Finalmente sud, per crescere insieme

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NUMERO 7 MARZO 2012

Finalmente sud, per crescere insieme contributi di Giovanni Bazoli • Luca Bianchi • Carlo Borgomeo • Daniela Carmosino • Franco Cassano • Sergio D'Antoni Paola De Viro • Nerina Dirindin • Guido Formigoni • Don Antonio Lattuada • Eugenio Mazzarella • Guido Melis Annamaria Parente • Gianni Pittella • Giuseppe Provenzano • Umberto Ranieri • Giuseppe Vacca • Gianfranco Viesti



Stefano Di Traglia Direttore responsabile

Franco Monaco Direttore editoriale

Alfredo D’Attorre Coordinatore del Comitato editoriale

Valentina Santarelli Segretaria di redazione

COMITATO EDITORIALE Massimo Adinolfi Mauro Ceruti Paolo Corsini Stefano Fassina Chiara Geloni Claudio Giunta Miguel Gotor Roberto Gualtieri Marcella Marcelli Eugenio Mazzarella Anna Maria Parente Francesco Russo Walter Tocci Giorgio Tonini

SOMMARIO FOCUS

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Annamaria Parente

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SITO INTERNET www.tamtamdemocratico.it

E-MAIL redazione@tamtamdemocratico.it

Tam Tam Democratico spazio di approfondimento del Partito Democratico

Proprietario ed editore Partito Democratico Sede Legale - Direzione e Redazione VIa Sant’Andrea delle Fratte n. 16, 00187 Roma Tel. 06/695321 Direttore Responsabile Stefano Di Traglia Registrazione Tribunale di Roma n.270 del 20/09/2011 I testi e i contenuti sono tutelati da una licenza Creative Commons 2.5 CC BY-NC-ND 2.5 Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate

COMUNICAZIONE progetto grafico/sito internet dol - www.dol.it

Giovani protagonisti di una nuova politica

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Le radici della coesione

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Franco Cassano Ripensare l'Italia partendo dal sud Gianfranco Viesti

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Un patto nazionale per la crescita Luca Bianchi

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Scommettere sulla frontiera meridionale della Ue Giuseppe Provenzano Ri-cominciare da una nuova cultura dello sviluppo Carlo Borgomeo Per sconfiggere il fatalismo Paola De Vivo La natura duale del welfare nazionale Nerina Dirindin Il potere della cultura e la cultura del potere Daniela Carmosino Il problema italiano e il PD Giuseppe Vacca

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Dentro un disegno riformatore nazionale Umberto Ranieri Il circuito disuguaglianzasottosviluppo Sergio D’Antoni Il sud crocevia del mondo che cambia Gianni Pittella Le insidie del "benecomunismo" Eugenio Mazzarella La Sardegna da deposito a crocevia Guido Melis

ALTRI CONTENUTI

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Andreatta, un cristiano con il senso dello Stato. Presentazione dei discorsi parlamentari di Beniamino Andreatta Giovanni Bazoli Principio di sussidiarietà e dottrina sociale cristiana Don Antonio Lattuada De Gasperi, Dossetti e il falso dilemma statalismo-sussidiarietà Guido Formigoni

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FOCUS

Giovani protagonisti

di una nuova politica Annamaria Parente

è Responsabile Formazione Politica Partito Democratico

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i-cominciamo a parlare di Mezzogiorno: un numero "speciale" di TamTam che darà vita a dibattiti e confronti con 2000 giovani collegati nella grande piattaforma di Rete del progetto di formazione politica del Partito Democratico "Finalmente Sud". Percorso che, iniziato a Napoli con il segretario Pier Luigi Bersani il 29 e il 30 ottobre scorsi, prosegue con modalità "a distanza" e prevede nei prossimi mesi incontri formativi a livello provinciale, regionale, nazionale. È un'azione del tutto innovativa nel panorama politico italiano ed europeo. Riteniamo, infatti, che perché il Sud del nostro paese 5


FOCUS

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Si tratta di lavorare alla creazione di un nuovo humus da dove prenda forma una vera e propria “cittadinanza competente” da cui, se saremo capaci di centrare l’obiettivo, uscirà la futura forza politica del nostro Paese

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possa diventare protagonista dello sviluppo dell'Italia e di nuovi equilibri geopolitici in Europa e nel Mediterraneo, bisogna costruire per i giovani del Mezzogiorno spazi reali di partecipazione e crescita democratica. Il Partito Democratico è al servizio di questa idea, carica di speranza e futuro. Sperimentiamo qui l’avvio di una straordinaria "contaminazione" di pensiero ed elaborazione critica tra studiosi ed esperti, e le nostre ragazze e i nostri ragazzi, impegnati a rafforzare conoscenze e competenze, a partire dalla propria vita vissuta ed esperienza concreta. Siamo convinti che l'apporto qualificato e appassionato degli intellettuali coinvolti, e di altri o altre, che sono vicini al nostro percorso, possa far crescere nei partecipanti al progetto di formazione la consapevolezza della necessità di prendersi cura del proprio e dell'altrui destino, spinta autentica all'impegno civico e politico. E nello stesso tempo i giovani di Finalmente Sud hanno l’occasione di alimentare un incubatore fecondo di idee, suggestioni, proposte, indispensabili ad un cambiamento di passo e di prospettiva per affrontare il difficile momento storico che viviamo e i cambiamenti epocali che ci attraversano. Come molto spesso accade, i periodi di crisi portano con sé anche i semi della riscossa e di un futuro migliore. Prendendo a prestito da Max Weber la descrizione delle qualità del politico: passione, senso di responsabilità e lungimiranza, queste doti oggi vanno recuperate in senso generazionale. Intendo dire che va superata la concezione della formazione di una classe dirigente come élite illuminata, per lasciar spazio ad un'azione capillare e "popolare" in grado di stimolare un'intelligenza collettiva, votata al bene comune, fine ultimo della politica. Insomma, si tratta di lavorare alla creazione di un nuovo humus da dove prenda forma una vera e propria “cittadinanza competente” da cui, se saremo capaci di centrare l’obiettivo, uscirà la futura forza politica del nostro Paese. Un patrimonio “diffuso” capace di muovere azioni propulsive di miglioramento sociale e collettivo. E proprio al Sud, la crescita di un'intera "generazione politica" sarà tanto più efficace se contribuirà a fare uscire la concezione del Mezzogiorno dalle secche di un dibattito, che ha spesso imputato alla classe dirigente meridionale la responsabilità del mancato sviluppo. È un tema questo che ha attraversato come un leit-motiv il


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giudizio di molti storici e osservatori, a partire da Giustino Fortunato, sostenitore dello Stato unitario in quanto capace di supplire all’inefficienza delle classi dirigenti locali nel Sud d'Italia. Anche ai giorni nostri viene messa in evidenza la mancanza strutturale dell’amministrazione pubblica e politica meridionale. In occasione del 150° anniversario dell’unità d’Italia, lo stesso Ivan Lobello, presidente degli industriali della Sicilia, ha dichiarato che “è inutile dare la colpa ai governi nazionali della spaccatura economica e sociale del paese, ma la responsabilità è della classe dirigente meridionale". Ecco che il giudizio negativo attraversa la storia e ci viene riconsegnato oggi proprio dalla “gente” del Sud. È ora di dire basta. Il reclutamento della classe dirigente politica e amministrativa deve passare attraverso un esame di coscienza collettivo, un ethos pubblico, capace di superare i meccanismi clientelari e i favoritismi personali e di fare il “salto di qualità” che vuole le competenze reali a servizio del bene comune. Ri-cominciamo con una "rivoluzione delle coscienze", secondo un'espressione di Guido Dorso. Una rivoluzione delle coscienze e del pensare in cui una "generazione politica" nel 2012 deve necessariamente recuperare uno spirito nazionale, ma nello stesso tempo costruire un'identità aperta che si forma, tiene conto ed agisce, in un quadro geopolitico più vasto che vede il Mezzogiorno incastonato, come una pietra preziosa, nella saldatura dell’Italia, dell’Europa e del Mediterraneo, da cui non si può più prescindere. Pensare quindi allo sviluppo del Sud non in dimensione “localistica”, ma in una prospettiva più ampia. Chiediamo proprio ai nostri giovani di adottare lo “sguardo lungo” per andare oltre. È fondamentale seguire il filo di Arianna per chi oggi ha 20, 25 anni e ciò significa ripercorrere con spirito critico la storia di questi 60 anni che hanno visto il Mezzogiorno alle prese con interventi ordinari, straordinari, di nuova programmazione, di sviluppo dall’alto, dal basso, centralizzato, decentralizzato. Ma, sia chiaro, non si tratta di mere esigenze didatticopedagogiche, ma di una vera e propria scelta politica e strategica. È una visione profonda delle cose che si deve acquisire e coltivare quotidianamente. Va promosso quel processo di conoscenza e di ascolto che potrà compiersi anche

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Anche ai giorni nostri viene messa in evidenza la mancanza strutturale dell’amministrazion e pubblica e politica meridionale

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Lo sviluppo del Mezzogiorno vuol dire sviluppo di tutto il nostro Paese e questo noi lo adottiamo come paradigma di partenza

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attraverso la realizzazione di dossier territoriali frutto dell’impegno sul campo dei giovani di Finalmente Sud. Un’indagine su temi cruciali come lo stato dei trasporti, la mobilità urbana, la scuola, i servizi sociali e sanitari, e l’occupazione, approfondimenti specifici da realizzare in dimensioni dialoganti tra loro, come quella geopolitica, economica, territoriale, sociale, culturale, antropologica, letteraria, storica, deontologica e politica. Solo così è possibile “chiudere il cerchio” per individuare la piattaforma di lancio del pensiero costruttivo, pragmatico e programmatico del Mezzogiorno, capace cioè di mettere insieme le riflessioni macro di esperti ed intellettuali, gli interventi dei governi e la dimensione micro della nuova “mappatura civica” delle questioni e dei problemi che pulsano dal territorio. È ora di guardare le condizioni reali, è ora di immergersi nella verità delle cose. Insomma, tutti noi dobbiamo adottare lo “sguardo lungo” e salire fino alla cima della montagna per godere dell’intero panorama, per capire dove ci sono le strade, dove ci sono le piazze e i mercati e dove mancano, per guardare meglio il nostro orizzonte. Dunque “Ri-cominciamo a parlarne"! Lo sviluppo del Mezzogiorno vuol dire sviluppo di tutto il nostro Paese e questo noi lo adottiamo come paradigma di partenza, scintilla necessaria per dare di nuovo il via al dibattito per il Sud.


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Le radici della coesione Franco Cassano

insegna Sociologia della Conoscenza all’Università di Bari

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n un articolo comparso circa due anni fa su “Il Mulino”1 Michele Salvati ha formulato un giudizio del tutto condivisibile: la storia repubblicana ha conosciuto due stagioni politiche orientate ad affrontare con serietà la cosiddetta questione meridionale. La prima è stata la stagione dell’intervento straordinario, nella quale campeggia la figura di Pasquale Saraceno; la seconda è quella che inizia alla fine degli anni Novanta, allorché venne istituito presso il Ministero del Tesoro, allora diretto da Carlo Azeglio Ciampi, del “Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione” affidato alla direzione di Fabrizio Barca. Si è trattato, affermava Salvati, di due strategie diverse, “ma entrambe sorrette da una visione coerente e attuate, almeno nella fase iniziale, da politici tecnici e amministratori di grande qualità”. Noi aggiungeremo solo che, al di là della comune serietà e spessore culturale, la differente filosofia che ha ispirato quelle due stagioni era anche il riflesso di due diversi periodi dello sviluppo capitalistico di questo dopoguerra, la prima contrassegnata dalla centralità del compromesso tra capitalismo e democrazia e dal ruolo attivo e propositivo dell’intervento statale e la seconda, nata quando quel compromesso era saltato, caratterizzata invece da un’ispirazione antistatalista e tutta orientata alla mobilitazione degli attori dal basso e su scala locale e allo sviluppo del “capitale sociale”. 1. M. Salvati, Una modesta proposta per una grande questione, Il Mulino, 448, n. 2, 2010, pp. 215-225.

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Si tratta sicuramente di una discontinuità rispetto al governo precedente e di un segnale positivo perché Barca, come abbiamo appena ricordato, ha le carte in regola per essere un ottimo ministro

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Abbiamo ricordato il giudizio di Salvati perché, all’inizio del 2010, quando il suo articolo comparve sulle pagine della rivista bolognese, la stagione del Dipartimento sembrava una vicenda conclusa e destinata solo ad una riconsiderazione retrospettiva, mentre oggi essa sembra essere tornata al centro dell’attenzione con il governo Monti, nel quale proprio a Barca è stato affidato l’incarico di ministro della coesione territoriale. Si tratta sicuramente di una discontinuità rispetto al governo precedente e di un segnale positivo perché Barca, come abbiamo appena ricordato, ha le carte in regola per essere un ottimo ministro ed alcune delle sue prime mosse non solo non sono improvvisate, ma costituiscono una ripresa del filo del suo lavoro, fortificato non solo da una lunga esperienza, ma anche da una fase di riflessione critica ed autocritica. La filosofia che lo sottende è la stessa, quella che mira ad innescare dal basso e su scala locale la creazione e lo sviluppo di “capitale sociale”, che si propone di suscitare una mobilitazione capillare e di diffondere spirali virtuose, rinnovando il tessuto sociale del sud e sottraendolo alla passività, al particolarismo e al clientelismo. Si tratta di scavalcare gli evidenti effetti perversi di una tradizione dell’intervento fondata sul primato dello stato centralizzato, abituato a governare dall’alto, senza la conoscenza concreta delle situazioni e spesso prigioniero di “filiere” consolidate di interessi (economici e politici) che, invece di orientare il flusso delle risorse pubbliche verso la produzione di utilità collettive, lo deviavano a proprio favore. La nuova filosofia, la cui gestazione peraltro risale ad un periodo di elaborazione collettiva maturata tra gli anni Ottanta e Novanta intorno alla rivista “Meridiana” e alla casa editrice Donzelli, mira a ridefinire il ruolo del ministero: non più erogatore di spesa, ma soprattutto strumento per ottimizzare la redditività delle risorse destinate al sud, in primis quelle dei fondi strutturali europei. Uno strumento flessibile a disposizione del protagonismo delle regioni meridionali, ma orientato a contrastare quelle patologie che anche in tempi recenti hanno favorito la dispersione delle risorse pubbliche per fini elettorali, allontanandole dall’obiettivo principale, quello della produzione di utilità collettive di lungo periodo: se, come troppo spesso è accaduto, si dispensano soldi per una miriade di eventi e interventi, li si sottrae a qualsiasi


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coordinamento e a ogni miglioramento qualitativo delle infrastrutture collettive. In altre parole si crea un consenso a breve termine, ma danni incalcolabili all’utilità di lungo periodo, si vive nell’oggi, ma si rinuncia al domani. Da questa visione non economicistica dello sviluppo discende la necessità di monitorare continuamente la gestione del flusso delle risorse pubbliche, di ottimizzare i tempi e i modi del loro utilizzo, premiando i comportamenti virtuosi e fissando obiettivi d’interesse generale: infrastrutture, scuola, comunicazioni, ecc. Di questa nuova forma di presenza del soggetto pubblico al sud sono da sottolineare almeno due novità rilevanti. La prima è soprattutto sul piano della forma: a dirigere non è più la scelta autoritativa dell’ente erogatore, ma una struttura impegnata a produrre partecipazione e collaborazione, ad aumentare la trasparenza dei processi e la possibilità di auto-correzione per ottimizzare l’uso delle risorse. Si tratta di innescare il protagonismo degli attori e non la loro passività. La seconda novità discende invece dalla fissazione rigorosa di una gerarchia temporale: si deve privilegiare non più il presente, il consenso a breve, ma il futuro. I costi sopportati nel presente non sono fini a se stessi, ma un investimento, la premessa necessaria per la produzione di utilità collettive e di lungo periodo. Ma, una volta riconosciuti i meriti e le novità della politica messa in campo da Fabrizio Barca, per capire quale destino verrà riservato al Mezzogiorno nei prossimi anni è necessario fare spazio anche a qualche riflessione critica di non lieve entità. In modo sintetico ci sembra che la filosofia che guida l’azione del Ministro, i cui pregi abbiamo ricordato, sia però largamente insufficiente in ragione di due limiti tra loro strettamente connessi: il primo è un limite cognitivo e interno a quella stessa filosofia; l’altro, pur essendo strettamente connesso al primo, deriva invece dalla contraddizione tra l’ethos positivo e costruttivo che sottende tale filosofia e l’ispirazione dei governi italiani degli ultimi anni, compreso il governo Monti. Tali governi, pur essendo tra loro molto diversi, hanno avuto, e continuano ad avere, una logica di movimento che va nella direzione esattamente opposta a quella di un rilancio del Mezzogiorno. Del primo limite abbiamo parlato più analiticamente in

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è necessario contrastare patologie che anche in tempi recenti hanno favorito la dispersione delle risorse pubbliche per fini elettorali, allontanandole dall’obiettivo principale, quello della produzione di utilità collettive di lungo periodo: se, come troppo spesso è accaduto, si dispensano soldi per una miriade di eventi e interventi

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Per evitare interessati fraintendimenti occorre essere molti chiari: le responsabilità delle classi dirigenti meridionali sono molto gravi e senza un profondo cambiamento dei loro comportamenti e dei loro costumi è impossibile sperare in un futuro diverso

altra sede, mettendo in evidenza il suo “rimosso”, le zone d’ombra di quello che abbiamo chiamato il “localismo virtuoso”2. Cercando di ridurre al loro nucleo essenziale le critiche allora formulate, noi riteniamo che il limite del localismo virtuoso stia nel fatto che esso sembra imputare il “ritardo” del mezzogiorno italiano esclusivamente alla “cultura” dei meridionali, operando una pesante rimozione dell’incidenza di altri fattori politici e strutturali. Su questo punto per evitare interessati fraintendimenti occorre essere molti chiari: le responsabilità delle classi dirigenti meridionali sono molto gravi e senza un profondo cambiamento dei loro comportamenti e dei loro costumi è impossibile sperare in un futuro diverso. E proprio per questa ragione la fine dell’intervento straordinario poteva essere l’occasione per aprire una strada nuova. L’imperativo “non ci sono più risorse, smettiamo di lamentarci e mobilitiamoci usando al meglio quelle disponibili”, permetteva infatti di colpire antiche e perverse abitudini e di spingere all’azione, condannando ogni alibi, inerzia o complicità. Ma questo volontarismo, per quanto nobile ed encomiabile, non può non imbattersi, prima o poi, in quella parte della realtà che non prende in considerazione, cioè nell’incidenza sulla vicenda del sud di fattori dipendenti dal suo rapporto “ineguale” con la cornice nazionale e internazionale. La complessità rimossa, come ci insegna Freud, è destinata a ritornare: una volta condannate come ideologiche e consolatorie le prospettive che sottolineano le componenti esterne delle difficoltà attuali, queste ultime continueranno ad essere imputate sempre e soltanto ad un insuperabile deficit morale e culturale del Mezzogiorno. Del resto questa è l’immagine, tutt’altro che disinteressata, che oggi domina largamente i media e il dibattito pubblico. E allora vale la pena di ripeterlo: l’incidenza dei fattori culturali e soggettivi interni al Mezzogiorno è innegabile, ma far scomparire dal quadro l’incidenza degli altri fattori significa condannarsi all’insuccesso. Tra una cornice teorica mutilata e la scarsa produttività dell’azione politica s’istituisce un’evidente circolarità negativa. Il secondo limite ci sembra invece quello che deriva dal

2. F. Cassano, Tre modi di vedere il sud, Il Mulino, Bologna 2009.

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conflitto esistente tra i passi che sarebbero necessari per una politica di rilancio del Mezzogiorno e la filosofia complessiva che ispira questo governo. Per far ripartire il motore ingrippato della crescita l’idea-guida è quella di intervenire sul sistema-paese in funzione di una precisa priorità: rilanciare le aree forti al fine di renderle più competitive nel quadro dell’economia globale. Del resto è questa oggi la logica prevalente: per ripartire bisogna gettar via i pesi morti e rendere più agili le aree già presenti sul mercato globale. L’idea di politiche perequative è del tutto fuori tempo e appare pateticamente obsoleta o pericolosamente estremista. Ma questa logica vuol dire, anche se non è elegante dirlo, accentuazione del divario tra centro e periferia, con l’unica eccezione della cooptazione, faticosa e intermittente, di qualche area di confine, utile anche per esibire un’apertura più di facciata che reale. In altre parole la questione settentrionale non è rappresentata solo dalle guasconate della Lega. Alle sue spalle non da adesso esiste una versione più alta e sofisticata, dove al posto del separatismo e dei miti di fondazione, si propone come criterio-guida quello dell’efficienza e della competitività del sistema. Non più l’alta gradazione etilica delle feste padane né il populismo arciitaliano di qualche cavaliere, ma la sobrietà dei conti certificata con la carta intestata della Bocconi. In altre parole accanto al settentrionalismo rustico e caricaturale del leghismo ne esiste un altro, sobrio ed urbano, che cammina dietro il vessillo di principi generali, presentati come virtuosi e benefici per tutto il sistema. Non è un caso che in occasione della conferenza di fine d’anno il premier, di fronte a ben due domande sul Mediterraneo, abbia risposto con un esplicito rinvio alla necessità di un approfondimento su questi temi, rinvio che non può non far temere l‘assenza di idee significative sull’argomento. Rispetto all’angustia territoriale della Lega questo nuovo settentrionalismo ha un respiro universalistico, che insiste molto sui valori dell’efficienza e della ricostruzione di criteri minimi di meritocrazia. Tale universalismo rappresenta un innegabile passo in avanti, purché non si dimentichi che un universalismo dimezzato non è vero universalismo. In altre parole in un quadro come quello italiano la famosa uguaglianza delle opportunità, se non viene costruita attraverso una forte e coraggiosa azione di riequilibrio

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Per ripartire bisogna gettar via i pesi morti e rendere più agili le aree già presenti sul mercato globale. L’idea di politiche perequative è del tutto fuori tempo e appare pateticamente obsoleta o pericolosamente estremista

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Per rilanciare il ruolo dell’Italia facendo leva sul Mezzogiorno, per costruire una coesione forte, un campo da gioco reale e non simulato, per innescare una grande crescita del “capitale sociale”, è necessario intaccare seriamente i rapporti di forza esistenti

territoriale, corre il rischio di produrre soprattutto il potenziamento e la razionalizzazione delle tendenze esistenti, che già da tempo calamitano le risorse nelle zone più ricche e sviluppate del paese: dal risparmio ai laureati e agli studenti migliori attratti dalle università “virtuose”, dai finanziamenti alla ricerca agli investimenti in infrastrutture. Per non parlare della lunga e desolante assenza di una politica estera degna di questo nome e capace di cogliere al volo le occasioni offerte, nel ventennio seguito alla caduta del muro, dallo spazio mediterraneo. L’attuale governo non ha questa parola nel suo vocabolario, ma anche quei governi che ogni tanto la pronunziavano non hanno fatto nulla. Non è inutile concludere queste brevi riflessioni ricordando un brano di Douglass North, insospettabile premio Nobel per l’economia nel 1993: “l’”economia globale” non è un campo da gioco in cui tutti partono da zero: i paesi sviluppati godono di maggiori vantaggi, in quanto possiedono un contesto istituzionale/organizzativo che (..) riesce a catturare la produttività potenziale derivante dall’integrazione della conoscenza dispersa”3. In altre parole: il campo da gioco è inclinato e si corre il rischio che a vincere siano sempre gli stessi. Il che tradotto in italiano vuol dire: per rilanciare il ruolo dell’Italia facendo leva sul Mezzogiorno, per costruire una coesione forte, un campo da gioco reale e non simulato, per innescare una grande crescita del “capitale sociale”, è necessario intaccare seriamente i rapporti di forza esistenti. Ipotesi che, nonostante l’alta qualità dell’attuale ministro per la coesione territoriale, non sembra essere all’orizzonte. Sappiamo bene come la via che indichiamo sia molto difficile, ma essa è l’unica che può salvare il Mezzogiorno dallo scivolamento, peraltro già in corso, verso un leghismo mimetico e perdente. E quindi anche l’unica per salvare l’unità del paese.

3. D. C. North, Understanding the Process of Economic Change, Princeton University Press, Princeton N.J. 2005; trad. it.: Capire il processo di cambiamento economico, Il Mulino, Bologna 2006, p. 213.

