scriveva Lord Bryce in The American Commonwealth sullo scorcio del diciannovesimo secolo – uomini senza qualità, ma diventano leader monocratici con una concentrazione di poteri che, grazie alla rivoluzione
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roosveltiana, ne farà il perno del sistema politico americano. E ci avviciniamo ad ampie – ancorché contrastatissime – falcate ai presidenti contemporanei: i Personal Presidents che, nel ritratto impietoso di Theodore Lowi, sono portati a personalizzare la contesa elettorale, finendo con l'avvitarsi in una spirale di promesse sempre più estese, e sempre meno realizzabili. Nasce da questa iperpersonalizzazione, e dalla sua inevitabile crisi, il ritorno dell'ideologia nei partiti, il declino di quell'età del pragmatismo in cui sembrava che repubblicani e democratici potessero facilmente, all'occorrenza, scambiarsi casacche e idee. Il presidente senza partiti, o meglio con partiti troppo deboli per potergli fare da scudo nelle continue traversie di un mondo globalizzato e quasi ingovernabile, aveva bisogno di trovare un nuovo ancoraggio che non fosse solo la propria fragile persona. E per questa riesumazione americana del «secondo corpo del re» – per adattare al nostro spartiacque la celebre metafora kantorowicziana – ha potuto far leva sugli ingredienti che, due secoli fa, avevano lanciato i partiti al centro della scena politica: le nuove spaccature ideologiche di un mondo contemporaneo attraversato da ineguaglianze sempre più profonde, e le vecchie, un po' arrugginite macchine di combattimento. Che, grazie a copiosi investimenti di quattrini e tecnologia, sono state rimesse in pista, più agguerrite ed efficienti che mai. Questa svolta americana hyperpartisan ha colto l'Europa – tanto per cambiare – di sorpresa. Da noi il quadro che, un tempo, si sarebbe chiamato di classe era diventato sempre più confuso. Blair, che con l'appoggio delle Unions, puntava decisamente al centro; gli operai italiani del triangolo industriale che votavano per la Lega (e le massaie disoccupate che preferivano Berlusconi); la Germania che si teneva a galla grazie alla Grosse Koalition; per non parlare dell'Europa dell'Est, che virava a destra a tutto gas. In questo panorama ormai indecifrabile di antiche corrispondenze tra fratture sociali e partitiche, l'America ripropone in modo netto ed eclatante la contrapposizione tra ricchi e poveri, tra haves and havenots. Tra coloro costretti a fare affidamento – come nella sprezzante definizione di Romney – sulle risorse del welfare statale, e coloro che hanno abbastanza soldi per fare da sé e per pretendere di pagare ancora di meno rispetto ad aliquote fiscali già abbondantemente inferiori a quelle del resto d'Occidente. 19
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Questa America neo-classista dimentica il fair play bipartisan e diventa iperpartitic.
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Questa America neo-classista dimentica il fair play bipartisan e diventa iperpartitica. Anzi, sono proprio i partiti la fucina ideologica del nuovo scontro frontale. La primogenitura spetta ai neocons che hanno fatto di Bush un presidente d'assalto, armato – oltre che di missili stellari – di un arsenale micidiale di propaganda amico-nemico. Con la geniale sostituzione del vecchio avversario comunista con l'inedito bersaglio terrorista. E l'arrivo del primo presidente nero ha rinfocolato la battaglia, sublimando l'odio razziale nella rivolta fiscale del tea-party. Fino alla candidatura di Romney, un simbolo che sembrerebbe inventato se non fosse terribilmente vero il suo curriculum di – arricchitissimo – tagliatore di posti di lavoro. Per fronteggiare questa offensiva ideologica, i democratici hanno riesumato il loro più prezioso – e a lungo trascurato – retaggio di specialisti della machine politics. Non a caso viene da Chicago l'uomo che ha conquistato, per due volte, una vittoria difficilissima. Certo, grazie al proprio carisma e ad una affilatissima retorica. Ma soprattutto per aver reinventato una moderna struttura tritavoti, che ha saputo sapientemente mixare la penetrazione – e il fundraising – via web con una rete territoriale fittissima di volontari porta-a-porta. La prossima sfida per Obama sarà di riuscire a dotare anche la macchina democratica di una corazza ideologica salda e coesa con cui affrontare lo show-down che i repubblicani stanno portando avanti al Congresso. L'Obama legacy si gioca qui. Nella capacità di dimostrare che, come nell'America che inventò i partiti, al vincitore appartengono le spoglie. Saldare presidente e partito in una strong democracy. Se ci riesce, diventerà anche per noi la nuova lezione americana.
La vittoria
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Il team digitale del Presidente Filippo Sensi
è vicedirettore di Europa
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desso che la campagna elettorale è finita, e andata alla grande, con Barack Obama di nuovo alla Casa Bianca, il team digitale del Presidente tira il fiato. Qualcuno, certo, resterà o entrerà nell’amministrazione, altri quattro anni, ma è chiaro che gli smanettoni che, nella nuova vulgata, hanno consegnato la vittoria al candidato democratico sul mercato adesso valgono uno sproposito. Il gruppo che nella
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primavera del 2011 si riunì per la prima volta presso gli uffici delle Sandbox Industries a Chicago, ingegneri, programmatori, start-upper, oggi, dopo il trionfo di Big Data che ha cambiato forse per sempre la politica americana, si sta guardando in giro. A convocarli e reclutarli nella campagna presidenziale fu Michael Slaby, un veterano del team Obama, “Chief Integration and Innovation Officer” nell’organigramma della macchina da guerra di One Prudential Plaza, il quartier generale democratico; il responsabile dell’area tecnologica di Obama for America 2012. Si è già scritto molto e si favoleggia della "caverna" in cui hanno lavorato i 40 ingegneri, guidati da Harper Reed, il carismatico CTO (chief technology officer) della campagna, anche lui ingaggiato da Slaby un anno e mezzo fa. Sappiamo del "data mining" (l'estrazione di informazioni sensibili da banche dati e navigazione online tramite i cookies dei siti che si visitano). Di Dashboard, la piattaforma digitale che ha consentito ai volontari di bussare a colpo sicuro alla porta degli elettori, sapendo e scremando tra chi era già stato contattato, chi votava per l'avversario, chi poteva essere sensibile alle parole d'ordine del Presidente. Di Quick Donate, lo strumento online per favorire le piccole donazioni, superando le lungaggini della registrazione. Quello che non sappiamo ancora non è se, ma come cambierà la scena tech a Chicago e negli Stati Uniti, alla luce di questa esperienza pionieristica. È la prima volta forse che questo mondo, fatto di geek, hacker e tecnologi si cimenta in prima persona dentro una campagna, e quella del Presidente in carica per di più, portandola al traguardo. “Alla fine, come al solito, è la scienza a vincere la partita”, scherza, ma non troppo, al telefono Reed. Ora, sullo sfondo della conversazione senti rumori di casa, la famiglia, la moglie Hiromi, ma per un anno e mezzo questo ragazzo dagli occhiali spessi e la cresta rossa ha vissuto praticamente da sequestrato, assieme ai suoi ingegneri, selezionati da lui per creare la spina dorsale dello sforzo digitale del candidato democratico. Leggi Big Data e immagini, come ha scritto Ethan Roeder (il responsabile dati della squadra, appunto) sul New York Times, un “computer blu gigante al 101esimo piano di un grattacielo, circondato da tubature gorgoglianti di un liquido luminoso, che sputa fuori il destino degli elettori americani”. E, invece, poi, una volta che la rigida segretezza
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Quello che non sappiamo ancora non è se, ma come cambierà la scena tech a Chicago e negli Stati Uniti, alla luce di questa esperienza pionieristica.
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Vista dalla parte del marketing politico, siamo alla vigilia di una nuova, formidabile stagione di consulenti elettorali, pronti a vendere chiavi in mano i segreti del successo di Obama?
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della campagna elettorale apre le paratie, trovi un gruppo di ragazzoni che, forse, ha cambiato per sempre il modo con il quale si vincono le elezioni. Era proprio questo il mandato che Jim Messina, il campaign manager, aveva affidato a Slaby (entrambi, di recente, passati in Italia, dopo le fatiche elettorali): dal 2008, sotto il profilo strettamente tecnologico, è passata un’era geologica e, per riaggiudicarsi la Casa Bianca, in un clima politico molto sfavorevole all’incumbent (il Presidente uscente), c’è bisogno di iniettare “nuova linfa” e “nuove competenze” nella squadra democratica. Non è soltanto che quattro anni fa erano state le elezioni di Facebook e, nel frattempo, social network come Twitter sono cresciuti in maniera esponenziale. L’esigenza era quella non solo di sfruttare tecniche e professionalità che prosperano nel privato, ma che non si erano ancora mai applicate alla politica, ma anche di mettere a punto un modello, un hardware per far girare al meglio l’integrazione tra il piano digitale e il “field”, il lavoro sul territorio dei 700mila volontari; un esercito che, nel corso di questa tornata elettorale, ha contattato direttamente 125 milioni di americani. Parli con Slaby o con Reed, e capisci che il loro approccio “no-nonsense”, pragmatico e rivolto alla soluzione dei problemi è stato determinante per costruire, implementare e far funzionare la macchina. “Certo, abbiamo avuto soldi e tempo per prepararci”, ammette Michael, in una chiacchiera a Roma, una delle tappe del Grand Tour che ha fatto a inizio dicembre con la moglie, tra Milano, Napoli e Bologna. E si ripropone, come ai tempi della War Room di Bill Clinton, correva l’anno 1992, quattro lustri fa, il tema della riproducibilità dello schema vincente anche altrove. Vista dalla parte del marketing politico, siamo alla vigilia di una nuova, formidabile stagione di consulenti elettorali, pronti a vendere chiavi in mano i segreti del successo di Obama? Inutile illudersi, è anche così, come è stato in passato con assi come James Carville e Stan Greenberg. Eppure, forse, questa volta c’è qualcosa di più e di diverso. Perché molti dei protagonisti della rivoluzione digitale di OfA vengono, appunto, da altri mondi rispetto alla politica: come Reed, che, tra le altre cose, si era inventato una redditizia start-up per vendere magliette personalizzate in crowdsourcing. O come Scott VanDenPlas, anche lui all’incontro da Sandbox, promosso da Slaby, e Jason Kunesh,
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che nella campagna di Obama si occupavano della infrastruttura cloud su cui girava tutta la macchina che collegava i server con la loro enorme mole di dati agli smartphone dei volontari, a caccia di elettori. Nell’epoca del fact-checking (il controllo fattuale delle affermazioni dei candidati che affollano i talkshow televisivi) e dei sondaggi di Nate Silver, il genio del blog FiveThirtyEight che ha osato mettere in discussione gli ipse dixit sapienziali dei pollster, infilando il risultato finale al millimetro sulla base dei suoi algoritmi, si restringe lo spazio per il “gut feeling”, il naso di chi la sa lunga, ma non sa produrre dati evidenti e misurabili delle proprie sensazioni. Insomma, meno guru e più informazioni, meno santoni e più files, senza nulla togliere, per carità, alla visione di vecchie volpi come David Axelrod e David Plouffe, da sempre al fianco del Presidente. Che hanno avuto, tuttavia, la lungimiranza di capire che questa volta non sarebbe bastata la mobilitazione carismatica e spontanea del 2008, ma occorreva istituzionalizzare quel miracolo, ridurre le percentuali di rischio, mettendosi al lavoro da subito su “Narwhal”, il nome in codice – “non significa niente”, ci scherzano su ora Reed e Slaby – della densissima nuvola su cui ha viaggiato la campagna di Obama. Prima di tutto, mettere insieme. Integrare, come si dice nel gergo degli smanettoni. E cosa? Le banche dati, tutte le informazioni che giacevano separate, negli archivi del partito o in quelli del sindacato, nelle associazioni. Tutto insieme, frullato con i dati che ognuno di noi cede ogni giorno a banche dati private, e con quelli che vengono dalla Rete, dal nostro utilizzo di Internet, grazie ai cookies che, con un semplice nostro clic distratto, raccontano molto di chi siamo, di cosa preferiamo, cosa cerchiamo. Un’enorme schedatura di massa? Il rischio c’è, inutile girarci intorno, anche se Reed si accalora, quando si definisce “inquietante” questo risvolto di Big Data: “Avevamo una policy della privacy molto chiara per quanto riguarda il trattamento dei dati, e poi non è che qualcosa diventa inquietante se lo utilizza una campagna elettorale, e lo è meno se lo fa Facebook”. Questa enorme quantità di informazioni, elaborata e messa a frutto grazie a piattaforme disegnate per la campagna, avvalendosi del contributo di società esterne come Blue State Digital, ad esempio (e qui si aprirebbe un altro capitolo, quello della interazioni e dei possibili conflitti 27
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di interessi legati a questo tipo di collaborazione), è stata messa al servizio dei volontari, che sono stati il vero valore aggiunto della campagna, convengono Slaby e Reed. “Mia mamma faceva la volontaria per Obama, spiega Harper, non volevo sprecasse tempo. Il nostro contributo è stato soltanto quello di rendere più efficiente e più veloce il lavoro fatto da tutta questa gente, tutto qui”. È disarmante pensare che chissà qual è la pozione miracolosa, quale misterioso laboratorio, e poi ritrovarsi di fronte a tecnici che ti raccontano che hanno solo cercato di fare il loro lavoro e stop. Un po’ ci giocano, è ovvio, difficile davvero pensare a come possa essere replicabile un simile format, senza i fondi e le tecnologie di cui ha potuto godere la campagna del Presidente. Anche se loro, sia che rimangano nella amministrazione, sia che tornino sul mercato (che li aspetta a braccia spalancate), sono convinti che questa infrastruttura, questo know-how possa avere, eccome, applicazione, anche fuori dalla “caverna”. Ad esempio, nel settore delle ONG e del non-profit, delle campagne mirate: “Resta sintonizzato”, risponde, sornione, Reed che a Chicago sta lavorando a un suo progetto, cui darà una mano anche Slaby (e il fatto che Michael sia un buon amico di Eric Schmidt di Google la dice lunga sulle probabilità di riuscita della loro start-up). Insomma, confessa, gli faccio io, pensando di darmi un tono come di chi pretende di saperla lunga, “qual è stata la killer app di questa campagna elettorale?”. Harper ci pensa su un secondo, poi mi spiazza: “Puoi avere tutte le applicazioni che vuoi, ma senza la gente, the people, valgono niente”. Gioco, partita, incontro per Reed.
