NUMERO 12 NOVEMBRE 2012
Concilio, cinquant'anni ma non li dimostra contributi di Giovanni Bianchi • Stefano Ceccanti • Fulvio De Giorgi • Severino Dianich • Guido Formigoni Giuseppe Grampa • Raniero La Valle • Martino Liva • Virgilio Melchiorre • Franco Monaco • Serena Noceti Luigi Pedrazzi • Albertina Soliani • Bartolomeo Sorge • Mario Tronti • Sergio Zavoli
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SOMMARIO FOCUS
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COMUNICAZIONE progetto grafico/sito internet dol - www.dol.it
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Guido Formigoni
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Memoria e attualità del Concilio Raniero La Valle
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I bolognesi Lercaro e Dossetti al Concilio Luigi Pedrazzi
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Per un nuovo illuminismo, una svolta nel pensiero cristiano
Virgilio Melchiorre
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Il Concilio nella storia del novecento
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I conti aperti con il mondo moderno Mario Tronti Il cattolicesimo tra passato e futuro Fulvio De Giorgi
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Benedetto XVI e la dichiarazione sulla libertà religiosa Stefano Ceccanti Cattolici e politica oggi, nel solco del Concilio Bartolomeo Sorge La donna nel Concilio Albertina Soliani Martini, vescovo del Concilio Giuseppe Grampa La Chiesa di Martini. Più profezia, meno politica Giuseppe Grampa Il Senatore del PD Sergio Zavoli intervista Mons. Loris Capovilla
Riforma della Chiesa e della politica. Due incompiute Giovanni Bianchi
ALTRI CONTRIBUTI
Domanda di laicità Serena Noceti Una Chiesa di laici nella società democratica Severino Dianich
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Voci dall'interno del PD. Il viaggio I. Scalfarotto Martino Liva
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FOCUS
Concilio, cinquant'anni ma non li dimostra
Il Concilio nella storia del Novecento Guido Formigoni
Insegna Storia contemporanea presso l’Università Iulm di Milano
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l concilio Vaticano II non fu solo un evento ecclesiale. Ebbe un ruolo storico complessivo che non si può sottovalutare, segnando forse il momento di massimo impatto della cattolicità nella storia del Novecento. Del resto, nella tradizione, il concilio era sempre stato evento politico, oltre che ecclesiastico e liturgico, in un forte intreccio tra sacro e profano, potere e spiritualità. Casomai, eccezione era stata quella del Vaticano I, celebrato e poi interrotto drammaticamente nel 1870, nell’isolamento simbolico di una Santa Sede ormai confinata territorialmente in pochi palazzi romani. Isolamento che alludeva a una condizione del cattolicesimo romano sdegnosamente chiuso al resto del mondo e marginale nell’opinione corrente, come mai in passato. Già il modo in cui papa Giovanni presentò il progetto di convocare un nuovo evento conciliare, il 25 gennaio 1959, iniziò a mutare sensibilmente il clima. A parte la novità di una convocazione mirata semplicemente «ad edificazione ed a letizia di tutto il popolo cristiano», l’inedita apertura alla prospettiva del dialogo con i cristiani «separati» colpì molti osservatori esterni. La fase preparatoria si sviluppò poi in modo piuttosto routinario, anche se la consultazione dei vescovi del mondo fu ampia e importante. Ma l’evento concilio doveva colpire l’immaginario diffuso, soprattutto a partire dallo stesso carattere straordinario di un’assemblea di circa 2400 vescovi, patriarchi e cardinali, con gli osservatori delle altre confessioni cristiane. Tale sensibilità si acuì quando si cominciò a percepire, dopo poche settimane di lavori, che tale assemblea non era stata convocata per un breve dibattito rituale, per l’approvazione di 4
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alcuni testi preconfezionati e per un trionfale ritorno alle proprie sedi, con la benedizione papale. Il confronto aperto che si avviò con la nomina delle commissioni conciliari e il rigetto dei primi documenti preparatori (in particolare quello sulle «fonti della rivelazione») rese chiara l’esistenza di una cattolicità in ricerca, un lavorio di idee e di sensibilità molto più ricco e ampio di quanto qualsiasi osservatore esterno avesse precedentemente sospettato. Di qui a cogliere cosa si muovesse precisamente, non sempre era facile per chi non dominasse la cultura e la tradizione religiosa: la spaccatura tra i due mondi non era del resto forse stato uno dei frutti malati della stagione intransigente? Cultura religiosa e cultura non religiosa erano rimasti per lunghi decenni mondi reciprocamente chiusi, salvo pochissime eccezioni. Rappresentazioni approssimative dello scontro tra progressisti e conservatori andarono quindi insieme alla ricerca di capire meglio. Vennero così pian piano alla luce alcuni elementi cruciali in cui la riflessione della Chiesa su sé stessa incrociava le attese dell’umanità contemporanea. Proprio l’evento concilio in se stesso, insomma, cambiò progressivamente la percezione della cattolicità come corpo chiuso e immobile. Prendeva piede nella coscienza cattolica un discorso sulla storia e sul cambiamento che era stato fino ad allora esorcizzato, se non condannato come modernista. Lo chiariva l’approccio di papa Giovanni con il famoso ricorso alla metafora dell’«aggiornamento», nell’allocuzione di apertura, la Gaudet mater ecclesia dell’11 ottobre 1962: se occorreva «assenso fedele» a una «dottrina certa ed immutabile», contemporaneamente il papa chiedeva di distinguere il «deposito della fede» nelle sue verità, dal «modo con il quale esse sono annunziate». A partire da questa distinzione si apriva un cantiere di ripensamento che aveva diverse possibilità di espressione. Uno degli aspetti più importanti di questo spazio di ricerca fu proprio quello del ritorno alle fonti (ressourcement, si cominciò a dire in francese). Un movimento profondo di ricerca nella «grande tradizione» ecclesiale poteva modificare una parte rilevante della storia recente, troppo spesso ipostatizzata nella concezione fissista di una «tradizione» ecclesiastica piuttosto angusta. Proprio su questa pista il concilio si cominciò a muovere con frutto, fino a farne una delle spine dorsali del suo lavoro. Questo cuore decisivo del concilio aveva a che fare con la storia precedente, con lo stato di salute della Chiesa cattolica
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Prendeva piede nella coscienza cattolica un discorso sulla storia e sul cambiamento che era stato fino ad allora esorcizzato, se non condannato come modernista.
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alla metà del secolo più denso e drammatico della storia. Il Vaticano II non era stato convocato sotto l’urgenza di una crisi impellente, per sanare una controversia, fermare un errore, combattere una battaglia dottrinale. Anzi, il suo annuncio irruppe in una Chiesa che era complessivamente piuttosto convinta dei suoi apparenti successi. Si era appena parlato dei «giorni dell’onnipotenza», ben espressi nella ieraticità del pontificato pacelliano. Proprio nell’epoca della società di massa, utilizzando con profitto di molti dei mezzi creati dalla modernità, la chiesa cattolica pareva avere avuto la capacità di rafforzarsi come istituzione giuridicamente organizzata e sociologicamente coesa, attorno all’autorità rafforzata del vertice papale. La Chiesa aveva affrontato la «laicizzazione» moderna con la capacità di costruire un «contromondo» cattolico socialmente capillare. Aveva anche affrontato, per così dire, la «secolarizzazione» come ultimo esito della modernità, sfidando le nuove religioni secolari dei totalitarismi con l’affermazione di una eccedenza del sacro che – pur tra difficoltà e tragedie – era riuscita a passare prove non semplici (prove non ancora concluse, almeno nelle società comuniste dell’Est europeo). Eppure, proprio questa solidità stava scricchiolando, al di là della consapevolezza di molti. Molte voci profetiche e molti filoni di ricerca teologici l’avevano messo da tempo in luce. Le nuove società del benessere ponevano la sfida alla fede in termini inediti. Il concilio quindi poteva interrogarsi ampiamente sulla coscienza cristiana e sulla coscienza di chiesa, a fronte degli esiti ultimi di una parabola di resistenza e di adattamento al portato dalla storia moderna. Proprio in questa direzione, doveva aiutare il ricorso all’ampia tradizione della storia cristiana, prima del millennio delle dolorose separazioni tra cristiani e prima addirittura della costituzione formale di una «cristianità» storica. Del resto, le sfide della laicizzazione e della secolarizzazione non riconducevano a memorie lontane, a quella chiesa delle origini, immersa in un mondo non cristiano e capace di far fronte a paganesimi di vario tipo? Per esprimere il risultato di tale ricerca, fu decisiva la scelta conciliare di utilizzare un linguaggio nuovo. Non più un linguaggio corrusco di condanna e di precisazione dottrinale, ma un linguaggio che fu definito, forse impropriamente, «pastorale». Un linguaggio che tentava di presentare in modo articolato, con ampi riferimenti biblici e con il ricorso a metafore e simboli, un volto comprensibile e credibile del cristianesimo. Con stile quindi positivo, propositivo, descrittivo, 6
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utilizzando spesso un argomentare che tentava di entrare in dialogo con la mentalità corrente della modernità. Un linguaggio che a volte non si curava nemmeno di rendere esplicito il distacco dal passato, per la volontà di esprimere soprattutto in termini convincenti l’approdo cui si era pervenuti. Ma si poteva ben pagare questo prezzo, per giungere a mostrare un volto di Chiesa benigno e attento alle sorti dell’umanità contemporanea. Senza complessi di inferiorità o cedimenti sull’essenziale, ma con un approccio critico, dialogico, di discernimento. Tale stile costituì in certo qual modo un punto di non ritorno per il ruolo della Chiesa nella storia. Le sensibilità personali degli uomini di Chiesa avrebbero potuto essere ancora diverse, ma dopo il concilio questo modo di presentarsi non poteva più essere revocato o annullato. Ci sono state accuse al Vaticano II di essere stato troppo dipendente da un certo «spirito del tempo», quello dell’ottimismo post-bellico della ricostruzione e dell’emancipazione dei popoli non europei, dello sviluppo e del benessere. Se forse può essere osservazione adeguata per qualche passaggio più estrinseco e descrittivo della Gaudium et spes, mi pare che sia infondato farne un giudizio complessivo. Per molti aspetti, il concilio si sottrasse a una logica troppo contingente. Si pensi al peso della guerra fredda ancora forte (come gli echi della crisi di Cuba rappresentarono drammaticamente nelle prime settimane di lavori): il concilio non sembra esserne condizionato profondamente, tanto che leggerlo dopo il 1989 non ne riduce la freschezza. Certo, si può dire che la sua ottica fosse molto europea e settentrionale, in quanto la presenza delle giovani chiese del sud del mondo era ancora lontana da un protagonismo centrale. Ma si può seriamente sostenere che i problemi della società aperta, della democrazia e della ricerca di affermazione della soggettività, che risultavano cruciali nelle esperienze delle società europee e nordamericane, non fossero una sfida alla fede di dimensioni epocali? Non a caso, oggi anche nel mondo dei paesi emergenti o nelle difficili esperienze delle metropoli del terzo mondo si incontrano sfide simili, accanto a problemi originali e specifici. Conseguenza non banale di questo percorso fu anche l’implicita capacità di recuperare sensibilità e culture che nella chiesa si erano mosse in modo creativo e originale, sul crinale del rapporto con la modernità, nella prima parte del secolo. Tornava nel solco vivo della coscienza ecclesiale l’esperienza di persone che erano incorse in sospetti di eresia nella lunga battaglia antimodernista, si erano sentite poco sostenuti nella
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Ci sono state accuse al Vaticano II di essere stato troppo dipendente da un certo «spirito del tempo», quello dell’ottimismo postbellico della ricostruzione e dell’emancipazione dei popoli non europei.
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propria coscienza di laici cristiani impegnati nella costruzione della democrazia, avevano aperto filoni di ricerca nel campo biblico, storico, filosofico. Un ruolo non modesto, quello dell’evento conciliare, in questo allargamento di visione. La storia della seconda metà del Novecento ha visto un complesso percorso di recezione e appropriazione di queste novità, ha visto fughe in avanti e ricorrenti tentazioni di arrestare il percorso di ritorno alle fonti e quindi anche di rinnovamento. Ma il segno del concilio è rimasto forte e vivo. Un mutamento definitivo dell’autocoscienza ecclesiale si è collegato a una nuova immagine del cattolicesimo, da cui è difficile ormai prescindere. Proprio quando la Chiesa abbandonava il linguaggio della superiorità nella e sulla società, si scopriva al centro dell’attenzione e capace di mettere le basi di una influenza nuova. Non a caso il Vaticano II è stato definito «la grande grazia di questo secolo» nel «messaggio al popolo di Dio» del Sinodo straordinario del 1985.
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Memoria e attualità del Concilio Raniero La Valle è giornalista e scrittore
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icordare il Concilio non vuol dire farne la celebrazione. Questo non serve a nulla. Ricordare il Concilio vuol dire ritrovarne l’attualità, la presenza, la vitalità, quello che ancora oggi esso può dire, della Chiesa, di noi, del nostro futuro, della salvezza, della fede. Non si tratta di una memoria archivistica, è una memoria vivente, una memoria attualizzante, trasformatrice. La memoria del resto ha avuto una parte rilevante nel Concilio. Tutti i venti Concili precedenti sono stati richiamati, resi presenti, e il Vaticano II ne ha come fatto la ricapitolazione, l’ermeneutica, l’esegesi: dal contenuto fondamentale della fede cristologica e trinitaria dei Concili di Nicea, di Efeso, di Calcedonia, con la decisiva aggiunta che con l’incarnazione “il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”, al risanamento della controversia sulla “sola Scriptura” del Concilio di Trento, alla giusta interpretazione del Vaticano I con l’armonizzazione del primato petrino con la collegialità episcopale. Il Concilio però ha anche riconosciuto che la memoria non è innocua, non è neutrale, se non è purificata può inquinare anche il presente. Ciò è tanto vero che il Concilio si è concluso con un atto solenne congiunto della Chiesa di Roma e di quella di Costantinopoli, il cui oggetto era una memoria da rimuovere, perché era stata causa di dolorosissime vicende nella vita delle due Chiese, e ancora motivo della loro separazione. La memoria da rimuovere, da “cancellare”, era quella della scomunica che nell’XI secolo si erano reciprocamente lanciate le sedi di Roma e di Costantinopoli. Ma allo stesso 9
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modo il Concilio ha voluto medicare altre memorie, e affrancarne la Chiesa di oggi: la memoria dell’antisemitismo cattolico, la memoria del processo a Galileo, la memoria della scomunica pontificia dell’età moderna, la memoria della condanna ottocentesca della libertà come di un “deliramentum”, un delirio. Fare i conti con quelle memorie voleva dire adottare delle scelte nuove. E poi si dice che il Concilio non ha cambiato le cose! Nel segno di questa memoria attiva del Concilio, a cinquanta anni di distanza, si può discernere ciò che in esso fu essenziale. E si può cominciare col dire che in realtà, in uno solo, si sono celebrati due Concili: il Concilio di Giovanni XXIII e quello di Paolo VI. Il Concilio di papa Giovanni era tutto proiettato sul mondo. Già lo si era visto col radiomessaggio che un mese prima dell’apertura, l’11 settembre 1962, papa Roncalli aveva rivolto a tutti i fedeli. Ciò di cui parlava era dell’amore delle famiglie riunite attorno al focolare domestico, dell’uomo che cerca il pane
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quotidiano per sé, per la moglie, per i figliuoli; del suo bisogno di istruirsi, della libertà di cui è geloso; delle “miserie della vita sociale che gridano vendetta al cospetto di Dio” e dell’anelito dei popoli a percorrere ciascuno la sua strada, nel trionfo della pace e in una esistenza umana più nobile e giusta; e della Chiesa che è bensì la Chiesa di tutti, ma è particolarmente la Chiesa dei poveri. Lo si vide poi nel discorso di inaugurazione del Concilio, con il licenziamento dei “profeti di sventura che annunciano eventi sempre infausti”, e con il mandato a rinnovare l’annuncio della fede in forme e modi conformi ai linguaggi e alle culture di oggi, secondo quanto i nostri tempi richiedono; e poi con quel discorso della sera dell’11 ottobre, quando il Papa disse di “udire le voci” dei suoi figli, e si mise con loro in un rapporto di fraternità, “tutti insieme” inclusi nella grazia di Dio, e indicando la luna ripropose il tema evangelico dei “segni dei tempi”. Il Concilio di Paolo VI era invece più ripiegato sulla Chiesa, più ecclesiocentrico, e doveva rispondere alla domanda che lo stesso Paolo VI, quando era ancora il cardinale Montini, gli aveva posto il 5 dicembre 1962, nel corso della prima sessione conciliare: “Chiesa di Cristo, che cosa dici di te stessa?” Su questa strada, il Concilio di Paolo VI è andato molto avanti nella riflessione sulla Chiesa. Fondamentale è stata la distinzione introdotta tra la Chiesa di Cristo, qual è professata nel Credo, e la Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui. La Chiesa di Cristo “sussiste nella Chiesa cattolica”, ma non si esaurisce in essa e molti elementi di santificazione e di verità si trovano anche al di fuori del suo organismo. Più tardi, nell’enciclica “Redemptoris missio” Giovanni Paolo II introdurrà anche la distinzione tra Regno di Dio e Chiesa: le due cose sono congiunte, ma non si identificano. Questa acquisizione, tratta dalla autentica Tradizione, faceva cadere la vecchia formula “extra Ecclesiam nulla salus”, cioè fuori della Chiesa (intesa come Chiesa cattolica) non c’è salvezza. Superando la rivendicazione dell’esclusiva gestione della grazia di Dio sulla terra (ancora fieramente affermata dai lefebvriani) la Chiesa del Concilio si apriva non solo all’ecumenismo, ma anche alle altre religioni, a cominciare dall’ebraismo e dall’Islam, e alle culture del mondo; e trovava il suo fondamento la libertà religiosa e la libertà tout court, cioè la libertà di credere o di non credere senza costrizioni, pur nel dovere di seguire la verità, in quanto
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La Chiesa di Cristo “sussiste nella Chiesa cattolica”, ma non si esaurisce in essa e molti elementi di santificazione e di verità si trovano anche al di fuori del suo organismo.
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Il Concilio di Giovanni XXIII è andato invece molto più avanti di quanto finora si è ritenuto nel suo abbraccio col mondo dell’uomo.
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riconosciuta nel sacrario della coscienza. Una prima conseguenza di questa più matura percezione di fede, fu il rifiuto del Concilio di confermare la dottrina, pur seguita per secoli, secondo la quale i bambini morti senza battesimo non vanno in Paradiso e sono esclusi dall’incontro con Dio; i vescovi dissero che quella non era la fede del loro popolo, che altro era il “sensus fidelium”; e infatti alcuni decenni dopo quella dottrina fu ufficialmente abbandonata con un documento romano che, per così dire, cancellava anche la memoria del Limbo. Dove invece il Concilio di Paolo VI non ha funzionato, è stato nella riforma della Chiesa. Il rinnovamento delle strutture istituzionali non c’è stato: la collegialità è stata affermata ma mai veramente attuata; lo stesso Paolo VI del resto vi ha messo un freno già nel corso delle votazioni del Concilio sulla “Lumen Gentium”, e dell’organo che avrebbe dovuto interpretare la corresponsabilità di governo dei vescovi col papa, il Sinodo dei vescovi, ha fatto un organo consultivo di cui il papa, se vuole, si avvale. Giovanni Paolo II rilancerà poi la figura totalizzante del papa; non è più il papa onnipotente di cui tutti i principi dovevano baciare i piedi, come diceva il Dictatus Papae di Gregorio VII nell’XI secolo, ma è il papa onnipresente con i suoi viaggi e la sua ubiquità mediatica, che ha non i principi, ma le folle ai suoi piedi. Purtroppo con nessuna di queste due cose si rende cristiana la società. Anche i rapporti tra i diversi “generi” di cristiani sono rimasti immutati; la Chiesa è ancora pensata nella tripartizione di clero, religiosi e laici; il “popolo di Dio” è molto citato, ma mai chiamato in causa. Quanto ai sacerdoti, la figura ideale del prete, che la Congregazione del clero sempre ripropone è quella del prete tridentino, maschio, celibe e sacro. Il Concilio di Giovanni XXIII è andato invece molto più avanti di quanto finora si è ritenuto nel suo abbraccio col mondo dell’uomo. In esso si sono scontrate non due figure di Chiesa, ma due antropologie; ambedue sono antropologie del peccato e della grazia, altrimenti non sarebbero antropologie cristiane, ma il loro rapporto è declinato in tutt’altro modo. Secondo la prima, durata fino al Vaticano II, in principio c’era il peccato; per la seconda, in principio era la grazia. Secondo la prima l’uomo non è integro nella sua natura, è decaduto dal suo nobile casato in cui Dio lo aveva messo creandolo, non è più fornito dei beni preternaturali di cui era stato dotato, e se muore è per colpa sua.