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Ripensare l'Italia

partendo dal sud Gianfranco Viesti

insegna Politica Economica all’Università di Bari

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n questo momento in Italia abbiamo grandi opportunità ma per trasformarle in realtà occorre ancora un grande sforzo. La mia personale opinione è che il cambiamento di governo è stata una condizione assolutamente necessaria, ma assolutamente non sufficiente. Con il nuovo governo le politiche di sviluppo per il Mezzogiorno sono ripartite. Questa è una buona notizia. Ci speravo, perché nel DNA di Mario Monti vedo un’Europa antica, un’Europa che mi piace. Un’Europa nella quale liberalizzazioni e coesione sono due facce della stessa medaglia. Quello che Monti scriveva come consulente della Commissione europea nel 2010 era esattamente questo: tanto più ci vuole mercato interno, tanto più ci vuole coesione sociale e territoriale. Lo ha dimostrato, non solo scegliendo opportunamente il ministro, ma dando un ruolo di un certo peso alle politiche di coesione nell’azione del governo.

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Qui non parliamo di dettagli, qui parliamo di un pezzo di politica che è fondamentale per l’intera Europa. La situazione europea è preoccupante. Noi corriamo il rischio di avere un’opinione pubblica e una politica europea che abbandonano un paese dell’Europa, un paese civile, un paese fratello, la Grecia, perché l’Unione è incapace di disegnare insieme alle indispensabili politiche di coerenza finanziaria anche delle politiche di sviluppo e per la crescita. Le politiche di coesione sono il pezzo più importante delle politiche di sviluppo che già oggi ci sono in Europa. Il fatto che oggi a Bruxelles non ci va Tremonti ma ci va Monti, che con Barca stiamo discutendo della programmazione 2014/2020 sta facendo giocare al nostro paese un ruolo importante nel rilancio delle politiche europee per la crescita. A questo sta corrispondendo in Italia un’azione di governo per la coesione territoriale con interventi molto veloci e molto opportuni. Non ho nessun problema ad esprimere una tesi del tutto favorevole a quello che si sta facendo. Alla riprogrammazione degli interventi, che come abbiamo visto ha suscitato delle reazioni fisiologiche nelle regioni del Sud, alla concentrazione su alcuni assi di cui quello della scuola è assolutamente fondamentale. Vi è complessivamente il tentativo di rilanciare queste politiche. Non si sta provando solo a salvare la spesa, ma contemporaneamente a migliorare la spesa dell’oggi e a lavorare su regole per il domani. Queste regole sono molto importanti. Queste politiche non possono produrre soltanto numeri, ma devono produrre realizzazioni che i cittadini vedono, che i cittadini sentono, che i cittadini vivono nella loro vita. Queste realizzazioni devono concretizzarsi in tempi ragionevoli. Ad esempio il Ministro Barca raccontava di come una delibera Cipe abbia oggi bisogno di 14 passaggi successivi per diventare efficace. Questo è intollerabile normalmente; oggi, con la crisi, è devastante. Il punto più delicato e più importante dell’operazione che Barca sta facendo è quello di far uscire queste politiche dalle stanze chiuse della tecnica e di riportarle nel dibattito politico. Qui vorrei esprimere un’opinione molto chiara: abbiamo un deficit di discussione su questi temi; dobbiamo discuterne di più nel merito anche al Sud, anche criticando di più gli amici: perché così si costruisce contemporaneamente

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Quello che Monti scriveva come consulente della Commissione europea nel 2010 era esattamente questo: tanto più ci vuole mercato interno, tanto più ci vuole coesione sociale e territoriale

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Le università del Sud, come molte altre dell’intero paese, sono istituzioni quasi morenti. Stanno uscendo un numero enorme di docenti e non entra più nessuno, perché ci sono regole nazionali di funzionamento che sono sbagliate

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democrazia e politica economica. Questa politica è indispensabile. Ma non basta: perché non siamo in un paese normale, in un momento normale. Faccio degli esempi molto facili per far capire come la politica di coesione territoriale sia un elemento indispensabile ma assolutamente non sufficiente per il rilancio della crescita soprattutto al Sud. Il tema Mezzogiorno, nell’agenda politica, non si può esaurire con questa azione pur importantissima sulle politiche di sviluppo. Parliamo di treni. È molto opportuno che la programmazione si indirizzi su nuove reti. Ma qui abbiamo un problema di fondo: le Ferrovie dello stato sono totalmente indipendenti dalla politica; non rispondono più a nessuno. Non è un problema solo di treni notte tra il Nord e il Sud ma di visione del paese; di che cosa è la vita dei pendolari rispetto al business dell’alta velocità. Al Sud, noi rischiamo di avere nuove reti su cui non circolano i treni per i tagli all’operatività delle ferrovie. Abbiamo un interessante problema di regole, e di rapporti fra il gestore della rete e uno dei gestori del servizio, che coincidono e che rallentano lo sviluppo dei collegamenti. Possiamo progettare tutti i cantieri che vogliamo, ma se non risolviamo questo problema politico di organizzazione del paese a monte non andiamo molto lontano. Parliamo di Università. I fondi Fas stanziano molte risorse per nuove strutture. Ma le università del Sud, come molte altre dell’intero paese, sono istituzioni quasi morenti. Stanno uscendo un numero enorme di docenti e non entra più nessuno, perché ci sono regole nazionali di funzionamento che sono sbagliate. Non tutto ciò che fanno le università del Sud è giusto, assolutamente; hanno fatto anche tantissimi errori; e che ci siano regole di premialità e di punizione è molto opportuno. Ma le regole della Gelmini sono semplicemente assurde, e rischiano di dare il colpo finale all’università pubblica in Italia. Possiamo costruire nuovi palazzi e nuove facoltà, ma se non facciamo vivere le università questi palazzi, finanziati con i FAS, rimarranno vuoti. Una battaglia fondamentale è quella che ci porta a lavorare sui servizi sugli anziani e sui bambini, per creare le condizioni anche al Sud perché possa crescere l’occupazione femminile. Anche qui si realizzano nuove strutture; ma tutti i fondi nazionali per le politiche sociali sono stati azzerati. Gli asili nido rischiano di rimanere vuoti.


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Parliamo del federalismo fiscale; i fondi perequativi del federalismo fiscale a livello comunale non sono definiti e dunque il finanziamento ordinario degli enti locali del Mezzogiorno è totalmente a rischio. Noi possiamo discutere e proporre tutto quel che vogliamo sulle città ma non sappiamo ancora se i comuni saranno in grado di funzionare. Ultimo esempio. Siamo in un paese nel quale da tempo non esiste più una politica industriale e il dibattito è polarizzato tra due estremi, che io personalmente non apprezzo: da un lato “diamo tanti soldi alle imprese, perché così le salviamo”, e dall’altro l’idea un po’ infantile ma molto diffusa che “meno si fa meglio è perché il mercato aggiusta tutto”. La presenza dell’industria al Sud è fondamentale. Ma per avere una presenza dell’industria bisogna costruire un ambiente favorevole, servizi pubblici collettivi e efficienti. Ma bisogna anche accompagnarla con una politica industriale. Quale politica, fatta come, con quali risorse: un tema che è uscito dal dibattito politico. Insomma io credo che siamo in una vera e propria fase costituente, nella quale la nostra agenda è talmente piena da fare paura. Perché amministrare bene una Regione o l’Università è fondamentale ma non basta; fare buone politiche di sviluppo, usare bene i fondi per lo sviluppo è fondamentale, ma non basta. Siamo in una fase costituente del Paese nella quale soprattutto noi Sud ci giochiamo tutto. La politica, i partiti, in questa fase sono molto preoccupanti. Io vedo tanti volti, ma pochissime idee; tanta tattica, ma nessuna strategia. L’economista non fa politica, ma l’economista sa che le politiche economiche si fanno se intorno ad esse si crea consenso. I meccanismi di formazione del consenso della politica sulle politiche sono molto importanti. Da questo punto di vista sono molto spaventato: i governi tecnici non possono che essere un’eccezione, ma sembra quasi che il governo tecnico sia l’unico che fa politica in questo paese. Questo mi terrorizza perché lo sviluppo del Mezzogiorno non avviene con direttive amministrative, ma avviene se è dentro ad una visione politica del paese. Tra un anno votiamo, su che votiamo? Dov’è il dibattito su queste politiche? Questo mi pare un punto fondamentale. Abbiamo bisogno di un’offensiva straordinaria, culturale e politica, in questi mesi. Abbiamo bisogno di un racconto normale del Mezzogiorno, che faccia piazza pulita delle deformazioni tremontiane, ma anche del racconto sciatto che ci viene continuamente dai mezzi di informazione. Barca

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Abbiamo bisogno di un racconto normale del Mezzogiorno, che faccia piazza pulita delle deformazioni tremontiane, ma anche del racconto sciatto che ci viene continuamente dai mezzi di informazione

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Rilanciare la discussione e l’azione sul Mezzogiorno è un obiettivo talmente ambizioso da far tremare i polsi, ma è l’unica strada che abbiamo. Ricominciare a pensare l’Italia partendo dal Sud

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sarà bravissimo, Monti andrà bene, ma se non sfondiamo il muro di comunicazione con l’opinione pubblica nazionale quello che raccontiamo di noi stessi non sarà sufficiente. Abbiamo bisogno di un racconto, di una fase in cui l’Italia torni a conoscersi con tutte le sue debolezze (le grandissime debolezze che abbiamo nel Mezzogiorno di cui ci dobbiamo fare carico noi), ma anche tutte le forze che ha (e che abbiamo nel Mezzogiorno). Forze, del Sud, che sono a disposizione del paese. Ci serve una diagnosi attenta, senza infingimenti: l’unico modo per arrivare ad un progetto. Non ha molto senso discutere di questioni tecniche se queste questioni tecniche non sono in una cornice politica opportuna. Di una politica che voglia ricostruire diversamente questo paese a partire dai giovani, a partire dalle donne, a partire dal Mezzogiorno. Questo è l’ambizioso programma che abbiamo davanti in questi mesi. Questa è la nostra agenda (da alzarsi e andarsene tanto è complessa, tanto è ambiziosa). Ma è un’agenda logica, nella quale tutto si tiene: le politiche con la politica, in primo luogo. Non siamo in un paese normale, non siamo in un momento normale: di questo ci dobbiamo rendere conto. Rilanciare la discussione e l’azione sul Mezzogiorno è un obiettivo talmente ambizioso da far tremare i polsi, ma è l’unica strada che abbiamo. Ricominciare a pensare l’Italia partendo dal Sud.


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Un patto nazionale per la crescita Luca Bianchi

è Vice Direttore della Svimez

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l Mezzogiorno è ancora fortemente condizionato da vincoli strutturali, dal ritardo sul versante del reticolo istituzionale, da patologie sociali accentuate, ma è anche una realtà profondamente diversa rispetto al passato; al suo interno ci sono infatti aree produttive dinamiche, a volte di eccellenza, che non riescono però a fare sistema. La considerazione di una realtà così complessa, in cui convivono situazioni di arretratezza economica con esperienze di modernità ed efficienza richiede un ripensamento delle logiche e degli strumenti delle politiche necessarie ad accelerare un ordinato sviluppo dell’intero Paese; politiche i cui frutti saranno ancora maggiori nelle regioni meridionali. La costruzione di una politica di coesione territoriale più incisiva passa necessariamente per un impegno diverso per il Mezzogiorno nell’ambito delle politiche ordinarie nazionali e per una revisione critica delle funzioni e delle modalità di applicazione degli interventi specifici (nazionali e comunitari, centrali e regionali) per il Sud. Si tratta di un obiettivo complesso cui sono chiamati a dare un contributo tutti gli attori economici e politici. Ma per fare questo occorre in primo luogo ricostruire un nuovo patto sociale per la crescita tra i territori del Nord e del Sud del Paese. L’ultimo quindicennio si è trascinato in una continua contrapposizione tra questione settentrionale e questione meridionale, 21


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Le diverse condizioni del contesto territoriale nelle due ripartizioni del Paese richiederanno dunque tipologie ed intensità di interventi diversi

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finendo per acuire le distanze e per deprimere la capacità produttiva dell’intero sistema nazionale. Con la conseguenza particolarmente dannosa di alimentare, al Sud come al Nord, particolarismo e rivendicazionismi e i conseguenti ricatti politici delle “leghe” territoriali che hanno portato ad avere Ministri (e addirittura Ministeri) del territorio e sempre meno sviluppo. Ne è risultata, com’è ormai noto, una situazione di parallelo declino, che pur mantenendo sostanzialmente invariato le distanze tra Sud e Nord ha visto l’intero Paese scendere nelle graduatorie mondiali. È dunque assolutamente da rigettare, perché errato anche nei fondamenti economici, un approccio che contrappone le esigenze del sistema produttivo delle aree più sviluppate del Nord con le necessità di sviluppo delle regioni meridionali. E l’approccio che troppe volte ha guidato il Governo Berlusconi, con il supporto ideologico del prof. Tremonti, che, nel Piano Nazionale delle Riforme 2020 e ancora nella lettera alla BCE, ipotizza l’esistenza di due sistemi economici distinti: quello del Nord, che funziona e ha bisogno solo di aggiustamenti e quello del Sud, completamente da ridefinire. In realtà gli andamenti dell’ultimo decennio hanno dimostrato come la dipendenza dalle scelte nazionali e le interrelazioni economiche tra le due aree sono così profonde da condizionare i risultati di ciascun territorio. Nel Sud pesano ancora più che altrove i costi “indiretti” di una Pubblica amministrazione inefficiente, di un carico fiscale più alto di quello dei competitors, delle carenze nel sistema infrastrutturale e logistico, di un inefficiente sistema del credito. Il sistema produttivo meridionale soffre, così come quello del Nord, la perdita di competitività dei settori tradizionali e i ritardi nella penetrazione sui mercati innovativi. Le diverse condizioni del contesto territoriale nelle due ripartizioni del Paese richiederanno dunque tipologie ed intensità di interventi diversi ma con il comune obiettivo di migliorare – attraverso una maggiore funzionalità dei mercati, una più alta qualità dei servizi collettivi e un rilancio della produttività – le condizioni competitive del sistema produttivo italiano. Il Governo Monti proprio sulla capacità di superare un decennio di stantia dialettica Nord-Sud si gioca le possibilità di ricostruire, facendo leva sullo straordinario contributo alla coesione nazionale svolto dal Presidente Napolitano, una via d’uscita dalla crisi economica e politica.


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Il cambio di prospettiva rispetto al precedente Governo appare chiaro. La differenza con il Governo Berlusconi sta già nella indicazione, emersa dalla stessa scelta di istituire un Ministero con questa missione, che gli interventi di politica di coesione, contrariamente a quanto avvenuto sino ad oggi, entrano a pieno titolo nella strategia complessiva dell’esecutivo. Appare d’altronde chiaro dal lavoro di questi mesi del Ministro Barca l’obiettivo di porsi a supporto di strategie nazionali ordinarie di azione sui diversi campi dall’istruzione alle infrastrutture, dalla pubblica amministrazione al welfare, cercando di rafforzare, e ove possibile orientare, gli interventi attraverso la disponibilità dei fondi europei. Si tratta di un tentativo difficile, soprattutto in una fase come questa, ma che rappresenta un profondo cambiamento rispetto ad una politica meridionalista che molto spesso ha fallito, anche nell’esperienza della cosiddetta Nuova Programmazione, proprio per il suo isolamento e la sua incapacità di essere parte di un progetto nazionale condiviso. L’esperienza ci ha insegnato che l’assenza di coordinamento tra politiche ordinarie e speciali ha finito per svantaggiare in termini di quantità di risorse le aree deboli ma soprattutto a “imbastardire” gli stessi interventi aggiuntivi, deviandoli dai suoi obiettivi e facendogli perdere efficacia e di conseguenza la stessa legittimità. Detto questo, se passiamo alla lettura delle aree di priorità indicate dal nuovo Governo emerge un quadro ancora incompleto. Le priorità indicate dall’esecutivo sono tre: sistema scolastico, agenda digitale, infrastrutture ferroviarie. Interventi ampiamente condivisibili e scelti soprattutto per la loro capacità di incidere sulla qualità della vita del cittadino. Il rischio tangibile è però che tali interventi, seppur meglio gestiti anche grazie ad un maggiore coordinamento nazionale (cosa ben diversa dal tentativo di centralizzazione del Ministro Tremonti), abbiano effetti sulle realtà territoriali piuttosto ritardati nel tempo, mentre una parte consistente del tessuto produttivo meridionale rischia di scomparire. Appare ancora insufficiente, almeno sino ad oggi, la strategia volta a riattivare il processo di accumulazione di capitale produttivo. Ciò che gioca un ruolo di primo piano per riavviare nel breve meccanismi di sviluppo nelle aree in ritardo è il rimuovere, o attenuare, i binding constraints1 alla crescita economica, storicamente e geograficamente differenti, piuttosto che applicare indicazioni generiche e spazialmente uniformi. Ed è a partire dalla identificazione di questi vincoli che

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Le priorità indicate dall’esecutivo sono tre: sistema scolastico, agenda digitale, infrastrutture ferroviarie. Interventi ampiamente condivisibili e scelti soprattutto per la loro capacità di incidere sulla qualità della vita del cittadino

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è necessario in particolare per il Mezzogiorno che si torni a parlare di politica industriale perché l’industria è la via maestra per formare risorse manageriali, tecnologiche ed organizzative, oggi carenti, in grado di trasmettersi nella società circostante, alimentando processi innovativi

riguardano ancora oggi infrastrutture, scala di attività delle imprese relativamente minore, insufficiente presenza di produzioni innovative, che occorre costruire la seconda gamba delle politiche di sviluppo. Bisogna prendere atto come l’esperienza di questo ultimo quindicennio abbia sostanzialmente smentito la prospettiva di uno sviluppo endogeno del Mezzogiorno, basato sulla semplice riattivazione delle risorse inutilizzate già disponibili sul territorio. Sul piano della politica economica, se si concorda sulla necessità di superare tale ipotesi, di conseguenza occorre riassegnare centralità all’obiettivo, non sufficientemente perseguito dall’impianto strategico della Nuova Programmazione, di ampliare l’accumulazione di capitale produttivo attraverso l’attrazione di investimenti esterni all’area e la creazione di attività in nuovi mercati a maggior tasso di innovazione. Per fare ciò serve anche un rilancio delle politiche industriali nel nostro Paese, imparando dagli errori del passato e collocandole nell’azione più ampia di interventi per il rilancio del settore industriale volti a migliorare il contesto in cui le imprese operano (infrastrutture, mercati più efficienti, sicurezza, capitale umano). È necessario in particolare per il Mezzogiorno che si torni a parlare di politica industriale perché l’industria è la via maestra per formare risorse manageriali, tecnologiche ed organizzative, oggi carenti, in grado di trasmettersi nella società circostante, alimentando processi innovativi. È lecito attendersi risultati concreti da interventi più selettivi e “verticali” (e non solo misure generalizzate), che non necessariamente si traducano in intermediazione e discrezionalità nell’erogazione, come avviene per le principali economie del mondo. In paesi importanti quali Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti è presente una “cabina di regia” che coordina i diversi interventi e si individuano tecnologie chiave nei settori medium e high-tech su cui concentrare gli investimenti. Al contrario che in Italia, non si nasconde l’intento di modificare la struttura produttiva esistente cercando di sviluppare vantaggi competitivi nei settori che hanno un forte potenziale di sviluppo. Soprattutto, si adotta una chiara logica di medio-lungo termine, da cui deriva l’assegnazione di risorse finanziarie stabili e certe. Per una volta, la presenza nel Sud di risorse europee, sia dei

1. Rodrik D., 2006, “Goodbye Washington Consensus, Hello Washington Confusion ? A Review of the World Bank’s Economic Growth in the 1990s: Learning from a Decade of Reform”, Journal of Economic Literature, vol. XLIV

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Programmi regionali sia, ad esempio, del Programma Ricerca e competitività (in particolare ritardo nella spesa), potrebbe a questo punto consentire di “anticipare” in quest’area i contenuti di un piano nazionale di politica industriale in grado di favorire innovazioni organizzative e di prodotto e la penetrazione in settori ad alto contenuto innovativo. Occorre ad esempio rafforzare le agevolazioni per le reti di impresa, peraltro già previsti dal piano Industria 2015. Ma più in generale proprio il modello Industria 2015 abbandonato dal Governo Berlusconi potrebbe ripartire proprio nelle regioni meridionali, concentrando le risorse sul finanziamento dei “Progetti di Innovazione Industriale” che erano provenuti da queste regioni. Tali “Progetti”, infatti, rimangono tra gli strumenti più interessanti istituiti negli ultimi anni: consentono di concentrare le risorse finanziarie disponibili su un numero ridotto di progetti, ritenuti strategici, senza però scontrarsi con le rigidità del “vecchio” approccio settoriale (avendo cioè come riferimento particolari classi o filiere di prodotti, invece che le usuali categorie merceologiche). Un approccio di questa natura, per il rilancio dell’industria meridionale, può essere “politicamente” ed “economicamente” sostenibile solo se il Mezzogiorno sia integrato a pieno titolo in una strategia di sviluppo nazionale, abbandonando definitivamente la retorica delle “due Italie”. Ciò implica, ad esempio, che siano considerati prioritari per lo sviluppo nazionale temi quali la centralità del Mediterraneo (come zona di interscambio commerciale tra l’Europa e l’estremo oriente), l’offerta energetica (sia tradizionale che alternativa), la logistica (strade, linee ferroviarie, strutture portuali), campi nei quali il Mezzogiorno presenta importanti vantaggi competitivi e può giocare un ruolo importante per la crescita e la modernizzazione di tutto il Paese. In conclusione, una maggiore efficienza dei servizi per i cittadini, a partire da scuola e infrastrutture, dovrebbe dunque coniugarsi nella strategia per il Sud con una maggiore capacità di attivare investimenti locali e di attrarre capitali esterni. Anche su questo, superando un pregiudizio consolidatosi nell’ultimo decennio, occorre agire al più presto per salvare l’Italia. E, per una volta, partendo da Sud.