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Le minoranze e il declino dei wasp Massimo Livi Bacci è senatore del Pd
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l 6 novembre scorso, Barack Obama è stato rieletto Presidente degli Stati Uniti. Nel voto popolare, il perdente Mitt Romney ha raccolto appena 3 milioni di consensi meno di Obama (il 2,4% dei 123 milioni di voti), ma nella conta dei voti…che “contano”, cioè quelli elettorali espressi da ciascuno Stato, il distacco è stato amplissimo (332 per Obama e 206 per Romney). Il divario tra il voto popolare e quello elettorale è la conseguenza, come è noto, del sistema maggioritario, per il quale chi ottiene più consensi ottiene tutti i voti elettorali dello stato (ogni stato ne ha un numero proporzionale alla sua popolazione). Le campagne presidenziali si giocano sulla conquista delle simpatie degli elettori stato per stato e quindi anche sulla conoscenza del loro profilo demografico, etnico e sociale. Questo, negli Stati Uniti, muta con grande rapidità in ragione della forte mobilità sociale e migratoria del paese. Più che la immigrazione dall’estero è la migrazione interna che cambia la geografia del voto: New York e Florida, nel 2008, avevano rispettivamente 31 e 27 voti elettorali, ma nel 2012 ne esprimono lo stesso numero, 29. Il Texas ha guadagnato 4 voti, da 34 a 38, mentre l’Ohio ne ha perduti 2, da 20 a 18. Più in generale la geografia elettorale si è modificata a favore degli stati del sud e dell’ovest del Paese, a scapito di quelli del nord e dell’est. Ancora più incidenti sono i mutamenti nella composizione etnica, demografica e sociale, perché gli uomini differiscono fortemente dalle donne per quanto riguarda le intenzioni di voto, e i vecchi dai giovani, i neri dai bianchi e i bianchi dagli ispanici. Il colore della pelle, ed il background etnico1contano tre volte nella geografia politica. In primo luogo perché 29
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l’espressione del voto varia fortemente (molto più alta tra i bianchi che tra i neri). In secondo luogo perché la numerosità dei gruppi etnici cambia con un ritmo che è esplosivo tra gli ispanici e gli asiatici e assai moderato tra i bianchi. In terzo luogo perché, come adesso si vedrà, i vari gruppi votano in modo assai divergente. I mutamenti nella composizione etnica sono davvero straordinari2: nel 1950, i bianchi costituivano l’85% della popolazione, sono scesi al 63% nel 2011 e scenderanno al 47% nel 2050, secondo le previsioni del Census Bureau. La popolazione ispanica3 pesava appena per il 3% nel 1950, contro il 17% nel 2011 e il 29% previsto nel 2050; molto dinamica anche la componente asiatica alla quale, alle tre date, viene assegnato un peso pari a 1; 5; e 9%. Più stabile la componente nera che guadagna due punti tra il 1950 (11%) e il 2050 (13%). Ha fatto scalpore un comunicato recente del Census Bureau con l’annuncio che nel 2011, per la prima volta dall’indipendenza, i nati da genitori bianchi sono stati meno del 50% del totale. Il gradiente etnico si combina con quello delle età (più questa cresce, più è alta la proporzione dei bianchi), influenzando il voto. La più giovane età delle minoranze, la minore incidenza della registrazione tra i votanti, e la più alta incidenza di ceti molto poveri, fa sì che la rappresentanza di questi gruppi tra i votanti sia assai minore della loro incidenza sulla popolazione. Come si è detto, gli ispanici, che sono il 17% dell’intera popolazione, hanno costituito appena il 10% dei votanti. L’appartenenza etnica ha influenzato profondamente il voto, come può desumersi dalla Figura 1. La quasi totalità dei neri (93%) ha votato per Obama, che ha raccolto anche una robusta 30
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maggioranza di consensi tra gli asiatici (73%), tra gli ispanici (71%) e tra le “altre” minoranze (indiani americani in maggioranza). Tra i bianchi, invece, una forte maggioranza ha votato per Romney (59%). E’ interessante notare come la polarizzazione del voto sia aumentata; nel 1976, il voto ispanico fu assai meno diviso tra i due candidati, e Carter ottenne il 57%; nel 2008 Obama ottenne il 67%, contro il 71% nel 2012. Così è per il voto dei bianchi: a McCain, nel 2008, andò il 55% dei consensi, contro il 59% raccolto da Romney quattro anni più tardi. La demografia del voto ricalca le aspettative, ma approfondisce i divari tra gruppi significativi della popolazione rispetto alle consultazioni del passato. C’è un gradiente correlato all’età molto forte: Obama ha raccolto una considerevole maggioranza tra i più giovani (60% dei consensi tra i minori di 30 anni), che si attenua tra gli adulti di 30-45 anni (52%); Romney raccoglie la maggioranza nelle classi di età successive. Obama ha attratto il voto dei single (56% tra gli uomini e 67% tra le donne) e delle donne di ogni stato civile (55%), nonché della stragrande maggioranza della comunità gay-lesbian; Romney ha prevalso tra gli uomini (52% del totale), e in particolare tra i coniugati (60%). Gli analisti hanno concluso che il sostegno femminile ha permesso ad Obama di decisivi per la sua vittoria. Il grado di istruzione ha avuto scarsa rilevanza, mentre Obama ha avuto una forte prevalenza tra coloro che ritenevano assai importante la politica sanitaria, e Romney tra i ceti preoccupati dal deficit e dall’instabilità finanziaria. La campagna elettorale americana ha investito straordinarie risorse nell’analisi minuta delle preferenze di voto secondo le caratteristiche reddituali, sociali, etniche, residenziali, demografiche degli elettori. Con il sostegno di una grande ricchezza di dati, di software sofisticati, di modelli di analisi statistica molto avanzati. Certo, come detto all’inizio, gli Stati Uniti sono un paese assai più dinamico, mobile e cangiante di quanto non sia l’Italia. Inoltre le scelte sono assai meno complesse che non da noi perché nella massima elezione (quella del Presidente) si sceglie (in pratica) tra due candidati. Ma c’è da scommettere che anche la politica italiana finirà con l’investire, in futuro, più in analisi che in comizi elettorali – sempre più costosi, sempre più numerosi… e sempre più vuoti.
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La demografia del voto ricalca le aspettative, ma approfondisce i divari tra gruppi significativi della popolazione rispetto alle consultazioni del passato.
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Quando le minoranze fanno maggioranza Alessandro Coppola
è Assegnista di ricerca al Politecnico di Milano
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l voto del 7 novembre ha segnato in modo definitivo l’avvento di quello che il demografo William Frey ha definito il “new mainstream” dell’America del XXI secolo. Da anni si discute dell’imminente avvento di un’America majorityminority: un paese in cui i bianchi diventeranno una grande e influente minoranza, ma pur sempre una minoranza. Al censimento del 2010 i bianchi erano ancora largamente prevalenti, sebbene in calo, con il 64% della popolazione a fronte della componente ispanica balzata al 16% e di quella afro-americana sostanzialmente stabile attorno al 12%. La previsione è che dopo il 2050 i bianchi diventeranno una minoranza e i latinos arriveranno a sfiorare il 30% del totale della popolazione. La crisi ha in parte rallentato questo destino: la contrazione delle migrazioni internazionali e della fertilità dei latinos – probabilmente legata alla loro particolare vulnerabilità all’impatto della grande recessione – ha ridotto la velocità del cambiamento, senza tuttavia metterne in discussione gli effetti futuri. I democratici paiono essere a loro agio nel nuovo american mainstream. Fra i latinos e gli afro-americani che si sono recati al voto, rispettivamente più del 70 e del 90% hanno votato per il presidente. Viceversa Mitt Romney ha ottenuto il miglior risultato di un candidato repubblicano nell’elettorato bianco dal 1992, staccando Obama di quasi venti punti percentuali. Se la transizione non ha effetti politici molto rilevanti in aree che sono già da annoverare fra i bastioni democratici, ne ha invece in quelle che erano considerate fino a tempi recenti di sicura egemonia repubblicana. È il caso soprattutto degli
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stati montani dell’Ovest, dove la forte crescita della popolazione degli ultimi decenni è stata in gran parte determinata dagli imponenti flussi migratori ispanici. Obama ha conservato la maggioranza in Nevada, Colorado e New Mexico nonostante il calo nell’elettorato bianco e in virtù della sua persistente presa su quello ispanico. Anche in Florida si potrebbe legittimamente ipotizzare che sia stata la maggiore incidenza dei latinos sul totale dell’elettorato effettivo – passati dal 14% al 17% – ad avere fatto la differenza. Quello che è accaduto in queste elezioni in alcuni stati chiave potrebbe ripetersi, in misura amplificata, anche negli appuntamenti elettorali del prossimo futuro. Occorre infatti considerare che con il passare del tempo la bilancia demografica si modificherà anche in stati – quali la Georgia, per esempio – che ora non sembrano alla portata dei democratici ma che, realisticamente, lo saranno sempre di più. Più complessivamente, è la strategia di reinsediamento sociale del partito seguita fino ad ora a uscire rafforzata dal voto presidenziale. Fin dal 2008, il messaggio “populista” di Obama ha trovato radicamento in una generalizzata ripresa delle campagne sindacali e del community organizing fra le minoranze, gli immigrati e i lavoratori dei settori più deboli del mercato del lavoro, registrata fin dalla metà degli anni Novanta. Al di là dei loro risultati effettivi, che in molti casi sono stati importanti, queste campagne e le loro organizzazioni di riferimento – alcuni sindacati, nuove reti di attivismo urbano definite think-and-do tanks e organizzazioni comunitarie più tradizionali – hanno indicato una strada e un metodo che per molti versi hanno anticipato pratiche e contenuti delle campagne dell’era Obama. Un voto di classe? Ma il voto del 7 novembre è stato anche un voto di classe. Com’è evidente, negli Stati Uniti più che altrove, differenza di classe e diversità etnica si trovano a coincidere in misura molto ampia. Anche per questa ragione, e alla luce di quanto detto fin ora, il partito democratico pare ben lontano dalle preoccupazioni della sinistra europea sull’indebolirsi della propria presa sui “ceti popolari”. Con un margine di circa il 30%, Obama ha infatti trionfato fra gli elettori che guadagnano meno di 30.000 dollari, estendendo allo stesso tempo il proprio vantaggio anche fra gli elettori con un reddito compreso fra i 30.000 e i 50.000 dollari. Già prima del voto si era registrato nell’insieme dell’elettorato un orientamento culturale più favorevole al messaggio
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Negli Stati Uniti più che altrove, differenza di classe e diversità etnica si trovano a coincidere in misura molto ampia.
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In una ricerca pubblicata alla vigilia del voto, su un campione di elettori adulti di classe media, la maggioranza degli intervistati considerava la proposta di Obama quella più capace di migliorare le condizioni di vita della middle-class.
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“populista” di Obama rispetto al liberismo di Romney. Il quadro lo conosciamo: gli anni 2000 sono stati un decennio perduto per la classe media, che non solo si è ristretta, dando luogo a una maggiore polarizzazione della distribuzione della ricchezza, ma ha anche assistito alla riduzione netta sia dei propri redditi sia dei propri patrimoni. L’organizzazione del messaggio politico di Obama attorno alla lotta contro la diseuguaglianza sembra, da questo punto di vista, aver pagato. Agli occhi di molti americani la diseguaglianza non è parsa più il risultato trasparente di meriti e responsabilità, ma piuttosto l’esito di un sistema sociale iniquo che va cambiato. In una ricerca pubblicata alla vigilia del voto, su un campione di elettori adulti di classe media, la maggioranza degli intervistati considerava la proposta di Obama quella più capace di migliorare le condizioni di vita della middle-class. La ricerca sottolineava poi l’evoluzione della concezione stessa di classe media, con il progressivo allontanamento dell’opinione corrente da una concezione proprietaria della middle-class. Il crollo dell’economia immobiliare che ha determinato un’importante flessione dei tassi di proprietà della casa, soprattutto fra latinos e afro-americani, ha portato con sé una maggiore sfiducia nell’idea che sia la tanto decantata homeownwership – e quindi la ricchezza finanziaria che essa può generare (o simulare) – a poter garantire non solo l’accesso ma anche la permanenza nella classe media. Non stupisce quindi che siano stati proprio i gruppi demografici più colpiti dal rovinoso sgonfiarsi della bolla immobiliare a premiare Obama. Non solo per le politiche di sostegno ai proprietari in difficoltà portate avanti dalla sua amministrazione, ma anche per la maggiore consonanza della sua concezione della middle class con le reali condizioni di vita di molti elettori a reddito medio: una concezione fondata più sul lavoro e meno sulla rendita finanziaria, e più aperta all’idea che l’intervento pubblico in campi quali la salute e la formazione possa sostenere la mobilità sociale e il consolidamento dei risultati acquisiti. Guardando al futuro, quindi, i democratici hanno più di una ragione per essere ottimisti. Obama vince incassando gran parte del voto di gruppi sotto-rappresentati nell’elettorato effettivo – i poveri e le minoranze, che partecipano al voto in misura inferiore alla media dell’elettorato – mentre Romney perde incassando gran parte del voto di gruppi sovra-rappresentati, i bianchi e i
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benestanti. Questo spiega l’impegno dei democratici nella mobilitazione di quello che vedono come un immenso elettorato potenziale che, nonostante i progressi, rimane comunque in gran una sua parte significativa ancora escluso dalla competizione elettorale. La scelta delle campagne democratiche di concentrarsi sull’obiettivo di un allargamento mirato della platea dell’elettorato effettivo – da conseguire prima di tutto attraverso l’aumento della partecipazione al voto di latinos e afro-americani – si rivelerà quindi fondamentale anche in futuro. A essersi imposto nelle fila del Partito democratico è il principio secondo il quale il successo delle forze progressiste sia sempre di più da ricercare nella capacità di organizzare i disoganizzati e non solo in quella di attrarre e conservare il consenso di chi già è incluso nelle forme di rappresentanza sociale e politica. Guardando al voto del 7 novembre, il “populismo” di Obama sembra avere messo radici piuttosto profonde. L’esito elettorale pare essere l’aspetto più visibile di un lento ma progressivo riorientamento culturale del paese in cui le minoranze hanno giocato e giocheranno un ruolo da protagonista. Nonostante la flessione del voto per Obama rispetto a quattro anni fa e il persistere della maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti, le due ipotesi della “maggioranza democratica emergente”, di cui si è parlato negli anni Novanta, e del realignment dell’elettorato americano su posizioni progressiste dopo un lungo trentennio conservatore, di cui si parla dal 2008, sembrano avere superato un nuovo importante momento di verifica con la realtà del paese.
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Industria dell'auto e classe operaia Bruno Cartosio
insegna Storia dell'America del Nord all'Università di Bergamo
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uando la lunga crisi dell’industria automobilistica è arrivata al suo punto più basso, nella seconda metà del 2008, le cosiddette “città dell’auto” erano già da tempo in una paurosa crisi sociale. Detroit e Flint nello stato del Michigan, Toledo e Cleveland in Ohio, e un numero di altre aree di antica industrializzazione variamente collegate con quel settore industriale avevano subito perdite drammatiche di stabilimenti, posti di lavoro, popolazione. In quegli stati e in alcuni dei confinanti, in particolare Illinois e Pennsylvania la siderurgia e il vetro, la gomma e tutte le ramificazioni dell’indotto di ciascun settore avevano in parte preceduto e in parte accompagnato il crollo dell’auto. Su quel disagio sociale puntava Mitt Romney per sconfiggere Obama lo scorso novembre. Tra il 1970 e il 2008, General Motors, Ford e Chrysler avevano perso quasi metà del mercato interno a favore dei produttori stranieri e avevano chiuso la maggior parte delle fabbriche nelle città che le avevano ospitate per tutta la loro storia. È facile intuire quanto possano essere socialmente gravi il dimezzamento della popolazione di Detroit o la perdita di un quarto dei suoi residenti da parte della più piccola Toledo. Anche sul piano sindacale il crollo delle iscrizioni è stato drammatico. E non è necessario spiegare quanto grandi siano le implicazioni simboliche del fallimento di due delle “Tre Grandi” dell’industria automobilistica, dopo che il Novecento era stato negli Stati Uniti il “secolo dell’auto”. Mentre la Ford era rimasta a galla all’arrivo della recessione, il crollo delle vendite e i tanti errori di strategia
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industriale avevano portato la General Motors e la Chrysler sull’orlo della bancarotta. Fu allora che intervenne il neopresidente Obama, istituendo una “Presidential Task Force on the Auto Industry” a capo della quale venivano posti il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, e il direttore del National Economic Council, Larry Summers. Avviata nel febbraio 2009, subito dopo l’entrata di Obama alla Casa Bianca, la commissione aveva il compito di salvare il settore. Veniva riconosciuto il ruolo “strategico” dell’industria dell’auto, venivano “soppesati” i 400.000 posti di lavoro allora già perduti in rapporto a una probabile perdita di ulteriori 3-4 milioni di posti in quelle regioni del Nordest già disastrate, e veniva infine riconosciuta l’enorme portata simbolica che avrebbe avuto la fine di due delle Grandi. Alla fine, GM e Chrysler vennero salvate, dopo aver depositato in tribunale le istanze di fallimento, con decine di miliardi di dollari del governo statunitense, del governo canadese e dei fondi pensione sindacali (la cui contropartita è stata l’entrata della United Auto Workers nei consigli di amministrazione). Nel caso della Chrysler, parte della proprietà fu acquisita dalla Fiat, come è noto. La decisione di “salvare l’auto” da parte di Obama fu adamantina. L’azione fu rapida. Una parte degli interventi fu affidata alla “Recovery for auto communities and workers”, nell’intento di coinvolgere gli attori sociali, economici e istituzionali nelle operazioni di ripresa e riqualificazione delle comunità più colpite dal disastro. Le ricadute politiche di un’iniziativa di tale ampiezza, osteggiata da molti – tra loro il futuro candidato repubblicano alla presidenza, Romney – furono immediatamente verificabili. Nelle elezioni congressuali del 2010, le aree industriali del Michigan tradizionalmente legate all’auto (Detroit, Flint, Ann Arbor) e tutta la fascia settentrionale dello stato dell’Ohio, che include le città e contee su cui era imperniata da sempre la storia industriale dello stato (Toledo, Cleveland, Akron, Youngstown e la Mahoning Valley, con le sue propaggini fino a Pittsburgh, in Pennsylvania) votarono per i candidati democratici. Lo stesso accadde nelle aree industriali dell’Indiana (inclusa l’area siderurgica di Gary) e dell’Illinois, mentre le restanti parti prevalentemente rurali dello stesso Illinois, dell’Indiana, del Michigan e dell’Ohio votarono repubblicano. Quei comportamenti elettorali si sono ripetuti nel 2012. Le aree che due anni prima avevano dato la preferenza ai
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La decisione di “salvare l’auto” da parte di Obama fu adamantina. L’azione fu rapida.