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L’uomo è il giocattolo rotto di Dio, che dopo la caduta Dio ha scacciato lontano da sé, in attesa della futura redenzione. Quest’uomo, a meno che non sia momento per momento tirato con i fili da Dio, non può fare nulla, tanto meno può indirizzare e salvare la storia; pensare il contrario sarebbe “neo-pelagiano”. Il pessimismo antropologico, ma anche morale e politico, nasceva da qui. La seconda antropologia attribuisce invece la morte fisica e tutti i limiti della condizione umana alla creaturalità che è propria della natura dell’uomo quale è uscito dalle mani di Dio, ma come sua immagine. Il peccato non ha revocato né rompe questa immagine; anche dopo la caduta “Dio non abbandonò” gli uomini ”ma sempre prestò loro gli aiuti per salvarsi, in vista di Cristo redentore”. La cristologia riscatta l’antropologia pessimistica, perché Cristo è coeterno al Padre, generato prima di ogni creatura, in lui la misericordia di Dio è in atto già prima del peccato umano, il primo Adamo è lui. L’ottimismo del Concilio, che è stato attribuito a una deriva “liberale” e mondana, nasce invece da lì, dal piano di Dio sull’uomo e sul cosmo che il Vaticano II torna a raccontare all’uomo moderno in modo persuasivo e credibile. La “metafora” del peccato originale, come Benedetto XVI l’ha chiamata nelle sue omelie, svela tutto il suo contenuto di fede, ben al di là dell’immagine del Dio vindice, nel sangue del Figlio, della propria dignità offesa. La fiducia del Concilio nell’uomo, nei lumi della modernità, nelle costruzioni giuridiche umane, nelle Costituzioni, e nella libertà che, insieme alla verità, alla giustizia e all’amore, come diceva Giovanni XXIII nella “Pacem in terris”, deve guidare le azioni umane sulle vie della pace, è fondata non sulle ideologie novecentesche, ma sulla fede nella Trinità, nella quale Dio è inseparabilmente misericordia giustizia e libertà.
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I bolognesi Lercaro e Dossetti al Concilio Luigi Pedrazzi
è politologo e giornalista
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ranco Monaco nel chiedermi una testimonianza personale sul Concilio ha mostrato di essere interessato a due possibili contenuti: a) che io dicessi qualcosa sul “nostro 58”, cioè il festeggiamento attuato con un epistolario amichevole sul “dono” ricevuto da Roncalli, la cosa più bella e interessante che ci sia capitata nel corso della nostra piccola “vita cristiana”; b) dire qualcosa su l’esperienza “bolognese”, che chiesa e città hanno fatto del Concilio, con una partecipazione molto ricca e di lunga durata, e tuttavia non poco conflittuale, segnata dall’ entusiasmo operativo di alcuni fedeli “esemplari” e da fastidio e ostilità di altri, anch’essi fedeli, ma di cultura e opinioni diverse; e anzi, negli ultimi decenni, purtroppo anche tra i più autorevoli esponenti dell’ambiente diocesano bolognese. Poiché la mia esperienza volontaria di “festeggiamento” roncalliano e conciliare è tuttora in corso, e anzi sta iniziando la fase più impegnativa degli incontri popolari in parrocchie, circoli e case familiari (dato che stiamo tutti entrando nel cinquantesimo anniversario ufficiale del 21° Concilio della Chiesa cattolica), mi pare opportuno andare più avanti prima di tentare un bilancio di questa esperienza “ricettiva” e del suo contesto. Dirò qualcosa, quindi, dell’altro tema suggeritomi, cioè le ragioni che hanno contribuito a fare della nostra Bologna (chiesa e città) un punto molto ricco e intenso della vicenda conciliare, nel suo svolgimento e nella sua interpretazione. Sono cose assai conosciute, almeno tra noi bolognesi, specie i più anziani: ma il “perché” e il “come” di queste risorse è giusto cercare di intenderlo bene, sia nella parte positiva che ha recato un contributo bolognese notevolissimo a svolgimento e interpretazione del Concilio; sia nella parte negativa, che ha
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motivato una resistenza critica verso l’ “evento conciliare” e favorito, per quanto è possibile, una intepretazione riduttiva della sua influenza storica e della prodotta riforma ecclesiale. Alcuni nomi di “chiara fama” si impongono, nella storia cattolica bolognese, e valgono come il “capitale” entrato con forza e qualità nell’impresa di fare di Bologna la città italiana di fatto più attiva e influente nel sostegno all’annucio roncalliano di un inatteso Concilio ecumenico, evento ovviamente qualificante il suo pontificato, in quanto esploso fin dall’inizio come iniziativa esclusiva e sorprendente del “nuovo” pontefice. Un aggettivo delicato e forte come “ecumenico” lo ha qualificato subito: anche se non potrà essere un “concilio di unione”, opererà intensamente “a favore” di una maggiore e migliore unità con i fratelli cristiani separati, e sarà dialogico con tutte le altre religioni; con costanza vorrà essere un Concilio di “aggiornamento” e quindi anche correttivo nei confronti della “modernità”, da vivere in serietà e bontà, senza più tanta paura e irrigidite inimicizie; al contrario, con amore per tutti i nostri contemporanei, ai quali annunciare e testimoniare la nostra fede, ritrovando anche fonti antiche in parte perdute o trascurate. Da ottobre del 58 a gennaio del 59, Giovanni XXIII si era fatto conoscere “al mondo”, con dolcezza travolgente, per la sua grande semplicità e cordialità, anche sul trono di Pietro; un’apertura di credito gli venne subito riconosciuta dall’opinione pubblica mondiale, desiderosa di pace, mitezza, buon senso e bonomia. A Bologna, Lercaro, pur aperto a una iniziativa pastorale espansiva e popolare, ascoltò l’annuncio del Concilio con sorpresa e un iniziale semismarrimento; ma due settimane prima dall’annuncio del Concilio, Lercaro aveva
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accolto nel presbiterio di Bologna un prete particolare, don Giuseppe Dossetti, che di fatto era uno dei pochi cristiani da tempo convinto del valore pastorale e programmatico di un concilio, atto di Magistero tanto superiore alla prassi delle encicliche. Più volte gli avevo sentito ricordare una massima promettente di un cardinale pur molto tradizionalista come Bellarmino: “nel Papa c’è più autorità, ma nel Concilio c’è più grazia”. Per Dossetti è molto più importante impetrare e ricevere la “grazia” di Dio che conoscere l’ “autorità” dei suoi collaboratori più alti in terra. Colpitissimo dall’annuncio del Concilio, Dossetti fu subito trascinato a preparare se stesso, il suo Vescovo e un nucleo di eccellenti collaboratori, da alcuni anni già trovati o riuniti in Bologna, proprio per studiare con essi, a Bologna preferibilmente che altrove, problemi e difficoltà della Chiesa e, in particolare, i grandi “nodi” di esperienza e storia dei Concili. Si accese subito un fuoco e una luce, per non disperdere la straordinaria occasione, venutaci vicinissima per dono (santità e sapienza) di papa Roncalli, papa “di transizione in senso forte”, come la Chiesa cattolica avrebbe presto sentito essere stata la sua nomina, con le sue inattese e grandi decisioni. Chi conosceva le precedenti esperienze di Dossetti, poteva avere qualche indicazione sull’ampiezza del suo consentire a una proposta di un Concilio. Ma di più, il pessmismo delle analisi politiche, così fondato e forte com’era in Dossetti, e il senso critico con cui – nonostante la sua fede evangelica e trinitaria – giudicava i limiti della realtà eclesiastica (da lui denominati “criticità della Chiesa”), gli facevano supporre che sarebbe stato ben difficile vedere convocato un Concilio ai nostri giorni: non vi aveva rinunciato, dopo averlo sperato possibile, un papa come Pio XII? La “umile determinazione” di Roncalli irruppe nell’animo di Dossetti, accendendovi un fuoco ardente di ammirazione fiduciosa: la spinta operativa che vi produsse fu 16
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quale neppure Lercaro subito intese, ma i collaboratori fedeli del Centro di Documentazione subito si gettarono nell’impresa storiografica, teologica e pastorale, che Dossetti poteva vedere e concorrere ad animare, specie nei primi due periodi più incisivi (quello giovanneo e il primo montiniano); questo loro lavoro contribuì – insieme al fior fiore dell’episcopato mondiale straordinario allora esistente, ai teologi liberi e ispirati che Roncalli subito recuperò dai migliori centri europei, e con gli esponenti più significativi delle nuove chiese – al fine di rendere possibile la “svolta storica” che fu poi operata dai Padri conciliari riuniti in San Pietro. Ma decisive furono l’originalità spirituale e la grande mitezza di modi con le quali Roncalli guidò la Chiesa, parlando con amore e intelligenza del “suo” Concilio, ma accogliendo senza pericolose polemiche quasi quattro anni di una preparazione dottrinale largamente refrattaria alle sue indicazioni: la grande mole di Schemi preparati a Roma fu poi giudicata inadeguata e frammentaria, dall’Assemblea dei padri Conciliari, una volta che essi furono finalmente riuniti e dialoganti in San Pietro. Non poteva non esserlo, per la carenza di pensiero critico e i limiti di esperienze storiche e di lavoro storiografico, tipici della pur notevolissima dirigenza vaticana e burocrazia curiale . Se il “Giornale dell’Anima” di Angelo Roncalli, più i “Diari” e le “Agende” biografiche della “carriera” che lo condusse dalla periferia di Sotto il Monte al centro della Chiesa cattolica, fanno avvertire (e dobbiamo ringraziare di questo Alberto Melloni) la grande forza della “molla interiore” che produsse l’esplosione spirituale e mediatica del pontificato di Giovanni XXIII, solo una sintesi adeguata di cultura cristiana universale e di coscienza storica nazionale permette di vedere in appunti di devozione una soluzione radicale e finalmente adeguata dei problemi irrisolti dell’entità ambigua di “Stato della Chiesa”, tra noi così di casa con ritardi secolari e problemi storici troppo a lungo non considerati con vigore teologico e coerenza giuridica rigorosa. Un suo superamento fu intravisto nelle cime ottocentesche di Manzoni e Rosmini e, a mio gusto, anche di Nievo; ora è motivo di riflessione sofferta e di ricerca sincera di alternative decorose nei conati novecenteschi, quali noi intravvediamo in figure e opere di cattolici laici postafascisti e repubblicani come Dossetti, Lazzati, La Pira e Moro; però, ahinoi, anche questi grandi ed esemplari amici sono quasi nascosti al nostro sguardo dalle vergogne e impotenze dei “consensi lunghi e abbondanti” concessi nel nostro Paese all’egotismo ridicolo e 17
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geniale di Berlusconi, per quasi 18 anni divenuto padrone d’Italia, dopo il fallimento delle speranze e delle idealità con cui i partiti politici italiani non riuscirono ad assicurare serietà e legalità a un futuro democratico della Repubblica. La quale era pur stata dotata di una bella Costituzione, disponeva di non piccole ricchezze private e poteva sommare due grandi movimenti etici Risorgimento e Resistenza. E’ il passato politico di Dossetti (la qualità del quale aveva origini nella qualità della sua formazione e fede cristiane), che aggiunse un motore aggiuntivo all’energia con cui seguì e accompagnò il Concilio. E mobilitò molti, in Italia e estimatori in Europa e nelle presenze internazionali per vari anni convenute in in Roma: debbo fare almeno i nomi di Alberigo (ma tantissimi sono gli storici che ne condivisero i meriti: fino a far parlare dai suoi “ostili” di una “scuola bolognese” nella storiografia del Vaticano II), e il nome di La Valle direttore di “Avvenire d’Italia”, superletto allora fino ad avere un rilievo internazionale. E moltissime figure, giovani e anziane, della chiesa locale che per anni ricevettero impulsi e aiuti incomparbili con altri periodi più “normali”...Ma due episodi hanno avuto uno spessore più visibile e durato una eco assai più lunga. Lercaro, stimatissimo personalmente da Montini, fu nominato a un certo punto con Suenens, Dopfner e Agagianian, unico italiano, tra i quattro Moderatori che ebbero un notevole ruolo su almeno mezzo Concilio (con più vera autorevolezza nel secondo e terzo dei quattro periodi). Ma il riconoscmento di Bologna, città particolarmente attenta nel Concilio, trovò una espressione locale di fortissima originalità, nella vicenda che mutò il clima dei rapporti tra la Città e la sua Chiesa. Fu il Comune, con la sua Giunta comunista e l’autorevolezza di unico capoluogo di Regione sempre “rosso” per mezzo secolo, e fare il passo che Spadolini sul “Resto del Carlino” fece conoscere (e temere) con lo slogan di “Repubblica conciliare”. Anche questo straordinario episodio, col Vangelo portato in Palazzo d’Accursio dal Cardinale, saldandosi con le Chiese Nuove in periferia, , i “quartieri” proposti da Dossetti nel 56 e gloria e vantaggio di Bologna per oltre vent’anni, non fu neppure esso un evento realmente popolare e realmente vissuto con piena consapevolezza, ma contò molto a segnare un clima e un’epoca. E a chiedere poi una lunga fase di sistemazione della carica “bolognese” troppo avanzata, rispetto ai tempi di tutta Italia e al suo declino incipiente tra Anni di piombo e Mani Pulite, 18
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rivelativi entrambi di una troppo esile serietà repubblicana e, rispetto al grande Concilio, una ricezione alquanto lenta e parziale. Fino allo stravolgimento che in Bologna abbiamo conosciuto rafforzato da molti decenni di un disagio ecclesiastico non risolto circa il ruolo di Dossetti e Lercaro, troppo bello e intensamente religioso, per stare intero e intatto nel contesto nazionale e nei ruoli che hanno chiamato una distinzione significativa, ma di non facile interpretazione, tra autorità della Chiesa, nati in Italia o altrove: Montini e Luciani sono stati gli ultimi pontefici italiani rispetto a due importanti successori, nati in paesi diversi, fin qui europei: in futuro si vedrà... La Chiesa bolognese, per 45 anni ha vissuto con dignità, in parte coraggiosa in parte paziente, la sua abbondanza di essere una Chiesa forte nella esperienza conciliare. E’ un fatto che qui, censuratissimo Dossetti negli ambienti curiali seguiti alla “partenza” di Lercaro, solo adesso e in misura occasionale, a bassa voce, Lercaro si nomina un po’, ma di Dossetti, al presente, si tace, più ancora che criticarlo (questo avveniva una volta): ora si censura. Il centenario della sua nascita (2013) potrebbe verificare qualche correzione, ma la mia convinzione è che un ritorno di attenzione, su figura e pensiero di Dossetti, forse richiede una simultaneità di ripresa di pensieri e comportamenti giusti sulla vita nazionale e le sue esigenze, e su la missione della Chiesa, i suoi bisogni pastorali e le sue risorse teologiche. Tutte cose da tempo largamente e pericolosamente trascurate. Il triennio 2013-2015, sarà impegnativo per la vita pubblica italiana e per quella europea di cui l’italiana è necessariamente parte, si vedrà se e quanto modesta o se perchè e con chi rilevante. Anche per la vita della Chiesa quel triennio è memoria di anni lontani, ma anche questa memoria è di una attualità cogente. Quanto a memoria di Dossetti e sua attualità, mi pare sia vero che “ricerca costituente”, “bellezza conciliare”, “pericolo del lascito berlusconiano” siano temi centrali del vissuto di Dossetti. E se fossero anche nostri? Non siamo interrogati anche noi dalle due domande più importanti che furono tipiche sue: 1) “Uniti, va bene: ma per fare che cosa?”, 2) “Quanto resta della notte?” Bologna ricorda parecchio, e sta bene. Ma per queste domande, ricordare non basta. Né nella vita civile, né in quella religiosa. 19
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Per un nuovo illuminismo, una svolta nel pensiero cristiano Virgilio Melchiorre
è docente emerito presso l'Università Cattolica di Milano
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li sconvolgimenti economici, le contraddizioni e le fughe delle imprese produttive, i giochi spregiudicati della finanza che da diversi lati segnano la crisi dell’Occidente e della stessa economia statunitense possono essere letti, nell’immediato, sotto diversi profili storici. Fra l’altro: come errori delle strategie politiche e, insieme, come il prezzo dovuto alle economie emergenti dall’Asia e
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dall’America del Sud. Ma da quest’ultimo lato non emergono inoltre una direzione e un senso più profondo della crisi? Ci si muove verso un riassetto e una più equa distribuzione delle economie? Ma, in questa prospettiva, non ci si deve poi interrogare sulle possibili contraddizioni di una crescita indefinita delle ricchezze? Come prevedere un giusto equilibrio, senza del quale si aprirebbe un ben più ampio orizzonte critico, prossimo alla dissoluzione dei mondi? Queste sono forse domande irrilevanti per chi deve correre, a breve, verso risoluzioni e salvataggi opportuni. Ma non sono irrilevanti per una prospettiva di lungo respiro che, a suo modo, dovrebbe pur suggerire rimedi e soluzioni nella pros-simità dei tempi. In questa direzione, come premessa critica per un ordine nuovo, sembra riproporsi una riflessione analoga a quella che – sullo sfondo della tradizione ebraica – fu data ne la Dialettica dell’illuminismo ad opera di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer. Quello scritto – è importante sottolinearlo – fu composto fra il 1942 e il1944, mentre ferveva drammaticamente la guerra provocata dal nazismo. Anche allora si trattava di una contesa attorno a una potenza economica che, in pochi anni, si era fatta imponente e ora mirava alla sottomissione dell’intero continente europeo: lo stermino degli ebrei e degli zingari intanto dilagava, disegnando scenari quanto mai inumani, che le nuove tecnologie di morte rendevano peraltro quanto mai possibili e svelti. Qual era il nesso che correva fra l’uso della scienza e il perverso utilizzo delle sue risorse? Come mai un’economia rinata vigorosamente nella Germania nazista poteva prevedere il suo sviluppo per vie così tragicamente inumane? A queste domande rispondeva appunto l’opera dei due pensatori che dalla Germania erano stati sospinti nella sofferenza dell’esilio. Il grande merito di quel volume stava appunto nel rintracciare l’origine del paradosso che in modo crescente aveva via via accomunato il progresso della scienza con la perversione del potere. Perché l’illuminazione del progresso scientifico non aveva fermato, ma anzi aveva potuto generare una strage epocale? Non si trattava evidentemente di mettere in questione la scienza come tale e con essa i frutti migliori della tradizione illuministica. Si trattava di cogliere, nelle sue pieghe, un nesso che aveva permesso l’uso stravolgente della storia. La domanda che Adorno e Horkheimer si ponevano era appunto questa: come mai aveva potuto determinarsi l’implosione della
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Si delineano così le due fondamentali patologie della società globale: da un lato, un radicale individualismo che si traduce nell’indifferenza, nel deficit di impegno e nella diserzione della sfera pubblica; dall’altro un comunitarismo entropico che ripropone forme di condivisione distruttive, generando nuove forme di violenza.
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Come mai proprio la crescente razionalità dei moderni aveva potuto covare nel suo interno il germe regressivo della barbarie?
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razionalità nell’orrore del nazismo e dello sterminio? Come mai proprio la crescente razionalità dei moderni aveva potuto covare nel suo interno il germe regressivo della barbarie? Che cosa era mancato allo sviluppo delle scienze per difendersi da un uso inumano del potere? La domanda di Adorno e Horkheimer portava a interrogare sulle costituzioni e sui limiti della razionalità moderna: una razionalità che, già nell’enunciato dei suoi padri, a partire da Bacone, era intesa soprattutto come strumento di potere, di dominio sulla natura: via dell’avere, piuttosto che via dell’essere. Poteva per questo lato compiersi il destino della ragione? L’intelligenza razionale della natura non doveva implicare una partecipazione piuttosto che un’appropriazione? Non doveva la scienza sporgersi verso i confini di una comunione essenziale, sino ai principi ultimi dell’essere? Al contrario siamo ora nella condizione di pensare che le vie storiche dell’illuminismo hanno, sì, contribuito a liberare l’uomo dalle insidie della superstizione e della natura, ma ciò nonostante si deve pur riconoscere che «la terra intera-mente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura» . La sventura è nata appunto dall’aver posto la scienza a servizio dell’avere, senza subordinarlo alle condizioni più radicale dell’essere. E così – leggiamo nella Dialettica dell’illuminismo – il «sapere, che è potere, non conosce limiti, né nell’asservimento delle creature, né nella sua docile acquiescenza ai signori del mondo. Esso è a disposizione, come di tutti gli scopi dell’economia borghese, nella fabbrica e sul campo di battaglia, così di tutti gli operatori senza riguardo alla loro origine. […] La tecnica è l’essenza di questo sapere. Esso non tende a concetti e ad immagini, alla felicità della conoscenza, ma al metodo, allo sfruttamento del lavoro altrui, al capitale. […] Ciò che gli uomini vogliono apprendere dalla natura, è come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini» . Non si tratta evidentemente di disconoscere il grande ruolo della ragione scientifica. Si tratta solo di riconoscerne la portata e d’inscriverla entro gli spazi più ampi dell’intuizione e della ragione. Sovviene al riguardo una lettera inviata da Pa-scal il 10 gennaio 1660 al grande matematico Fermat. Della scienza geometrica, di cui lui stesso era grande interprete, Pascal scriveva che «è «il più bel mestiere del mondo, ma in-fine non è che un mestiere, [...] buona per saggiare, ma non per impiegare la nostra forza».
