CRONACHE PARALLELE - ROMANZO IN PROGRESS

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BENITO CIARLO

CRONACHE PARALLELE

ROMANZO


Cronaca prima I

Nel 1985 recarsi in treno a Firenze era una vera e propria impresa che portava via oltre sei ore. Giovanni partì alle 18,15 da Novi Ligure con un diretto per Roma, fece scalo a Pisa e raggiunse Firenze a mezzanotte circa. Nel tragitto rilesse la propria relazione e cercò di memorizzare dati e proposte da fare all’indomani durante la riunione annuale. Presto si annoiò : aveva lavorato duro e conosceva benissimo tutto quanto aveva scritto, il ripasso era, di conseguenza, perfettamente inutile. Trasse dalla valigetta un libro che più volte aveva cominciato a leggere senza mai finirlo, e si concentrò nella lettura che proseguì anche alla stazione di Pisa in attesa del treno per Firenze. Terminò la lettura del libro di Delio Cantimori “Eretici italiani del Cinquecento” nel comodo letto dell’albergo “delle Due Fontane”, che erano circa le tre di notte. Aveva, come sempre, difficoltà a dormire.


Il libro in questione era stato un regalo di suo padre per il natale di qualche anno prima. Riforma e Controriforma lo avevano sempre interessato. Dopo i primi capitoli, però aveva smesso di leggere preso dalle mille incombenze del quotidiano. Non si ricordò più di quel libro fino a quando non fu preso dalla smania di conoscere tutto sui Valdesi. Aveva idee confuse in merito e la sua unica certezza era che molte idee riformiste, per le quali tanta gente era finita torturata o arsa, trovavano dopo il Concilio Vaticano Secondo, una qualche applicazione anche in campo cattolico. La messa in volgare, per esempio. Ma i preti, perché non lasciavano che si sposassero ? Presto dimenticò le riflessioni che quella notte agitarono le sue pochissime ore di sonno. Alle sette, dopo una veloce colazione, decise di fare due passi a piedi. La riuniore era fissata per le 9,30. Aveva due ore buone a disposizione. Raggiunse Piazza del Duomo. Poche persone già sostavano attorno al battistero, altre vicino al campanile di Giotto e all’ingresso della cattedrale. Il traffico, col trascorrere dei minuti, diventava sempre più intenso e le autovetture sfrecciavano attorno al Duomo. Giovanni sostò un quarto d’ora nel Tempio, cercando di scorgere gli affreschi del Vasari all’interno della cupola, ma la cattiva illuminazione e lo stato di conservazione del capolavoro gli restituirono alla vista delle ombre scure e indecifrabili. S’avviò verso piazza della Signoria, infastidito dal volo di piccioni che quasi lo investirono. La poca gente col naso all’insù non gli impedì di provare lo sgomento e


l’esaltazione che lo prendevano ogni volta che poteva sostare presso la Loggia dei Lanzi. La perfezione del Perseo e la monumentale grandiosità delle altre statue non rappresentavano nulla al confronto della sensazione che provava ammirando quella d’età romana che, gli avevano detto, simboleggiava “la Germania Sconfitta” che si trovava nella seconda fila di statue della Loggia, verso destra, vicino al “Ratto delle Sabine”. Tutte le volte, nell’espressione pietrificata di quella donna, scorgeva un’aura che lo metteva a disagio e al tempo stesso gli provocava un’esaltazione inspiegabile. Se mai avesse scritto un libro con una donna come protagonista, ebbene, nel suo immaginario la donna avrebbe avuto quelle fattezze, quel volto. S’accorse ch’erano quasi le nove. A passi svelti raggiunse Borgo Pinti. La riunione si protrasse per tutto il giorno, tanto che fu aggiornata al mattino successivo. Tornò in piazza delle Due Fontane, al solito albergo. Facendo la doccia gli venne di pensare ai Bronzi di Riace che aveva ammirato lì vicino, alla Santissima Annunziata, e al commento che il suo capo aveva fatto davanti alle due statue, al cui restauro la società per la quale lavoravano aveva contribuito con la propria tecnologia : “ Per me sono state ottenute col metodo della cera persa, solo che i modelli erano due uomini veri”.