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La presenza nel Sud di risorse europee, sia dei Programmi regionali sia, ad esempio, del Programma Ricerca e competitività (in particolare ritardo nella spesa), potrebbe a questo punto consentire di “anticipare” in quest’area i contenuti di un piano nazionale di politica industriale in grado di favorire innovazioni organizzative e di prodotto e la penetrazione in settori ad alto contenuto innovativo

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Scommettere sulla frontiera meridionale della Ue Giuseppe Provenzano

è Collaboratore della Svimez e dell’Unità

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a persistenza del divario di sviluppo, a un certo punto, dovette apparire il sintomo di immutabilità, il segno di un vizio interno al Mezzogiorno talmente grave da offuscarne il “contesto”: come fosse un luogo a sé, avulso dalla storia e dalla geografia, non inserito nelle trasformazioni dell’economia mondiale e dei rapporti di forza. La qualità del dibattito meridionalistico era destinata per questa via a scadere, fino all’abbandono, alla dimenticanza. Quando abbiamo sentito ripetere, in queste settimane, “noi non siamo la Grecia” – formula che nelle diverse lingue euromediterranee suona poco più che un esorcismo – da noi operava l’ormai consueta rimozione di quella Grecia domestica che si chiama Mezzogiorno (Campania, Calabria e Sicilia, specialmente). Eppure, sono come due meravigliosi crateri antichi crepati negli stessi punti: debolezze strutturali e di competitività del sistema produttivo, bassissimi livelli di occupazione e attività, massiccia emigrazione di giovani qualificati, squilibri e deformazioni del modello di welfare, elefantiasi di un apparato pubblico tuttavia incapace di fornire servizi adeguati, stretta creditizia, elevato grado di evasione ed elusione fiscale, illegalità diffusa – fattori che concorrono a determinare profondi squilibri nella distribuzione degli effetti della crisi e nei benefici di un’auspicata ripresa. Secondo tutte le previsioni, dalla Banca mondiale all’Oecd, la prospettiva economica che in Grecia ha preso già forme drammatiche sul piano sociale e democratico, riguarda con diversa intensità non solo il Mezzogiorno (e l’Italia) ma tutta l’Europa meridionale. È lì che la crisi ha scaricato più che altrove i suoi effetti sociali di inoccupazione di massa e nuove povertà; è lì che avranno ricadute più gravi, con il crollo della domanda, le drastiche politiche restrittive che “ci chiede l’Europa”. 27


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Di fronte al rischio di avvitamento in una lunga spirale recessiva, i sud d’Europa pongono in maniera più stringente e urgente i nessi generali tra equità e crescita

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Di fronte al rischio di avvitamento in una lunga spirale recessiva, i sud d’Europa pongono in maniera più stringente e urgente i nessi generali tra equità e crescita. Non è fallita nel 2008 l’idea diffusa nel pensiero economico dominante secondo cui le disuguaglianze sarebbero “irrilevanti” allo sviluppo? Oggi, lo specchio della vicenda greca – al di là delle scelte scellerate e fraudolente di politica economica – riflette cause ben più profonde dei debiti sovrani per la crisi che ha investito l’intero continente: i divari regionali di sviluppo e competitività, che diventano “insostenibili” in mancanza di interventi di politica europea generale capaci di riattivare lo sviluppo innescando dinamiche di convergenza socio-economica tra le aree. Lo sapevano già bene i “padri fondatori” che avviarono – per garantire la tenuta e il consolidamento di a more perfect Union (si diceva così non molto tempo fa: l’afflato europeistico costava meno), a partire dalla stabilità dell’Unione economica e monetaria – lo strumento complesso e progressivamente perfezionato della politica di coesione: la “più influente” politica europea, l’avrebbe definita Tony Judt in Postwar, che tuttavia si rivela insufficiente di fronte alla crisi in cui versano o hanno rischiato di precipitare paesi non a caso storicamente destinatari di “fondi strutturali” (Grecia, Portogallo, Spagna e Italia). Le attuali istituzioni europee, segnate dalla difficile composizione di interessi nazionali – dopo inedie, distrazioni o troppo interessate attenzioni – nell’imporre ad Atene la grave austerità arrivano nei fatti a negare la natura stessa dell’Europa al suo levante, determinando non la radicale riforma necessaria ma lo smantellamento del “modello sociale” e la sospensione della democrazia: le due belle facce di un’identità smarrita. È inutile nascondersi che questo può generare, per ragioni opposte nell’Europa continentale e in quella mediterranea, una esiziale crisi di “fiducia” nel cammino comune. La riflessione sulle prospettive di sviluppo del Mezzogiorno si inserisce in questo “tornante” drammatico della storia d’Europa. Le timidezze e il silenzio un po’ meschino delle forze socialiste e democratiche europee di fronte al dramma democratico e socialista di Giorgio Papandreu sono ferite da sanare. Nella benvenuta e preziosa iniziativa intrapresa dal PD, in occasione delle presidenziali di Francia coi socialisti e i socialdemocratici tedeschi, di stringere un patto di azione


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comune per un nuovo impianto comunitario che consenta una politica economica sovranazionale di sviluppo, l’Europa mediterranea è il nostro tema. Tocca a noi, di fronte alla deriva greca e all’approdo conservatore di Spagna e Portogallo, rilanciare la “frontiera meridionale” a cui l’Unione (che pure ha avuto lungimiranza verso est) per troppo tempo ha voltato le spalle, avvertendola come “ostile” e foriera di immigrazione clandestina e fondamentalismo religioso, o le ha offerto il volto feroce e infame di Lampedusa. L’assenza dell’Europa unita nella stagione di eventi straordinari e drammatici che hanno interessato nel 2011 (e ancora interessano) la sponda Sud del Mediterraneo – quella “primavera araba” che ha smentito consolidati pregiudizi sulla possibilità e “utilità” della democrazia nell’area – è la testimonianza più inquietante di quell’assenza di “visione” per l’area che ha relegato i Sud d’Europa a quella condizione di marginalità strategica in cui è maturata la loro crisi. La ritrovata centralità del Mediterraneo nello scenario globale ed europeo non si pone solo per il “radicale rovesciamento” delle convenienze logistiche, dovute ai traffici, agli investimenti, e alle strategie di sviluppo dei nuovi grandi attori globali del lontano oriente. La “bancarotta” del capitalismo finanziario ci porta a fare i conti con nuove questioni di fondo: una più equilibrata distribuzione della ricchezza, un nuovo ruolo della cosa pubblica nell’economia, un’attenzione alle nuove geografie dello sviluppo, un rinnovato compromesso tra democrazia e capitalismo. Sono i temi che si pongono, con diversa drammaticità, proprio oggi intorno alle sponde del Mediterraneo. Dalle nostre rive, la tanto auspicata nuova stagione di investimenti pubblici europei non può che partire da un rinnovato interesse di prossimità e di integrazione economica (non solo commerciale) con il Mediterraneo “allargato” (alla Turchia e ai Balcani, non solo ai paesi del sud e dell’est). È qui che l’Europa del Sud da emergenza si fa opportunità: l’area può uscire da una crisi economica e sociale che rischia di compromettere gli assetti e le conquiste del processo di costruzione europea, solo se, pur nell’ambito della strategia Europa 2020, si fissa nella “transizione mediterranea” l’orizzonte strategico sovranazionale, in cui collocare l’investimento nelle aree meridionali e in

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La “bancarotta” del capitalismo finanziario ci porta a fare i conti con nuove questioni di fondo: una più equilibrata distribuzione della ricchezza, un nuovo ruolo della cosa pubblica nell’economia, un’attenzione alle nuove geografie dello sviluppo, un rinnovato compromesso tra democrazia e capitalismo

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Il Mezzogiorno è l’unica area rimasta esclusa dai processi di convergenza che hanno riguardato non solo i paesi nuovi entranti, come quelli dell’Est europeo, ma anche i tradizionali “paesi della coesione”

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particolare nel Mezzogiorno d’Italia. Questa grande, forse ultima, opportunità può agire anche in chiave di “rilegittimazione” dell’investimento regionale per il post 2013. Agli occhi dell’Europa, infatti, si pone un problema serio di “credibilità” del Paese per proseguire con un’incisiva politica di coesione. Già prima delle crisi, il prolungato ristagno dell’economia nazionale unitamente ai gravi limiti nella prassi delle politiche “speciali” per il Sud hanno contribuito a determinare una situazione allarmante: il Mezzogiorno è l’unica area rimasta esclusa dai processi di convergenza che hanno riguardato non solo i paesi nuovi entranti, come quelli dell’Est europeo, ma anche i tradizionali “paesi della coesione”. Prendendo un indicatore assai sintomatico, la quota di popolazione che vivrà in regioni obiettivo Convergenza nel prossimo ciclo di programmazione, a fronte di una riduzione in Europa complessiva del 22%, l’Italia è l’unico paese che aumenta la sua percentuale (da 11,1% a 14,2%, la Germania invece passa da 5,4% a 0 e la Spagna da 9,1% a 0,9%): il Sud rappresenterebbe circa la metà della popolazione in “regioni meno sviluppate” di tutta la “vecchia” Europa. Il potenziale strategico del Paese, agli occhi dell’Europa, dipende dunque dalla performance che farà registrare nel riequilibrio territoriale pur in questa fase di crisi e di emergenza. L’attuazione del Piano di Azione Coesione del Ministro Barca deve coinvolgere e richiamare maggiori responsabilità del Governo nel suo complesso e di tutti gli attori istituzionali per un impegno generale di riequilibrio che faccia segnare una marcata discontinuità nel senso dell’efficacia e dell’efficienza. Le politiche “speciali” e “aggiuntive” non possono che rappresentare un “tassello” di un più ampio spettro di politiche pubbliche che dovrebbero garantire coordinamento e strategicità per la coesione. Se questo vale per l’Italia nei confronti del suo Mezzogiorno, vale ancor più per l’ambito sovranazionale verso l’Europa meridionale: l’investimento strategico nella prospettiva mediterranea non può essere certo perseguito solo con il “limitato”, per quanto “influente”, strumento della politica regionale. C’è una evidente penuria di leve d’azione: la stessa Unione Euromediterranea mai partita, è già superata. Occorrono iniziative che promuovano e qualifichino un processo di coinvolgimento sempre maggiore di nuovi attori per distribuire in modo più esteso le opportunità economiche di


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un’area che, malgrado crisi e incertezze politiche, e persino conflitti armati, prevede ritmi di crescita elevati (ancora lontani da quelli cinesi o indiani, ma paragonabili al Brasile e nettamente superiori a quelli di tutte le economie europee). Con il Sud Europa, in particolare, servono strumenti di concertazione per coordinare attività e linee di sviluppo che permettano di convertire una competizione sregolata e degenerativa in rafforzamento reciproco. Gli ambiti di partecipazione e protagonismo nelle relazioni economiche euromediterranee sono molti e fecondi (dalla logistica, all’energia, alle filiere agro-alimentari, all’industria turistica e culturale) sia per gli attori pubblici che per quelli privati, sono “ponti” per condividere capacità e mercati. Tuttavia, non esauriscono certo il campo d’azione e il ruolo che potrebbe giocare l’Unione. Intorno alle sponde del Mare nostrum, dove s’è affacciato Dio e l’uomo ha coltivato i suoi giardini, è in gioco una questione di democrazia, sviluppo e giustizia sociale per milioni di uomini e donne. Tra il sangue e i gelsomini, l’Europa ha ancora l’ambizione di concorrere al futuro e alla stabilità del pianeta?

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Occorrono iniziative che promuovano e qualifichino un processo di coinvolgimento sempre maggiore di nuovi attori per distribuire in modo più esteso le opportunità economiche di un’area che, malgrado crisi e incertezze politiche, e persino conflitti armati, prevede ritmi di crescita elevati

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Ri-cominciare

da una nuova cultura dello sviluppo Carlo Borgomeo

è Presidente Fondazione per il Sud

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a mia riflessione è di taglio socio-politico: provo, cioè, ad immaginare che cosa bisognerebbe fare per superare questa antica questione, questo problema che negli anni, in 60 anni, è apparso a volte attenuato, ma poi si è ripresentato sostanzialmente come irrisolvibile, quindi fonte di frustrazione e di senso di impotenza. D’altra parte, spesso, chi parla di Sud, chi ripropone la necessità di affrontare il problema, lo fa dando quasi l’impressione di non credere possibile ottenere risultati apprezzabili: nei discorsi dei politici, dei sindacalisti, dei rappresentanti datoriali, il tema sembra essere evocato come un atto dovuto, senza convinzione e, soprattutto, senza la necessaria passione. Se è possibile in questa fase individuare una novità, dopo un periodo lunghissimo di rimozione del problema dell’agenda politica, quella vera, quella delle grandi scelte, essa può essere individuata in una fortissima, inedita radicalizzazione delle posizioni: mai ho percepito una contrapposizione NORD-SUD così forte, così diffusa, così pervasiva. Non mi riferisco alle manifestazioni più sgradevoli di tale contrapposizione; alle polarizzazioni estreme e, in certi casi, grottesche. Esse sono destinate a rafforzarsi in vista degli appuntamenti elettorali quando alcune forze, in modo speculare, quotano al mercato della politica il disprezzo per i terroni o forme di meridionalismo sostanzialmente straccione. Mi riferisco invece al fatto che mai come in questi ultimi anni si è radicata la convinzione, in gran parte del Paese, che trasferire risorse al Sud è sostanzialmente inutile, perché non

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produce nulla di significativo, anzi determina spesso sprechi; e che molti meridionali pensano invece che le risorse trasferite sono insufficienti e che viene perpetrata la solita ingiustizia ai danni del Sud. Questa contrapposizione, ripeto, molto più diffusa che per il passato, non porta evidentemente da nessuna parte. Per chi si occupa di Mezzogiorno oggi, il problema non è prevalentemente quello di dimostrare al Paese che gli aiuti al Sud sono stati insufficienti; che gli sprechi sono stati minori di quello che si sostiene. Sono obiettivi sacrosanti, encomiabili, ma non sono in grado di assicurare la necessaria discontinuità alla politica per il Mezzogiorno. Come pure il ricordare che lo sviluppo del Sud è interesse dell’intero Paese non è sufficiente a ridare forza e senso ad un progetto politico che deve invece, dichiaratamente, modificare l’approccio alla questione facendo nuova gerarchia nelle politiche, negli interventi, nei criteri di selezione della classe dirigente. Intanto nell’analisi dovremo mostrare fastidio e opposizione per chi tenta di attribuire a responsabilità lontane, altrui, la situazione di ritardo del Sud. Vi è una grande responsabilità complessiva delle classi dirigenti del Paese, della quale le classi dirigenti meridionali non sono state – e non sono – vittime, ma partecipi. Non penso che la spiegazione sia da ricercare in strategie di sviluppo che freddamente disegnavano uno sviluppo duale del Paese; non credo che i fenomeni clientelari, di cattiva gestione delle risorse, le ruberie, siano la causa dell’insuccesso delle politiche. Credo invece che dovremmo interrogarci sulla strategia di fondo che è stata alla base dell’intervento straordinario per 60 anni. È una riflessione difficile, complessa; ma dopo 60 anni è giusto farla con serenità e senza pregiudizi. La grande stagione dell’intervento straordinario parte nel secondo dopoguerra: le profonde differenze nelle condizioni di vita nel Paese suggeriscono la necessità di un poderoso sforzo di solidarietà nazionale e di trasferimento di risorse per superare l’enorme divario. Come è noto quegli anni anni hanno prodotto risultati importanti in termini di dotazione infrastrutturale e, soprattutto, in materia di risorse idriche. Ma la percezione di un così forte divario tra Nord e Sud, mentre ha positivamente suggerito e determinato l’assunzione di politiche straordinarie in quella fase, ha

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Nei discorsi dei politici, dei sindacalisti, dei rappresentanti datoriali, il tema sembra essere evocato come un atto dovuto, senza convinzione e, soprattutto, senza la necessaria passione

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è del tutto evidente che aver fissato un obiettivo molto ambizioso, una asticella troppo alta, ha determinato un senso di impotenza rispetto all’obiettivo stesso

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avuto conseguenze negative quando il superamento del divario è diventato l’obiettivo delle politiche. È un obiettivo apparentemente di buon senso e obbligato; ma a ben vedere non è così. Intanto non è detto che lo sviluppo di un territorio sia da ritenersi soddisfacente, in relazione a quello di un altro territorio; intanto non si capisce a quale territorio bisogna fare riferimento in questa logica di “inseguimento” dello sviluppo. Ma soprattutto è del tutto evidente che aver fissato un obiettivo molto ambizioso, una asticella troppo alta, ha determinato un senso di impotenza rispetto all’obiettivo stesso, e quindi pericolosi processi di deresponsabilizzazione. Anno dopo anno i dati della SVIMEZ sul divario del PIL hanno ricordato, di fatto, che l’obiettivo era irraggiungibile; anche quando la distanza sembrava ridursi, l’obiettivo era troppo lontano. Se l’obiettivo è così difficile, è evidente che devo essere aiutato e, quindi, inevitabilmente si consolida una cultura, una prassi, una politica che parte dal presupposto che la responsabilità, le decisioni, gli strumenti, sono “altrove”. Si delinea uno schema per cui lo sviluppo è eterodiretto: uno schema mai dichiarato ma nei fatti consolidato. Basti pensare alle tante riflessioni che dalla metà degli anni Settanta sono state prodotte sulla necessità di uno sviluppo “autocentrato”, proprio in contrapposizione ai meccanismi vigenti. E quando lo sviluppo è “altrove”, l’altrove può essere la Cassa del Mezzogiorno, l’Agenzia, il Ministero, il Dipartimento, la Regione, Bruxelles. Il dibattito politico locale spesso è concentrato nell’individuazione esatta delle istituzioni “responsabili” e sulla migliore modalità per legittimarsi nei confronti di quelle istituzioni. Poca rilevanza è stata data alle spinte locali allo sviluppo; scarsa attenzione ai soggetti emergenti; tutto si è giocato sui grandi interventi, sulle “spallate” decisive, su eventi che avrebbero portato lo sviluppo. Naturalmente sempre in una logica quantitativa, e sempre nella disattenzione alla qualità dello sviluppo che come è noto è un percorso lungo, complesso, costruito con il coinvolgimento di tanti soggetti che non possono essere considerati “beneficiari” ma protagonisti. Queste riflessioni possono apparire astratte, lontane dai problemi, dalla “dura” realtà: e invece è esclusivamente la mia personale esperienza al Sud che mi convince del fatto


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che è in questa cultura dello sviluppo, spesso sbagliata, che dobbiamo cercare le cause dell’arretratezza del Sud. Qualche esempio: indubbiamente questa cultura dello sviluppo ha determinato, nel tempo, un meccanismo patologico nella selezione della classe dirigente. Non solo di quella politica, ma anche di quella politica! Al di la dei tradizionali – e collaudati – meccanismi di cooptazione, le classi dirigenti sono legittimate nella capacità di denunciare le altrui responsabilità, di rappresentare sempre e solo gli aspetti negativi e problematici. Per vincere occorreva aggregare il disagio, rappresentarlo e negoziare interventi dal centro. Non a caso le fasi politiche sono state segnate spesso dalla rappresentazione drammatica di emergenze. È chiaro che i problemi erano – e sono – molti; è chiaro che vi sono aree di disagio sociale molto accentuate. Ma la rappresentanza si è occupata solo di questo: scarsissima attenzione ad aggregare la domanda (non la protesta); sottovalutazione delle potenzialità di sviluppo locale; scarsa attenzione alle risorse del territorio: questa rappresentazione non aveva “presa” nel meccanismo prevalente del gioco politico. D’altra parte è sintomatico che, essendo i meccanismi di distribuzione delle risorse tarati sullo stato di bisogno, questa circostanza ha reso sostanzialmente “temuta” ogni notizia positiva, ogni dato che segnalasse un qualche miglioramento di aree e territori, in una sorta di impazzimento della rappresentanza. Un’altra conseguenza di questa cultura dello sviluppo, tutta quantitativa e tutta immaginata attorno ad eventi “decisivi”, è stata la sostanziale irrilevanza della attività di progettazione. Il progetto è stato svilito ad una attività tesa a dimostrare requisiti formali e di predisporre ordinate

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Nella cultura come nel sociale, non si cerca l’aggregazione orizzontale, ma si lotta per il miglior posizionamento nelle filiere verticali. E così le grandi e non rare eccellenze dei nostri territori, si nascondono; non contaminano il territorio, anzi temono di esserne contaminati

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documentazioni. In ossequio alla presunta maggiore moralità degli incentivi automatici (poi clamorosamente smentita dai fatti) si è abbandonata l’attività di valutazione di merito delle proposte di investimenti delle imprese e dei territori; e la mancanza di una seria attività di valutazione ha mortificato il valore del progetto e progressivamente il suolegame con la domanda effettiva di sviluppo. Si dice che nel Mezzogiorno non si sanno fare i progetti: bisognerebbe dire, più onestamente, che nessuno ha mai chiesto e preteso una vera attività di progettazione. In questo gioco impazzito, in cui la politica e gli interventi sono definiti in modo autoreferenziale dalla offerta, si finanziano iniziative inutili, si pubblicano bandi spesso addirittura incomprensibili: l’importante è spendere, l’importante è ottenere qualche finanziamento. Quante volte abbiamo sentito sindaci che in assoluta buona fede si vantavano con i cittadini di aver presentato progetti alla Regione, con la indicazione esatta dei finanziamenti in questione e la conoscenza approssimativa dei contenuti del progetto. La politica, quella vera, non è una competizione per conquistare pezzi di “offerta” decisa altrove; è la faticosa lettura della domanda, la sua promozione, la sua selezione, la sua aggregazione. Questa cultura dello sviluppo ha, tra l’altro, sviluppato reti prevalentemente verticali: importante è parlare con il centro; è avere il filo diretto con l’ “altrove” in cui si prendono le decisioni che contano. Da qui la grande difficoltà di fare rete orizzontale al Sud: nelle industrie, come nella ricerca; nella cultura come nel sociale, non si cerca l’aggregazione orizzontale, ma si lotta per il miglior posizionamento nelle filiere verticali. E così le grandi e non rare eccellenze dei nostri territori, si nascondono; non contaminano il territorio, anzi temono di esserne contaminati. Questa cultura dello sviluppo ci ha condannati a una sorta di presbiopia: guardiamo lontano, ci aspettiamo soluzioni da lontano e, come i presbiti, non vediamo sotto il nostro naso. Non ci interessano i piccoli percorsi, gli artigiani, le microimprese; non ci pare utile “perdere tempo” nelle manutenzioni e così dilapidiamo le nostre ricchezze collettive. Basterebbe un dato: in alcune aree del Mezzogiorno si calcola che la ricchezza per un terzo è prodotta dall’economia informale. Un terzo, con conseguenze


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gravissime sullo sviluppo e sulla legalità. Oltre a benemerite, ancorchè cicliche, politiche di repressione non vedo in giro grandi politiche; non si sperimentano interventi capaci di selezionare, ed accompagnare verso la emersione, “pezzi” di economia sommersa. So bene che questa impostazione è da tanti ritenuta pericolosamente minimalista: molti pensano e dicono che i problemi sono “ben altri”. Peccato che lo dicano da decenni e da decenni autorizzino atteggiamenti di attesa e di deresponsabilizzazione. Credo che una battaglia politica seria per il Sud debba partire proprio da una revisione della strategia complessiva. Tale strategia si basa su due assunti fondamentali:

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il vero divario tra Nord e Sud non è solo nel reddito disponibile pro-capite, ma nelle condizioni di vita dei cittadini. Al primo posto ci deve essere l’obiettivo di superare questo secondo tipo di divario;

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La cultura dominante ritiene che la coesione sociale, la scuola, il welfare, vengano dopo la crescita. Bisogna ribaltare la logica che li vede come un surplus dello sviluppo, che può permettersi solo un Paese ricco

per fare sviluppo al Sud bisogna cambiare la gerarchia degli interventi, delle priorità, nella convinzione che la coesione sociale, l’affermarsi di una corretta logica comunitaria, non sono conseguenze, ma indispensabili premesse dello sviluppo.

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In occasione della conferenza sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nel Mezzogiorno, promossa lo scorso dicembre a Napoli da Fondazione CON IL SUD e Save the Children, sono stati comunicati dei dati a dir poco agghiaccianti. In Campania e in Calabria, ad esempio, su 100 bambini soltanto 2 hanno la possibilità di usufruire dei servizi per la prima infanzia, mentre per l’Unione Europea dovrebbero essere uno su tre. Nelle aree urbane del Mezzogiorno i livelli di dispersione scolastica raggiungono percentuali dell’8 – 9%. Un po’ imbarazzante per un paese civile. La lista dei divari potrebbe proseguire, allo stesso modo, con i dati relativi al trattamento degli anziani, alla capacità di attrarre cervelli e in generale allo stato sociale. E’ questo il vero divario. Ma la cultura dominante ritiene che la coesione sociale, 37


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Se abbiamo in testa un modello che non insegue a qualunque costo improbabili livelli di ricchezza, ma lo sviluppo ordinato e duraturo dei nostri territori, potremo costruire un Mezzogiorno migliore. E il Sud, come dice Erri De Luca, si accorgerà di essere seduto su un tesoro e smetterà di cercarlo altrove

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la scuola, il welfare, vengano dopo la crescita. Bisogna ribaltare la logica che li vede come un surplus dello sviluppo, che può permettersi solo un Paese ricco. Non è così. Solo una comunità positiva è una comunità che rispetta e ama le regole. Solo una comunità che rispetta le regole può indurre processi di sviluppo. Che senso ha mettere a punto ricchissimi incentivi per attrarre investitori in territori dai quali noi stessi vorremmo che i nostri figli andassero via? Bisogna dire basta a questa logica quantitativa, spesso deludente e mistificante, e avere il coraggio di investire di più sulle nostre responsabilità. Non mi interessa molto il dibattito sulle colpe dei meridionali: ne abbiamo certamente, ed anche importanti. Ma la vera questione è ripartire da una cultura dello sviluppo che metta al centro il recupero del senso della cittadinanza, della comunità, della coesione sociale. Non è una fuga in avanti, né il tentativo di chiudere le questioni. È la lezione della esperienza, di tante promesse mancate, di tanti falsi obiettivi. Ri-Cominciare. Con alcuni criteri di fondo. Il primo, che può apparire banale o enfatico, è quello di amare la propria terra. Amarla di più, concretamente; conoscendola e rispettandola, considerandola un bene comune.Il secondo è riprendere a fare politica, premiando l’esercizio delle responsabilità, piuttosto che le dichiarazioni di fedeltà; e sviluppando una permanente cultura della rete, del confronto, del dibattito, dell’ascolto. Naturalmente vi sono anche conseguenti comportamenti e priorità nelle politiche da costruire e anche da rivendicare. Mettiamo al primo posto la scuola, a partire da quella dell’obbligo; poi i servizi sociali; poi il buon funzionamento della giustizia e delle strutture periferiche della Pubblica Amministrazione; in fondo il sostegno alle attività produttive , ma con interventi puntuali e selettivi. Soldi concessi in modo indiscriminato hanno fatto già troppi danni, ispessendo clientele, rendite parassitarie e, tra i giovani, cultura della dipendenza. Se abbiamo in testa un modello che non insegue a qualunque costo improbabili livelli di ricchezza, ma lo sviluppo ordinato e duraturo dei nostri territori, potremo costruire un Mezzogiorno migliore. E il Sud, come dice Erri De Luca, si accorgerà di essere seduto su un tesoro e smetterà di cercarlo altrove.