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Di qui, come sappiamo, ci ritorna il richiamo pascaliano alle ragioni del cuore, all’esprit de finesse piuttosto che all’esprit geometrique, dove le ragioni del cuore non vanno intese co-me semplice sporgenza emotiva, di là dalla razionalità dell’intelletto, bensì come il rinvio a uno spazio più profondo della ragione. Per le ragioni del cuore – aveva scritto appunto Pascal – «noi conosciamo i primi principi [...] ed è su queste conoscenze del cuore e dell’istinto che occorre che la ragione si appoggi e che vi fondi tutto il suo discorso» . Per questa via siamo portati dai limiti della nostra finitudine alla sua relazione vitale col mondo da questa all’intero dell’essere: una relazione che, da ultimo, dà senso a ogni passo dell’esistenza e che, passo per passo, offre i criteri per l’uso e per la redistribuzione della ricchezza. Le domande, nate nel cuore del secondo conflitto mondiale, ci ritornano ora considerando gli attuali conflitti dell’economia, non diversi nel profondo da quelli del secolo scorso. E, per contro, siamo nuovamente rinviati a quella profondità del sapere che la Scrittura indica nella frequentazione della Sapienza, quella che dai limiti della nostra finitezza ci fa volgere verso «la conoscenza infallibile delle cose, / per comprendere la struttura del mondo /e la forza degli elementi, il principio e la fine dei tempi, / l’alternarsi dei solstizi e il sus-seguirsi delle stagioni, / il ciclo degli anni e la posizione degli astri» . In definitiva, solo lo sguardo sull’intero e sulla comunione profonda dell’essere ci permette di decifrare via via il senso possibile delle prossimità, dei tempi imminenti. La progettazione del presente non può declinarsi che nei modi delle disponibilità e dell’avere. Ma l’avere e le disponibilità trovano la propria autenticità solo nella subordinazione delle parti ad un comune destino, solo nell’attesa utopica di sensi reciproci, di beni comuni: un ideale che si dà propriamente come principio ermeneutico, come cri-terio di giudizio per i passi concreti nel tempo. Ci ritorna appunto la verace utopia di Marx per il quale il di-segno di una società buona sta nei modi in cui la libertà di ciascuno si dà validamente solo se si dà come condizione per la libertà di tutti . Vorremmo aggiungere: solo come condizione per il benessere dell’intero. Agostino, nella sua Civitas Dei, direbbe meglio che gli abitanti di una città libera «sono compagni di una pace eterna, dove non c’è amore della propria e in certo senso privata volontà, ma solo amore che gode del bene comune» .
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Ma l’avere e le disponibilità trovano la propria autenticità solo nella subordinazione delle parti ad un comune destino.
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I conti aperti con il mondo moderno Mario Tronti
Presidente del Centro per la Riforma dello Stato
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l Concilio Vaticano II è stato senza dubbio uno degli eventi che hanno segnato il Novecento. Non ha riguardato la sola Chiesa, ma l`intera comunità umana, secondo quella vocazione universalistica implicita nella cattolicità. È importante richiamare la contingenza storica in cui l`evento venne programmato e realizzato. Gli anni Sessanta: si accelerano i processi di modernizzazione, sociale e civile, in tutto l`Occidente, la secolarizzazione avanza, negli impianti culturali e nei mondi vitali, c`è un salto nella coscienza collettiva intorno ai problemi degli individui. La Chiesa sente su di sé il morso dei tempi nuovi. Un Papa semplice, nell`accezione positiva degli uomini semplici, come Giovanni XXIII, intuisce una necessità, supera le resistenze, impone un`iniziativa, che subito assume il valore di una svolta, se non di uno strappo. Il Concilio in fondo è il nuovo episodio di un antico rapporto, controverso: quello tra Chiesa e modernità. Una storia lunga, con luci e ombre, più ombre che luci. Lo stesso Novecento, il secolo della modernità in crisi, ne aveva dato drammatica rappresentazione. Il contesto però a quel punto è inedito. Il Moderno sta arrivando in mezzo al popolo. Lavoro, redditi, consumi, cultura e comunicazione di massa, schizzano in avanti, spezzano i vecchi recinti, compresa la tradizionale famiglia, fin lì sicuro mezzo di disciplinamento dell`ordine costituito. Ancora oggi la Chiesa fatica a prendere atto dell`esplosione nucleare avvenuta in questa istituzione. E non essere riuscita a darne una nuova declinazione, è ancora motivo di difficoltà che si riproduce e si allarga nell`intero sociale. Comunque nel Concilio la lotta fra tradizionalisti e innovatori fu frontale, con la vittoria, bisogna dire, di 25
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C`è un filo robusto che lega Paolo VI e Benedetto XVI e non capisco chi interpreta Papa Ratzinger come un restauratore.
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questi ultimi, come si può vedere dalla maggior parte dei documenti consiliari. Semmai, le mediazioni al ribasso vennero nel dopo-Concilio. C`è un filo robusto che lega Paolo VI e Benedetto XVI e non capisco chi interpreta Papa Ratzinger come un restauratore. È indubbio che l`evento fu una risposta giusta, direi, indispensabile al momento. Il problema di oggi, a cinquant`anni di distanza, è valutarne gli esiti e darne un giudizio disincantato. Difficile dirne in poche battute. La mia impressione è che ci fu un di più di subalternità rispetto all`onda modernizzante e secolarizzante allora potentemente in atto, e da allora poi dilagante in forme sempre più antropologicamente devastanti. Se ne accorse subito quel grande Papa, complesso, che è stato Paolo VI. Non semplicemente intuì, comprese, dall`alto di una raffinata cultura novecentesca, le prime possibili conseguenze. Non frenò, ma cominciò a mettere in guardia, dall`aderire passivamente a una pura esigenza di aggiornamento dell`istituzione, che corresse dietro non alla modernità, ma a quella sua deriva che è venuta avanti come cosiddetto postmoderno. Lo fece con la sua stessa figura sofferta di pontefice, intellettuale della crisi, tormentato più che rassicurato dalle verità di fede. Chi non coglie nel Moderno il segno tragico, che lo attraversa, sempre, chi ci vede soltanto uno strumento di sviluppo per la storia della salvezza, chi non ne riconosce le aporie, le contraddizioni drammatiche, fino a capire come nel progresso si nasconda il ritorno del sempre eguale, non vede lontano, si fa prigioniero di un presente effimero, e innesca senza volerlo ingovernabili percorsi di decadenza. È accaduto in vari campi. Il campo ecclesiale non ne è rimasto immune. Trovo in questo un`affinità tra Papa Montini e Papa Ratzinger. Benedetto XVI, in modi diversi, meno attraverso la sua figura, più attraverso le sue opere, compie un`operazione analoga. Non chiude al mondo, chiude a questo mondo. Cerca di trattenere l`onda desacralizzante, organica alla struttura e alla mentalità dell`attuale fase di postmodernità. Questa onda viene cavalcata dall`onnipotenza della tecnica, dal primato assoluto dell`economia che si fa quasi solo finanza, viene evidenziata dalla corruzione della politica, ma - ecco un grande tema culturale di oggi viene riprodotta in maniera allargata da un vecchio
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apparato ideologico radicaleggiante, falsamente libertario, di stampo neo-borghese progressista, che separa libertà da responsabilità e così crea guasti forse irrimediabili soprattutto nella formazione umana delle giovani generazioni. La voce di questo Papa, per chi sa intendere, detta, a volte contro la sua Chiesa, un messaggio teologico di rigore etico, di cui oggi si sente gran bisogno, accanto e ben oltre il rigore economico, consiglia uno stile di austerità nei comportamenti, individuali e sociali, sfugge opportunamente nei linguaggi a ogni posa da grande comunicatore. Non comprendo perché venga visto come un restauratore. A mio parere, proprio così richiama l`ispirazione originaria del Concilio, scansando, nell`unico modo possibile, quella eterogenesi dei fini, che ha finito per colpire tutte le rotture dei favolosi anni Sessanta. La grandezza del Concilio Vaticano II sta nella capacità che mostrò allora la Chiesa, ammaestrata dalla sua lunga storia, di prendere essa l`iniziativa della Riforma, prima che le tesi alternative venissero affisse da qualcuno sul portale di qualche cattedrale. Esattamente quello che altre esperienze non sono riuscite a fare. La Chiesa cattolica è maestra di sapienza politica. Chi non va a quella scuola, rischia a più riprese un analfabetismo politico di ritorno, non saprà leggere la vicenda umana, non saprà scrivere la lunga durata dello stesso suo proprio destino...
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La Chiesa cattolica è maestra di sapienza politica. Chi non va a quella scuola, rischia a più riprese un analfabetismo politico di ritorno.
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Il cattolicesimo tra passato e futuro Fulvio De Giorgi
insegna Storia della pedagogia e dell'educazione presso l'Università di Modena e Reggio Emilia
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Nella sua ultima intervista, il card. Martini ha affermato che la Chiesa cattolica è indietro di “200 anni”. Non si tratta, a mio avviso, di un’espressione iperbolica e generica, tanto per indicare una complessiva arretratezza di lunga data: si tratta di un’indicazione storica precisa in cui inquadrare l’aggiornamento o il mancato aggiornamento della Chiesa cattolica contemporanea. Si tratta, cioè, di prendere le mosse da duecento anni fa, dunque dall’avvio della Restaurazione, dopo il periodo rivoluzionario francesenapoleonico, che si era abbattuto sulla Chiesa come un ciclone distruttivo e drammatico. Con l’età della Restaurazione, pertanto, dal Congresso di Vienna in poi (appunto circa duecento anni fa), il cattolicesimo europeo e occidentale dovette confrontarsi con due grandi processi storici: da una parte, i movimenti che si battevano per istituzioni di libertà e per l’abbattimento del neoassolutismo reazionario restaurato, dunque l’instaurarsi progressivo di regimi costituzionali e l’affermarsi dell’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini; dall’altra, le dinamiche socio-economiche del capitalismo e della rivoluzione industriale, con l’affermarsi sia del ‘mercato’ come regolatore ideale sia del profitto come valore assoluto e indicatore reale di efficacia. Rispetto a questi due grandi processi, le posizioni in campo cattolico andarono frastagliandosi, ma – schematizzando per cogliere i crinali principali di fondo – il secondo aspetto fu, almeno inizialmente, assorbito dal primo, rispetto al quale emersero due grandi atteggiamenti, tra loro opposti. 28
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Da una parte vi fu la posizione neoteocratica di Gregorio XVI e del Pio IX post-1848 (ma con presupposti nel magistero pontifico precedente, fin da Pio VI) che mirava a rafforzare l’alleanza restaurata e reazionaria tra trono e altare, criticava teologicamente i regimi di libertà, si attestava su un atteggiamento di intransigente e totale rifiuto della civiltà moderna: un teocentrismo medievalista contro l’antropocentrismo moderno. Ben esprimeva questa concezione l’enciclica Quanta cura (1864) di Pio IX che, condannando i regimi negatori del potere della Chiesa “non meno verso i singoli uomini, che verso le nazioni, i popoli e i supremi lor prìncipi”, precisava colla quale idea di sociale governo, assolutamente falsa, non temono di caldeggiare l’opinione sommamente ruinosa per la cattolica Chiesa e per la salute delle anime, dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di venerata memoria chiamata delirio, cioè «la libertà di coscienza e dei culti essere un diritto proprio di ciascun uomo, che si ha da proclamare e stabilire per legge in ogni ben costituita società, ed i cittadini avere diritto ad una totale libertà che non deve essere ristretta da nessuna autorità o ecclesiastica o civile, in virtù della quale possano palesemente e pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti quali che sieno, o verbalmente, o per mezzo della stampa, o in altra maniera». L’affermarsi però di regimi liberali – che costituiva progressivamente una civiltà nuova, meno oppressiva e costrittiva – portava questa visione neoteocratica a sostenere un nuovo ‘cattolicesimo politico’, cioè una mobilitazione del laicato, subordinato alla gerarchia e mirante sia alla difesa degli interessi cattolici, sia a regimi confessionali, sia ad un rapporto integralistico fede-politica: in sostanza ad una politicizzazione del cattolicesimo, ad un perenne atteggiamento polemico, rancoroso, di condanna, nonché a una negazione dell’uguaglianza giuridica dei cattolici con i fedeli di religioni diverse (ebrei, protestanti, agnostici, atei).
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A fronte di questa posizione stava quella, aperta criticamente al moderno e dialogante, di Antonio Rosmini (recentemente beatificato da Benedetto XVI) che era favorevole a regimi costituzionali di libertà e non era confessionale (il progetto di costituzione per lo Stato pontificio, steso da Rosmini, non aveva una ‘religione ufficiale’). La teologia 29
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rosminiana superava, peraltro, ogni ipotesi di 'cattolicesimo politico' e poneva il problema di un umanesimo autentico e plenario, fuori da logiche di potere e di dominio, poiché rifiutava l’antitesi tra teocentrismo e antropocentrismo, affermando un cristocentrismo che ricomprendesse entrambi. Ciò implicava, peraltro, una visione complessiva diversa dei rapporti tra il piano spirituale-ecclesiale e il piano temporale della comunità politica. Nel 1848, al vescovo di Montepulciano mons. Claudio Samuelli, che gli aveva richiesto un parere, Rosmini scriveva una limpida lettera, che merita di essere ampiamente riferita: L'incarico che un Vescovo ha ricevuto da Gesù Cristo di predicare il Vangelo e di condurre le anime degli uomini all'eterna salute è così sublime, santo e divino, che non v'ha cautela soverchia da adoperarsi, perché nessun altro affare terreno ne impedisca od intralci e disturbi l'esercizio. Questo esercizio può essere intralciato soprattutto dalle umane opinioni in materia politica, le quali si dividono e contrariano secondo il vario sentire e pensare delle menti, e pur troppo ancora secondo le varie passioni da cui si lasciano agitare gli uomini e le cieche fazioni che ne derivano. Sopra di tutti questi interessi umani, di queste opinioni, passioni e partiti, che agitano e travagliano la società e l'umanità, si leva il Vangelo, e col Vangelo il Vescovo, che n'è il maestro istituito
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da Dio, e in questa regione celeste dell'Evangelio egli abita col suo spirito la città della pace imperturbata e felice: Nostra autem conversatio in coelis est. Parmi adunque che ogni Pastore della Chiesa cattolica adempia il suo ufficio e corrisponda all'altezza della sua missione divina, se, astenendosi dal prender parte in qualsivoglia politica controversia e dal dichiararsi per qualsivoglia fazione, si limiti a predicare a tutti egualmente e in modo generale la giustizia, la carità, l'umiltà, la mansuetudine, la dolcezza, e tutte le altre virtù evangeliche, riprovando i vizi contrari e difendendo acremente i diritti della Chiesa, dove venissero da qualsivoglia parte violati. Reputo che il Vescovo debba, soprattutto in questi tempi, spargere un olio balsamico di dolcezza nelle piaghe dell'umanità, debba guardarsi da ogni giudizio temerario, da ogni parola ingiuriosa a chicchessia, da ogni adulazione strappata dal timore, da ogni connivenza al male che gli fosse persuasa da speranze di giovare, conservando un contegno grave, riservato, fermo, con una conversazione verso tutti soave ed amorevole, ed insieme atta a far distinguere con una santa dottrina, ma senza alcuna veemenza, il bene dal male. Nella visione rosminiana, la Chiesa come tale non fa politica, ma si impegna senza ambiguità, compromessi e paure, ad annunciare e testimoniare il Vangelo delle Beatitudini: da una parte ha fiducia nella scelta libera delle coscienze; dall’altra non si nasconde che il peccato, sempre presente nel cuore dell’uomo, ha pure una dimensione sociale, di egoismo sociale e di ingiustizia sociale. La Chiesa, dunque, in tale prospettiva, non rifiuta e combatte la libertà, ma rifiuta e combatte la violenza sopraffattrice in tutte le sue forme: istituzionali (cioè di regimi politici tirannici e illiberali), socio-economiche, di civiltà.
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Nella visione rosminiana, la Chiesa come tale non fa politica, ma si impegna senza ambiguità, compromessi e paure, ad annunciare e testimoniare il Vangelo delle Beatitudini.
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Tirando le somme, si può dire che la prima posizione è stata egemone per tutta l’età ‘piana’ (così chiamata perché, su 11 papi, 7 si chiamarono Pio) della Chiesa cattolica: da Pio VI a Pio XII. Vi è stato naturalmente un percorso storico complesso e articolato, che non si può in questa sede ricostruire. Ma, insomma, ancora negli ultimi anni di Pio XII il regime preferito, in molti ambienti ecclesiastici e curiali, era il Franchismo (o il Salazarismo). I pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI e, in essi, il Concilio Vaticano II hanno chiuso l’età piana, hanno 31
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La santità non è politicamente connotabile, neppure in senso democratico, ma sicuramente esclude, esistenzialmente, pensieri, parole e opere antidemocratici, perché non compatibili con una coscienza evangelicamente orientata che si confronti con il mondo contemporaneo.
decretato l’abbandono del paradigma neoteocratico, confessionale, polemico. Il cosiddetto insegnamento sociale della Chiesa vuole essere, oggi, una affermazione evangelica - nel genere della teologia morale - dei valori di libertà e giustizia sociale, nonviolenza e pace, solidarietà e partecipazione democratica. Ciò ha molte importanti conseguenze, non ancora completamente assorbite e metabolizzate dalla Chiesa cattolica contemporanea. Ne indico solo alcune: il ‘cattolicesimo politico’ è finito; la Chiesa non deve politicizzarsi, farsi parte (partito) tra i partiti, non deve parteggiare per questo o per quello; ma deve annunciare il Vangelo. I cattolici laici possono e devono impegnarsi in politica, a livelli diversi secondo la loro personale vocazione, con possibilità di scelte (di voto o di militanza partitica) diverse; possibilità, peraltro, non illimitata, perché non si possono accettare la violenza, il razzismo, l’ingiustizia. La santità contemporanea non è dunque una santità politica e, tuttavia, può concepirsi un santo di oggi che, in spregio dell'insegnamento sociale della Chiesa, sostenga regimi tirannici, xenofobi, totalitari, antidemocratici? In altri termini la santità non è politicamente connotabile, neppure in senso democratico, ma sicuramente esclude, esistenzialmente, pensieri, parole e opere antidemocratici, perché non compatibili con una coscienza evangelicamente orientata che si confronti con il mondo contemporaneo.
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Nel post-Concilio c’è stato, peraltro, il faticoso nascere di un disegno pastorale che fosse organico e funzionale al nuovo paradigma conciliare. Nello sviluppo di tale disegno non sono mancati i problemi, che determinano le attuali difficoltà. Durante il pontificato di Paolo VI, che ha avviato con incisività il rinnovamento conciliare effettivo, si sono create due anime complementari, quasi i due polmoni della proposta pastorale montiniana: possiamo anche chiamarle, schematizzando, destra e sinistra, ma in senso pastoralesociale non politico. La destra montiniana può essere emblematizzata nella figura di Karol Wojtyla: operando in un contesto di totalitarismo comunista, pur connotandosi con un atteggiamento dialogante, sottolinea con forza l’istanza della libertà politica. La sinistra montiniana può invece essere emblematizzata nella figura di Oscar Romero: operando in 32
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un contesto di estrema povertà e di oppressione dei ceti subalterni, pur connotandosi con un atteggiamento di netto rifiuto della rivoluzione violenta, sottolinea con forza l’istanza dell’opzione preferenziale per i poveri e della giustizia sociale. Durante il pontificato montiniano queste due ‘anime’ sono state tra loro complementari e sono state sintetizzate pastoralmente dal magistero: con efficacia maggiore (si pensi, per esempio, al III Sinodo mondiale dei Vescovi) o minore (forse a partire dal dimissionamento di Lercaro e dalla emarginazione delle posizioni ‘dossettiane’, che meglio favorivano il raccordo appunto delle due sensibilità). L’elevazione al soglio pontificio di Karol Wojtyla ha portato in esponente la destra montiniana e ne ha esaltato le posizioni. Ciò – fino alla caduta del Comunismo nell’Europa orientale, cioè più o meno fino al 1989 o ai primi anni ’90 – ha rappresentato, nel complesso, una stagione felice e propulsiva, ponendo la Chiesa cattolica alla testa della rivendicazione – sul piano mondiale della civiltà – dei diritti umani, della libertà di coscienza, dell’antitotalitarismo, di regimi di libertà. Ma intanto si compiva l’errore di demolire progressivamente la sinistra montiniana. Dopo il crollo del Comunismo, peraltro, il periodo successivo, fino praticamente ai nostri giorni, ha visto nel mondo l’ascesa e il trionfo del Neoliberalismo, con una crescita delle disuguaglianze, nuove condizioni di ingiustizia sociale, aumento della povertà. Lo stesso Giovanni Paolo II ha intuito, in realtà, il cambiamento fin dall’avvio e, nella Centesimus annus (1991), ha affermato: “La soluzione marxista è fallita, ma permangono nel mondo fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel terzo mondo, nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei paesi più avanzati, contro i quali si leva con fermezza la voce della chiesa. Tante moltitudini vivono tuttora in condizioni di grande miseria materiale e morale. Il crollo del sistema comunista in tanti paesi elimina certo un ostacolo nell’affrontare in modo adeguato e realistico questi problemi, ma non basta a risolverli. C’è anzi il rischio che si diffonda un’ideologia radicale di tipo capitalistico, la quale rifiuta perfino di prenderli in considerazione, ritenendo a priori condannato all’insuccesso ogni tentativo di affrontarli, e ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato” . Ed è proprio quello che è avvenuto. 33
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È evidente che la mediazione politica che, laicamente e pluralisticamente, operano i laici si inscrive sempre in un disegno pastorale di riferimento.