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candidati democratici per la Camera dei rappresentanti hanno rivotato allo stesso modo. Solo nel voto per l’elezione del presidente si è data una variante: l’Indiana, che nel 2008 aveva dato i suoi voti elettorali a Obama – interrompendo una tradizione locale di vittorie repubblicane nelle presidenziali – li ha ridati al candidato repubblicano nel 2012. Invece le prevedibili ripetizioni della vittoria del candidato democratico nel Michigan, nell’Illinois e nella Pennsylvania non hanno fatto notizia, se non per il fatto che in quest’ultimo stato i repubblicani avevano tentato di estromettere dal voto alcune centinaia di migliaia di potenziali elettori democratici (introducendo l’obbligo, poi sospeso dal tribunale prima delle elezioni, di presentarsi ai seggi con un documento d’identità con foto, requisito inusuale negli Stati Uniti). Chi aveva dubbi sull’esito delle presidenziali nella rust belt di quegli stati, la “cintura” delle fabbriche abbandonate alla ruggine da deindustrializzazione, delocalizzazioni e ridimensionamenti, temeva gli effetti delle diffuse perdite di lavoro e del persistere della depressione economica. Era preoccupante anche una possibile reazione negativa alla mancata o ridotta crescita della popolazione dei singoli
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stati della regione (che si era tradotta in una perdita di Rappresentanti alla Camera: Ohio -2; Illinois, Michigan e Pennsylvania -1). D’altro canto, chi era certo dell’esito del voto a favore del presidente sapeva di poter contare sull’importanza che il salvataggio dell’auto aveva avuto per le popolazioni di quelle aree. I lavoratori maschi bianchi, che a livello nazionale hanno preferito Romney, lì hanno votato per Obama. Inoltre, anche il consistente peso elettorale delle minoranze afroamericana e ispanica, quelle a lui più “fedeli”, portava a presagire un esito a lui favorevole. Non c’è dubbio che il voto abbia ricompensato Obama per la sua politica sociale. Sono state rivelatrici dell’elitario e gretto filtro ideologico con cui lo sconfitto Romney guarda alla realtà le sue parole di recriminazione sulla sconfitta, attribuita ai “regali” grazie a cui Obama avrebbe poi ricevuto i voti di operai, studenti, donne e minoranze: come se le scelte a sostegno di lavoratori e ceti meno abbienti, per una maggiore giustizia sociale e a favore della parità tra i sessi non fossero altro che opportunistici do ut des, voto di scambio. L’iniziativa di Obama e il suo successo, che ha riportato in nero il settore dell’auto, sembra avere giocato a favore anche del sindacato. Infatti nel 2010, per la prima volta dopo sei anni, il numero degli iscritti alla United Auto Workers è aumentato di quasi 21.500 unità, +6 per cento rispetto all’anno precedente. L’incremento si è ripetuto, in misura minore (+1,1 per cento), anche nel 2011. La tendenza è positiva, anche se i dati complessivi stringono il cuore: rispetto al milione e mezzo di iscritti che la UAW aveva nel 1979 e agli oltre 700.000 che aveva ancora nel 2001, gli aderenti alla fine del 2010 erano 376.612. Nel 2011 erano 380.719. D’altronde, come sottolineava nel 2011 il Center for Automotive Research, le Tre Grandi hanno ridotto del 63 per cento la loro manodopera salariata negli ultimi dieci anni. Ora, ultima la Chrysler, sono tornate tutte in attivo. E la loro ripresa riporterà lavoratori nelle fabbriche, portando qualche nuova tessera al sindacato. Ma le grevi “concessioni” fatte alle aziende prima e durante la crisi, peseranno a lungo. E’ arduo immaginare che la UAW possa ritrovare la forza per contrattare nuove relazioni industriali e migliori condizioni economiche. Solo il successo conseguito sul terreno politico, la rielezione di Obama, garantirà qualche ulteriore protezione sociale: una piccola compensazione, rispetto alla forza perduta sul terreno sindacale.
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Non c’è dubbio che il voto abbia ricompensato Obama per la sua politica sociale.
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Le suore battono i vescovi Massimo Faggioli
insegna Storia del cristianesimo all’Università di Minneapolis
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e suore cattoliche hanno, nell’immaginario collettivo in occidente, un ruolo che è sopravvissuto alla quasi scomparsa dell’abito delle religiose: lo stereotipo (efficacissimo) dell’inflessibile suora dei “Blues Brothers” ha trovato riscontro nella memoria di molti ex allievi di scuole cattoliche. Quella della suora, una delle icone più efficaci del “cattolicesimo sociale”, è tornata sulla scena politica pubblica in Italia nel febbraio 2011, quando la manifestazione in difesa della dignità delle donne portò al microfono suor Eugenia Bonetti, nota a quanti sono impegnati nel recupero e nella salvaguardia delle donne vittime delle nuove schiavitù legate alla prostituzione. Ma in Italia ancora non si è visto uno scontro tra suore e vescovi come quello che è in corso negli Stati Uniti da qualche anno a questa parte. Prima di finire nel mirino dei vescovi americani nel 2010, le suore della LCWR (Leadership Conference of Women Religious, che rappresenta circa l’80% delle 57.000 suore americane) erano state soggetto di due separate “inchieste” da parte del Vaticano. Le suore americane erano finite sotto osservazione già nel 2008-2011, con una visita apostolica iniziata dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata (in seguito ad una segnalazione ricevuta dall’ala più conservatrice delle religiose americane, che non fanno parte della LCWR). Un documento vaticano dell’aprile 2012 riguarda invece una “indagine dottrinale” da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) iniziata anch’essa nel 2008. L’indagine della CDF è durata tre anni, e i risultati del rapporto dottrinale erano stati presentati al papa già nel gennaio 2011: quindi è da quasi due anni che le religiose americane sono nei dossier della CDF per un’azione di “riforma della LCWR” a cui la Santa Sede intende procedere. I capi d’accusa sono la mancata adesione delle suore della LCWR alle linee dottrinali ufficiali della chiesa in
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virtù di una “politica di dissenso collettivo” rispetto agli insegnamenti del magistero della chiesa in particolare negli ambiti della sessualità, dell’omosessualità e sul sacerdozio femminile, e a causa della presenza nella cultura della LCWR di temi tipici del “femminismo radicale”. Da metà ottocento a metà novecento le suore cattoliche americane hanno letteralmente costruito la chiesa americana, in una situazione che attribuiva loro ruoli di grande responsabilità (gestione di una vastissima rete di scuole, asili, ospedali, missioni) ma formalmente sempre soggette al potere del clero (maschile). La situazione cambia tra anni sessanta e settanta, per spinte provenienti solo in parte dal concilio Vaticano II (1962-1965): la questione del ruolo della donna nella Chiesa nasce in buona parte nel post-Concilio e negli Stati Uniti, con il dibattito degli anni settanta sull’ordinazione delle donne al sacerdozio e sull’intersecarsi dell’evoluzione della donna nella società e nella chiesa, l’emergere della questione del gender e dell’identità sessuale, e in particolar modo l’esplosione della questione politica dell’aborto dal 1973 in poi. Su questo terreno si scontrano il Vaticano e quella parte della Chiesa americana che si richiama ad un’interpretazione del Vaticano II socialmente “progressista” (più “leftist” che “liberal”): l’aria che tira in Vaticano dal 2005 in poi incoraggia i vescovi americani a prendere misure per rimettere ordine tra le suore della LCWR. È dell’autunno 2011 lo scontro tra la conferenza episcopale USA e la docente di teologia di Fordham University, suor Elizabeth Johnson (una delle voci moderate tra le teologhe cattoliche americane) circa il suo ultimo libro, Quest for the Living God (2007) per i contenuti del libro: a parere dei vescovi della commissione dottrinale “il linguaggio del libro non esprime in modo adeguato la fede della chiesa”. Nel 2012 si è avuta notizia dell’indagine aperta dai vescovi sull’organizzazione delle Girl Scouts (che in America è separata dai Boy Scouts of America ed è politicamente molto più liberal e socialmente più impegnata) per i legami che le Girl Scouts hanno con organizzazioni che promuovono la contraccezione e la salute sessuale delle donne, e del procedimento contro suor Farley (docente emerita a Yale) per il suo importante libro sulla sessualità umana Just Love: A Framework for Christian Sexual Ethics (2006). Le indagini del Vaticano e dei vescovi americani legate a questioni dottrinali si collegano alla particolare posizione ricoperta dalle suore all’interno del panorama sociale e politico americano, ed è qui che lo scontro sale al livello
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Da metà ottocento a metà novecento le suore cattoliche americane hanno letteralmente costruito la chiesa americana, in una situazione che attribuiva loro ruoli di grande responsabilità.
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Le indagini del Vaticano e dei vescovi americani legate a questioni dottrinali si collegano alla particolare posizione ricoperta dalle suore all’interno del panorama sociale e politico americano
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politico. Risale al 2010 l’inizio delle tensioni tra i vescovi americani e le religiose circa la riforma sanitaria dell’amministrazione Obama: le religiose (che gestiscono la gran parte della vasta rete di ospedali cattolici negli Usa) l’hanno appoggiata per il tentativo di estendere la copertura sanitaria a quasi tutti quelli attualmente senza accesso alle cure mediche, mentre i vescovi hanno tentato di affossarla perché non sufficientemente aggressiva nei confronti del diritto all’aborto (sancito dalla Corte Suprema nel 1973) e perchè impone agli enti cattolici (ospedali, scuole) di offrire polizze di assicurazione sanitaria che coprano le spese per pratiche mediche giudicate immorali dal magistero della chiesa cattolica (specialmente aborto e contraccezione). Non stupisce che nella campagna elettorale delle presidenziali del 2012 la questione del ruolo della donna nella società sia stata al centro del dibattito elettorale, e che le suore abbiano portato nel dibattito la voce del cattolicesimo democrat americano. Il Partito democratico si presenta sempre più come paladino dei diritti delle donne tout court, secondo i parametri del femminismo classico novecentesco: accesso all’educazione, parità salariale e alle opportunità di lavoro, ma anche diritto alla contraccezione e all’aborto. Dall’altro lato, il Partito repubblicano sembra incarnare un modello femminista “post-classico” o “post-liberal” (incarnato dalle nuove icone del conservatorismo americano, Sarah Palin in testa) che intende ridare orgoglio ai ruoli tradizionali di madre-moglie, e vede le conquiste delle donne in termini di diritti negli anni 1950-1970 come una reliquia del passato, che non ha veramente liberato le donne. In questo contesto, le suore americane della LCWR, pur senza dare indicazioni di voto, nella campagna delle presidenziali del 2012 hanno appoggiato senza esitazioni il Partito democratico, denunciando nelle politiche sociali proposte dai Repubblicani il tentativo di eliminare quel che resta in America dello “stato sociale”, specialmente per quanto riguarda le misure tese ad alleviare le condizioni di povertà in cui vive un americano su sei. Il discorso di suor Simone Campbell alla convention democratica e il tour delle “Nuns on the Bus” in vari Stati degli USA hanno fatto parte di una campagna elettorale in cui i valori della “dottrina sociale della chiesa cattolica” hanno giocato un ruolo di rilievo nel dibattito pubblico, come mai prima nella storia americana. Negli ultimi quarant’anni il sistema bipartitico americano e la posizione dei due partiti sull’aborto ha creato una chiesa
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pericolosamente vicina al bipartismo teologico e liturgico. In un cattolicesimo che, anche in America, mostra tra i vescovi una crescente nostalgia per una chiesa più istituzionale e più gerarchica, le suore americane sono le testimoni personalmente più credibili del tentativo dei cattolici americani di legare la questione dell’aborto alla questione della giustizia sociale – cioè al tentativo di creare un sistema sociale (un sistema educativo, lavorativo, sanitario, penale) che veda la questione della tutela della vita e dell’aborto come una questione non esclusivamente individuale, ma prima di tutto sociale. Dall’esito dello scontro tra vescovi e suore americane verranno indicazioni per il futuro del cattolicesimo pubblico ben al di là dei confini degli Stati Uniti.
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Il voto degli italoamericani Silvana Mangione
è Vice Segretario Generale della Commissione Continentale per i Paesi Anglofoni ExtraEuropei
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li Stati Uniti hanno appena archiviato una delle campagne più dure e combattute di sempre. Segnata da una reale incertezza dell’esito fino a pochi giorni prima della consultazione, miliardi di dollari investiti e un pesante calo percentuale della partecipazione al voto. Mai come questa volta, si sono contrapposte due visioni completamente diverse del futuro degli States, dei ‘doveri’ dello Stato e del grado di tutela e protezione da riservare alla società civile. Ma come hanno vissuto tutto questo le nostre comunità all’estero? Dati precisi sulle scelte elettorali degli italoamericani non sono al momento disponibili e non è prevedibile che ci saranno nell’immediato futuro, perché è difficile perfino stabilire il numero esatto dei nostri oriundi. Infatti, la definizione “di origine italiana” è scomparsa dai formulari degli ultimi due censimenti federali. Chi lo desidera, può inserire l’indicazione della propria ascendenza nazionale sotto la voce “other”, “altri”, di “altro lignaggio”, o “alieni” dai principali filoni etnici e razziali, tradizionali ed emergenti, che compongono ormai la maggioranza del popolo degli USA. Non a caso, pare ormai ineluttabile la scelta di aggiungere lo spagnolo come seconda lingua nazionale e, forse in un futuro prossimo, il cinese. Può essere utile aprire un breve excursus sulla presenza e le concentrazioni dei nostri concittadini e oriundi negli Stati Uniti. Le Little Italy, di cui ancora parlano alcuni giornalisti italiani ostinandosi a riproporre obsolete immagini di repertorio, stanno progressivamente e sempre più velocemente scomparendo dalle grandi città americane. Le ragioni sono molte e includono l’invecchiamento e assottigliamento dell’emigrazione dell’immediato dopoguerra, la moltiplicazione generazionale, il successo
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professionale e imprenditoriale, il massiccio arrivo di componenti della nuova emigrazione e della mobilità, i quali ultimi si inseriscono molto presto nel mainstream americano, all’interno del quale diventano politicamente attivi. Nella stessa New York, la Little Italy di Manhattan è ora abitata quasi esclusivamente dai cinesi della confinante Chinatown, le leggendarie Arthur Avenue del Bronx e 18th Avenue a Brooklyn sono punti d’arrivo dei gourmet in cerca di cibi genuini made in Italy e nel Queens le zone italiane sono da tempo condivise con le comunità greche, polacche, russe e così via. Con le dovute differenze, lo stesso si può dire quasi ovunque nei grandi centri abitati. In controtendenza ci sono soltanto alcuni paesi della Florida, dove si sono trasferiti molti pensionati provenienti da specifiche cittadine italiane. Ne cito una per tutte: Port St. Lucie è diventata ‘un’enclave’ di pugliesi originari di Mola di Bari, che sono riusciti perfino ad eleggere sindaco una giovane compaesana. Ai trasferimenti dal quartiere etnico della tradizione ad una zona residenziale, emblema del successo raggiunto, corrispondono spesso cambiamenti di rotta in materia di voto: dalle iniziali appartenenze solidamente democratiche alla preferenza per la scelta del singolo candidato (indipendentemente dal partito), all’astensione nel caso in cui non vi sia una motivazione più che concreta per recarsi alle urne. Quella dell’astensionismo, d’altronde, sembra essere una piaga crescente nell’intero elettorato USA. Infatti, è stato poco più del 25% degli aventi diritto a consacrare Obama ad un secondo mandato e questo sebbene stavolta la scelta fosse tale da implicare un totale rovesciamento della politica interna ed estera del Paese. Anche le istanze fatte proprie dagli italiani in USA si evolvono nel tempo quanto a caratteristiche, spessore e importanza: si è passati da un’attenzione altissima per i temi più propriamente sociali e del welfare alla mobilitazione per le battaglie per la difesa dell’ambiente, della sicurezza, della privacy, dei diritti civili. Da cent’anni a questa parte, dal famoso Sciopero del Pane e delle Rose delle operaie e degli operai del tessile – immigrati da oltre trenta Paesi e con una massiccia presenza italiana – scoppiato nel 1912 a Lawrence in Massachusetts a guida degli italiani Arturo Giovannitti (molisano) e Joseph Ettor (campano), fino alla creazione dell’ILGWU dei lavoratori dell’abbigliamento ad opera di Antonini, gli italiani sono stati protagonisti dei movimenti sindacali più
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Le istanze fatte proprie dagli italiani in USA si evolvono nel tempo quanto a caratteristiche, spessore e importanza: si è passati da un’attenzione altissima per i temi più propriamente sociali e del welfare alla mobilitazione per le battaglie per la difesa dell’ambiente, della sicurezza, della privacy, dei diritti civili.
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Le nostre comunità non hanno mai votato in modo compatto e riconoscibile e nemmeno in numero tale da riuscire ad eleggere nostri connazionali in percentuali pari al peso della presenza italiana nella società statunitense.
