GIUSEPPE VISENZI

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Una vita sulle moto, prima come pilota negli anni ‘60, poi con la GiVi dagli anni ‘70 fino a oggi


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Edizione privata fuori commercio per il 35° anniversario della GiVi a cura di Wilhelmina, Hendrika e Vincenzo Visenzi. Realizzazione: Lucio Cecchinello, Enrico Barbieri Progetto grafico: Giorgio Meo Redazione: Giuliano Donati Segreteria: Francesca Fiora e Simona Montini Fotografie: Archivio privato Visenzi Prima edizione: Novembre 2013 Printed in Italy Stampata presso le Arti Grafiche Fratantonio di Pachino (Sr)


A Giuseppe Visenzi In un momento così speciale, in un anniversario così importante della sua azienda, ma anche della sua vita, i figli Hendrika e Vincenzo e la moglie Wilhelmina hanno deciso di fare un regalo a Giuseppe che sperano sia altrettanto speciale per lui: un libro sulla sua vita. È una biografia che raccoglie tutto quello che siamo riusciti a trovare e a ricostruire della sua vita straordinaria con le moto e per le moto, fatta di immagini ma anche di racconti che lui stesso ci ha trasmesso a voce in occasioni diverse. È un libro ovviamente dedicato soprattutto all’inizio della sua carriera con le due ruote, quando era un pilota. Giuseppe è stato un ottimo pilota, anche se mai ufficiale, che negli anni ‘60 ha corso e vinto in gare e campionati di livello mondiale. Ha corso dal 1959 al 1970: sono stati anni intensissimi e sicuramente sono stati gli anni in cui tutto è cominciato. Fare il pilota è stato il primo passo della sua carriera professionale, proseguita poi con il negozio e con l’azienda di accessori, la GiVi, ancora oggi sulla cresta dell’onda. Ma in quegli anni è nata intorno a lui, e dura ancora oggi, anche la sua famiglia, la moglie e i due figli. E, dopo 35 anni di lavoro con la sua azienda e 50 anni di matrimonio, sfogliare insieme a lui questo libro, rivedere queste foto, sarà un regalo meraviglioso per tutti. Un grazie da Hendrika, Vincenzo e Wilhelmina Brescia 3 novembre 2013

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La biografia G

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iuseppe Visenzi è nato a Brescia il 22 gennaio 1941. Oggi è un imprenditore di successo, impegnato da 35 anni nella sua azienda GiVi, leader mondiale nel settore degli accessori per le moto. Quando era giovane, però, aveva una piccola officina sotto casa dove si preparava da solo le sue moto per correre, riuscendo nel corso degli anni Sessanta a cogliere diversi successi, anche a livello mondiale, e affermandosi come uno dei piloti privati più forti di quel decennio. Visenzi inizia la sua attività agonistica alla fine degli anni Cinquanta, correndo prima con una Laverda 100 e subito dopo con una Mondial monoalbero. La sua prima gara importante risale al 1958, la Castell’Arquato-Vernasca, vinta con la sua prima Mondial. Dopo aver militato tra i cadetti e gli juniores di quegli anni, dal 1962 fa il suo esordio tra i seniores e si piazza terzo nel campionato italiano delle 125 in sella a una Ducati. Con quella stessa Ducati 125, comprata di seconda mano, ottiene anche i suoi primi punti nel campionato del mondo, arrivando tra l’altro sesto al GP del Belgio, lottando contro i migliori piloti ufficiali di allora, come Mike Hailwood, Luigi Taveri e Jim Redman. Dal 1963 Visenzi, che ha la sua base operativa sempre nella piccola officina in via San Faustino a Brescia, corre in sella a una Honda 125, alla quale affianca nelle cilindrate maggiori una Aermacchi Ala d’Oro 250, sostituendole poi entrambe sul finire degli anni Sessanta con varie altre moto: Montesa 125, Bultaco TSS 250 e Yamaha 250 e 350, con le quali ha ottenuto risultati prestigiosi a livello nazionale (secondo nell’Italiano 125 nel 1964 e 1967, nell’Italiano 250 del 1970 e nell’Italiano

350 del 1967) e mondiale (terzo assoluto nella 250 nel 1969). Nel 1963 partecipa a numerose corse internazionali vincendo a Lione in Francia (125), a Beveren Waas in Belgio (125 e 250), a Portorose in Jugoslavia (125) e a Laxenburg in Austria (250). Molto significativo il quarto posto a Spa-Francorchamps nella classe 125. In Italia è terzo a Imola e Sanremo sempre nella classe 125. Ecco una sua dichiarazione a un giornale specializzato dell’epoca: “Quest’anno facendo grandi sacrifici ho acquistato una Honda 125. Mi è costata un patrimonio. Avrei preferito una moto italiana ma dove potevo trovarla? Con ciò esprimo il mio rammarico per il fatto che la nostra industria non ha pensato di costruire moto da competizione per i piloti privati, così da allevare un buon vivaio di piloti privati che avrebbero potuto fronteggiare le Case delle altre nazioni, che invece si accaparrano i migliori piloti e quelli più giovani e promettenti… Dopo aver avuto alti e bassi quasi sempre a causa delle moto, nel 1963 ho deciso di acquistare un buon mezzo, la Honda, che aveva in listino una 125 da corsa che sembrava fatta apposta per il mio caso. Il sacrificio è stato ingente ma sono migliorate le condizioni di ingaggio ed è fioccato qualche buon premio. Ho avuto anche la gioia di vincere all’estero. Piano piano mi sto tirando su dal pozzo di deficit! Perché dopo 4 anni e mezzo di corse il mio bilancio è ancora in passivo. La moto mi è costata 3.200.000 lire, quando dalle due moto che avevo prima ne ho ricavate soltanto 450.000, mentre gli ingaggi e i premi raccolti ammontano complessivamente a 1 milione e 50.000 lire”. Con le stesse moto Honda e Aermacchi nel 1964 ottiene molti


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Giuseppe con il suo primo motorino nel 1956.


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altri piazzamenti ed è secondo assoluto nel campionato italiano 125 con la Honda. Da ricordare in particolare l’undicesimo posto nel Lightweight Tourist Trophy sull’Isola di Man e soprattutto il quarto posto nel GP delle Nazioni a Monza. Ecco un suo ricordo dell’epoca sulla sua partecipazione al TT. “L’ho corso una volta sola per non farlo mai più. È un circuito che fa ammazzare la gente per far raccogliere denaro agli organizzatori. Trovi curve che non riesci a capire, ti sembrano da fare in seconda e invece si fanno in quarta o viceversa. Non puoi imparare 60 km di circuito. Al TT poi ti devi alzare alle 3,30 di notte perché le prove sono alle 5 del mattino, senza contare che i privati devono aggiustarsi le moto da soli e che in pratica non riesci a dormire perché è sempre chiaro.” A Jičín in Cecoslovacchia vicino a Praga vince la 125 e conquista in coppia con Mandolini la Sei Ore di Monza alla guida, in quell’unica occasione, di una Aermacchi ufficiale. Ancora più intenso il 1965, con le vittorie di Mouscron in Belgio (250) e Tubbergen in Olanda (125), ma soprattutto con gli ottimi piazzamenti nel campionato senior (quarto a Modena nelle 125, secondo a Sanremo nelle 125, quarto a Enna nelle 250, secondo a Vallelunga nelle 125 e così via) e in quelle di Campionato Mondiale (quarto nella 250 al Nürburgring, sesto a Rouen nelle 125 per il GP di Francia, sesto ad Assen sempre nelle 125 e così via). Anche il 1966 è una buona annata per Visenzi, che partecipa a un minor numero di gare mondiali ma intensifica le attività sui circuiti internazionali: sempre con la 125 vince a Piešťany in Cecoslovacchia (250), è quarto a Salisburgo in Austria (125) e terzo a Chimay in Belgio, a Tubbergen in Olanda e a Portorose in Jugoslavia, mentre a Vienna è secondo nella 125 e nella 350. Non mancano ovviamente gli ottimi piazzamenti anche in Italia, come i terzi posti a Modena (250), a Cervia (125) e a Vallelunga (125). Ancora meglio il 1967. Nelle 125 Visenzi è passato a gareggiare con la Montesa dei fratelli Villa e termina al secondo posto nel campionato italiano 125, piazzamento raggiunto anche nella 350, disputato in sella alla Aermacchi. Tra i suoi principali successi ricordiamo: secondo a Vallelunga, terzo a Sanremo in

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125, secondo a Vienna nella 250 e nella 350, settimo nel GP di Olanda in 125, secondo a Nova Gorica (Jugoslavia) in 250 e 500, settimo nel GP delle Nazioni in 350, terzo a Pergusa in 125 e a Zelnice (Jugoslavia) in 350. Nel 1968 riesce ad acquistare una Yamaha bicilindrica per la classe 250 e torna a vincere all’estero a Ziesdorf (Austria) e a Zelnice (Jugoslavia). Ottiene poi i consueti ottimi piazzamenti sia nel campionato italiano sia in quello mondiale: quarto nelle 125 al GP di Olanda e quinto nella 250 nel GP di Germania. Nel 1969 infine, procuratosi una coppia di veloci Yamaha, Visenzi disputa con grande successo i mondiali, confermandosi come uno dei migliori privati anche a livello internazionale, mentre in Italia termina il campionato al quarto posto nella 250 e al quinto nella 350, anche se la moto per correre in questa categoria gli è arrivata in tempo solo per le ultime due delle cinque prove. Il 1969 resta comunque la sua migliore stagione nel Motomondiale, concluso al terzo posto nella classifica finale della 350, dietro a Giacomo Agostini e a Silvio Grassetti, grazie a due podi a Jarama in Spagna e in Finlandia, oltre a un quinto posto a Hockenheim in Germania. Nel 1970, quando ormai ha deciso di smettere con le corse, partecipa ancora con la Yamaha 250 in modo sporadico ad alcune gare in Italia, ottenendo il secondo posto nel campionato italiano, oltre a un secondo posto al circuito di Cesenatico e anche a Prievidza in Cecoslovacchia. Quello stesso anno Visenzi inizia la sua attivitĂ di imprenditore, fondando dapprima la Motomarket Visenzi, in via Piave 113 a Brescia, e poi nel 1978 la GiVi, leader mondiale nella produzione di accessori per moto e scooter.


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Wilhelmina e Giuseppe quando si sono conosciuti nel 1962.

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Wilhelmina e Giuseppe a Tubbergen nel 1965.


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Giuseppe con la Honda nel 1968 a Nagrada Pomurja, accompagnato da Wilhelmina con il piccolo Vincenzo di tre anni.


Wilhelmina con la figlia Hendrika nel 1970 nel negozio Motomarket Visenzi.

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‘50

Le prime gare alla fine degli anni La mia prima moto da corsa

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A 18 anni ero già appassionatissimo di moto, e volevo correre a tutti i costi, ma non avevo davvero i mezzi economici per farlo. Non potevo permettermi di comprare una moto seria in nessun modo. In un certo senso tutta la mia carriera di pilota è stata caratterizzata dai sacrifici e dai salti mortali per far quadrare i conti, dal 1959 alla prima gara fino alla fine della carriera nel 1970, quando ho smesso con le gare. Quando ero giovane però sognavo talmente tanto di poter correre che alla fine in qualche modo ci sono riuscito. La mia prima occasione me la sono cercata: un bel giorno il mio barbiere che ogni tanto veniva nella mia officina voleva vendere la sua Laverda 100. All’epoca il mio sogno era fare il campionato cadetti 125, che si svolgeva in quei giorni all’aeroporto di Modena. Era ancora marzo e faceva molto freddo. Pensando di approfittare dell’occasione, ho chiesto al barbiere se poteva lasciare nella mia officina la sua Laverda 100 per farla vedere a un mio cliente. A quel punto era fatta: la moto che avevo sempre cercato e sognato era lì davanti a me ferma per tutto il weekend, con la gara che si sarebbe svolta la domenica. La mia idea era molto semplice: vado a correre e poi gliela riporto come se niente fosse. Detto, fatto. Ci sono andato a correre senza dire niente al proprietario. Sono andato fino a Modena sotto la pioggia e sotto la pioggia ho fatto le prove e anche la gara, oltre al ritorno a casa, sempre con addosso la stessa tuta e senza potermi cambiare. Quando sono

tornato ero tutto nero per il colore della pelle che si stingeva sotto l’acqua. Ma ero contento: ho corso con la Laverda 100 contro le Ducati 125 e non sono arrivato ultimo. In più tutto è andato bene e la moto è tornata a casa sana e salva, tanto che al lunedì l’ho restituita al barbiere senza dirgli niente. Poi qualcuno ha fatto la spia e lui è venuto a saperlo, ma non si è arrabbiato, anzi era anche contento che la sua moto avesse corso nel campionato italiano. Non ci siamo visti mai più.

La mia prima Mondial e la mia prima cambiale Nel 1959 a Imola si svolgeva il campionato italiano della 125 della categoria Senior. Noi eravamo cadetti ma per passione andavamo comunque a vederli. Per noi quelli erano i veri piloti. Tra loro c’era anche un pilota con una Mondial: era veramente marcia, anche se a me sembrava bellissima. Con l’ignoranza della gioventù, tra me e me mi sono detto: “caspita, se lui corre qui con questa moto, in un campionato vero, posso correrci anche io tra i cadetti e vincere”. Ma c’era il solito problema: i soldi non li avevo e lui mi chiedeva 100 mila lire. Come faccio? Mi sono sfogato con il povero Zucchi, che correva anche lui con una Ducati: “mi piacerebbe comprare quella moto ma non ho i soldi, dove le trovo 100 mila lire? Non le ho”. Lui cosa fa? Mi fa una cambiale. È così che ho firmato la prima cambiale della mia vita. Lui mi ha detto: “non ti preoccupare, se per


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Qui e nelle pagine successive, Giuseppe Visenzi alla sua prima gara con la Laverda 100 sul circuito di Modena il 19 marzo del 1959.