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Di fronte al trionfo del Neoliberalismo, del profitto come valore assoluto, del conseguente predominio di un materialismo pratico (edonismo, nichilismo, utilitarismo, empirismo, ecc.), non avendo più di fronte un avversario ideologico (il materialismo teorico, l’ideologia totalitaria comunista, l’ateismo di stato), la Chiesa cattolica ha manifestato un’evidente debolezza pastorale. Certo Benedetto XVI ha abbozzato una risposta, con la beatificazione di Rosmini e con l’enciclica Caritas in Veritate, ma si resta ancora molto indietro: il massimo di energia pastorale oggi possibile è ben al di sotto del minimo di impegno pastorale richiesto dalla storia. Si paga drammaticamente la demolizione della sinistra montiniana. Ciò significa, tra l’altro, che i cattolici che, pluralisticamente, si impegnano in politica, mancano di un paradigma forte di teologia morale e di visione pastorale complessiva, all’altezza della sfida storica presente (che non è più quella del Comunismo, ma quella del Neoliberalismo). Certi sbandamenti o smarrimenti affaristico-clientelari non sono solo dovuti alle dinamiche interne di movimenti integralistici autoreferenziali. Occorrerebbero oggi, veramente, più comunione e più liberazione: una Pastorale della Comunione e una Teologia della Liberazione: cioè una Teologia rosminianamounieriana-conciliare (e montiniana) della Liberazione, come ecclesiologia e come evangelizzazione, che sola cioè può articolare efficacemente una ‘nuova evangelizzazione’ in grado di reagire al gigantesco fallimento pastorale mondiale degli ultimi decenni: una drammatica distruzione analoga a quella del periodo rivoluzionario-francese e napoleonico (uno tzunami è stato definito al Sinodo). È evidente, infatti, che la mediazione politica che, laicamente e pluralisticamente, operano i laici si inscrive sempre in un disegno pastorale di riferimento. Oggi questo disegno appare ambiguo e incerto tra essere conciliare o tornare preconciliare (cioè alle dinamiche integriste avviate 200 anni fa): la mediazione politica allora oscilla tra tendenze centralisticamente unitarie e mantenimento del pluralismo, tra empirismo di piccolo cabotaggio (e di compromessi affaristici corruttivi) e visioni complessive (talvolta solo retoriche). Come sarebbero i politici cattolici se, invece di una Chiesa contraddittoria, ci fosse una Chiesa dei poveri, una Chiesa povera, umile e mite, radicalmente evangelica?
Concilio, cinquant'anni ma non li dimostra
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Riforma della Chiesa e della politica.
Due incompiute Giovanni Bianchi
ex parlamentare e presidente ACLI
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ntorno ai nodi del rapporto tra Concilio e politica è cambiato tutto così in fretta che ci ha sorpresi l'impossibilità di scrivere sopra la mappa "Voi siete qui" per un tempo che duri almeno una stagione. Dossetti pensava che nel nostro Paese la riforma della politica non potesse andare disgiunta da una riforma della Chiesa. Ma il concilio, dopo avere coronato con la sua legittimazione gli sforzi durati decenni per il riconoscimento di una nuova maturità del laicato anche e soprattutto nello spazio pubblico, aggiunge di suo una svolta a gomito che attraversa la Chiesa e insieme la società civile italiana. Abbiamo del resto imparato a nostre spese che le discontinuità accadono e difficilmente possono essere programmate. Pur tuttavia la categoria principale con la quale guardare ai lavori dei padri conciliari resta quella della tradizione: perché la tradizione non è soltanto accumulo di memoria ma anche di accadimenti di segno tra loro diversi, e racchiude in sé stessa continuità e discontinuità, svolte a gomito comprese. Non a caso la grande tradizione ecclesiale ingloba la riforma di Gregorio Magno che segnò il mondo antico con una cesura irreversibile, così come il concilio chiude la stagione della cristianità per aprirne un'altra della quale ancora non abbiamo inteso tutte le sfide. Approda in concilio l'immenso lavoro durato decenni delle nuove teologie delle realtà terrene, il tentativo anche pratico di ribaltare la visione delle cose e di consentire ai laici finalmente una figura adulta. La stagione conciliare rappresentò la sintesi e il coronamento di questo percorso condotto in condizioni estremamente difficili, e aprì una fase nuova con il riconoscimento del grande contributo al rapporto tra 35
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cristianesimo e democrazia dato da Jacques Maritain, autore di Umanesimo integrale, cui papa Paolo VI consegnò simbolicamente alla chiusura del concilio il proprio messaggio agli uomini di scienza e di pensiero. Un lungo itinerario sembrò ottenere finalmente accoglienza e legittimazione: un riconoscimento che chiudeva una stagione per aprirne un’altra. Ma, con il senno di poi, il meriggio della democrazia e dei riformismi, all'incrocio sospirato tra cristianesimo e illuminismo, dopo essere trionfalmente approdato in concilio, declina rapidamente con la rapidità di un tramonto invernale. Un passaggio che vede maggiormente attente ed attrezzate le chiese che abitano in paesi lontani dall'Europa e che, dopo Medellin (1968) e Puebla (1979), vedranno messa sotto osservazione e inseguita da nuovi anatemi la teologia della liberazione. Gutierrez, Boff e Sobrino (cui aveva fatto da battistrada il salesiano Giulio Girardi diffondendo un Gramsci rivisitato) sconteranno le medesime pene di Congar, De Lubac e Chenu. Dietro i nuovi teologi della liberazione s'agita il fantasma di Camilo Torres, il prete che imbraccia il fucile, ma l’icona del prete guerrigliero è fuorviante: i nuovi approcci teologici che hanno il coraggio di confrontarsi sul campo con la durezza del politico non si distinguono dalla vulgata precedente per il problema dei mezzi – riforma o rivoluzione – ma per l'indicazione del passaggio che il dovere dell'ora sembra richiedere: dall'ortodossia all’ortoprassi. E anche le culture politiche del Vecchio Continente, riassunte e aggiornate dalla teologia politica di Johann Baptist Metz, non potranno più evitare il nuovo terreno di confronto. Si esauriscono progressivamente le figure "classiche" della mediazione e del servizio e l’urgenza dell’ortoprassi le strattona più verso nuovi tentativi e nuove pratiche che verso nuovi sistemi culturali. Perché è pur sempre vero che nell'agone della politica l'elaborazione teorica segue anziché precedere una decisione pratica. E il non essersi messi su questa strada difficile ha interrotto i sentieri e le strade precedenti. Il meriggio dei riformismi ha corso il rischio di vivere della nostalgia di un primato della politica fattosi introvabile. Non a caso il problema attuale della politica non è la rivendicazione di un primato pregresso – sorta di spocchia da nobile decaduto – ma l'umiltà di praticare percorsi che questa dignità intendono ricaricare all'interno di un tessuto di sottosistemi, ivi compreso quello finanziario, che hanno dato luogo a una lotta globale 36
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senza quartiere per l'assetto dei poteri. Il fronte della contesa non è quello con l'antipolitica, anche perché l'antipolitica non è destinata a restare tale per l'eternità, e il confine che la separa dalla politica è poroso e attraversabile nei due sensi. L'antipolitica è sempre in attesa di chi la interpreti politicamente (che è poi la lezione di Hegel) e se tu non ne cogli le domande verrà ovviamente interpretata contro di te. Può dispiacere e anche infastidire, ma il concetto di casta, elaborato da giornalisti molto attivi nel bombardare il quartiere generale delle istituzioni, è diventato oramai una categoria della politica italiana corrente. E non può essere evitato. Il marchingegno deve essere smontato sul campo, perché il suo permanere mantiene il muro che separa la politica da una sua recuperata credibilità. È la recezione del concilio totalmente avulsa da tutto ciò? Il dibattito e le svolte che attraversano i lavori conciliari ci riguardano ancora da vicino? Penso che col terzo millennio si sia aperta la "terza fase" nella recezione del concilio, in una stagione caratterizzata dal disincanto e non di rado attraversata da movimenti anticonciliari. Lontani mezzo secolo dall'entusiasmo degli inizi: non quello delle psicologie, ma quello dello Spirito che soffia. Quando il Papa Bergamasco indice il concilio la Chiesa cattolica è spinta dall'ansia (l'aggiornamento giovanneo) di fare pace con la modernità al tramonto. È così che il meriggio dei riformismi pare distendersi non più sotto il sole di Satana ma sotto il sole di Dio. E, dove il ritardo delle politiche istituzionali rispetto alla dignità umana risulta insopportabilmente maggiore, come nei paesi abitati dalle chiese latino-americane, la riforma si volge in strappo rivoluzionario, creando il terreno opportuno alle teologie della liberazione. Detto alla plebea ma col lessico del Vangelo: Non chiunque mi dice: Signore, Signore...(Mt 7,21). Una chiesa cattolica dunque finalmente e praticamente amica della politica, al punto da pensare di uscire definitivamente dalla sindrome di Costantino. Cosciente della circostanza che è finita la cristianità, ma ne persiste la nostalgia. Il Concilio recupera infatti la costitutività dei soggetti e in un unico atto rivelativo comunica Dio e l'uomo, obbligando la Chiesa stessa a riscoprirsi chiesa del concilio, e cioè erede dello stile conciliare e del suo ruolo "unico" e pastorale. Perché la "chiesa dei poveri" (e la chiesa povera) vuol dire cessare di viversi come instrumentum regni e come cristianità, servendosi invece di quei "mezzi poveri" che erano la raccomandazione
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Penso che col terzo millennio si sia aperta la "terza fase" nella recezione del concilio, in una stagione caratterizzata dal disincanto e non di rado attraversata da movimenti anticonciliari.
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Un'enciclica come spartiacque, anche se quei "segni dei tempi" sono destinati a cambiare (e ahimè quanto lo sono) con il mutare della stagione storica.
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più volte ripetuta da Giuseppe Lazzati. Una fisionomia di chiesa delineata in concilio dall'intervento del cardinale Lercaro sulla "chiesa dei poveri" appunto – un testo steso nottetempo da Dossetti – e dal discorso pronunciato dal cardinale Frings, ormai quasi cieco, e preparatogli dal giovane teologo bavarese Joseph Ratzinger. La bussola di tutti gli approcci è rappresentata dalla lettura dei "segni dei tempi", quasi una categoria d'analisi estratta da papa Roncalli direttamente dal Vangelo di Luca (Lc 12,54-59) e illustrata nell'enciclica Pacem in terris (aprile 1963). Un'enciclica preparata all'insaputa dei padri conciliari e gettata tra le loro carte. Un'enciclica come spartiacque, anche se quei "segni dei tempi" sono destinati a cambiare (e ahimè quanto lo sono) con il mutare della stagione storica. Il nuovo protagonismo del laicato "adulto" – sospinto dai testi delle grandi costituzioni conciliari – gonfia le vele del sindacato e del partito, mentre mette in discussione la stessa struttura tradizionale della Chiesa proponendo la centralità del popolo di Dio – sacerdotale, regale, profetico – con un mutamento radicale della prospettiva comunitaria. L'altare girato dalla parte dei fedeli, con il celebrante che non dà più le spalle durante la messa, illustra il cambiamento nella scena liturgica. Così come l'abbandono del latino. È ovvio che la recuperata dignità dell'organizzazione politica non possa andar disgiunta dal recupero di nuova dignità da parte di un laicato che al concilio era arrivato dopo una lunga marcia condotta all'interno delle sue associazioni. E a questo punto sarebbe forse utile introdurre una pausa di riflessione circa il senso e il vissuto della nostra laicità: dal momento che troppi esponenti della cultura laica nazionale la considerano una propria prerogativa, quasi che i credenti debbano semplicemente accedere a un territorio da essi presidiato, dimenticando le fatiche dei cattolici per contribuire a costruire una laicità comune in grado di porsi come luogo terzo di una cittadinanza condivisa. Nel mezzo secolo che precede il concilio i laici che lavorano, si sposano, amministrano possono salvarsi comprimendo i vizi insiti in tutte queste attività e facendo beneficenza… Tra il 1917 e il Concilio Vaticano II si svolge quella teologia e quella vita cristiana che possiamo definire delle realtà terrene e della autonomia dell’ordine temporale. Non è questa la sede per ritornare su quell'appassionante dibattito, basta qui rilevare che emergeva allora una verità antica come le Scritture: l’"ordine temporale" si inseriva
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nell’ordine della creazione ed esso andava riportato a Dio attraverso la sua peculiarità e la sua autonomia. La storia della salvezza non era un'altra storia. Sono noti a tutti autori come Maritain, Chenu, Congar, La Pira. La valorizzazione teologica del temporale, l'intuizione che la secolarità è luogo teologico essa stessa non poteva che inscriversi in una lettura diversa del laicato nella chiesa e nel mondo. Spetterà al concilio coronare questi sforzi e condurre a compimento i faticosi tentativi che affermano l'essere tutti Christi fideles, e quindi tutti, laici e chierici, partecipi del sacerdozio comune. Partecipi cioè di quella "piena dignità" che padre Philips mette in rilievo come tonalità dominante non soltanto del capitolo de laicis ma di tutta la costituzione Lumen Gentium, e che ha in Sant’Agostino il primo estimatore: con voi sono cristiano, per voi sono vescovo. Per questo mi è parso utile ricollegarmi alle analisi sulla recezione del Concilio Ecumenico Vaticano II scegliendo la categoria della tradizione, la più solida e illuminante rispetto ad altre versioni quali continuità e discontinuità, dal momento che
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la recezione italiana del concilio ecumenico trova gran parte delle ragioni di un nuovo innesto nella tradizione. Si riapre per così dire la stagione del riformismo, nella sua accezione pluriculturale.
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la categoria della tradizione le ricomprende. La tradizione non è infatti ripetizione, ma accumulo, non solo di conoscenze ma anche di esperienze. Due piani di lettura dunque che si richiamano l'uno all'altro. Con due avvertenze, di grande valenza politica, che si impongono: la recezione del concilio non può essere la sola recezione dei documenti, ma coinvolge tutti i soggetti ecclesiali nella loro trasformazione e nella trasformazione soprattutto dei rapporti reciproci; dietro ogni modello ecclesiale si organizza un modello comunicativo. E qui il problema si affaccia: un concilio a rischio d'essere "tradito" per troppa cautela e poco coraggio, di cui è spia il silenzio rassegnato dei teologi. Non un punto d'arrivo comunque, ma un crocevia per una ripartenza. Un grumo di problemi era approdato in concilio. Da tempo erano al lavoro pensatori e testimoni che si affaticavano intorno alle sollecitazioni proposte dalla modernità. La stagione più felice in termini di elaborazione fu quella preconciliare, dagli anni Trenta (con la famosa opera del p. Congar Jalons pour une teologie du laïcat) ai Cinquanta, con le ricerche di Lazzati e le esperienze in Italia anche traumatiche di dirigenti di Ac come Carlo Carretto e Mario Rossi. La stagione conciliare rappresentò la sintesi e il coronamento di questo percorso condotto in condizioni estremamente difficili. È proprio qui che la recezione italiana del concilio ecumenico trova gran parte delle ragioni di un nuovo innesto nella tradizione. Si riapre per così dire la stagione del riformismo, nella sua accezione pluriculturale. Il coronamento nelle forme del politico è rappresentato dalla formula di centro-sinistra (con il trattino e senza) con l'egemonia rinnovata, dopo De Gasperi, del cattolicesimo democratico. Un filo tragicamente spezzato dall'assassinio di Aldo Moro: vera tragedia all'interno dell’itinerario democratico del Paese, perpetrato dalle Brigate Rosse per la scelta evidente di colpire i vertici nella pratica politica come in quella civile di un riformismo possibile. Ma da situare anche all’interno di una oscura strategia di poteri forti, a cavallo tra civile e istituzioni, sordidi e occulti, mai estirpati dalle caverne della storia nazionale. (E’ la trama della quale si occupa Miguel Gotor nel secondo libro sul carteggio di Aldo Moro.) Non si tratta tuttavia dell'unica pista che attraversa i lavori dei padri radunati a Roma. L'altra pista, più esplicita e meno addomesticata dal continuismo progressivo dei testi conciliari, è quella che più decisamente fa riferimento all'input giovanneo e che pone profeticamente (ed
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ecumenicamente) il fuoco del problema tra fede e storia. Un tema meno acculturato ma più evidente nell'esperienza delle chiese non europee. Non soltanto la mediazione ereditata dalla vulgata cattolico-democratica ed in certo senso ormai classica, ma una mediazione sempre necessaria e da ripensare e ri-praticare con una inedita attenzione al rapporto tra Vangelo e storia, fede e politica. È il colpo di barra rappresentato dalla pubblicazione dell'enciclica Pacem in terris. E che l'esegesi più avvertita rintraccia nell'insistenza dei padri nel codificare l'espressione "popolo di Dio" invece che "corpo di Cristo", la dizione sostenuta da Paolo VI. Ed è a dir poco confortante constatare come nessuno dei 70 schemi iniziali arrivi in porto alla fine, benché si fosse lavorato tre anni alla loro preparazione. Ovviamente la figura del cattolicesimo politico italiano si confronta con queste discontinuità, non sempre avvertendone l'urgenza. Un modo di atteggiarsi condotto all'estenuazione dal "ruinismo", frutto di una pratica politicamente vincente che consuma la figura del servizio interpretando contrattualisticamente la mediazione e affermando de facto il primato dell'Istituzione sulla Parola. Una linea, quella rappresentata dal Cardinale Presidente, che prende atto, dopo un primo tentativo di accanimento terapeutico, della fine irreversibile dell'esperienza della Democrazia Cristiana, determinata dal venire meno delle condizioni interne ed internazionali che l’avevano legittimata. Il ruinismo conclude, nel senso che conduce agli esiti finali, tutto ciò. L'estenuazione è il metodo. L'ipotesi culturale, varata nel convegno ecclesiale di Palermo del 1995, l'icona. Il tema viene invece affrontato nella novità del suo spaesamento dalle chiese non europee. Vi è un'eco e una versione di questa svolta a "U" anche nella Chiesa italiana. Due figure di vescovi eminenti sono il riferimento magisteriale di quest'altra parte, più in ombra, della scena. Si tratta di don Tonino Bello, che propone in particolare una liberazione dalla guerra e dalla tirannia del potere clientelare, e di Carlo Maria Martini, il vescovo gesuita e biblista di Milano, assertore in ogni intervento del primato della Parola che giudica l'Istituzione. Ma se don Tonino è il punto di riferimento di movimenti giovanili e comunità, il magistero martiniano, universalmente apprezzato e lodato post mortem, non era stato accompagnato da una altrettanto visibile militanza nella prassi. Nella recezione conciliare si apre così una irrisolta dicotomia. Si
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L'ipotesi culturale, varata nel convegno ecclesiale di Palermo del 1995, l'icona. Il tema viene invece affrontato nella novità del suo spaesamento dalle chiese non europee.
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La transizione infinita dunque, a ben guardare, ha non scarse radici nella recezione del concilio.
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chiudono insieme la stagione della militanza e quella del riformismo. Le riforme “compatibili” le fanno i sacerdoti del capitale. Sarebbe miope e addirittura autolesionistico sottacere a questo punto la grande occasione rappresentata dall'Ulivo: meno di un partito e molto più di una coalizione, in grado di porsi alla confluenza delle grandi tradizioni politiche del Paese, di fare sintesi e di additare un orizzonte ulteriore. Ma dalla crisalide non ha volato a lungo la farfalla. Perché? Un tema immenso. Ma anche perché un partito non nasce da altri partiti, bensì dai luoghi di una storia dove la memoria è capace di semi di futuro. E anche perché le riforme in grado di cambiare il corso degli avvenimenti raramente si configurano come riforme dall'alto e non discendono (soltanto) dall'azione di un governo, anche quando si tratta del miglior governo che il Paese ha avuto dopo Tangentopoli. La transizione infinita dunque, a ben guardare, ha non scarse radici nella recezione del concilio. Anche perché si trova a fare i conti con una drastica mutazione di quelli che, proprio nell'enciclica Pacem in terris, papa Giovanni XXIII aveva definito i "segni dei tempi". Papa Giovanni XXIII indicava l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, l’ingresso della donna nella vita pubblica e la circostanza che tutti i popoli si erano costituiti o si stavano costituendo in comunità politiche indipendenti. Non è chi non veda quasi un segnare il passo o addirittura un degrado. Perciò la relazione finale de Sinodo dei Vescovi – quello convocato per il ventennale del Vaticano II trent'anni fa – pur riaffermando l’importanza della Gaudium et Spes, ha dovuto dire: Percepiamo che i segni del nostro tempo sono in parte diversi da quelli del tempo del Concilio, con problemi e angosce maggiori... Ciò obbliga a una nuova e profonda riflessione teologica per interpretare tali segni alla luce del Vangelo. E se gli uomini di chiesa si sentono obbligati a pensare le nuove emergenze in teologico, parrebbe perfino logico che gli uomini politici si sforzino di fare altrettanto mettendo a tema regolarità e irregolarità della politica, nel tentativo urgente di recuperare, se non il primato perduto, almeno una credibilità sufficiente a ridare dignità a una politica senza la quale nessuna società può uscire dal disordine.