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avanzati, dei primi passi del socialismo in USA, del sostegno solido e costante al Partito democratico. Malgrado ciò, sin da allora le nostre comunità non hanno mai votato in modo compatto e riconoscibile e nemmeno in numero tale da riuscire ad eleggere nostri connazionali in percentuali pari al peso della presenza italiana nella società statunitense. Dunque, dicevamo, anche fra gli italiani cresce l’astensionismo secondo fasce di età, percorso educativo, percezione più o meno chiara dei benefici economici o di tutela della proprietà promessi dai diversi candidati. C’è da aggiungere che negli USA per poter votare bisogna essersi registrati come elettori del Partito democratico, repubblicano oppure da indipendenti. Inoltre ogni Stato ha una sua diversa legge elettorale in materia di primarie, in base alla quale, ad esempio, agli indipendenti può essere riconosciuto o negato il diritto di esprimere la propria preferenza. Possono prevedere modalità selettive molto particolari, assunte dai più svariati tipi di organismi. È il caso dei “caucus” dell’Iowa, in cui elettori di diversa appartenenza si ritrovano in diversi giorni e luoghi, dibattono pregi e difetti dei concorrenti, poi riempiono le schede e chi prevale, anche per una sola preferenza, si porta a casa il 100% dei voti. In altri Stati, al contrario, la legge fissa giorni precisi per la consultazione, negli stessi luoghi e con le stesse apparecchiature dell’elezione generale. Di solito gli italo-americani partecipano poco alle primarie. Per ovviare a questo fenomeno, dalla seconda metà degli anni ’70 il sistema federativo dell’associazionismo di base ha lanciato giornate di registrazione degli elettori, in particolare negli Stati a vocazione democratica – come New York e New Jersey sulla Costa Est – con ottimi risultati, raccogliendo in questo modo anche i riferimenti di bacini di potenziali votanti. E dunque, per tornare al quesito iniziale, come hanno votato gli italo-americani alle ultime presidenziali? Sulla base dei risultati di molte Contee a forte presenza italiana, dovremmo concludere che hanno votato in accordo con le tendenze prevalse negli Stati di residenza, riconoscibili ancora oggi dalle connotazioni cromatiche attribuite (arbitrariamente) dalle trasmissioni di analisi del voto della prima TV a colori: il blu per i democratici, il rosso per i repubblicani. Sappiamo anche che negli Stati in bilico, ad esempio nell’Ohio, gli americani di origine italiana hanno votato per Obama perché, nonostante la durissima opposizione e le pesanti accuse dei repubblicani, decise di intervenire con
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notevoli finanziamenti per salvare l’industria dell’automobile nel Michigan e, di conseguenza, l’indotto della lavorazione della gomma in Ohio, che ha ora un livello di disoccupazione fisiologico, il più basso degli Stati Uniti. Si ricorderà come, sulla scia di quella battaglia, “the Grand Old Party” riuscì a conquistare la maggioranza al Congresso e a ridurre la presenza dei democratici al Senato al di sotto del numero magico di 60 su 100, che consente di portare in aula senza paralizzanti “filibustering” i progetti di legge proposti dalla Presidenza democratica e dal partito. Le tendenze future sembrano indurci alla speranza, perché la nuova immigrazione italiana, in buona parte altamente scolarizzata, protetta da grandi sponsor e quindi ben presto in grado di ottenere la cittadinanza americana, porta con sé l’abitudine e la spinta a un impegno volontariato in politica e a dare nuova linfa ad un dibattito allargato a tutte le generazioni. Forse la vittoria piena, non più sul filo di lana, sarà possibile anche se queste nuove forze riusciranno a rinverdire le antiche abitudini di militanza delle nostre comunità e a motivarle a esprimersi in modo finalmente compatto e riconoscibile.
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Le sfide del secondo mandato
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Economia e welfare per lo sviluppo umano Laura Pennacchi è economista
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a straordinarietà della sua rielezione per il mandato presidenziale 2013-2016 spingerà Obama a rafforzare una strada che aveva già intrapreso negli ultimi tempi: accentuare l’alternatività della visione e delle politiche democratiche rispetto a quelle repubblicane. Il discrimine destra/sinistra sarà praticato più intensamente e non solo perché l’elettorato americano ha già provveduto per proprio conto a polarizzarsi in modo accentuato (anche in risposta alle parossistiche punte polemiche raggiunte dai Tea Party repubblicani), con buona pace di tutti coloro che continuano a insistere – anche in Italia – che possibilità di governi adeguati si diano solo al centro. Ma anche perché in gioco sono idealità e convinzioni profonde: l’America “generosa”, “aperta”, “tollerante” che è nel cuore di Obama, rispetto all’America gretta, intollerante, chiusa evocata dai repubblicani. Il confronto sul Fiscal Cliff (“baratro fiscale”, la serie di tagli automatici di spesa e di agevolazioni fiscali che entra in vigore la mezzanotte del 31 dicembre in assenza di un piano concordato per ridurre il deficit e il debito pubblici) darà luogo inevitabilmente a compromessi, ma si tratterà di compromessi che non possono scalfire l’immagine democratica dell’America – per esempio in ordine al maggior contributo che i benestanti debbono pagare per uscire dalla crisi –, in difesa della quale Obama sembra pronto a ricorrere a misure forti, come l’apposizione del veto presidenziale. Infatti, l’attività governativa più generale sarà portata avanti dalla nuova amministrazione Obama con l’obiettivo di affermare idealità, principi e politiche alternative, nella
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consapevolezza che questo richiede una battaglia anche culturale nella quale, del resto, i democratici americani sono da tempo ingaggiati. Sono loro che, a proposito del necessario maggior intervento pubblico, indicano la strong battle fra Stato e mercato deflagrata con la crisi globale rispetto a cui bisogna pronunziarsi. E sono loro che, di fronte al dramma della disoccupazione, denunziano la job catastrophe in atto a cui va posto rimedio urgentemente, anche in modo non convenzionale. Questi orientamenti li vedremo all’opera soprattutto sul terreno del welfare state e delle politiche sociali, dove naturalmente è chiamato ad esprimersi quel senso di responsabilità collettiva racchiuso nella visione nobile che Obama ha dello Stato e delle istituzioni pubbliche, opposta all’enfasi sullo starving the beast propria dei repubblicani, i quali puntano ad “affamare la bestia” governativa e istituzionale (sottraendogli risorse mediante la decurtazione della pressione fiscale a vantaggio soprattutto dei ricchi) proprio perché non credono che vi sia un’interazione tra responsabilità collettiva e responsabilità individuale e vogliono che ciascuno sia lasciato responsabile – e solo! – di fronte alla vita e al mondo. Obama tenterà di mettere in sicurezza la social security americana, chiudendo gli spazi per eventuali opting out dalla previdenza pubblica verso le assicurazioni private (quegli stessi spazi che, invece, il ministro Fornero ha aperto da noi con l’inserimento nella controversa riforma delle pensioni dell’ancor più controversa misura di decontribuzione in favore della previdenza complementare). Obama, infatti, non dimentica che allo scoppiare della crisi globale, nei primi mesi del 2009, egli fu costretto a nazionalizzare la Chrysler e la General Motors non solo perché voleva mantenere negli USA una parte dell’industria dell’auto altrimenti destinata a una totale delocalizzazione, ma anche perché senza quel salvataggio i lavoratori sarebbero rimasti privi, oltre che del lavoro e del reddito, delle loro pensioni tradizionalmente gestite non dalla previdenza pubblica ma dai Fondi aziendali, in quanto affidare le prestazioni pensionistiche a forme privatistiche equivale ad affidarle ai mercati finanziari e quando questi crollano anche le pensioni si dileguano. La priorità verrà data da Obama al consolidamento e al rafforzamento in senso universalistico della riforma della sanità così duramente conquistata nel primo mandato. Con 51
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Spinto dal rovesciamento di paradigmi imposto dalla crisi, Obama sta crescentemente delineando l’esigenza di un nuovo modello di sviluppo.
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essa 70 milioni di cittadini – tra non assicurati e sottoassicurati – si aspettano di venire inclusi nel sistema sanitario nazionale, una spesa che ha già raggiunto il 17% del PIL – la media europea è del 6-8% – sarà contenuta, saranno contrastati indicatori impressionanti per il paese più ricco ed evoluto del mondo, quali un tasso di mortalità infantile del 7 per mille, a fronte del 2-3 per mille europeo, o una speranza media di vita nettamente inferiore a quella del vecchio continente. Ma concentrando tutte le sue energie sul rilancio della “piena e buona occupazione” l’innovazione più interessante che Obama metterà in atto riguarderà, anche sotto il profilo delle politiche di welfare, la stessa concezione della politica economica e il suo rapporto con le politiche sociali. Spinto dal rovesciamento di paradigmi imposto dalla crisi, Obama sta crescentemente delineando l’esigenza di un nuovo modello di sviluppo: quando i consumi scendono ai livelli dei tempi di guerra e la disoccupazione di lunga durata supera le soglie raggiunte dopo il primo shock petrolifero degli anni ’70, diventa chiaro quanto la crisi globale – la cui durata è di per sé un indicatore di gravità – sia crisi strutturale di un intero modello economico-sociale che oggi deflagra, rendendo improcrastinabile l’avvio di un nuovo modello di sviluppo. Lo staff di Obama e i think tank democratici interpretano il vecchio modello di sviluppo in quanto costruito su quattro processi: finanziarizzazione, commodification e consumismo individualistico, primato delle esportazioni e della domanda estera, svalutazione del lavoro e diseguaglianze. Simmetricamente per costruire il nuovo modello di sviluppo i democratici sanno che bisogna affrontare quattro sfide immani: 1) procedere a una salutare definanziarizzazione (il che rende necessaria una radicale riforma della finanza), 2) dare più valore ai consumi collettivi (tra cui spiccano quelli connessi al welfare state) rispetto ai consumi individuali, 3) sostenere maggiormente la domanda interna rispetto alla domanda estera ma intervenire anche dal lato dell’offerta, 4) creare lavoro e combattere le diseguaglianze. Lungo questo percorso si acquisisce la consapevolezza che il “mercantilismo” emblematicamente impersonato dalla Germania della Merkel, con cui non a caso Obama è in polemica, non è modernità ma regressione all’Ottocento, a un’epoca in cui l’adozione generalizzata di strategie mercantilistiche (privilegianti in modo ossessivo le
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esportazioni) generò la spinta al colonialismo, le guerre, la diffusione di pratiche commerciali scorrette, in ossequio al principio che l’obiettivo dei governi non fosse l’elevamento del benessere e della qualità della vita dei cittadini, ma incrementare le esportazioni per aumentare la potenza economica dei paesi. È stato, viceversa, proprio attraverso il travaglio della crisi degli anni ’30 che le culture riformiste maturarono – grazie a Roosvelt, Keynes e Beveridge, la socialdemocrazia scandinava – un’idea alternativa. L’idea, cioè, che il fine della crescita economica dovesse essere non più la potenza economica del Paese ma il benessere dei suoi cittadini e il compito della politica economica dovesse essere la piena utilizzazione delle sue risorse, prima di tutto il lavoro. Quest’idea si incarna oggi nel modello dello “sviluppo umano” di straordinaria modernità innovatività, a cui solo un big push finalizzato alla creazione di lavoro e veicolato da un rinnovato motore pubblico può dare vita. Tutto ciò spiega perché sia così insistito da parte di Obama e dei democratici americani il richiamo al New Deal di Roosevelt e ne svela anche il significato più profondo, attinente proprio agli alternativi obiettivi attribuiti all’economia e alla politica economica: dare la priorità non alla potenza e alla forza ma al benessere dei cittadini e alla qualità delle loro vite. In questo quadro la politica economica diventa tout court politica sociale e la politica sociale diventa tout court politica economica. Il collante è la spinta all’attivazione di tutte le risorse inutilizzate: lavoro, capitale, infrastrutture, innovazione. Perché quando le parole chiave diventano “scuole”, “asili”, “ospedali”, “ricerca”, “territori”, “ponti”, “strade”, “ferrovie”, “reti” – le parole che usa Obama – la differenza tra politiche economiche e politiche sociali sfuma fino a scomparire. Così è naturale che i democratici americani si ispirino esplicitamente all’esperienza del New Deal e alla sua creatività istituzionale. Allora la maggior parte delle iniziative di creazione di lavoro venne promossa dal governo federale, ma fu sponsorizzata dai governi locali e da agenzie federali e intrapresa anche da organizzazioni non governative. I programmi vennero modellati sulla base delle esigenze delle comunità: child care, health care, education, recreation, elder care, cultural enrichement, construction works, conservation measures, existing parks, new parks, public spaces. Una incredibile creatività istituzionale diede vita a soggetti che realizzarono risultati 53
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straordinari: la Civil Works Administration (CWA, organizzata in CWA worker e CWA white collar), la US Coast and Geodetic Surwey, il National Park Service, la Library of Congress, il Public Works of Art Project (che diede lavoro a 3000 artisti disoccupati) e così via. Del resto, Obama si è già ispirato alle grandi idealità del New Deal e alla sua ingegnosità pratica e attuativa. La manovra di rilancio presentata al Congresso americano con il budget 2012-2013 – poi respinta dai repubblicani – rinviava al 2017 il conseguimento di un rapporto defici/pil del 3% mantenendo per il 2012 un deficit al 5,5%, proponeva di dotarsi di strumenti non convenzionali come una banca pubblica per le infrastrutture, destinava 350 miliardi di dollari a misure immediate per sostenere e creare occupazione e 476 miliardi di dollari per strade, ferrovie, trasporti, imponeva un tasso di crescita del 5% annuo alla spesa in Ricerca e Sviluppo in campo non militare, incrementava del 19% la spesa per uno speciale progetto di sviluppo manifatturiero ad alto contenuto tecnologico. Al tempo stesso la manovra democratica aboliva i 1500 miliardi di dollari di sgravi fiscali di George Bush, alzava l’aliquota per i capital gains, instaurava un’aliquota del 30% per i milionari (la famosa “regola Buffet”), eliminava le agevolazioni per l’industria
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petrolifera e per i profitti degli hedge funds e della società di private equity e così via. Su questa strada prestigiosi think tank americani chiedono oggi ad Obama di andare avanti Un rapporto promosso da Demos, Economic Policy Institute, The Century Foundation, nel chiedere che l’intera politica federale sia investment-oriented, si concentra sull’espansione della spesa per strategic public investment e intitola un capitolo The virtues of public investment. I campi di questo investimento pubblico sono attentamente selezionati e gerarchizzati: early childood education, quality child care, infrastructure, public transit, broadband connectivity, research and development (specialmente in ricerca di base). Back to Work. A Public Jobs Proposal for Economic Recovery, promosso da Demos, sostiene la necessità di adottare una strategia che punti a creare lavoro per i disoccupati direttamente e immediatamente in programmi di impiego pubblico che producano beni e servizi utili. Dietro tutto ciò c’è la riscoperta e la rilettura innovativa che i democratici americani stanno facendo di Keynes e Schumpeter. In effetti oggi si riproducono condizioni impressionantemente analoghe a quelle studiate da Keynes: la distruzione di valore patrimoniale netto e l’illiquidità feriscono tutti gli operatori, gli investimenti crollano e i profitti flettono, la riduzione del reddito e la disoccupazione di massa scaturiscono dalla trasmissione delle turbolenze finanziarie all’economia reale e dalla deflazione da debito. Per evitare che le forze destabilizzanti prendano il sopravvento l’ipotesi keynesiana dell’intrinseca instabilità del capitalismo prevede, anzichè solo nuove regolazioni e liberalizzazioni pur opportune, la necessità di uno stimolo fiscale pubblico di grandi dimensioni, quell’intervento diretto dello Stato che, preteso anche e soprattutto dai neoliberisti quando si tratta di salvare le banche e gli operatori finanziari, per altre finalità la destra europea vorrebbe far “arretrare” con tagli di spesa e privatizzazioni, ma che Obama intensificherà, sia in campo produttivo sia in campo sociale. Keynes, infatti, nelle condizioni odierne consiglierebbe piani di spesa pubblica diretta per il lavoro e per gli investimenti, finanziati in disavanzo con nuova moneta, distinguendo tra debito “buono” (quello, per l’appunto, per nuovi investimenti) e debito “cattivo” (quello per spesa pubblica corrente improduttiva) e tenendo congiunti il lato della domanda e quello dell’offerta, tanto più in una fase di squilibri nelle capacità produttiva tra eccessi in
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Dietro tutto ciò c’è la riscoperta e la rilettura innovativa che i democratici americani stanno facendo di Keynes e Schumpeter.
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alcuni settori e deficit in altri. Per Keynes solo un regime di pieno impiego dei fattori della produzione giustifica il principio del pareggio di bilancio, che in ogni caso non può valere per gli investimenti pubblici, vero traino dello sviluppo economico in una fase in cui si tratta non solo di rilanciare la crescita ma di cambiarne la qualità e la natura. La “socializzazione degli investimenti”, destinata a riqualificare l’offerta e ad aumentarne la produttività, al tempo stesso sostiene la domanda contenendo l’inflazione e riducendo nel tempo il rapporto debito/PIL. La “socializzazione dell’occupazione” fa sì che l’operatore pubblico si doti di un “Piano del lavoro” per la miriade di obiettivi che attendono solo agenzie e strutture che se ne prendano cura: tecnologie verdi, energia, infrastrutture, trasporti, salute, educazione, servizi sociali. Il punto è che per trattare lo sconvolgimento epocale che la crisi globale sta provocando non bastano strategie difensive, occorre una rivoluzione culturale che faccia uscire dall’inerzia e dall’afasia, inducendo a riscoprire la discriminante destra/sinistra nello sviluppo dei “beni pubblici” e dei “beni comuni”: questa è, per l’appunto, la sfida ingaggiata da Obama.