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caso non ce la farai a pagarla vedremo cosa fare…” È stata la mia prima disavventura, che mi ha rovinato la gioventù: quella Mondial monoalbero 125 era già un bidone di moto in sé e nelle mani di quel pilota era sicuramente peggiorata. Io però ero giovane e pieno di speranze: l’ho portata nella mia officina e l’ho messa a posto per fare subito la prima gara. Era una delle tante gare in salita che si svolgevano dalle parti di Genova, forse il monte Turchino o forse il passo dei Giovi. Sono partito con la moto e una cassettina con i ferri, viaggiando in treno fino a Genova e poi andando a piedi su fino al passo, perché su strada quella moto non si poteva guidare e nemmeno accenderla. Con lo scarico libero faceva troppo rumore. Qualche volta trovavo qualcuno che mi dava un passaggio ma per il resto camminavo per ore da solo, anche sotto la pioggia… Con quella Mondial comunque ho avuto la mia prima soddisfazione, vincendo la Lugagnano-Vernasca, una gara in salita vicino a Piacenza.

In gara a Pontedecimo Giovi Sempre alla fine degli anni Cinquanta, in una delle tante gare in salita dalle parti di Genova, ci sono andato con Adelmo Mandolini che aveva una Ducati, una di quelle serie. Siccome lui aveva il furgone mi ha dato un passaggio. Quando siamo arrivati su a Pontedecimo Giovi pioveva. Nonostante questo, ho sorpreso tutti e ho fatto il miglior tempo assoluto nelle prove della mattina. Mandolini, che di solito con la sua Ducati andava molto più forte di me con la Mondial, quando è arrivato su in cima non ci credeva. Mi ha detto: “ma no, si sono sbagliati, dai, non è possibile!” Quella cosa mi ha messo addosso talmente tanta paura e stress che al pomeriggio sono andato più piano e sono arrivato solo secondo o terzo, non ricordo, mentre lui chiaramente è arrivato primo.


Giuseppe Visenzi in azione sul circuito di Morcia di Romagna con la sua Mondial nel 1959.

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‘60

Gli anni 24

e le trasferte per il campionato del mondo Con i Pattoni in fuga da Genova Nel 1960 è iniziata la mia amicizia con i fratelli Pattoni di Milano. Loro volevano trasformare la mia Mondial in una bialbero e farci un sacco di lavori. Così, oltre al fatto che dovevo lavorare per pagare la famosa cambiale, dove andavano praticamente tutti i soldi che guadagnavo con le corse, sono cominciate anche le spese per i lavori con i Pattoni. Loro erano bravi e molto appassionati: tanto che mi hanno trascinato dentro nella loro officina e io non me lo sono fatto dire due volte. Nonostante la passione e tutte quelle ore di lavoro, però, la moto non andava mai bene ed

era difficilissimo da sistemare o mettere a punto per le gare. Alla fine, con la moto sistemata dai fratelli Pattoni, sono andato di nuovo a fare una gara in salita, sempre in treno fino a Genova. Quella volta Mandolini non c’era, ma c’era Luciano Spinello. Ho fatto le prove e poi la gara e tutto sembrava andare bene. Pensavo di arrivare secondo o terzo, e invece ho sfasciato tutto. Ho rotto il motore. Ero nei guai, perché non avevo vinto nessun premio, avevo rotto la moto e non avevo più soldi. Sono tornato in albergo sconsolato e vedendo che la mia stanza era al primo piano dell’albergo, ho deciso di saltare giù dalla finestra e di scappare senza


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Giuseppe Visenzi a Monza, vincitore della 6 ore sulla Aermacchi 250.


pagare il conto. Anni dopo, ogni volta che passavo per andare a Rapallo, dall’autostrada vedevo dietro una curva la zona in cui c’era l’albergo. Volevo fermarmi e saldare quel conto lasciato in sospeso, ma non ne ho mai avuto il coraggio. Non so se mi avrebbero creduto. Ma non è mica finita così. Una volta scappato dall’albergo mi sono ritrovato in stazione senza nemmeno i soldi per il biglietto del treno. Per fortuna Spinello, che mi aveva trainato con la moto fino a lì, mi ha offerto un passaggio con la sua moto: allora ho spedito la mia moto col treno, sono salito con lui e siamo partiti. Lui senza più dire niente e senza mai fermarsi, di notte e sotto la pioggia, è arrivato dritto fino a Milano, alla stazione Centrale, dove mi ha lasciato alle quattro del mattino, sempre sotto l’acqua. Ero bagnato fino al midollo. Mi sono ritrovato come i barboni in stazione all’alba, con un freddo pazzesco e senza sapere come fare. Poi in qualche modo sono riuscito a prendere il treno fino a Brescia e a tornare a casa.

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Il millerighe preso in prestito Sempre nel 1960 e sempre con i Pattoni sono andato a fare una gara in salita ad Aosta. Non ricordo se ci sono andato in treno o se mi hanno portato loro. Mi ricordo però che nelle prove mi si è rotto il millerighe della leva del cambio. Ero disperato e non c’era verso di ripararlo: per fortuna ho visto che c’era una Mondial che aveva la messa in moto con lo stesso millerighe. Con Spinello allora, di nascosto e senza dire niente a nessuno, ce lo siamo presi, smontandolo velocissimi mentre lui controllava che non arrivasse nessuno. Poi l’abbiamo restituito, ma questo resta penso l’episodio più disperato della mia storia di pilota, all’epoca della mia prima Mondial.

La mia prima Ducati Nel 1961, fortunatamente, dopo tanti soldi sprecati e buttati via pur non avendoli, sono riuscito a comprarmi una moto nuova. Tutto è cominciato sempre ad Aosta,


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Giuseppe Visenzi al Gran Premio di Germania del 1967 con il numero 70 guida un gruppetto di piloti mentre sopraggiunge Giacomo Agostini.


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Giuseppe Visenzi al GP di Imola del 1965. Lui è sulla Honda 125 numero 22 dietro a Bruno Spaggiari con la MV Agusta numero 54 e davanti a Luigi Taveri con la Honda numero 25.


quando mi è giunta la voce di un pilota, un certo Muscio, che aveva litigato con la sua fidanzata. Erano due fratelli e uno di loro aveva una Ducati che andava molto forte. Fatto sta che a questo Muscio con la Ducati la fidanzata aveva dato l’out out: o lei o la moto. Lui non ha perso tempo: dalla sera alla mattina ha messo in vendita la sua moto, una bella Ducati 125. Allora non sono nemmeno venuto a casa: la moto era a Novara e sono andato subito lì a prenderla. Sempre con le cambiali ovviamente. Lui era deciso: “La moto non la voglio più vedere”. E io ero felice, perché finalmente potevo avere una moto come gli altri. Ero davvero al settimo cielo, carico, pieno di adrenalina: ho portato a casa la moto e l’ho messa subito sul banchetto della mia officina per prepararla in vista della prima gara della domenica successiva, mi pare la Piacenza-Bobbio al Passo del Penice. Quando sono arrivato a Piacenza, ho scaricato la moto e ho fatto le prove. Niente: la moto non andava. Sembrava ferma, come se andasse pianissimo. Invece guardando il cronometro ho scoperto che era solo una mia impressione. Essendo abituato alla Mondial, che anche se andava pianissimo sembrava chissà che cosa, quella Ducati mi sembrava ferma: e invece andava fortissimo! Tant’è che ho fatto subito il primo tempo in prova e anche il primo posto in gara. È andata così per 4 o 5 gare di fila. Ero contento perché finalmente guadagnavo i soldi per pagare le rate della cambiale. Tra i premi gara mi ricordo quello offerto dalle catene Fossati, che dava 40 mila lire per ogni vittoria ai piloti che usavano le sue catene. Non era uno sponsor come quelli di oggi, comunque con quei soldi alla fine mi sono pagato la moto.

La Honda 125: un gioiello La Honda 125 era un gioiello e nel 1963 sono stato tra i primi piloti privati in Europa ad averla. Con la Honda ero a premio in tutte le gare. La Honda mi ha fatto sempre guadagnare, anche quando ho smesso con le corse e mi sono messo a vendere moto. Ma me la sono dovuta sudare anche quella. La mia Honda 125 l’ho dovuta prenotare in Olanda. Poi al momento di riceverla, quando ero andato su anche a trovare mia moglie, a Rotterdam mi hanno fatto il bidone. L’avevo ordinata tramite Luigi Taveri e proprio tramite lui alla fine mi fatto sapere che la moto non sarebbe arrivata in Olanda ma ad Amburgo. Mi sono precipitato quindi in Germania, al porto di Amburgo per cercare la nave e tirarla giù di persona. Il problema era che non avevo i documenti. Allora mi è venuta questa idea: ho telefonato a Brescia e ho chiesto a un amico giornalista di andare al Touring Club a farsi un libretto per una Honda e di spedirmelo. Non so come ha fatto ad arrivare in tempo ma alla fine ad Amburgo avevo questo libretto in tasca. Per l’acquisto mi aveva finanziato un amico, un certo Moretti del motoclub. Mi aveva prestato un milione di lire, che poi ho restituito tutto fino all’ultimo. Ho sballato la moto sulla nave e l’ho tirata giù a mano, mostrando al doganiere il libretto fatto a Milano: ed è andato tutto bene. Sballata e sdoganata la moto, dovevo però trovare il modo di portarla a casa. Alla Honda di Amburgo per fortuna ho incontrato un pilota svedese con un furgone strapieno delle sue moto. Quando gli ho chiesto dove era diretto mi ha risposto: “vado a correre a Tubbergen in

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Una lettera scritta dal Conte Agusta al papà di Wilhelmina nel 1964. Si parla tra l’altro della possibilità di un ingaggio nella squadra MV per Giuseppe Visenzi.


Olanda”. Era perfetto ho pensato, e gli ho chiesto subito di darmi un passaggio. Il problema era che lui aveva già tre moto sul furgone, che era assolutamente strapieno. Non c’era verso di caricare anche la mia, che sarebbe stata la quarta moto. Quella volta però non mi sono arreso e mi sono offerto di smontare le moto per farcele stare tutte nel suo furgone. E le ho smontate davvero, lì nel porto di Amburgo. Motore, telaio, forcelle ecc. Così siamo partiti, anche se ormai erano le dieci di sera ed eravamo affamati come lupi e senza una lira in tasca. Durante il viaggio, per restare svegli, ci facevamo il tè sempre con la stessa bustina… Siamo arrivati alla dogana olandese alle quattro di notte e il doganiere, come temevamo, ha voluto aprire il furgone per vedere che cosa trasportavamo. Quando ha visto la marea di pezzi che c’era lì dentro si è spaventato e ci ha lasciato andare, forse per pietà. Alle sei di mattina siamo arrivati a Tubbergen e abbiamo scaricato tutto, poi io mi sono messo a rimontare le moto. Peccato che non avessi con me né casco né tuta. Ma ormai che ero arrivato fino a lì volevo fare la gara anche io, quindi ho cercato qualcuno che mi potesse prestare la tuta e il casco. Ho visto un ragazzo con i calzoni di pelle alla zuava e un ridicolo caschetto a noce arancione, davvero orrendo, che per di più mi stavano anche grandissimi. “Prestami i pantaloni e il casco” gli ho detto. All’inizio ha cercato di dire di no ma poi ha ceduto. Nel frattempo ho fatto i salti mortali per ottenere l’iscrizione alla gara e alla fine per il

rotto della cuffia sono riuscito a schierarmi alla partenza. In prova mi sono piazzato subito secondo, anche se ero vestito in un modo pazzesco, con quei pantaloni di tre taglie più grandi e quel caschetto assurdo. In gara sono rimasto fregato in un modo ridicolo. Forse perché hanno visto come ero vestito. Quei pantaloni mi stavano talmente larghi che sembravo un burattino. Fatto sta che, siccome la moto non partiva, ho chiesto consiglio a un pilota che aveva una Honda come la mia. Lui mi ha detto di non ingolfarla. Per di più la partenza, che all’epoca era a spinta, era anche in salita. Dando retta a quel tizio, alla fine, al via sono partito ultimo. Ho spinto per un sacco di tempo e la moto non partiva. La verità invece, ma l’ho scoperto poi, era che bisognava proprio ingolfarla fino a far uscire la benzina dalle marmitte, e allora la moto partiva al primo colpo. Lui invece mi ha detto il contrario e lo ha fatto apposta per levarmi di mezzo. È riuscito a vincere in questo modo, ma se avessi avuto due o tre giri in più l’avrei ripreso. All’arrivo sono andato a dirgliene quattro, anche se poi siamo diventati amici. Tant’è che per tornare è stato lui a darmi un passaggio fino al Brennero e da lì mi sono venuti a prendere da casa. Con la Honda 125 comunque mi sono sempre piazzato bene, anche se nel mondiale i piloti ufficiali avevano moto a sei marce da 80 kg, come la MV di Spaggiari che ne pesava 75, mentre la mia pesava 120 kg. Certo: se avessi avuto una moto ufficiale sarebbe stato diverso.

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Il ricordo di Ruggero Mazza, meccanico MV Agusta

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Sarà stato il ‘63 o il ’64. Io correvo già con la Honda 125, che però non riuscivo mai a mettere a punto. Non era facile. Un giorno Ruggero Mazza, che era il meccanico della MV Agusta di Agostini, ed era il più bravo di tutti oltre che un vero appassionato, mentre mi sentiva ai box che mi lamentavo della mia Honda che era sempre la più lenta, mi ha detto: “tirala giù che la guardiamo”. Probabilmente voleva vedere come era fatto il 4 valvole dei giapponesi e voleva imparare. Fatto sta che quel giorno mi ha messo a punto la moto in un modo spettacolare: è cambiato tutto. Mazza aveva una mano d’oro. A Spa sono riuscito a stare in scia ai più forti. In quegli anni avevo anche una Aermacchi Ala d’Oro 350, che ogni anno compravo, preparavo e usavo per fare le gare del campionato italiano e anche mondiale. Poi a fine stagione la rivendevo, e riuscivo sempre a riavere tutti i soldi che ci avevo speso, e a volte anche di più.