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Domanda di laicità Serena Noceti
è docente di teologia sistematica alla Facoltà teologica dell'Italia centrale
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na soggettualità riconosciuta: i laici Il Vaticano II è il primo Concilio che dedica uno specifico documento ai cristiani laici. Dopo secoli di denigrazione della condizione laicale, definita per negazione (il laico è colui che non è chierico, né monaco; il laico è l’incolto, l’incompetente) e ricondotta a una condizione di minorità e di sostanziale irrilevanza (come asseriva il card. Bellarmino, i laici non hanno alcuna funzione nella chiesa), il Concilio Vaticano II riconosce la soggettualità dei laici e ne tratteggia caratteri specifici, funzione, missione, dedicando a questo tema ampi riferimenti nelle due Costituzioni Lumen gentium e Gaudium et spes e l’intero decreto Apostolicam actuositatem. Il lemma “laicità” non compare nel corpus dei documenti conciliari, ma la successiva elaborazione post-conciliare della tematica e gli argomenti richiamati nel dibattito, pubblico ed ecclesiale, affondano le loro radici nel dettato dei documenti e nelle prospettive adottate dai padri conciliari per parlare dell’identità laicale. Chiunque però accosti con sguardo critico i passaggi dei documenti del Vaticano II dedicati a questo tema coglie la compresenza di diversi modelli interpretativi che rimangono semplicemente giustapposti: il Vaticano II appare su questo tema indubbiamente “concilio di compromesso”, incapace di portare a visione unitaria e sistematica la riflessione; da un lato è debitore della riscoperta del laicato avvenuta nella teologia e nella prassi ecclesiale nella prima metà del ‘900 e dall’altro portatore di intuizioni nuove sulla relazione chiesamondo che –non previste- andavano emergendo nel corso dei dibattiti conciliari. Apostolicam actuositatem e il cap. IV di Lumen gentium ripropongono le linee di “teologia del laicato” maturata nella chiesa francese degli anni’50; il secondo capitolo di Lumen gentium e soprattutto la Gaudium et spes aprono nuovi scenari 43
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Il secondo capitolo di Lumen gentium e soprattutto la Gaudium et spes aprono nuovi scenari di presenza laicale.
di presenza laicale, nella società e nella chiesa, segnati da una più autonoma e consapevole soggettualità. I due gruppi di testi affrontano il tema dell’azione dei laici nella compagine ecclesiale e nella sfera pubblica, ma il retroterra, il fondamento, l’orizzonte interpretativo di una tale presenza e azione sono differenti; sono testi segnati e alimentati da prospettive ecclesiologiche per larghi tratte diverse. Una ricognizione pur rapida delle due diverse interpretazione del laicato lungi dal risolversi in una riflessione tutta interna alla vita ecclesiale permette di comprendere l’elaborazione di differenti modelli di laicità da parte del mondo cattolico nel post-concilio: il recente dibattito risente della compresenza, non risolta, di diverse declinazioni del rapporto chiesamondo nella mens conciliare e nella lettera dei documenti. Le trattazioni dedicate alla fisionomia dei laici, coloro che vivono nell’intersezione tra dinamiche ecclesiali e relazioni chiesa-società/stato, portano le tracce più evidenti di questa poliforme, “ambigua”, incompiuta riflessione. Due visioni dei laici, due scenari di laicità Il decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem e il IV capitolo della Costituzione sulla chiesa, mentre sottolineano il necessario riconoscimento dell’azione e della presenza dei laici nel mondo, nella vita pubblica e sociale, individuano lo specifico dei laici cristiani nell’«ordinare le cose del mondo secondo Dio» (LG 31) e ricordano che è proprio dei «pastori enunciare con chiarezza i principi circa il fine della creazione e l’uso del mondo, dare aiuti materiali e spirituali affinché l’ordine del temporale venga instaurato in Cristo» (AA 7). Alla base di tali affermazioni sta indubbiamente un impianto teoretico ancora incentrato sull’idea di cristianità e articolato sulla distinzione (che non è più separazione contrappositiva, ma non è ancora articolata sulla base dell’interazione sostanziale tra i due) tra due ordini e fini - soprannaturale e naturale, spirituale e temporale-, tra una sfera mondo e una sfera chiesa, la prima spazio proprio dei laici, il secondo appannaggio del clero a cui spetta dare indicazioni e principi anche per l’azione nel mondo. La determinazione delle norme di comportamento nel mondo viene, in questa prospettiva, fondamentalmente dalla parola di autorità del magistero che i laici devono concretizzare nella sfera sociale, pubblica, economica, politica. Si allarga così lo spazio di azione dei laici, se ne legittima l’autonomia di prassi nella sfera mondana e la
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responsabilità personale, ma essi ancora troppo spesso pensato come “figure di mediazione tra due sfere” giustapposte (chiesa e mondo), seconda una bipartizione dei fini apostolici (spirituali e temporali). I laici, attori finalmente riconosciuti sulla scena del mondo, ma non autonomi fino in fondo e solo parzialmente soggetto di determinazione dei contenuti del dire la fede nell’oggi della storia. I processi comunicativi intraecclesiali che vengono delineati in questo documento sono, infatti, con rare eccezioni, fondamentalmente pensati dalla gerarchia verso il laicato. Ben diverso lo scenario tratteggiato nel secondo capitolo della Lumen gentium, che inquadra il laico nel più vasto ambito del popolo di Dio, cioè del Noi ecclesiale complessivo, e nella Gaudium et spes, la Costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo. Il mondo è colto come spazio storico nel quale si compie il progetto di Dio di riconciliazione, pace, giustizia, pienezza di comunione con Dio e di unità del genere umano; la chiesa si riconosce come parte di questa umanità, portatrice di una missione unica, ma anche collaboratrice di quanti orientano la loro azione verso queste prospettive di pienezza di vita e realizzazione per l’umanità intera, pur mossi da differenti motivazioni o ideali (GS 40-45).
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La determinazione delle norme di comportamento nel mondo viene, in questa prospettiva, fondamentalmente dalla parola di autorità del magistero che i laici devono concretizzare nella sfera sociale, pubblica, economica, politica.
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La chiesa indica il suo specifico apporto al mondo nella Parola annunciata, nei sacramenti, nella vita comunitaria, ma afferma anche il suo essere relativa al realizzarsi del progetto di Dio per l’umanità e al mondo; sa di essere chiamata a leggere i segni della presenza di Dio anche al di fuori dei suoi confini e riconosce il dovere di interpretare i linguaggi del tempo e delle culture come via per poter comprendere più profondamente il vangelo stesso. I laici sono visti come coloro a cui «spettano propriamente anche se non esclusivamente gli impegni e le attività temporali» (GS 43) e insieme sono riconosciuti come soggetti che – dotati di parola autorevole nel corpo ecclesiale – contribuiscono a comprendere e annunciare il vangelo di Gesù nell’oggi della storia. Le dinamiche comunicative necessarie al corpo ecclesiale sono in questo caso pluridirezionali: senza negare lo specifico necessario di una parola dei vescovi, i documenti richiamano la specifica e necessaria parola dei laici, custodi di questo radicamento della chiesa nel mondo. Gaudium et spes consegna quindi la possibilità e la necessità di pensare prima di tutto la stessa “laicità di chiesa”, nel superamento avvenuto in Cristo della separazione tra sacro e profano, della contrapposizione tra un ordine naturale e un ordine soprannaturale. Laicità indica perciò questa modalità di rapportarsi al mondo, al sacro e ai sistemi di mediazione tra Dio e la storia; laicità è riconoscersi “mondani” e “storici”. Per i cristiani laici si apre la difficile missione di porsi nella compagine ecclesiale come i garanti della laicità di chiesa, i custodi della sua estroversione. Il lucido richiamo alla coscienza, libera, autonoma, responsabile, e l’affermata autonomia delle realtà terrene (rispettivamente GS 16 e 36) offrono poi prospettive innovative per pensare la laicità dello stato e sulle dinamiche di interazione “laica” che –credenti in Cristo, appartenenti ad altre religioni, non credenti, ma tutti cittadini– devono sviluppare nella società democratica, perché delineano le condizioni e le forme di soggettualità del singolo e i criteri con i quali rapportarsi alle leggi che regolano la convivenza sociale. «Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale; «le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri che l’uomo deve gradatamente scoprire, usare e ordinare […]. È dalla loro stessa condizione di creature che tutte le cose rivedono la 46
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propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l’uomo è chiamato a rispettare, riconoscenza le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte». A 50 anni dal Concilio Il confronto con un crescente pluralismo culturale e religioso, a cui la società italiana è apparsa culturalmente poco preparata e avvertita, il riemergere – sostanzialmente inatteso – della sfera del religioso esplicito nella determinazione dei contenuti di coscienza collettiva, gli orientamenti e le sollecitazioni di quanti vorrebbero ricondurre il cattolicesimo a una forma di civil religion, in una società frammentata, disorientata, disincantata come quella italiana, hanno spinto nell’ultimo decennio a un confronto sulla laicità, dello stato – della società – della chiesa, venato da una evidente polemicità. Rivisitare il dibattito sullo sfondo delle concezioni teologiche conciliari sui laici e sulle correlative comprensioni della relazione chiesa-mondo che esse consegnano permette forse di delucidare il retroterra di alcune posizioni cattoliche e di sviscerarne le implicazioni. Il ruolo assunto dall’episcopato italiano sulla scena sociale in questi ultimi due decenni appare forse in questa prospettiva chiaramente collegato a uno dei possibili modelli interpretativi di presenza dei laici e di interpretazione della missione ecclesiale (quello di Apostolicam actuositatem). La via percorsa non deve però far dimenticare la presenza di un altro modello, di presenzaparola dei laici e di articolazione della relazione della chiesa-società/stato. Sta oggi ai laici cattolici recuperare con lucidità la visione di Gaudium et spes per poter scegliere di vivere la laicità, connaturata all’esperienza cristiana, come capacità di assumere fino in fondo le logiche del mondo di cui siamo parte, insieme a tutti gli altri, valorizzando l’autonomia della coscienza libera e responsabile di tutti, l’autonomia delle realtà terrene, e – di conseguenze – agendo da credenti e perché credenti “etsi Deus non daretur”. Si tratta poi di recuperare quanto affermato nel secondo capitolo di Lumen gentium, sulla soggettualità di parola autorevole dei laici. Il dibattito pubblico ha risentito di una situazione di crisi e di stallo nelle relazioni intra-ecclesiali: la voce dei laici non ha avuto posto adeguato nella chiesa; le relazioni comunicative intraecclesiali sono state in larga parte unidirezionali (dalla gerarchia al laicato); le richieste di
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Rivisitare il dibattito sullo sfondo delle concezioni teologiche conciliari sui laici e sulle correlative comprensioni della relazione chiesamondo che esse consegnano permette forse di delucidare il retroterra di alcune posizioni cattoliche e di sviscerarne le implicazioni.
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partecipazione, di sinodalità, sono rimaste inascoltate con ripercussioni gravi non solo per la vita di chiesa, ma per la società in Italia; gli incontri ecclesiali (anche nazionali) sono spazio di parola per pochi e vedono molto raramente una profondità e libertà di ricerca e dibattito. Non porre le condizioni concrete perché l’apporto laicale sia offerto, riconoscibile e recepibile nelle grandi dinamiche che fanno la chiesa, la esprimono e la mantengono in essere, significa depauperare di fatto il soggetto ecclesiale, negando a una sua componente costitutiva lo spazio della visibilità e della mediazione necessaria per arricchire l’insieme, soprattutto quando si tratta di prendere posizione su grandi temi etici, su scelte economiche e politiche, sull’indirizzo da dare alla convivenza civile. Un deficit intraecclesiale ha avuto indubbie ricaduta sulla scena pubblica.
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Concilio, cinquant'anni ma non li dimostra
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Una Chiesa di laici nella società democratica Severino Dianich
è teologo e Vicario Episcopale per la Pastorale della Cultura e dell’Università a Pisa
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Una Chiesa per l’oggi Nella grande epoca della societas christiana, data la universalmente presunta identificazione della Chiesa con la società, non si sentiva alcun particolare bisogno di una “teologia contestuale”: testo e contesto potevano apparire come la stessa cosa. Ne hanno sentito acuto, invece, il bisogno, i Padri del concilio Vaticano II. La possibilità di rispondervi veniva da un modo diverso di considerare il rapporto fra la Chiesa e la storia. La nuova approfondita meditazione dei testi biblici aveva reso superabile l’idea che la Chiesa costituisse la forma ideale del mondo e, in qualche maniera, il punto d’arrivo del suo destino: questo, infatti, è il Regno di Dio, oggi presente, ma solo in germe, nella Chiesa (LG 3). Essa non ne costituisce affatto il compimento in terra, perché “va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria” (LG 5). In rapporto alla forma perfetta del mondo, il regno di Dio, la Chiesa è uno strumento: “è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano” (LG1). Con questa impostazione si supera il tradizionale ecclesiocentrismo, nel quale l’esito positivo della storia appariva condizionato radicalmente dalla tensione verso il convergere di tutto il mondo nella Chiesa e il mondo restava essenzialmente connotato in maniera negativa: una specie di chiesa mancata da recuperare, annettendolo a sé. Ne deriva lo spogliamento della Chiesa di un certo suo manto di assolutezza, per cui nella fede si è consapevoli che essa 49
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“cammina insieme con l'umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena” (GS 40).
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Un Chiesa di persone in dialogo con le persone Una volta trasferito il carattere di assolutezza alla figura del Regno, tutta l’impostazione dell’ecclesiologia supera quella visione esclusivamente oggettivistica che era propiziata anche dal confrontarsi di una Chiesa, consapevole di sé come dotata di un valore assoluto, in possesso di tutta la verità, con una realtà reputata vuota di qualsiasi valore, il mondo. Gia nella radice più profonda della fede, però, cioè nell’evento stesso del credente che accoglie la rivelazione divina, il concilio vede dominante la prospettiva personalista: la rivelazione non è proclamazione di una legge, è bensì Dio che “nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé” (DV 2). Di conseguenza per GS 40, la dimensione personalista connota della fede che anima il rapporto della Chiesa con gli uomini: “Tutto quello che abbiamo detto a proposito della dignità della persona umana, della comunità degli uomini, del significato profondo della attività umana, costituisce il fondamento del rapporto tra Chiesa e mondo, come pure la base del dialogo fra loro”. E’ quindi interessante osservare la mutazione del linguaggio: se l’espressione abituale prima era quella che sottolineava i “diritti della verità”, incomparabili con quelli, insostenibili, dell’errore, il concilio parlerà sempre e solo dei “diritti delle persone”. Non se ne deriva l’abbandono della convinzione che l’uomo deve porsi alla ricerca della verità, ma se ne declinano i valori partendo dal dovuto rispetto della coscienza di ogni persona umana: “La verità, però, va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamente”. La comunicazione fra le persone vi svolge un ruolo fondamentale, con un dialogo nel quale “gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta” (DH 3).
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Una Chiesa operante in una società democratica La lunga battaglia condotta nel passato contro la concezione e la pratica democratica della società civile aveva cominciato a placarsi solo
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con Pio XII (vedi il famoso Messaggio Radiofonico per il Natale del 1944). A placarsi ma non a cessare, perché l’ideale del papa era rimasto sino alla fine quello di poter giungere alla restaurazione di uno stato confessionale. Il concilio, invece, a partire dalle considerazioni precedenti, può giungere ad affermare che per la Chiesa vivere in un regime di libertà democratica costituisca la condizione più favorevole alla sua missione, perché essa può vivere e compiere la sua missione in un ambiente nel quale “gli esseri umani possono essere invitati senza alcuna difficoltà alla fede cristiana, e possono abbracciarla liberamente e professarla con vigore in tutte le manifestazioni della vita” (DH 10). Non c’è nei documenti conciliari alcun ripiegamento della Chiesa all’interno di una missione esclusivamente religiosa, in una concezione individuale e privatistica della fede cristiana, ma sì l’impostazione di un nuovo equilibrio fra le componenti diverse della sua missione: “La missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è d'ordine politico, economico o sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è d'ordine religioso. Eppure proprio da questa missione religiosa scaturiscono compiti, luce e forze, che possono contribuire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina” (GS 42). Questa impostazione è corroborata dalla convinzione che “la forza che la Chiesa riesce a immettere nella società umana contemporanea consiste in quella fede e carità effettivamente vissute, e non in una qualche sovranità esteriore esercitata con mezzi puramente umani”.
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Una chiesa di fedeli responsabili Nonostante che i problemi istituzionali persistano, il nuovo quadro sociale e la nuova impostazione teologica del modo di intendere la missione della Chiesa, con la emergenza a tutti i livelli, del primato della persona, stanno spostando la questione, sempre di più, dal quadro del rapporto delle istituzioni della Chiesa con le istituzioni della società civile (Chiesa e stato) a quello del rapporto della Chiesa stessa, intesa come corpo dei cristiani, con il corpo dei cittadini di una nazione. Se questo spostamento porta in primo piano le relazioni interpersonali, nondimeno interessa l’influenza che le persone, come è ovvio accada in una società democratica, 51
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esercitano sugli stessi sviluppi dell’ordinamento sociale: basti pensare al problema della raccolta del consenso in ordine agli sviluppi della legislazione. E’ l’ordinamento democratico dello stato laico, del resto, per primo, ad aprire a chiunque, non escluse le aggregazioni religiose, tutto lo spazio necessario nel quale ciascuno possa esercitare il proprio influsso sulla società. Vedi l’art. 20 della nostra Costituzione: “Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative…”. Ciò che è evidente, anche se in pratica si scontra con delicati nodi di coscienza, non sempre facili da sciogliere, è che il credente non può portare sul tavolo del dibattito democratico tutte e ciascuna delle sue convinzioni, che per lui sono dotate di un carattere di assolutezza, come se
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dovessero risultare tali a tutti gli altri interlocutori. Il regime democratico, infatti, è in grado di accogliere qualunque proposta di chiunque, fuorché quella di chi pretendesse per la propria un carattere di assoluta imperatività. Nel dibattito democratico la fede richiede di essere raccontata, piuttosto che proclamata. Essa è alla base dell’esperienza di vita di ogni cittadino credente e porta con sé, fra l’altro, un enorme prezioso bagaglio di esperienza vissute lungo la storia. Paolo VI parlava della Chiesa come “esperta in umanità”. Ebbene, sono i valori di questa esperienza umana, nella loro contingenza, anche se vissuti dai credenti con tutta l’anima, che possono essere proposti e devono essere accolti nella libera democratica discussione sull’ordinamento sociale. E’ molto suggestiva questa pagina di Jacques Maritain, secondo il quale la questione della proponibilità sociale e politica del messaggio cristiano “non verte sul cristianesimo come credo religioso e come via alla vita eterna, ma sul cristianesimo come lievito della vita sociale e politica dei popoli. Non è nelle altezze della teologia, ma nelle profondità della coscienza profana che agisce il cristianesimo così inteso, prendendo talvolta forme eretiche e perfino di rivolta, in cui sembra rinnegarsi, come se i frammenti spezzati della chiave del paradiso, cadendo nella nostra vita di miseria e unendosi in lega con i metalli della terra, riuscissero più della pura essenza del metallo celeste ad attivare la storia di questo mondo” (J.Maritain, Cristianesimo e democrazia, Comunità, Milano 1953, 17).
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Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta.
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La responsabilità propria dei “fedeli laici” Se nella Chiesa per i valori della fede è dovuto il riconoscimento da parte dei fedeli dell’autorità del magistero, per la loro attuazione nell’ambito sociale e politico vale quanto GS 43 afferma a proposito del rapporto tra i pastori e i fedeli laici: “Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e 53
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E’ vero, e molto doloroso, che ancora oggi ci siano nel mondo Chiese che stanno sperimentando i drammi delle persecuzioni, al punto da dover piangere i propri morti, se pure nell’ammirazione del loro martirio.
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facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero”. E’ vero, e molto doloroso, che ancora oggi ci siano nel mondo Chiese che stanno sperimentando i drammi delle persecuzioni, al punto da dover piangere i propri morti, se pure nell’ammirazione del loro martirio. E’ paradossale, però, che nei paesi a democrazia avanzata, la Chiesa dia l’impressione di faticare nel collocarsi perfettamente a suo agio in una società pluralista, libera e democraticamente governata. Sembra sia incapace di sentirsi se stessa se non è perseguitata o se non é egemone. Il disagio è dovuto indubbiamente al fatto che in molti nel mondo cattolico non si è ancora digerito l’avvento della modernità e la la fine della “società cristiana”. Spesso, anche se senza una sufficiente consapevolezza, ci si atteggia come se il rapporto di fede che lega i fedeli al magistero della loro Chiesa dovesse trasferirsi, tale e quale, nella relazione dei “cittadini”, cattolici o protestanti e ortodossi, cristiani o di altra religione, credenti o non credenti, con la Chiesa, i suoi principi e le sue leggi. Solo una seria consapevolezza e una decisa messa in pratica del quadro delle relazioni fra il magistero dei pastori e la responsabile autonoma dei laici in politica, enunciato nel testo ora citato della Gaudium et spes, con l’assunzione da parte loro della “propria responsabilità” nei confronti della società civile, sarà capace di sciogliere questo nodo storicamente così intricato.