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Per sconfiggere il fatalismo Paola De Vivo

insegna Sociologia Economica all’Università Federico II di Napoli

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alla chiusura dell’intervento straordinario ad oggi l’interesse politico per il tema dell’arretratezza economica e sociale del Mezzogiorno è andato scemando. La discontinuità nella politica di intervento è costata molto alle regioni del Mezzogiorno sotto il profilo economico e finanziario ed è stata altrettanto dannosa sul piano sociale, con la legittimazione di un modello scarsamente solidale, fortemente improntato ad una logica quasi darwiniana, di scontro tra le popolazioni del Nord e quelle del Sud del paese. La riflessione sui problemi dell’arretratezza meridionale è inserita molto debolmente nel dibattito che s’interroga sui modi per fronteggiare i deludenti risultati economici conseguiti dall’Unione Europea, e ancor più dall’Italia. Se è però vero che il rilancio della crescita economica deve essere ai primi posti dell’agenda politica nazionale e comunitaria, allo stesso modo va posto al centro dell’attenzione il complesso tema del mantenimento della coesione sociale. In un’Europa che viaggia a due distinte velocità, come testimoniato dalla persistenza di ampi divari regionali al suo interno, si ripropone così la problematica del dualismo, dell’incompiuto sviluppo capitalistico italiano, della mancata convergenza tra le due aree del paese. 39


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Il Nord ed il Sud, ormai in perenne contrapposizione, sono l’espressione di una miopia politica e della convinzione, errata, che l’Italia può competere senza essere, al suo interno, coesa economicamente e socialmente

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Senza creare falsi allarmismi, la storica peculiarità del caso italiano trova una nuova conferma nella persistenza di una forbice, di una frattura tra il Nord e il Sud dell’Italia, dovuta all’inarrestabile crescita delle disuguaglianze, al sistematico acuirsi dei processi di esclusione e di marginalità sociale. Alla percezione della serietà e della profondità dei problemi di arretratezza che aveva – e ha – quest’area del Paese si è sostituito il fastidio che si avverte ad ogni tentativo di riproposizione della questione, sino a giungere ad una sua completa rimozione, che ha finito per determinare una falsificazione della realtà: è come se i problemi del Mezzogiorno appartengano soltanto a quest’ultimo. Essi, al più, destano un tiepido interesse nell’altra parte del paese, alle prese essa stessa con un declino economico che ne minaccia la prosperità raggiunta e perciò ancor meno disposta a comprendere e a condividere fino in fondo le difficoltà delle popolazioni del Sud. Così, mentre la classe politica nazionale abdicava al suo compito di governo dell’intero territorio nazionale, si è generato un confine invisibile ma percepibile nel reciproco disconoscimento delle ragioni dell’una e dell’altra parte, giungendo alla fine ad una loro incomunicabilità, incomprensione e diffidenza. Il Nord ed il Sud, ormai in perenne contrapposizione, sono l’espressione di una miopia politica e della convinzione, errata, che l’Italia può competere senza essere, al suo interno, coesa economicamente e socialmente. Il Mezzogiorno, così, sembra progressivamente destinato a soccombere; a veder persa, in altre parole, la battaglia, in parte compiuta, verso il progresso e la modernizzazione della sua vita politica, economica, sociale. Esso arretra nuovamente e sembra aver perso quell’energia, anche morale, che lo aveva caratterizzato al principio degli anni Novanta. La storia più recente del meridione è addirittura riassumibile in un’idea di fallimento totale dell’azione pubblica, ormai sedimentata nell’opinione pubblica e nella stessa classe politica nazionale. La rappresentazione che attualmente prevale è che qualsiasi siano le modalità di intervento adottate – dall’alto o dal basso – nel Sud nulla cambia. Né dall’alto né dall’basso, in definitiva, si è capaci di smuovere, di rivitalizzare, forse addirittura, al punto in cui siamo, di rifondare una società che sembra inamovibile nei suoi caratteri di arretratezza sociale ed economica.


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Una società che sconta, peraltro, un enorme deficit sul piano dell’azione politica, misurabile peraltro nella difficoltà di individuare un reale ricambio nei partiti di governo e di opposizione di livello regionale e locale (su questo punto, si osservi, per inciso, la numerosità di amministrazioni comunali commissariate per infiltrazioni criminali). Quali che siano state le cause del progressivo distacco che si è consumato tra il Nord ed il Sud dell’Italia, c’è da chiedersi se resta qualcosa da fare per ridare una dignità scientifica ed una capacità di rappresentanza politica ai problemi dello sviluppo meridionale, per contrastare, cioè, la posizione di marginalità a cui siamo ormai relegati. Esaurita con essa l’esperienza di costruire una rete tra le regioni del Mezzogiorno per ritrovare una visione unitaria della questione meridionale, pur nella consapevolezza delle diversità territoriali, nella ricerca di nuovi equilibri da costruire all’interno e all’esterno di quest’area, si è posti, ormai, di fronte a scenari che prospettano un futuro politico per il Mezzogiorno piuttosto fosco. Perché è chiaro a tutti che è, in parte, fallito anche il tentativo avviato attraverso le politiche di sostegno territoriale di puntare sulla responsabilizzazione e sullo sviluppo di forme di autonomia degli attori e delle istituzioni locali. Di cambiare, cioè, il Mezzogiorno dal suo stesso interno, forzando tramite le politiche territoriali quelle condizioni vincolanti che hanno storicamente ostacolato – ed ostacolano – il suo cammino verso lo sviluppo. Cosa fare, dunque, per evitare la nefasta possibilità che gli scenari immaginati si realizzino? Da dove ripartire per riprendere le fila di un discorso politico in grado di ricongiungere i destini dello sviluppo meridionale con quelli dell’Italia del Nord? Uno degli sforzi che va compiuto è primariamente culturale, perché la riduzione che si è fatta in questi anni della questione meridionale ad un mero problema di finanza pubblica, ha finito per generare la convinzione che il Mezzogiorno sia unicamente un peso nella complicata situazione di crisi che attraversa l’Italia. C’è bisogno, invece, di dimostrare, mediante una rinnovata lettura dei principali temi – federalismo, crescita, welfare – che attraversano lo scenario del cambiamento italiano che essi sono strettamente interconnessi con le prospettive dello sviluppo meridionale. Occorre, perciò, coinvolgere i rappresentanti delle

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La scelta di rafforzare negli indirizzi programmatici gli interventi per l’inclusione sociale, per la sicurezza, la qualità della vita, per l’ambiente, sembra andare nella direzione di provare a costruire una base per l’esercizio di un più forte diritto (e dovere) di cittadinanza al Sud

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C’è la necessità, quando non l’urgenza, di riavviare un ciclo di investimenti pubblici che faccia da volano per l’economia meridionale, sempre più provata e condizionata dalla tendenza negativa che colpisce anche il Nord del paese

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maggiori istituzioni – università, sindacati, scuole, imprese – esterne al Meridione, ma presenti nei gangli vitali del sistema decisionale italiano, in una mobilitazione che promuova una diversa immagine del Sud. Va detto che la scelta di rafforzare negli indirizzi programmatici gli interventi per l’inclusione sociale, per la sicurezza, la qualità della vita, per l’ambiente, sembra andare nella direzione di provare a costruire una base per l’esercizio di un più forte diritto (e dovere) di cittadinanza al Sud. C’è sempre, però, il problema della “traduzione concreta” di queste opzioni strategiche sul piano dell’attuazione e delle realizzazioni delle opere e dei servizi pubblici. Per questo bisogna adoperarsi affinché qualsiasi sia, se ci sarà, la strategia disegnata per il Mezzogiorno, essa perda i caratteri di un’operazione meramente di facciata, quasi di alta ingegneria istituzionale, che mette a punto nel dettaglio il “che cosa fare”, mentre tralascia il “chi” ed il “come” farlo (come puntualmente è accaduto in questi anni). La debolezza nelle forme di regolazione della vita associata di cui si è discusso, implica, tra le altre cose, che si agisca sui meccanismi di funzionamento degli enti locali, in primis sulla burocrazia regionale, tuttora contraddistinti da un approccio organizzativo tradizionale, incentrato cioè su settori di intervento rigidamente stabiliti nelle loro funzioni e competenze. Va rafforzata la spinta al cambiamento amministrativo innescata dal progetto riformistico dei primi anni Novanta, che pur non essendo del tutto riuscita a consolidarsi, ha lasciato comunque una traccia sotto il profilo culturale, aprendo alla possibilità di strutturare un percorso alternativo nelle pubbliche amministrazioni, che oltre a diffondere un orientamento ed una logica manageriale nell’azione pubblica, ha puntato allo sviluppo di una razionalità complessa nella risoluzione dei problemi collettivi da affrontare, la sola capace di trasformare mere politiche redistributive in politiche integrate. Per tutte queste ragioni è prioritario disporre di adeguate forme di controllo, formali e sostanziali, della spesa e della qualità degli investimenti pubblici. Perché se è vero che c’è la necessità, quando non l’urgenza, di riavviare un ciclo di investimenti pubblici che faccia da volano per l’economia meridionale, sempre più provata e condizionata dalla tendenza negativa che colpisce anche il Nord del paese, è altrettanto vero che la qualità della spesa non va più


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considerata come un aspetto marginale per il recupero della competitività del Mezzogiorno. In pratica, agire sul fronte amministrativo ed organizzativo per dotare la pubblica amministrazione di risorse umane che abbiano competenze, capacità e comportamenti eticamente compatibili rispetto ai ruoli e alle funzioni ricoperte è uno dei passi da compiere se si intende veramente rilanciare lo sviluppo economico delle regioni del Sud. È un passo che serve anche a recidere i legami perversi che si sono instaurati in questi anni tra politica e amministrazione. Quando cade l’argine tra di esse, la commistione che si genera produce scambi impropri, clientelismo, corruzione. Soltanto recidendo tali legami si può contenere quel fenomeno molto radicato nelle pubbliche amministrazioni, specialmente del Mezzogiorno, della ricerca di un facile consenso politico impostato su una gestione delle risorse pubbliche esercitata in maniera poco selettiva (quando non dispersiva), scongiurando il rischio di ottenere un effetto contrario al principio di riaffermazione di un diritto di cittadinanza reale, tanto stressato nella retorica sul Sud. Una rivisitazione critica dei problemi del capitalismo italiano, in chiave meridionalista, serve a modificare una rappresentazione della realtà in parte distorta e a sostenere lo sforzo di quella parte della popolazione del Sud che si impegna e produce allo stesso modo di quella del Nord, nonostante le difficoltà. Con insistenza, pazienza e determinazione c’è da impegnarsi in una battaglia finalizzata a spiegare anche ai più scettici che il Mezzogiorno è veramente una risorsa per l’intero paese, che può portare un vantaggio per tutta l’economia ed anzi ridare un senso ed un’identità al nostro essere nazione. Il limite di una simile dimostrazione può soltanto consistere nella mancata chiarezza e nella debolezza del ruolo che occupa il Mezzogiorno nel disegno politico costruito per il rilancio dell’Italia. Un limite che, in verità, si coglie facilmente anche in questa fase di governo tecnico del paese.

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La natura duale del welfare nazionale Nerina Dirindin

insegna Economia Pubblica e Scienza delle Finanze all'Università di Torino

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a grave crisi economica che il nostro Paese sta vivendo, e che impone un rafforzamento delle politiche di risanamento della finanza pubblica, apre scenari preoccupanti per il sistema di welfare. In tutti i momenti di crisi, il settore sociosanitario è sempre stato oggetto di pesanti interventi di razionalizzazione. Chi non ricorda gli anni novanta, quando l’obiettivo di entrare in Europa impose, all’interno del processo di risanamento della finanza pubblica, rilevanti sacrifici alla sanità, impedendo il rilancio delle politiche sociali di cui da tempo si sentiva bisogno? E la storia di questi ultimi anni è ancora più preoccupante. Le recenti manovre hanno previsto tagli ai fondi per il Servizio Sanitario Nazionale che arriveranno a raggiungere nel 2014 un valore complessivo pari a poco meno di 8 miliardi di euro, circa mezzo punto di Pil. A ciò si aggiunge il quasi totale azzeramento dei fondi statali per le politiche sociali che nel 2012 sono meno di un decimo di quelli stanziati nel 2008. L’effetto complessivo di tali tagli non potrà che gravare sulle persone più fragili e sulle condizioni di lavoro degli operatori. Particolarmente difficile la situazione nel Mezzogiorno, dove le pesanti restrizioni rischiano di impedire la ripresa di una realtà troppo a lungo ferma al punto di partenza (salvo qualche lodevole eccezione). Per questo è necessario che la crisi si trasformi in un’occasione per far emergere il coraggio e le energie sicuramente presenti nelle regioni del Sud: la riduzione dei divari nell’offerta di tutela fra il Nord e il Sud del Paese è il principale problema da affrontare in questo particolare periodo storico. Vale la pena quindi riflettere sullo stato dell’assistenza sociale e sanitaria del

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nostro Paese. Per quanto riguarda il settore sanitario, nonostante i frequenti annunci allarmistici, in Italia la spesa sanitaria totale (pubblica e privata) è ancora nettamente inferiore a quella dei paesi con livello di sviluppo simile al nostro: 9,5% del Pil nel 2009 (11,8% in Francia, 11,6% in Germania, 10% in Svezia, 9,8% nel Regno Unito). Anche la spesa sanitaria pubblica si assesta su livelli inferiori rispetto sia a quelli dei paesi con sistemi di sicurezza sociale (per lo più di tipo categoriale, come Francia, Germania, Austria) sia a quelli dei paesi scandinavi con sistemi universalistici. Pure la dinamica degli anni più recenti non è di per sé motivo di preoccupazione. L’insieme degli strumenti di governance adottati con gli Accordi tra Stato e Regioni ha consentito un significativo rallentamento della crescita della spesa sanitaria pubblica, ma ha altresì acuito la spaccatura fra nord e sud del Paese. Nelle regioni meridionali, con l’eccezione della Basilicata, si osserva un eccesso di ricoveri ospedalieri per acuti, generalmente caratterizzati da una complessità delle prestazioni inferiore a quella del centro-nord e indice della mancata attivazione di percorsi alternativi sul territorio; gli screening per la prevenzione dei tumori femminili raggiungono ancora meno della metà della popolazione di riferimento; la speranza di vita è più bassa e il tasso di mortalità infantile è il più alto del Paese. E questo solo per citare alcuni indicatori. Per quanto riguarda il settore sociale, l’Italia soffre della mancanza di una vera e propria politica nei confronti dei bisogni delle persone. Le cause sono numerose, alcune storiche altre più recenti; non è un caso che fino al 2000 il sistema assistenziale italiano sia stato disciplinato da una legge del 1890 (la legge Crispi), come se le politiche sociali non meritassero continui adeguamenti rispetto alle esigenze delle comunità. Le carenze vanno dalle dimensioni dei finanziamenti (di gran lunga inferiori rispetto al resto dell’Europa), al mix di interventi offerti (in gran parte di tipo monetario, a discapito dei servizi in natura), all’arretratezza culturale dei decisori e dei beneficiari (ancora per lo più centrata sull’assistenza, anziché sul riconoscimento dei diritti), alla difficile integrazione fra sociale e sanità (si pensi, ad esempio, al tema della non autosufficienza), alla rassegnazione della maggior parte dei professionisti del settore (da troppo tempo abituati

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L’insieme degli strumenti di governance adottati con gli Accordi tra Stato e Regioni ha consentito un significativo rallentamento della crescita della spesa sanitaria pubblica, ma ha altresì acuito la spaccatura fra nord e sud del Paese

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a veder deluse le proprie ambizioni). Gli effetti della carenza di adeguate politiche sociali risulta evidente quando si analizzano i dati internazionali sulle diseguaglianze sociali. L’Italia mostra – ad esempio – un tasso di povertà fra i minori che è doppio di quello della Francia e circa tre volte quello dei paesi scandinavi. Più in generale, il rischio di povertà fra le famiglie monoparentali con figli è in assoluto il più alto dei 26 paesi Ocse: la totale assenza di un sistema generalizzato di protezione sociale a favore delle persone prive di reddito accomuna l’Italia ai paesi più arretrati. All’interno del Paese la spesa sociale è fortemente differenziata fra regioni. La rilevazione dell’Istat sulla spesa dei comuni (singoli e associati) per interventi e servizi sociali mostra una enorme variabilità a livello locale: le regioni a statuto speciale del nord (tradizionalmente al primo posto quanto a spesa pro capite) spendono anche 10 volte alcune regioni del sud. La rilevazione evidenzia divari interregionali ben più ampi di quelli osservati per la spesa sanitaria, anche se in parte controbilanciati da una maggiore spesa per trasferimenti monetari di tipo previdenziale. Le differenze territoriali nella spesa locale socio-assistenziale sono ancora più marcate se si entra nel merito delle aree di

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intervento. Ad esempio, per l’assistenza domiciliare agli anziani, si spendono circa 4 euro pro-capite nel sud, contro 29 euro in alcune regioni del nord. Sul piano dell’assistenza residenziale agli anziani, i 2 euro procapite del Mezzogiorno si scontrano contro gli 89 e i 37 euro del nord (rispettivamente nelle regioni a statuto speciale e in quelle ordinarie). Al Sud si spende poco, i Comuni non si associano, gli assegni di cura e i buoni servizio a sostegno del lavoro di cura sono praticamente assenti, le strutture residenziali sono insufficienti e spesso non tutto il territorio è coperto dai servizi. In questo contesto, l’aggravarsi delle disuguaglianze che ricadono sui cittadini del meridione, a dispetto di diritti civili e sociali costituzionalmente tutelati, chiama in causa la capacità delle realtà meno efficienti di imparare dalle esperienze migliori o la capacità delle regioni più avanzate a contaminare quelle considerate meno sviluppate. L’esperienza insegna che le regioni imparano relativamente poco dai propri errori, così come imparano poco le une dalle altre. Difatti, nonostante i numerosi tentativi di affiancamento (gemellaggio o tutoraggio), il trasferimento delle buone pratiche da una regione ad un’altra ha prodotto effetti ancora piuttosto limitati. Non sempre le varie forme di sostegno interregionale sono disinteressate o esenti da condizionamenti. Una questione non sufficientemente esplicitata riguarda ad esempio come fare in modo che le regioni più efficienti, che beneficiano ampiamente della mobilità sanitaria attiva, siano realmente interessate a rendere meno dipendente il Sud dal Nord, quando questo imporrebbe loro una riduzione dell’offerta ospedaliera. Un ulteriore quesito riguarda le ragioni che spingono gli elettori a non sanzionare i politici che si sono dimostrati inadeguati. Il problema interessa l’intero Paese, ma appare particolarmente importante nelle regioni del Mezzogiorno, dove spesso l’assenza di buona amministrazione ha contribuito a sprecare parte delle risorse disponibili, a danno dei più deboli. In conclusione, le differenze fra nord e sud del Paese nelle politiche sanitarie e sociali confermano la natura duale del welfare nazionale, che deve interrogarsi sulle responsabilità nazionali e locali della «questione meridionale» e sulle strategie per il superamento delle carenze di servizi, in larga parte proprie del Mezzogiorno. Sotto questo profilo, regolazione e trasparenza non sono che due dei presupposti essenziali per la convergenza del Mezzogiorno e per il recupero del rispetto dei diritti delle persone.

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L’aggravarsi delle disuguaglianze che ricadono sui cittadini del meridione, a dispetto di diritti civili e sociali costituzionalmente tutelati, chiama in causa la capacità delle realtà meno efficienti di imparare dalle esperienze migliori o la capacità delle regioni più avanzate a contaminare quelle considerate meno sviluppate

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Il potere della cultura e la cultura del potere Daniela Carmosino è critico letterario

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ono in molti, oggi, ad affermare la vocazione fallimentare di ogni progetto di sviluppo per il Sud, ineluttabilmente destinato a impantanarsi nelle sabbie mobili della ‘cultura meridionale': una cultura del clientelismo, dell’abuso di potere, dell'omertà, della marginalità, dell'illegalità, dell'assistenzialismo etc. Ribaltando il discorso: tale prospettiva, pregiudiziale quanto 'sfiduciante', supporta, in fondo, la richiesta che s’avvii al Sud un processo endogeno di rigetto della cultura del potere (che sia quello criminale o d’una politica utilizzata in modo criminale) la quale venga progressivamente inibita dagli anticorpi di una cultura alternativa: quella della legalità, della partecipazione critica, dell’impegno politico, dell’autonomia. Certo, identità e cultura sono due parole che suonano velleitarie a chi è convinto che “con Dante non ti ci fai un panino”. L’idea di produrre coscienza e identità attraverso la cultura, però, non dev’esser così peregrina se da sempre trova voci autorevoli a sostenerla: da Guido Dorso che nel 1925 sostenne la necessità di «dare coscienza agli umili e trasformarli da oggetto inconsapevole del vecchio baratto trasformista in soggetto della nuova politica autonomista» a Luigi Sturzo che nel ’23 si appellava al «dovere di rifare in noi una coscienza elevata e rigida dei compiti del cittadino nella vita pubblica». Fino il più recente progetto Nuova Programmazione, che ribaltava una vecchia logica sostenendo invece come «lo sviluppo economico è effetto del miglioramento delle condizioni civili, sociali, culturali di un’area». Ampio spazio, infine, viene dato dal recentissimo programma di formazione

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politica del Partito Democratico rivolto ai giovani del Meridione, Finalmente Sud, alle ‘condizioni non economiche’ e al ‘capitale umano’ rispetto alle richieste della ‘società della conoscenza’ (knowledge management). Una felice convergenza tra progetto politico e progetto culturale, a dire il vero, s’era già realizzata al Sud durante quella breve stagione di risveglio artistico e civile avviatasi nella metà degli anni Novanta e che venne detta ‘stagione dei sindaci’ e – parallelamente, o forse conseguentemente – ‘nuovo rinascimento’. In anni di crisi, ma anche di produttive trasformazioni per l’Italia tutta, giovani artisti e intellettuali di varia formazione presero coscienza del danno che arrecava al Sud la sua stereotipizzazione, diffusa proprio da certi settori della cultura. Anticipati negli anni Ottanta dalla preziosa riflessione della rivista Meridiana, cinema, musica, teatro, letteratura, fotografia presero a raccontare il vero volto del Sud: un Sud in cui convivevano global e local, tradizione e innovazione, un Sud inevitabilmente seppur ‘diversamente’ partecipe del processo di globalizzazione con tutto l’inevitabile portato di human consequences. La riconfigurazione dall’interno e il racconto schietto dell’identità e della cultura del Sud vennero così a costituire il focus di appassionati dibattiti: se c’era chi, anticipando una prospettiva ‘localistica’ poi sempre più consolidatasi e variamente interpretata, denunciava le tante e diverse realtà d’una terra troppo spesso colta con sguardo unificante, altri, come Franco Cassano, ricordavano la vocazione mediterranea del Mezzogiorno, mentre altri ancora ampliavano la categoria del Sud in quella di “Sud del mondo” o di “periferia del mondo” (meglio, MacMondo): nozioni, entrambe, non geografiche ma economico-sociali, peraltro anticipate negli anni Cinquanta da Silone e che comprendevano tutte le società economicamente arretrate rispetto al proprio Nord o al proprio centro. Anche la stampa si accorse, per un po’, che il Sud stava cambiando. Cambiando rispetto a quelle immagini semplificate (pizza e mandolino, mafia e magia) che negli ultimi due secoli avevano nutrito tanto l’immaginario collettivo quanto quel repertorio tematico d’obbligo per chi volesse rappresentare il Sud. Un Sud in cui stavano fiorendo – certo, ancora secondo una diffusione ‘a macchia di leopardo’ – piccole case editrici, riviste culturali, e poi festival e fiere; in cui il cinema (Piva,

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Una felice convergenza tra progetto politico e progetto culturale, a dire il vero, s’era già realizzata al Sud durante quella breve stagione di risveglio artistico e civile avviatasi nella metà degli anni Novanta e che venne detta ‘stagione dei sindaci’

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Roberto Saviano in Gomorra (2006) demistifica la realtà mediatica rivelando le vere logiche e configurazioni del Sistema; Antonella Cilento in Non è il Paradiso (2003) sciorina e demistifica tutto il peggio della supposta napoletaneria; Romano, Cappelli, Argentina, Atzeni, Dezio ritraggono un Nord inedito, filtrato dagli occhi del Sud

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Rubino, Winspeare etc.) e la musica (Sud sound system) sperimentavano nuovi modi di raccontare nuove realtà. E la letteratura? Anche la letteratura s’adoperò per risvegliare le coscienze. Prediligendo forme come il réportage, il romanzo a sfondo sociale e i racconti a tema, la narrativa disegnò e interpretò criticamente e rendendo giustizia a quella complessità che ne scongiurava l’appiattimento su banali stereotipi, la mappa di nuove realtà sociali in via di configurazione. Qualche esempio, per capirci. Roberto Saviano in Gomorra (2006) demistifica la realtà mediatica rivelando le vere logiche e configurazioni del Sistema; Antonella Cilento in Non è il Paradiso (2003) sciorina e demistifica tutto il peggio della supposta napoletaneria; Romano, Cappelli, Argentina, Atzeni, Dezio ritraggono un Nord inedito, filtrato dagli occhi del Sud; De Silva, Cilento, Pascale, Romano, Parrella, Alajmo, Montesano, Argentina, Lagioia scelgono di portare in scena due dimensioni fino agli anni Ottanta generalmente messe ai margini, sia della produzione narrativa quanto dagli studi storici, economici e sociali: la città e il ceto medio urbano del Sud, formato da professionisti e impiegati, costretti ad assistere all’insinuarsi, nella quotidiana normalità, di comportamenti che, pur costeggiando appena l’illegale (il favore comprato, la raccomandazione) si fanno viatico a una diffusione trasversale della ‘cultura dell’illegalità’. Tra i nuovi scenari predominano poi i non-luoghi privi di identità, quali ipermercati, autostrade, call-center o fast-food. Testimoniano delle nuove forme di lavoro flessibile i tanti precari, di Parrella ad esempio, mentre Pascale e Braucci rappresentano con sguardo solidale gli immigrati e «la possibilità di un’integrazione pleno jure, di un paritario processo di cross-fertilization culturale». Da non trascurare, poi, i bamboccioni (ante litteram) e i teledipendenti di Roberto Alajmo. La narrativa diviene spesso sede di riflessione critica del rapporto tra media e immaginario collettivo da questi colonizzato, sorta di koiné, questa, sì, davvero nazionale (Pasolini docet) e trasversale rispetto a ceto o generazione d’appartenenza. E la criminalità? Resta nel repertorio, ché ancora gioca un ruolo fondamentale nell’identità del Sud, ma rappresentata in chiave comico-grottesca o patetica: così ce la racconta, uno per tutti, Montesano in Di questa vita menzognera (2003) segnalando semmai, quale vero pericolo, la frequente


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strumentalizzazione della cultura da parte dei criminali. Quei criminali che, nel romanzo quanto nella realtà, chiamano Bibbia e Vangelo a legittimare il proprio operato; quei criminali come il boss Sandokan, che si fa costruire una villa sul modello di quella in cui vive Scarface negli omonimi romanzo e film, o come quei giovani malavitosi che a Scarface ispirano abbigliamento e logiche comportamentali. Ecco perché, posta l'insopprimibilità nell’Uomo del bisogno di condividere valori, modelli e comportamenti con un gruppo d’appartenenza che gli conferisca identità, diviene urgente, per il Sud, elaborare una valida cultura identitaria alternativa, fondata su valori etico-civili condivisi con l’intera nazione. E farla penetrare nell’immaginario collettivo attraverso l’immissione di nuove quote di realtà, nuove logiche, nuovi parametri di giudizio, stimolando dubbi e spirito critico rispetto a valori e modelli proposti dal potere: che è, poi, il modo in cui da sempre operano la letteratura e la cultura in genere. Non resta che augurarci che il progetto diventi politico.