L’australiano che mangiava le farfalle Nel 1967 avevo la Aermacchi 250 e la Honda 125. Quell’anno sono andato a correre anche il GP di Imatra in Finlandia. Un lungo viaggio che ho fatto sempre da solo. Del resto non ho mai avuto un meccanico. All’epoca il corridore privato si doveva fare tutto da solo: doveva sistemare e riparare la moto, fare l’iscrizione, caricare e scaricare la moto e ovviamente viaggiare e fare la gara. E naturalmente quei viaggi erano la cosa più costosa, faticosa e piena di imprevisti che c’era, gara a parte. Per Imatra per esempio ci voleva una settimana di viaggio. Senza contare che poi lì dormivo in campeggio

dentro il furgone. Facevamo una vita che i piloti di oggi non si immaginano nemmeno. Altro che Hospitality e ombrelline! A un certo punto quando ero lì ho visto arrivare Giacomo Agostini con la squadra della MV Agusta: loro viaggiavano con l’aereo e prendevano il taxi, o un camioncino a noleggio con l’autista, per arrivare in pista. Essendo amico dei meccanici di Ago, e visto che anche loro sapevano che non avevo molte risorse per pagarmi la trasferta, Ruggero Mazza, che era il top dei meccanici MV, il giorno della premiazione mi ha fatto una proposta: “perché non me la porti tu la moto? Così ci guadagni anche tu qualcosa”. Per me ovviamente era una grande opportunità di guadagnare dei bei soldi e quindi ho accettato con entusiasmo. Ho deciso quindi di partire presto e ancora a notte fonda, nel campeggio, ho cercato di mettere in moto il furgoncino Ford dove avevo caricato la moto di Ago insieme alla mia. Ma niente: il camioncino ha fatto un gran botto che ha svegliato tutti ed è ammutolito. Ho capito che ero veramente nei guai. Come potevo fare? Ho chiamato Mazza e ho chiesto aiuto a lui. Io non ci capivo molto del furgone, ma mi sembrava di aver rotto l’albero motore e che andasse a tre cilindri. “Non preoccuparti, domani mattina gli diamo una occhiata. Ci troviamo alle sei.” Io intanto, a notte fonda, pensando di dover cambiare l’albero motore, mi sono messo a cercare qualcuno che mi potesse dare una mano, andando in giro tra i piloti inglesi che erano con me in campeggio: gli inglesi hanno sempre avuto una mentalità speciale in queste cose, sono sempre stati molto disponibili. E infatti a un certo punto


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Giuseppe Visenzi vincitore sul circuito internazionale di Vienna nel 1966, su Aermacchi 250.


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mi hanno detto che c’era un australiano che mi poteva aiutare in una tendina da solo. Era uno che faceva il passeggero sui sidecar e che non aveva i soldi nemmeno per mangiare perché il suo pilota se ne era andato mollandolo lì da solo con la tuta addosso e senza niente. L’ho trovato tutto solo in una tenda che dormiva. Ho dovuto tirarlo fuori per le gambe per svegliarlo. Gli ho spiegato in qualche modo il problema e lui ovviamente ha accettato subito di aiutarmi in cambio di un passaggio. Lui doveva andare in Olanda ma era senza soldi e senza moto, per cui era ben felice di aiutarmi. “No problem” mi ha detto, e poco dopo è arrivato da me con la sua tuta da pilota sporca in un modo che non potete nemmeno immaginare. Era pronto per l’avventura: per fortuna poi è arrivato anche Mazza e con la luce del sole, aprendo il cofano del furgone, abbiamo scoperto che si era spaccata solo una pala della ventola. Mazza ha preso una pinza, ha spaccato anche l’altra e il furgoncino è ripartito come se nulla fosse. A quel punto io e l’australiano siamo partiti in direzione di Helsinki per tornare a casa. Tutto sembrava andare bene: avevamo finalmente un po’ di soldi in mano e potevamo fare le cose con calma. Pian


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Giuseppe Visenzi sulla Ducati 125 al circuito di Rimini nel 1962.


Giuseppe Visenzi al GP di Monza del 1964 sulla Benelli 250 monocilindrica. Dietro di lui Derek Minter sulla Benelli 250 quattro cilindri.

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piano andiamo verso il traghetto per la Svezia. Siccome era estate il Ford si era riempito di quei patacconi gialli che si spiaccicavano sul parabrezza. Erano farfalle. A un certo punto l’australiano se ne è accorto ed è uscito con l’idea più originale che avessi mai sentito: “Fermati, fermati! Andiamo al supermercato, prendo il pane e ci spalmo sopra queste farfalle, così finalmente mangiamo: sono buonissime”. “Ma abbiamo i soldi” gli dico io, “possiamo mangiare qualcosa di meglio insieme al pane!” Niente: lui era abituato così. Io ovviamente mi sono preso gli affettati. E anche una bottiglia di vodka perché avevo la febbre e a quell’epoca te la dovevi curare in quel modo. Abbiamo passato tutta la notte sulla nave per la Svezia e poi, dopo migliaia di chilometri di Svezia, siamo arrivati a Stoccolma. Lì però si è spaccata di nuovo una pala della ventola del radiatore, ma questa volta dal furgone è uscita una grande nuvola di fumo, perché la pala rotta aveva forato il radiatore e rotto la pompa dell’acqua. Eravamo nei sobborghi di Stoccolma e ci siamo fermati per spingere il furgone sul marciapiede. Fortuna vuole che proprio lì all’angolo ci fosse una officina Ford, che però stava chiudendo perché era ormai sera. Io e l’australiano, lui sempre tutto sporco con la sua tuta da pilota di sidecar, ci siamo presentati nell’officina con

la pompa del radiatore in mano. Loro quando hanno visto l’australiano con la tuta sporchissima si sono messi a ridere, cercando di mandarci via. L’australiano però è stato bravissimo e non si è lasciato scoraggiare. È entrato negli uffici per andare dal direttore e gli ha chiesto in inglese di aiutarci. Niente da fare. Non volevano aiutarci. Di fronte a quel rifiuto così evidente, e anche motivato, io mi ero già rassegnato. Lui invece se ne è uscito con un vero colpo di genio e ha detto al direttore che lui da lì non si sarebbe più mosso finché qualcuno non gli avesse fatto saldare la pompa. Il direttore ha cercato di resistere e di farlo andar via, mentre io mi vergognavo della situazione, ma poi per la disperazione ha chiamato un meccanico e gli ha detto di dargli la saldatrice. Detto, fatto: l’australiano si è fatto dare gli strumenti e si è messo lui a fare le saldature. Era bravissimo. Devo dire che è solo per merito suo se siamo riusciti a proseguire e a finire quel viaggio. L’australiano poi l’ho lasciato in Olanda e io da lì, dopo aver consegnato le moto, ho ripreso il treno e sono tornato. Non l’ho più visto e mi dispiace. Ripenso ancora a lui ogni tanto, soprattutto quando vedo le hospitality e i motorhome che ci sono oggi nei box della MotoGP. La vita dei piloti a quell’epoca era decisamente diversa.

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L’incidente in Finlandia e gli ultimi anni da pilota Da Helsinki con il bacino rotto L’infortunio più grave della mia carriera l’ho avuto in Finlandia, quando mi sono rotto il bacino. Dopo il Gran Premio valido per il mondiale del 1969 siamo andati tutti a fare una gara extra, a Keimola nei pressi di Helsinki, dove però davano 400 mila lire al vincitore. Siccome ho avuto problemi per cambiare i rapporti della mia Yamaha 350,

alla fine sono anche partito con le mani unte. Comunque al terzo giro mi è caduto un pilota davanti, che ha perso olio, e io sono finito contro il guardrail. Sembravo morto. Mi hanno portato in ospedale. Un male da morire. Invece dopo un po’ sono arrivati cinque o sei medici a dirmi che potevo andare a casa e che lì non mi avrebbero fatto più niente. Io ho cercato di scendere dal letto e ovviamente


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Giuseppe con il suo furgone Ford negli anni ‘60: una volta i piloti privati viaggiavano così, in furgone o con l’auto e la roulotte. A volte da soli a volte con un amico che li accompagnava...

sono caduto immediatamente per terra; ma loro non si sono fatti impressionare e mi hanno dimesso così come mi trovavo, in mutande, perché la tuta me l’avevano fatta a pezzi quando ero arrivato in ospedale. Pensa che ero in Finlandia, non parlavo inglese e non avevo né vestiti né soldi. Per fortuna mi hanno chiamato un taxi, al quale ho promesso di pagare quando sarei stato nel mio albergo. Il tassista stesso mi ha portato a spalle dentro la hall dell’albergo in mutande e poi gli amici mi hanno portato

su in camera e lì finalmente ho confessato al tassista che non avevo i soldi per pagarlo. Ho dovuto dire quella bugia, non potevo stare fuori dall’ospedale in mutande… Alla fine mi hanno piantato tutti lì da solo nel letto e sono andati a fare il loro lavoro. Alla sera il meccanico Fanali per fortuna si è ricordato di me ed è venuto ad aiutarmi ad andare in bagno. Alla fine però quella volta è stato Giacomo Agostini a salvarmi, aiutandomi a farmi avere l’ingaggio lo stesso, anche


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se non avevo finito la gara, e portandomi in aereo insieme a loro della MV Agusta. Non solo: una volta atterrati a Milano mi ha accompagnato fino a Brescia in macchina e davanti a casa mi ha preso in spalla e mi ha portato fin sulla porta. Quando ha suonato il campanello è apparsa mia moglie, che ovviamente non sapeva nulla ed è rimasta sconvolta.

Vivo per miracolo e pronto per una nuova vita Il bello è venuto fuori dopo l’incidente di Helsinki e la frattura del bacino: tutta la moto e le mie cose erano rimaste in Finlandia. Le avevo affidate a un inglese: “Vedi se riesci a portarmele”. Poi non l’ho più sentito per giorni e ho pensato male: “questa volta mi ha fregato.


Giuseppe e Wilhelmina nel 1964.

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La Citroën e le mie due moto sono perdute”. Invece, a Imola, dove mi ero fatto portare a vedere la gara ci ho trovato proprio l’inglese che mi ha detto che aveva lasciato la macchina e tutto quanto in custodia in un posto sicuro. Ed era vero. Mi sono informato. Per andarle a prendere ho chiesto aiuto al mio amico Maestroni. Lui è andato su in treno ed è tornato a casa con la Citroën e le moto. Ho fatto in tempo a fare l’ultima gara in Jugoslavia, anche se ero ancora mezzo rotto e dovevo farmi aiutare per far partire la moto. In gara però non si poteva, per cui sono partito

ultimo e via via sono andato a prenderli tutti. Nella furia della rimonta però mi sono fatto prendere la mano. Sono risalito fino al terzo posto. In un tornante in salita, nello sfrizionare si è rotto qualcosa nel motore e alcuni pezzi sono finiti negli ingranaggi del cambio. Ho fatto la discesa in pieno e quando sono arrivato in fondo e ho scalato fino alla terza la moto ovviamente ha grippato di colpo. Sono rimasto in piedi per miracolo. Quella volta ho visto la morte in faccia. Allora ho appoggiato la moto lì a bordo pista e ho detto basta. Fine della mia carriera. Non volevo


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Qui Giuseppe Visenzi con la sua Yamaha 350, la moto con la quale si è classificato terzo nel campionato del mondo del 1969.


Giuseppe Visenzi al GP di Imatra in Finlandia nel 1969 con la sua Yamaha 350.

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61 Giuseppe Visenzi con la Yamaha 250 nel campionato italiano del 1970.

ammazzarmi. Poi, quando a casa ho visto che avevo gli ingranaggi rotti e sparsi dentro nel motore ho capito che quella volta ci sono andato davvero vicino. Mi sono giocato un jolly, come si suol dire. Se avessi grippato in discesa mentre andavo molto più forte sarei morto di sicuro. Se sono rimasto vivo per miracolo voleva dire che da lì in poi dovevo fare qualcos’altro. Era arrivato il momento di smettere. Ero pronto per cominciare una nuova vita.

Due cuori e una passione: vita da pilota sposato Mi ricorderò sempre mia moglie, che quando eravamo appena sposati veniva sempre con me alle gare e mi aiutava, prendeva i tempi e i distacchi dagli avversari dietro di me. La rivedo come fosse oggi sul circuito

di Solitude in Germania, nei primi anni Sessanta, che mi faceva i segnali ed era già incinta del primo figlio Vincenzo. In viaggio di nozze siamo andati ad Amsterdam con il furgoncino Ford che usavo per le gare. Senza riscaldamento. Sono partito con venti gradi sotto zero con un sacco di sale da mettere sul vetro per non farlo ghiacciare. Quando siamo tornati a Brescia con nove gradi sotto zero ci sembrava primavera. Subito dopo, sono dovuto ripartire immediatamente per andare Modena a rodare il motore della nuova moto, sempre insieme a mia moglie. Era pieno inverno, perché noi ci siamo sposati il 12 novembre del 1963, e quando siamo tornati faceva un freddo pazzesco. Alla sera io e mia moglie andavamo a piedi alla mensa dei ferrovieri a mangiare e dormivamo nel furgoncino. Poi la mattina io andavo a girare, con pioggia, neve, freddo.


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Una nuova carriera come imprenditore 68

Dalle gare al negozio Nel 1969 quando avevo 28 anni, dopo 12 anni di gare, quando era già nata anche mia figlia Hendrika, ho deciso di smettere. Mi sono messo a vendere le moto. Honda prima di tutto. Anzi: una Honda. Quando ho iniziato sono andato con il furgone Citroën a Bologna alla Jap, l’importatore Honda. Avevo telefonato per dire che volevo fare il concessionario. “Quante moto volete comprare?” La mia risposta li ha un po’ sorpresi: “Una”. Inizialmente mi hanno sbattuto la porta in faccia. “Se comperi meno di 50 moto alla volta non se ne fa niente.” E così sono tornato a Brescia a mani vuote. Il giorno dopo però mi ha telefonato il capo della Jap, che ci teneva e che mi ha fatto tornare a Bologna a prendere la mia prima Honda. Una sola. L’ho comprata con i soldi che mi ha prestato una zia e l’ho venduta quel giorno stesso a un amico, Umberto Morzetti. Tanto è vero che subito dopo sono tornato a Bologna a comprarne altre due. Poi le cose hanno cominciato ad

andare bene, le moto si vendevano senza sconti all’epoca e nessuno si è mai lamentato delle moto giapponesi. Per di più, in quegli anni c’era un ispettore di zona della Honda che si era appassionato alla mia carriera di pilota e che mi riservava un trattamento di favore. È vero: quello che non ho avuto nelle corse l’ho avuto dopo, nel lavoro. Quell’ispettore di zona mi ha aiutato tantissimo. Gli ero simpatico: mi dava le moto migliori e me le dava puntualissimo. La Honda 750 Four ero sempre tra i primi ad averla. Guadagnavo bene. Negli anni a venire poi ho avuto anche Kawasaki, Ossa, Montesa, BMW… e tante altre. Ma alla fine le ho mollate tutte. Anni dopo la politica degli sconti non mi permetteva più di guadagnare e non si poteva più andare avanti. Perdevo i soldi che guadagnavo per fare sconti. Il negozio è durato 5 anni, fino al ’75, e poi mi sono stufato. Non mi piaceva e non mi dava soddisfazione. Ho cominciato a fare gli accessori. La mia prima moto modificata è stata una Honda Gold Wing del 1976, che ho provato a trasformare


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Fuori dal negozio: Giuseppe Visenzi (il primo a sinistra) con il figlio Vincenzo in primo piano, un dipendente di nome Giordano con la maglia a righe e altri clienti.