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Benedetto XVI
e la dichiarazione sulla libertà religiosa Stefano Ceccanti Senatore Pd
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Premessa: quando la ricezione cambia lo status dei documenti Il recente testo del papa datato 2 agosto e reso noto l'11 ottobre, dal titolo «Fu una giornata splendida» (leggibile per intero qui http://flavr.fi/6i) è decisamente molto interessante. Riepiloghiamo brevemente i passaggi più interessanti e meno scontati che lo portano a far salire di status due documenti minori in quanto parziali (la "Dignitatis Humanae" sulla libertà religiosa e la "Nostra Aetate" sulle religioni non cristiane) rispetto al documento più generale (la "Gaudium et Spes") .
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Il problema lasciato aperto dalla "Gaudium et spes" Anzitutto c'è una relativizzazione della "Gaudium et Spes", testo importante ma che non si è rivelato in grado di risolvere la questione di fondo per cui era stato pensato. Scrive Benedetto XVI: "Dietro l’espressione vaga 'mondo di oggi' vi è la questione del rapporto con l’età moderna. Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna... Sebbene la Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla 55
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Concilio, cinquant'anni ma non li dimostra
Si trattava della libertà di scegliere e di praticare la religione, come anche della libertà di cambiarla, in quanto diritti fondamentali alla libertà dell’uomo
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questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale. "
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Perché più felice la "Dignitatis humanae" Subito dopo, però, Benedetto XVI spiega anche in positivo dove questo tentativo è meglio riuscito, soprattutto alla luce della ricezione: "Inaspettatamente, l’incontro con i grandi temi dell’età moderna non avvenne nella grande Costituzione pastorale, bensì in due documenti minori, la cui importanza è emersa solo poco a poco con la ricezione del concilio. Si tratta anzitutto della Dichiarazione sulla libertà religiosa, richiesta e preparata con grande sollecitudine soprattutto dall’episcopato americano. La dottrina della tolleranza, così come era stata elaborata nei dettagli da Pio XII, non appariva più sufficiente dinanzi all’evolversi del pensiero filosofico e del modo di concepirsi dello Stato moderno. Si trattava della libertà di scegliere e di praticare la religione, come anche della libertà di cambiarla, in quanto diritti fondamentali alla libertà dell’uomo. Dalle sue ragioni più intime, una tale concezione non poteva essere estranea alla fede cristiana, che era entrata nel mondo con la pretesa che lo Stato non potesse decidere della verità e non potesse esigere nessun tipo di culto. La fede cristiana rivendicava la libertà alla convinzione religiosa e alla sua pratica nel culto, senza con questo violare il diritto dello Stato nel suo proprio ordinamento: i cristiani pregavano per l’imperatore, ma non lo adoravano. Da questo punto di vista si può affermare che il cristianesimo, con la sua nascita, ha portato nel mondo il principio della libertà di religione. Tuttavia, l’interpretazione di questo diritto alla libertà nel contesto del pensiero moderno era ancora difficile, poiché poteva sembrare che la versione moderna della libertà di religione presupponesse l’inaccessibilità della verità per l’uomo e che, pertanto, spostasse la religione dal suo fondamento nella sfera del soggettivo. È stato certamente provvidenziale che, tredici anni dopo la conclusione del concilio, Papa Giovanni Paolo II sia arrivato da un Paese in cui la libertà di religione veniva contestata dal marxismo, vale a dire a partire da una particolare forma di filosofia statale moderna. Il Papa proveniva quasi da una situazione che assomigliava a quella della Chiesa antica, sicché divenne nuovamente visibile l’intimo ordinamento della fede al tema della libertà, soprattutto la libertà di religione e di culto."
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Cosa ci dice di non scontato Benedetto XVI? Che in realtà la modernità americana (quella non ostile al fatto religioso e quindi quella con cui è più facile riconciliarsi rispetto a quella francese) non ha fatto altro che riprendere la Tradizione più antica di relativizzazione dello Stato e della politica smantellando le tradizioni più recenti di perdita del dualismo cristiano attraverso la figura degli Stati cristiani. La Dignitatis Humanae, in altri termini, riesce meglio della "Gaudium et spes" perché distingue più nettamente all'interno del moderno una verità di fondo, cioè il rilancio del dualismo cristiano, del limite della politica che non possiede il monopolio del bene comune rispetto all'eredità negativa del moderno, alla perdita della distinzione religione/politica. Ci riesce perché il liberalismo americano a sfondo religioso si allea già in Concilio con l'esperienza dell'Est europeo, con un'altra forma di relativizzazione dello Stato ad opera di un cristianesimo che tiene saldo il pluralismo rispetto alla religione secolare comunista. La ricezione di cui parla il papa è la Terza Ondata democratica di cui parla Huntington, iniziata nei paesi cattolici (a cominciare da Portogallo e Spagna) dove ha comportato la rottura degli assetti confessionalistici (a lungo difesi anche dagli episcopati locali ancor più che dalla Curia) per espandersi poi anche nel Centro e nell'Est Europa rompendo lo schema di Yalta. Da qui si capisce anche il doppio fronte polemico. Per un verso rispetto ai lefebvriani, convinti di impersonare la Tradizione difendendo la dottrina della mera tolleranza, ma in realtà inconsapevoli subalterni alla modernità di tipo francese, capovolta di segno. Una fusione tra Stato e religione nel segno cristiano, ma che negava il dualismo originario del cristianesimo. Per altro verso rispetto ad una parte della Teologia della Liberazione, quella che proponeva un'analoga rottura del dualismo, verso sinistra, con forme di messianismo politico-religioso. In questo secondo caso, però, il problema era più delicato perché mentre i lefebvriani si sono sempre presentati come critici implacabili dei documenti conciliari (della Dignitatis Humanae ancor più che della Gaudium et Spes, il che dimostra la tesi del Papa), invece gli anti-dualisti di sinistra si sono sempre richiamati ai documenti conciliari e in particolare alla Gaudium et Spes, rivendicando per sé il ruolo di interpreti più coerenti nella propria radicalità. Si pensi al caso di Giulio Girardi che partecipò anche direttamente alla stesura. Per questo Benedetto XVI ci spiega che solo
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La Dignitatis Humanae, in altri termini, riesce meglio della "Gaudium et spes" perché distingue più nettamente all'interno del moderno una verità di fondo, cioè il rilancio del dualismo cristiano, del limite della politica che non possiede il monopolio del bene comune rispetto all'eredità negativa del moderno.
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passando per il liberalismo cristiano, intimamente dualista, si sciolgono i nodi aperti dalla Gaudium et Spes, contro i lefebvriani e contro i filoni illiberali di sinistra, che hanno creduto di interpretare il Concilio, ma che in realtà hanno riversato a sinistra la mentalità illiberale cattolico intransigente.
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Il ruolo intermedio della "Nostra Aetate" Sale di status rispetto alla Gaudium et Spes anche la dichiarazione "Nostra Aetate", però non tanto quanto la "Dignitatis Humanae" perché nella ricezione non si libera del tutto da
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contraddizioni. Resta quindi, per così dire, a un livello intermedio. Scrive infatti Benedetto XVI: "Il secondo documento che si sarebbe poi rivelato importante per l’incontro della Chiesa con l’età moderna è nato quasi per caso ed è cresciuto in vari strati. Mi riferisco alla dichiarazione Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane. All’inizio c’era l’intenzione di preparare una dichiarazione sulle relazioni tra la Chiesa e l’ebraismo, testo diventato intrinsecamente necessario dopo gli orrori della shoah. I Padri conciliari dei Paesi arabi non si opposero a un tale testo, ma spiegarono che se si voleva parlare dell’ebraismo, allora si doveva spendere anche qualche parola sull’islam. Quanto avessero ragione a riguardo, in occidente lo abbiamo capito solo poco a poco. Infine crebbe l’intuizione che fosse giusto parlare anche di altre due grandi religioni – l’induismo e il buddhismo – come pure del tema religione in generale. Nel processo di ricezione attiva è via via emersa anche una debolezza di questo testo di per sé straordinario: esso parla della religione solo in modo positivo e ignora le forme malate e disturbate di religione, che dal punto di vista storico e teologico hanno un’ampia portata; per questo sin dall’inizio la fede cristiana è stata molto critica, sia verso l’interno sia verso l’esterno, nei confronti della religione." L'elemento di raccordo coi ragionamenti sulla Dignitatis Humanae è evidente: le altre esperienze religiose, e soprattutto l'Islam, fanno tuttora fatica ad entrare nella logica della piena libertà religiosa poiché appaiono ancora difficilmente integrabili nel dualismo religione-politica, e mentre nel caso del cristianesimo si poteva ricorrere comunque a una Tradizione più profonda che l'aveva comunque affermato e a cui ritornare, negli altri casi si tratta comunque di un apprendimento successivo da realizzare.
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Benedetto XVI ci spiega che solo passando per il liberalismo cristiano, intimamente dualista, si sciolgono i nodi aperti dalla Gaudium et Spes
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Una Conclusione, ammesso che sia possibile Nella querelle interpretativa sul Vaticano II Benedetto XVI assume quindi come riferimento primo i testi, la cui importanza e significatività è colta però dentro i contesti e, inoltre, fa pesare in modo ragionato la copia continuità/discontinuità: chi l'ha detto che dove si ha il massimo di discontinuità rispetto al pre-testo (la libertà reigiosa conciliare versus la mera tolleranza precedente) non vi sia in verità la vera continuità con la Tradizione più antica? 59
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Concilio, cinquant'anni ma non li dimostra
Cattolici e politica oggi, nel solco del Concilio Bartolomeo Sorge
è direttore emerito di Civiltà Cattolica
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l Concilio ha qualcosa da dire ai cattolici, impegnati nella difficile crisi politica di oggi? Dopo aver richiamato alcuni orientamenti conciliari, vedremo come attualizzarli.
Orientamenti del Concilio Il Concilio Vaticano II, spostando l'accento dall'ecclesiologia societaria (la Chiesa come «società perfetta») all'ecclesiologia di comunione (la Chiesa come «popolo di Dio in cammino nella storia») ha posto fine al vecchio «clericalismo». La Chiesa non s'identifica più con il clero e la Gerarchia non è al di sopra del «Popolo di Dio», ma al suo interno e al suo servizio. Di conseguenza, i fedeli laici non sono più minorenni, né «ausiliari» del clero, ma «per la loro parte compiono nella Chiesa e nel mondo la missione propria di tutto il popolo cristiano» (Lumen gentium, n. 31). Di conseguenza, senza una piena valorizzazione della vocazione e della missione dei fedeli laici, non si dà Chiesa matura, né è possibile la "nuova evangelizzazione". Ora, poiché «è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio» (ivi), tocca soprattutto a essi intervenire operativamente sui grandi problemi del tempo, illuminarli con la luce che viene dal Vangelo e rinnovare la società, della quale tutta la Chiesa condivide la storia, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce (cfr Gaudium et spes, nn. 1,3). I fedeli laici – nota il Concilio – ricevono questa missione non per delega della Gerarchia, ma direttamente da Cristo nel Battesimo e dallo Spirito Santo nella cresima (cfr 60
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Apostolicam actuositatem, n. 3). Ciò significa che i fedeli laici godono di un'effettiva autonomia nel compiere le scelte temporali e politiche. Tocca a essi decidere che cosa fare, senza dover chiedere ogni volta ai Pastori come risolvere i problemi anche gravi che nascessero (cfr Gaudium et spes, n. 43). Dal canto suo, la Gerarchia considererà i fedeli laici non più come esecutori passivi delle proprie direttive, ma quali collaboratori responsabili. In pratica, i fedeli laici sono chiamati non solo a testimoniare i valori cristiani nella loro vita personale e sociale, ma a mediarli insieme con tutti gli uomini di buona volontà, compiendo scelte efficaci e laiche, accettabili da tutti, anche dai non credenti, in fedeltà allo spirito e alle regole della vita democratica. Su questo orientamento di fondo si fonda il modo nuovo d'intendere l'impegno politico dei cristiani: «Bisogna che i laici assumano l’instaurazione dell’ordine temporale come compito proprio e in esso, guidati dalla luce del Vangelo e dal pensiero della Chiesa e mossi dalla carità cristiana, operino direttamente e in modo concreto» (Apostolicam actuositatem, n. 7). Lo ha ribadito, ai nostri giorni, Benedetto XVI: «Il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è invece proprio dei fedeli laici. Come cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica. […] Missione dei fedeli laici è pertanto di configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità» (enciclica Deus caritas est, n. 29). Ma dove sono oggi i laici? Perché non si sentono? Il problema è che in Italia, a 50 anni dal Concilio, non ne abbiamo ancora assimilati gli orientamenti. Non è un caso, che ai nostri giorni sia ancora necessario ribadire che non tocca ai vescovi suggerire ai fedeli laici le scelte da fare o come mediare i valori cristiani nell'attività legislativa. Certo, i vescovi possono e devono giudicare della conformità o meno dei programmi politici e delle leggi con il Vangelo e con la dottrina della Chiesa. Certo è compito dei vescovi formare le coscienze. Ma spetta poi ai fedeli laici, debitamente formati, compiere responsabilmente e autonomamente le scelte da fare, attraverso le necessarie mediazioni di natura giuridica, sociale, politica ed economica.
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Ma dove sono oggi i laici? Perché non si sentono? Il problema è che in Italia, a 50 anni dal Concilio, non ne abbiamo ancora assimilati gli orientamenti.
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Applicazione alla situazione politica presente Dobbiamo riconoscere che, nell'applicare questi orientamenti conciliari all'impegno politico dei fedeli laici, in Italia siamo molto in ritardo. La questione della presenza politica dei cattolici è stata praticamente rimossa dopo la fine dell’unità nella DC: la diaspora che ne è seguita non ha consentito tuttora – al di là di un generico impegno alla testimonianza personale e pubblica della propria fede – di trovare il modo di mediare «laicamente» i valori cristiani nella cultura e nella società secolarizzata e pluralistica di oggi. Non basta – avverte il card. Martini – limitarsi a proclamare i cosiddetti «valori non negoziabili» ed esigere che la legislazione li promuova, «se non ci si fa carico di una ricerca paziente di soluzioni pratiche che tengano conto anche di chi ha concezioni diverse» (discorso di S.Ambrogio 1996), se non si cercano strade politiche condivise. «Questo della mediazione antropologico-etica» – precisa – è forse uno dei lavori più importanti e urgenti per i cristiani impegnati in politica, ed è uno dei contributi più fecondi che le comunità cristiane possono dare alla società civile oggi»; i principi della fede, lungi dal trasformarsi in motivo di conflitto e di contrapposizione all'interno della convivenza civile, «devono risultare vivibili e appetibili anche per gli altri, nel maggior consenso e concordia possibili» (ivi). La crisi politica attuale, sommandosi a quella economicofinanziaria che ha investito il mondo, ha portato il Paese sull'orlo del baratro. Il Governo tecnico di Mario Monti ha impedito il disastro, restituendo all'Italia la dignità internazionale perduta con Berlusconi e, grazie a una politica di rigore competente ed energica, ha rimesso in sesto i conti pubblici e ha realizzato alcune riforme strutturali necessarie, che nessun altro Governo politico avrebbe potuto portare a termine. Però, nonostante le rigidità imposte dall'emergenza, fino a che punto si può accettare che siano l'economia e la finanza a dettare le scelte della politica? Di fronte alle scene drammatiche della crisi sociale in cui è piombata la Grecia, dobbiamo chiederci fino a che punto è giusto infliggere a un'intera popolazione terribili sofferenze, disoccupazione e fame, in nome dell'equilibrio dei conti economici. Fino a che punto si possono imporre sacrifici umani durissimi per obbedire alle leggi di un mercato finanziario speculativo? E' un grave errore, dunque, preoccuparsi degli aspetti economici e finanziari della crisi attuale, senza interrogarsi sulle cause che l'hanno originata. Queste, infatti, prima che di natura
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economica e finanziaria, sono di natura etica e culturale. Ovviamente, la situazione appare ulteriormente insostenibile, perciò gli occhi di tutti sono puntati sulle prossime elezioni politiche. Che cosa accadrà dopo? E' una preoccupazione legittima, ma, oggi come oggi, è impossibile azzardare profezie o fare previsioni, perché troppe sono ancora le incognite, prima fra tutte la riforma della legge elettorale: finché non si conoscono le regole del gioco, che senso ha parlare di schieramenti e di future alleanze? Se è impossibile dire quale sarà domani la presenza politica dei cattolici in Italia, non è lecito però rimanere con le mani in mano ad aspettare che maturino gli eventi. Alla luce degli orientamenti del Concilio sulla responsabilità politica dei fedeli laici, è urgente impegnarsi subito a elaborare, insieme con tutti gli uomini di buona volontà, una nuova strategia a livello prepolitico, affrontando la crisi nelle sue radici etiche e culturali. Infatti, una cosa è certa: se si riuscirà – com'è auspicabile e prevedibile – a risalire la china della depressione economica, a ben poco servirebbero i sacrifici fatti e gli accordi politici futuri, se dovessero rimanere intatte le cause morali che hanno originato la crisi. Perciò, più che moltiplicare iniziative velleitarie, è urgente ripensare l'assetto economico-finanziario, per renderlo finalmente funzionale all'incremento dello sviluppo e alla ripresa produttiva. Possibile che su questo i cattolici non abbiano nulla da proporre e da fare?
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E' un grave errore, dunque, preoccuparsi degli aspetti economici e finanziari della crisi attuale, senza interrogarsi sulle cause che l'hanno originata.
