Gavagnin

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La prima commemorazione di Mario Marinoni fu tenuta in questa aula da Giuseppe Donati, valido combattente dell'antifascismo, che morì esule in terra di Francia. Ed altre commemorazioni furono tenute da Silvio Trentín, dal Senatore Catellani e da altri uomini illustri. Può quindi sembrare presunzione la mia, o addirittura mancanza di rispetto l'aver accettato l’ invito. Ma se è così, io invoco almeno un’ attenuante ed è questa, che io con Lui e per Lui sono nato a questa mia modesta attività pubblica, che io con Lui e per Lui sono cioè nato alla libertà e al senso del dovere, in che si compendia, secondo me, l'azione politica. Venezia non poteva non ricordare, e non ricordare degnamente, Mario Marinoni, nel venticinquesimo della sua dipartita. Ed il Comune pensò a questo fine di intitolare a Mario Marinoni il Campiello della Fenice, perché lì sorse appunto una delle maggiori officine del periodo bellico, una di quelle molte officine che Egli fondò perchè il popolo ne avesse lavoro e ristoro. E, oltre a questo, pensò che i resti mortali di Mario Marinoni avrebbero dovuto riposare in un’arca monumentale, accanto ai resti di altri veneziani famosi, accanto a Gallina, accanto a Selvatico; e nessuno più di Mario Marinoni era degno di simile riconoscimento, perché nessuno più veneziano di lui che pure non era nato a Venezia. Questo proposito non diverrà realtà perchè Luisa e Marina, la consorte e la figlia, dissero: No, Mario non accetterebbe mai di essere tratto dalla terra che gli è madre, Mario non accetterebbe mai di abbandonare il suo posto fra il popolo, fra quel popolo che Egli ha amato, non accetterebbe mai il monumento, Mario che ha lasciato scritto di essere portato via alle cinque del mattino, senza che nessuno lo sapesse, non avrebbe mai accettato questo: Mario rimanga dov’è. Ed allora, per non togliere ai nostri figli la consolazione e l’ ispirazione che sempre si traggono dalle tombe dei nostri maggiori, il Comune ha dato perpetuità a quella tomba. Ed a quella tomba noi domani ci recheremo in pellegrinaggio d'amore, per rendere omaggio a Lui e per alimentare la nostra fede.


Mario Marinoni, nato nell' 85 a Mantova, girovagò l’ Italia da bambino seguendo il padre, insigne magistrato, e venuto a Venezia si iscrisse al Marco Polo, da dove fu licenziato con onore nel 1903. Fin da quei primi anni Egli dimostrò quale fosse la sua tempra, quale la sua volontà. Egli infatti, ancora studente di liceo, studiò stenografia, e la stenografia poi insegnò fin da quando fu studente e a Venezia e a Padova. Dopo la laurea, conseguita nel 1907, fu in Germania ad un corso di perfezionamento per il quale vinse una borsa. Nel 1910, a venticinque anni di età, conseguì la libera docenza in diritto internazionale e l'anno appresso ricevette un premio internazionale importantissimo, il premio Bluntschli, appunto per gli studi di diritto internazionale. La libera docenza esercitò a Padova, a Firenze, a Pisa e nel ‘14 vinse un concorso per la cattedra di diritto internazionale a Modena. Influenze e gelosie impedirono che assumesse immediatamente l’ insegnamento e addirittura venne annullato il concorso di cui era stato vincitore. Ma la sua dirittura era tale che il ricorso al Consiglio di Stato non solo lo ammise all’ insegnamento, ma riconobbe come data di inizio la data che avrebbe avuto se il concorso non fosse stato annullato. Dopo poco veniva promosso straordinario e poi ordinario, aveva trentatré anni di età. C’è chi ha messo come primo fra i titoli d’onore di Mario Marinoni la sua opera di insegnante, ed è questi un’ autorità altissima nel campo degli studi: il senatore Catellani. Io non so se sia veramente così. E non m’ interessa, del resto. So che difficilmente si può dire, tra le varie attività di Mario Marinoni, quale sia stata la più importante. Certo Egli fu tempra acuta di giurista, preparatissimo, di pronta intuizione, certo Egli diede allo studio un contributo notevolissimo, perché a Lui si deve se fu dato rigorismo scientifico a buona parte di quelle cognizioni e formulazioni più o meno empiriche che allora formavano il diritto internazionale, ancora ai primi passi.

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Le sue orazioni all'inaugurazione degli anni accademici di Firenze e di Modena, sono citate come esempio. Tratta la prima dell'efficacia del diritto internazionale, e venne tenuta a Firenze nel 1915, in piena guerra, ed in piena guerra Mario Marinoni sostenne che non già poteva considerarsi inesistente il diritto internazionale per il fatto bellico, ma doveva invece questo considerarsi semplice parentesi di barbarie tra i vari tentativi diretti a creare una umanità migliore. In questo senso infatti andavano considerati gli sforzi miranti a creare una società di Stati che eliminasse la guerra. E il secondo suo discorso, tenuto a Modena immediatamente dopo la guerra, tratta appunto della Società delle Nazioni come organizzazione giuridica di Stati che ha la capacità di sostituire al diritto della forza la forza del diritto. L’ attività scientifica di Mario Marinoni fu notevole, le sue pubblicazioni ascendono ad una trentina. Ma se si pensi che la sua attività scientifica cessò quasi totalmente all’ inizio della guerra, perché poi Egli ad altro dedicò le sue cure, si vedrà subito quale lavoro in brevissimo tempo abbia compiuto. Nel 1915, come dicevo, altro Egli fece. Già prima che l'Italia entrasse in guerra, il porto di Venezia perdeva i suoi traffici e perdeva, con la vita marinara, possibilità di commercio e di industrie. Scemava fortemente il movimento dei forestieri, nasceva ed accresceva rapida la disoccupazione, si creava uno stato di disagio. Mario Marinoni vide subito, vide immediatamente, con quell’ intuito che gli era proprio, che bisognava provvedere prima che il danno diventasse maggiore. Ed Egli fondò allora un Comitato di Assistenza e di difesa civile, comitato che assunse tutti i compiti, tutti, nessuno escluso, che potessero sorgere dalla nuova situazione. Un indice del lavoro svolto da questo Comitato, è dato dal numero delle razioni, delle refezioni anzi, che immediatamente furono distribuite ai bisognosi; settemila giornaliere, e non era che un inizio. Ma ai disoccupati vennero dati buoni per il vitto, fu pagato l’ affitto, fu istituito un asilo per i bambini, furono istituite apposite scuole, furono dati indumenti, furono subito istituiti dei laboratori: subito, perché Mario Marinoni affermò che non assistenza doveva essere 3