A quel commento, Giovanni, che non aveva capito trattarsi di una facezia, s’infervorò per confutare la tesi così assurda, provocando una risata generale. Mentre l’acqua calda gli massaggiava la nuca, Giovanni si trovò a riflettere sulla perfezione quasi michelangiolesca dei volti, delle mani e degli arti inferiori delle due statue, mentre l’anatomia del ventre, del torace e delle spalle gli era parsa, come dire, abbozzata. Con disappunto rimpianse di non essersi portato una camicia di ricambio. Del resto era previsto che tutto sarebbe terminato entro le diciassette. Chi avrebbe potuto immaginare che quella fottutissima discussione sugli indici di gravità e frequenza sarebbe durata così tanto? S’aggirò a piedi per la Firenze storica fino alle ventuno. Sempre, quando gli era consentito dal tempo a disposizione, andava a far tappa in piazza San Lorenzo, soprattutto per ammirare la statua di Giovanni de’ Medici, quel “Giovanni dalle Bande Nere” che da ragazzo (anche per effetto di un film in cui Gassman interpretava quel ruolo) lo aveva fatto sognare più volte. Fu lì che incontrò Nina per la prima volta. Sarà stata la suggestione dovuta alla visita in Piazza della Signoria, ma non potè far a meno di notare che il volto della ragazza intravista sul sagrato di san Lorenzo somigliava in modo impressionante alla statua della Germania Sconfitta. Le si avvicinò per osservarla meglio.


Indossava un paio di jeans sdruciti e un giubbotto imbottito color pervinca. La serata era fredda, nonostante si fosse quasi a maggio. La vide andare verso la paninoteca con altre ragazze ed intuì che doveva far parte di un gruppo in gita scolastica. Entrò nello stesso locale e chiese un toast e una birra, cercando di non perdere di vista quel volto. Non voleva dare nell’occhio data l’assurdità della situazione : la ragazza non aveva più di sedici anni ed il suo interesse era, diciamo così, solo estetico. Seduto su uno sgabello a trespolo presso il lungo bancone della paninoteca, addentò il suo toast e in quel momento incrociò il suo sguardo. Il rimescolio interiore che gli esplose nel petto era del tutto simile a quello che provava ogni volta davanti alla famosa statua. Indugiò a guardarla, fino a che la ragazza abbassò gli occhi, evidentemente a disagio. Poi ebbe coscienza, finalmente, del perché provasse quelle strane sensazioni. Gli occhi della statua, senza pupille, e quelli bellissimi e neri della ragazza trasudavano dolore. Un dolore senza lacrime, senza rassegnazione. Un dolore vecchio come la storia del mondo. Mentre tracannava dalla bottiglia l’ultimo residuo di birra si accorse che il gruppo di studentesse stava uscendo di nuovo sulla via e udì una di loro chiamare “Nina”. Vide la ragazza dagli occhi tristi risponderle.


Accadde esattamente come per la statua : Giovanni non dimenticò mai quel volto, quegli occhi e quel nome. Non si spiegava perché fosse così violentemente attratto da quei nasi dritti e da quegli sguardi angosciati. Sapeva soltanto che non li avrebbe mai dimenticati e che se, un giorno, avesse avuto la forza di scrivere un romanzo, l’eroina avrebbe avuto quel volto, quegli occhi colmi di dolore ed una storia che lo giustificasse. Giovanni non dimenticò quel volto e seppe riconoscerlo dieci anni dopo in un luogo e in un contesto totalmente diverso. Era ancora aprile, questa volta carico d’estate precoce. A Torino, in un salone della Camera di Commercio si sarebbe tenuta una giornata di studio sul Decreto Ronchi inerente la regolamentazione per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti di ogni genere. Giovanni era diventato il responsabile dell’Ecologia dello stabilimento in cui lavorava da oltre ventisette anni e, come tale, cercava di aggiornare le proprie cognizioni sulla materia partecipando a conferenze come queste. La incontrò al tavolo delle registrazioni e la riconobbe immediatamente. Del resto non era difficile; chi l’avesse vista avendo in mente le fattezze della statua della Germania Sconfitta, non avrebbe esitato a dire che la modella per lo scultore fosse stata lei. Ancora una volta cercò i suoi occhi e vi lesse lo stesso arcano dolore. Ammutolì per l’emozione. La donna (ormai doveva avere 26 - 27 anni) gli sollecitò la consegna dei documenti