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Concilio, cinquant'anni ma non li dimostra
La donna nel Concilio Albertina Soliani è senatrice del Pd
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uante donne entrarono in Concilio? Ventitre, presenti come uditrici, dal 25 settembre 1964 al luglio 1965. Dieci religiose e tredici laiche, scelte con criteri di rappresentanza internazionale, chiamate da Paolo VI l’8 settembre 1964. Le madri del Concilio, come le chiama Adriana Valerio nel suo bel libro edito di recente da Carocci. I padri erano 2540, in rappresentanza della Chiesa universale. Le donne, che avevano l’ordine di tacere nelle assemblee conciliari, non esitarono a incontrare vescovi e cardinali e teologi come Henri De Lubac, a proporre testi, a influire sul dibattito. Superarono molte barriere, compresa la separazione del locale adibito a bar. Lasciarono, comunque, tracce significative. Nel secolo delle donne il Concilio Ecumenico Vaticano II, aperto l’11 ottobre 1962, non le vede protagoniste. Ma, appunto, il Concilio era stato convocato da Giovanni XXIII per aprire nuove vie alla Chiesa e per determinare un suo nuovo rapporto con il mondo, e sarà su queste strade, nel dopo Concilio, che le donne prenderanno la parola e si faranno sentire. Quando il Concilio si celebra, la prima metà del secolo è già trascorsa e la questione femminile si è già imposta nell’occidente europeo e nord americano. I primi anni del secolo vedono la battaglia per il suffragio universale, per
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l’uguaglianza e per l’emancipazione femminile e anche la Chiesa cattolica ne sente gli influssi. E’ l’epoca del modernismo, della sfida democratica che attraverserà tutto il ‘900 e vedrà l’incontro progressivo anche della Chiesa con la democrazia. Le prime Settimane Sociali dei cattolici italiani vedono le donne protagoniste in ruoli di primo piano come quello assegnato a Lina Schwarz nella Settimana Sociale del 1907. Nei decenni successivi in Italia sarà la Gioventù Femminile dell’Azione Cattolica di Armida Barelli a formare le giovani e le donne all’impegno nella Chiesa e nella società. Una linfa profonda , rappresentata dalle donne, percorre la Chiesa nella sua vita interna di base e nella pastorale, più di quanto non appaia. Un esempio di questo impegno è rappresentato da Adelaide Coari, maestra e animatrice sociale, amica di Angelo Roncalli a Bergamo fin dai tempi del Vescovo Giacomo Maria Radini – Tedeschi, che manterrà con lui un rapporto di amicizia fino alla morte del Pontefice, facendo visita a lui anche in Vaticano. Adelaide Coari, tra le fondatrici del Gruppo d’Azione per le Scuole del popolo nei primi anni del ‘900, nel 1908 corre in aiuto delle popolazioni di Messina e Reggio Calabria, colpite dal terremoto. Non di rado, accanto ai Pontefici, si registra la presenza di una donna, spesso nella discrezione. Celebrate dalla storia come Matilde di Canossa, che fu accanto a Gregorio VII per la riforma della Chiesa e la “libertà spirituale degli europei”, come scrisse Bonhoeffer parlando di Canossa, o interlocutrici spirituali come Adelaide Coari con Giovanni XIII o come Wanda Poltawska che fu amica fino alla fine di Giovanni Paolo II. Quando inizia il Concilio, i diritti delle donne, compreso quello al voto, sono già sanciti nelle Costituzioni del 1948, nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo dello stesso anno, nella Convenzione sui diritti politici delle donne del 1952. Ma ancora la Chiesa non sembra avere elaborato al proprio interno i valori e gli effetti della cultura democratica. E’ in quegli anni, nel 1949, che esce l’opera di Simone De Beauvoir “Il secondo sesso” che rompe lo schema culturale vigente da secoli della supremazia maschile. Quanto, di questa storia, e delle domande da tempo presenti nella società e nella stessa Chiesa entrano nel Concilio? Assai poco. E tuttavia il magistero della Chiesa,
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Il Concilio era stato convocato da Giovanni XXIII per aprire nuove vie alla Chiesa e per determinare un suo nuovo rapporto con il mondo, e sarà su queste strade, nel dopo Concilio, che le donne prenderanno la parola e si faranno sentire
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Sono la forza e la grazia del Concilio Vaticano II che, nonostante il silenzio sulle donne e delle donne, sapranno cambiare in profondità gli uomini e le donne della Chiesa
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in particolare di Giovanni XIII con l’enciclica Pacem in Terris (1963), indicherà nella emancipazione della donna uno degli straordinari segni dei tempi dell’epoca. La scelta di Paolo VI di invitare le uditrici fa irrompere nella Chiesa, in modo irreversibile, le donne. Tra la rassegnazione del Segretario Generale del Concilio Pericle Felici e l’apertura di alcuni vescovi come mons. Gérard Huyghe, vescovo di Arras, che le vorrebbe ammettere all’assemblea, e il Patriarca di Venezia Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I, che si compiace della loro presenza. Ma sono la forza e la grazia del Concilio Vaticano II che, nonostante il silenzio sulle donne e delle donne, sapranno cambiare in profondità gli uomini e le donne della Chiesa. Quando il Concilio riporta al centro della vita della Chiesa la Parola di Dio (Dei Verbum) e rinnova la liturgia aprendola alla partecipazione dei fedeli (Sacrosanctum Concilium), quando definisce la centralità del popolo di Dio e del sacerdozio regale dei fedeli (Lumen Gentium), quando apre la Chiesa al mondo, alle sue sofferenze e alle sue speranze (Gaudium et Spes) lì la Chiesa incontra le donne come soggetto nella Chiesa e nella storia. Ad esse indirizza uno dei messaggi finali nel giorno della chiusura del Concilio,l’8 dicembre 1965, che così si apre: “Ed ora è a voi che ci rivolgiamo, donne di ogni condizione, figlie, spose, madri e vedove; anche a voi, vergini consacrate e donne nubili: voi siete la metà dell’immensa famiglia umana!”. In poche righe vivono insieme l’approccio alle differenti condizioni delle donne e il senso storico della loro forza nel genere umano. Se la vocazione delle donne viene descritta nei ruoli diversi in cui essa si è venuta socialmente ad esprimere, dalla custodia del focolare alla verginità consacrata, nella conclusione del messaggio si affida alle donne, come mai prima era accaduto, il destino della storia: “Donne di tutto l’universo, cristiane e non credenti, a cui si è affidata la vita in questo momento così grave della storia, spetta a voi salvare la pace del mondo”. Destinatarie di un messaggio, più che coautrici di esso, ma finalmente chiamate per nome ad assumere responsabilità nella storia. Vi è in questo messaggio il passaggio dalla cultura precedente alla nuova che già si intuisce. Il cambiamento infatti è già iniziato. Nei decenni successivi al Concilio il femminismo da un lato, le donne teologhe dall’altro, apriranno il mondo e la Chiesa
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all’universo femminile. Pochi anni dopo il Concilio esplode il 1968 e con esso il movimento studentesco e il movimento delle donne. Non a caso, quest’ultimo, riconducibile in Italia al vasto investimento sull’istruzione anche delle ragazze attuato dalle politiche nazionali del centrosinistra che vedono nello stesso anno dell’apertura del Concilio, il 1962, l’approvazione della legge della nuova scuola media obbligatoria per tutti. I processi di cambiamento sono sempre accelerati dall’istruzione. Dopo il Concilio la relazione donne – teologia cambia radicalmente. “Nulla sarà assolutamente più come prima” dirà Cettina Militello in una conferenza in Alsazia del marzo 1999. Nel 1970 vengono proclamate “dottore della Chiesa” Santa Caterina da Siena e Santa Teresa d’Avila e nel 1987 Santa Teresa di Lisieux. Nel 1988 esce la lettera Mulieris Dignitatem di Giovanni Paolo II, una riflessione profonda offerta alla Chiesa universale, che sposta l’attenzione sull’essere della donna a partire dalla creazione, rispetto al precedente approccio sociologico. Non tutto è risolto sul piano teorico, culturale, teologico ma la discussione è certamente più avanzata. Il Concilio rappresenta uno spartiacque, e ciò che ha messo in moto è ancora oggi incalcolabile. Sarebbe interessante tentare un bilancio degli ultimi cinquant’anni nella Chiesa e nel mondo sulla presenza delle donne. E sul loro potere. Lasciando a lato la questione del sacerdozio femminile, possiamo osservare i ritardi tuttora visibili della Chiesa rispetto alla valorizzazione delle donne al suo interno, dalla Curia alla direzione della pastorale, all’attenzione verso le comunità religiose femminili. Ciò che più colpisce è la difficoltà ad assumere con coraggio la dignità della donna, in ogni angolo del pianeta, come valore fondativo della dignità dell’umano; la difficoltà ad affrontare il tema della libertà delle donne come chiave interpretativa della secolarizzazione, come risorsa per l’umanizzazione del mondo; la difficoltà a fare della corresponsabilità tra uomini e donne la chiave di volta per la Chiesa e per il mondo. Si potrebbe partire semplicemente dal rapporto che Gesù ebbe con le donne. A distanza di 50 anni una cosa oggi possiamo dire: che allora mancò alla Chiesa la forza di chiamare le donne e di dare loro la parola, oggi sono le donne che hanno in se stesse la forza di chiamare la Chiesa facendosi soggetto dell’evangelizzazione. Come da decenni peraltro avviene in
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A distanza di 50 anni una cosa oggi possiamo dire: che allora mancò alla Chiesa la forza di chiamare le donne e di dare loro la parola
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America Latina e in Africa, ma anche in Europa e in Asia. Non solo. Mentre la Chiesa nel Concilio si faceva visibilmente popolo di Dio, chiamando tutti alla partecipazione, la storia del mondo in Europa, nei Paesi dell’est, dell’ovest e del sud del mondo era chiamata alla sfida globale della democrazia. Che è, innanzitutto, sfida di partecipazione. La crisi della democrazia oggi, anche in Italia, che cos’è se non una grande domanda di partecipare alla vita sociale e civile come soggetti di diritti e di doveri, di potere e di servizio, a cui non viene data adeguata risposta? Chi, se non le donne, può rappresentare la risorsa più fresca e innovativa per la democrazia, essendo da secoli escluse dallo spazio pubblico? L’Italia fa testo. Mai come ora vi è così bisogno delle donne e mai come ora si restringono gli spazi della politica. Le donne, la Chiesa, la democrazia: ecco un tema che il Concilio ci lascia in eredità. Il cambiamento è iniziato, per la Chiesa e per il mondo, e le donne ne sono le nuove interpreti.
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Martini, vescovo del Concilio Giuseppe Grampa
insegna Filosofia delle Religioni e del Cristianesimo all’Università cattolica del Sacro Cuore
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l 25 luglio 2012 a un mese dalla sua morte incontravo il cardinale Martini a Gallarate, nell’Infermeria dei Padri Gesuiti dove si era ritirato lasciando Gerusalemme in ragione dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Il cardinale aveva accettato la mia richiesta di apparire in un video televisivo dedicato al cinquantesimo del Concilio. Ecco il suo ricordo degli anni conciliari: “Io sono stato presente al Concilio non in quanto padre conciliare, non ero vescovo, ma sono stato a Roma in quegli anni, sono stati gli anni più belli della mia vita. Eravamo entusiasti: guardavamo al futuro, parlavamo con il mondo e quindi è stata una bellissima esperienza”. Qualche anno prima, a Gerusalemme, così aveva evocato gli anni del Concilio: “Ricordo la sensazione di entusiasmo, di gioia e di apertura che ci pervadeva, ho passato nel Concilio gli anni migliori della vita. Si usciva da un’atmosfera un po’ muffa che sapeva di stantio, si aprivano porte e finestre, circolava aria pura, si guardava al dialogo e la Chiesa appariva capace di affrontare il mondo moderno. Era un momento di grande gioia e di grande entusiasmo. Una certa forza frenante in alcuni settori della Curia è anche comprensibile perché la Curia era abituata a tenere in mano tutto e quindi vedersi sfuggire di mano le cose certamente non è piacevole. Quelli che hanno vissuto il Concilio hanno fatto un passo importantissimo nella loro vita e hanno avuto una fiducia nuova nella possibilità della Chiesa di parlare a tutti. E’ stata una grande ricchezza per la nostra Chiesa”. Ascoltiamo ancora il racconto che Martini stesso ha
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fatto di quegli anni. “Se ripenso agli anni del Concilio li definirei ‘tumultuosi’ poiché tali furono per me e potremmo dire ‘per noi’, intendendo con questo ‘noi’ soprattutto i docenti del Pontificio Istituto Biblico di Roma…si seguiva con somma attenzione e trepidazione il divenire del documento sulla Divina Rivelazione, perché in esso c’era per noi un po’ la questione di vita o di morte. Infatti se il Concilio, come parecchi a quel tempo desideravano e speravano, avesse condannato il metodo storico-critico per la lettura e l’interpretazione della Bibbia, o almeno avesse messo in guardia rispetto ad esso, o anche se avesse affermato (come alcuni volevano secondo i testi di partenza) una nozione rigida dell’inerranza della Scrittura, allora l’insegnamento del Pontificio Istituto Biblico si sarebbe sentito come messo sotto accusa, con gravissime conseguenze per il futuro. E poi si può aggiungere che se il Concilio fosse stato tiepido o guardingo o cauto riguardo alla familiarità dei laici con la Scrittura, tutto il Movimento biblico sarebbe stato assai più lento e timoroso…Fu un lavoro continuo, di giorno e di notte”. Mi è sembrato giusto evocare l’intensa partecipazione dell’allora prof. padre Martini ai lavori conciliari perché questo ci aiuta a capire come il più significativo lascito del Concilio per Martini arcivescovo di Milano sia stato il primato della Parola di Dio nella vita della chiesa. Ricordo il suo ingresso in Milano, a piedi, con il Vangelo nelle mani. In quella occasione don Giuseppe Dossetti gli aveva inviato questo messaggio augurale: “Da Lei Milano ascolti l’Evangelo, solo l’Evangelo”. E per ventidue anni Martini ha proposto alla Chiesa di Milano questa familiarità con la Scrittura per avere la capacità di orientare la propria vita secondo Dio, anche nella grande città moderna e in ambiente secolarizzato. Molti preti e laici hanno trovato, in questa lettura orante della Scrittura – la Lectio divina, proposta nella Scuola della Parola – il modo per assicurare l’unità di vita in un’esistenza spesso frammentata e lacerata da mille esigenze, una vita nella quale era essenziale trovare un punto fermo di riferimento. Questa centralità della parola di Dio aiuta a comprendere il grande impegno di Martini nel dialogo ecumenico e interreligioso. Anche questo è un frutto prezioso del Concilio che Martini ha svolto in modo
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La Curia era abituata a tenere in mano tutto e quindi vedersi sfuggire di mano le cose certamente non è piacevole
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Questa centralità della parola di Dio aiuta a comprendere il grande impegno di Martini nel dialogo ecumenico e interreligioso
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originale a partire dal disegno di Dio quale ci è presentato dalle Scritture ed ha il suo culmine in Gesù Cristo. Per Martini questa familiarità orante con le Scritture può aiutarci ad affrontare quella che considera una delle sfide più grandi del nostro tempo: quella di vivere insieme come diversi nell’etnia, nella cultura e nella religione e questo senza distruggerci a vicenda, senza ignorarci, senza semplicemente tollerarsi ma rispettandoci e stimolandoci per una maggiore autenticità di vita. Grazie a questa obbedienza alla Parola, secondo Martini, noi ci riconosciamo nella nostra comune origine, nella nostra comune dignità, in quella fraternità che va al di là di tutte le divisioni. In un modo un po’ paradossale Martini afferma che non gli importa tanto la conversione dell’altro alla mia fede ma la possibilità, grazie al dialogo, di vivificare l’altro con principi che lo obblighino a guardare al fondo della sua coscienza e lui faccia lo stesso con me. Dal Concilio Martini ha acquisito una originale comprensione della Chiesa e del ruolo del Vescovo. Come è noto il Concilio ha restituito alla Chiesa locale,
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cioè alla diocesi, il suo ruolo centrale. Quando diciamo ‘chiesa’ istintivamente pensiamo a Roma, al Papa, al Vaticano: questa sarebbe la Chiesa che ha poi le sue filiali periferiche sul territorio, le diocesi affidate ai vescovi. E invece la chiesa avviene, cioè si realizza là dove un vescovo successore degli apostoli annuncia l’Evangelo e raccoglie una comunità con l’Eucaristia. La Chiesa diocesana con il suo Vescovo non è un frammento della Chiesa: è la chiesa nella sua pienezza, certo non nell’isolamento e nell’autosufficienza ma nella comunione con tutte le chiese a cominciare da quella di Roma. Alla luce di questo insegnamento conciliare possiamo capire il ruolo del Vescovo così come il cardinale Martini l’ha vissuto a Milano. Certamente non un ruolo ‘notarile’ , così come per Lui la Chiesa diocesana non poteva esser pensata come il contenitore delle più varie esperienze. Non a caso Martini ogni anno ha proposto alla sua Diocesi originali Piani pastorali. Era persuaso che la Chiesa diocesana dovesse essere capace di un cammino autorevole di formazione alla fede e di santità popolare.
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Bisogna evitare il rischio del fondamentalismo, la pretesa cioè di operare immediati collegamenti tra la parola rivelata e i singoli problemi economici
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Significative le indicazioni che l’arcivescovo Martini dava a proposito dei rapporti tra cammino diocesano e altre proposte educative e spirituali portate avanti da Movimenti e Gruppi diversi. Diceva: “Penso a situazioni in cui appare che il riferimento che conta è di fatto duplice o molteplice: vi è il cammino diocesano e, però, vi è anche quello di altri agenti pastorali. Con l’aggiunta che tutto questo non è vissuto con armonia ma con un netto sbilanciamento che, al di là dei riferimenti puramente verbali, emargina, in realtà, la diocesi e il suo concreto cammino pastorale… Il vescovo non potrà semplicemente rimettersi alla natura carismatica di una realtà per dedurne la sua immediata utilità e accettabilità in forza della libertà dello Spirito…Il vescovo non deve semplicemente fare la rassegna di tutto ciò che è possibile e dare comunque spazio a tutti. Spetta a lui coordinare e discernere tra aspetti positivi e eventuali aspetti teoretici e pratici, meno idonei, così da accettare e promuovere gli aspetti buoni e correggere, per quanto necessario, quelli che risultassero meno utili e pregiudizievoli al cammino della chiesa particolare”. Proprio da questa comprensione della Chiesa locale o diocesana scaturisce il rilievo che Martini ha riconosciuto ai diversi Organismi di partecipazione: i Consigli presbiterali e pastorali. Chi scrive ha avuto la grazia di far parte del Consiglio pastorale diocesano per una larghissima parte dell’episcopato di Martini. Non solo l’arcivescovo partecipava sempre, senza assenze, ai lavori del consiglio che si svolgevano nel fine settimana ma ci ‘educava’ al discernimento, aiutandoci a riflettere sulle complessità e ambiguità storiche, sul misto di bene e di male, di ispirazioni buone e cattive, di strutture di grazia e di peccato che sono strettamente intricate le une nelle altre e tra le quali bisogna discernere la via giusta per ottenere la crescita della fede, speranza e carità. Il tema del discernimento costituisce l’originale declinazione operata da Martini del ruolo dei laici e in particolare di quanti sono impegnati nella costruzione della ‘città dell’uomo’, nella politica. Il tema conciliare dei laici chiamati per vocazione propria a “trattare le realtà temporali ordinandole secondo Dio” trova appunto nell’esercizio del discernimento il suo metodo. La fede, secondo Martini, non può sostituire la fatica dell’intelligenza: “Non si può ricorrere a soluzioni
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precostituite e anche se i principi morali sono chiarissimi…non è sempre chiaro quello che in un determinato momento bisogna fare”. Proprio il Concilio aveva esortato i laici cristiani a non ricorrere sbrigativamente ai Pastori per la soluzione di problemi che invece sono affidati alla loro perizia e competenza. Bisogna evitare il rischio del fondamentalismo, la pretesa cioè di operare immediati collegamenti tra la parola rivelata e i singoli problemi economici, sociali e politici: da quelle che oggi chiamiamo ‘evidenze etiche’ non si possono dedurre immediatamente soluzioni operative ai problemi concreti. In questo approccio non deduttivo caro a Martini ritroviamo un altro prezioso insegnamento conciliare: quello della relativa autonomia delle realtà temporali: le diverse scienze devono godere della propria relativa autonomia, nel rispetto dei metodi propri di indagine. Una lezione di laicità.
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La Chiesa di Martini.
Più profezia, meno politica
Franco Monaco Senatore PD
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artini è stato un gigante della Chiesa universale, un pastore carismatico e illuminato, un impareggiabile maestro della Parola, una voce eminente della cultura e della coscienza contemporanea. Alla guida della grande diocesi di Milano, egli tuttavia ha esercitato una leadership ben oltre i confini della Chiesa italiana ed europea. La sua parola e il suo magistero hanno varcato, sempre e largamente, il perimetro dei ruoli formalmente rivestiti. Lo attestano le relazioni da lui intrecciate con eminenti personalità di tutto il mondo e la diffusione dei suoi testi in ogni angolo della Chiesa e decisamente oltre i confini di essa. Interlocutore privilegiato del dialogo ecumenico e interreligioso, come del mondo della cultura laica e religiosa. È stato forse l'uomo di Chiesa che ha goduto di più largo ascolto in ogni angolo della terra dopo il Papa. Non è difficile intuirne il segreto: la granitica fiducia nella forza immanente e nella risonanza universale della Parola di Dio che padroneggiava come nessun altro, il fermo convincimento che la coscienza umana, oltre ogni apparenza contraria, sia predisposta al suo ascolto, convinto come egli era che la Bibbia fosse il "grande libro dell'umanità", lo spirito di ricerca e l'attitudine al dialogo senza barriere, una idea del cristianesimo amico dell'intelligenza e della libertà e dunque singolarmente congeniale alla sensibilità dell’uomo di oggi.
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La sua visione della Chiesa Specie negli ultimi suoi anni, seguiti al "pensionamento" e segnati dalla malattia, si è fatta ancor più acuta ed esplicita la sua vena profetica, non priva di accenti drammatici. La sua decisione di pronunciare parole di verità anche riguardo a questioni controverse e abitualmente rimosse dentro la Chiesa. A cominciare dall'esigenza di riforma della Chiesa stessa, nel senso di una sua più trasparente fedeltà al Vangelo di Gesù. Una onestà intellettuale persino spietata nel segno della umile condivisione degli interrogativi e delle inquietudini degli uomini. Una tensione che si rinviene lungo l'intero arco della sua vita e del suo ministero, ma che, dicevo, si fa più stringente di fronte al giudizio finale, quando le mediazioni istituzionali e le ragioni prudenziali devono cedere il passo alla verità quale risulta alla nostra coscienza. Qui si misura la statura di un eminente uomo di Chiesa che, al modo di Cristo, si mostra deciso a condividere senza riserve la condizione degli uomini. Compresa l'esperienza della malattia e del tormento interiore a fronte dell'incedere della morte. È significativa la circostanza che sia stato egli stesso a suggerire lo scarno titolo – semplicemente "un uomo" – da apporre a un recente libro su di lui scritto dall'amico vaticanista Aldo Maria Valli. Come a dire che essere uomo tra gli uomini era la sua ambizione e il suo programma. La sua visione della Chiesa era quella del Concilio, una Chiesa cordialmente protesa al dialogo con il mondo contemporaneo ma insieme impegnata a discernere criticamente il grano dal loglio. Dunque portatrice di cristiana speranza, che è cosa diversa dall'ingenuo, facile ottimismo. Una Chiesa povera, libera, sciolta (aggettivo inusuale ma ricorrente nei suoi testi a definire la Chiesa che sognava), immune da ambizioni e volontà di potere. Una Chiesa modellata sul paradigma della originaria comunità apostolica e dunque fermento, lievito, "piccolo resto", tutta dedita alla testimonianza e all'annuncio, per nulla ossessionata dal proposito di... contarsi per contare. Ancora una Chiesa nella quale la dimensione gerarchica e istituzionale fosse subordinata e servente la sua natura comunionale. Un popolo di Dio ove tutti e ciascuno portano pari dignità e comune responsabilità nella missione. E dunque nella quale operasse la collegialità e la partecipazione e ai laici cristiani fosse assegnato il posto che loro spetta, sia nell'edificazione della comunità 77
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cristiana sia soprattutto nell'animazione della città dell'uomo. Laici sui quali i pastori scommettessero con fiducia rilasciando loro l'autonomia che gli spetta, senza ingerenze o surroghe da parte delle gerarchie. Una Chiesa infine decisa a custodire la distinzione tra azione cattolica e azione politica e, di riflesso, tra la propria missione evangelizzatrice e i compiti in capo alle istituzioni civili. Con reciproco vantaggio: per la libertà e l'universalità della missione della Chiesa stessa e per l'autonomia e la laicità dello Stato. La cura di tali distinzioni, talvolta negletta nella Chiesa che è in Italia, specie nel passato recente, spiega perché Martini fosse stato il pastore più convinto e risoluto nell'auspicare che si ponesse fine allo schema di una forzosa unità politica dei cattolici della quale da tempo si erano esaurite le ragioni storiche, ma che si stentava ad abbandonare da parte delle gerarchie italiane. Il suo rapporto con la politica Come risulta dai ritratti più informati e fedeli del cardinal Martini che sono stati proposti da chi lo ha conosciuto per davvero, e dunque non dalle caricature abbozzate da osservatori improvvisati e superficiali, egli fu prima di tutto ed essenzialmente un uomo di Dio. Un religioso nel senso alto e pregnante della parola. Un uomo di Chiesa nel quale il carisma – cioè la sensibilità al primato dello Spirito, che, nella sua sovrana libertà e nella sua sorprendente creatività, soffia dove vuole un po’ ovunque – fa premio sull’istituzione ecclesiastica che pure ha servito con fedeltà e con amore. In coerenza con quel suo ingresso a Milano, quando attraversò a piedi la città con il Vangelo tra le mani. Come gli raccomandava Giuseppe Dossetti: portare agli uomini il Vangelo e solo il Vangelo. Lì c’è tutto, dunque non un programma fondamentalista ma proprio il suo contrario, il massimo dell’apertura a tutta la pienezza dell’umano. Su queste basi, si spiega perché Martini, religioso e profondamente gesuita (anche se da buon pastore, custode e garante dei più diversi carismi che arricchiscono la Chiesa, con discrezione, non marcava tale sua peculiare spiritualità ignaziana che pure lo informava nell’intimo), non mostrasse particolare passione per la politica. Sbagliano perciò clamorosamente quanti gli hanno affibbiato etichette politiche: uomo di sinistra, 79
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Intendiamoci: a Martini non sfuggiva affatto il valore e la nobiltà della politica. In cento e una occasioni mise a tema il suo nesso con la virtù cristiana per eccellenza, cioè la carità.