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La rivoluzione energetica Federico Testa è deputato del Pd
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entre in Europa ed in Italia si discute di strategie energetiche basate su scenari di progressivo incremento dei prezzi del petrolio motivato da un più o meno imminente esaurimento delle riserve globali, oggi il mondo si trova in una fase di straordinaria evoluzione dal punto di vista della disponibilità di risorse petrolifere. La produzione di petrolio negli Stati Uniti sta esplodendo: si tratta di un fenomeno del tutto analogo a quello accaduto per il gas, connesso alla applicazione di nuove tecnologie di fratturazione idraulica e di perforazione orizzontale che consentono di estrarre idrocarburi da diverse tipologie di formazioni geologiche, costituite ad esempio da argilla, arenarie o rocce calcaree. In sostanza è ora possibile sfruttare giacimenti che, sebbene conosciuti, non erano ritenuti commercialmente e tecnicamente utilizzabili o ricercare giacimenti del tutto nuovi in aree prima giudicate inadatte. Un caso per tutti, quello di Bakken/Three falls, in Nord Dakota: da questo giacimento, che nel 2006 non produceva neanche un barile, si estraggono oggi circa 700mila barili/giorno di petrolio, ovvero una quantità di greggio (peraltro di buona qualità, a basso tenore di zolfo) sufficiente a soddisfare circa la metà di tutti i consumi dell’Italia e superiore a quella prodotta oggi dal più grande campo del Kuwait. Questo “nuovo” petrolio, al quale è stato attribuito il nome di shale oil (che più propriamente è solo il petrolio derivante da formazioni argillose) per analogia con il settore del gas, avrà innanzitutto un impatto sugli equilibri energetici ed economici degli Stati Uniti. 57
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Il World Energy Outlook 2012 dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, normalmente molto prudente nel giudicare le evoluzioni nel mondo dell’energia (ad es. ha dato pieno ruolo al fenomeno dello shale gas solo nel 2010, sebbene esistessero già da alcuni anni chiare evidenze del suo potenziale) per la prima volta vede gli Stati Uniti “proiettati a diventare il più grande produttore globale di petrolio prima del 2020”. In realtà è assai probabile che questo traguardo venga raggiunto già nei prossimi anni e di conseguenza le importazioni di petrolio degli Stati Uniti, anche per effetto delle iniziative di efficienza energetica, si riducano a pochi milioni di barili/giorno. Dal punto di vista economico, considerando che un milione di barili/giorno di maggiore produzione di petrolio vuol dire, ai prezzi attuali, oltre 30 miliardi di $ all’anno di minori importazioni e un impatto ben superiore sulla crescita del GDP (in sostanza il Prodotto interno lordo), l’effetto
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complessivo dello shale oil, sommato a quello dello shale gas, sulla crescita degli Stati Uniti può facilmente arrivare a superare il 2% all’anno. Ma lo shale oil non sarà un fenomeno limitato agli Stati Uniti; infatti, sia pure con uno sfasamento temporale più o meno rilevante, le nuove tecnologie avranno effetti sull’intera produzione mondiale di petrolio. Questa rivoluzione comporta quindi che, come per il settore del gas, il problema dell’equilibrio mondiale domanda-offerta si trasferisce dall’offerta alla domanda. In altri termini se prima il problema era valutare se l’offerta sarebbe stata in grado di tenere il passo della domanda, oggi il problema è se la domanda sarà sufficiente ad assorbire gli incrementi dell’offerta ovvero se sarà sufficiente per sostenere i prezzi. In realtà oggi sulla domanda di petrolio grava un’alea di incertezza dovuta non solo ai problemi della crescita economica mondiale ma soprattutto alle incognite degli sviluppi tecnologici del trasporto elettrico. Il citato World Energy Outlook 2012 dell’AIE ancora stima un incremento della domanda di petrolio di circa il 14% al 2035 (circa 12 milioni di barili/giorno aggiuntivi rispetto agli 87 del 2011) imputabile quasi interamente allo sviluppo del trasporto nei Paesi in rapido sviluppo come la Cina. Tuttavia l’eventuale disponibilità di nuove tecnologie di accumulo elettrico che consentissero di aumentare sensibilmente le prestazioni delle batterie attualmente disponibili potrebbero determinare un rapido cambiamento di scenario. Certamente, anche se la domanda di petrolio rispettasse le previsioni di crescita, il fenomeno dello shale oil indurrà un forte impatto sulla politica e sull’economia mondiale. Per quanto riguarda gli aspetti politici c’è da evidenziare che l’autonomia energetica degli Stati Uniti, che potrà senza problemi limitare i suoi acquisti di petrolio al continente americano (Canada, Messico, Brasile e eventualmente Venezuela), determinerà un minore interesse verso il medio Oriente, il Caspio e l’Africa. Questo non implica che la politica estera USA arrivi a trascurare i gravi problemi che affliggono queste aree del mondo, ma è evidente che l’interesse economico-energetico prevalente alla stabilità di queste aree sarà soprattutto dell’Europa e dei Paesi asiatici. Dal punto di vista economico occorre tener conto che lo scenario che abbiamo davanti di relativa abbondanza degli
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Anche se la domanda di petrolio rispettasse le previsioni di crescita, il fenomeno dello shale oil indurrà un forte impatto sulla politica e sull’economia mondiale.
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La maggiore disponibilità dell’offerta e la profonda evoluzione della geografia delle produzioni, non consentiranno a lungo di ostacolare una prospettiva di evoluzione concorrenziale del mercato.
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idrocarburi comporta una tendenza alla convergenza dei prezzi verso un equilibrio sostenibile. Infatti oggi, in una situazione di perdurante frammentazione dei mercati, i prezzi degli idrocarburi non sono in equilibrio da almeno tre punti di vista: quello del rapporto tra i prezzi e i costi marginali, quello territoriale e infine dal punto di vista della correlazione tra i prezzi del petrolio e del gas. Dal punto di vista del rapporto tra i prezzi e i costi marginali oggi i prezzi del petrolio sono molto al di sopra rispetto ai fondamentali di costo, mentre i prezzi del gas sono al limite (e forse al di sotto) dei costi marginali negli Stati uniti ma molto superiori nel resto del mondo. Dal punto di vista territoriale attualmente negli Stati Uniti il petrolio (WTI) quota stabilmente a prezzi di oltre 20 $/b inferiori rispetto all’Europa (Brent) e il gas quota a prezzi da 3 a 4 volte inferiori a quelli europei e asiatici. Dal punto di vista della correlazione petrolio/gas, negli Stati Uniti il prezzo del gas (a parità di energia) è inferiore di 4-5 volte a quello del petrolio, mentre in Europa il rapporto petrolio/gas oscilla intorno a 2. Questo disequilibrio dei prezzi non è fondato su motivazioni strutturali: gli attuali differenziali di prezzo tra Europa e Stati Uniti sono molto superiori ai costi di trasporto (ad es. per il petrolio il costo del trasporto è intorno ai 3 $/b a fronte del differenziale di oltre 20 $/b); così come fabbricare carburanti da gas con le tecnologie già disponibili (GTL – Gas To Liquids) è estremamente conveniente, almeno negli Stati Uniti, con un differenziale così ampio tra i prezzi del gas e del petrolio. Quindi in un mercato concorrenziale questi differenziali non dovrebbero esistere se non nei limiti dei costi-opportunità delle alternative territoriali o tecnologiche disponibili. In realtà oggi la segmentazione dei mercati mondiali è dovuta sia a normative nazionali (dagli Stati Uniti non è possibile esportare idrocarburi senza particolari autorizzazioni) sia alle politiche infrastrutturali degli attori del mercato, ovvero le compagnie petrolifere e i paesi produttori: di fatto la segmentazione dei mercati è anche il risultato di una “adeguata” carenza infrastrutturale che consente di far sì che i prezzi rispondano alle loro esigenze di breve, di medio e di lungo termine. Tuttavia la maggiore disponibilità dell’offerta e la profonda evoluzione della geografia delle produzioni, non consentiranno a lungo di ostacolare una prospettiva di evoluzione
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concorrenziale del mercato. Questo scenario vorrebbe dire riequilibrio dei prezzi sui livelli della fonte più conveniente, e quindi del metano, e maggiore accessibilità dei mercati più competitivi, a cominciare da quelli del nord America. Se questo scenario diventasse una prospettiva concreta, ed esistono tutte le condizioni perché ciò accada, quale può essere la strategia dell’Europa e dell’Italia? È possibile continuare a sostenere le attuali politiche energetiche europee di sostegno alle rinnovabili e al contenimento dei gas serra in un contesto di prezzi cedenti degli idrocarburi? Se queste politiche rimarranno come oggi del tutto non correlate alle politiche industriali e fiscali, è evidente che l’Europa, stretta tra gli Stati Uniti, che avranno comunque un vantaggio in termini di prezzi energetici e l’Asia, che continuerà a trarre convenienza dal massiccio utilizzo di carbone, continuerà a perdere competitività e ad essere oggetto di importanti processi di delocalizzazione industriale. Né la strategia europea può realisticamente contare su un accordo globale sulle emissioni di gas climalteranti che imponga anche ai suoi concorrenti industriali un maggior utilizzo di fonti energetiche rinnovabili. L’esito negativo delle ormai troppe Conferenze mondiali sul tema non dovrebbe alimentare ulteriori infondate speranze. L’unica strategia che potrebbe permettere all’Europa di contemperare gli obiettivi ambientali con quello di mantenere una solida industria manifatturiera è quella di incorporare nei prezzi dell’energia e di tutti gli altri beni e servizi la maggiore qualità ambientale. Questa strategia è attuabile attraverso una nuova fiscalità ambientale basata su una contabilità oggettiva delle emissioni associate alla produzione di tutti i beni ed i servizi; una fiscalità che quindi non sia né discriminatoria né protezionista ma permetta semplicemente di distinguere tra i prodotti che hanno indotto maggior impatto sull’ambiente da quelli che invece consentono di rispettarlo. Se l’Europa porrà in atto questa strategia possiamo sperare che gli effetti positivi per l’economia e per l’ambiente siano contagiosi, se non altro perché altri produttori mondiali cercheranno di essere competitivi sul mercato europeo attraverso prodotti di più elevata qualità ambientale. Se al contrario l’Europa non assumerà su questo tema una forte iniziativa, la politica energetica dovrà purtroppo solo governare il declino della domanda interna. 61
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Diritti umani, democrazia, multilateralismo Pietro Marcenaro è senatore del Pd
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orse con l’annuncio del ritiro dall’Afghanistan , nei prossimi due anni, delle truppe USA e Nato si potrà considerare definitivamente conclusa quella lunga e drammatica fase iniziata con gli attentati dell’11 settembre 2001. È stata una fase nella quale, per citare Obama, “la paura ci ha portato ad agire anche contro i nostri ideali”. La fine di quella fase è stata sancita nei primi mesi del 2011 dalle primavere arabe: l’incerto sbocco del duro scontro religioso, culturale e politico in atto in tutti quei paesi non può far dimenticare quei milioni di cittadini che, manifestando nelle strade senza bruciare una bandiera americana o israeliana, hanno dato al mondo intero il messaggio di una nuova possibilità. Quei movimenti hanno chiarito che la lotta per la democrazia non è la lotta tra l’Occidente e l’Islam, ma un confronto che attraversa l’Islam come d’altra parte, e in altri modi, attraversa l’Occidente. Dopo le primavere arabe è realistico pensare che democrazia, stato di diritto, diritti umani possano camminare sulle gambe dei popoli e che ci siano le condizioni perché l’idea della loro esportazione con la forza possa essere accantonata. Non dico che siamo lì: dico che ci si può battere per questo con una speranza di successo. In realtà, per chi avesse voluto capire, già nelle strade di Teheran e delle altre città iraniane nel giugno del 2009 questo dato era emerso in modo sufficientemente chiaro. Ma la linea scelta dall’Occidente era stata un’altra, concentrare esclusivamente sulla questione nucleare il confronto con il regime iraniano, nella totale incapacità di comprendere le caratteristiche di quel movimento e quindi di sostenerlo nelle forme appropriate. Il terreno scelto era invece stato quello sul quale era più facile per il regime recuperare consenso e forza. Le proteste
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sacrosante contro alcune esecuzioni capitali nel carcere di Evin non riescono a nascondere l’isolamento nel quale si è scelto di lasciare i democratici iraniani e gli stessi leader che avevano accettato di mettersi in gioco e di rischiare per conquistare una svolta democratica. Lo sviluppo di questo confronto, che ha attraversato l’Islam sunnita come quello sciita, è stato fortemente favorito dal cambiamento avvenuto alla guida dell’amministrazione americana. Il messaggio contenuto nel discorso del nuovo inizio, pronunciato da Barak Obama all’Università Al Azhar al Cairo il 4 giugno 2009, è arrivato in profondità nella società islamica ed è stato ascoltato dalle masse arabe e, nonostante successive contraddizioni e delusioni , continua a tenere aperto uno spazio di ascolto e di interlocuzione importante. Nel momento in cui Obama sta per iniziare il suo secondo mandato, è ancora una volta sui rapporti con il mondo islamico che la politica americana sarà in gran parte misurata. Ed In particolare è nel Medio Oriente e sulla riva sud del Mediterraneo che si concentrano oggi i problemi principali da affrontare. Le scelte che saranno compiute sulla Siria, sulla questione israelopalestinese, sull’Iran e sugli sviluppi delle primavere arabe segneranno in profondità la futura evoluzione della situazione. Tra questi diversi dossier esiste come è noto una strettissima relazione, una vera e propria interdipendenza che si è ulteriormente accentuata per il ruolo che i nuovi partiti islamici hanno assunto in tutta la regione. I recenti sviluppi della situazione a Gaza e il ruolo svolto dal presidente egiziano Morsi nel mediare la cessazione delle ostilità tra Hamas e Israele sono un segno evidente della novità intervenuta. Mai in passato era stato così forte ed era risultato così chiaro il legame tra una prospettiva di pace e di stabilizzazione in Medio Oriente e il progresso di un processo di democratizzazione.
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In particolare è nel Medio Oriente e sulla riva sud del Mediterraneo che si concentrano oggi i problemi principali da affrontare.
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L’altro grande tema sul quale la politica estera americana durante il secondo mandato di Obama sarà chiamata alla prova è quella del multilateralismo.
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Tutti sanno che il raggiungimento di una maggiore unità palestinese che ricomponga almeno in parte la frattura tra Abu Mazen e Hamas è una condizione necessaria per lo sviluppo del negoziato. Questa ricomposizione richiede un cambiamento in Hamas che i processi politici che attraversano la regione possono favorire. E l’affermazione di un Islam politico democratico in Palestina e nei diversi paesi della regione sarebbe una garanzia più forte di qualsiasi muro per la sicurezza di Israele. Al punto che forse converrebbe modificare la parola d’ordine “due popoli, due stati” in quella “due popoli, due stati democratici”. Questa possibilità dipende anche dal ruolo che la comunità internazionale, e l’Europa e gli Stati Uniti in primo luogo, sapranno giocare per offrire ai settori moderati e democratici dell’Islam una sponda affidabile e per esercitare su Israele una pressione politica che contribuisca a far emergere una interlocuzione positiva. Fino ad oggi questo non è avvenuto o è avvenuto in modo insufficiente. L’altro grande tema sul quale la politica estera americana durante il secondo mandato di Obama sarà chiamata alla prova è quella del multilateralismo. Qui la presidenza Obama aveva fatto, all’indomani della vittoria elettorale, grandi e solenne promesse. Pochi mesi dopo il discorso del Cairo, il 24 settembre 2009, Obama aveva presieduto la riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che aveva adottato all’unanimità la risoluzione su disarmo e non proliferazione nucleare: per quanto il messaggio simbolico fosse nettamente prevalente sul contenuto concreto si era trattato pur sempre di un fatto politicamente rilevante. E ancora, qualche mese dopo, il documento sulla National Security Strategy reso pubblico il 27 maggio 2010 a firma Barack Obama conteneva una esplicita professione di multilateralismo basato sul diritto internazionale, i diritti umani, la democrazia e lo ‘stato di diritto’. Esso segnava una radicale discontinuità rispetto all’approccio dell’unilateralismo e della guerra preventiva contenuto nel rapporto dell’Amministrazione Bush sulla National Security Strategy del 2002, aggiornato nel 2006. In esso era scritto tra l’altro : “....in un mondo di sfide transnazionali, gli Stati Uniti hanno bisogno di investire nel rafforzamento del sistema internazionale, lavorando all’interno delle istituzioni e degli schemi internazionali per
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superare le loro imperfezioni e mobilitare la cooperazione transnazionale. (…) Rafforzare la legittimazione e l’autorità del diritto internazionale e delle istituzioni, specialmente delle Nazioni Unite, richiederà una continua lotta per migliorarne il funzionamento”. Letti oggi quei discorsi, quelle dichiarazioni e quegli atti politici istituzionali che avevano acceso tante speranze nel mondo sembrano caduti nel vuoto. Certo non si possono dare solo agli Stati Uniti le responsabilità se da allora quella prospettiva è entrata in una crisi profonda e quelle promesse non sono state mantenute, ma su questo fronte la crisi è così seria che invece che a una nuova politica multipolare sembra a volte di assistere ad una caricatura del bipolarismo del tempo della guerra fredda. L’Europa concorre a questa difficoltà: la sua sostanziale assenza dalla scena internazionale priva il tavolo multilaterale di una gamba essenziale per il suo equilibrio. La tragica spirale nella quale è precipitata la crisi siriana – lo spettacolo del veto di russi e cinesi al Consiglio di sicurezza, il fallimento delle missioni di Kofi Annan e di Brahimi, l’incapacità di fermare i massacri e di imporre un negoziato – è l’esempio più drammatico di questa crisi. È da questa matassa apparentemente inestricabile che bisognerà ripartire.