d’iscrizione. Nel ricevere dalle sue mani il plico degli atti del convegno, Giovanni, s’avvide di sudare copiosamente. Maledisse mentalmente la cravatta, che serrava la sua gola impedendogli di respirare bene, e il suo abbondante sovrappeso. Uscì di nuovo nel corridoio dopo il secondo intervento degli oratori, mentre si era scatenato un serrato dibattito sull’ attribuzione del termine “rifiuto” a quelle che fino alla data d’entrata in vigore del Decreto erano state catalogate come “Materie Prime Secondarie” in quanto destinate al riutilizzo. Con disappunto vide che nessuno sedeva alla reception. Cercò un bagno e, mentre vi si dirigeva, incontrò di nuovo Nina. Era alta e slanciata nel suo tailleur grigio perla. La camiciola di seta rosa, col colletto civettuolamente rialzato sul collo, faceva risaltare la perfezione dell’ovale del viso. I collant neri davano un tocco di bellezza in più alle sue gambe, tanto diverse da quelle che ricordava fasciate dagli sdruciti blue-jeans. “ Mi scusi signorina” “Prego” “Volevo chiederle, ehm... non mi fraintenda la prego... volevo chiederle se il suo nome è Nina” La donna arrossì ed indicò il badge che aveva appuntato sul risvolto della giacca ove era scritto a chiare lettere il suo nome “Elena Spadafora”.


“ Mi chiamo Elena, come può vedere, signor ..... signor “ e dopo aver dato un’occhiata al badge di Giovanni, “ Polimena” concluse, “ però a casa e gli amici mi chiamano Nina... lei come fa a saperlo?” chiese senza accennare al minimo sorriso. Giovanni si terse il sudore col fazzoletto e, guardandola negli occhi scandì : “ Firenze, fine aprile 1985, paninoteca in piazza san Lorenzo. Ricorda? Cos’era una gita scolastica?” La donna lo guardò con stupore e parve riflettere per un momento su quelle indicazioni. “ Sì, ricordo la gita a Firenze dell’85 ma questo non spiega come faccia lei a conoscere il mio diminuitivo, visto che...” “ Dunque non mi ero sbagliato. Permetta che le spieghi...” Giovanni, sorridendo raccontò la singolare esperienza vissuta dieci anni prima e mai dimenticata. La donna sorrise e poi disse che nessuno fino ad oggi l’aveva paragonata ad una statua d’età romana. “Le assicuro, signorina, oggi più che mai lei è la copia esatta di quella statua. Si direbbe che duemila anni fa sia esistita una ragazza col suo stesso volto, con la sua stessa espressione e che uno scultore le abbia riprodotte nella statua della Germania Sconfitta. Già dieci anni fa la somiglianza mi aveva impressionato al punto da non dimenticare più quella ragazzina in jeans dall’aria così seria... ma oggi, devo dire che oggi chiunque giurerebbe


che lei sia stata la modella di quello scultore... mi scusi se l’ho importunata. Arrivederci, devo rientrare.” Elena gli sorrise : “Nessun problema” gli disse. Alle due del pomeriggio l’incontro sul Decreto 22 e sulle sue implicazioni era terminato. Giovanni cercò ancora Elena ma di lei non v’era traccia. S’avviò verso la macchina lasciata in un vicino posteggio e notò che l’appetito e l’aria pesante di Torino gli stavano provocando un po’ di mal di testa. Raggiunse la sua vettura nel parcheggio e s’avvide ch’era completamente al sole; avrebbe sudato di nuovo, pensò. Avrebbe dovuto tentare di dimagrire prima o poi. Ma come poteva vincere quell’appetito che lo sopraffaceva? I suoi succhi gastrici aggredivano letteralmente il suo stomaco vuoto e mangiare diventava imperativo. Certo, però che pesare centodieci chili a quarantasei anni era tutt’altro che salutare. Udì il suono di un clacson proprio mentre stava per entrare nell’abitacolo arroventato. “Salve” disse lei sporgendo la testa dal finestrino della smart. “Salve” le rispose Giovanni sorridendo. “ ha finito?” “Certo, per oggi sì” “Abita qui a Torino, naturalmente”


“Quante domande... Sì naturalmente, infatti sto tornando a casa” “ E “, azzardò Giovanni, “se invece venisse a pranzo con me? Potremmo parlare ancora di Firenze, le va ?” “Ma, veramente io... “ “ La prego, non ci impiegheremo più di un’ora... un’ora e mezza al massimo. Se può venga, ne sarei veramente felice.” Nina parcheggiò la smart accanto alla Vectra di Giovanni. “ Va bene, questa storia m’incuriosisce. Però devo cercare un telefono per avvertire che farò tardi” Giovanni le porse il suo portatile. Nina non ci mise molto. “Mia madre ha sempre paura che faccia brutti incontri. E poi teme che a Lorenzo, il mio fidanzato, non faccia piacere ch’io vada a pranzo con un perfetto sconosciuto...” “Capisco. Senta : chiami Lorenzo e inviti anche lui...” “ Ma no, che dice? Lorenzo è in Francia “ “ ...Allora viene con me ?” “ Perché no ? Non mi mangerà mica, vero?”