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Il problema italiano e il Pd Giuseppe Vacca

è Presidente della Fondazione Istituto Gramsci di Roma

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a decisione di dedicare un particolare impegno alla formazione politica dei giovani «quadri» del Mezzogiorno – il progetto Finalmente Sud – può contribuire in misura significativa alla costruzione del Pd. Non solo del Pd meridionale, ma di tutto il Pd poiché può essere l’occasione per porre a fondamento della visione politica dei dirigenti e dei militanti il problema storico della nazione italiana. Il 3 ottobre del 2009 il Presidente Napolitano scelse la figura di Giustino Fortunato per tracciare l’indirizzo da dare alle celebrazioni del centocinquantesimo dell’unità d’Italia e in un memorabile discorso tenuto nel Palazzo Fortunato di Rionero in Vulture (provincia di Potenza), ripropose il problema del dualismo Nord-Sud come il principale dei nostri

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problemi e il banco di prova delle classi dirigenti. Non era un discorso di circostanza, anzi, era fin troppo ruvido nella critica dell’indirizzo nordista dei governi della destra e nella condanna della «bestemmia separatista» della Lega Nord. Conoscendo la lucidità politica di Giorgio Napolitano, suppongo che fosse del tutto consapevole del fatto che due decenni di governi “nordisti” e soprattutto l’ultimo, esasperatamente dominato dal cosiddetto «asse del Nord», stavano portando l’Italia sull’«orlo del baratro»; ma il suo discorso mi parve anche consapevole del fatto che, riattivando il sentimento nazionale e l’afflato unitario degli italiani, si sarebbe accelerata la fine di quel ciclo politico, come di fatto è poi avvenuto. Penso che su quel solco debba procedere Finalmente Sud e può essere utile approfondire brevemente il tema. Governo e Paese, scriveva Fortunato, «non ignorino di avere, nella questione meridionale, il maggiore dei loro doveri di politica interna». Don Giustino parlava alle élites liberali di cui faceva parte, e il suo discorso aveva un grande afflato esortativo. Ma già le “plebi” rurali e cittadine, risvegliate e organizzate dalla propaganda socialista, stavano rimodulando il profilo della nazione, insidiando l’oligarchia di notabili che costituiva allora la classe di governo e gli equilibri di potere su cui si reggeva. Dopo i Fasci Siciliani e la crisi di fine secolo, Antonio Labriola poteva quindi proporre una visione di più ampio respiro del problema italiano. Nel suo ultimo scritto, Da un secolo all’altro (1901), tracciato un bilancio del Risorgimento e del primo quarantennio di vita unitaria, individuava nei termini più esatti i problemi che avrebbero ereditato le generazioni successive. L’Italia, scriveva, «uscendo da secoli di effettiva decadenza e passando poi per la tensione cospiratoria e per l’ardore delle rivolte, non ha portato nel nuovo assetto una proporzionata esperienza di politica moderna»; onde si domandava: «quante garanzie di Stato moderno offre ora l’Italia in quanto a mantenere un posto di utile ed efficace concorrente nella gara internazionale? […] La vecchia nazione italiana, componendosi a Stato moderno, di quanto s’è trovata adattabile e di quanto difettiva di fronte alle condizioni della politica mondiale in genere» ? In prospettiva storica, quindi, il dualismo Nord-Sud si traduceva in due problemi permanenti della nazione italiana,

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Due decenni di governi “nordisti” e soprattutto l’ultimo, esasperatamente dominato dal cosiddetto «asse del Nord», stavano portando l’Italia sull’«orlo del baratro»

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Avrebbe un grande valore formativo, io credo, rileggere alcuni classici del meridionalismo. Una prima questione riguarda la scelta di sistemi elettorali che favoriscano l’unificazione mai definitivamente compiuta del popolo-nazione

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fra loro strettamente intrecciati: la fragile unità interna e la debole capacità di affermarsi nell’agone internazionale. Non era un problema che si potesse risolvere senza un lungo processo d’integrazione delle classi popolari nella vita dello Stato e che perciò passava nelle mani del socialismo e del cattolicesimo politico. E in effetti solo quando queste forze avrebbero raggiungo la capacità di dare un’ossatura democratica alla nazione italiana, dopo la seconda guerra mondiale, l’Italia avrebbe compiuto il suo più celere balzo nella divisione internazionale del lavoro e nella partecipazione alla produzione della ricchezza mondiale. Né fu casuale che in quel trentennio la questione meridionale, pur declinata in modi diversi e persino contrastanti, assurgesse al rango di paradigma della proposta politica dei principali partiti della Repubblica, di governo e di opposizione. L’esaurimento di quel ciclo politico coincise con l’inizio della crisi della democrazia repubblicana e sarebbe bene che nel percorso di Finalmente Sud si sviluppasse una ricerca sulle origini e le ragioni di quella crisi. Anche a questo fine, avrebbe un grande valore formativo, io credo, rileggere alcuni classici del meridionalismo. Una prima questione riguarda la scelta di sistemi elettorali che favoriscano l’unificazione mai definitivamente compiuta del popolo-nazione. Sarebbe utile ritornare, in proposito, sul discorso di Gaetano Salvemini al Congresso del Partito Socialista di Firenze del 1908, nel quale spronava il partito ad assumere un impegno risoluto per la conquista del suffragio universale come principale risorsa per immettere i contadini meridionali nella vita dello Stato e superare il corporativismo operaio su cui il partito stesso era attestato. Certo, oggi nessuno metterebbe in dubbio il suffragio universale, ma esso può esercitarsi con leggi elettorali molto diverse (è il caso di ricordare che il suo esordio si ebbe con l’istituzione del plebiscito da parte di Napoleone Terzo?) e quindi un partito nazionale e popolare quale vuol essere il Pd dovrebbe battersi per leggi elettorali che valorizzino le differenze (sociali, territoriali, di genere) per unificarle nel confronto con le diverse visioni di cui sono interpreti i partiti. Subito dopo la disfatta di Caporetto, quando si aprì la caccia ai socialisti accusati di sabotaggio, Gramsci rivendicava al socialismo il merito d’essere stato l’unica forza unificatrice


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del popolo–nazione per aver «fatto sì che un contadino di Puglia e un operaio del Biellese parlassero la stessa lingua, si trovassero, così lontani, a esprimersi in confronto di uno stesso fatto, a dare un giudizio uguale di un avvenimento, di un uomo» (Il socialismo e l’Italia, 22 settembre 1917). Nei Quaderni del carcere, riflettendo sulle elezioni del 1919, le prime con suffragio universale maschile e con legge proporzionale, ne sottolineava il valore costituente poiché per la prima volta, «in tutto il territorio nazionale, in uno stesso giorno, tutta la parte più attiva del popolo italiano si [era posta] le stesse questioni [cercando] di risolverle nella sua coscienza storico-politica». Se è vero, come affermava Ernest Renan, che «la nazione è un plebiscito che si rinnova ogni giorno», il giorno delle elezioni è quello più solenne, in cui se ne certifica la densità e la coesione. Gli italiani sono oggi molto simili fra loro, sono generalmente istruiti, abbondano d’informazione e quindi le loro differenze originano dai processi della modernità, non dalla sua mancanza. Ma il compito di ricomporle non è meno arduo. Per molti aspetti Nord e Sud non sono oggi meno distanti di ieri anche per il modo in cui i flussi della mondializzazione si riverberano sui diversi aggregati territoriali e gruppi sociali di cui è composta la nazione. Far emergere tutto questo, farne il centro del discorso politico e della lotta per l’unità della nazione è possibile, ma le leggi elettorali attuali non lo consentirebbero poiché sono ispirate dalla volontà di neutralizzare e rendere insignificanti le differenze, e soprattutto le culture politiche in cui si esprimono. Solo il proporzionale consente alla nazione di rinnovare, almeno ogni cinque anni, il suo «plebiscito». E Gramsci non guardava solo alla propria parte. Quando, nel dicembre del 1918, fu dato l’annuncio della costituzione del Partito Popolare, ne colse subito l’importanza perché colmava l’altra grande frattura dello Stato sorto dal Risorgimento, la frattura con la “nazione cattolica”. «Il costituirsi dei cattolici in partito politico, scriveva, è il fatto più grande della storia italiana dopo il Risorgimento. I quadri della classe borghese si scompaginano: il dominio dello Stato verrà aspramente conteso, e non è da escludere che il partito cattolico, per la sua potente organizzazione nazionale accentrata in poche mani abili, riesca vittorioso nella concorrenza dei ceti liberali e conservatori laici della

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Nord e Sud non sono oggi meno distanti di ieri anche per il modo in cui i flussi della mondializzazione si riverberano sui diversi aggregati territoriali e gruppi sociali di cui è composta la nazione

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Dopo la nascita dell’euro il Mezzogiorno aveva ricominciato a crescere mediamente poco più dell’intero Paese anche grazie al fatto che il Mediterraneo stava riguadagnando un ruolo centrale nel commercio internazionale, quella prospettiva fu fermata dalla guerra all’Irak

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borghesia, corrotti, senza vincoli di disciplina ideale, senza unità nazionale, rumoroso vespaio di basse congreghe e consorterie» (I cattolici italiani, 22 dicembre 1918). Forse un «partito cattolico» non è più pensabile in Italia. Ma un partito nazionale come il Pd – fondato fra l’altro su una conclamata visione condivisa da credenti e non credenti – non può sottrarsi alla lotta per leggi elettorali che valorizzino le culture politiche che mettono in forma le moltitudini dell’odierna «folla solitaria». Il contributo più significativo del cattolicesimo politico al pensiero dell’unità della nazione è venuto, credo, da don Luigi Sturzo che arricchì il meridionalismo di una visione geopolitica lucida e attuale. Si rilegga il suo grande discorso per il quarto anniversario della fondazione del Partito Popolare (Il Mezzogiorno e la politica italiana, 18 gennaio 1923) in cui, superando nettamente la visione di Giustino Fortunato della questione meridionale come «dovere della politica interna», ne indicava le coordinate più ampie nella proiezione mediterranea della politica economica e della politica estera dell’Italia. Fra le lezioni del meridionalismo, questa mi pare la più attuale. Dopo Maastricht la «questione mediterranea» è divenuta una questione europea e non sarebbe difficile dimostrare, se ne avessi lo spazio, che mentre subito dopo la nascita dell’euro il Mezzogiorno aveva ricominciato a crescere mediamente poco più dell’intero Paese anche grazie al fatto che il Mediterraneo stava riguadagnando un ruolo centrale nel commercio internazionale, quella prospettiva fu fermata dalla guerra all’Irak e con essa l’Europa si divise e fu bloccata anche la sua proiezione mediterranea. Credo che questi avvenimenti abbiano avuto un effetto decisivo nel favorire una visione del governo del Paese sempre più centrata sull’«asse del Nord» e su una esasperazione del dualismo spinta fino all’«orlo del baratro» di tutta la nazione. Ma la riflessione dovrebbe abbracciare anche le ragioni per cui – sottolineava energicamente Napolitano a Rionero – l’ispirazione e la responsabilità nazionale delle classi dirigenti si era oscurata «da troppi anni per effetto dello spengersi del dibattito culturale e politico meridionalista e dell’esaurirsi di una strategia nazionale per il Mezzogiorno». Si potrebbe aggiungere la necessità di una verifica delle strategie con cui, smantellata l’economia mista e l’intervento straordinario, anche la «questione meridionale» venne


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affidata alle sole risorse del mercato. Un fallimento totale, da cui oggi riparte la riflessione più avvertita che non a caso coniuga questione meridionale e questione mediterranea. Ad esse dedicano nuove ricerche e fresche riflessioni i nuovi meridionalisti – uno per tutti, Franco Cassano, Tre modi di vedere il Sud – ed è bene lasciare a loro la parola. Ma sarebbe ancora meglio se il Pd, in vista d’una rinnovata iniziativa europea dell’Italia che vada oltre l’azione prestigiosa e meritoria del governo Monti, raccogliesse queste energie per cercare insieme prospettive concrete alla proiezione mediterranea dell’UE.

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Sarebbe ancora meglio se il Pd, in vista d’una rinnovata iniziativa europea dell’Italia che vada oltre l’azione prestigiosa e meritoria del governo Monti, raccogliesse queste energie per cercare insieme prospettive concrete alla proiezione mediterranea dell’UE

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Dentro un disegno riformatore nazionale Umberto Ranieri

è Presidente Forum Mezzogiorno del Partito Democratico

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Italia sta affrontando con determinazione la più seria crisi economica e sociale dal dopoguerra. Il Governo Monti ha adottato misure gravose ma indispensabili per porre in sicurezza il Paese. Occorre ora lavorare alla crescita, dopo lunghi anni di stagnazione che hanno visto l’Italia perdere posizioni tra i grandi Paesi avanzati. Non avremo uno sviluppo solido e un’Italia più civile se non ci sarà una svolta nel Mezzogiorno. È un momento difficile per il Sud. La crisi morde nel profondo l’economia meridionale, si contrae l’occupazione, si delinea un declino demografico con un forte calo della natalità e un flusso di uscite di oltre 100mila persone all’anno, la maggior parte giovani che lasciano le regioni meridionali per realizzare altrove le loro speranze di valorizzazione professionale e di lavoro. Il Sud ne è doppiamente penalizzato: segna il fallimento dell’investimento formativo; priva le regioni meridionali di competenze e di energie vitali. Oggi il Mezzogiorno è un’area che cresce poco anche rispetto alle aree europee in ritardo di sviluppo. Le difficoltà del Sud tuttavia sono per vari aspetti quelle dell’intero Paese. Negli ultimi 15 anni il Paese nel suo insieme ha perso terreno rispetto alle altre economie europee. Se l’Italia stenta a tenere il passo di alcuni altri paesi dell’Unione europea la responsabilità non va imputata al Sud bensì alle conseguenze delle riforme mancate in cui si dibatte il sistema Italia nel suo complesso. Altro che Mezzogiorno “capro espiatorio” di ogni ritardo nazionale. Il ristagno in cui versa l’economia italiana è

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originato da cause comuni: dallo stato della pubblica amministrazione alle carenze nella qualità dei servizi, dalla caduta degli investimenti pubblici nella ricerca alla mancanza di concorrenza, alla illegalità. Problemi che si presentano nel Mezzogiorno in misura molto più accentuata. Quale via seguire? Quale strategia adottare?Quale equilibrio costruire tra Nord e Sud del Paese? Se si arrocca sopra il Po il Nord non ha futuro. Le regioni meridionali costituiscono un mercato di 20 milioni di persone in cui giungono flussi di prodotti provenienti per circa il 40% dal Nord/Ovest e per circa il 30% dal Nord/Est: c’è una forte interdipendenza tra le due aree. Si è calcolato che i 45 miliardi di euro annualmente trasferiti dal Nord al Sud finanziano importazioni nette pari a 62 miliardi di euro dall’interno e 13 miliardi dall’estero. Questo significa che non hanno fondamento suggestioni di separazione o secessione. Non c’è alternativa al crescere insieme di Nord e Sud “non essendo storicamente immaginabili, nell’Europa e nel mondo di oggi, prospettive separatiste o….più semplicemente ipotesi di sviluppo autosufficienti di una parte soltanto dell’Italia”. È il momento di mettere in campo una proposta generale per l’Italia che ruoti intorno alle riforme di cui ha bisogno il Paese. Nessuna politica per il Sud può essere credibile ed efficace se non viene concepita come parte di un disegno riformatore nazionale, in grado di affrontare i nodi della crisi economica, sociale e democratica. Il problema è duplice: dare vita ad una strategia di rilancio del sistema Italia nel suo complesso e insieme avviare un meccanismo di integrazione tra le due macroaree del Paese. I due obiettivi sono strettamente interrelati. La sfida in sostanza è portare a coerenza l’interesse specifico del Sud con quello complessivo dell’Italia. In questo quadro emergono tre priorità.

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Le regioni meridionali costituiscono un mercato di 20 milioni di persone in cui giungono flussi di prodotti provenienti per circa il 40% dal Nord/Ovest e per circa il 30% dal Nord/Est: c’è una forte interdipendenza tra le due aree

Politica verso il Mediterraneo I giganteschi avvenimenti che si vanno producendo al di là del mare, sulla sponda Sud del Mediterraneo, impongono una svolta nella politica dell’Europa e dell’Italia verso questa parte del mondo. Se non ora quando impegnarsi per fare del Mezzogiorno la piattaforma dell’Europa verso paesi in cui possono consolidarsi vasti processi di democratizzazione in un Mediterraneo che ha ritrovato nuova centralità nello scenario globale dell’economia e degli scambi internazionali ? 59


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Il recupero allo sviluppo del Sud diventa allora funzionale ad un disegno sovranazionale. Per questa via il mezzogiorno può diventare la più rilevante opportunità di rilancio per l’intera economia italiana. Energie rinnovabili Il settore delle energie rinnovabili costituisce una opportunità per il Mezzogiorno. Considerando solo le "nuove" fonti pulite (eolico, solare, biomasse e biogas), il peso delle regioni del Sud è già oggi rilevante; basti pensare che in questi territori è stato prodotto il 70% di tutta l'energia generata da queste fonti nel nostro Paese. L’impegno nella geotermia può costituire una grande risorsa in questo quadro. È una direzione verso cui vanno orientate risorse per sostenere il sorgere di una vera filiera produttiva. Qualità dei servizi pubblici e condizioni per attrarre investimenti Va superata una lettura eccessivamente economicistica dello sviluppo del Mezzogiorno. Guardare alla cultura,alla società,alle istituzioni può aiutare per riportare al centro l’idea che fu dei classici del meridionalismo: lo sviluppo ha cause non solamente economiche. E’ l’offerta inadeguata di beni pubblici di base come sicurezza, sanità, giustizia, istruzione, ambiente, all’origine della debolezza che ha soffocato l’economia del Mezzogiorno, ha reso più bassa la propensione all’imprenditorialità, più alto il costo del credito. Si tratta di problemi che si riflettono sulla vita dei cittadini ma che condizionano decisamente anche le prospettive di crescita economica in quanto fattori non secondari nel determinare l’attrazione di nuove iniziative imprenditoriali. Una nuova politica di sviluppo deve certamente riguardare obiettivi di infrastrutturazione materiale e immateriale; una nuova politica industriale fondata su incentivi automatici che scongiuri il rischio di una scomparsa dell’industria meridionale stretta tra sfide competitive e crisi del credito; una riforma degli ammortizzatori sociali che consenta la copertura di lavoratori meridionali esclusi da ciclo produttivo ma non può trascurare la necessità di intervenire per eliminare i divari nell’istruzione, nella formazione, per diffondere valori civici, migliorare i servizi pubblici, combattere l’illegalità. In questa ottica i servizi pubblici vanno considerati elementi fondanti delle condizioni di competitività nel medio 60


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e lungo periodo. Questa la strada obbligata per promuovere lo sviluppo del Mezzogiorno; per attirare nel Sud nuove risorse private e nuovi protagonisti dell’economia: meno dell’1% degli investimenti diretti esteri giunti in Italia negli ultimi due anni si è indirizzato nel Mezzogiorno. Senza la capacità di attrarre investimenti dal Nord e dal resto del mondo, senza una convenienza per gli investimenti privati il Sud non conoscerà un processo autonomo di sviluppo. Nel quadro di questo ragionamento va ripresa, su basi nuove, la prospettiva della riforma federalista. Il Mezzogiorno non si è tirato indietro rispetto alla sfida del federalismo. Nella migliore tradizione del meridionalismo si rintraccia il riferimento all’autogoverno responsabile delle popolazioni, il richiamo d’obbligo è a Salvemini e a Sturzo. Il federalismo tuttavia è un processo complicato che richiede attenzione alle procedure, alle regole, ai costi. Il problema con cui fare i conti oggi è che le disposizioni attuative della legge 42 del 2009 non vanno allo stato verso una equilibrata riforma federale. Questo il punto dolente. Non ci sono certezze e permane invece forte ambiguità su aspetti cruciali della riforma: dal livello dei costi standard ai fabbisogni per soddisfare diritti di cittadinanza, dalle forme della perequazione, al rapporto tra ordinamento federale e l’intervento per lo sviluppo del Mezzogiorno. Stando così le cose è indispensabile una correzione del progetto federalista. È questa la condizione che può

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Senza la capacità di attrarre investimenti dal Nord e dal resto del mondo, senza una convenienza per gli investimenti privati il Sud non conoscerà un processo autonomo di sviluppo