data ai disoccupati, ma lavoro. Ed infatti Egli, con la sua attività, e con le possibilità di lavoro che inesaustamente creò, diede immediata occupazione a duemila cucitrici a domicilio. Un laboratorio fece sorgere nella sala del Selva, al Teatro La Fenice, altri ne fece sorgere al Lido e vi fu lavoro per altre 200 lavoratrici, poi furono creati laboratori di falegnameria, e così via. Il Teatro La Fenice era a disposizione del Comitato di Assistenza e difesa civile, che aveva come dirigenti uomini dai nomi altisonanti, ma che aveva un solo animatore: Mario Marinoni, coadiuvato da quel momento e poi sempre da due uomini che gli furono e gli sono devotissimi, e sono i due unici uomini fra i viventi che io nomino questa sera: il dott. Venuti e l’ avv. Vianello Chiodo. Mario Marinoni volle fin dal primo momento che il Comitato vivesse unicamente del concorso dei privati, non volle assolutamente ricorrere allo Stato o al Comune. Egli considerava che lo Stato o il Comune avevano abbastanza da fare: avrebbe Egli pensato a tutto. Ed infatti si rivolse ai cittadini di Venezia ed immediatamente raccolse oltre un milione di sottoscrizioni. Tenete presente che eravamo in pieno periodo di guerra e che i milioni valevano qualcosa più di oggi. Nel comitato creò Sezioni per l’ infanzia, per il lavoro, per i sussidi alle famiglie dei richiamati, per soccorsi, per aiuti sanitari, la Sezione femminile ed altre ancora che io non ricordo. La sua opera non si restrinse all’ assistenza. Svolse opera efficacissima per il prestito della Vittoria - per il primo e per gli altri - e provvide ai nostri combattenti, ai quali inviò pacchi natalizi. Ma soprattutto realizzò a Venezia quello che probabilmente fu realizzato soltanto con Lui in quei momento: la fusione completa degli spiriti. Egli, non so come, unì nobili e plebei, ricchi e poveri. E tutti davano. Chi poteva dava denaro, chi non poteva dava lavoro. Era veramente il centro della concordia: qui a Venezia, tutti, per tutto, ci si rivolgeva a Lui.

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Nel secondo anno, 1916, i compiti del Comitato si allargarono: migliaia dì bambini furono accolti negli Asili da Lui voluti. E sempre più Egli confermò la volontà che la beneficenza non fosse corruttrice, e quindi ai bisognosi, per esempio, non corrispose l’ intero importo del fitto, ma soltanto una parte; l’ altra parte doveva essere pagata dall’ interessato, al quale però Egli procurava lavoro. Quattro milioni e mezzo di beneficenza nel secondo anno e la creazione di una trattoria cooperativa, di una cucina popolare, di una scuola professionale d’ arti e mestieri, di una Sezione lavori in lana, e così via. Alcune iniziative dicono quale fosse il cuore di Mario Marinoni; c’ erano lavoratrici che non possedevano la macchina da cucire ed Egli le mise in grado di avere la macchina da cucire. Ci fu la distruzione del Cotonificio, e per le lavoratrici del Cotonificio che naturalmente cambiarono mestiere - Egli fondò un laboratorio alla Casa del popolo. C'era la necessità di calmare l’ ascesa dei prezzi, ed Egli fondò la Giunta per i consumi, che sorse proprio con funzione di calmiere. Egli disse e fece semplicemente quello che la scienza economica ha sempre affermato: nessun calmiere, nessuna imposizione. L’ imposizione serve solo a far sparire la merce, « istituiamo spacci cooperativi, disse, istituiamo la Giunta dei consumi », che opererà come naturale calmiere, vendendo a bassi prezzi. Ed infatti la Giunta dei consumi adempì pienamente a questo compito. Non solo aperse immediatamente otto spacci cooperativi, ma fece vendere i propri prodotti da tutti i biadaioli, i quali dovevano vendere a prezzo fisso e in sacchetti sigillati. Così facendo, naturalmente, tutti i prezzi abbassarono e mantennero una stabilità che non fu altrove. Alla Giunta per i consumi non venne soltanto attribuito questo compito, pure importantissimo, ma altri ancora, la Giunta fondò infatti uno stabilimento per la reintegrazione del latte, una fabbrica di ghiaccio, un ristorante, una cucina popolare; aprì negozi di stoffe, rifornì la città non solo di farina, carne, uova, ma anche di pesce a buon prezzo perché strinse particolari accordi con vallicoltori e pescatori.

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Nel ‘17, il bilancio del Comitato di Assistenza e difesa civile non fu pubblicato. Qualcosa era accaduto in quel periodo, e Caporetto aveva fatto sorgere ben altre necessità. Fu necessario sgomberare. Una mattina, dopo otto ore di bombardamento aereo, Mario Marinonì, che aveva vegliato tutta la notte, corse in campo dell’Arsenale, dove la cittadinanza tumultuava chiedendo che immediatamente fosse organizzato l’ abbandono della città. E Mario Marinoni, convinto di questa necessità, anche perché ormai scemavano le possibilità di lavoro, essendo partite molte aziende industriali e commerciali, calmò immediatamente la folla, si recò a parlamentare col Comandante in Capo del Dipartimento (di cui naturalmente era amico, perché era amico di tutti, e del Prefetto e del Sindaco e del Patriarca e del Comandante in Capo, i quali tutti sostanzialmente lo seguivano, perché, tutti riconoscevano in Lui il migliore) ed ottenne l’ immediato esodo che si svolse proprio secondo le linee da Lui segnate. Se qui non avemmo gli strazi del Belgio e della Francia, questo si deve proprio a Lui, che risolse il problema dell' esodo trattando direttamente col Ministero affinché una zona, in qualche parte d’Italia, fosse riservata ai profughi veneti. E fu infatti in Romagna, zona che Egli considerava non rispondente ai bisogni dei cittadini di Venezia, ma che di fronte all’ intransigenza ministeriale finì per accettare. E allora dispose senz’ altro per lo spostamento. Laggiù dove i profughi si recarono trovarono che molto, se non tutto, era stato predisposto, constarono che anche laggiù avevano possibilità di vita. I veneziani che vi si trasferirono, ebbero propri uffici comunali, scuole, laboratori. Chi non poté resistere - e non poté perché effettivamente la località non era molto adatta - fu nuovamente trasferito, sempre a cura dei Comitato. Non soltanto questo si fece per i nostri fratelli: furono istituite colà sezioni della Giunta dei consumi, perché da Venezia si provvedesse anche ai bisogni alimentari e furono istituiti uffici regionali per tutti coloro che si erano recati altrove con mezzi propri. Inoltre Egli dispose perché tutte le attività di lavoro fossero trasferite in modo da giovare ai veneziani lontani dalla propria città,