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Giuseppe Visenzi fuori dal negozio nel 1970 con Bruno Birbes, anche lui concessionario in provincia di Brescia.


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in una moto sportiva carenata. Era bella e mi hanno anche invitato a portarla alla fiera di Milano. La GiVi invece è nata nel ‘78. Tutto è iniziato quando ho provato a fare un paramotore, uno solo. Con quel paramotore sono andato alla fiera di Milano per vedere se interessava a qualcuno. Un rivenditore lo ha visto e, mentre io ero lì seduto e mi aspettavo un’offerta per vendere quel pezzo, lui me ne ha ordinati 1200 di un tipo e 1500 di un altro. Io sono rimasto impassibile e ho fatto finta di niente. Tra me però sudavo freddo e pensavo: “e adesso come faccio a farli?” Era il 1976. Per non perdere tempo i primi li ho fatti fare a Roma, perché io non avevo nemmeno i mezzi per produrli. Dopo piano piano ci siamo attrezzati e siamo diventati una vera azienda…

Il primo bauletto Alla fine degli anni Settanta nel mio negozio vendevamo di tutto, anche abbigliamento. Il primo bauletto invece è arrivato nel 1978, già con il marchio GiVi. È nato perché allora c’era Krauser che si vendeva molto ma che costava anche tanto e che produceva borse quasi soltanto per le BMW. Fare il primo bauletto è stata una tragedia. Era in ABS e ci ho investito tanti soldi. La mancanza di esperienza, però, mi ha fregato e nonostante l’aiuto di molte persone ho sbagliato qualcosa, passando tre mesi senza dormire prima di risolvere il problema. Il design lo abbiamo fatto fare a un progettista della MV Agusta, che ne ha disegnato uno molto bello. Però ci siamo accorti che


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Il reparto di carpenteria nello stabilimento di Fornaci (BS) della GiVi.

quando schiacciavi la borsa la sua struttura si torceva ed entrava l’acqua. Un disastro: non si poteva vendere così. Era il 1978: ci abbiamo messo tre mesi per trovare una soluzione, tutti insieme. Alla fine l’ho trovata io, che ho fatto la quinta elementare: ho inventato una struttura ad H con cui non poteva più flettere. Era complicata da

produrre e abbiamo tribolato molto, ma quando abbiamo cominciato a vendere le borse sono andate via come il pane e nessuno si è mai lamentato. Subito dopo è arrivato il brevetto monochiave: una chiave sola per chiudere e staccare il bauletto. Vent’anni di successo in monopolio grazie al brevetto depositato. Poi l’hanno copiato tutti.


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Giuseppe e Wilhelmina alla fiera di Colonia nell’ottobre del 1973.


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Giuseppe Visenzi con la sua Honda Gold Wing “trasformata� in una super tourer alla Fiera di Milano del 1978. Accanto a lui ci sono Wilhelmina e due dipendenti.


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In questa pagina, Wilhelmina e il figlio Vincenzo alla fiera di Milano nel 1978 con la Honda Gold Wing preparata da Giuseppe. Nella pagina a fronte, in senso orario, due immagini della fiera di Milano del 1979 e una foto dello stabilimento GiVi di Fornaci (BS) con i dipendenti.


Una Kawasaki recuperata a tutti i costi Quando avevo il mio primo negozio di moto, a Brescia, una volta hanno cercato di rubarmi una Kawasaki 900. In effetti era un po’ una moto da bandito. Un giorno è entrato questo tizio, mi ha chiesto di provare la moto e immancabilmente è sparito. Io allora ho deciso che non potevo farmi fregare così e sono salito in macchina per andarlo a cercare. Quella Kawasaki per fortuna aveva uno scarico quattro in uno con un sound inconfondibile. E infatti l’ho trovato riconoscendolo dal rumore, mentre mi sorpassava al buio. L’ho seguito per un po’ finché non si è fermato a un bar. A quel punto però lui mi ha visto ed è scappato appena in tempo. Io l’ho inseguito con il clacson e probabilmente sono riuscito a mettergli paura, tant’è che alla terza curva si è fracassato cadendo in malo modo e scappando poi a piedi con la pistola in mano. Quando ho chiamato la polizia loro non sono nemmeno usciti. Sai che cosa mi hanno detto? “Stia attento a come parla: è lei che gli ha dato la moto! Potrebbe beccarsi una denuncia da questa persona per aggressione!” Ma come: è scappato con la mia moto, l’ha usata per fare una rapina e adesso la colpa è mia? Ma siamo matti?

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“Corse d’inglese” L’inglese non l’ho mai studiato. In tutta la mia vita ho fatto solo tre sere di scuola vera e propria per imparare l’inglese: era un corso per immigrati dove sono andato prima di partire per l’Olanda con la Ducati. Solo dopo, con la compagnia dei piloti, un po’ alla volta ho imparato a parlare e a farmi capire. Mi ha aiutato anche mia moglie, che però nel giro di una settimana ha imparato l’italiano. Lei come tutti gli olandesi è molto portata…


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Giuseppe Visenzi sui campioni degli anni Su Giacomo Agostini: “Era un grande campione. Io l’ho visto vincere ad Assen nelle 250, 350 e 500 su una pista che ti sfianca e dove già due gare sono tremende, figurarsi tre. Alla fine della 500 era quasi svenuto e prima della 250 aveva fatto l’amore… (qui nel circus di segreti non ce ne sono molti)”. Su Mike Hailwood: “A Monza nel 1964 l’ho incontrato in albergo e lui mi è venuto incontro e mi ha dato la mano. Io ero arrivato quarto e primo tra i privati nella gara mondiale delle 125, vinta da lui. Volevo complimentarmi per la sua vittoria ma lui mi ha anticipato, perché ha visto la moto con cui correvo. Da quei complimenti nei miei confronti ho capito che era un uomo dalle qualità rare: onesto,

sportivo e non egoista. Diversamente dai nostri campioni sempre in lotta tra di loro. Lui invece sorrideva sempre. Mi ha impressionato a Monza con la Benelli 500 quando è entrato nel curvone in pieno, senza rallentare nemmeno un filo, facendolo tutto in derapata e abbassando il record sul giro.” Su Renzo Pasolini: “Era troppo buono e qualcuno ne approfittava. Era un gran manico ma è sempre stato sfortunato e non ha mai avuto una moto alla sua altezza. Non solo: gli è toccato fare degli esperimenti. E l’unica volta che ha avuto la moto giusta ha subito abbassato il record a Monza. Era un grande campione e una persona quadrata.”


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Giuseppe Visenzi con Giacomo Agostini in piedi a sinistra alla partenza di un Gran Premio.


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I ricordi della moglie Wilhelmina 84

Mio papà era italiano e aveva sposato un’olandese. Si occupava di MV Agusta e Gilera ed era un appassionato di moto e di gare. Tant’è che io andavo alle gare fin da quando ero bambina. Ho alcune foto di me da piccola in braccio ai piloti del motomondiale, anche se in molti casi non so più chi fossero. Il conte Agusta telefonava a mio padre ogni anno per prenotare il suo magazzino in occasione del TT di Assen. Mio padre allora svuotava e puliva tutto e loro arrivavano con un grosso camion per la gara, con tutte le moto e i meccanici. Mio padre ha avuto una lunga corrispondenza con il conte Agusta, per il quale faceva anche da interprete per comunicare con gli olandesi. Un giorno però mio papà, per risolvere un problema con la dogana, ha chiamato Giuseppe Visenzi, che era lì in Olanda per la gara e che sapeva l’italiano. Così si sono conosciuti. In Olanda si corre sempre al sabato, per cui la domenica i piloti non sapevano cosa fare, in attesa di ripartire per la gara successiva, che era una settimana dopo in Belgio. Visenzi in quell’occasione

è venuto da noi a trovare Carrano e Mazza della MV Agusta, che erano qui a casa mia e che lavoravano sempre sulle moto, anche la domenica. Mia mamma all’epoca era molto ospitale, specialmente con gli italiani, e così ha cucinato spaghetti per tutti. Giuseppe quindi si è trovato a pranzo a casa mia con tutta la mia famiglia e i meccanici della MV. Era seduto proprio davanti a me e mi guardava sempre, tanto che io mi sentivo a disagio e chiedevo a mia madre perché quell’italiano mi guardava. Avevo sedici anni e la sera stessa i piloti e Giuseppe hanno invitato me e mia sorella a ballare. È stata una bella serata e alla fine io e Giuseppe ci siamo abbracciati per la prima volta. La domenica successiva siamo andati a Francorchamps con mio papà, al seguito dei piloti. Abbiamo visto la gara e lì ho potuto conoscere un po’ meglio Giuseppe. Poi ci siamo salutati e lui è tornato a casa. Siamo rimasti mesi e mesi a sentirci solo per corrispondenza. Ci scrivevamo in inglese. Siamo andati avanti così per molto tempo.


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Wilhelmina con il figlio Vincenzo nel 1968.


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Wilhelmina con il figlio Vincenzo nel 1966.

Forse fino a quando lui è tornato su in Olanda in gennaio per comprare una Honda che doveva arrivare qui, e che poi invece è arrivata ad Amburgo. Mi ha mandato un telegramma in cui mi chiedeva se volevo andare a trovarlo. E lì ci siamo rivisti, anche se poi lui è andato via subito per fare le sue cose. Nel primo anno quindi ci siamo visti poco. Quando veniva su la gara di Tubbergen noi andavamo a vederlo. E così a poco a poco ci siamo

innamorati. Alla fine io cercavo sempre di vederlo. Sono anche andata in Italia e da allora siamo stati fidanzati altri due anni, finché ci siamo sposati quando io avevo 19 anni, il 12 novembre del 1963. Così ho imparato molto in fretta l’italiano, cosa che non mi era riuscita con mio padre, che aveva un caratteraccio, tanto che io da bambina dicevo che non avrei mai sposato un italiano. In quegli anni ho sempre seguito tutte le sue gare. Fin


Giuseppe con la moto, il furgone e il figlioletto Vincenzo.

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1958: piloti e meccanici della MV Agusta posano per una foto con il padre di Wilhelmina.

dai mesi prima del matrimonio. Eravamo innamorati ed eravamo giovani e io rispettavo la sua passione: non ho mai spinto Giuseppe a smettere né lo ostacolavo in alcun modo nei suoi progetti. Anzi lo aiutavo. Anche quando aspettavo Vincenzo lo aiutavo a spingere la moto e lo seguivo in giro per l’Europa e l’Italia per tutte le sue gare. Cinque anni dopo, quando aspettavo Hendrika, sono stata al suo fianco fino a un mese prima di partorire, fino alla gara di Francorchamps a fine giugno. Quindi un mese prima che nascesse mia figlia a fine luglio. Del resto eravamo giovani e non si guardava al fatto di essere

incinta. Eravamo sempre attivi e in movimento. Nel frattempo avevamo preso casa qui a Brescia e per vivere con le corse facevamo una vita dura e molto spartana. Cercavamo di farcela a fare tutto, a pagare la moto e i ricambi che servivano per correre e a vivere e mantenere casa e il primo figlio Vincenzo. Non c’era molto da divertirsi. È stata una vita dura sia per lui, che doveva sempre mettersi a posto la moto da solo, sia per me, che avevo già il nostro primo figlio, Vincenzo. Poi dopo il 1969, quando ha deciso di smettere con le gare, tutto è cambiato. Anche un suo amico lo aveva


1968: Vincenzo posa con la moto di papĂ .

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In queste pagine, due immagini di Vincenzo che gioca nei paddock dei circuiti con gli strumenti di papĂ .

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Tutta la famiglia a casa a Brescia dopo l’infortunio al bacino di Giuseppe nel 1969.

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consigliato: gli diceva di non lasciare a casa la moglie e il bambino da soli e che a lui correndo poteva anche capitare qualcosa. Poi Giuseppe è rimasto deluso quando si è rotto il bacino in Finlandia. Quella volta Giacomo Agostini lo ha portato a casa ma poi quasi nessuno si è più fatto sentire in quelle settimane di convalescenza. Forse si è sentito un po’ abbandonato e senza amici, anche se con Agostini e Ubbiali era molto legato. Quando è nata Hendrika io sono rimasta in ospedale da sola e poi sono tornata a casa sempre da sola, con la bambina in braccio, la valigia, la carrozzina e tutto.