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Stando così le cose è indispensabile una correzione del progetto federalista. è questa la condizione che può consentire di riprendere la strategia federalista

consentire di riprendere la strategia federalista. C’è infine una questione di fondo che costituisce la premessa di una nuova politica per il Sud: solo una classe dirigente meridionale con le carte in regola può condurre una battaglia culturale per reagire a una campagna di demonizzazione di tutto ciò che accade nel Sud. Una campagna che ha fatto delle regioni meridionali la terra dello spreco e della corruttela, la terra in cui “nulla cambia e nulla potrà mai cambiare”. La via non è quella del Sudismo che si risolve in una richiesta di soldi per mantenere in piedi un sistema di potere da cambiare radicalmente. La battaglia per il Sud può essere condotta unicamente da una classe dirigente meridionale che dimostri di saper usare produttivamente fino all’ultimo centesimo le risorse disponibili, che affermi principi di legalità e trasparenza nell’amministrazione della cosa pubblica. Ecco perché si impone nel Sud una profonda riforma dell’agire politico: occorre nel Mezzogiorno una politica più orientata all’interesse generale; liberata da chi tenta di farne un luogo di privilegi. Vanno introdotti antidoti alla intermediazione impropria dei politici;sanzioni che innalzino i costi di comportamenti trasformistici; vanno definite misure volte a rafforzare la possibilità di partecipazione di controllo dei cittadini sui propri eletti; va favorita la cittadinanza attiva privilegiando le associazioni civiche, definendo una carta di diritti dei cittadini per tutelarli dagli arbitri della burocrazia. Per muovere in questa direzione va costruita nella società meridionale un’alleanza per le riforme che si faccia carico del cambiamento in alternativa a quella che è stata chiamata la coalizione della rendita, quella in cui sono cementate convergenze di interessi tra un mondo imprenditoriale legato ai trasferimenti pubblici e un ceto politico burocratico interessato al mantenimento di privilegi e ad uno scambio economico o elettorale. È stato questo blocco conservatore la causa dell’immobilismo del Sud. Meno tutele più innovazione In conclusione il punto da sottolineare è che il mezzogiorno ha bisogno meno di tutele e più di investimenti mirati al sostegno dell’istruzione, del lavoro, della ricerca e dell’innovazione. I beneficiari di queste politiche innovative devono essere le nuove generazioni meridionali. Occorrono riforme che

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rendano più vantaggioso per i giovani meridionali rimanere al Sud o ritornarvi piuttosto che fuggire. La premessa di fondo al nostro ragionamento è la legalità. La difesa e l’affermazione dello Stato di diritto. Poi, l’istruzione. Il mondo della scuola e della formazione nel mezzogiorno ha bisogno di maggiore equità e maggiore qualità. È dalla scuola che occorre partire per creare le condizioni di un nuovo e virtuoso circuito istruzionemerito-lavoro alternativo al dramma secolare del clientelismo e del favoritismo Per essere parte protagonista di una battaglia che si propone tali obiettivi, il Pd nel Mezzogiorno deve avviare un profondo rinnovamento nel suo modo di essere e di funzionare. In diverse realtà del Mezzogiorno si tratta di rifondare o ricostruire su nuove basi il Pd per scongiurare il rischio che esso si riduca ad un assemblaggio informe di gruppi e gruppetti. A partire dal tesseramento. La tessera, in molti casi (qualcuno sostiene la maggioranza dei casi), non è pagata dal cittadino che va nel circolo e la ritira. Le tessere sono pagate dai capi corrente che, aggirando sapientemente regole e procedure, ne controllano interi blocchi. Insomma, c’è chi investe sulle iscrizioni al partito accumulando in questo modo “munizioni” in vista di dispute su prebende, candidature, preferenze. Avviene così la trasformazione di parte degli iscritti in “anime morte” trasferibili ad un cenno del notabile di turno. Manovrare un numero elevato di iscritti decide delle sorti e dello status di un capo corrente. Chi non dispone di un pacchetto di tessere non ha difese. Se così stanno le cose, occorre rendersi conto che è in discussione l’esistenza stessa del Pd nel mezzogiorno. Occorre scongiurare il pericolo che l’incontro tra Ds e Margherita nel Sud conduca non alla forza nuova e combattiva di cui c’era bisogno ma ad un organismo malato e segnato dai vizi tipici della cattiva politica meridionale. Per quanto sia difficile, occorre lavorare ad una svolta. Rilanciare l’idea di un partito che si dia forme organizzative capaci di consentire la partecipazione dei propri elettori, che funzioni sulla base di procedure democratiche, che si liberi di notabili odiosi e prepotenti.

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Occorre lavorare ad una svolta. Rilanciare l’idea di un partito che si dia forme organizzative capaci di consentire la partecipazione dei propri elettori, che funzioni sulla base di procedure democratiche, che si liberi di notabili odiosi e prepotenti

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Per una ricostruzione civile

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Il circuito disuguaglianza-sottosviluppo Sergio D’Antoni

è Responsabile Politiche sul territorio e deputato del Partito Democratico

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siste una forte relazione, nel nostro paese, tra mancato sviluppo delle zone deboli del Sud e deficit democratico. Un nesso profondo e biunivoco, che rende l'uno causa ed effetto dell'altro. La questione democratica è infatti implicita in una nazione che esclude di fatto un terzo della propria popolazione dal circuito produttivo e dai processi decisionali partecipativi. Questo deficit si traduce, materialmente, in una drammatica asimmetria nelle condizioni di partenza dei cittadini. E produce esattamente ciò di cui si nutre: disuguaglianza e sottosviluppo. In una Repubblica che fonda il proprio status democratico sul protagonismo di tutti al lavoro produttivo, la questione della partecipazione democratica non può che fondersi con questione economica. O meglio, con la capacità delle istituzioni nazionali di esprimere una politica inclusiva, incentrata sulla coesione delle realtà più svantaggiate. Priorità resa ancora più urgente da una crisi che ha allontanato ulteriormente i forti dai deboli e che affonda le proprie radici proprio nella cattiva distribuzione delle risorse e delle opportunità. La recessione degli ultimi tre anni si è abbattuta sul nostro paese con più forza che sull’Europa e sul Mezzogiorno con più intensità che sul resto del paese. I tre elementi che hanno fatto scontare all'Italia tassi di sofferenza maggiori rispetto agli altri grandi paesi sono l'alto indebitamento pubblico, l'assenza di crescita e – soprattutto – la forte dualità 65


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La recessione degli ultimi tre anni si è abbattuta sul nostro paese con più forza che sull’Europa e sul Mezzogiorno con più intensità che sul resto del paese

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economica e sociale tra il Nord e Sud. Fattori in realtà intimamente interdipendenti. La stagnazione economica è infatti il risultato della incapacità di mettere in moto processi di sviluppo nelle zone sottoutilizzate del Mezzogiorno. In altri termini, per tornare a far crescere il paese a livelli sostenuti non c'è altra via se non quella di abbattere il gap strutturale che allontana il Sud dal resto d'Italia. L'azione pubblica nazionale è chiamata a rispondere a questa esigenza, che è una esigenza prettamente redistributiva. Combattere le disuguaglianze non deve essere considerato solo un imperativo etico, ma una questione di bilanciamento democratico e l'elemento centrale di una strategia di rilancio economico nazionale. Analizzare la distribuzione del reddito e della ricchezza in Italia, significa descrivere gli effetti di un motore acceso solo a metà, tracciare il perimetro di una debolezza sistemica che impedisce al sistema-nazione di tornare a crescere al livello degli altri paesi europei. Non è un caso che il periodo del miracolo economico sia stato caratterizzato da indici di sperequazione tra i più bassi mai raggiunti nel nostro paese. D’altro canto, seguire le evoluzioni degli indicatori di disuguaglianza negli ultimi dieci anni equivale ad osservare un implacabile aumento delle disparità e dei divari tra gruppi sociali e zone geografiche. Secondo dati Ocse, intorno alla metà degli anni duemila l’Italia risultava caratterizzata da un livello di iniquità inferiore solo a Usa, Grecia, Lituania e Portogallo. Tra le nazioni contraddistinte dai più bassi indici di disparità sociale e territoriale vi era invece la Germania. Che non a caso oggi vola a tassi di crescita, di redditi e di occupazione che non hanno pari in Europa. Guardare all'esempio di Berlino, vuol dire far propria la lezione di un paese che ha saputo integrare in pochissimo tempo venti milioni di cittadini delle proprie aree deboli dell'Est. Appena venti anni fa un baratro divideva le condizioni dell'evoluto Ovest da quelle dell'ex Ddr. All'esigenza di colmare i vertiginosi divari esistenti nella quantità e nella qualità dei fattori produttivi, delle infrastrutture, delle condizioni sociali dei cittadini, si aggiungeva l'urgenza di integrare due sistemi politicoistituzionali completamente diversi. Un lavoro immenso, che coinvolgeva simultaneamente il dominio della politica, dell'economia, del sociale e della


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cultura. E che ha reso necessaria la messa in campo di un “formidabile arsenale di politiche coesive”, come lo definisce la Banca d'Italia in uno studio del 2009. La Germania ha investito nel proprio “Sud” dal 1990 molto, ma molto di più di quanto l’Italia abbia speso per il proprio Mezzogiorno dal secondo dopoguerra. Tabelle alla mano, il governo federale tedesco ha stanziato in due decenni qualcosa come 1.500 miliardi mirati alla convergenza delle aree sottoutilizzate dell’Est, pari a una media di 75 miliardi di euro l'anno. Una quantità di denaro enormemente superiore rispetto ai 360 miliardi investiti (male) dall'Italia dal 1945 ad oggi. Comune a entrambe le esperienze è l’elevata dipendenza dall’intervento pubblico, perpetuata da una evidente difficoltà di avvio di un processo di sviluppo autosufficiente. Tuttavia, se in 60 anni l'Italia ha speso mediamente nel proprio Sud non più dello 0,7 per cento del suo Pil - spesa peraltro mai del tutto aggiuntiva rispetto a quella ordinaria -, nella Germania Est, fin dai primi anni della riunificazione politica, i trasferimenti medi annuali hanno raggiunto il 5 per cento del prodotto interno lordo. Bisognerà pure sfatare quel luogo comune che identifica il Sud come una voragine di denaro, un buco nero che ha assorbito fiumi di risorse dallo Stato e che continua a battere cassa come un bambino viziato. È la teoria del “mezzogiorno irresponsabile e piagnone”. Un teorema che andrebbe rivisto alla luce dei dati reali, secondo cui il settore pubblico non riesce ad esprimere una spesa adeguata nel Mezzogiorno. I valori della spesa ordinaria in conto capitale destinata alle aree sottoutilizzate del Sud sono infatti dal 2008 in costante diminuzione, arrivando nel 2010 addirittura al 23,1 per cento del totale. Siamo ben lontani anche dal solo peso naturale del Mezzogiorno, la cui estensione territoriale è pari al 38 per cento della superficie nazionale. Questi numeri non devono essere un alibi per nessuno. Entra qui, e prepotentemente, la questione delle responsabilizzazione delle classi dirigenti nazionali e locali nella gestione degli strumenti destinati alla convergenza. Sul piano nazionale significa sostenere lo sviluppo delle aree depresse garantendo investimenti reali e leve di fiscalità di sviluppo, imponendo trasparenza e vigilando sul loro corretto utilizzo. Su quello locale vuol dire potenziare gli strumenti di feedback tra amministratori e cittadini, sfrondare ed

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Bisognerà pure sfatare quel luogo comune che identifica il Sud come una voragine di denaro, un buco nero che ha assorbito fiumi di risorse dallo Stato e che continua a battere cassa come un bambino viziato. è la teoria del “mezzogiorno irresponsabile e piagnone”

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Gli sprechi, le inefficienze e le politiche clientelari si nutrono proprio della incapacità di un territorio di esprimere una rete produttiva e sociale adeguatamente sviluppata

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economizzare il sistema della pubblica amministrazione, dichiarare guerra agli sprechi e alle intermediazioni parassitarie, delegare poteri e risorse solo a dirigenti capaci e responsabili. Il Mezzogiorno e l'Italia tutta deve far propria la politica delle “carte in regola” che trenta anni fa ha ispirato l'azione concreta e la riflessione teorica di un grande meridionalista come Piersanti Mattarella. Le carte in regola rappresentano un punto di partenza fondamentale per avere credibilità nelle sedi decisionali nazionali e comunitarie. E quindi per poter invocare, a Roma come a Bruxelles, le necessarie politiche di convergenza con autorevolezza e senza dare alibi ai tanti che lavorano contro le ragioni della coesione. Abbiamo bisogno di una politica di sviluppo nazionale che, come in Germania, liberi risorse vere indirizzandole su infrastrutture, investimenti e lavoro produttivo nelle aree depresse. Deve essere chiaro che investire sulla crescita economica e sociale delle zone e delle fasce deboli non vuol dire promuovere politiche parassitarie. È vero esattamente il contrario. Gli sprechi, le inefficienze e le politiche clientelari si nutrono proprio della incapacità di un territorio di esprimere una rete produttiva e sociale adeguatamente sviluppata. Il paese ha bisogno di pervenire a un patto per la crescita e per la coesione nazionale. Affinché questo possa verificarsi, è necessario che le istituzioni, le forze politiche e lo organizzazioni sociali tornino a cooperare responsabilmente nell'ambito di una più salda riaffermazione del patto di unità e solidarietà nazionale. È la più grande occasione data a tutti per riscattare la propria missione al servizio della democrazia e del bene comune.


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Il sud crocevia

del mondo che cambia Gianni Pittella

è Vice Presidente del Parlamento Europeo

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on la firma posta sotto il documento del ‘’fiscal compact’’ da 25 paesi sui 27 aderenti all’Unione europea, il tormentato processo di messa a punto di misure di contenimento della crisi finanziaria guidato dalla cancelliera Merkel e dalla maggioranza di centrodestra che prevale largamente nel Consiglio, sembra aver raggiunto il suo compimento. Tutto a posto dunque sotto il cielo d’Europa? Non proprio. La crisi non è alle nostre spalle ma finora le scelte ondivaghe e inadeguate imposte dalla Francia e dalla Germania all’Europa hanno prodotto solo una rigorosa disciplina fiscale che costringe i paesi del Club Med a 69


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L’unica possibilità per uscire dal tunnel dettata dall’economia di mercato e dalla matematica, è imboccare rapidamente la strada di uno sviluppo sostenuto e sostenibile come non se ne vede traccia in Eurolandia da due decenni

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rimettere a posto i loro conti con le maniere forti, mentre sollevano una grande questione di democratizzazione dei processi decisionali a livello sovrannazionale. Il rientro forzato dal debito per garantire la sostenibilità del sistema al cospetto dei mercati e l’aumento dei costi del servizio dei titoli sovrani pompato dalla speculazione, hanno messo il quadro economico e sociale dei paesi più esposti in una prospettiva drammatica. La disoccupazione dilaga. Lo stesso modello del welfare europeo, che qualifica la civiltà del diritto dell’Unione davanti al mondo e ne costituisce un pilastro fondativo, rischia di subire profondi stravolgimenti. Il termometro del disagio e della tensione sociale è destinato drammaticamente a salire, anche nel nostro paese. L’unica possibilità per uscire dal tunnel dettata dall’economia di mercato e dalla matematica, è imboccare rapidamente la strada di uno sviluppo sostenuto e sostenibile come non se ne vede traccia in Eurolandia da due decenni. Ma questo richiede politiche e investimenti adeguati a livello continentale che i singoli Stati non hanno la capacità di produrre davanti alla dimensione degli interventi, anche a quei paesi che oggi cantano vittoria e che possono vantare bilanci sani e surplus significativi della bilancia commerciale. Si va delineando in pratica una necessità grande come una casa, realizzare la casa comune europea: una governance economica, fiscale e di bilancio unitaria, per ridurre tutti gli squilibri esistenti e per ottimizzare i fondamentali dell'area euro che sono migliori di Usa e Giappone. Se avessimo già un governo federale la crisi in Europa non ci sarebbe stata. La gestione centralizzata del debito pubblico e un sistema fiscale integrato avrebbero chiuso definitivamente il cerchio intorno all’euro, fornendolo di quella seconda gamba mancante che costituisce la sua debolezza congenita di moneta senza Stato. Un’unica politica monetaria nell’Eurozona presuppone un adeguato livello di convergenza economica tra i vari paesi, che non è affatto un meccanismo automatico insito nella moneta unica al pari del bilanciamento dei tassi, come l’atteggiamento dei mercati nei confronti dei debiti sovrani dei paesi Pics sta dimostrando. Ma l’Unione europea non può contare su meccanismi di riequilibrio tra Stati in crescita e Stati in crisi basati sul trasferimento di fondi federali, sul governo coordinato e solidale delle leve fiscali e attraverso un mercato del lavoro omogeneo e flessibile come negli Stati Uniti.


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Se guardiamo oltreoceano ci rendiamo conto che la crisi economica che ha caratterizzato lo Stato della California, ben più grave in termini assoluti di quella della Grecia, é stata affrontata ed ammortizzata grazie al bilancio federale. Di fatto a 10 anni dall’introduzione dell’euro una sufficiente convergenza economica verso l’assetto competitivo globale si è verificata in parte e solo se si prende l’intera Ue come punto di riferimento. Il rigore per il rigore innesca una spirale aggiustamento-recessioneaggiustamento se non si agisce anche sul denominatore dei rapporti debito-pil e deficit-pil. Quel che sta accadendo alla Grecia ne è la drammatica conferma. La vera garanzia sulla solvibilità dei debiti che può stroncare sul nascere la speculazione è un’unione politica e economica dell'Europa che con una forza maggiore della semplice solidarietà tra i paesi aderenti opponga ai mercati la ragione di un bilancio, di un sistema fiscale, di una gestione del debito comune e soprattutto abbia la capacità di rilanciare la crescita. Ma dove guardare? In ogni periodo della nostra storia ci sono stati luoghi dove l’economia e le attività umane crescono trainandoci verso il futuro: oggi sono Shangai, Brasilia, Bombay. Il luogo dove può crescere l’Europa è il Mezzogiorno d’Italia. La primavera araba ha consolidato, con il suo processo di sia pur contradditoria e incerta democratizzazione, una opportunità straordinaria. I Paesi balcanici rinnovano, nonostante persistenti criticità e ostilità intestine, la loro scommessa europea. Tutto ci dice che dobbiamo cercare la nuova frontiera europea guardando verso il Mediterraneo e i Balcani. Quale territorio se non il Mezzogiorno può affrontare questa sfida, per la sua posizione geografica unica, certo, ma anche per le sue risorse umane e imprenditoriali che attendono solo di essere “messe in rete” e efficientemente collegate con il sistema produttivo e i traffici mondiali per decollare? Si tratta di reti fisiche, come il completamento delle infrastrutture e di reti immateriali, che devono essere potenziate portando la connessione Internet in banda larga in tutto il territorio. In questo scenario cambiare gli assetti della logistica nel nostro paese è determinante. Oggi le navi che attraversano il Mediterraneo si fermano in Spagna, in Portogallo, Marsiglia, o proseguono per il mare del Nord, dando vita nel territorio circostante a

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Tutto ci dice che dobbiamo cercare la nuova frontiera europea guardando verso il Mediterraneo e i Balcani. Quale territorio se non il Mezzogiorno può affrontare questa sfida?

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La struttura produttiva europea deve essere sempre più orientata verso processi a bassa intensità energetica ed elevato valore aggiunto attraverso un alto contenuto tecnologico

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un indotto industriale e commerciale sui semilavorati imponente, preferendo fare un giro più lungo pur di trovare le infrastrutture e l’assistenza necessarie che nel nostro paese mancano. Dunque, occorre che il Mezzogiorno diventi una piattaforma logistica, e non solo, del Mediterraneo. Quanto prima andranno perciò realizzati quegli interventi infrastrutturali indispensabili nell’alta velocità, nei porti di Napoli, Salerno, Gioia Tauro, Brindisi, Taranto e Bari, lungo i grandi corridoi tracciati dall’Unione europea e per i quali ci siamo battuti fino a poche settimane fa per mantenere gli sbocchi fino alla Sicilia. La connessione veloce al web di tutte le imprese e le famiglie del Meridione, sul quale ormai “navigano” la maggior parte dei traffici commerciali, e la trasformazione dei centri urbani in smart cities gestiti dall’informatica è l’altra scommessa epocale ma non impossibile da vincere, perché legata soprattutto a un salto culturale e poi a investimenti che sono già disponibili, come stanno dimostrando con i loro progetti di agenda digitale i ministri Profumo e Barca. Altri settori produttivi da sviluppare in stretta attinenza con le caratteristiche dell’area meridionale sono a portata di mano. La struttura produttiva europea deve essere sempre più orientata verso processi a bassa intensità energetica ed elevato valore aggiunto attraverso un alto contenuto tecnologico. Il ricorso alle fonti rinnovabili, ci dicono ricerche avanzate come un recente studio dell’Università di Berkeley, in California, produce effetti significativi in paesi che hanno consolidato una loro presenza industriale in questi settori, con un aumento significativo del fatturato e dell’occupazione e con un ruolo crescente del fattore ricerca e innovazione. Per il Mezzogiorno la produzione di energie rinnovabili affiancata da campagne per la riconversione edilizia e industriale di edifici e processi produttivi verso modalità a basso consumo energetico, può essere una grande opportunità di sviluppo, al pari della razionalizzazione e la valorizzazione, secondo le linee guida di un piano nazionale e europeo, dei settori tradizionali dell’agroalimentare e del turismo. La nuova geografia del mondo passa dal Mediterraneo e pone nuovi interrogativi sul governo dei flussi migratori, sul dialogo interreligioso, sugli equilibri geoeconomici e politici. Più ad ampio raggio, andrà creato un ponte culturale, politico ed economico tra l’Unione europea e l’area del Mediterraneo,


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tra l’Unione europea e i Balcani e l’Oriente. Il Mezzogiorno deve puntare ad essere protagonista di questa nuova frontiera. La realizzazione di questo sogno, dal quale dipende in gran parte il nostro futuro nello scenario mondiale, richiede politiche di crescita e di investimento decise e adeguate, che l’attuale leadership europea non riesce a elaborare. L’adozione di Eurobond e project bond, nuove strategie di finanziamento dalla Bce e dalla Bei, fonti autonome di entrate come la tassazione delle rendite finanziarie e, sul piano nazionale, una spesa mirata su grandi progetti e meno dispersiva dei fondi strutturali destinati alle politiche di coesione - attraverso la creazione per esempio di una cabina di regia composta da Regioni e governo - sono gli strumenti possibili, che una svolta politica a favore delle forze progressiste impegnate nella prossima tornata elettorale a cominciare da Germania, Francia e Italia, potrebbe rendere presto attuabili.