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mentre nel contempo provvedeva perché qui queste attività venissero sostituite. Anche dopo l’ esodo, le razioni del Comitato di Assistenza aumentarono. Divennero 23.000, malgrado Venezia fosse spopolata. In una relazione che Egli fece allora, diceva: « Se la fatica divenne talora aspra, assillante, non fu vana. Confortò sempre e incitò la meravigliosa virtù della nostra gente, che rinnovò, perfezionandoli per costanza di sacrificio, gli eroismi degli anni più insigni ». Se la fatica divenne aspra, assillante, non fu vana certamente, perché salvò la nostra gente. Ma fu quella fatica che uccise Mario Marinoni. Fu quella fatica che consunse, come ben disse il Bordiga, quella giovane vita. Mario in quel periodo non mangiava, non dormiva. Sono ancora vivi coloro che ricordano come qui, nella sala del Selva, dov’ era il suo ufficio, egli restasse troppo tempo. E tante volte chiamava la custode perché gli cuocesse un uovo che costituiva la sua totale colazione. A sera rincasava tardi, mangiava un boccone e continuava a lavorare. Dormiva pochissimo e al mattino ricominciava. Che se poi incontrava per la strada un povero, uno dei moltissimi che immediatamente gli si appressavano, ebbene, egli non mangiava. Arrivato a casa non gli riusciva di mandar giù il cibo pensando che altri non poteva avere lo stesso ristoro. Ed arrivò al gesto francescano, ch’ è forse il gesto della perfezione, di cedere in strada il proprio mantello a chi n’ era privo. Mario Marinoni non ebbe mai nessuna carica perché nessuna carica volle. Ma, dopo Caporetto, fu chiamato per invito a far parte della Giunta Comunale, perché la sua attività era considerata indispensabile, perché in Lui si fondevano, si riassumevano, tutte le attività cittadine. E in Giunta Comunale diede la dimostrazione delle sue qualità, dei suo intuito, della sua preparazione. Non c'era problema che non fosse in grado di trattare. Davanti a Lui, gli altri tacevano. Quando finì la guerra, Mario pensò che un altro compito immane gli era riservato - « La ricostruzione della città, della sua potenza di lavoro, fu ed è il dovere di tutti i veneziani » scriveva. - Quando ancora infuriava la

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guerra, Egli pensava alla resurrezione, Egli pensava alla ricostruzione: « Cessata la guerra, liberato da insidie il suo mare, Venezia deve attendere la sua salvezza dal lavoro. Non rinasce una città per larghezza di soccorsi: non è duraturo che il prodigio del lavoro ». Il lavoro, il lavoro, sempre il lavoro. Il Comitato di Assistenza e difesa civile doveva trasformarsi e immediatamente, sotto il suo impulso, si trasformò. « Il Comitato, a nostro avviso, deve preordinare la sua estinzione come organo erogatore di aiuti individuali. Quel che nella sua azione deve perdurare, deve essere affidato ad organi propri, che perpetuino l’ azione, la migliorino. Quel che è provvidenza elemosiniera deve esser caduco e deve esser ceduto presto alle ordinarie opere pie, rese più atte, per maggiori mezzi economici, ad assolvere il loro mandato. Già si trasformò la nostra sezione « Giunta per i consumi di prima necessità » primo fra gli Enti comunali di consumo, in un ente morale perenne; già si costituì, per continuare l’azione della sezione per il lavoro maschile, un magazzino cooperativo per le piccole industrie ed è quasi formata una cooperativa di sarte, di ricamatrici, perché non cessi col Comitato l’ attività svolta dai laboratori femminili. Affinché l’ azione si unifichi e corrisponda più propriamente al bisogno, già conferimmo all'Associazione nazionale dei Mutilati ogni provvidenza a favore di quanti più hanno dato di martirio alla Patria; già unificammo la nostra sezione per gli orfani di guerra con la sede locale dell’ Opera nazionale per la loro assistenza civile e religiosa. Così noi speriamo che la benemerita Società contro la tubercolosi assuma tutta l'assistenza a questi malati, che richieggono con le loro famiglie, speciali, larghi aiuti; così noi confidiamo con il prossimo anno scolastico che l’ Opera pia degli asili d’ infanzia assuma e perpetui, per il bene dei bambini, tutta la molteplice attività svolta fin qui dal Comitato ». - E così tutti questi incarichi molteplici, egli passò agli organi normali, perché con la normalità il Comitato di Assistenza e difesa civile doveva prima trasformarsi per rispondere ai compiti del momento, poi scomparire. « La cittadinanza può aver avuto l’ illusione che si sia ristabilita ogni impresa, che il lavoro sia rinato, fecondo. Così può essere apparsa inutile, superflua l'opera nostra. Non ci si inganni: Venezia non ha ancora i suoi traffici marinari, ancora non ha il suo commercio, la sua industria. La vita del lavoro stenta a riformarsi. E può trarre in errore l’ aspetto della città, cui contribuisce in questi mesi la schiera non piccola degli ospiti. Finché il lavoro non rinasca, e finchè non sia pieno, l’assistenza continua ad essere dolorosa necessità ».

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E così termina questa relazione : « A significare intero l'animo che ci mosse e ci guidò nel compito, noi rammentiamo un nostro impegno, il più caro: dare a Venezia la sua scuola per il lavoro. Creandola, s’adempierà compiutamente il nostro voto. Noi abbiamo sempre sentito che questi anni di ardimento e di sacrificio, dovevano preparare una gloria nuova per la città gloriosa: la signoria del lavoro. Questa fede che non tradimmo, faccia perdonare se il disegno e l'opera non furono sempre, come avremmo voluto, degni di Venezia e del tempo ». E siamo al 1919, l’ anno delle costruzioni durature. Io non so quando Mario Marinoni sia stato più grande, certo per me il 1919 è il suo anno. È veramente l’ anno in cui Mario Marinoni più dà a Venezia, nonostante avesse già dato tanto ch’era ben difficile aspettarsi di più. Egli ha accennato alla necessità di una scuola del lavoro. Ebbene, egli fonda l’ Istituto per il lavoro - 1919. Fonda l’ Istituto per il lavoro, che mira a facilitare il sorgere e lo svilupparsi delle piccole industrie di Venezia e del Veneto, con particolare riguardo all’ artigianato caratteristico che viene incoraggiato ed assistito con ogni mezzo, soprattutto con la concessione del credito e con l’ istruzione professionale, per promuovere l’ istruzione a favore dei giovani in laboratori-scuola di rapido e fecondo addestramento. Io voglio ricordare uno dei mille episodi che dicono l'animo di quest’ uomo. Egli naturalmente pensava alla necessità di dare possibilità di lavoro agli artigiani e in particolare a quelli ex combattenti. Perchè questo fosse, bisognava che gli artigiani disponessero della somma necessaria per l’ impianto delle officine, e questa somma difficilmente poteva essere data, perché si trattava di reduci che non possedevano nulla. Egli fondò allora il prestito sull’ onore: bastava che l’ artigiano si impegnasse sul proprio onore a restituire la somma avuta in prestito, e veniva messo in grado di fondare la propria officina e di iniziare la propria attività che avrebbe svolto non solo per sè, ma anche nell'interesse della collettività. E volle istituire il Sindacato cooperativo fra le industrie caratteristiche delle Venezie, comprendente le industrie del vetro, del