Avevo 19 anni ed ero all’estero, in Italia, senza parlare ancora l’italiano: non è stato facile. Lui mi aveva portato in ospedale a partorire e ha fatto in tempo a vedere che la piccola Hendrika era nata. Ma aveva già le valigie pronte per andare in Finlandia. Gli avevo già lavato e stirato tutto. Il giorno dopo la nascita di Hendrika quindi è partito ed è tornato all’improvviso una settimana dopo sulle spalle di Agostini con il bacino rotto. È stato uno spavento ed è stato un dramma anche tutto quello che è venuto dopo: era agosto e faceva molto caldo e io dovevo allattare Hendrika, seguire Vincenzo e stare dietro anche


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Hendrika nel 1973 nella casa di Brescia.

a Giuseppe che stava molto male e non riusciva nemmeno ad andare in bagno o a cambiarsi da solo. È stato molto difficile. Giuseppe aveva anche cercato di andare in ospedale qui a Brescia. Però ci è restato solo una notte, perché lo hanno trattato male. Gli hanno detto che siccome correva in moto se l’era cercata. Quello era il suo sport e il suo lavoro, ma loro non capivano. Alla fine quindi, nonostante i dolori fortissimi, è tornato a casa. Poi lui ha sempre avuto quella volontà tipica dei piloti che anche se stanno male pensano sempre e solo a tornare

a correre. Puntava alla gara in Jugoslavia e a tornare a correre per non perdere i punti in classifica. E mi ha voluto con lui anche quella volta. Avevamo una Citroën station wagon a cui lui aveva tolto i sedili posteriori per farci stare la moto tutta smontata. Noi stavamo tutti sul sedile anteriore: io al suo fianco con la bambina in braccio e Vincenzo in mezzo. E siamo partiti, anche se quella volta non abbiamo portato la roulotte e siamo andati in albergo. Dopo aver fatto le prove, durante la gara a un certo punto è scomparso e non passava più. Ho cominciato a piangere. Pensavo al suo incidente, al suo


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Hendrika in vacanza nel 1972.

bacino ancora rotto e mi immaginavo che cosa poteva essere successo ancora. Poi eravamo in Jugoslavia e non era come adesso: all’epoca non si sapeva mai niente di quello che succedeva durante una corsa. Poi finalmente mi hanno detto che stava bene. Però aveva perso la gara e anche il secondo posto in classifica. All’epoca andavamo quasi sempre alle gare con la roulotte, e solo raramente in albergo. Ma tutto l’ambiente era fatto da gente come noi, tutti molto semplici e alla mano. Anche quando mio marito vinceva, i festeggiamenti non erano

nulla di particolare. Prendevi la coppa e i fiori e tornavi alla roulotte sorridendo felice. Per noi quella roulotte era già un lusso e ci avevamo sempre vissuto, anche ai tempi del primo figlio Vincenzo. Abbiamo continuato a girare il mondo così fino al 1969. Nell’autunno del 1969, poi, tra i consigli di quell’amico e il fatto che cominciava la stagione delle maxi moto, con Honda e Kawasaki che erano richiestissime, abbiamo deciso di provare con il negozio. Avendo pochi soldi, abbiamo preso un negozietto piccolo piccolo e siccome


Tutta la famiglia, con anche il cane, in partenza per le vacanze con l’aereo..

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Qui sopra, Giuseppe nel suo ufficio a Fornaci, con Lena Bodei sullo sfondo. Nella pagina a fronte, il figlio Vincenzo.

lui era in contatto con quello della Jap di Bologna, l’importatore Honda, ed era un pilota conosciuto nel mondo delle due ruote, alla fine ci hanno dato la prima moto e siamo partiti con questa nuova avventura. Così lui da pilota si è trasformato in concessionario ed era in giro tutto il giorno a cercare gli accessori e le moto mentre io stavo in negozio tutto il giorno, portandoci anche la bambina piccola. Avevamo una o due moto alla volta in negozio, non di più all’inizio, e lui andava e veniva da Milano per fare affari. Poi abbiamo visto che il negozio tirava e dopo un anno e mezzo abbiamo trovato un negozio

molto più grande, che aveva anche un magazzino sotto. E così abbiamo cambiato. Il primo negozio l’abbiamo preso nel 1970: era un negozio di liquori in fallimento in viale Piave. Abbiamo rilevato tutto. Subito dopo io ho venduto tutti gli alcolici e le bottiglie che erano rimasti nel negozio e ho fatto il primo vero affare di quella nuova attività. Subito dopo abbiamo cavalcato gli anni del boom delle moto. Honda, Kawasaki, BMW, Montesa, Ossa e così via. La moto in quegli anni era uno status symbol, una moda, e noi eravamo conosciuti a Brescia e anche nei dintorni. Giuseppe però alla fine si è stufato di fare il concessionario:


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il successo lo aveva raggiunto e il negozio non gli piaceva più. Voleva inventare qualcosa con un marchio suo. Ha iniziato con i parabrezza, i portapacchi, le carenature e così via, tutte realizzate lì sotto nel magazzino e poi a Fornaci nella prima fabbrica, dal 1978 in poi. Giuseppe aveva una grande dote: non mollava mai e non si demoralizzava mai. Si preoccupava, certo, come me e come tutti, ma aveva sempre la forza di non lasciar mai perdere e di insistere finché non arrivava a ottenere quello che voleva. È così ancora adesso. Certo: lavorare con lui non è facile. Lui è molto buono ma anche

straordinariamente esigente e pignolo. E del resto se tutto è andato avanti è proprio per merito di questo suo modo di essere. Un’altra sua dote è la sua intuizione, la sua capacità di sentire dove va il mercato, di capire e di saper cogliere i segnali. Forse perché ha anche girato molto il mondo. Di sicuro anche dopo le corse, quando girava il mondo lui osservava tutto. E ancora oggi quando viaggiamo lui invece di guardare le vetrine o i musei osserva tutto quello che c’è intorno. È come se fosse sempre impegnato in una sorta di ricerca di mercato: prende nota, gli vengono idee. È fatto così.


L’incidente in Finlandia visto da sua moglie Wilhelmina

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Erano i giorni in cui è nata Hendrika, a fine luglio del 1969. Giuseppe era partito per la Finlandia per una gara del motomondiale. Ovviamente all’epoca si viaggiava in auto, o con il furgone, quindi era partito parecchi giorni prima della gara con la sua Citroën DS familiare per fare tutto il viaggio e arrivare in tempo per le prove. Dopo il gran premio di Imatra, però, sulla via del ritorno lui e altri piloti della MV, per i quali lui trasportava le moto per arrotondare, hanno deciso di fermarsi vicino a Helsinki per fare un’altra gara, non di campionato ma comunque abbastanza prestigiosa e con un ricco ingaggio: purtroppo proprio in quella gara Giuseppe è caduto e si è rotto il bacino. Lo hanno portato in ospedale a Helsinki dove lo hanno fasciato e poi lo hanno dimesso subito, senza altre cure. Per fortuna Agostini non lo ha abbandonato e gli ha organizzato il viaggio di ritorno in aereo per riportarlo a casa. Io ero a casa, perché era appena nata mia figlia Hendrika, e non sapevo nulla. A un certo punto ho visto arrivare Giacomo Agostini con mio marito in spalla davanti alla porta. È stata una scena che non dimenticherò mai. Nei giorni successivi, dopo il suo ritorno, ho passato uno dei periodi più difficili della mia vita, ma per fortuna ero giovane e ho retto tutto quello che dovevo fare. Da una parte avevo il bambino piccolo di cinque anni, poi Hendrika che aveva un mese e che dovevo allattare e in più c’era lui fermo nel letto con il bacino rotto che aveva bisogno di aiuto per tutto, anche per andare in bagno, e che soffriva come un matto, purtroppo. C’è una foto scattata proprio in quel periodo di convalescenza, di noi quattro sul divano e lui con il bastone. Però Giuseppe non ha smesso di pensare alle corse! Anzi, lo vedevo soffrire sapendo che era secondo in classifica

Wilhelmina nel suo ufficio in viale Piave.


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nel mondiale e che stava perdendo punti. Per cui alla fine ha fatto di tutto per rimettersi in forma e tornare in moto già a settembre, per il gran premio di Jugoslavia ad Abbazia, dove lui nonostante i dolori aveva deciso di partecipare a tutti i costi. Hendrika aveva solo qualche mese ma siamo saliti tutti sulla Citroën che trasportava la moto e siamo partiti tutti insieme per supportarlo come sempre. Era una gara importante per il punteggio del campionato del mondo: gli bastava un sesto posto per arrivare a piazzarsi in classifica accanto ad Agostini. Io lo vedevo, aveva davanti Grassetti e voleva assolutamente superarlo. Purtroppo, non so che cosa è successo, forse ha sforzato troppo il motore, fatto sta che la moto si è rotta… Tutto questo però è successo in un punto della pista lontano da dove ero io e senza che io potessi sapere niente di preciso. So solo che ero in tribuna e che a un certo giro non l’ho più visto passare. Ero lì con i due bambini e sapendo dei dolori che Giuseppe aveva ancora al bacino ho pensato di tutto. Non sono riuscita a trattenere le lacrime e sono scoppiata a piangere fino a quando un’ora dopo circa l’ho visto arrivare trascinando la moto… È stato un sollievo. Oggi siamo ancora qui assieme, dopo mezzo secolo di matrimonio e due figli ormai grandi con tanto di nipoti grandi a loro volta. È stata una vita meravigliosa, che magari non ci ha mai dato respiro e che mi ha fatto penare, soprattutto quando lui correva in moto. Ma adesso, guardando indietro, rifarei tutto allo stesso modo. È stata una vita piena e vissuta fino in fondo ogni giorno, anche negli anni del negozio e poi dell’azienda. Che cosa posso chiedere di più?


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Wilhelmina con il figlio Vincenzo nel 1994 posano davanti alla moto del campione giapponese Noboru Ueda.


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La famiglia oggi: nell’altra pagina Giuseppe con la sua Honda 125. In questa pagina, in senso orario, Wilhelmina, Vincenzo e Hendrika.


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To Giuseppe Visenzi

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In such a special moment, in such an important anniversary for his company, but also for his life, his children Hendrika and Vincenzo and his wife Wilhelmina have decided to make a gift to Giuseppe they hope will be just as special for him: a book about his life. It is a biography that collects everything we were able to find and retrace about his extraordinary life with bikes and for bikes, made of images but also of stories that he himself told us on several occasions. Obviously it is a book mainly focused on his early career with the two wheels, when he was a pilot. Giuseppe was a great pilot, though never an official one, who in the Sixties raced and won at international level. He raced from 1959 to 1969: it was an intense decade and certainly those were the years when it all began. Being a pilot was the first step in his professional career, which went on first with his shop and then with his company for bike accessories, GiVi, still on the crest of the wave. In those years he also started a family, a family made by himself, his wife and their two children. And, after 35 years of working with his company and 50 years of marriage, browsing through this book with him and seeing these photos again will be a wonderful gift for everybody. A huge thanks by Hendrika, Vincenzo and Wilhelmina Brescia, November 3, 2013


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A life on the bikes, first as a pilot in the Sixties, then as an entrepreneur with GiVi since the Seventies


Biography 108

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iuseppe Visenzi was born in Brescia on January 22, 1941. Today he is a successful entrepreneur who thirty-five years ago founded his own company – GiVi – a world leader in motorcycle accessories. When he was young, however, he set up a small workshop in the basement of his house where he used to prepare his own bikes for racing. In the Sixties he scored many wins, including world ones, and established himself as one of the strongest private drivers of the decade. Visenzi began his racing career in the late Fifties, running first with a Laverda 100 and immediately after with a single-overhead-cam Mondial. His first major race, the Castell’Arquato-Vernasca, dated back to 1958: on that occasion he seized victory with his first Mondial. After racing in lower divisions and junior categories, from 1962 onwards Visenzi made his debut in the senior one and placed third in the 125 cc Italian championship riding a Ducati. With that same Ducati 125, a second-hand bike,

he also got his first points in the World Championship, finishing 6th in the Belgian GP and competing with the best riders of the time, such as Mike Hailwood, Luigi Taveri and Jim Redman. Starting from 1963 Visenzi, whose headquarters were still in the small workshop in Via San Faustino in Brescia, rode an Honda 125, together with a bigger Aermacchi Ala d’Oro 250 and then replacing them both at the end of Sixties with various other bikes: 125 Montesa, Bultaco TSS 250 and Yamaha 250 and 350, with which he gained prestigious results both at national level (second place in the Italian 125 in 1964 in 1967, in the Italian 250 in 1970 and in the Italian 350 in 1967) and worldwide (third overall in the 250 category in 1969). In 1963 he took part to several international races winning in Lyon, France (125), in Beveren Waas, Belgium (125 and 250), in Portorose, Yugoslavia (125)


and in Laxenburg, Austria (250). He also scored a very significant fourth place in Spa-Francorchamps in the 125 category. In Italy, for the 125 category, Visenzi arrived third in Imola and in Sanremo. That’s what he told a specialized magazine of the time: “This year I have made big sacrifices and I managed to buy a Honda 125. It cost me a fortune. I would prefer an Italian bike but where could I find it? By this I want to express my regret for the fact that our industry has not thought about building racing bikes for private drivers, so as to raise a good lot of private drivers to face foreign bike manufacturers, which instead are grabbing the best drivers and the most promising youngster… After having many ups and downs in racing due to the conditions of my bike, in 1963 I decided to buy a good one from Honda, that manufactures a 125 racing bike that seems to fit perfectly my needs. It did cost a lot but it was worth it: since then my economic conditions have improved and I managed to snatch some good prize; moreover, I had the joy of winning abroad. Slowly I am balancing my budget! After racing for 4 and half years I still run a deficit. The bike cost me 3,200,000 lire, but selling my two old bikes only got me 450,000 lire while I earned only 1 million and 50,000 lire in prizes.” With the same Honda and Aermacchi bikes in 1964 Visenzi gained many other placings and scored a second place overall in the 125 Italian Championship with Honda. Visenzi also seized the 11th place in the Isle of Man Lightweight Tourist Trophy and the fourth place in the GP of Nations at Monza. That’s what he said about his participation in the TT: “I raced on that circuit once, just to decide I would never do it again. It aims to kill pilots just to raise money for the organizers. There are corners you can’t understand, they seem second-gear corners and instead they require a fourth gear or vice versa. You

can’t learn a 60 km circuit. You have to get up at 3.30 am since practice starts at 5 am, not to mention private drivers, who have to fix and tweak the bike by themselves; moreover you can’t properly sleep since the sky is never totally dark.” At Jicín near Prague, in Czechoslovakia, Visenzi won the 125 race and paired with Mandolini he also won the Six Hours of Monza driving, on that one occasion, an official Aermacchi. 1965 was even more intense, with victories in Mouscron, Belgium (250), and Tubbergen, the Netherlands (125), but it was even more especial thanks to the excellent results in the senior Italian league (fourth in Modena in 125, second in Sanremo in the 125, fourth in Enna in 250, second in Vallelunga in 125, and so on) and in the World Championship (fourth in the 250 at the Nürburgring, sixth in the 125 in Rouen for the French Grand Prix, sixth in Assen in the 125 and so on). 1966 too was a good year for Visenzi, who took part in fewer world races but intensified the activities on the international circuits: he won the 125 class in Piešt’any, Czechoslovakia (250), scored a fourth place in Salzburg, Austria (125) and a third place in Chimay, Belgium, in Tubbergen, the Netherlands and in Portorose, Yugoslavia, while in Vienna he arrived second in the 125 and 350 categories. He achieved excellent results also in Italy, with a third place in Modena (250), Cervia (125) and Vallelunga (125), Italy. 1967 was even better. Visenzi raced with the Montesa bike of Villa brothers scoring a second place in the 125 Italian championship. He arrived second also in the 350 championship, riding an Aermacchi. Among his main achievements there was a second place in Vallelunga (Italy), a third place in Sanremo (Italy) in 125, a second

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place in Vienna in the 250 and 350, a seventh place in the Dutch GP in 125, a second place in Nova Gorica (Yugoslavia) in 250 and 500, a seventh place in the Grand Prix of Nations in 350, a third place in Pergusa (Italy) in 125 and in Zelnice (Yugoslavia) in 350. In 1968 he managed to purchase a 250 cc twin-cylinder Yamaha and won again in Ziesdorf (Austria) and Zelnice (Yugoslavia). He also achieved good positions both in the Italian and in the world league: fourth in the 125 in the GP of Netherlands and fifth in the 250 in the German GP.