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Letti oggi quei discorsi, quelle dichiarazioni e quegli atti politici istituzionali che avevano acceso tante speranze nel mondo sembrano caduti nel vuoto.
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Il mandato domestico della
"potenza indispensabile" Lapo Pistelli è deputato del Pd
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econdo una convenzione diffusa, il Presidente americano spende il suo primo mandato per assicurarsi la rielezione e solo nei quattro anni successivi si dedica a realizzare la propria agenda, con una preferenza per quei dossier internazionali che gli possono garantire uno spazio nei libri di storia. Con tutte le semplificazioni del caso, c’è del vero in questa affermazione, ma dato che viviamo tempi di straordinario cambiamento, anche questa regola è mutata nella storia dei due mandati di Barack Obama. A partire dal primo. Complice la disastrosa eredità di George W. Bush – il Presidente con il più basso tasso di gradimento domestico e internazionale degli ultimi sessanta anni – il giovane senatore afro-americano dedicò, fin dalla campagna primaria per la scelta dello sfidante democratico, uno spazio importante ai temi esteri. Per un Paese che contava ogni giorno i propri caduti sul fronte iracheno e che aveva dimostrato un’arrogante impreparazione nel tentativo di riscrivere la mappa del grande Medioriente sotto le suggestioni neoconservatrici, hope and change furono parole da declinare anche in una nuova visione del mondo e in una diversa gestione dei rapporti con i Paesi alleati. Da candidato prima, da Presidente poi, Barack Obama è stato la gioia di ogni internazionalista democratico. L’elenco è lungo e perciò ci limitiamo ai titoli: tour europeo con discorsi evocativi di grande impatto a Berlino e a Londra, un nuovo impegno sulla non proliferazione nucleare e sulla tutela dei diritti umani, l’offerta di un reset con Mosca e di un impegno costruttivo con l’Iran, una diversa consapevolezza dei problemi del cambiamento climatico, l’apertura al mondo
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islamico nel discorso del Cairo dopo un decennio di pregiudizi e paure. Affiancato da uno straordinario Segretario di Stato come Hillary Clinton, il giovane Presidente è stato la prima personalità del mondo politico a guadagnarsi un Premio Nobel per la Pace “preventivo”, sulla sola base cioè dell’agenda presentata al mondo e dei primi passi compiuti dopo l’elezione. Come sappiamo oggi, tuttavia, quell’elenco di impegni e intenzioni, tutte giuste e condivisibili, era probabilmente troppo ambizioso, e soprattutto – proprio grazie alla inedita offerta di responsabilizzazione e coinvolgimento di alleati e avversari – dipendeva in misura equivalente dalla volontà americana e dalla risposta altrui. Il caso russo e quello iraniano testimoniano di una mano tesa cui si è risposto più volentieri con un pugno chiuso. Il Presidente che ha combattuto per ottenere un secondo mandato è stato sicuramente più cauto, si è limitato a chiedere agli elettori di poter completare ciò che aveva iniziato, non aggiungendo però nuovi fronti al suo impegno. Poteva contare, in questo silenzioso “downgrading”, sul totale vuoto repubblicano. Ancora gravato dall’ipoteca di Bush e semmai appesantito ulteriormente dalle bizze isolazioniste del Tea-Party, Mitt Romney si è tenuto scrupolosamente alla larga dalle questioni internazionali. Anche il dibattito televisivo tradizionalmente dedicato all’America nel mondo fu privo di colpi di scena: lo sfidante si limitava a invocare toni più assertivi e decisi verso gli avversari di sempre (Russia e Cina) ma senza una visione alternativa. Anzi, poche settimane prima, il tentativo di capitalizzare elettoralmente i fatti di Bengasi e la morte dell’Ambasciatore Stevens era stato subito stigmatizzato da tutti i media americani, che vi leggevano una rottura dell’unità nazionale in un momento di cordoglio collettivo. Perché allora Barack Obama, così amato in tutto il mondo e così condiviso nelle proprie idee sull’agenda internazionale, dovrebbe concentrare maggiormente il suo secondo mandato sulla politica interna? Il Presidente ha rischiato di perdere la Casa Bianca per la modesta performance dell’economia e per il pessimo andamento dell’occupazione. È stato il primo Presidente uscente della storia a essere riconfermato con un tasso di disoccupazione vicino all’8%, in genere insopportabile per l’elettorato americano. Sicuramente lo sfidante non è mai
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riuscito a vendere in quel campo un profilo credibile, alternativo all’immagine percepita del freddo speculatore finanziario, insensibile alla parte povera della società, contribuente modesto con ingenti ricchezze all’estero, più a suo agio nel tagliare posti di lavoro con le ristrutturazioni industriali gestite dalla sua Bain Capital. Se però il Congresso non raggiungerà in poche settimane un accordo sul bilancio, l’America cadrà nel cosiddetto “fiscal cliff ”, il baratro fiscale che produrrà tagli automatici ai servizi e alle spese della pubblica amministrazione, un gigantesco “taglio lineare” sostanziale, segno della difficoltà politica di prendere decisioni condivise. Comunque avvenga il ridimensionamento del bilancio – per scelta o per “caduta” nel baratro – esso colpirà in modo rilevante la componente militare e la proiezione esterna del Paese, giudicata dalla gran parte degli elettori come un pedaggio eccessivo al ruolo di guardiano globale, che gli altri attori internazionali conferiscono volentieri a Washington, potendosi dedicare così maggiormente alla propria condizione domestica. Ridotta in quantità, l’America nel mondo orienterà comunque anche le proprie priorità in direzioni diverse. Innanzitutto proseguirà quella progressiva curvatura verso l’Asia e il Pacifico – ciò che noi europei definiamo Estremo Oriente col nostro modo di guardare al mondo, ma che per gli americani è ben più vicino e, oltretutto, si posiziona a Occidente della propria centralità. Dal discorso di Obama a Canberra, due anni fa, dove per la prima volta fu affermata esplicitamente la nuova priorità del Pacifico rispetto all’Atlantico, l’amministrazione ha rafforzato le relazioni con vecchi e nuovi protagonisti (Giappone, India, Indonesia, Malesia e anche Birmania) costruendo una politica di soft containment verso la Cina. Nei confronti di Pechino, partner economico e commerciale, banchiere e finanziatore ma anche probabile competitore di questo secolo, Washington dovrà modulare i propri passi, cercando di scoprire le linee guida della nuova generazione di dirigenti eletti al XVIII Congresso del PCC. Se, infatti, è vero che il nuovo leader Xi Jinping era apparso ai più come un uomo aperto e consapevole degli squilibri del modello economico e sociale cinese, come una personalità innovativa, l’elezione a sorpresa durante il Congresso di molti dirigenti legati all’ala più conservatrice getta un’ombra sulla coerenza del ricambio, lungamente coltivato da Hu Jintao e Wen Jabao. 68
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L’amministrazione Obama proseguirà parimenti la strategia di graduale ridimensionamento della propria presenza in Medioriente. Se fino a ieri questa regione era indispensabile per ragioni energetiche, oggi si pone la possibilità di un alleggerimento, dato che in soli cinque anni gli Stati Uniti hanno ridotto la propria dipendenza energetica dal 60 al 42%, sono divenuti esportatori di punta di prodotti raffinati e perseguono con decisione l’obiettivo dell’autosufficienza contando sulle possibilità offerte dal gas di roccia, più in generale dall’unconventional gas. In un mondo che offre nuove possibilità in Asia, in America Latina, nel bacino del Caspio, il Medioriente appare troppo complicato da seguire e da puntellare politicamente e perciò molto costoso in termini di politiche e di risorse. I processi della primavera araba hanno già impegnato duramente l’amministrazione, lacerata in un faticoso percorso di contenimento delle incoerenze fra principi e interessi, fra la retorica politica sul valore della democrazia e il sostegno alle petro-monarchie sunnite del Golfo. Ovviamente, un’agenda più concentrata a mettere ordine in casa, reindirizzata semmai verso il Pacifico e meno ossessionata dal dover fare ovunque la differenza, potrebbe essere comunque richiamata dal disordine che regna in ogni fase di transizione multipolare. Se, ad esempio, la Russia proseguisse nella propria traiettoria involutiva, qualche altra transizione araba degenerasse in conflitto aperto, lo scontro fra Israele e Iran passasse dalle parole ai fatti, sarebbe comunque impossibile per Barack Obama girarsi dall’altra parte. A malincuore, la “potenza indispensabile” – secondo la definizione di Madeleine Albright dovrebbe comunque esercitare il proprio ruolo. Se invece così non fosse (e in fondo è meglio per tutti), Barack Obama si concentrerà su un’agenda anti-recessiva, finalizzata a una nuova stagione di crescita economica per il suo Paese. È questa la prima richiesta che viene dalle grandi minoranze etniche che lo hanno sostenuto – i latinos, gli asiatici, i neri – un paesaggio sociale profondamente mutato, democratico e progressista, sensibile alle battaglie sui nuovi diritti civili, centrato sulla coesione sociale e sullo spirito di comunità, ma meno sensibile di una volta ai grandi ideali wilsoniani sulla comunità internazionale. Barack Obama proseguirà invece la propria battaglia sul tema dei cambiamenti climatici globali: l’intreccio fra agenda energetica del Paese, possibilità di crescita di
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In un mondo che offre nuove possibilità in Asia, in America Latina, nel bacino del Caspio, il Medioriente appare troppo complicato da seguire e da puntellare politicamente.
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un’economia verde, ripetizione eccessiva di fenomeni metereologici eccezionali con danni spaventosi, rendono questo tema un incrocio interessante fra politica interna e internazionale e sollecitano le corde di una sensibilità popolare in forte aumento. Meno America nel mondo (anche se gradualmente), meno America nelle regioni a noi vicine comporta automaticamente più spazio, più responsabilità, perfino obbligata, per l’Europa. Quale sarà, dunque, l’agenda dell’Europa, nel 2013 e all’indomani delle prossime elezioni europee del 2014? Sarà all’altezza di un’inedita stagione di multipolarismo? Questo è però un altro argomento. E dunque è meglio fermarsi qui.
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La politica estera nel segno della continuità Umberto Ranieri
è è Presidente delle Fondazione Mezzogiorno Europa
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iversamente da quanto comunemente si crede, nel corso della campagna elettorale per le presidenziali americane le questioni relative al ruolo degli Usa nel mondo hanno avuto spazio. Sono emersi due differenti approcci ai problemi più complessi e spinosi della situazione internazionale: dal rapporto con la Cina al Medio Oriente, dal nucleare iraniano alla eterna questione palestinese. Nelle presidenziali di quattro anni or sono giocarono a favore di Obama non solo questioni economiche. Ebbe un peso nella vittoria del candidato democratico anche il fattore politica estera. Gli Usa erano coinvolti con pesanti conseguenze in termini di vite umane in ben due conflitti. La maggioranza degli americani manifestò la sua contrarietà soprattutto alla guerra in Iraq combattuta per motivi sostanzialmente infondati e sollecitò una via d’uscita per il conflitto in Afghanistan. Ad Obama si chiedeva di riparare l’immagine internazionale degli Usa pesantemente danneggiata durante gli anni di Bush. Con Obama si è avviato il ritiro delle truppe americane dai due teatri di guerra. Scelta inevitabile malgrado la stabilizzazione per entrambe le situazioni sia di là da venire. Obama ha portato avanti un indirizzo di politica estera più cauto, collaborativo e multilaterale sostenuto da una opinione pubblica prostrata dalle più lunghe guerre mai combattute dagli Stati Uniti e scettica rispetto agli effettivi risultati ottenuti o raggiungibili. Nel complesso si è consolidata l’immagine di Obama come leader pronto ad ascoltare la voce altrui e ad agire nel solco di una radicata tradizione di liberalismo multilaterale, 71
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Per ragioni di budget e per l’affaticamento che vivono le forze armate statunitensi dopo un decennio di impegni militari in Iraq e in Afghanistan, Washington continuerà a manifestare una insofferenza verso interventi militari all’estero.
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rispettoso del diritto internazionale e dell’opinione pubblica mondiale. E’ riuscito a parlare, sostiene Mario Del Pero, un linguaggio liberale, cosmopolita e inclusivo capace di affascinare l’Europa che ha accolto con soddisfazione la sua rielezione. In politica estera ha messo da parte gli approcci nazionalisti e unilaterali che producevano rigetto e ostilità di gran parte del mondo. Proseguirà su questa linea? Quali previsioni si possono formulare? Difficile immaginare mutamenti repentini. La politica estera sarà probabilmente il campo in cui si manifesterà la maggiore continuità tra primo e secondo mandato. Non è da escludere che il primo biennio del nuovo mandato presidenziale vedrà uno sforzo teso ad affrontare due questioni cruciali e intrecciate tra di loro: Israele e il nucleare iraniano. Garantire la sicurezza di Israele spingendo il governo dello Stato ebraico a compiere passi decisi verso la ripresa di un negoziato per riconoscere il diritto dei palestinesi al loro Stato, questo il difficile obiettivo. Per quanto riguarda Teheran, l’idea di neutralizzare militarmente l’Iran sarà una delle questioni cruciali con cui dovrà misurarsi Obama nel suo secondo mandato. Il ricorso alla forza non potrà essere escluso a priori ma è ovvio che una avventura bellica nel Golfo avrebbe conseguenze rovinose. Sono queste le sfide in Medio Oriente. Occorrerà inoltre un ripensamento della politica americana verso il mondo arabo investito da trasformazioni e cambiamenti spesso drammatici. Un mondo verso il quale fu Obama agli inizi del suo primo mandato ad avviare una politica del dialogo. Oggi il problema è sotto gli occhi di tutti: scongiurare che a prevalere nel sommovimento nel mondo arabo siano forze che si ispirano al fondamentalismo, aggressive verso l’Occidente. Il punto drammatico è la Siria. Per ragioni di budget e per l’affaticamento che vivono le forze armate statunitensi dopo un decennio di impegni militari in Iraq e in Afghanistan, Washington continuerà a manifestare una insofferenza verso interventi militari all’estero. Insofferenza emersa nella vicenda libica e evidente nella cautela con cui si ipotizza un intervento in Siria. E tuttavia non è da escludere, come prevede Gilles Kepel, che i colonnelli laici che hanno abbandonato Bashar al Assad e che reggono l’esercito libero siriano siano scavalcati dai gruppi jihadisti i quali combattono questa guerra in modo confessionale. Come impedire che ciò accada e allo stesso
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tempo sostenere la lotta contra il regime di Assad? Problema spinosissimo. L’altro dossier aperto e che occuperà gran parte dell’attenzione della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato è quello cinese. La Cina è già il primo interlocutore strategico degli Usa. La rielezione di Obama ha coinciso con la designazione del nuovo leader cinese. Una leadership che dovrà fare i conti con sfide impegnative: sviluppo del mercato interno, riduzione delle enormi disuguaglianze che si sono create, miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni delle aree interne di uno sterminato paese. Obiettivi da raggiungere a condizione che siano mantenuti i livelli di crescita e che il paese continui ad attrarre investimenti esteri. Ce la farà il nuovo gruppo dirigente cinese a muovere in questa direzione? Sono problemi enormi in un paese che dal punto di vista del sistema politico appare ancora un enigma: a trent’anni dalla fine del maoismo le condizioni di uno stato di diritto sono lungi dall’essere una realtà. Cosa sarà la Cina popolare a medio termine per gli Usa? Un partner o un rivale? Per affrontare problemi da cui dipende l’ordine dell’intero sistema internazionale Obama appare consapevole della necessità di consolidare l’approccio multilaterale. Nemmeno la straordinaria concentrazione di potenza dell’America è sufficiente da sola ad assicurare stabilità e sicurezza in un mondo globale attraversato da tensioni e rivalità. Per quanto concerne la crisi economica e finanziaria, se è vero che senza una ripresa degli Stati Uniti non sarà possibile alcuna soluzione duratura alla crisi, è allo stesso tempo vero che una soluzione non potrà che fondarsi su un assetto economico globale più equilibrato. Nel contesto di un mondo multipolare le relazioni transatlantiche possono ritrovare il proprio originario carattere strategico. Rafforzare le relazioni tra i due pilastri dell’Occidente, Europa e Usa, in una fase in cui all’ordine del giorno incalza la riscrittura delle regole di governo del sistema economico- finanziario globale, è di notevole importanza per entrambi .Si è parlato poco di Europa in campagna elettorale. E tuttavia Obama è apparso, a partire dalla seconda metà del suo primo mandato, consapevole della rilevanza crescente di un euro in salute e di una Europa politicamente più unita per garantire la stabilità del sistema internazionale. Sono lontani i tempi in cui gli americani temevano un euro forte.