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Per il Mezzogiorno la produzione di energie rinnovabili affiancata da campagne per la riconversione edilizia e industriale di edifici e processi produttivi verso modalità a basso consumo energetico, può essere una grande opportunità di sviluppo, al pari della razionalizzazione e la valorizzazione, secondo le linee guida di un piano nazionale e europeo, dei settori tradizionali dell’agroalimentare e del turismo

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Le insidie

del "benecomunismo" Eugenio Mazzarella

insegna Filosofia Teoretica all’Università Federico II di Napoli, deputato del Partito Democratico

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n Italia la discussione, in ambito di teoria economica allargata, sui beni comuni è cresciuta ormai nel dibattito pubblico – è un dato di fatto – a proposta politica; a manifesto per uscire, per via di una democrazia partecipata dal basso, dalla crisi certo profonda delle democrazie liberali e dei loro istituti rappresentativi; lasciandosi finalmente alle spalle il modello “mercatista” cui esse – dai reaganomics in poi – hanno fin troppo guardato senza molti sensi di colpa, e senza prudenza; almeno fino alla crisi finanziaria mondiale innestata dai subprime americani. Le esigenze, non poche condivisibili, che questa discussione ha messo in campo (e che per altro incrociano un’autocritica della teoria economica dominante che almeno dal Nobel ad Amartya Sen ha conquistato cittadinanza pubblica e plausibilità scientifica), patiscono però una pesante enfasi ideologica. Un’enfasi ideologica più funzionale ad un’immediata spendibilità sul mercato politico della teoria dei beni comuni da parte di forze impegnate ad ampliare un bacino di consenso potenziale per i loro obiettivi di “rappresentanza” a sinistra del Pd, a soddisfare la richiesta che vi circola di soluzioni semplici (con il rischio alla fine di ridursi a ingrediente di ricette populistiche), che a fare dei beni comuni istituzione discorsiva e politica, dando possibilità concrete ai bisogni sociali che vi prendono parola, come sarebbe necessario. Una richiesta di soluzioni semplici che fa breccia soprattutto al Sud, dove il corto circuito tra un ceto politico spesso senza soluzioni e sempre senza cassa e bisogni sociali sempre più pressanti trova nella teoria dei beni comuni materiali ideologici di sostegno a forme, o

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quanto a meno a prodromi, di leghismo meridionale che ha i suoi Miglio nei teorici dei beni comuni. La recente giornata dedicata ai “beni comuni” lo scorso 28 gennaio a Napoli, affollata di “movimenti” e di esponenti del variegato panorama politico nazionale a sinistra del Pd, da Sel a Italia dei valori, organizzata dal sindaco di Napoli de Magistris, non a caso ha avuto il patrocinio del sindaco di Bari, Emiliano, e del presidente della regione Puglia, Vendola; ma ha dovuto anche registrare la sintomatica defaillance all’ultimo momento dell’annunciato sindaco di Milano, Pisapia, probabilmente poco incline a schierarsi sotto bandiere ideologiche troppo esposte ai venti del “rivendicazionismo” territoriale meridionale, nonostante la caratura nazionale, su cui era stato costruito l’evento. Sarebbe un errore sottostimare, a sinistra, la capacità di mobilitazione ideologica e politica di quello che qualcuno ormai già chiama il “benecomunismo”. L’alone comunitario e moralizzante la crisi dell’individualismo sociale – che vi circola – come risposta ai bisogni delle “persone”, di troppe persone, gli “individui concreti” al di qua delle policies economiche e sociali che possano riguardarli e segnano il passo un po’ dappertutto, non fa fatica a trovare ascolto sociale e seguito politico, in assenza di risposte apprezzabili a breve alla crisi del welfare che larghi strati di popolazione vivono sulla propria pelle, aggravata dal concomitante crollo occupazionale. Questo perché il “benecomunismo” propone una risposta “semplice”, di immediata presa emotiva – direi nel quadro di quell’ “emotivismo” che la Caritas in veritate indica come rischio inquinante la necessità di risposte vere e ponderate alla gravità della crisi in atto nelle relazioni sociali ed economiche – alla crisi del modello di welfare dei paesi occidentali, i già paesi “avanzati” che oggi arretrano negli indicatori economici mondiali sotto l’incalzare delle nuove potenze economiche. Una crisi che ha messo a nudo “la politica” nell’area di crisi delle democrazie liberali, in un modo che ha pochi precedenti, dove classi politiche selezionate per decenni da una politica come amministrazione, fondamentalmente ancorata alla spesa pubblica, dove la ricerca del consenso si è sostanzialmente misurata sulla capacità di rispondere ad esigenze di protezione sociale date dai loro elettori per acquisite una volta per tutte, fosse governata questa spesa da “destra” o da “sinistra”, mostrano di non avere grandi risorse né politiche né di analisi di scenario per gestire una transizione epocale degli assetti economici

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Sarebbe un errore sottostimare, a sinistra, la capacità di mobilitazione ideologica e politica di quello che qualcuno ormai già chiama il “benecomunismo”

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è importante confrontarsi nel merito delle istanze dei “beni comuni”, mostrando come non il riduzionismo ideologico del tema a fini di marketing politico congiunturale all’attuale fibrillazione del quadro della rappresentanza politica, è ciò che meglio può rispondere alle istanze positive, ed in alcuni casi irrefutabili, che vi sono implicate

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mondiali, che ha devastanti riflessi “locali”. I riflessi, in Italia, di questa crisi del welfare sono sotto gli occhi di tutti. La destra l’ha gestita, o ha provato a gestirla, con la denuncia dell’insostenibilità del modello, per il quale non ci sarebbero più i mezzi; e questo imporrebbe di abbandonarne anche i fini generali di protezione sociale a vasto raggio, magari con politiche sostitutive che spingano la società ad un obbligato “fai da te”. Non adeguarsi a questa diagnosi e a questa ricetta, che ha dalla sua difficoltà di cassa importanti delle finanze pubbliche, se si vuole “congiunturali” (anche se magari per uscirne ci vorrà un decennio), ma soprattutto riassetti degli equilibri economici mondiali che sono strutturali, impone alla sinistra una rigorosa manutenzione dei mezzi - risorse economiche, strategie sociali, visioni culturali - per difendere le finalità del modello; per far sì che quelle finalità non divengano inesigibili dagli strati sociali più interessati. Un lavoro di “riforma” del welfare non di poco conto, per stare sugli eufemismi, che tra le altre difficoltà patisce la spina nel fianco di (pseudo) soluzioni “populistiche”, che, giusto il caso del “benecomunismo”, provano ad attrezzarsi sul piano di un collante ideologico generale da offrire ad istanze variegate e dissimili, da una puntuale battaglia ecologista a un largo disagio territoriale e sociale. Proprio per questo è importante confrontarsi nel merito delle istanze dei “beni comuni”, mostrando come non il riduzionismo ideologico del tema a fini di marketing politico congiunturale all’attuale fibrillazione del quadro della rappresentanza politica, è ciò che meglio può rispondere alle istanze positive, ed in alcuni casi irrefutabili, che vi sono implicate. Così l’esigenza di una tutela costituzionale che li difenda meglio dal loro esito di mercato nella sfera della proprietà privata, favorito dalla debolezza degli Stati territoriali nei confronti delle corporations multinazionali, più che proporsi come alternativa di sistema alla proprietà privata, e in definitiva anche come luogo di resistenza alla proprietà pubblica dello Stato, può trovare un esito politico concreto piuttosto nella capacità del discorso pubblico e dell’iniziativa politica di costruzione di una nuova statualità, anche sopranazionale, capace di tener fronte ai nuovi robber barons delle corporations multinazionali, a sostegno della resistenza endogena delle comunità locali e delle reti sociali anche transnazionali alle asimmetrie del mercato. L’idea che possa bastare una tutela partecipativa dal basso


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dei beni comuni, ventilando in essa la possibilità di trovarvi funzioni surrogate della crisi del welfare, tramite il libero accesso ad essi per ogni membro della comunità, pensando che sia possibile insieme “meno mercato” e “meno Stato”, e non si tratti piuttosto di una nuova “regolazione” di Stato e mercato, cui possa concorrere anche il ruolo dei beni comuni, sconta l’ingenuità di pensare ad un’autoconsistenza istituzionale dei commons, restituiti che siano ad una partecipazione indivisa di tutti alle risorse; l’ingenuità di pensare ad una capacità autosufficiente di autoregolamentazione “comunitaria” nell’accesso al “comune” di aggregazioni sociali che non sono più comunità organiche, con rigidi codici comportamentali introiettati, ma comunità indotte da bisogni sociali comuni talora contingenti; se questo mondo c’è stato, e c’è stato, questo è il mondo prima dell’esplosione moderna dei diritti soggettivi e dell’aspirazione ai diritti cresciuti sulla libertà individuale moderna. Questo mondo non tornerà, non può tornare, e non è neanche bene che torni. L’utopia che oggi ci serve è un’utopia riflessiva. Questo va ribadito ai teorici dei “beni comuni”. Il “neomedievalismo” dei processi della globalizzazione e del policentrismo giuridico in essere nel mondo contemporaneo, cui la teoria dei beni comuni guarda come ad un’opportunità di resistenza ad una modernizzazione a scala planetaria dai “caratteri aberranti” – per ricorrere all’aggettivazione di un suo stesso teorico tra i maggiori, Jürgen Habermas – esprime certo un’esigenza sociale diffusa, per l’individuo della globalizzazione, che la comunità torni ad essere per lui un’opportunità per le sue speranze, i suoi timori, le sue aspettative, e la si smetta con una narrazione pubblica e politica che la veda come un impedimento alla sua autorealizzazione “privata”, sotto il segno dell’individualismo proprietario, come troppo a lungo è stato; un’infezione certo passata dall’Occidente al “mondo” globale, ma anche con tanti elementi di “salute” nella sfera della libertà e delle libertà. Ma questo comunitarismo per non essere velleitario deve fare i conti con l’individuo concreto della globalizzazione, che non è l’individuo “resistente” alla modernizzazione delle comunità residuali che non vi hanno avuto ancora accesso da proteggere in “riserve” equo-solidali e delle comunità di quartiere, ma l’individuo intimorito e deluso dalla modernizzazione, che però difficilmente è disponibile a rinunciare alle sue promesse

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Per l’individuo della globalizzazione, la comunità torni ad essere un’opportunità per le sue speranze, i suoi timori, le sue aspettative, e la si smetta con una narrazione pubblica e politica che la veda come un impedimento alla sua autorealizzazione “privata”

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di emancipazione, e di emancipazione da società “affluente”, si sarebbe detto una volta. Non sarà una politica che si risolva in sindacato territoriale “leghista” o in antagonismo sociale di sistema, per quanto appeal ideologico possa procurarsi invocando i “beni comuni”, che potrà difendere, nelle sue finalità, il modello di welfare che abbiamo conosciuto per decenni - decisivo per la tenuta soprattutto degli strati sociali e dei territori più “deboli” nell’attuale temperie di crisi sociale ed economica. L’abbandono della difesa di questo modello all’emotivismo di soluzioni “sostitutive” troppo semplici, o peggio alla sua strumentalizzazione da parte di una politica a impronta populistica, renderebbe più facile, di questo modello, lo smantellamento in nome della necessità dei “conti”. Con buona pace di stringenti aspettative sociali, soprattutto al Sud.

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La Sardegna

da deposito a crocevia Guido Melis

insegna Storia delle Istituzioni Politiche e dell’amministrazione pubblica presso la Scuola speciale per archivisti e bibliotecari dell’ Università di Roma “La Sapienza”, deputato del Partito Democratico

è

stato lo storico francese Lucien Febre a scrivere della Sicilia e della Sardegna che l’una è stata un île-carrefour (un’isola “crocevia”), l’altra – la Sardegna – un’île conservatoire, un’isola “deposito”. La distinzione coglie bene i caratteri storici dell’insularità sarda e consente di chiarire la distanza tra la specifica questione sarda e il contesto più generale della questione meridionale. Île-conservatoire la Sardegna lo è stata per molti secoli, probabilmente sin dall’indomani della dominazione romana sul Mediterraneo, quando cioè ha cessato d’essere “il granaio di Roma”. Hanno concorso all’isolamento molteplici fattori: il primo è stato la geografia: la Sardegna, il suo prolungato apartheid. Poi la conformazione fisica del suo territorio, l’esiguità demografica, l’imperversare perenne (sino al 1943) della malaria, il vero architetto delle società rurali; e naturalmente la conformazione produttiva, nella quale è storicamente prevalso l’agro-pastorale e sono state assenti, o quasi, sia le grandi estensioni del latifondo agrario meridionale che la piccola proprietà produttrice. Ciò almeno sino ad oggi, quando la questione sarda si presenta in termini drammaticamente irrisolti, ma al tempo stesso, forse, inediti. Si sta chiudendo, intanto, la lunga fase storica iniziata nel dopoguerra e maturata nell’industrializzazione per poli e nell’avvento dell’industria avanzata. Tramonta, pur nella disperata resistenza degli ultimi nuclei operai, un intero sistema economico, un modello di sviluppo, persino una cultura basata sulla strategica centralità della fabbrica. Il blocco sociale che negli ultimi anni ’60 e nei ‘70 aveva impresso una radicale accelerazione al processo sardo di 79


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Dopo la fase “eroica” rappresentata dalla giunta di Renato Soru, la Sardegna è scivolata, come dicono tutti gli indici economici, nel gruppo di coda delle regioni italiane

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modernizzazione (tute blu, piccola borghesia urbana o urbanizzata, studenti) tende a disgregarsi. Quel blocco aveva consentito il rovesciamento di antichi equilibri e per la prima volta la piena leadership delle città sulla campagna, nazionalizzando fortemente la vita quotidiana dei sardi. Aveva anche suscitato contraddizioni interne profonde (riflesse al massimo grado dal banditismo degli anni ’60 e ‘70), ma alla fine, consolidandosi, aveva creato un equilibrio sociale e persino culturale diverso. Oggi però, spazzato via l’asse industriale dalla crisi capitalistica, quell’assetto va in frantumi. Con episodi di resistenza anche eroici, ma isolati. E lasciando dietro di sé un malessere profondo, che stenta però a tradursi in forme organizzate e consapevoli di alternativa politica.Sullo sfondo si intravvede la trasformazione avvenuta, anche in Sardegna, nel tessuto sociale stesso, e l’avvento di una egemonia culturale esterna sul complesso della società locale ad opera di grandi emittenti esterne di potere mediatico. Al vecchio blocco progressista succede dunque una disgregazione sociale ma anche culturale nella quale ritornano le tradizionali difese dei gruppi forti (a cominciare dalla rete familistica, mai tramontata) e, nelle classi dirigenti sarde, l’adesione alla politica come mezzo per realizzare interessi personali e di gruppo (magari anche con episodi di corruzione allarmanti). Inutile dire che, in un contesto simile, chi è debole, chi è fuori dalla rete di protezione degli amici e sodali, resta esposto a processi di impoverimento economico e di emarginazione sociale radicali. Sul terreno istituzionale, quel che sta accadendo all’ente Regione, tradizionale punto di riferimento della politica locale, è emblematico. Dopo la fase “eroica” rappresentata dalla giunta di Renato Soru, la Sardegna è scivolata, come dicono tutti gli indici economici, nel gruppo di coda delle regioni italiane. Di più: ha perduto la capacità di interloquire sia con il governo di Roma, sia con i grandi interessi multinazionali dominanti. Chi ha seguito il caso Euroallumina, o quello Alcoa, ma ancor di più il caso Vinyls, sa di cosa parlo. Ma anche nella vertenza dei pastori, nelle loro endemiche esplosioni di rabbia, si può leggere la domanda fondamentale che rimane senza risposta: come si può, se si è deboli economicamente e periferici geograficamente, se si è insomma île-conservatoire, contrastare la deriva imposta da centri decisionali metropolitani potenti, lontani, estranei, inaccessibili? Come si fa a determinare la propria storia partendo dal basso e dalla periferia, quando i


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grandi flussi decisionali si svolgono in alto e in una rete di centri dalla quale, a quanto pare, si resta esclusi? Guardiamo ai dati del problema, innanzitutto: una forte dinamica negativa sul piano demografico, con conseguente accelerazione dei processi di spopolamento; una polarizzazione nei centri urbani maggiori e nei relativi hinterland con l’effetto “ciambella” (tendenza della popolazione e delle attività a disporsi lungo le coste, con spopolamento e degrado delle zone interne); una crisi irreversibile dell’economia industriale; una sofferenza strutturale e probabilmente non contingente del modo di produzione agro-pastorale, con conseguente ulteriore crisi delle campagne; lo spostamento ancora più accentuato di quanto già non accadesse dei centri decisionali fuori della portata dei poteri politico-amministrativi della Regione; l’accentuarsi dell’economia assistita, in tempi nei quali le risorse dei bilanci pubblici tendono a diminuire verticalmente; infine la tendenza a crescere (e non a diminuire) dei vincoli dell’insularità. L’insularità. Appunto da qui conviene ripartire. E da tre domande, che esigono una risposta politica. La prima riguarda l’Europa. È plausibile (lo

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La rivoluzione tecnologica, il rovesciamento delle tradizionali gerarchie tra centri e periferie del mondo insito nell’era dell’informatica, nell’imporsi stesso della rete come tessuto connettivo del mondo contemporaneo, resterà davvero senza effetti?

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dico semplicemente, e forse anche semplicisticamente) che la Sardegna, data la sua posizione geografica quale avamposto d’Europa nel cuore del Mediterraneo, possa giocare un suo ruolo specifico nell’interscambio infraeuropeo (tra Europa del Nord e del Sud) e in quello infracontinentale (tra Europa e Africa)? Che, cioè, spostandosi l’asse della storia di nuovo verso il Sud del mondo come tutto lascia prevedere accada, l’insularità possa trasformarsi da un handicap quale è stata sinora in un atout da giocare sul terreno dell’interconnessione tra paesi e culture diverse? La seconda domanda, conseguente alla prima: l’Africa. Possibile che la rivoluzione che ha preso l’avvio in Nord Africa, a pochi chilometri dalle coste sarde, non profili nuovi scenari anche per la Sardegna? Una politica presbite, non miope, dovrebbe poter intravedere le opportunità che si aprono: flussi migratori più intensi, scambi economici, contaminazioni culturali e persino etniche. Forse persino l’inversione della deriva alla decrescita demografica attraverso processi di incrocio con altre componenti e diverse etnie. Certo: tutto ciò presuppone una “politica mediterranea” della Sardegna: intendo una proiezione dell’economia sarda verso il Nord Africa, un’intensificazione degli scambi economici e culturali verso quei Paesi oggi giunti forse al bivio di un diverso sviluppo, una capacità di ragionare nel quadrante vasto del Sud d’Europa, tenendo d’occhio le istituzioni dell’Unione europea più di quanto oggi non si sia stati capaci di fare. E naturalmente una politica dell’accoglienza verso i flussi migratori futuri, che deve articolarsi in una iniziativa politica verso quelli già insediatisi intanto in Sardegna. La terza domanda, infine: la rivoluzione tecnologica, il rovesciamento delle tradizionali gerarchie tra centri e periferie del mondo insito nell’era dell’informatica, nell’imporsi stesso della rete come tessuto connettivo del mondo contemporaneo, resterà davvero senza effetti? Perché escludere, in quel riassetto globale, anche il rovesciarsi dell’antica condizione di isolamento e la trasformazione dell’île conservatoire in un tipo diverso di île-carrefour, nei cui “porti” protetti (porti digitali, anche) approdino quelle merci immateriali il cui scambio costituisce la trama portante dell’economia di domani? Tre ipotesi di lavoro, insomma. Tre uscite di sicurezza. Praticabili, ma ad una condizione precisa: che nei prossimi anni si affermi in Sardegna una classe dirigente consapevole del suo ruolo, capace di assumere la guida di quei processi. Il che ha molto a che fare coi compiti futuri del Pd.



Altri contributi


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Andreatta, un cristiano con il senso dello Stato. Presentazione dei discorsi parlamentari di Beniamino Andreatta

Giovanni Bazoli

è Presidente del Consiglio di Sorveglianza di Intesa Sanpaolo

discorsi parlamentari ci restituiscono il magistero di Andreatta, come se la sua voce fosse riapparsa. Ed è un magistero che ancora una volta riesce ad emozionare e sorprendere per l’attualità delle valutazioni espresse e delle posizioni da lui assunte, con straordinaria lungimiranza, su tante questioni che ancor oggi si propongono, irrisolte, di fronte al mondo e in particolare al nostro Paese.

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Io credo quindi che si debba essere molto grati a chi ha curato la raccolta e la pubblicazione di questi Discorsi, perché si tratta di una documentazione di altissimo valore, che onora il Parlamento della Repubblica. Abbiamo ascoltato intense ed illuminanti riflessioni e testimonianze suggerite dalla lettura di questi Atti. Non posso fare a meno di osservare, all’inizio di questo mio intervento, che coloro che mi hanno preceduto sono tutti esponenti politici – autorevolissimi esponenti politici 85


ALTRI CONTENUTI – che hanno conosciuto e frequentato Nino Andreatta come colleghi, in Parlamento e al Governo. Diversa è invece la posizione e quindi la chiave di lettura da parte di chi, come me, ha seguito l’attività politica di Andreatta con l’interesse, la vicinanza e talvolta anche la trepidazione di un amico, ma dall’esterno delle Istituzioni, ossia come spettatore. Con una sola eccezione: il caso del Banco Ambrosiano, in cui l’ attività del Ministro si incrociò con il ruolo che io ebbi di parte attiva (o forse, più precisamente, di controparte) nella vicenda. Ricordo e sottolineo questo caso perché la relazione che Andreatta fece in argomento alla Camera dei Deputati, appunto nella sua qualità di Ministro del Tesoro, nelle due sedute del 2 luglio e dell’8 ottobre del 1982, non rappresenta soltanto, come tanti hanno riconosciuto, uno dei documenti parlamentari più coraggiosi e di più alto significato, ma anche perché è proprio dalla vicenda dell’Ambrosiano che è originata l’assiduità dei miei rapporti con Andreatta nei successivi trent’anni. La nostra conoscenza e amicizia risaliva infatti agli anni giovanili e precisamente al

allora non c’è più stata decisione importante di lavoro che io abbia preso senza consultarmi con lui. Negli ultimi anni, poi, dopo la scomparsa del mio unico fratello, la vicinanza si era fatta ancora più stretta: il rapporto era diventato davvero fraterno. Grande è l’ampiezza e la varietà dei temi che sono affrontati nei due volumi di questi Discorsi e che riflettono l’attività svolta da Andreatta lungo il quarto di secolo del suo impegno politico. La documentazione di questi interventi, espressi nella forma e nello stile solenne dei discorsi parlamentari, rappresenta un’occasione unica per cogliere e studiare una summa del suo pensiero. Io mi limiterò qui ad indicare un tratto peculiare della sua figura politica, che emerge nitidamente da questi Discorsi: il suo senso dello Stato. Ma, in via preliminare, voglio accennare ad un profilo di ordine formale che contraddistingue questa documentazione (un profilo formale, ma in questo caso mi pare che davvero si possa affermare che la forma è sostanza). Merita cioè di essere rimarcato l’elevatissimo stile degli interventi in Parlamento di Andreatta. Nonostante che la maggior parte di essi sia stata svolta

Grande è l’ampiezza e la varietà dei temi che sono affrontati nei due volumi di questi Discorsi e che riflettono l’attività svolta da Andreatta lungo il quarto di secolo del suo impegno politico periodo in cui ci incontrammo come assistenti all’Università Cattolica di Milano – io di qualche anno più giovane – prima del suo matrimonio e della sua partenza per l’India, ma la svolta decisiva nella nostra frequentazione avvenne proprio nel 1982 a seguito del mio coinvolgimento nel caso del Banco Ambrosiano. E posso dire che da 86

“a braccio” con invidiabile padronanza linguistica e letteraria, ciascuno di essi risulta preparato metodicamente, sulla base di studi approfonditi e con la ricerca dei migliori espedienti per una comunicazione efficace. Il controllo dei dettagli e il lampo della visione creativa si fondono in uno stile retorico impeccabile, che si fa sempre più


ALTRI CONTENUTI disinvolto nel corso degli anni. E se nei rapporti privati, anche per proteggere la sua naturale timidezza, Andreatta cedeva talvolta alla tentazione di esasperare la battuta tagliente e la provocazione, nel contesto parlamentare egli è sempre misurato, disposto al dialogo e orientato a presentare proposte costruttive. Le sue affermazioni, anche le più radicali, sono sempre fondate su comparazioni con altri Paesi e con dati quantitativi, la cui affidabilità viene certificata con cura attraverso un confronto tra più fonti. E con la stessa fiducia che egli pone nella propria disciplina, l’economia, spesso fa ricorso a pareri tecnici su materie complesse, quali le calamità naturali, gli scenari energetici, le pratiche burocratiche, le tecniche speculative sui mercati. E più volte invita anche le istituzioni, sulla falsariga dei Paesi anglosassoni, a dotarsi di pareri e consigli provenienti da strutture tecniche, essendo convinto che i politici abbiano il dovere morale di preparare e conoscere dettagliatamente i dossier dei quali si

occupano in nome della comunità. Nel 1994 osserva con preoccupazione che “i dilettanti sono sempre pericolosi, e lo sono soprattutto laddove le decisioni sono difficili, come in politica”. È anche interessante osservare come Andreatta abbia introdotto nel dibattito parlamentare il meglio – e anche il linguaggio – della cultura occidentale e degli studi accademici. È curioso, ad esempio, che nei primi discorsi vi sia un ironico accenno al fatto di esser stato rimproverato per aver utilizzato dei termini in inglese nel Parlamento Italiano. Da quel momento in poi, praticamente ad ogni discorso, egli utilizza termini in inglese, che poi diventeranno di uso corrente. Non si trattava di snobberia, ma del fondato proposito di portare all’interno del massimo organo decisionale nazionale i temi e la stessa terminologia delle scienze sociali che lo avevano segnalato originariamente alla vita pubblica. Anche le citazioni fatte da Andreatta nei Discorsi rappresentano un piccolo e mai banale genere letterario a sé stante, che nel complesso rivela la sua avida e variegata

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ALTRI CONTENUTI formazione intellettuale. E non è infrequente imbattersi in passaggi che aprono squarci di vera suggestione letteraria nel ben mezzo di argomentazioni tecniche: come quando, nel commentare il decreto-legge che nel 1992 avvia le privatizzazioni, evoca con un fuggevole e

pensare che anche in questi due volumi i giovani troveranno pagine atte a suscitare in loro grande rispetto e stima per le nostre Istituzioni parlamentari. Lo stile comunicativo di Andreatta e taluni suoi atteggiamenti eccentrici potevano farlo apparire istrionico agli occhi