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Finally, in 1969, with a pair of quick Yamaha, Visenzi raced successfully in the World Championship, confirming his position as one of the best private drivers at international level, while in Italy he ended the season sealing a fourth place in the 250 championship and a fifth place in the 350, although the bike he rode in this category arrived just in time for the last two out of five races. 1969 went in the books as his best season in the World Championship, as he finished third in the final ranking of the 350 cc, behind Giacomo Agostini and Silvio Grassetti, thanks to two podiums in Jarama, Spain and in Finland, as well as a fifth place in Hockenheim, Germany. In 1970, when he had already decided to stop racing, he took sporadically part to some races in Italy with a Yamaha 250, achieving a second place in the Italian league plus a second place in Cesenatico (Italy) and in Prievidza (Czechoslovakia). That same year Visenzi started his entrepreneurial activity, founding first Motomarket Visenzi, in Via Piave 113, Brescia, and then, in 1978, GiVi, a manufacturing company of accessories for motorcycles and scooters.

The first race at the end of the Fifties My first racing bike When I was 18 I was already keen on motorcycles and I wanted to race at all costs, but I really had no economic means to pursue my dream. I could not afford to buy a good motorcycle in any way. From a certain point of view, from my first race in 1959 to the end of 1969 when I quit racing, my whole career has been characterized by sacrifices and great affords to make ends meet. However, when I was young I dreamed so much of racing that eventually I managed to do it. That’s how it happened: my barber, who used to come and visit me in my workshop wanted to sell his 100 cc Laverda. At that time I wanted to take part to the 125 cc lower division championship, which was to take place at Modena airport. It was still March and very cold. I seized the opportunity and suggested him to leave his Laverda 100 in my workshop in order for another customer to see it. When he agreed knew I had my chance: the bike that I had always looked for and dreamed of was there in front of me, and it had to stay there the whole weekend, the same weekend in which the race would have taken place. My idea was an simple: “I’m going to run and then bring it back to him as if nothing happened”. Said and done. I took the bike without saying anything to the owner. I went to Modena under the rain, I qualified, I run and I came back home that it was still raining, always wearing the same suit and without being able to change clothes. I was soaked to the bone and black overall, since the black leather suit was discolouring because of all that rain. But I was happy: I raced with the Laverda 100 against the Ducati 125 and I did not arrive last. Everything went well and the bike was back safe and sound, to the point that on Monday I returned it


to the barber without saying anything. Then someone snitched on me and he came to know it, but he was not angry, he was pleased that his bike had been running in the Italian league. I have not seen him any more.

My first Mondial and my first IOU In 1959, the Italian 125 senior division Championship was taking place in Imola. We were racing in the lower division but we went to see the race out of sheer passion. For us, those were the real drivers. Among them there was a guy with a Mondial: his bike was really awful, even though it seemed beautiful to me. With all the innocence of a young man I told myself: “Wow, if he races here with this bike, in a real championship, I can also race here in the lower division and win.” But there was just one problem: I had no money. He asked me 100,000 lire. How could I afford it? I gave vent to my anger on poor Zucchi, who rode a Ducati: “I’d like to buy that bike but I have no money, where can I find 100,000 lire? I do not have that sum.” And what did he do? He made me sign an IOU. That’s how I signed the first promissory note of my life. He told me not to worry: “If by chance you will not be able to pay for it we’ll see what to do.” It was my first misadventure and it ruined my youth: that SOHC Mondial 125 was a real dud by itself and in the hands of that driver got definitely worse. But I was young and full of hope: I brought it to my workshop and I tweaked it for the first race. It was one of the many uphill races that were held in the outskirts of Genoa, maybe the Monte Turchino or perhaps the Giovi Pass. I left home with the bike and a toolbox and I went by train to Genoa and then I walked up to the Pass, because I could not ride that bike on the road, nor even turn it on. It had a free exhaust making a hell of a noise. Every now and then I found someone who gave me a ride but otherwise I walked alone for hours, even in the rain… With that Mondial, however, I

had my first satisfaction, winning the Lugagnano-Vernasca, an uphill race near Piacenza.

Racing at Pontedecimo Giovi In the late Fifties I reached one of the many uphill races on the outskirts of Genoa with Adelmo Mandolini, who had a Ducati, a good one. He went there in his truck and gave me a ride. It was raining when we arrived to Pontedecimo Giovi. The next morning, anyway, I surprised everybody setting the best time in the morning practice. Mandolini, who rode a Ducati and was usually much faster than me and my Mondial, could not believe it. He told me they must be wrong, it was impossible. That thing put me on so much fear and stress that in the afternoon I was slower and only got second or third, I don’t remember, while he scored a first place.

The Sixties and travelling for the World Championship The Pattoni brothers and I fleeing from Genoa In 1960 I made friends with the Pattoni brothers from Milan. They wanted to turn my Mondial into a twin-cam and make a lot of tweaks. So, besides the fact that I had

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to work to repay my first IOU investing almost all the money I earned during the races, I had also to pay for Pattonis’ work. They were talented and very passionate: so much passionate that they dragged me inside their workshop. Unfortunately, passion and long working hours notwithstanding, the bike never went well and it was very difficult to adjust or fine-tune it for the races.

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In the end, I decided to take part to an uphill race with the bike tweaked by the Pattoni brothers, and once again I went to Genoa by train. On that occasion Mandolini was not there, but Luciano Spinello was. I did some practice and then the race and everything seemed to go well. I bet I’d score a second or third place and instead I broke everything up. A broken engine. I was in deep trouble: I had won no prize, my bike had broken down and I had no money left. Coming back to the hotel I felt really miserable and since my room was on the first floor of the building, I decided to jump out of the window and run away without paying the bill. Years later, every time I went to Rapallo by motorway, I saw around a bend the area where the hotel was. I wanted to stop and pay that bill but I’ve never had enough courage. I do not know if the hotel owners would have believed me. It was not over. After I fled the hotel I went to the station, but I had no money for the train ticket. Luckily Spinello, who had towed my bike to the station, offered me a ride with his bike: so I sent my bike home by train and went with him. Without ever saying a word and never stopping, under the rain and by night, we came straight to Milan, to the Central Station, where he left me at four in the morning. It was still raining and I was soaked to the bone. I felt homeless and abandoned like the tramps

sleeping in the station at dawn, icy cold and with no idea how to get back home. Then somehow I managed to catch the train to Brescia and return home.

The borrowed lever spline In 1960 I was still with the Pattoni brothers, and we had this uphill race in Aosta. I do not remember if I went there by train or if they gave me a lift. What I do remember is that in the qualifications I broke the spline of the gear lever, and I was desperate, as there was no way to fix it: fortunately, on the circuit I spotted another Mondial that mounted the same spline. So – secretly and without saying anything to anybody – I took it as fast as I could, while Spinello looked out to make sure no one caught us red-handed. Then I returned it, but I think this is the most desperate episode of my life as a pilot, at the time of my first Mondial.

My first Ducati In 1961, fortunately, after wasting a lot of money I did not have, I managed to buy a new bike. Everything started in Aosta, as always. We heard of a pilot, Muscio, who had had a fight with his girlfriend. This guy had a brother and one of them had a really fast Ducati. Muscio’s girlfriend had forced him to make a choice: either her or the bike. He wasted no time: he sold his bike, a nice Ducati 125, overnight. I did not even bother to go home: the bike was in Novara, so I run immediately there from Aosta to pick it up. And I paid for it with an IOU, of course. Muscio was resolute: “Take this bike away from me”, he said. And I was happy, because I


had finally found a bike just like the other pilots. I was really in seventh heaven, I was excited, adrenalinic: I brought the bike home and I immediately put it on the bench in my workshop to prepare for the first race on the following Sunday. I think it was the PiacenzaBobbio Passo del Penice. So I arrived at Piacenza and took part to the practice. And you know what? The bike was not working! No way, or at least I thought so. It seemed to be very slow. But looking at the dials I realized it was just an impression of mine. I was accustomed to the Mondial, that even if it was very slow it seemed to be so damn fast. On the other end, this Ducati was poised but really fast! So fast that I immediately scored the best time and the first place on the grid for the race. Everything went smooth for 4 or 5 races in a row. I was happy because finally I was earning the money to serve the IOUs. Among the race awards I remember the ones offered by Fossati Chains, which granted the pilots who used their chains 40,000 lire for every victory. It was not a proper sponsorship, but thanks to that money I could finally pay for my new bike.

The Honda 125: a gem The Honda 125 was a gem and in 1963 I was among the first private drivers in Europe to ride it. With my Honda I gained awards in all races. Honda has always made me earn, even when I stopped racing and I started selling bikes. But it was not easy, I had to sweat for it too. I had booked it in the Netherlands and so, when the bike arrived from the factory, I went to Rotterdam to take it and to see my wife too, and… I was cheated!

I had ordered it through Luigi Taveri and he eventually informed me that the bike’s destination was changed from the Netherlands to Hamburg, in Germany. So I rushed to the Hamburg docks to search for the ship and unload the bike myself. The problem was that I did not have a registration certificate for it. So I had this idea: I called a journalist and friend in Brescia and I asked him to go to the Milan Touring Club to make a registration certificate for a Honda and send it to me. I do not know how it did manage to arrive on time but in the end I had this certificate in my pocket. As far as the money was concerned, I had been funded by one of my friend of the motorclub, whose name was Moretti. He had lent me one million lire, which I returned to the last coin. In the end I unpacked the bike on the ship and pulled it down by hand, showing the customs officer the certificate made in Milan. Everything went smoothly. After unpacking and clearing the bike, I had to find a way to take it home, but I was lucky: I met a Swedish pilot at Honda premises in Hamburg, who had a truck packed of bikes. When I asked him where he was going, he replied: “I’m going to race in Tubbergen, in the Netherlands.” I though it was a good chance and I immediately asked for a ride. The problem was that he had three bikes on the truck and it was absolutely full. There was no way to load mine too. However, I did not give up and I offered to dismantle all the bikes to make them fit together in his truck. And I really dismantled them there in the Hamburg docks. Engine, chassis, forks etc. So off we went, even it was already ten o’clock at night and we were as hungry as wolves, and without a penny in our pocket. To stay awake during the trip we had to make us tea always using with the same bag.

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We arrived at the Dutch Customs at four in the morning and the customs officer, as we feared, wanted to open the truck to see what was inside. When he saw the mess of pieces that was in there he got scared and left us to go, perhaps out of pity. At six in the morning we arrived at Tubbergen; we unloaded everything and I started reassembling the bikes. Too bad that I had with me neither helmet nor suit. But now that I had come up to it I wanted to take part to the race too, so I looked for someone who could lend me suit and helmet. I saw a boy with leather trousers and an awful and ridiculous orange open face helmet, both of which were too large for me. “Lend me your trousers and helmet”, I asked him. At first he tried to say no, but then he accepted. In the meantime, I managed to get the registration to the race and eventually to get to the grid I immediately qualified second even though I was dressed in a crazy way, with those large trousers three sizes too big and that absurd orange helmet. In the race I was made a real fool. Probably my dressing did not help… However, since my bike would not start I asked a driver who had a Honda like mine what he suggested to do. He told me not to flood it. The race starting was uphill and at the time you had to push your bike through it. So I followed that guy’s advice, and as a result… I stood still! I pushed for a long time but the bike would not start. The truth was, but I found it out later, that you just had to flood it to let the petrol come out from the exhaust, and then the bike would start on the first try. He had told me to do just the opposite, and I think he did it on purpose to keep me off the race. He managed to win this way, but if I had had two or three more laps I would have reached him. After the race I wanted to crack at him but we eventually became friends. He even gave me a

lift to the Brenner Pass where somebody came to get me home. With my Honda 125, however, I always placed well, although in the World Championship official riders had six-speed 80-kg bikes, such as Spaggiari’s MV that weighed 75 kg, while mine weighed 120 kg. Of course, if I had had an official bike it would have been different.

The memory of Ruggero Mazza, MV Agusta mechanic It must have been 1963 or 1964. I was already riding a Honda 125 that I could never tweak right. It was not easy. One day Ruggero Mazza, who was the mechanic of Agostini’s MV Agusta, and the best of them all as well as a true petrolhead, heard me complaining at the pits because my Honda was always the slowest of the bunch. He told me: “Pull it down for us to have a look at it”. He probably wanted to see the Japanese 4 valves engine and learn some trick. But on doing it he tweaked my bike in a spectacular way: everything had changed. Mazza had a golden hand. At Spa I was able to slipstreaming behind the strongest drivers. In those years I also had an Aermacchi Ala d’Oro 350, which I used to buy, prepare and ride in both the Italian league and in the World Championship every year. Then, at the end of the season, I would sell it and I could get back all the money I had spent for it, and sometimes even more.