“ Certo che no, sono prevalentemente vegetariano, io. S’accomodi”. La ragazza sedette graziosamente e richiuse da se lo sportello della Vectra. Giovanni le propose di andare a pranzo in via Po, nel ristorante pugliese. Quella cucina meridionale e piccante a lui, date le sue origini, piaceva da matti. La ragazza sorrise riferendo che per lei non era un problema poiché di solito pranzava con una fetta di carne e dell’insalata. Mentre raggiungevano piazza Vittorio, Giovanni le raccontò delle strane sensazioni che quella famosa statua gli provocava. E, confessò, oggi che aveva trovato in una donna reale, viva, le stesse espressioni, lo stesso volto, la sua incomprensibile esaltazione si era acuita. A tavola le parlò del dolore misterioso che il suo sguardo e quello cieco della statua promanavano. Nina, quasi per smentire le sensazioni del suo ospite, si mostrò allegra e disse che nessun grande dolore, grazie a Dio, fin ora l’aveva mai toccata. Stettero insieme un paio d’ore. Alla fine Nina sapeva molte cose di Giovanni, di sua moglie e del figlio che studiava da ingegnere. Giovanni invece ignorava ancora tutto di Nina. Mentre tornavano al parcheggio le chiese “Sei di origini meridionali anche tu? Spadafora è un cognome comune dalle mie parti”. “No” rispose lei, io sono nata a Torre Pellice, che è qui vicino, ed i miei vivono li sin dalla notte dei tempi...”


“ Sono proprio contento di averti conosciuta. Spero di rivederti qualche volta, magari con Lorenzo. Se passerete da Serravalle mi farete veramente piacere se verrete a trovarmi” “ Spero di rivederti anch’io, magari con la tua famiglia.” Esitò qualche istante e poi proseguì : “Posso essere sincera ?” “Devi !” “Sai, stamattina m’eri sembrato un po’ matto” “ Sincerità per sincerità ti confiderò un segreto : io non sono un po’ matto, lo sono completamente. Mi perdo dietro alle sensazioni che possono darmi un libro, un film, un tramonto, una statua, uno sguardo sconfinato come il tuo, che credo conservi parte di un mistero universale, giacchè tutto alla fine si rivela figlio dello stesso padre che reclama i sui diritti : il dolore.” “ No, non sei matto, Giovanni. Credo di aver conosciuto un poeta oggi. Non è così ?” “ Non credo proprio. Hai conosciuto un matto a cui però la poesia piace moltissimo. Ciao, Nina, chiamami qualche volta”. “ Ciao. Anche tu, chiamami quando vuoi.”


II

- Gianni... dov’è che sei nato?... - A Montalto Uffugo, te l’ho già detto un sacco di volte. - Ah... ecco, ricordavo bene... Sai cos’è successo al tuo paese nel millecinquesessantuno? - Boh? Come mai mi fai questa domanda? - Sta’ a sentire : nel giugno di quell’anno i tuoi paesani hanno perpetrato una strage peggiore di quella della notte di San Bartolomeo!.. Come faccio a saperlo ? Ieri, di passaggio da Torre Pellice mi sono fermato al museo Valdese - tornavo da una gita al Séstrière - e ho letto di questo fatto su dei tabelloni esposti che parlavano della persecuzione dei Valdesi nel sud d’Italia. Ho letto che a Montalto Uffugo l’undici di giugno del millecinquecentosessantuno ne trucidarono, sgozzandoli, un centinaio sulla piazza principale... - Pensa ! Non ne ho mai sentito parlare. E’ orribile... Sapevo che nel mio paese esisteva un borgo, chiamato degli “ultramontani”, che nel medioevo era abitato da una colonia di piemontesi, Non ho mai saputo niente, però, di questo terribile fatto che tu mi riferisci. - Eh, amico mio, erano terribili i tuoi antenati. - Non credo. Come fai a dirlo? Erano terribili i tempi... Che ne sai tu di quale fu la reazione del popolino a