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L’altro dossier aperto e che occuperà gran parte dell’attenzione della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato è quello cinese.
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Oggi a far paura è un euro e una Europa deboli. La centralità del rapporto euroamericano impone tuttavia chiarezza sulle responsabilità e sugli interessi comuni. Chiede soprattutto una Europa più unita e più forte. Sta agli europei convincere gli Usa che “la locomotiva europea si è rimessa in movimento e che le prossime scadenze, rafforzamento politico dell’Unione attraverso l’unione bancaria, la governance comune dell’eurozona, consentiranno di procedere verso una Unione politica autorevole e responsabile”. Una Unione in grado di assumersi responsabilità sulla scena del mondo globale. Del resto la stagione multilaterale promossa da Obama potrà proseguire a condizione che il pilastro europeo della alleanza euro atlantica si rafforzi, consolidi la propria unità. Una Europa che voglia muovere in questa direzione dovrà giungere ad una maggiore coesione al proprio interno acquisire più nettamente i caratteri di soggetto politico unitario in grado di assumersi responsabilità nel governo della sicurezza. È questa la condizione per contare sulla scena internazionale e nel rapporto con gli Usa di Obama.
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Gli Usa si volgono all'Asia Ugo Papi
è è Responsabile Asia e Pacifico PD
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essuno può più mettere in dubbio la crescente importanza e centralità dell’Asia e del Pacifico. Negli ultimi anni il baricentro dello sviluppo economico si è prepotentemente spostato ad est. È in questa area del mondo che si giocherà una partita decisiva sul piano geopolitico. L’attore principale di questa rivoluzione che tenderà a cambiare radicalmente i paradigmi di riferimento della politica estera, diplomatica ed economica del nostro pianeta è la Cina, con la sua prepotente ascesa come grande potenza. Ma non bisogna dimenticare il peso dell’India, dell’insieme dell’area del sud est asiatico riunita nell’Asean, ne vanno messe da parte Corea e Giappone, sempre divise tra i tradizionali legami con gli Usa e le nuove prospettive di integrazione economica con la Cina e il resto del continente. In questo contesto gli Stati Uniti hanno già riorientato la loro politica estera e di difesa. Nel gennaio del 2012 il Dipartimento della Difesa ha approvato le nuove linee strategiche nel documento “ Sustaining US Global Leadership: Priorities for 21st Century Defense”. Le nuove linee guida hanno ufficializzato quello che il Presidente Obama aveva già dichiarato solennemente di fronte al Parlamento australiano alla fine del 2011, e cioè che l’area Asia-Pacifico è in testa alle priorità della sicurezza Usa e il taglio delle spese della difesa non riguarderà la regione. Alla base della nuova strategia americana “Pivot to Asia” ci sono quattro motivi fondamentali : 1) La crescente influenza economica e finanziaria dell’Asia. 2) La nuova forza militare della Cina che in futuro potrebbe minacciare l’accesso degli Usa allo spazio aereo, navale e spaziale del Pacifico che dopo la seconda guerra mondiale, era nelle 75
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Alla base della nuova attenzione verso l’Asia, rimangono la stabilità, la libertà di navigazione, i liberi commerci, la promozione della democrazia e dei diritti umani.
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disponibilità dell’America. 3) Le risorse che Washington vede liberarsi dopo la fine della guerra in Iraq e l’avviata transizione in Afghanistan. 4) Il diminuito peso dell’Europa, soprattutto sul piano geopolitico, che rende possibile lo spostamento di forze Usa dal vecchio continente. Il nuovo approccio Usa parte dalla convinzione che, con la fine della guerra fredda, l’Europa non è più minacciata e quindi non rappresenta più una priorità in termini di sicurezza. Per questo il piano prevede il ritiro di due delle quattro brigate dell’esercito dispiegate in Europa, lo smantellamento di uno dei quartier generali, la disattivazione di due squadre aeree e la cancellazione di quattro basi tedesche. Gli obiettivi americani sembrano gli stessi, ma a cambiare è la geografia degli interessi Usa. Alla base della nuova attenzione verso l’Asia, rimangono la stabilità, la libertà di navigazione, i liberi commerci, la promozione della democrazia e dei diritti umani. Obama non ha perso tempo e la nuova strategia già è evidente: prossimamente 2500 marines si sposteranno in Australia, per rafforzare il legame con il tradizionale alleato. Da un anno, i soldati americani hanno cominciato a fare rotazioni regolari presso una base militare a Darwin. Gli Stati Uniti stanno inoltre trattando con le Filippine per ampliare la presenza delle proprie forze nella ex colonia, mentre intensificano le relazioni militari anche con il Vietnam e la Nuova Zelanda. E la base navale americana di Guam nell’Oceano Pacifico, tra le più grandi al mondo, verrà ampliata entro il 2014. Proprio l’Australia ha già mutato radicalmente i suoi rapporti con la Cina a partire dagli anni 90. Pechino è sempre alla ricerca di fonti di approvvigionamento e il continente australe è ricchissimo di materie prime. Oggi il dragone cinese è il primo partner commerciale di Canberra e i legami commerciali sempre più stretti creano una evidente difficoltà ai tradizionali alleati degli Stati Uniti nell’area. È proprio la crescente importanza della Cina a preoccupare gli Usa. I paesi della regione trovano tutti beneficio dai nuovi legami economici con Pechino, ma ciò può alla lunga spostarne molti verso l’area di influenza politica della Cina. Se questo è vero per tradizionali alleati di Washington, come l’Australia, il Giappone, la Corea del Sud e le Filippine, appare ancora più evidente per paesi meno “allineati”, come alcune nazioni del sud est asiatico o dell’Asia centrale. La politica estera e di difesa cinese è cambiata sensibilmente
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negli ultimi dieci anni, come messo bene in rilievo dal “Diciassettesimo rapporto sull’economia globale e l’Italia” curato da M. Deaglio. All’inizio del secolo i cinesi vedevano l’ordine internazionale come “ingiusto e irrazionale, bisognoso di cambiamenti radicali”, mentre ora è giudicato più equilibrato, caratterizzato da una sempre maggiore interdipendenza economica globale e dall’affacciarsi di nuovi protagonisti emergenti sulla scena internazionale. Sparite le tensioni della guerra fredda , la “fase unipolare” americana del decennio scorso e superati gli scogli dei negoziati per l’accesso cinese alle principali organizzazioni internazionali come il WTO, la Cina si sente più sicura di se di fronte ad un indebolito occidente. Nel Libro Bianco della Difesa Nazionale del 2011, Pechino ha abbandonato l’atteggiamento prudente e attendista dell’era Deng Xiaoping e si impegna in una politica proattiva e più assertiva nell’arena internazionale, a partire dall’area asiatica e pacifica. Da qui i toni minacciosi di Pechino degli ultimi tempi sulla sovranità delle isole contese con Giappone, Vietnam, Filippine e Taiwan. Nello stesso tempo il lancio della “coesistenza competitiva” tra Stati Uniti e Cina vede ora impegnata Pechino a rompere quello che ancora è visto come un accerchiamento dell’”Impero di mezzo” da parte degli Usa. Da tempo i cinesi hanno rafforzato la loro presenza economica nell’Afghanistan, presto libero dall’ipoteca americana, con la costruzione di autostrade e l’acquisizione di diritti minerari. La stessa politica si dispiega nel Tajikistan con il potenziamento delle rete stradale per raggiungere Uzbekistan e Kazakistan e a sud, attraverso il Kashmir con una nuova rete autostradale per avere facile accesso al porto pakistano di Gwadar nell’oceano indiano. Porti e infrastrutture viarie sono da tempo progetti avviati in Birmania, Sri Lanka, Bangladesh. Una “collana di perle” che proietta la Cina oltre il Pacifico, bypassando lo stretto di Malacca per il trasporto di materie prime, controllato dagli americani e dai suoi alleati. Appena rieletto, Obama si è affrettato a rafforzare la nuova politica asiatica con un viaggio in Thailandia e, per la prima volta di un presidente Usa, in Birmania e Cambogia. In questa missione gli Usa hanno reso evidente il loro intendimento nello spostare risorse politiche, militari e economiche verso l’estremo oriente. Per gli Usa è decisiva una nuova Trans-Pacific Partnership, come
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Da tempo i cinesi hanno rafforzato la loro presenza economica nell’Afghanistan, presto libero dall’ipoteca americana, con la costruzione di autostrade e l’acquisizione di diritti minerari.
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area di libero scambio tra le due sponde del Pacifico ma senza la Cina, e la risoluzione pacifica delle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, che Washington vorrebbe risolvere multilateralmente, mentre Pechino preferisce un approccio bilaterale. Anche nella tappa birmana è apparso evidente come gli Usa puntino a integrare il paese delle pagode nella comunità internazionale dopo la sorprendente apertura democratica, sganciando Rangoon dall’ingobrante dipendenza da Pechino, alla quale il Myanmar era costretto dalle sanzioni occidentali. Non va dimenticato che furono proprio gli Usa, preoccupati del ruolo crescente della Cina, a cambiare improvvisamente politica nei confronti della Birmania già a metà del 2010, cioè ben prima della svolta democratica del paese di Aung San Suu Kyi. Fu Obama a stringere la mano del Primo Ministro Tein Sein, allora generale della giunta militare e oggi presidente protagonista della svolta democratica, nella quale il nuovo atteggiamento Usa ha sicuramente avuto il suo peso. Stesso discorso vale per la Cambogia, che pure resta saldamente alleata di Pechino ma alla quale Obama ha voluto offrire una prospettiva diversa. A rendere complessa la strategia fin qui descritta delle due grandi potenze restano molte varianti di difficile soluzione. Intanto non può essere sottovalutato il peso di altri importanti protagonisti, India e Russia in primis, che non rinunciano a giocare un loro ruolo di potenze regionali poco disposte a cadere sotto l’influenza di Washington o Pechino. Ma ancora più complicata è la partita economica che vede Cina e Usa strettamente interdipendenti. Un innalzamento della tensione sullo scacchiere asiatico e pacifico, non potrebbe che nuocere ad entrambe e di riflesso al mondo intero. Ma per fortuna, questo aspetto non può che giocare in prospettiva alla risoluzione pacifica di contrasti e conflitti futuri. Per l’America rimangono decisive anche le vicende medio orientali dalle quali Washington pur volendo, non può distogliere l’attenzione. Resta poi sullo sfondo il ruolo di un Europa in fase introspettiva, ancora concentrata sui suoi problemi economici e finanziari e assai lontana dal poter svolgere un ruolo politico di primo piano nell’area del mondo ormai più dinamica e importante.
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Gli Usa e l'America latina Massimo De Giuseppe
insegna Storia Contemporanea allo IULM di Milano
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ento anni dopo la campagna elettorale che contrappose il democratico Woodrow Wilson al repubblicano Teddy Roosevelt, Barack Obama ha sconfitto il suo rivale Mitt Romney, ottenendo il secondo mandato presidenziale. Il richiamo non è aneddotico, perché in entrambe le campagne, quella del 1912 e quella del 2012, l’America latina è rimasta formalmente fuori dai dibattiti presidenziali, pur rappresentando un convitato silenzioso. Nel 1912 le rapide evoluzioni della rivoluzione messicana ponevano la Casa Bianca di fronte a nuove incognite, legate ai possibili effetti destabilizzanti della guerra e al futuro dei pozzi del Golfo, ambiti da altri attori storici (britannici) e potenziali (tedeschi). Nel 2012 Washington deve invece confrontarsi non solo con le acque, spesso burrascose, del Río Bravo, bensì con le pressioni di un subcontinente in rapido movimento, ricco di risorse e contraddizioni ma sempre più direttamente e autonomamente inserito in un contesto globale di interdipendenze accelerate. Gli esperti si sono divisi sulle Western Hempisphere policies del primo mandato Obama. Secondo alcuni avrebbe prevalso un generale disinteresse, tradotto in un disimpegno regionale; altri hanno rimarcato la distanza tra i proclami pre-elettorali e le scelte di realpolitik; c’è perfino chi ha intravisto proprio su quest’asse geopolitoco i segni di un declino di Washington e della sua leadership globale; chi infine ha ravvisato un’inerzia, manifestatasi nella continuità tra l’amministrazione Obama e quella Bush jr (e tra questa e la Clinton). Secondo lo storico Greg Grandin ciò sarebbe giustificato dalle esigenze di sopravvivenza del neo-liberascambismo continentale che
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avrebbe interrotto una tendenza alla discontinuità nelle relazioni interamericane (si pensi alla cesura Reagan-Carter o tra aperture kennedyane e dottrina Kissinger). Fallito nel 2004 il piano dell’amministrazione Bush di creare un’unica area di libero-scambio continentale (Alca), estensione ideale del Nafta (1994) e del Cafta (2003), la Casa bianca ha ripiegato sulla stipula di trattati bilaterali, come quello con la Colombia (cui pure Obama si era opposto da senatore). I sostenitori di questa tesi richiamano anche la mancata chiusura della base di Guantanamo, intesa come primo passaggio di un’ipotetica revisione delle relazioni con il regime castrista. Paradossalmente la rigidità su Cuba ha prodotto però un inedito isolamento continentale di Washington. Questo si è manifestato nella crisi dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa) ed è culminato nel mancato invito di Usa e Canada nella Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños (Celac) sorta nel febbraio 2010. Eppure, il quadro è meno statico di quanto possa apparire a prima vista. Emblematica risulta la sottostimata missione latinoamericana di Obama della primavera 2011, nei giorni della crisi libica. Il viaggio era in tre tappe, ognuna a suo modo simbolica. La prima, in Brasile, per riprendere con Dilma Roussef il discorso avviato con Lula su scambi commerciali e cooperazione tecnica. La seconda, in Cile, dove Obama non si è limitato a sigillare l’Alleanza transpacifica con i paesi «amici» dell’area (Cile, Perù e Messico) ma ha lanciato un esplicito richiamo all’Alleanza per il progresso. Infine, terza tappa, il piccolo El Salvador, dove si era consumata una delle tragedie della «nuova guerra fredda». Lì Obama ha legittimato un tutt’altro che scontato riconoscimento alla decisione dell’Assemblea dell’Onu di fissare nel 24 marzo (giorno dell’omicidio di mons. Romero) la giornata internazionale per il diritto alla verità sulle violazioni di diritti umani. Questi gesti sono stati derubricati a puri atti formali ad uso dell’immaginario progressista, in compensazione del danno arrecato dalla pubblicazione dei file latinoamericani di Wikileaks, mentre gli aiuti calavano (del 9% nel preventivo 2013) e la gestione diplomatica delle crisi di Honduras (2009) e Paraguay (2012) sollevava più di una perplessità. Eppure questi piccoli segni hanno un valore, culturale, diplomatico e politico. Al pari, l’aver abbassato i toni dello scontro ideologico con Chávez e il blocco dell’Alleanza Bolivariana (Venezuela, Ecuador, Bolivia, Cuba, Nicaragua, ...) ha
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Emblematica risulta la sottostimata missione latinoamericana di Obama della primavera 2011, nei giorni della crisi libica. Il viaggio era in tre tappe, ognuna a suo modo simbolica.