Queste doti gli hanno consentito di essere libero dalle camicie di forza ideologiche di quegli anni, e nello stesso tempo lo portavano a conformarsi alle dottrine e alle ortodossie prevalenti. Ma la sua totale libertà ed indipendenza intellettuale era disciplinata da due vincoli e criteri rigorosi: la razionalità e la moralità toccante tratto la grande figura di Luigi Sturzo: “uomo che ha vissuto in questi banchi trenta o quarant’anni fa, fragile, bianco, con i suoi grandi occhi” e che aggiunge - “qui ha condotto battaglie solitarie nella incomprensione anche degli uomini che erano stati nel suo partito”; o come quando, nel 1990, per mettere in guardia i colleghi del Governo dagli “assalti alla diligenza” di emendamenti che possono stravolgere il senso di una manovra economica, dice: “Temo le notti e le sere di mezza estate” perché – osserva – “ci sono i tempi della riflessione e i tempi delle follia” ed è prima delle ferie estive che la follia “tende a precipitare l’approvazione di decine di emendamenti”. “A mezz’estate conclude beffardo - girano spiriti malevoli e quindi i risultati possono essere mezzi uomini e mezze bestie, come in Shakespeare”. Se ricordo l’interesse e la passione con cui i miei studenti si avvicinarono ai testi che proposi loro in alcuni corsi - degli Atti dell’Assemblea Costituente, mi pare bello 88

di chi non lo conosceva e gli hanno valso di essere considerato da alcuni come “un impolitico di razza”. Nulla è più lontano dalla realtà. Nei decenni trascorsi in queste aule, spicca proprio per il suo alto senso della politica, come uno dei veri statisti che le hanno attraversate. Non è esagerato dire che nella sua figura può ravvisarsi un vero modello di uomo di Stato, tra i pochi della tradizione politica cattolica dall’Unità ad oggi, e tra i pochissimi che conservino una rilevanza attuale. E vengo così a parlare dell’alto senso dello Stato che ha ispirato l’azione politica di Andreatta, come risulta da questi Discorsi. Tutti sappiamo che egli era naturalmente dotato di una intelligenza brillantissima. Ma ciò che rendeva assolutamente uniche le sue risorse intellettuali era la capacità di coniugare tra loro qualità che è raro trovare compresenti nella stessa persona: creatività e fantasia, da una parte, e attitudine alla verifica analitica e rigorosa dei dati, dall’altra. Capacità di analisi e di sintesi;



ALTRI CONTENUTI competenza e genialità. Queste doti gli hanno consentito di essere libero dalle camicie di forza ideologiche di quegli anni, e nello stesso tempo lo portavano a conformarsi alle dottrine e alle ortodossie prevalenti. Ma la sua totale libertà ed indipendenza intellettuale era disciplinata da due vincoli e criteri rigorosi: la razionalità e la moralità. Una razionalità non portata all’astrattezza, bensì guidata da una visione etica esigente e indirizzata alla ricerca di soluzioni concrete. Spesso Andreatta risultava difficile da interpretare e invece era proprio questa complessità che rendeva incomparabilmente prezioso e ricco il suo contributo di idee. Dalla capacità di coniugare elementi morali e razionali – capacità sicuramente esaltata dalle radici trentine e mitteleuropee – derivava un’altra qualità peculiare di Andreatta: quella di porsi, nell’esaminare ogni questione, nella prospettiva dell’interesse generale, anziché in quella rispondente ad interessi personali o comunque di parte (che invece, più o meno avvertitamente, è quasi sempre la nostra prospettiva). Spiazzava sempre gli interlocutori, mettendo in campo una visione più ampia delle cose. Questo si verificava nelle relazioni private, negli interminabili e indimenticabili colloqui a due, ma era vero, come risulta da questi Atti, anche e soprattutto per l’Andreatta pubblico, che si sentiva sempre impegnato a cercare la soluzione corrispondente ad una visione disinteressata e di lungo periodo. La sua lungimiranza era fondata sull’ostinato perseguimento del “bene comune”. E il “bene comune” (di conio cattolico) si identificava per lui nello Stato. Da qui il senso della laicità, cioè la lealtà del politico cattolico nel servizio allo Stato, che in questi Discorsi si manifesta in innumerevoli casi, a cominciare da quello 90

già citato del Banco Ambrosiano, che vide il Ministro Andreatta rivolgersi alla Santa Sede per chiedere di intervenire e sanzionare la condotta illegale dello I.O.R. Leggendo oggi, a distanza di trent’anni, quel famoso discorso dell’8 ottobre 1982, si rimane peraltro stupiti dello scandalo che suscitò e che colpì pesantemente Andreatta, trattandosi in verità di una relazione (“una cronistoria”) rigorosamente oggettiva, tecnica e circostanziata, perché l’”intimo atteggiamento del Ministro”, come egli precisa in risposta a una interrogazione, era quello di affrontare la materia “come magistratura tecnica e non come soggetto in qualche modo partecipe di un sistema di potere. Questo - dice - “è ciò che dovevo al mio Paese e al mio Parlamento”. Andreatta dimostra dunque che per un credente il seguire la propria coscienza e l’osservare fino in fondo, con totale disinteresse personale, i valori in cui si crede è il modo corretto di vivere la politica da credente e da cittadino. Nell’avvertire in profondità il senso della dignità delle istituzioni pubbliche e democratiche e della responsabilità della politica mi pare indubbio che Andreatta possa essere accomunato a De Gasperi (anche lui trentino) e a Vanoni (non trentino, ma anche lui valligiano). Tra l’altro, va notato che Andreatta manteneva normalmente un geloso pudore nei confronti della sua ispirazione religiosa. Non è un caso che egli lasci la sua profonda e combattuta fede al di fuori del dibattito politico, senza mai citare nei Discorsi le Scritture o il magistero della Chiesa, così spesso e impropriamente richiamato invece dai politici. Ma c’è una solenne eccezione: quando viene offerto un accordo politico al Partito Popolare Italiano sulla base di specifiche


ALTRI CONTENUTI promesse sulla scuola privata e sulla famiglia, Andreatta critica il pulpito ambiguo dal quale proveniva l’offerta, campione di “secolarizzazione”, e spiega la complessità della posizione dei cattolici: “Siamo laici anche perché siamo credenti: sentiamo la tensione dei due termini e la drammaticità del loro incontro. Per questo non banalizziamo – dice – il problema nella

moralità – di ispirazione laica e cristiana – di un uomo politico che non temeva di perdere consensi pur di perseguire con coerenza le cause che riteneva giuste. E allora mi sia consentito concludere ricordando con quale interesse e passione i miei studenti seguirono alcuni corsi in cui feci loro conoscere e studiare gli Atti dell’Assemblea Costituente. Mi pare bello

Oggi, nel tempo di grave crisi per l’Italia e per l’Europa che stiamo vivendo, il senso dello Stato e la lungimiranza di Andreatta - che a suo tempo, peraltro, rimase per lo più isolato e inascoltato, anche dalla sua parte politica - sarebbero quanto mai utili misura di qualche contributo finanziario”. De Gasperi non avrebbe saputo essere più chiaro nel descrivere “un libro scritto a più mani, che racconta del servizio e della dedizione del cattolicesimo democratico alla storia di questo Paese”. Oggi, nel tempo di grave crisi per l’Italia e per l’Europa che stiamo vivendo, il senso dello Stato e la lungimiranza di Andreatta – che a suo tempo, peraltro, rimase per lo più isolato e inascoltato, anche dalla sua parte politica – sarebbero quanto mai utili. Se tante volte, quando era malato, abbiamo pensato che al Paese mancasse la sua visione, siamo ancor di più indotti a pensarlo oggi, dovendo dargli ragione, ancora una volta, drammaticamente in ritardo. Questi Discorsi parlamentari, amorevolmente raccolti e introdotti da uno dei suoi allievi, ci permettono, come dicevo in principio, di ascoltare nuovamente la sua voce e i suoi moniti. E soprattutto di riflettere sulla profonda

pensare che anche in questi due volumi che raccolgono i Discorsi parlamentari di Andreatta i giovani troveranno pagine atte a suscitare in loro rispetto e stima per le nostre Istituzioni parlamentari. Perché l’Italia torni a credere nel proprio futuro un esempio come quello che ci ha lasciato Nino Andreatta non va dimenticato. E proprio in tal senso voglio ritenere valido e profetico un auspicio da lui espresso trentadue anni fa: “È piuttosto difficile fare oggi previsioni sui mutamenti che avverranno nei prossimi anni. Dobbiamo quindi imparare a vincere le sfide internazionali anche in queste condizioni di incertezza, di precarietà, di rischio. Il nostro Paese ha già dimostrato più volte nel passato di possedere grandi capacità di adattamento e di fantasia per reinventare nuovi spazi sui mercati internazionali. E sono certo che anche nei prossimi difficili anni sapremo rispondere con successo a queste nuove sfide”.

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Principio di sussidiarietà e dottrina sociale cristiana Don Antonio Lattuada

insegna Teologia Morale alla Facoltà teologica di Milano

e ragioni per cui il “principio di sussidiarietà” è diventato in tempi recenti oggetto di generale consenso sono molteplici. Ma molteplici – e spesso divergenti, se non opposti – sono anche i modi di intenderlo e di declinarlo nella prassi sociale e politica. Si sa che ogni principio o criterio normativo è sempre esposto al rischio dell’abuso ideologico, come il proverbiale “naso di cera” che di volta in volta può essere piegato secondo i corrispondenti interessi.

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Poiché è comune il riconoscimento del contributo fornito dalla “dottrina sociale della chiesa” alla elaborazione di tale principio, qualche chiarimento circa il suo uso corretto può essere acquisito se esso viene interpretato mantenendone la collocazione nel contesto originario. Alla luce della complessiva dottrina sociale della chiesa è possibile calibrare meglio la sua portata, ma anche i suoi limiti. Al riguardo valgono almeno due considerazioni. Primo, il principio di sussidiarietà è solo un elemento di una più ampia ed articolata costellazione di “principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione”


ALTRI CONTENUTI (Paolo VI, Octogesima adveniens n. 4). Esso non può quindi essere correttamente inteso se viene considerato a prescindere dalle altre istanze normative proposte dalla dottrina sociale della chiesa. Peraltro il consueto elenco di tali istanze, per sua natura, non né esaustivo né definitivo. Esso dipende anche dalle specifiche problematiche imposte dalle

è in grado di svolgere il proprio compito. L’obbligo consiste nel dovere di intervenire – in modo sussidiario (e in nome del “principio di solidarietà”!) – se l’istanza minore non è in grado di esercitare attivamente la propria responsabilità e al fine di produrre le condizioni necessarie perché sia resa capace di farlo. Che il principio di sussidiarietà si determini in concreto come

Il principio di sussidiarietà è solo un elemento di una più ampia ed articolata costellazione di “principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione” concrete vicende storiche e sociali. La “questione ambientale”, per esempio, ha indotto la predicazione sociale della chiesa ad aggiungere ai più antichi principi di “personalità”, “sussidiarietà”, “solidarietà”, “bene comune” e “giustizia”, anche quello di “sostenibilità”. Inoltre simili principi sono tra loro logicamente connessi mediante reciproci rimandi e parziali sovrapposizioni. Il senso di ciascuno può quindi essere determinato solo tenendo conto della connessione con gli altri. Secondo, e più precisamente, il principio di sussidiarietà è inteso dalla dottrina sociale della chiesa come funzione del “principio di personalità”. Esso cioè formula alcune condizioni necessarie all’esercizio della responsabilità personale quale espressione della dignità di ogni essere umano. In tale funzione il principio di sussidiarietà assume i tratti di una spada a due tagli: implica infatti un divieto, ma anche un obbligo. Il divieto concerne il superamento delle proprie competenze da parte delle diverse istanze o istituzioni sociali: la società superiore o maggiore non deve intervenire se quella inferiore o minore

divieto oppure – al contrario – come obbligo non può ovviamente essere dedotto dall’esame del principio stesso. Occorrerà considerare altri aspetti della realtà. Il quadro è reso ulteriormente complesso se si riconosce al principio di sussidiarietà non solo una valenza “deontologica”, in nome del diritto della persona all’esercizio della responsabilità, ma anche una valenza “teleologica” in nome dell’efficienza dell’agire sociale. L’esperienza insegna infatti che quanto più una società è estesa, tanto più pesante ed invadente è il ruolo dei sistemi burocratici, e tanto più rilevanti sono gli effetti collaterali negativi prodotti dalla burocratizzazione (spesso una “eterogenesi dei fini”). Tuttavia la medesima esperienza insegna anche che l’esercizio della responsabilità personale e l’efficienza dell’agire sociale non sono necessariamente convergenti. Non è escluso che di fatto l’affidamento all’iniziativa personale risulti più inefficiente, e viceversa che l’esigenza di efficienza richieda di ridurre lo spazio della responsabilità personale. Nel caso di concorrenza fra le due valenze – 93



ALTRI CONTENUTI deontologica e teleologica – il giudizio circa l’alternativa da preferire, ancora una volta, non può essere immediatamente dedotto dal principio di sussidiarietà. Determinanti saranno altri generi di considerazione. A conclusioni analoghe – e alle quali non è qui possibile accennare – conduce l’esame anche degli altri principi: di solidarietà, di giustizia e soprattutto del bene comune.

ideologica o discrezionale (determinata dall’interesse dominante). Occorre invece riconoscere ai “principi di riflessione” una funzione propriamente ermeneutica. Assieme agli altri principi, quello di sussidiarietà concorre a definire la pertinente precomprensione antropologica, o – parlando con metafore – la prospettiva, o le coordinate, o l’orizzonte di senso entro

L’orientamento è necessario anzitutto per individuare i luoghi critici e ponderare i difetti della situazione. E tuttavia non è sufficiente A proposito di quest’ultimo però, merita di essere ricordata la distinzione, faticosamente acquisita dal dibattito ecclesiale circa il diritto di libertà religiosa, tra il concetto di “bene comune” e quello di “ordine pubblico”, quest’ultimo inteso come complesso delle condizioni necessarie alla realizzazione del bene comune (tra esse la “giustizia”). Tale distinzione contribuisce alla migliore comprensione del principio di sussidiarietà in quanto sostiene la distinzione fra Stato e “società civile” e dispone a definire più precisamente il loro rapporto reciproco e “sussidiario” (cf. Concilio Vaticano II, Dichiarazione Dignitatis humanae, n. 7). Quanto fin qui detto nell’ottica della dottrina sociale della chiesa permette di intendere meglio la pertinenza del ricorso ai “principi di riflessione” e in particolare a quello di sussidiarietà. La loro “applicazione” alle concrete situazioni sociali solleva problemi ancora maggiori di quelli che già si pongono per l’applicazione delle leggi ad opera di pubblici amministratori e giudici. Insostenibile è la concezione “meccanica” di applicazione (quasi si trattasse di un sillogismo pratico), così come quella

cui interpretare e valutare la concreta situazione storica e sociale. Già nell’ambito della pratica medica, la “diagnosi” quale condizione necessaria per la scelta di una adeguata “terapia” non è riducibile alla descrizione più o meno esaustiva dei sintomi. Essa implica un’opera di interpretazione valutante, o di “immaginazione produttiva” (P. Ricoeur) della realtà. Senza un orizzonte non è possibile orientarsi, specialmente in un territorio così complesso ed accidentato come la società contemporanea. L’orientamento è necessario anzitutto per individuare i luoghi critici e ponderare i difetti della situazione. E tuttavia non è sufficiente. Non è dall’orizzonte che si può immediatamente dedurre la diagnosi adeguata della condizione storica, e tanto meno le strategie efficaci di intervento per rimediare ai mali diagnosticati. È necessaria invece una intelligenza “ermeneutica” da cui non si può certo pretendere l’univocità e quindi la certezza del sapere “scientifico”, ma che neppure può essere ridotta alla discrezione arbitraria del pregiudizio ideologico. Dal principio di sussidiarietà non si deve pretendere di più né attendersi di meno di quanto può dare. 95


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De Gasperi, Dossetti e il falso dilemma

statalismo-sussidiarietà Guido Formigoni

insegna Storia Contemporanea all'Università Iulm di Milano

l confronto che si è sviluppato sugli ultimi numeri di «Tamtam» sul rapporto tra sussidiarietà e stato, con interventi di Armillei, Balboni e Ceccanti, è piuttosto interessante. Vorrei qui inserirmi nel dibattito per esprimere qualche critica all’amico Stefano Ceccanti, da modesto cultore di cose storiche. Il punto è questo: mi pare insostenibile, al limite della caricatura, la contrapposizione tra l’eredità positiva del degasperismo liberale e quella negativa del dossettismo statalista. Beninteso, non si tratta di negare il contrasto tra i due cattolici che facevano politica, ma di rappresentarlo correttamente. Da lì poi scaturiranno conseguenze sull’attualità. Storicizzare quel conflitto impone di cogliere il problema generale dell’epoca costituente e poi centrista: come perseguire e realizzare un nuovo modello di stato. Nel dopoguerra infatti la nuova classe dirigente aveva di fronte due scogli: l’eredità della dittatura e la crisi drammatica del capitalismo degli anni Trenta. È chiaro quindi che nessun democratico (tantomeno cristiano) in quegli anni potesse rimpiangere uno Stato-moloch, come anche che nessuno potesse pensare di

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tornare semplicemente al liberalismo prefascista o pre-crisi del 1929. Il liberismo era stato spazzato via dalla storia, esattamente come il totalitarismo. Tanto che in tutta Europa i liberali discutevano di programmazione senza problemi. Che fare in queste contingenze? La soluzione fu trovata in un disegno di Stato democratico e sociale, le cui premesse furono incoativamente disegnate in Costituzione (nella prima parte, difesa come «programmatica» rispetto ai giuristi liberali, che semplicemente non la comprendevano). Il modello costituzionale, cui Dossetti diede come è noto un contributo sostanziale, era piuttosto limpido: il «cuore ideologico» della costituzione, nel rapporto strettissimo tra articolo 2 e 3, configurava uno Stato diverso da quello etico del regime fascista e da ogni totalitarismo (dato che «riconosce e garantisce» i diritti della persona «sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità»), ma uno Stato che assume compiti finalistici propriamente etici (dovendo «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che impediscono «il pieno sviluppo della persona», nell’eguaglianza e nella libertà). Né Stato minimo, né statalismo, quindi. La questione divenne ovviamente più


ALTRI CONTENUTI delicata dopo il 1948, quando l’elettorato diede alla Dc il compito di guidare il governo in posizione del tutto preminente. Alla luce dell’esigente modello costituzionale, come muoversi? Il confronto acceso tra Dossetti e De Gasperi aveva avuto qualche premessa precedente, sul tema della rottura o continuità rispetto alla vecchia classe dirigente, sintomaticamente espresso soprattutto sulla questione della scelta repubblicana. Ma solo su questo nuovo terreno diede luogo a due prospettive politiche propriamente divaricate. De Gasperi si orientò pragmaticamente a un mix di scelte liberiste e interventiste, sostenne la linea anti-inflazionista di Einaudi controllandone peraltro alcune istanze, salvò l’Iri e appoggiò le iniziative di Mattei, avviò la riforma agraria, aprì il commercio internazionale piuttosto

prudentemente, diede spazio dopo il 1950 ai tecnici di formazione nittiana. Soprattutto, però, scelse l’einaudiano Pella per il Tesoro, con una posizione che rappresentava una visione di rigore nei conti pubblici, collegata all’ipotesi di una prosecuzione dell’equilibrio agricolocommerciale-industriale tradizionale del paese, senza nessuna idea di rapida crescita. La critica dei dossettiani si addensò su questo punto: occorreva una politica economica più decisa ed espansionista, che si ponesse l’obiettivo della piena occupazione. Non a caso «Cronache sociali» ospitava gli articoli keynesiani di Federico Caffè. Il che si collegava all’ipotesi di una politica estera dell’Italia più autonoma rispetto agli Stati Uniti, in chiave europea (e su questo punto il pungolo dossettiano divenne convergente con le scelte di De Gasperi dopo il 1950).

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ALTRI CONTENUTI

L’immobilismo della difesa della lira era ritenuto fondamentalmente miope. E tralasciamo «l’incontro tra il dossettismo e il comunismo», che non era proprio in agenda; come tralasciamo l’equivoco di un’opposizione successiva di Dossetti alla Dignitatis Humanae, che non ci fu: la sua era una critica all’argomentazione empirista e individualista, anziché basata sulla Rivelazione, e quindi alle incoerenze di alcuni passaggi del decreto. Ma torniamo al punto. Il tanto evocato e poco studiato discorso di Dossetti ai giuristi cattolici del 1951 va letto su quello sfondo: era la testimonianza conclusiva di una posizione che si sentiva politicamente sconfitta. Affermare un finalismo dello Stato per il bene comune si collegava al chiaro monito per cui «non è in potere dello Stato determinare il fine». Il fine era infatti nelle cose, in una visione del bene comune, peraltro democraticamente sanzionata: «lo Stato non può essere agnostico e limitarsi a garantire il meccanismo delle libertà individuali e assumere gli infiniti fini individuali come proprio fine». La sussidiarietà era prevista, anche se 98

non si usava la parola, tanto che citando l’articolo 2 si affermava «la necessità che lo Stato riconosca la realtà e la consistenza delle persone e di alcune formazioni sociali intermedie specificamente individuate», chiedendo peraltro «un riconoscimento di queste realtà essenziali graduato e gerarchico». Ecco perché Dossetti parlava di «reformatio del corpo sociale» ad opera dello Stato: quest’ultimo doveva assumere «una funzione non solo di mediazione statica tra le forze sociali esistenti, ma di sintesi dinamica». Evitare «l’immunità» tradizionale (liberale) dell’ordinamento economico era solo un aspetto del discorso. L’altro era evitare un interventismo statale spezzettato, episodico e quindi «controperante», perché non ispirato a una lettura della situazione e a una progettazione coerente da parte della politica. La politica democratica dei partiti, si badi bene, anima della democrazia, nell’aspirazione di Dossetti. Statalismo? Anticapitalismo? Mah… E qui arriviamo all’eredità di questa storia per noi. Il quadro generale è


ALTRI CONTENUTI esattamente rovesciato rispetto al dibattito De Gasperi – Dossetti. Oggi soffriamo l’eredità di una delegittimazione del compito sociale dello Stato, a fronte della cosiddetta rivoluzione neoliberista (etichetta ambigua, peraltro). Per dirla meglio, scontiamo quell’insieme di trasformazioni che ha introdotto dagli anni ’70-’80 in tutto l’Occidente un nuovo ciclo politico-economico. In cui la risposta alla crisi del modello fordista si è tradotta nella riduzione voluta del ruolo economico dello stato (sia diretto che regolatore!), collegata alla finanziarizzazione dell’economia e all’esternalizzazione delle produzioni di beni di massa, nella liberalizzazione inedita dei movimenti di capitali che si aggiungeva a quella delle merci (già matura). Da quella rivoluzione ha preso le mosse un ciclo ormai trentennale che ha redistribuito il lavoro e il reddito tra regioni geografiche e settori sociali in modo altamente squilibrato e soprattutto altamente instabile. La crisi finanziaria esplosa nel 2007 e la conseguente Grande stagnazione, con collegata crisi del debito, sono lì a indicare il punto. A fronte della radicalità di questi problemi, come non rendersi conto che il dilemma statalismo-sussidiarietà è

problema sia come lenire alcune delle conseguenze negative del nuovo ciclo storico-economico. È del tutto evidente che non si può immaginare di tornare al dibattito del 1945 sulla programmazione economica. Ma come non porsi il problema politico di intervenire alla base degli squilibri strutturali dell’attuale sistema? Si tratta non di meno che porsi la finalità di ridurre il triplice squilibrio tra i percettori di redditi di diversa provenienza; tra settori produttivi e settori finanziari; tra aree geoeconomiche del capitalismo mondiale, oltre che tra paesi ricchi e poveri. E come farlo, se non con un mix di incentivazioni a comportamenti sociali virtuosi, valorizzazione selettiva delle formazioni sociali e della loro vitalità e scelte democratiche della politica che correggano squilibri, affermando con chiarezza priorità e obiettivi? La sintesi dell’articolo 2 e 3 della costituzione ci può ancora guidare. Il metodo era chiaro nel citato discorso del 1951: «affermare, costruire e diffondere una analisi sociologica che veda tutta la verità del presente, che determini la coscienza dei compiti prossimi, non rinviandoli a decenni: che quindi consenta di fondare una ideologia politica e infine un

A fronte della radicalità di questi problemi, come non rendersi conto che il dilemma statalismo-sussidiarietà è assolutamente inadatto a indicare un via per risolverli? assolutamente inadatto a indicare un via per risolverli? Se vogliamo affrontare i nodi strutturali della crisi del sistema, non ci possiamo più baloccare in divisioni tra socialdemocratici e blairiani, quasi che il

programma di strumentazione giuridica». A mio sommesso avviso, un procedimento che sarebbe tutt’altro che superato. Se ci fossero forze culturali e politiche in grado di applicarlo creativamente all’attualità. 99



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