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marmo, dei mobili artistici, delle stoffe, dei bronzi che, pur avendo splendore di tradizioni, anche allora stavano decadendo, come oggi purtroppo. Ma oggi non c'è più Mario Marinoni. Questo Sindacato ebbe sede nei locali dell'ex Palazzo Reale, che fra poco nuovamente accoglieranno una mostra d’ arte decorativa dell' Istituto Veneto per il Lavoro, e dove sorsero botteghe d’ arte e mostre dell'artigianato veneziano. Mario Marinoni fu inoltre promotore di una Scuola nazionale vetraria, che approfondisse e curasse le ricerche scientifiche attinenti all’ arte meravigliosa, quest’ arte di cui conosceva le necessità, quest’ arte che, appunto per quel che riguarda il lato scientifico - mi si passi l’ imprecisione dei termini mostra enormi deficienze, mentre non ne mostra per il lato artistico che è nella tradizione della nostra gente operosa. Ancora Egli patrocinò, a mezzo dell' Istituto, un Ufficio informazioni per i forestieri, perché voleva in un certo senso normalizzare l’ industria turistica e perché tutti coloro che avevano contatti con gli stranieri fossero in grado di mostrare che gli italiani valevano più di quanto non fossero considerati all’ estero. Egli non fu solo il fondatore, ma anche l’ animatore dell'istituto per il lavoro ed a mezzo di Silvio Trentin, suo inobliabile, suo grande collaboratore, promosse una legislazione per le piccole industrie e l’ artigianato, che fu dimenticata, messa in non cale dal fascismo, ma che sarà certamente riproposta alla democrazia italiana. L’ Istituto per il lavoro svolge ancora oggi una nobile opera; ancora oggi, in tempi difficili, sta estendendo la sua attività. Chi non conosce l’ Istituto per il lavoro, si rechi nei suoi laboratori, vada nelle officine meccaniche di Campo dell’ Arsenale, o nel laboratorio di falegnameria in Rio terrà dei pensieri, e vedrà quali artigiani crescono a queste scuole e vedrà i lavori che sono stati fatti dagli allievi ex partigiani che queste scuole hanno frequentato per soli sei mesi, e vedrà di quale utilità sia questa opera di Mario Marinoni, che noi abbiamo la colpa di non saper maggiormente potenziare. 1919: Istituto per il lavoro; 1919: Provveditorato al porto. Mario Marinoni sapeva che non ci sarebbe stata possibilità per l'industria e

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per il commercio di Venezia, soprattutto non ci sarebbe stata possibilità di vita per la città, se non fosse stato riattivato il porto. Il porto era durante la guerra, in mani militari ed era gestito anche in tempi normali, dall’ Amministrazione ferroviaria, per la quale la stazione di Venezia-Mare non era che una delle infinite stazioni d’Italia. Ben altro ci voleva. Mario Marinoni vide, fin da quando durava la guerra, la necessità di creare un organismo che avrebbe dovuto avere l'unico compito di attivare il nostro porto. A questo divisamento Egli fu portato anche perché aveva visto l’ uomo al quale poteva essere conferito il pesante incarico. Durante la guerra egli aveva avuto larghi contatti con le ferrovie e vi aveva conosciuto l’ ing. Leopoldo Carraro che dirigeva tutto il movimento dei trasporti militari, uomo di larghe vedute, di soda preparazione tecnica, dì esemplare dirittura. Pensò allora che a quest’ uomo, trattenuto a Venezia, si dovesse affidare il solo compito di provvedere alle infinite esigenze del porto. Se ciò fosse stato possibile, probabilmente Venezia - egli pensava - avrebbe avuto giorni migliori. E non s’ ingannò. Il primo Provveditore al porto rispose completamente alle aspettative, poiché il Provveditorato fu naturalmente istituito. Dico naturalmente, perché quando Mario Marinoni voleva fare una cosa, la voleva sul serio: era di una volontà ferrea; in quel corpo debole c’ era un’ anima da gigante. Quando voleva, faceva. Al Provveditorato al porto egli assegnò i primi compiti, i compiti necessari: riduzione al minimo del costo dei trasporti e delle spese di esercizio, riduzione del personale ma, badate bene, via via che nuove possibilità di lavoro fossero date a coloro che dovevano lasciare il loro vecchio lavoro; sistemazione delle linee ferroviarie d’ accesso; sviluppo delle comunicazioni stradali; sviluppo della navigazione interna; sviluppo della navigazione interna - dico - che è l'elemento che diversifica il nostro porto da tutti gli altri. Già durante la guerra, Egli aveva avuto tra gli scaricatori del porto una larghissima popolarità che era poi frutto di riconoscenza, perché fin dal primo momento, quando agli scaricatori del porto di Venezia mancò il lavoro, Egli provvide, con sua iniziativa personale, a trasferire tutti quelli che desideravano essere trasferiti, naturalmente

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dopo aver loro trovato altrove nuove possibilità di lavoro. E così molti nostri scaricatori poterono vivere. Era quindi riconoscenza, ma crebbe quando, mercé sua, il porto cominciò a lavorare. Ed Egli fu il capo riconosciuto degli scaricatori del porto, con un ascendente altissimo. Non ci fu mai uno sciopero, mai. Perché Egli interveniva, e quando interveniva inevitabilmente placava: nessuno resisteva al suo fascino, alla sua forza, nessuno. Ho detto mai uno sciopero, ma vi fu una eccezione. Un giorno, duemila scaricatori tumultuavano violentemente per ottenere un aumento delle tariffe. E mentre essi tumultuavano, due piroscafi già da quaranta ore erano alla fonda, due piroscafi che avevano portato a Venezia generi alimentari e combustibili di cui la cittadinanza aveva assoluto bisogno. Di fronte agli scioperanti, ai duemila scioperanti, erano alcune compagnie miste di fanteria e marina. Ad un certo momento fu dato uno squillo e già si stava per caricare gli scioperanti, quando arrivò Mario Marinoni. L’ agitazione era al colmo. - Egli chiese di parlare. Qualche scalmanato volle impedire, ma ci fu qualche saggio che disse: Mario Marinoni deve sempre parlare. Ed Egli parlò, come soltanto Lui sapeva parlare. Dopo pochi minuti quegli uomini si recavano al lavoro e quei piroscafi cominciavano il loro lavoro di scarico. Un altro problema importantissimo, e che non interessava soltanto Venezia, ma l’ Italia, un problema direttamente legato a quello della navigazione interna, che Egli ampiamente trattò, è il problema dell’ internazionalizzazione del Po. - La conferenza di Versaglia stranamente aveva deciso dopo la fine della prima guerra mondiale che il Po venisse internazionalizzato. - Stranamente dico, perché non c' è nessuna norma che così disponga, quando un fiume contenga tutto il suo corso lungo un unico paese. Norma costante è che l’ internazionalizzazione possa avvenire soltanto quando il corso di un fiume interessi più paesi. E tuttavia, su intervento della Svizzera, l’ internazionalizzazione venne decisa. Era cosa che offendeva l’ Italia, cosa che menomava la sovranità del paese. E Mario Marinoni insorse, formò il solito Comitato, in cui Egli