The Aussie who ate butterflies In 1967 I rode an Aermacchi 250 and a Honda 125. That year I took part to the GP of Imatra in Finland too. It was a long journey and I did it all alone. As a matter of fact I


have never had a mechanic. At the time a private driver had to do everything by himself: he had to fix and repair the bike, do the registration, to load and unload the bike and of course to travel and run the race. Those trips were expensive, hard and adventurous as nothing else, apart from race. For example, I took a week to reach Imatra. And once there I had to sleep in my truck. We lived such a life that modern drivers cannot even imagine. Hospitality and paddock girls were yet to come! I was in Imatra when, all of a sudden, I saw Giacomo Agostini and MV Agusta team coming: they had travelled by plane and then rode in a taxi or hired a truck with driver to get to the circuit. As I made friends with one of Ago’s mechanics and since they knew that I did not have many resources to pay for the trip, Ruggero Mazza, the best mechanic in the whole MV team, the day of the prize giving ceremony said: “Will you bring our bike back home? So you can earn something…” It sure was a great opportunity to earn good money and so I accepted with enthusiasm. I decided to leave early and at the pitch of the night, when I was still in the camping, I tried to put in motion the Ford truck where I had loaded Ago’s bike together with mine. But damn it: the truck made a loud bang that woke everyone up and then fell silent. I realized that I was really in trouble. What could I do? I called Mazza and I asked for his help. I did not understand much about truck mechanics but it seemed I had broken the driveshaft and that the engine was only using three cylinders. “Don’t worry, tomorrow morning we’ll give it a look. Let’s meet at six o’clock.” Meanwhile – it was late at night – I started to look for someone who could help change the driveshaft, and I decided to ask the British drivers who were also sleeping in the camping: the

British have a special attitude for these things, they are always very helpful. In fact, someone told me there was an Australian driver who could help me. He had come to Finland as a passenger on a sidecar but the driver had gone away leaving him there with no money, nothing to eat and still wearing his race-suit. I found him sleeping all alone in a tent. I had to pull him out by the legs to wake him up. I explained the problem and he immediately agreed to help in exchange for a ride. He had to go to the Netherlands but had no money and no bike, so he was more than happy to help me. “No problem”, he said. He came with me to the truck donning such a dirty race-suit as I will never see one alike. He was ready to start our “adventure”, but fortunately Mazza arrived and with the sunlight, opening the hood of the truck, we discovered that it was a minor damage: only a cracked radiator fan blade. Mazza took a pair of pliers, split the other one and the engine started as if nothing had happened. At that point the Aussie and I left off towards Helsinki to return home. Everything seemed fine: we finally had a bit of money and could do things at ease. We proceeded slowly towards the ferry to Sweden. Since it was summer, the windscreen of the Ford was full of big yellow stains. They were splashed butterflies. At one point the Aussie noticed it and came up with the most original idea I’ve ever heard: “Stop, stop”, he cried. “Let’s go to a supermarket and buy some bread, so we can spread these butterflies over it. We can eat at last: they taste very good!” “But we have money enough”, I told him. “We can eat something better than butterflies with our bread!” There was nothing I could do, he was accustomed that way. So he ate his beloved bread and butterflies while I bought some ham. And a bottle of vodka, because I had a fever and in those days we used to treat fever that way.

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We spent the whole night on the ferry to Sweden and then, after thousands of miles, we eventually arrived in Stockholm. But, once again, a radiator fan blade broke. This time the truck let out a large cloud of smoke, since the blade had pierced the radiator and broken the water pump. We were in the suburbs of Stockholm and we stopped to push the truck on the sidewalk. Luck has it that right there on the corner there was a Ford workshop, but it was closing since it was getting late. The Aussie – who was always in his dirty sidecar race-suit – and I entered the workshop with the radiator pump we needed to fix in one hand. As soon as they saw my Australian partner with his filthy suit they started laughing, and tried to throw us out, but he knew how to handle them. He entered the back-office asking for the manager and told him in English to help us. Nothing to do. They would not help us. I had already put up with that obvious, and even motivated, refusal, when he came out with a stroke of genius and told the manager that he would not move from there until someone gave him the means to weld the pump. The manager tried to resist and to persuade him to go away; I was getting ashamed of the situation, when the manager, in despair, called a mechanic and told him to give the Australian the welder. Said and done: with the proper tools my partner welded and fixed the pump. He was great. It was only thanks to him that we were able to continue our trip. Once we reached the Netherlands it was time to part our ways so, after handing over the bikes, I took the train and come back home. I have not seen him since then and I’m sorry. I think of him every now and then, especially when I see today MotoGP motorhomes and hospitalities. Pilots back then lived a very different life.

My first Yamaha 350 In 1969, racing as a private driver with no sponsors and no money, I was third in the 350 cc World Championship. And consider that I raced without a spare carburettor jet. No adjustments, tires, tests and practices whatsoever… I just had that one bike and with it I had to do it all, without breaking anything! I could not even afford to fall, otherwise I would come back home without running the race and, consequently, with no money prize. That year, however, everything went better thanks to the Yamaha I had pursued with all my strength and that I finally bought, albeit at an expensive price. Only the fairing was missing, because it was not included and so I commissioned it to Ballanti in Bologna. I could get my hands on that bike only because I went to the Yamaha importer for Europe, which was based in Amsterdam, and I was such a nuisance that in the end they sold me this bike from Japan for one million lire. It was a lot of money, and, moreover, the bike was in Amsterdam: how could I pick it up? The bike was delivered in the Netherlands just before a race in Misano (Italy). Back then I owned a family Citroën DS of fifth hand, full of holes for rust, and I made a living only through race awards. Having no sponsors, if I wanted to earn some money I had neither to fall nor break anything… I had to finish the race. A fall would have spoiled everything, it would have been the end. The winter season was the hardest, I had to put my expenses under severe control because, since making a living as a driver, in those months I did not earn anything. I remember that I rode in my Lambretta to go shopping for me and my wife in Brescia even in


winter, with icy roads and a very cold air. Luckily that year, while flying with Swissair, they got me to miss a connecting flight and I had complained so much that in the end they gave me a bonus: I decided to use it to get a cargo flight from Amsterdam to Geneva to get there my new bike. So I went to Geneva in my Citroën to withdraw it. When I arrived I opened the box and loaded the bike in the car, dismantling it and trying to figure out how to get to Misano on time for the race that was taking place the following day. The problem was how to clear it through customs between Switzerland and Italy. It was always a problem with a racing bike. And I knew that my new one would never have passed. That was the reason why I had the bike shipped to Geneva: from there I could go first to France and then to Italy. The border between France and Italy was not going to be a problem. The real problem was the miles I had to ride… the ride was long, but finally I arrived at Misano at six o’clock in the morning, just in time for practice. I was really tired but was happy for my purchase and for getting there on time, so I unloaded the bike and I soon found another problem: the autolube oil pump did not work. Luckily, another driver who had the same bike showed me a solution: it was enough to remove the autolube oil pump and use the mixture. I removed everything, I put the mixture in and I raced: obviously, without fairing. But everything went smoothly.

The incident in Finland and the last years as a pilot From Finland with a broken pelvis The most serious incident of my career was the one I had in Finland, when I broke my pelvis. After the 1969 World Championship Grand Prix we went to Keimola, near Helsinki, for a further race. A race where the winner would earn 400,000 lire. Since I had problems to change the ratios of my Yamaha 350, I started the race with greasy hands. On the third lap I fell in front of a driver, who lost oil, and I smashed against the guardrail. Everybody thought I was dead, but they took me to the hospital. It hurt so much. However, after a while five or six doctors came and told me I could go home and that they would take no more care of me. I tried to get out of bed and of course I immediately fell to the ground, but they were not moved by my condition. So I was discharged from the hospital in my underwear! Because the suit had been torn to pieces by the doctors. If you think that I was in Finland, that I did not speak English and that I had no clothes and money… Well, at least they called me a cab, and I promised the taxi driver I would have paid him once I got safe to my hotel. The same taxi driver brought me to the hotel hall, still in my underwear, and then some friends brought me in my room and there I finally confessed to the taxi driver that I had no money to pay. I had to lie to him, I could not stay out of the hospital in my underwear…

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In the end they all left me alone in bed and went to mind their business. In the evening one of the mechanics, a man named Fanali, remembered that I was still in bed and came to help me go to the bathroom. However, in the end I was saved by Giacomo Agostini himself, who helped me get the money prize, even though I had not finished the race. And he also helped me to get on the plane with the MV Agusta team. Once we landed in Milan Agostini accompanied me to Brescia by car and took me on his back to the door of my house. When he rang the bell my wife opened the door: obviously she knew nothing and was shocked.

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Still alive and kicking for a new life Alas, more trouble was coming. As a matter of fact both my bike and all my belongings were still in Finland. I had entrusted them to an Englishman begging him to bring them back to me in Italy. After leaving for Italy with Agostini I had not heard from him for days and so I thought that he had cheated me and considered both my Citroën and my two bikes as lost. Instead, while I was in Imola with a few friends of mine to see the race, I met that same Englishman, who told me that he had left everything in custody in a safe place. So I checked it out and it was true! In order to get them back I asked my friend Maestroni for help. He went there by train and came back home with my Citroën and my bikes. I could take part in the last race of the season in Yugoslavia, even though I was still so banged up and bruised that they had to help me start my bike. Unfortunately it was forbidden on race day, so I have to start from last position on the grid. During the race, however, I made a furious comeback… I wanted to go and take them all,

one by one, but once I had grabbed the third place, well, I did get carried away. In an uphill hairpin, something broke down in my engine and metal debris got trapped in the transmission gears. I went downhill at full speed and when I shifted into third gear the bike suddenly seized up. It was a miracle: I was still standing! But I felt I had been staring death in the eyes. So I got off the bike and leaned it on the guardrail: I was done, had enough… It was the end of my career as a pilot. I did not want to kill myself. When I came back home I saw that I had broken the gears and that they were scattered inside the engine. I realized how close I had been to death. I had been dealt a wild card, as they say. If I had seized up downhill when I was going really fast I would have died for sure. However, I was alive and if it had been a miracle, that meant that from then on I had to do something else. It was time to quit. I was ready to begin a new life.

Two hearts, one passion: my life as a married driver I will never forget my wife and those days when we were just married and she was always with me on race days, helping me with lap times and gaps… I do remember her on the Solitude circuit, in Germany, in the early Sixties: she was pregnant with our first son, Vincenzo, but she was there with me giving me indications from the pit wall. We went to Amsterdam on honeymoon with the same Ford truck I used for my bikes, which had no heating system. When we left Amsterdam it was twenty degrees below zero and we had to take with us a sack of salt that we put on the windscreen not to make it freeze. Back in Brescia it was nine degrees below zero but, for us, it felt like spring. Soon afterwards I had to go to Modena to run in the engine of my new bike, and my


wife came with me. I remember it was in the middle of winter, because we had married on 12th November 1963, and when we came back home it was very cold. In the evening we used to walk to the canteen of the railroad workers to have supper and then we would sleep in the truck. In the morning, come rain or shine… or snow, I would ride my bike.

A new career as a businessman From racing to trading In 1969, when I was 28 years old and after 12 years of racing, I decided to call it a career. That year my daughter Hendrika was born and I thought it would be a good idea to sell bikes: Hondas, first of all. Oh well, one Honda, to be honest… It went this way: I jumped in my Citroën truck and drove to Bologna, where Jap, Honda importer for Italy, had its headquarters. I had phoned them to announce I wanted to be a dealer and it was ok, but when they asked me: “How many bikes do you want to buy?” my answer came as a bit of a shocker: “One”. Obviously, they slammed the door in my face: “If you want to make the deal with us you have to buy at least 50 bikes!” So I drove back to Brescia empty-handed. The next day, however, Jap boss phoned me: he still liked the idea of me working with them, and so he asked me to go back to Bologna to buy my first Honda. Just one. I could buy it because one of my aunts had lent me the money, but I was able to sell it that same day to a

friend of mine, Umberto Morzetti. So I could go back to Bologna to buy two more. Then business started to kick in. Those days bikes were sold at their full price and no one ever complained about Japanese bikes. Moreover, Honda area inspector had been one of my fans during my days as a pilot and gave me special treatment. The help I wasn’t offered when I was a pilot, I was offered later in my business. That inspector was very helpful. He liked me: he gave me the best bikes and gave them promptly. I was always among the first dealers to get the Honda 750 Four. And I earned well. In the following years I also dealt in Kawasakis, Ossas, Montesas, BMWs… and many other bikes, but in the end I gave up all. Times were changing, aggressive price policies did not allow me to earn enough. I simply could not go on. I was eroding my margins just to be able to discount bikes to customers. I had been a dealer for five years when I got definitely bored. It was 1975 and I did not like it any more. I was not satisfied, and I started making bike accessories. My first tuned bike was a 1976 Honda Gold Wing that I tried to turn into a sport bike with fairing. It was a thing of beauty and, in fact, I was invited to bring it to the Milan Fair. GiVi was born in 1978. Everything started with an engine guard that I tried to manufacture. It was just one engine guard, but I decided to exhibit in at the Milan Fair to see if anyone was interested in it. A dealer saw it and while I was sitting there expecting an offer to sell that single piece, he ordered me 1200 units of one type and 1500 units of another type. I got poker-faced and pretended it was okay, but I was scared: “And now? How can I make them?”, I thought. It was 1976. I did not want to waste any time, so I commissioned the first

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units to a workshop in Rome, because I did not even have the means to manufacture them. Afterwards we slowly got equipped and became a real company…

The first case

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In the late Seventies my shop would sell everything, even clothing. The first case arrived in 1978. And it was already GiVi branded. It was intended to be a competitor for Krauser products, which sold very, but did cost too much. Moreover Krauser bags were sold almost exclusively for BMWs. Manufacturing that first case was tough. It was made of ABS and I had invested a lot of money in it. The lack of experience, however, proved to be a fatal flaw; despite the help of many people, in fact, I did something wrong and it took me three sleepless months to solve the problem. It had been designed by an MV Agusta designer and it was very nice indeed. But we found out that when the bag was squeezed its structure writhed and lost its waterproof properties. It was a disaster: it could not be sold! It was 1978, and it took us three months to find a solution. Eventually, it was me who found it, a guy who had only a primary school education! I conceived an H structure which simply did not bend. It was a mess to produce it and we had our share of troubles with it, but once it was in our shop it sold really well and no one has ever complained. Soon after that there came the single-key patent: a single key to close and remove the case. We enjoyed a twenty-year success thanks to that patent. Then everybody imitated it.