quella strage? Era terribile l’Inquisizione, ma dappertutto. Erano terribili gli spagnoli. Questo lo so perché nel mio dialetto “ho paura” si traduce “mi spagnu” e, “non aver paura “ in “un ti spagnàri”. Capisci? La paura a Montalto è sempre stata identificata con la Spagna. Eppure ne ebbero occasioni di spaventarsi i miei antenati: tra Svevi, Aragonesi, Angioini, Tedeschi, Francesi, Arabi, Mori, Turchi e Pirati che poco alla volta hanno costretto quel mio povero paese a chiudersi a riccio su un monte inaccessibile lasciando il piano del Crati, ove Plinio lo ricorda. E poi... chi ti dice che io discenda dai persecutori e non dai perseguitati? - Miseria ! Facevo così per dire e tu intavoli subito un processo? Sei il solito terrone permaloso. - Come tutti i calabresi, secondo il vostro più trito luogo comune.


III Erano quasi trent’anni che viveva in Piemonte. Vi era giunto diciottenne, con la solita valigia di cartone pressato, legata con lo spago, colma soprattutto di speranze. Era quasi fuggito da quel paese, Montalto, che, per la sua secolare immobilità, gli stava stretto e rendeva le sue giornate tutte uguali, interminabili e contrassegnate da un’inazione che lo faceva diventare furioso. Aveva lasciato la Calabria, gli amici, la ragazza, che pure credeva d’amare, con una sorta di acredine e un sentimento di rivalsa nel cuore. Al nord, continuava a ripetersi, se uno vale ha la possibilità di emergere. Con rabbia determinata affermava tra sé che lui ce l’avrebbe fatta e, quando il treno, dopo tredici ore, attraversò la galleria dei Giovi, cinque parole gli ronzavano nella testa, ritmate dallo sferragliare sulle rotaie :”ve la farò vedere io.”. A Ronco Scrivia lo assalì lo sconforto. Cominciò a tormentarsi con una domanda che lo angustiò per il resto del percorso che lo separava da Serravalle (ormai, gli aveva detto il controllore, con gentilezza, mancano pochi chilometri) . E se fossi solo un presuntuoso? E se come perito industriale fossi un fiasco? Del resto, che tecnico potrei essere io, che amo la poesia e le letture? Poi cercava conforto rileggendo la pagina della Gazzetta del Sud del 30 luglio del sessantotto, che aveva portato con sé come referenza : Istituto Tecnico A. Monaco Cosenza : I Diplomati della sessione estiva.


La migliore votazione ottenuta da uno studente montaltese, diplomatosi con la media dell’otto. Gli altri, salvo qualche eccezione, diplomati con la sufficienza. Moltissimi non ce l’hanno fatta. Aveva un bel leggere... Quando mai aveva visto una fabbrica ? Guardò fuori dal finestrino ed ebbe paura dell’enorme quantità di neve. Dio mio, pensò, siamo appena in ottobre. Il sole balugginava sui campi immacolati rendendone insopportabile la vista. Solo una volta, in febbraio, col suo amico Antonio Di Domenico aveva ammirato uno spettacolo del genere a Monte Scuro, sulla Sila, dove si erano recati con la centoventiquattro del padre di Di Domenico in occasione di un “filone”. Arquata Scrivia. Una premurosa signora gli rivolse la parola. La prossima fermata sarebbe stata Serravalle. Era ora di cominciare a prepararsi. Mancavano solo cinque minuti all’arrivo.