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figurava e non figurava, e stese delle relazioni, e formò delle Commissioni di studio e mandò immediatamente una Commissione alla Conferenza di Barcellona, che si riuniva per esaminare questo problema. Egli scrisse allora: « L’ internazionalizzazione del fiume Po, così com’ è proposta alla Conferenza di Barcellona - viola il diritto dell’ Italia sul suo territorio, limita il diritto interno e internazionale dell’ Italia, non è necessaria alla tutela delle aspirazioni della Svizzera. Invero, secondo il vigente diritto internazionale, - è fiume internazionale il fiume che percorre o separa il territorio di due o più Stati ». « Le convenzioni - scriveva ancora - preordinate per la conferenza di Barcellona, tolgono all’ Italia il diritto sovrano che essa ha avuto ed ha sul Po, sul Ticino e che le deriva dall’ esser quei fiumi compresi nel suo territorio: che è la proiezione, per così dire, spaziale della sua potestà, che è íl fondamento e, insieme, la garanzia della sua difesa ». Ma Egli dimostrava anche in questo quale fosse il suo spirito, quanto la sua mente fosse aperta al progresso. Infatti concludeva: « Noi dovremo accordare alla Svizzera il diritto di libera navigazione, il diritto di libero transito, ma il diritto di libera navigazione e di libero transito non innova nell’ ordine giuridico internazionale, perché proprio per il Po fu stabilito fra l’ Austria e l’ Italia, e può essere concesso alla Svizzera senza annullare, come fa la progettata convenzione di Barcellona, il diritto dell’ Italia sul suo territorio, e per l'ordine giuridico interno e per l'ordine giuridico internazionale ». E per opera sua - di internazionalizzazione del Po non si parlò più. 1919. Provveduto alla scuola per il lavoro e al porto, e quindi ai commerci e alle industrie di Venezia, era necessario provvedere ad altro. Si dibatteva allora, s’ era dibattuta anche prima, una grave questione: il risarcimento dei danni di guerra. Sosteneva qualcuno che lo Stato non avrebbe avuto il dovere di risarcire; sosteneva qualche altro, e fra questi Mario Marinoni, che lo Stato doveva risarcire, perché il risarcimento significa né più né meno che la ripartizione su tutti i cittadini dei danni che soltanto da alcuni di essi erano stati riportati per fatti di guerra. Quindi il principio era soprattutto un principio di equità. Anche questa battaglia Egli vinse, ed un’ altra più tardi ingaggiò, perché il Ministero delle terre liberate, che un grande compito aveva

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nel risorgimento delle Venezie, avesse sede a Venezia. Questo non gli riuscì completamente. Il Ministero rimase a Roma e soltanto alcuni uffici staccati vennero nelle Venezie. Egli aveva chiesto che sorgesse un ente il quale anticipasse, nel risarcimento dei danni di guerra, l’ opera dello Stato, perché chissà quando lo Stato avrebbe potuto risarcire, mentre invece il risarcimento era necessario subito, perché subito si doveva ricostruire. E, nel 1919, fu questa la terza grande realizzazione di Mario Marinoni. Egli scriveva allora sulla Gazzetta di Venezia del 19 febbraio 1919: « Un comunicato di ieri annunziava che il Governo, auspice l’ on. Fradeletto, ha deliberato norme per il credito agrario, per gli anticipi del risarcimento del danno, alle piccole fortune particolarmente. Oggi, se le nostre notizie non sono inesatte, le Casse di Risparmio del Veneto creano qui un Istituto federale per provvedere nella Venezia ad attuare il voto del Governo che è antica, dolorante invocazione della nostra gente. Sembra s’ inizi davvero un tempo nuovo: il tempo della comune speranza. Noi già difendemmo, anche da queste colonne, la necessità di un Banco per la Venezia, che, senza scopo di speculazione, associando ogni forza viva della Regione, assicurasse anticipi sul risarcimento del danno, procurasse il credito a condizioni di favore, unificasse le esigenze economiche del nostro popolo e ne ottenesse tutela dallo Stato. Se il tempo non fosse stato perduto, se il Banco fosse sorto quando già si era raccolta l’ adesione delle amministrazioni provinciali, molte deficienze sarebbero state evitate, molta azione del Governo si sarebbe ottenuta per una più chiara notizia del bisogno, per una più forte volontà di veneti..... Ma non si indugi più oltre, Il credito fondiario che lo Stato attribuisce a tutte le Casse di Risparmio del Veneto accresce la potenza economica del nuovo istituto. Il Governo oggi non manca, finalmente. Non manchiamo, noi veneti, al nostro dovere. E facciamo forte l’ istituto che oggi si crea; e che è onore del Comune di Venezia, che lo invocò primo, che non smarrì la fede per le molte difficoltà, che non si ritrasse dall’ arringo per le amarezze dell’ opposizione, che non s’ avvilì per l’ indifferenza di molti, di troppi ». Onore del Comune di Venezia, certamente, ma anche onore di Mario Marinoni, - si può aggiungere.

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Sorgeva l’ Istituto federale di credito per i risorgimento delle Venezie. Il provvedimento governativo riconosceva il diritto al risarcimento a favore dei danneggiati di guerra e sanciva così la solidarietà di tutti gli italiani nel sopportare l’ onere derivato dalla guerra. In seno alla Giunta comunale di Venezia, tutti problemi riguardanti la rinascita della regione - vennero studiati in funzione delle nuove provvidenze. L’ idea che Mario Marinoni nato prima della vittoria, si concretò quindi in un piano preciso che trovò l’ adesione delle autorità centrali. Il nuovo Istituto avrebbe, raccolto gli enti economici del Vecchio Veneto e poi, non appena avvenuta l’ annessione delle nuove province, e vi fosse stata estesa la legga sui risarcimenti, avrebbe anche accolto la Venezia Giulia e la Venezia Tridentina ed avrebbe assunto la funzione di anticipare l’ applicazione delle disposizioni sul risarcimento dei danni di guerra, svolgendo nel contempo una propria azione, nella forma del credito ordinario ed agrario, affiancatrice di quella eseguita dallo Stato. Il capitale iniziale del nuovo Istituto fu di, ventitré milioni, apportato da trentun enti: Casse di risparmio, Monti di pietà e Banche popolari, ma fin dal principio vollero portare il loro concorso anche Istituti di credito di altre regioni: la Cassa di risparmio delle province lombarde, il Banco di Napoli, il Monte dei Paschi di Siena, ecc. ecc., cosa questa notevole per l’ importanza morale profonda di queste adesioni che attuavano, nel campo del credito, la solidarietà fra le principali forze produttrici della nazione tutta, nell’ opera di ricostruzione delle province più direttamente colpite dalla guerra. L’ Istituto ebbe sede a Venezia, presso la Cassa di risparmio, perché da Venezia, dove palpita il cuore di tutta la regione e che subì gloriose ferite di guerra, doveva partire l’ opera risanatrice della terra veneta. Quale sia stato il suo apporto, si può vedere prestissimo, con pochissimi cenni. L’ Istituto, che iniziò la sua attività nell’ agosto del 1919, alla fine del 1920, cioè in un anno e mezzo, aveva già erogato anticipazioni per un complessivo importo di oltre 836 milioni. E al 31 dicembre 1923, epoca nella quale l’ opera di ricostruzione era giunta a compimento, aveva effettuato anticipazioni in numero di