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progressista, antiproibizionista, cattolico democratico. Persino la definizione di pacifista non gli si confà, piuttosto quella di uomo di pace. Altre erano le cose (e le connesse iniziative da lui poste in atto) che lo facevano vibrare: lo studio e la diffusione dell’accostamento popolare alla Parola di Dio, il dialogo ecumenico ed interreligioso, il fraterno confronto con agnostici e non credenti, le situazioni umane e sociali segnate da fragilità, il discernimento cristiano verso il portato della scienza e della cultura moderna. Intendiamoci: a Martini non sfuggiva affatto il valore e la nobiltà della politica. In cento e una occasioni mise a tema il suo nesso con la virtù cristiana per eccellenza, cioè la carità. A valle della riflessione che propose alla diocesi sul “farsi prossimo” varò le scuole di formazione politica che poi assursero a modello e ispirarono centinaia di esperienze analoghe nelle chiese d’Italia nella seconda metà degli anni ottanta, quando già si presagiva il collasso del sistema politico del primo tempo della Repubblica e segnatamente della Democrazia cristiana. Martini fu sempre fermo e rigoroso nella cura per le distinzioni tra valori ultimi e valori penultimi, tra religione e politica, tra Chiesa e partiti. Dissentiva dalla confusione dei piani largamente praticata soprattutto in Italia. La giudicava nociva, anacronistica, provinciale. Egli era già oltre, quando ancora la Chiesa italiana si attardava sullo schema dell’unità politico–partitica dei cattolici di cui pure manifestamente si erano esaurite le ragioni storiche. Per converso, non si riconobbe nell’improvviso rovesciamento dell’approccio invalso in sede Cei a metà anni novanta: un attivismo e una sovraesposizione politica delle gerarchie di stampo neogentiloniano, di interlocuzione diretta con il potere politico a scavalco delle tradizionali e autonome mediazioni di partito. All’opposto la sua sensibilità per la distinzione di campi e responsabilità lo conduceva – in coerenza con un Concilio che aveva riservato al laicato una dignità e un protagonismo senza precedenti nella secolare storia della Chiesa, chiamandolo addirittura vocazionalmente all’impegno secolare–civico–politico in senso lato – a stimolare, valorizzare e in concreto scommettere sull’autonoma responsabilità dei laici cristiani politicamente impegnati. Senza interferenze o surroghe. In questa luce additava ai
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fedeli figure esemplari quali Giuseppe Lazzati, Giorgio La Pira, Aldo Moro. Sono testimone di infinite circostanze nelle quali egli non solo apprezzò ma anzi incoraggiò il laicato, compreso quello statutariamente più organico al vescovo, a spingersi avanti, a prendersi le sue responsabilità, persino a esplorare vie nuove. Riservandosi poi il pastore, solo se e quando fosse strettamente necessario, di intervenire e magari correggere, dunque impegnando il meno possibile l’autorità della Chiesa e propiziando invece il libero e plurale dispiegamento di una vera opinione pubblica dentro la comunità su terreni ove per definizione la congetturalità e il pluralismo rappresentano la regola. Con l’effetto di fare crescere la maturità all’interno e di accreditare all’esterno l’immagine, più appropriata, di una Chiesa come comunità viva e pensante, la cui parola pubblica non fosse affidata sempre e solo al Papa e ai vescovi. Dunque, non si impicciava di politica, nel senso che istituiva una “zona di rispetto” tra la Chiesa e le parti politiche, ma, attenzione, era invece sensibile e sommamente interessato a questioni specifiche di natura civico–politica, quelle circa le quali avvertiva un nesso più esplicito con la parola e la logica evangelica della sollecitudine speciale per soggetti e condizioni di fragilità. Penso ai detenuti a lui così cari, ai malati, agli immigrati, alle persone senza fissa dimora. In questi casi, la sua sollecitudine non fu solo pratica, ma anche, diciamo così, tesa allo scavo teorico. Penso alle sue riflessioni sulla giustizia e sul senso della pena, sulla concreta organizzazione sanitaria, sulle via per l’integrazione e la integrabilità, compresi i profili della interculturalità, di cui non gli sfuggiva la complessità. Si pensi alla sua apertura critica al dialogo con l’islam (vi dedicò il discorso di S. Ambrogio del 1990) con un anticipo di circa dieci anni rispetto all’esplosione del problema. Il registro dei suoi interventi circa la politica fu essenzialmente profetico, cioè contrassegnato da radicalità evangelica e massima libertà di giudizio. Un registro per definizione scomodo rispetto a chi detiene il potere, chiunque esso sia. Dunque affrancato da ogni calcolo di convenienza. Compresa la cura ossessiva di non essere bollato come uomo di parte. 81
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Mi spiego: in un discorso alla città di S. Ambrogio egli distingue tra neutralità, imparzialità, equidistanza della Chiesa. La cui parola trascende le logiche di parte, è parola altra e diversa dalle parole della politica. Ma in concreto non di necessità e sempre ha da essere equidistante. Cioè tutta compresa dal calcolo troppo umano del bilancino. Che finisce per farla insipida, pavida, incline alla “cultura dell’ovvio”, alla mera retorica, grigio doroteismo. L’opposto della sovrana libertà e della cristallina chiarezza del linguaggio evangelico, con i suoi sì sì, no no. Tale trasparenza e nettezza, proprie del registro profetico, non indulgono alla semplificazione ma, all’opposto, rinviano alla consapevolezza della complessità dei problemi e delle soluzioni propria della politica. Provo ad esemplificare. Primo: l’ancoraggio a valori quali la vita, la libertà, la giustizia, la solidarietà, la pace si associa a un pensoso realismo cristiano, alla lucida consapevolezza che quei beni–valori ci saranno compiutamente accessibili solo oltre il tempo; che il male e il peccato, il conflitto e il dolore incombono pesantemente sulla vita e sulla storia. In Martini si rinviene una spietata onestà intellettuale nella lettura della realtà e nelle sue contraddizioni.
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Non c’è traccia di ingenuo irenismo e di facile ottimismo. La speranza cristiana fondata sulla Risurrezione è cosa affatto diversa, che confida sulla salvezza come destino ultimo affidato però allo “scatto” della Grazia, non a noi. Secondo esempio: l’enfasi sui principi non negoziabili non esonera dalla creatività e dalla fatica della mediazione politica per insediarli nella città dell’uomo. Specie dentro società abitate dal pluralismo delle concezioni etiche e rette da ordinamenti democratici, ove, piaccia o non piaccia, si delibera sulla base della regola della maggioranza. C’è un testo di Martini, al tempo nel quale si avviava in parlamento la discussione sulla fecondazione assistita, nel quale egli distingue tre livelli: quello dei principi etici, quello dei principi costituzionali e quello della mediazione legislativa. Un’articolazione di livelli con i quali deve misurarsi anche il legislatore cristiano. A dire la complessità di un compito che meriterebbe più comprensione e sostegno, più accompagnamento nell’ardua ricerca e meno richiami disciplinari. Terzo esempio: in un’altra circostanza, nel dilagare del berlusconismo e del leghismo, pur senza fare nomi, Martini
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E’ decisamente più importante una complessiva visione della politica come attività contrassegnata da una sua immanente e organica valenza etica.
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sostenne la tesi che, dal punto di vista cristiano, il fondamento e il metodo dell’azione politica contano più dei contenuti. Traduzione: la rassicurazione circa specifiche istanze di valore pur care alla coscienza cristiana con le quali si immagina di accaparrarsi il consenso delle gerarchie e della base cattolica non sono ciò che conta di più. E’ decisamente più importante una complessiva visione della politica come attività contrassegnata da una sua immanente e organica valenza etica. Sia nel fine, il bene comune e non la cura di interessi particolari; sia nei mezzi che non sono machiavellicamente indifferenti sotto il profilo morale; sia nei comportamenti soggettivi dei politici che devono corrispondere alla dignità e all’onore di chi riveste ruoli di pubblica rappresentanza della comunità. Un rilievo che fece arricciare il naso a qualche prelato romano, che dava facile e frettoloso credito alle lusinghe di una destra non esattamente conforme a una visione cristiana della persona e della società. Quarto ed ultimo esempio: una idea mite del diritto. Martini aveva il culto della libertà, agli antipodi dello Stato etico. Non ignorava una valenza pedagogica della legge, ma non vi faceva grande affidamento. Pensava che, al fine di assicurare la qualità etica della convivenza, sono piuttosto decisive la coscienza morale personale e collettiva, l’ethos di una comunità. Di riflesso e conseguentemente, egli era convinto che i cristiani dovessero soprattutto testimoniare e praticare l’esigente etica delle Beatitudini e che semmai dal crogiuolo ardente di coscienze e comunità informate a quello spirito sortisse poi – è lecito sperarlo, ma nessuno può esserne sicuro – un consenso etico–sociale che, a sua volta, a valle e attraverso le mediazioni politiche e le procedure democratiche appropriate, potesse elevare il tenore etico della società. Diffidava cioè dell’impazienza con la quale i cattolici talvolta si illudono di fare buoni o addirittura cristiani gli uomini e le comunità facendo ricorso agli strumenti del potere e della legge, esercitando pressioni su partiti, parlamenti e governi. Sono solo esempi che tuttavia ci conducono a tre conclusioni: Martini era alieno dalla politica come competizione tra schieramenti, ma non dalla politica come attività volta alla edificazione della polis, cui sapeva assegnare il giusto posto, misurando il suo valore e il suo
Concilio, cinquant'anni ma non li dimostra
FOCUS
limite; era consapevole di quanto essa fosse impegnativa e complessa e dunque era immune da toni sentenziosi e pretese indebite verso chi ad essa si dedicava, ma piuttosto si disponeva a illuminarne, correggerne e sostenerne l’azione; riservava a sé e alla Chiesa la sola ma decisiva parola di cui essa è depositaria e competente: la parola profetica del Vangelo e delle esigenze etiche ad essa strettamente connesse. Né una parola di più, né una di meno. Uno sconfitto? Qualche osservatore, non senza buone ragioni, lo ha dipinto come uno sconfitto. Lui stesso, talvolta, ha dato mostra di considerarsi tale. Sia con riguardo alla condizione della Chiesa, sia con riguardo alla società e alla politica (il suo episcopato è coinciso con una stagione non tra le più esaltanti della vita pubblica, con epicentro proprio a Milano). Che dire? Che i parametri umani non coincidono con quelli divini, che la vita e la storia seguono percorsi misteriosi, che per vie spesso ignote il seme da lui gettato nel terreno buono col tempo germoglierà e tuttora dà i suoi frutti. Personalmente interpreto così l'omaggio resogli in morte da uno sterminato popolo di credenti e non credenti. Quella fila ininterrotta, quel composito popolo di Dio – silente, commosso e composto, senza ombra di feticismo e fanatismo, di culto della personalità, conforme allo stile a lui congeniale – davanti alla sua salma deposta in Duomo possono essere letti come un piccolo indizio del segreto germinare di quel seme fecondo. Adottando cioè i parametri propri della profezia del Vangelo e non quelli mondani della politica a lui estranei, chi può dire con sicurezza che Martini sia stato uno sconfitto? E chi può giurare che egli, dopo morto, più ancora che da vivo, non possa rappresentare quell’evangelico “segno di contraddizione” che scuote la Chiesa, la società e la politica?
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DOCUMENTO TV
Il Senatore PD Sergio Zavoli intervista mons. Loris Capovilla
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DOCUMENTO TV
dagli archivi della rai una preziosa testimonianza sui significati del Concilio vaticano ii a quattro anni dalla sua chiusura: l'intervista di sergio Zavoli a monsignor loris Capovilla, trasmessa a tv7 il 24 gennaio 1969.
Guarda il video oriGiNale dell’iNtervista sul sito di taMtàM deMoCratiCo
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Altri Contributi
ALTRI CONTENUTI
Voci dall'interno del PD.
Il viaggio
di Ivan Scalfarotto Martino Liva
è cultore della materia di Diritto pubblico dell'economia all’Università Milano Bicocca
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ALTRI CONTENUTI
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inque mesi di incontri, diciassette conversazioni e una voce narrante, la mia». Solo il suo autore poteva inquadrare così perfettamente questo (bel) libro, nelle librerie da inizio settembre, che consente ad un ignaro lettore di fare un viaggio particolarmente intenso nel Partito Democratico (Ivan Scalfarotto, Ma questa è la mia gente, Mondadori, 2012). L’ultimo libro di Scalfarotto si fa apprezzare per molte ragioni, di cui la prima è di certo la capacità dell’autore di dare un spaccato dello stato attuale del Pd, alla vigilia di una lunga campagna elettorale che si giocherà su più fronti, da quello nazionale a quelli regionali. Si susseguono infatti diciassette conversazioni con volti noti e meno noti, professionisti della politica ed outsider, tutti però appartenenti alla galassia del Pd, «l’unico partito in Italia a chiamarsi “partito” ed a non avere nessun cognome sulle proprie bandiere». Un altro aspetto particolarmente interessante del libro, sta proprio nel peculiare profilo dell’autore. Scalfarotto, per sua stessa ammissione, resta un «alieno della politica», non ricopre cariche elettive, conosce forse meglio il mondo delle professioni e dell’economia che quello del dibattito parlamentare, degli incontri nel transatlantico di Montecitorio o delle riunioni di partito. Tuttavia, il suo è, allo stesso tempo, uno sguardo dall’interno: egli infatti è Vice Presidente del Pd, membro della Direzione Nazionale, appassionato da tempo per la cosa pubblica tanto che nell’estate del 2005 si propose di correre per le primarie dell’Unione, sfidando
Prodi, Bertinotti, Di Pietro, Mastella, Pecoraro Scanio e Simona Panzino, ed arrivando sesto con 26.912 voti. Le conversazioni del libro possono essere racchiuse in tre diversi filoni. Il primo è quello dei dirigenti apicali, costruito sulle figure di Bersani e Bindi, passando per D’Alema, Letta, Veltroni ed Anna Finocchiaro («una delle pochissime donne ad avere, da tempo, incarichi di reale influenza nel partito»). Il secondo è quello dei professionisti e degli uomini della società civile prestati alla politica. Si legge dunque dell’incontro con Renato Soru, che l’autore scoprì quasi per caso durante un intervista televisiva nel dicembre 2008, arrivando a dire «mi è sembrato finalmente di aver visto un leader», e di quelli con Pietro Ichino, Ignazio Marino, Stefano Boeri. Nel terzo filone, invece, si possono racchiudere le conversazioni con i «nativi del Pd», vale a dire quei politici che, anche per l’età anagrafica, non hanno alle spalle pregresse esperienze di partito ed aspirano ad essere la nuova classe dirigente del Pd che, per Scalfarotto, «c’è già e non bisogna nemmeno sforzarsi tanto per vederla». Dunque ecco, ad esempio, le interviste con Civati («il più talentuoso tra tutti gli emergenti del partito»), Debora Serrachiani, che l’autore avrebbe voluto si candidasse alle primarie per la segreteria del Pd del 2009 perché «aveva qualche chance di farcela», Stefano Fassina ed Ilda Curti. Il filo conduttore è univoco: ruota intorno alla domanda «che significa oggi, sentirsi democratici ?». Ma le risposte, come ovvio ed anche naturale, univoche non sono. L’autore si pone davanti ai personaggi che incontra con l’onestà intellettuale di chi vuol veramente capire cosa sia il Pd oggi e 91
ALTRI CONTENUTI verso quali mete si stia dirigendo. I temi sono ampi e variegati: la politica, i diritti civili e sociali, l’economia, l’idea stessa di partito e di militanza. Con un sapiente utilizzo della voce narrante Scalfarotto non fa mistero delle sue simpatie ed in qualche modo lascia intendere che sottoscriverebbe l’appello di Civati per «non cambiare partito, ma cambiare il partito». Ma anche dove le idee divergono, l’ascolto reciproco resta il leit motiv delle conversazioni. Così sui temi dell’economia e del diritto del lavoro, l’autore strizza l’occhio a Pietro Ichino, le cui proposte «sono l’incoraggiamento a guardare in modo dinamico alla sostanza delle cose» e dissente invece con Fassina, personaggio di spessore ma il cui modo di osservare le cose pare «basato su contrapposti antagonismi» con la conseguenza di rinunciare a parlare al paese nella sua interezza. Quanto ai temi dei diritti civili, su cui l’autore insiste molto durante tutto l’incedere del libro, è particolarmente appassionante la conversazione con Rosy Bindi cui viene dato un titolo
no», in quanto compito della politica è interpretare la complessità. Solo in questo modo, infatti, anche sui temi su cui è più difficile essere d’accordo (si pensi ai matrimoni per gay e lesbiche) la conversazione può procedere nella pacatezza e nell’ascolto reciproco. Il libro poi, come ogni buon testo, è in grado di rivelare sorprese anche per ciò che non c’è. Ad esempio sorprende l’assenza di una conversazione con Matteo Renzi, per cui pure l’autore nutre simpatie, o con Dario Franceschini, il secondo segretario del partito, seppure ad interim. Allo stesso tempo sono però presenti incontri inaspettati ma particolarmente significativi di cui il lettore condivide la meraviglia con l’autore. Emblema di ciò è la conversazione, davanti ad un piatto di spaghetti, con Michele Emiliano, Sindaco di Bari. In quest’ultimo c’è uno sforzo argomentativo per dimostrare la necessità di un partito aperto, contendibile, addirittura scalabile e tutto rivolto, per dirla con le sue meravigliose parole «a costruire, per quanto possibile, pezzi di vita». Parole che poi sono le stesse di Stefano
Il risultato delle diciassette conversazioni è, per certi versi, sorprendente. Ne emerge un partito che è unito su valori saldi ed irrinunciabili, su cui si fonda la nostra stessa Costituzione, come la solidarietà, l’uguaglianza particolarmente azzeccato: “Non basta un monosillabo”. Il risultato, condiviso, è l’idea che il Pd non possa essere il partito dei monosillabi perché, ricorda Bindi, «davanti a questioni complesse non si risponde con un si o un 92
Boeri, il quale, dopo la sconfitta alle primarie milanesi non si è tirato indietro ed a saputo convogliare le sue energie verso la finale vittoria delle elezioni per Palazzo Marino a dimostrazione del fatto che «quando il Pd sa mettersi al servizio
ALTRI CONTENUTI della società e dimostra di saper ascoltare e sostenere lealmente ciò che emerge dal mondo che gli sta intorno, la gente alla fine lo premia in modo entusiastico». Il risultato delle diciassette conversazioni è, per certi versi, sorprendente. Ne emerge un partito che è unito su valori saldi ed irrinunciabili, su cui si fonda la nostra stessa Costituzione, come la solidarietà, l’uguaglianza, la capacità di mettere gli interessi della comunità davanti a quelli dei singoli. Ma allo stesso tempo vengono messe in luce idee, ricette, storie diverse che da un lato fanno anche litigare ma alla stesso tempo rendono il Pd un luogo vivo e propositivo, diametralmente opposto ai tanti partiti che si incarnano essenzialmente nella sola figura del leader. Il guanto di sfida che lancia Scalfarotto
nelle pagine finali è riprendere «lo slancio innovativo» e ridare dignità alla politica ripartendo dalla propria storia. Quella più «politica» di Moro e di Berlinguer, e quella più «civile» di Ciampi e Prodi. La bussola è il cambiamento come elemento di opportunità e crescita nella consapevolezza che il mondo muta e la tecnologia ha già cambiato le nostre vite, impattando sull’economia ed anche sulla politica. L’obiettivo pare essere la costruzione di un partito capace di infrangere il regime di segretezza che richiede criteri fideistici di appartenenza al gruppo dirigente per arrivare al vertice e miri ad essere fino in fondo «un partito senza padroni». Fatto che talvolta rende tutto più difficile, ma, riflettendoci, immensamente più affascinante.
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