IV Serravalle Scrivia (AL) 16 febbraio 1996 Caro Bruno, ti riscrivo dopo tanto tempo. Ormai scrivere è diventato quasi superfluo, visto l’uso che facciamo del telefono, che, come diceva la buonanima di tuo padre, rende pigri gli uomini e farà fallire la Bic e le cartiere. L’argomento del quale voglio parlarti non si può esaurire con qualche telefonata. Scriverti mi aiuterà a riordinare le idee e a farti partecipe di un mio problema alquanto strano e per risolvere il quale avrò bisogno del tuo aiuto. Procedo con ordine. Qualche giorno fa, un mio collega mi ha informato di alcuni fatti terribili accaduti a Montalto nel 1561 dei quali io non ho mai sentito parlare, nemmeno in forma di leggenda. Questi fatti sono sicuramente veri o hanno un fondo di verità concreta poiché Domenico (il collega del quale sto parlando) mi ha riferito di averne letto un sunto in un tabellone di un museo Valdese di Torre Pellice, qui in Piemonte. Sulle prime, la cosa si è tra noi risolta con le solite schermaglie verbali tra un piemontese (falso e cortese) e un calabrese (terrone permaloso) come vicendevolmente ci definiamo con... fine ironia. Nei giorni seguenti, a mensa, abbiamo ridiscusso i fatti senza più scherzare, cercando di capire la logica di una strage. Non siamo arrivati a nulla poiché entrambi conosciamo solo la notizia del massacro, le ragioni che sembrano essere la persecuzione degli eretici al tempo dell’inquisizione spagnola e la migrazione al sud dei seguaci di Valdo che vivevano nelle valli Svizzere, Francesi, Lombarde e Piemontesi; nient’altro.


O meglio, io so qualcosa in più rispetto a lui. So di Sansisto dei Valdesi, di Guardia Piemontese, del Borgo degli “ultramontani” nel nostro paese, che si distingue per la singolarità della architettura delle case, così diversa rispetto a quelle della stessa epoca degli altri rioni. Tutto qui. Non so altro. Questo mio amico mi riferisce che il sei giugno del 1561, in piazza del Mercato, davanti alla scalinata della chiesa di San Francesco, oltre ottanta poveri uomini, furono sgozzati da un boia che usava un coltellaccio ed un martello per aprire loro la gola, lasciandoli morire in un’agonia straziante. E alla sera, altri ne vennero scagliati dal castello fino a precipitare in piazza. Durante la notte, secondo il racconto di Domenico, i corpi di questi malcapitati furono smembrati e, i brani di carne umana furono appesi a dei pali lungo la strada per Cosenza, per monito agli altri eretici. Ti confesso che la visione di quest’orrore ha scosso profondamente l’anima mia, tanto che appena ci penso o ne scrivo, come in questo momento, mi duole lo stomaco e mi ronza la testa. Sento quasi come un dovere cercare di capire. Di questa strage non ne parla nessuno dei libri di storia che ho letto. La memoria storica del nostro paese sembra aver cancellato questa vergogna. Non una lapide, non un qualsiasi segno di pietà, nemmeno il ricordo. Mai nessuno a Montalto mi ha parlato di questo episodio così vergognoso, nemmeno quelle persone che definivamo “gli studiosi” come Aristide de Napoli, e che nelle sere d’agosto intrattenevano noi giovani in quella stessa piazza, parlandoci delle glorie dell’Accademia Letteraria Montaltina degli Inculti, e del Foscarini.


Presto, a mia volta, mi recherò a Torre Pellice per cercare le testimonianze documentali di questo orribile episodio. Non so molto dei culti valdesi, luterani, calvinisti eccetera. Ma mi farò scrupolo di documentarmi a dovere. Come ti dicevo, andrò a visitare quel museo e mi recherò anche al Tempio. Chiederò al Priore, al Pastore o come lo definiscono, che mi dia la possibilità di consultare i documenti originali da cui hanno tratto la sinossi letta dal mio amico. Non per verificare la veridicità della stessa, ma per capire, per rivivere, per fare ammenda, dopo quattrocentotrentacinque anni, se mai fosse dimostrato che furono i montaltesi e non altri ad assistere inerti o a portare a termine quello sterminio. (Non ti sembri esagerato il termine). In breve, voglio documentarmi su questo fatto. Perciò ho bisogno anche di te, caro il mio professore. Ti prego di scrivermi qualcosa al riguardo e non in forma di trattato di storia come tuo solito. Cronaca nuda e cruda se ti riesce. E, per favore, se puoi, mandami le fotocopie di qualche documento originale che vorrai cercare per me negli archivi Parrocchiali di San Domenico e San Francesco (rivolgiti a Padre Calvelli o, se fosse ancora vivo, a Padre Chiappetta, informandoli che sono io che ne ho bisogno. Prevarrà il loro senso di rivincita e, se hanno qualcosa te la consegneranno senz’altro). Cerca anche, e soprattutto, negli archivi delle parrocchie di San Vincenzo, Sansisto dei Valdesi e Vaccarizzo. E, se non ti chiedo troppo, non trascurare Guardia Piemontese. So che tuo fratello, l’Assessore Regionale, è in ottimi rapporti con la Curia di Cosenza. Puoi chiedergli di darmi una mano anche da quel versante ?