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250.292 per un miliardo e 602 milioni di lire. Questa è stata l’ opera dell' Istituto federale per il risorgimento delle Venezia. Questa è stata l’opera di Mario Marinoni. Sono tre dunque gli Istituti maggiori che Egli ha creato: non parliamo degli altri, che sono infiniti. Tre istituti che ancora oggi vivono e ancor oggi contribuiscono a dar vita a questa nostra meravigliosa città. Eppure non ho ancora parlato di quello che, secondo me, è il più alto monumento che si possa elevare a gloria di Mario Marinoni, non ho ancora parlato della sua legge per Venezia. Ancora 1919. Mario Marinoni vede i complessi problemi della sua città, vede la necessità di risolverli, ed Egli stesso a tutti questi problemi addita soluzioni, e tenta di imporle. Egli studia quindi il progetto di una legge per Venezia che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi della città, ne compila il testo e la relazione che sottopone alla Giunta comunale. Non possibile scendere a particolari, ma pure qualcosa debbo dire. Nella sua relazione (trascuro il testo della legge) egli parla della restaurazione dei commerci e delle industrie, dei privilegi fiscali per l’ industria e il commercio, dell’ estensione delle leggi per Napoli, per le provincia meridionali, per la Sicilia e la Sardegna, tratta il rimborso delle spese per il ritorno a Venezia delle sue industrie e di tutte le sue attività, che Egli temeva trovassero altrove stabile residenza. E tutte tornarono. Ancora egli proponeva il condono, fino a tre anni dopo la pace, delle tasse ed imposte sospese, la revisione dei ruoli delle poste, l’ annullamento degli aumenti di reddito per revisioni parziali, le zone per le grandi e le medie industrie. Quì è trattato un problema la cui giusta soluzione Egli vedeva e la cui cattiva soluzione adottata noi oggi constatiamo. Diceva questa sua relazione: « Lo Stato, facilitando la costruzione del porto di Marghera ed il sorgere in quel territorio di una città industriale, ha seguito sempre la chiara, ferma volontà del Comune: accrescere di nuovi bacini il porto, accrescere di nuove industrie la città, per una maggiore pienezza di sviluppo dei traffici e delle industrie.... Ma perchè le nostre maestranze, esperte in ogni più fine lavoro, non manchino d’

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impiego, perché si completino le grandi imprese che sorgeranno a Marghera, conviene predisporre l’ area a medie industrie, a quelle che, di solito, non richieggono più di cinquemila metri di superficie. Parve savio destinare a sede di queste medie industrie un conveniente spazio nell’ isola della Giudecca: il progetto tecnico e già predisposto: gli art. 1 e 3 della legge che proponiamo indicano i mezzi che si reputano necessari per l’ attuazione. Basta dire, senza più ampio Commento, che si vogliono estese le concessioni, tutte quante, fatte per le zone industriali di Marghera; una qualsiasi difformità sarebbe ingiustificabile: la media industria, se mai, richiede maggiori, non minori facilitazioni, della grande industria. Così, secondo il nostro intendimento, le grandi industrie spazierebbero a Marghera, le medie si raccoglierebbero alla Giudecca, le piccole per le quali bastano i privilegi fiscali - dei quali si è già fatto menzione - sarebbero sparse in tutta la città ». A Marghera invece sono sorte le grandi ed anche le medie industrie, ma quello che Egli prevedeva è diventato realtà. Se qualcuno ritiene che veramente la zona industriale di Marghera sia la zona industriale di Venezia anche per quello che riguarda l'impiego delle maestranze, è superfluo quello che io dirò adesso e cioè che se tutte le grandi industrie avessero trovato posto a Marghera e le medie alla Giudecca, le nostre maestranze, quelle specializzate soprattutto, avrebbero certamente avuto maggiori possibilità di lavoro. Ed ancora egli pensa ad un avanporto marittimo-fluviale agli Alberoni, a una maggiore dotazione di energia elettrica mediante l’ assunzione di questo compito da parte del Comune, e tratta ampiamente dell'Arsenale, perché come Egli volle infinito bene ai lavoratori del Porto, così volle bene agli operai dell’ Arsenale, che in ogni momento lo considerarono loro capo. Ed Egli, in questa legge, si preoccupa che l’ Arsenale sia destinato alla costruzione di navi mercantili, perché non venga meno uno dei nostri più antichi stabilimenti e non manchi impiego alle nostre maestranze. E chiede che questo si faccia perché « si rinnovi quella marineria mercantile, troppo impari ai bisogni, troppo inferiore alle forti tradizioni delle nostre repubbliche marinare ». Proseguendo egli si preoccupa dell’ augurabile e inevitabile espansione del Comune, prevede la necessità del

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congiungimento di Venezia con la terraferma, e naturalmente pensa alla Scuola alla quale ha sempre pensato, alla scuola e all’ educazione. Perché Egli profondamente mazziniano sa che non esiste progresso se non aumenta l’ educazione. « Ogni conquista del lavoro sulla forza bruta vuol essere sorretta dalla scuola, che innamori dello studio, dell’ opera, della fatica medesima, sì che il lavorante diventi l’ artefice, il tecnico, maestro d’ arte e di vita ». Ed ancora egli voleva « per Venezia nostra rinascita di marineria, rifiorimento d’ industrie e perciò una scuola superiore navale, una scuola professionale, completata da una stazione sperimentale per la più nostra delle nostre industrie: quella del vetro ». E pensava alla Esposizione internazionale d’ arte e ad infiniti altri problemi. A tutti i problemi di Venezia. Perché questa legge rimase allo stato di progetto? Non si può dire; perché quando si parla di Mario Marínoní, soprattutto quando si parla con lo spirito di Mario Marinoni, non si può offendere, non si può menomare nessuno. Così con questa che io considero la Sua opera maggiore, sì chiude quello che secondo me è stato il più grande anno di Mario Marinoni: il 1919. Giunti a questo punto, visto quale sia stato il lavoro altissimo della sua personalità nel campo degli studi, quale sia stata la sua possanza nel campo delle realizzazioni, bisogna ben dire quale fosse il suo pensiero politico. Mario Marinoni sentì la politica come un alto dovere. Segretario, prima della guerra, del Partito radicale, fu fin d’allora l’ organizzatore delle forze democratiche del Veneto. Voi avete visto, quando ho parlato della sua dottrina giuridica, cosa Egli pensasse della guerra e della Società degli Stati. Ebbene, alla sua concezione giuridica Egli arrivava da posizioni politiche ben precise: infatti, fin dal 1909 - ed Egli aveva allora 24 anni - così scriveva della guerra: « Mentre s’ ode il rumor delle armi, non si può udire la voce di una legge, non ancora formata, che proclami, che esalti la pacifica opera umana di tutti gli Stati.... Quando per lunga propaganda, gli animi dei più si convincano della necessità di una lotta, che pur batte il vinto e il vincitore, non vi ha forza di ragione che trattenga gli impeti di una nazione ». (Noi sappiamo quanto questo sia vero, perché abbiamo visto in questa guerra quanto