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Il crescente peso geopolitico e diplomatico di Brasilia, trainata dalla Petrobras e dai primi segni di riassestamento sociale interno, si sta manifestando anche oltre l’orizzonte dei Brics
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giovato a rasserenare il clima, a più livelli. Questo mutamento silenzioso potrebbe incidere sulla cooperazione emisferica in termini più concreti della modesta agenda del vertice di Cartagena dello scorso aprile. Alcuni passaggi del summit dei G20 (di cui fan parte Brasile, Messico e Argentina), celebratosi in giugno a Los Cabos, sembrerebbero rivelatori in tal senso, così come le aperture di Obama sulla concessione di un seggio al Brasile come membro permanente del Consiglio di sicurezza. Il crescente peso geopolitico e diplomatico di Brasilia, trainata dalla Petrobras e dai primi segni di riassestamento sociale interno, si sta manifestando anche oltre l’orizzonte dei Brics, in seno al Wto e nelle agenzie Onu. La prossima organizzazione di mondiali di calcio e Olimpiadi ne dovrebbe rimodellare (anche in senso regionale) il fragile apparato infrastrutturale. Mentre l’Ue rischia di restare indietro nella partita degli investimenti in America latina, che vede viceversa protagonisti Cina, Corea, Giappone, paesi del Golfo e Russia (più presente oggi che ai tempi della guerra fredda), Washington ne sta percependo i rischi. Pur senza rinunciare alle basi militari (perduta quella di Manta in Ecuador si è affrettata a rafforzare quella di Mariscal Estigarríbia in Paraguay), comincia infatti a guardare con occhi diversi i processi d’integrazione latinoamericani. Nel secondo mandato Obama dovrà formulare una nuova politica, anche in termini di influenza sulle scelte degli organismi di Bretton Woods (delicate dopo la crisi tra Argentina e Fmi). Il quadro è mutato rispetto agli anni ’90, quando le maquiladoras, con basso costo del lavoro, e la migra selvaggia erano la b-side della New Economy. La crisi economica ha inciso nelle relazioni continentali anche attraverso un’inversione dei trend migratori; dopo quarant’anni di crescita dei flussi verso nord, i migranti messicani illegali negli Usa sono scesi dai 7 milioni del 2010 ai 6 scarsi del 2012, producendo una stagnazione delle rimesse contraria al trend globale (crescita nel 2012 del 6,9%, per un ammontare di 534 miliardi di dollari). C’è infatti anche un’altra dimensione del consolidamento delle relazioni interamericane e la recente campagna elettorale l’ha riportata chiaramente alla luce: il peso dei latinos negli Usa. Questi sono oggi circa 53 milioni, più del 17% della popolazione totale (il 38,6% in New Mexico, il 26% in Texas, il 25,6% in California). Il 71% dei latinos ai seggi, 12,5 milioni su 24 aventi diritto (5,4 sono invece i
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residenti senza diritto di voto, 7,1 i clandestini e 17,8 i minorenni) ha votato Obama. Eppure nelle sfide tv, questi non aveva mai citato l’America latina, mentre Romney aveva accusato il rivale di «debolezza» di fronte alle presunte minacce di Chávez e Raúl Castro. Semmai sulla crisi repubblicana hanno pesato fattori inediti: l’invecchiamento dell’elettorato anticastrista cubano (concentrato in Florida) e la reazione popolare alla Ley Arizona del 2010 della repubblicana Jan Brewer. Inoltre conta il peso dei messicani tra i latinos (oltre 33 milioni, a fronte di una spiccata frammentazione delle altre comunità), nazionalisti per cultura e ancora scottati dal muro eretto dall’amministrazione Bush lungo la frontiera. Infine c’è la grande partita della lotta al narcotraffico che ha insanguinato in particolare il corridoio centroamericano. Il modello del Plan Mérida per il contrasto al «narcoterrorismo» (costato al solo Messico 70.000 vittime nei sei anni di presidenza Calderón), basato sull’opzione militare, non ha risolto il problema. La riapertura del dibattito sulla legalizzazione delle droghe come forma di contrasto alla criminalità organizzata (che ha coinvolto perfino l’ex presidente messicano Fox e il colombiano Santos) è un altro segnale del cambiamento in atto. Le recenti ammissioni di Obama su un necessario cambio di strategia, dovrebbero porre le basi per affrontare in termini nuovi e integrati violenza e disuguaglianze sociali. Si tratta di una partita ampia che va ben oltre l’attività di Dea e Us Southern Command ma che investe anche le politiche valutarie (per la ricaduta sul debito estero dei paesi sudamericani), fiscali, il sostegno al Welfare e l’azione degli organismi multilaterali. Un nuovo processo d’integrazione americana potrebbe aprire spiragli interessanti in tal senso, trasformando il regionalismo da un problema irrisolto in un’opportunità da governare e far maturare in un’area del mondo ancor oggi profondamente pluriculturale. 83
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Obama, diScOrSO per la rieleziOne, chicagO 6 nOvembre 2012
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tanotte, a più di 200 anni dopo che una ex colonia si è conquistata il diritto di determinare da sola il suo destino, l'impegno nel perfezionamento dell'unione continua. Va avanti grazie a voi. Va avanti perché avete riaffermato lo spirito che ha trionfato sulla guerra e la depressione, che ha sollevato questo Paese dalla profondità della disperazione fino alle alte vette della speranza, il credere che mentre ognuno di noi insegue il suo sogno personale, facciamo però parte di una famiglia americana e insieme trionferemo o cadremo
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come una sola nazione e un solo popolo. Questa notte, in questa elezione, voi, Americani, ci avete ricordato che anche se la nostra strada è stata dura, anche se il nostro viaggio è stato lungo, ci siamo fatti forza, abbiamo combattuto, e nei nostri cuori sappiamo che il meglio per gli Stati Uniti d'America deve ancora venire. Voglio ringraziare ogni americano che ha partecipato a questa elezione, che abbia votato per la prima volta o aspettato in fila per molte ore. E questa è una cosa che dobbiamo sistemare. Che abbia calpestato marciapiedi o alzato una cornetta, tenuto
in mano un cartello per Obama o per Romney, avete fatto sentire la vostra voce e avete fatto la differenza. Ho appena parlato con il governatore Romney e mi sono congratulato con lui e con Paul Ryan per una campagna che abbiamo combattuto duramente. Possiamo avere lottato con forza, ma soltanto perché amiamo questo paese profondamente e teniamo con così tanta forza al suo futuro. Da George a Lenore fino al loro figlio, Mitt, la famiglia Romney ha scelto di donare indietro all'America molto con il proprio servizio e questa è l'eredità che onoriamo a cui plaudiamo stanotte. Nelle settimane
DOCUMENT0 scorse, ho anche pensato a un incontro con il governatore Romney per parlare di come possiamo lavorare insieme per portare avanti questo Paese. Voglio ringraziare il mio amico e partner negli ultimi quattro anni, un felice guerriero americano, il miglior vice presidente che si possa desiderare, Joe Biden. E non sarei l'uomo che sono oggi senza la donna che vent'anni fa ha acconsentito a sposarmi. Lasciatemelo dire in pubblico: Michelle, non ti ho mai amata di più. Non sono mai stato più fiero di guardare il resto dell'America innamorarsi di te, come first lady di questa nazione. Sasha e Malia, davanti ai nostri occhi state crescendo e diventando due bellissime, forti e intelligenti giovani donne, proprio come vostra madere. Sono davvero fiero di voi. Ma per ora credo che un cane sia più che sufficiente. Ai migliori volontari e al miglior staff di una campagna nella storia della politica. I migliori. I migliori di sempre. Alcuni di voi erano nuovi, altri mi sono stati accanto fin dall'inizio. Ma tutti voi siete membri di una famiglia. Da dovunque veniate e qualsiasi cosa facciate, ricorderete la storia che abbiamo scritto insieme e avrete a vita l'apprezzamento
di un presidente a voi grato. Grazie per avere creduto fino alla fine, attraverso ogni collina, ogni valle. Mi avete sollevato durante tutto il percorso e vi sarò per sempre grato per tutto quello che avete fatto e per l'incredibile lavoro svolto. So che le campagne politiche a volte sembrano piccole, persino stupide. E che ai cinici danno molto spazio per dire che la politica non è nulla più che una gara tra ego o terra di interessi particolari. Ma se mai avrete la possibilità di parlare alla gente che è venuta ai nostri rally e si è ammassata in una lunga fila nella palestra di una scuola, o vedrete persone lavorare fino a tardi in un ufficio della campagna in una piccola contea lontana da casa, scoprirete che non è così. Sentirete la determinazione nella voce di un giovane organizzatore che si fa strada verso il college e vuole che ogni bambino abbia la stessa possibilità. Sentirete l'orgoglio nella voce di una volontaria che va di porta in porta perché suo fratello è finalmente stato assunto quando la fabbrica di auto ha aggiunto un turno ulteriore alla produzione. Sentirete il profondo patriottismo nella voce della moglie di un militare che sta al telefono fino a tarda notte per assicurarsi che nessuno
che combatte per questo paese debba combattere mai per un lavoro o un tetto quando torna a casa Ecco perché lo facciamo. Ecco cosa può essere la politica. Ecco perché le elezioni contano. Non è poco, è una cosa grande. È importante. La democrazia in una nazione di 300 milioni di persone può essere caotica e complicata e rumorosa. Abbiamo ognuno la propria opinione. Ognuno ha cose in cui crede. E quando attraversiamo momenti difficili, quando prendiamo grandi decisioni come paese, questo necessariamente mette in campo passioni e controversie. Tutto questo non cambierà dopo stanotte, e non deve farlo. Tutto ciò è simbolo della nostra libertà. Non possiamo dimenticare che, mentre parliamo, persone in nazioni lontane rischiano la propria vita per la possibilità di discutere sulle cose che contano, di dare il loro voto, come noi abbiamo fatto oggi. Ma nonostante le nostre differenza, molto di noi condividono certe speranze per il futuro dell'America. Vogliamo che i nostri figli crescano in un paese dove abbiano accesso alle migliori scuole e all'insegnamento dei migliori docenti. Un paese che porti avanti la propria leadership nella 87
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Per il buon governo delle città
tecnologia, e nell'innovazione e nelle scoperte, con tutto il lavoro e le possibilità di impiego che ne conseguono. Vogliamo che i nostri figli vivano un America che non è oberata dai debiti, che non è indebolita dalle disuguaglianze, che non è minacciata dal potere distruttivo del riscaldamento globale. Vogliamo cedere ad altri un paese sicuro e rispettato e ammirato nel mondo, una nazione difesa dall'esercito più forte della terra e dalle truppe migliori che questo mondo abbia conosciuto. Ma anche un paese che si muova con sicurezza oltre questi tempi di guerra, per arrivare a una pace costruita sulla promessa di libertà e dignità per ogni uomo.
una vita al di là dell'angolo della sua strada. Al figlio di un operaio del Nord Carolina che vuole diventare un dottore o uno scienziato, un ingegnere o un imprenditore, un diplomatico o persino un presidente. Questo è il futuro che vogliamo. Questa la visione condivisa. Ecco verso cosa dobbiamo andare - avanti. Ecco cosa dobbiamo fare. Ora, saremo in disaccordo, spesso duramente, su come arrivare a tanto. Come è stato per due secoli, il progresso inizierà. Non sarà sempre una linea retta, né una strada facile. Sapere che abbiamo speranze e sogni comuni non metteranno termine alle discordie né risolveranno da sole problemi o sostituiranno
campagna si è appena conclusa. E che io abbia meritato o meno il vostro voto, vi ho ascoltato, ho imparato da voi, e mi avete reso un presidente migliore. E con le vostre storie e le vostre fatiche, torno alla Casa Bianca più determinato e ispirato che mai, con in mente il lavoro che deve essere fatto e che il futuro è di fronte a noi. Stanotte avete votato per agire, non per la politica come è di solito. Ci avete eletto per concentrarci sul vostro lavoro, non sul nostro. E nelle prossime settimane e mesi, cercherò di lavorare con i leader di entrambi i partiti per rispondere alle sfide che possiamo risolvere soltanto unite. Ridurre il deficit. Riformare il sistema fiscale. Sistemare il nostro
la demOcrazia in una naziOne di 300 miliOni di perSOne puO’ò eSSere caOtica e cOmplicata e rumOrOSa. abbiamO OgnunO la prOpria OpiniOne Crediamo in un'America generosa, in un'America che ha compassione, in un'America tollerante, aperta ai sogni della figlia di un immigrato che studia nelle nostre scuole e crede nella nostra bandiera. A un giovane delle zone più povere di Chicago che vede 88
il lavoro di costruire consenso e arrivare al difficile compromesso necessario per portare avanti questo paese. Ma il legame che condividiamo è il punto da cui iniziare. La nostra economia sta guarendo. Una decade di guerra sta finendo. Una lunga
sistema di immigrazione. Liberarci dal petrolio straniero. Abbiamo molto lavoro da fare. Ma questo non significa che il vostro lavoro sia finito. Il ruolo dei cittadini nella nostra democrazia non finisce con il voto. Non abbiamo mai pensato a cosa
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l'America possa fare per noi, ma a cosa possiamo fare insieme, nel lavoro duro e frustrante, ma necessario, dell'auto-governo. Ecco su cosa siamo stati fondati. Questo paese ha più ricchezze degli altri, ma non è questo a farci ricchi. Abbiamo l'esercito più potente della storia, ma non è questo a farci forti. Le nostre universitò, la nostra cultura sono l'invidia del mondo, ma non è questo che fa
approdare il mondo alle nostre coste. Quello che rende eccezionale l'America è il legame che tiene insieme le nazioni più diverse sulla faccia della terra. Il credere che il nostro destino è condiviso. Che questo paese funziona solo se accettiamo di avere obbligo ognuno nei confronti dell'altro e verso le generazioni future. La libertà per cui così tanti americani hanno combattuto e sono
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morti porta tanto diritti quanto responsabilità. E tra i diritti ci sono amore, carità, doveri e patriottismo. Questo fa l'America grande. Stanotte spero perché ho visto lo spirito dell'America in azione. L'ho visto nei proprietari di aziende a conduzione famigliare che preferiscono tagliarsi lo stipendo che lasciare a piedi i vicini, e nei lavoratori che si tagliano le ore di lavoro piuttosto che farlo perdere a 89
un amico. L'ho visto nei soldati che si rimettono in lista dopo avere perso un arto e nei SEAL che fanno il loro dovere nel buio e nel pericolo perché sanno di avere un compagno che gli guarda la schiena. L'ho visto nel New Jersey e a New York, dove i leader dei partiti e gli uomini del governo hanno messo da parte le loro differenze per aiutare una comunità a rimettersi in piedi dopo i danni causati da un terribile uragano. E l'ho visto l'altro giorno a Mentor, in Ohio, dove un padre ha raccontato la storia della figlia di otto anni, la cui lunga battaglia contro la leucemia non è costata tutto alla famiglia solo per la riforma della sanità, approvata pochi mesi prima che la compagnia assicurativa smettesse di pagare per la sua salute. Ho avuto l'opportunità di
ogni americano vuole un futuro luminoso. Ecco come siamo. Ecco il paese che sono fiero di guidare come presidente. E stanotte, nonostante tutto quello che abbiamo passato, nonostante le frustrazioni di Washington, non sono mai stato più speranzoso riguardo al futuro. Riguardo all'Amertica. E vi chiedo di sostenere questa speranza. Non sto parlando di ottimismo cieco, di quella speranza che ignora l'enormità delle sfide sul nostro percorso. Né dell'idealismo che permette di sederci a lato e sottrarci ad una sfida. Ho sempre creduto che la speranza è così ostinata dentro di noi, nonostante tutto, che ci aspetta qualcosa di meglio, se abbiamo il coraggio di continuare a tendere verso ciò, di
certezze per la middle class. Credo che possiamo mantenere le promesse dei nostri fondatori, nell'idea che se si è disposti a lavorare sodo, non importa chi sei o da dove viene o che faccia hai o chi ami. Non importa se sei nero o bianco o ispanico o asiatico o indiano d'America o giovane o vecchio o ricco o povero, abile, disabile, gay o etero. Se hai voglia di provare in America puoi farcela! Credo che possiamo afferrare il futuro insieme perché non siamo divisi come suggerisce la nostra poltica. Non siamo cinici come credono i nostri esperti. Siamo più grandi della somma delle nostre ambizioni individuali, e rimaniamo più di una manciata di stati blu e rossi. Siamo e saremo per sempre gli Stati Uniti d'America. E con il vostro aiuto e la
hO Sempre credutO che la Speranza e’ cOSi’ì OStinata dentrO di nOi, nOnOStante tuttO, che ci aSpetta qualcOSa di megliO, Se abbiamO il cOraggiO di cOntinuare a tendere verSO ciO’, di cOntinuare a lavOrare, di cOntinuare a lOttare parlare con il padre e di incontrare la sua incredibile figlia. E quando ha parlato alla folla, ogni genitore in quella stanza aveva lacrime agli occhi, perché sapevamo che quella bambina poteva essere nostra figlia. E so che
continuare a lavorare, di continuare a lottare. America, io credo che possiamo costruire sul progresso che abbiamo ottenuto e continuare a lottare per nuovi lavori e nuove opportunità e nuove
grazia di Dio continueremo il nostro percorso e ricorderemo al mondo perché viviamo nella nazione più grande del mondo. Grazie, America. Dio ti benedica. Dio benedica questi Stati Uniti.
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