A stolen Kawasaki During my days as a bike dealer in Brescia, someone tried to steal a Kawasaki 900 from my showroom, which,

actually, was a the perfect bike for an outlaw… This guy came into my showroom and asked me to try the bike and then… he disappeared! I did not want to be made such a fool so I jumped in my car and went looking for him. Luckily that Kawasaki had a 4 in 1 exhaust with a really unique sound, so I recognized its noise as the thief was overcoming me in the dark. I followed him for a while until he stopped at a bar. At that point he saw me and run away just before I could get my hands on him. I chased him blowing my horn and probably he got scared enough as to crash on the third corner, hurting himself. He still succeeded in fleeing on foot with a gun in his hand. When I called the police they did not even bother to come. You know what they told me? “Mind your words: it was you who gave him the bike! He could even report you to the police for assault!” “That’s crazy!”, I thought, “He ran away with my bike, he used it to do a robbery and it is my own fault? Are you mad?”

Studying English I have never studied English. In all my life I only took three night classes of English: it was a crash course for immigrants I took before leaving for the Netherlands with Ducati. Only later, living together with the other drivers I learned to speak a little bit and make me understood. And my wife helped me too. She learnt Italian in just one week, but, you know, she is Dutch and they are very good at languages…


Giuseppe Visenzi on the champions of the Sixties On Giacomo Agostini: “He was a great champion. I saw him winning at Assen in the 250, 350 and 500 cc. Assen is an exhausting track to drive. Two races on it are enough, and he run three of them! At the end of the 500 race he almost passed out… and he had made love before the 250 race (in the circus we had no secrets)”. On Mike Hailwood: “I met him at the hotel in Monza in 1964 and he came towards me and shook hands with me. I had arrived fourth overall and first among the private drivers in the 125 race, which he had won. I wanted to congratulate him for his victory, but he anticipated me, because he had seen the bike I rode. On that occasion I realized he was a man of rare qualities: honest, fair and generous. Unlike many of our drivers who were always fighting one another. He was always smiling. He really impressed me when I saw him riding a Benelli 500 in Monza: he entered the corner at full speed, without slowing down even a thread, doing it all drifting. And he lowered the lap time record too!” On Renzo Pasolini: “He was a great pilot and a really good man, so sometimes they took advantage of him. Unfortunately, he has always been unlucky and has

never had a bike that could support his great talent. He was often compelled to improvise, but when he had the opportunity to ride a good bike, like in Monza, he set the new record of the circuit. He was a great champion and a straightforward person”.

Memories of his wife Wilhelmina My father was Italian and had married a Dutch woman. He was a motorcycle and races enthusiast and had been working with MV Agusta and Gilera, so he had been used to take me to racing events since I was a child. I still have some pictures of me as a child in the arms of the MotoGP riders, though in many cases I do not know who they were. Count Giovanni Agusta usually called my father to book his warehouse for the Assen TT. My father would empty and clean everything as they came with a big truck with all the bikes and technicians for the race. My father had a long correspondence with count Agusta, for whom also served as an interpreter while in the Netherlands. One day he had to solve a problem with the Customs and called Giuseppe Visenzi, who was in the Netherlands to take part to the racing event and spoke Italian. So they met. In the Netherlands races were traditionally held on Saturday, so on Sunday pilots did not know what to do. They just hang around waiting to leave for the next race, which was to take place a week later in Belgium. On that occasion Visenzi came to see MV Agusta’ technicians

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Carrano and Mazza, who were at my house and were always working on bikes, even on Sundays. My mom at the time was very hospitable, especially with Italians, so she cooked spaghetti for everybody. Giuseppe was invited for lunch with my whole family and our guests. He was sitting right in front of me and looked so constantly at me as to make me feel uncomfortable. I asked my mother the reason why that Italian guy was staring at me. I was sixteen and that same evening the pilots and Giuseppe invited my sister and me to dance. It was a lovely evening and, at the end, Giuseppe and I hugged for the first time.

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On Sunday my father and I followed the pilots to Francorchamps for the race and there I came to know Giuseppe a little bit better. After the race we said goodbye and he went home. For months we would keep in touch by holding correspondence in English. We went on like this for a long time, maybe until the following January, when he was to be back again in the Netherlands to buy a Honda that he expected to be delivered in Amsterdam but that was eventually sent to Hamburg. He sent me a telegram asking me if I wanted to meet him there. And there we met again, even though he went away at once to take care of his business. In the first year of our romance we had very few occasions to be together, but when he was back for racing in Tubbergen I always went to see him. So, little by little, we fell in love, and so I wanted to see him. Therefore I went to Italy where we got engaged and after a couple of years we got married, when I was 19 years old: it was on 12th November 1963. I learned Italian very quickly, even if I had failed to do it when my father had tried to teach me in my childhood. But, you know, my father was such a grumpy person that I had vowed that I would never marry an Italian!

Since we were engaged I have always been present at the racing events Giuseppe was taking part to. We were young and in love with each other, and I respected his passion. I have never tried either to convince him to quit or thwart his ambition as a professional driver. On the contrary, I have always helped him. When I was pregnant with Vincenzo I even helped him to push his bike and I followed him all around Europe and Italy for his races. Five years later, when I was pregnant with Hendrika, I was at his side until the Francorchamps race in late June, a month before the birth of my daughter in late July. But we were young and my being pregnant was not a problem. We were always travelling around. Meanwhile we had bought a house in Brescia, and since Giuseppe made his living only out of racing we had quite a hard life. We had our personal expenses but we had to pay also for Giuseppe’s bike and the spare parts he needed to fix it, for the house and for our living. It was not that much fun. It was hard for the both of us: he had his job and I had to take care of our new born child Vincenzo. Then, after 1969, when he decided to quit racing, everything changed. A friend of his had advised Giuseppe not to leave me and our child alone at home. Moreover, had he got hurt while racing, what would happen to his family? Then there came his disappointment after his incident in Finland, when he broke his pelvis. Sure, Giacomo Agostini had taken him home, but after that almost no one called or came and visited him. He was left at home all alone. I think he felt forlorn and friendless, though he was very close to Agostini and Ubbiali. Then our daughter Hendrika was born. Giuseppe had taken me to the hospital and was still there when I


delivered her, but the day after little Hendrika was born he was headed to Finland for a race. He had his bags already packed, and I had washed and ironed everything in advance. So I was in the hospital all alone, and alone I came home holding my little baby in my arms, my bag and everything else. I was 19 and I was abroad, Italy was not my home country and I did not speak Italian: it was not easy. And you know what? After a week Giuseppe was in front of our house, but he was not standing… he was on Giacomo Agostini’s shoulders! He had broken his pelvis. I was scared but the worst was yet to come: it was August and it was very hot; I had to breastfeed Hendrika and take care of Giuseppe too, who was really banged up and could not even go to the bathroom by himself or undress. It was very hard. He had tried to go to the hospital here in Brescia, but he stayed there just one night since they mistreated him. They told him that as he was a driver what had happen was basically his own fault. But racing was his sport, his job… it was something they could not understand. However, even though he was enduring great pains, he decided to come back home. He had that kind of natural instinct that eventually drive pilots to get back to racing whatever the costs. He aimed to get back for the next event in Yugoslavia, because he did not want to lose points for the championship. And he wanted me to be at his side. Now, we had this Citroën estate from which he had removed the back seats in order to load the dismantled bike in it. We sat all in the front: he was at the steering wheel, I at his side with Hendrika in my arms, and Vincenzo in the middle. So we left, although

this time we did not tow the caravan and decided to stay in a hotel. Everything was going on well, practices, qualifying… but suddenly, during the race, Giuseppe disappeared and I could not see him crossing the start line for a new lap. I started crying: I was thinking of his crash in Finland, his pelvis, which was still healing… what could have happened? We were in Yugoslavia and it was very different from nowadays: you had only a very confused notion of what was happening during a race. Finally someone told me Giuseppe was fine, but he had lost the race and also the second place in the Championship. When we were travelling we used to live in our caravan and only rarely we checked in a hotel. But it was not strange, the “Circus” was such back then: very simple and easy-going. Even when you won a race, you could not expect any remarkable celebration; you raised your trophy, thanked for the flowers and it was over: you went back to your caravan. And for us a caravan was already a luxury, and we kept on using it even when Vincenzo was a child. We used to travel around the world that way. Until 1969. In the fall of 1969, finally, Giuseppe decided to heed his friend’s advice. As the era of maxi bikes was about to start – Hondas and Kawasakis were selling very well – we decided to set up our own showroom. We had very little money, and so we started with a tiny little shop; however, Giuseppe had a few contacts with Jap, Honda importer for Italy, and since he was a well-known pilot in the motorcycling world, they gave us that first bike to sell. Our new venture was moving its first steps! From being a pilot Giuseppe had to turn himself into a dealer; he was

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around all day looking for accessories and bikes, toing and froing up to Milan, while I stayed in our showroom with our little Hendrika. We had only one or two bikes on sale at a time, but when we saw that they were selling well we decided to buy a much bigger space, which had a warehouse in the basement too. This happened one year and a half after we started, in 1970. It was time for a change. We acquired the assets of a liquor store in viale Piave that had gone bankrupt, and sold its stock of bottles: that was the first real deal of our new business! Then we were able to cash on bikes’ boom years: Honda, Kawasaki, BMW, Montesa, Ossa, and the like… In those days bikes were status symbols, trendy items indeed, and we were very known in Brescia and in the surrounding area. Eventually Giuseppe got sick of bike dealing: he had reached success and he did not like that business anymore. He wanted to create something original with his own brand. He started with windscreens, cases and fairings, which were manufactured in our warehouse, until we moved our operations to our first factory in Fornaci in 1978. Giuseppe had a gift: he never gave up or was disheartened. Sometimes he would get worried, for sure, like you and me and everyone else, but he would never lose faith in himself. And he always had the guts to pursue what he wanted to achieve. He has not changed… Of course it is not easy to work with him. He is very good man, but he is extremely demanding and meticulous too, but, anyway, if our business prospered we must thank his way of being. Moreover, his business instincts are impressive; he has always had this ability

to feel where the market is going, to understand those tiny signals from the market. He has been travelling all over the world for a lot of years, and during his days as a bike driver he has always had this sort of situation awareness: he took note of everything. It is still so today. When we are on a vacation, Giuseppe will not be having a glance at window shops or going to museums, he will be looking at everything that surrounds him. It is as if he is always engaged in some sort of market research: he takes notes, he develops ideas. Well… that’s him.

The crash in Finland: Wilhelmina’s version When Hendrika was born, in late July 1969, Giuseppe went to Imatra, in Finland, for a Grand Prix of the World Championship. As we used to travel either by car or by truck, he left several days before the race with his Citroën DS to arrive on time for practicing. After the race, however, he and other pilots of the MV Agusta team, for which he was carrying the bikes to earn some money, were on their way back to Italy when they decided to stop near Helsinki to take part in another race; it was not a championship event but it was a prestigious one and offered a good prize too. Unfortunately, Giuseppe crashed during the race and broke his pelvis. They took him to the hospital in Helsinki, where they banded him and resigned him immediately afterwards, with no further treatment. Thank God Agostini did not abandon him and organized the trip back to Italy by plane in order to bring him home. I was at home at that time, because our daughter Hendrika was just born, and I knew nothing of what had


happened. Suddenly, I heard somebody knocking at my door so I went to open it and what did I see? Giacomo Agostini was in front on me with my husband leaning on his shoulders. I will never forget it. The days following Giuseppe’s return were the most difficult of my life, but, fortunately, I was young and I was able to master that situation. But it was not easy: I had to take care of our little five-year old boy and new-born Hendrika, whom I had to breastfeed, while Giuseppe was in bed with a broken pelvis and needed help for everything, even to go to the bathroom. He was really in misery. We had a picture taken of the four of us on the couch while he was recovering; he walked with a stick. But nothing could prevent Giuseppe from thinking about bikes and races! He was agonizing, because he was ranking second in the World Championship standings and he was losing points. So he did everything he could to get in shape enough to ride a bike as early as September, when the Grand Prix of Yugoslavia was scheduled in Opatija. I was really banged up and aching, but he wanted to race at all costs. Hendrika was only a few months old but the whole family got on the Citroën – which was also carrying the bike, of course – and off we went to support him as we had always done. It was an important opportunity for the Championship: he just needed a sixth place to rank next to Agostini. During the race I saw he was behind Grassetti, but I realized that he wanted to overtake him. I do not know what happened, maybe he had asked too much to the engine… the bike had a problem and he had to retire. Unfortunately this had happened at a point of the track that was far from

where I was, so I could not know nothing for sure. I do know that I was in the stands with our two children and I could not see him anymore. I knew Giuseppe was still suffering because of his pelvis and I thought something had gone wrong. I could not hold back the tears and I started crying until, an hour later, I saw him coming back. He was dragging his bike… I was relieved! We’re still together after half a century of marriage, two grown-up children and many grandchildren. It has been a wonderful life, maybe we haven’t had a moment’s rest and it has troubled me, especially when he raced. But now, looking back, I would do everything the same way. It has been a full life and we have lived it fully every single day, even during the years of the shop and then of the company. What else can I ask for?

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Indice La biografia

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Le prime gare alla fine degli anni ‘50

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La mia prima moto da corsa La mia prima Mondial e la mia prima cambiale In gara a Pontedecimo Giovi

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Gli anni ‘60 e le trasferte per il campionato del mondo

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Con i Pattoni in fuga da Genova Il millerighe preso in prestito La mia prima Ducati La Honda 125: un gioiello Il ricordo di Ruggero Mazza, meccanico MV Agusta L’australiano che mangiava le farfalle L’incidente in Finlandia e gli ultimi anni da pilota Vivo per miracolo e pronto per una nuova vita Due cuori e una passione: vita da pilota sposato

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Una nuova carriera come imprenditore

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Dalle gare al negozio Il primo bauletto Una Kawasaki recuperata a tutti i costi “Corse d’inglese”

68 73 79 79

Giuseppe Visenzi sui campioni degli anni ‘70

80

I ricordi della moglie Wilhelmina

84

L’incidente in Finlandia visto da sua moglie Wilhelmina

98

GIUSEPPE VISENZI A life on the bikes, first as a pilot in the Sixties, then as an entrepreneur with GiVi since the Seventies

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