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veramente siano stati battuti e il vinto e il vincitore). « Facciamoci banditori, assertori di diritti, che alla gente italiana spettano in territorio straniero, senza alcuna offesa di questo, perché sono diritti che si invocano in nome di una cultura secolare che non può essere oscurata, che solo può essere combattuta da meschini o da deboli. Ma, in nome di quella tradizione di lingua, di costume, di aspirazioni, di tendenze, di civiltà italica non prepariamo ora di barbarie. Difendiamoci per timore di guerra, non per speranza di guerra .... ». E nel 1919, dopo che ha fatto sorgere a Venezia la Democrazia sociale, Egli detta il programma della nuova formazione politica. « Abbiamo intitolato la parte nostra democrazia sociale, perché chiari siano il pensiero e la fede. Noi vogliamo essere con il popolo per la sua giustizia e per la sua libertà. Noi crediamo nella virtù del popolo: virtù talora occulta, quasi sopita, palese tal altra: ma sempre operante a luce e a fondamento della fortuna della Patria. Ma il popolo non deve essere lusingato. Il popolo è chiamato al governo del Paese, al governo del mondo, perché egli è degno di comandare. E non si comanda durevolmente se non v’è coscienza di giustizia. Non dittature, dunque, che sono esaltazioni brevi di odii e di violenze, ma signoria, in ogni paese, di chi lavora, per testimonianza perenne della dirittura morale del popolo, della coscienza del suo compito e del suo dovere ». Egli non parla di diritti, ma di compiti c di doveri, così come il Maestro: Giuseppe Mazzini. Egli era contro la violenza: « La violenza delle passioni suscita propositi folli. Si distrusse la tipografia dell' Avanti, si colpirono, sol perché socialisti, alcuni deputati, che nei conflitti popolari portavano una parola di pace... - I partiti, che debbono essere custodi di quella che è la virtù popolare perchè si perfezioni e si accresca, i partiti oggi cercano di vivere soltanto per fortune elettorali. E si compiacciono dei lampi d’ odio che s’ elevano dalle masse popolari, e non avvertono che l’ incendio, se divampa, non si vince, non si limita, ma finisce sol quando tutto sia distrutto ». E nel ‘20, l’ occupazione delle fabbriche, il movimento operaio più importante dello scorso dopoguerra, che ebbe a protagonisti 600.000 operai. Voi sapete quale sia stato il giudizio che di quel movimento ha dato Filippo Turati: « La corresponsabilità nell’ azienda amministrativa non è troppo grave soma per la nostra massa

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operaia ancora cosi semplice e impreparata? E troverà essa nel proprio seno un sufficiente numero di elementi la cui intelligenza e sicura probità possano far fronte all’ arduo compito? ... Se non si fosse, con l’ occupazione violenta delle fabbriche, tentato un passo dieci volte più lungo della gamba ... » ecc. Questo parere di Turati è totalmente confermato da Mario Marinoni, ma con quanta spiritualità! « Per gli operai l’ evento fa di addestramento evidente. Credevano sopprimere la fatica, la disciplina, e s’ accorsero che, allontanato il proprietario, la fatica doveva continuare, anzi accrescersi, la disciplina doveva essere mantenuta, anzi più rigidamente, perché la esercitavano compagni su compagni. Credevano le maestranze che la direzione delle fabbriche, la possibilità di una loro esistenza, nelle concorrenze dell’ interno e dell’ esterno, fossero senza difficoltà: quasi un automatismo sciocco, costituito da lunga consuetudine sempre eguale. E s’ accorsero che non basta la fatica fisica e che è indispensabile l’ opera intellettuale e che chi usa i congegni e trasforma le materie prime non è, da solo, bastevole alla produzione. Compresero che il mondo non è circoscritto al tornio, alla fucina, alla fonderia. Sentirono d’ essere partecipi di un ben più vasto ordinamento: non lo compresero ancora, ma sentirono, certo, che ne è ampio il confine e che non basta un semplicismo di frasi retoriche a dominarlo. Sentirono, soprattutto, che nella vita si vince se si è degni, che la vita non è istituto di assistenza, che l’ umanità sommerge i più deboli, i più inetti. Sentirono che per vivere bisogna lavorare. Sentirono che la solidarietà nazionale e internazionale non è atta a sopprimere la pena del lavoro né ad attenuare il patimento di una lotta che deve esser vinta ora per ora, giorno per giorno, sulle cose e contro gli uomini ». I suoi ultimi scritti sono atti d’ amore. Egli scrive del porto e dei lavoratori del porto, ma scrive soprattutto dell’ Arsenale e degli arsenalotti, perché teme che l'Arsenale rimanga senza lavoro. « V’ è una miseria più grande che minaccia: è la rovina completa del suo (di Venezia) più grande stabilimento industriale... L' Italia ha un gran debito con Venezia - e lo paghi facendo sì che l’ Arsenale continui a lavorare, dando lavoro a migliaia di lavoratori ». L’ ultimo suo scritto è di poesia: all'Ospedale al Mare, in vicinanza del Cimitero degli israeliti sono stati accolti alcuni bambini che dall’ Ospedale vedono il cimitero. Questo stringe il cuore a Mario

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Marinoni che si chiede: « Va se l’ igiene consente la vicinanza; il clinico, il pediatra, che conoscono l’ animo del bimbo malato o predisposto a malattie tubercolari, hanno approvato? » - Perché egli, nella bontà dei suo animo, non poteva non pensare anche a questo. Dei suoi ultimi giorni di vita è notevole una lettera scritta ad un suo amico politico, a Nane Zironda, che è qui presente: si tratta di un ordine dei giorno proposto per una riunione politica a Roma. Egli scrive: « Caro Zironda, - io sento diversamente l’ idea. E vorrei quindi un ordine del giorno diverso. Più ideale. Ma forse ho torto. Io vorrei che la democrazia fosse coscienza e forza del paese: non occorre governare, occorre che si impedisca, con tenace resistenza di rette coscienze, la turpitudine dei governanti dei giorni nostri ». - Erano i governi del prefascismo, quei governi. Sagacemente Egli pensava: non importa gran che del governo, siamo noi pari al compito, abbiamo noi rette coscienze; ciò basterà ad impedire che il governo faccia male. « In un paese i cui cittadini abbiano retta coscienza il Governo governa sempre, ma se anche non governasse, non sarebbe risvolto importante ». Questo serva anche al giorno d’ oggi, per chi vede soltanto le colpe altrui, ma non pensa alle proprie. Io ho conosciuto Mario Marinoni nel 1919. Ero un ragazzo: avevo diciott’ anni. Qualcuno mi aveva invitato al Circolo repubblicano «Giuseppe Mazzini» che egli aveva fondato a fianco della Democrazia sociale. E li io conobbi lui, e conobbi Silvio Trentin, che nelle severe linee dei volto sembrava esprimesse il presagio della sua altissima missione. Lì io sentii per la prima volta Mario Marinoni, lì, per la prima volta e per sempre, Egli mi avvinse. La sua eloquenza non si può classificare, quando parlava, si sentiva che Egli era la verità; quando aveva finito, chi lo aveva ascoltato diceva: « E’ un galantuomo ». Chi ha conosciuto Mario Marinoni è di poi vissuto con Lui e di Lui, non lo ha più potuto abbandonare, perché non lo si poteva abbandonare. C’ era in Lui un fascino, una possibilità di bene, c’ erano in Lui delle qualità intuite più che constatate. Si sentiva che nessuno gli poteva

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essere pari. Un giorno, a qualcuno che gli disse di commemorare Giuseppe Mazzini rispose : « Non posso, è troppo grande, io lo sento, ma non ho preparazione sufficiente per parlare di lui in modo non volgare ». Ed era Mario Marinoni, indubbiamente uno degli uomini politicamente più preparati che contasse l’ Italia. Egli svolgeva un’ attività portentosa qui a Venezia, era praticamente il capo di tutti i lavoratori. I bancari lo avevano eletto presidente del loro sindacato, gli assicuratori della loro società, ed io ricordo che Egli fu il creatore del primo organico dei lavoratori delle Assicurazioni Generali. I lavoratori del porto non vedevano che lui, gli arsenalotti non ne parliamo; i cooperatori lo riconoscevano come primo animatore. Gli artigiani veneti, tutti coloro che badavano alle piccole industrie, una quantità di gente che esercitava una attività di lavoro, riconoscevano in lui il capo e l’animatore. Egli aveva sempre dietro una pleiade di gente che chiedeva. A tutti rispondeva, a tutti dava, mai a nessuno disse no. La sua parola è sempre stata parola d’ amore. In questi giorni parlavo alla vecchia mamma di uno scaricatore del porto, alla quale un mio conoscente aveva detto che io avrei commemorato Mario Marinoni. Questa vecchia mamma che abita in prossimità della Marittima, pianse e mi disse: « Io lo ricordo, perché Egli è stato l'unico che ha fatto il bene dei lavoratori. Mio marito ha avuto tanto bene da Lui, ed io ricordo che quando Egli veniva qui in Marittima, e veniva spesso, io sempre mi recavo a vederlo. E portavo con me il mio bambino (che è oggi adulto e mi sta ascoltando) e lo alzavo sulle spalle, perché volevo che vedesse il benefattore ». Questa è l'anima del nostro popolo. Era di una semplicità francescana. Non chiedeva nulla. Non mangiava, non dormiva, non si sa come vivesse: si consumava. E diceva: « Io non sono nulla ». Ma quando morì, tutta Venezia fu ai suoi funerali, gli esercenti chiusero i negozi, i lavoratori sospesero il lavoro. E una sottoscrizione popolare, indetta per un padiglione all’ Ospedale Marino, fu immediatamente coperta con cifre che ascendevano a migliaia e migliaia di lire, date da lavoratori e da organizzazioni di lavoratori. Questo dice cosa Egli fosse. Era tutto e voleva essere nulla. Nel 1920, in occasione delle elezioni am-

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ministrative, incontrò in treno un amico che gli disse: « Perché non hai accettato la candidatura? Saresti stato un sindaco ideale che tutta Venezia avrebbe voluto ». Ed egli rispose: « Lassa star, Nane. Xe megio cussì: tuti me desiderava e mi sparagno de far bruta figura ». Quando morì, fu fatta una pubblicazione, a cura del Comitato per le onoranze. E Luigi Luzzatti (cito il nome altissimo, potrei citarne a centinaia), aderendo, scrisse: « Onore a Marinoni, onore al probissimo cittadino! » E poco dopo ai ragazzi del padiglione che a Marinoni s’ intitolava scriveva: « Ai fanciulli che chiedono alle rinnovatrici arie ed acque marine dell’ Adriatico nostro la salute fisica e quella morale, raccomando di ricordare sempre il nome di un santo laico, il Marinoni, a cui è consacrato il ricreatorio che li ospita». - Più tardi, aderendo ad una commemorazione fatta da Silvio Trentin, - ancora egli ripeteva; « Voglia associare il mio nome alla commemorazione di quel santo laico che fu Mario Marinoni ». E, infine, ecco, accanto alle parole di Luigi Luzzatti, la parola di un altro grande uomo, di un santo uomo : la parola del Cardinale La Fontaine. Una parola che emana un raro profumo di poesia e di bontà. Scriveva il Cardinale La Fontaine a Marinoni il 14 dicembre 1920: « Carissimo Avvocato, - oggi che è la festa del Beato Giovanni Marinoni, mi ricordo di Lei e Le mando un opuscolo, dove, in una mia strimpellata del 24 aprile 1920, troverà rievocate le memorie del tempo doloroso che abbiamo vissuto durante la guerra. E, guarda coincidenza, il B. Marinoni, prima Canonico di S. Marco, poi Teatino, che pregò Paolo IV di dispensarlo dall’ accettare l’ Arcivescovato di Napoli, al quale era stato nominato da quel Pontefice, visse anch’ esso in tempi di guerra. E si adoperò per la pace, scrivendo specialmente ai Sovrani, quando sentivasi vicino il pericolo di contrasti. E spese sé stesso per alleviare i danni onde la guerra è accompagnata, sia provvedendo ai poveri, sia servendo agli infermi negli ospitali di Napoli e di Venezia, tanto che si meritò il nome di padre dei poveri e angelo di consiglio e di pace. Troverebbe il mio buon Mario in sé qualche linea del disegno caritatevole del suo antenato? Mi parrebbe di sì ».

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Questo è l’uomo che la morte ha ghermito a 37 anni di età. Perché? Perché? Infinitamente Egli avrebbe ancora dato alla scienza, alla patria, all’ umanità. Forse Iddio gli volle risparmiata la visione della patria offesa e tradita, forse Iddio volle risparmiato a quel nobile cuore un combattimento che lo avrebbe certo schiantato. Non recriminiamo. Dalla morte nasce la vita, dal male il bene. In quella notte, quando l’ ala della morte passò su Lui, Mario Marinoni, divenuto morta spoglia, ascendeva alla gloria dell’ immortalità. Era la notte del 27 febbraio 1922.

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