Scusami, caro Bruno per questo mio angosciarti con problemi che oggi non dovrebbero più essere tali. Sai come sono fatto. Se un argomento mi prende, diventa la mia monomania finchè non ne giungo a capo e fino ad allora vivo male. Era così anche per te quando eravamo ragazzi. Solo che io non sono cambiato. Perciò, se puoi, perdi un po’ del tuo tempo libero per aiutarmi. Te ne sarò molto grato. So, per aver recentemente sentito Vincenzo che è passato da me in occasione di un suo viaggio d’affari a Milano, che laggiù tutto procede come al solito (cioè non procede). Mi ha riferito la bella notizia dell’elezione di tuo fratello in Regione e della carica di Assessore all’Ecologia conquistata sul campo. I nostri mari, le nostre città e le foreste sperano in lui, non meno degli uomini che sognano un lavoro utile. La tua vita di professore universitario come va ? E la cara Lorenza ? E quei due giovanottoni di Luigi e Ferdinando ? Hanno superato gli esami di Biologia che entrambi temevano come noi temevamo la purga ? Scrivimi di loro e perdonami se, ancora una volta, ho anteposto le mie necessità al resto. Quasi me ne dimenticavo : ti inviano i loro saluti Tonino Quaranta, Janine, Janette e Jasmine (la famigli delle J). Sono stato loro ospite a Lione in occasione di un mio viaggio in Francia per lavoro. Tonino è diventato una personalità, come certamente sai. Il suo allestimento della Cenerentola all’Opera di Parigi ha avuto un successo incredibile. Li rivedrò probabilmente entro l’anno. Lui vive a Parigi e, preso com’è dal lavoro, vuole fermarcisi definitivamente. Ha un appartamento a Courbevoie nel quartiere nuovo de La Defense ; presto la moglie lo


raggiungerà. Le ragazze - vedessi che splendide creature - credo restino a Lione perché amano il luogo e due ragazzoni, entrambi ricercatori medici, che presto le sposeranno. Se mi ricordo bene si chiamano Marius - quello di Janette - e Benôit - quello di Jasmine. Ricordi che rimpatriata, tutti insieme nell’ottantasette ? Perdonami se rischio di diventare noioso. Aspetto con ansia che tu m’aiuti a ricostruire quella maledetta storia della strage. Ti abbraccio e ti prego di salutare per me tutti gli amici, Enzo e Ciccio in particolare. Un bacione ai tuoi e un caro saluto a tua madre. Giovanni


V Dopo quattro differenti colloqui, un test psicoattitudinale e un altro scritto di trenta domande veramente infami, incentrato sulla tecnologia della fonderia e della laminazione dei metalli non ferrosi, l’anziana segretaria del Capo del Personale gli disse di tenersi a disposizione per qualche giorno. Appena terminate le selezioni gli avrebbero fatto sapere. Giovanni, impacciato e ansioso nello stesso tempo, domandò per quanti giorni avrebbe dovuto aspettare. Un paio di settimane, gli fu risposto. Aveva in tasca venticinquemila lire. All’albergo ove era passato al mattino gli avevano detto che il pernottamento e la prima colazione gli sarebbero costati seimilacinquecento lire al giorno. Rifletté sull’impossibilità di restare. Si avviò verso la portineria, così gli era parso, mentre rimuginava sui suoi problemi. Un signore dal fare trasandato lo apostrofò : - Dove va, giovanotto ? - Torno a Serravalle. L’uomo sorrise. Gli spiegò che stava dirigendosi verso la fonderia. La perfetta simmetria degli edifici e la copiosa nevicata in corso, lo avevano disorientato. Era uscito dal blocco degli uffici - centrale e parallelo a due capannoni perfettamente simmetrici - da una porta sul lato opposto a quella dalla quale era entrato e, svoltando a sinistra si era trovato nella direzione sbagliata. Arrossì e ringraziò, quasi scusandosi. L’uomo, con gentilezza, guardando il suo impermeabile leggero, si offrì di accompagnarlo sotto l’ombrello. Gli chiese come fossero andate le prove. Sapeva della ricerca di personale tecnico in atto. Giovanni rispose di


non saperlo. Credo, concluse, di non aver fatto una buona figura nel test scritto. Di forni per il rame, l’ottone e l’alluminio non ne sapeva granché. Aveva un freddo terribile e, nell’attraversare l’ampio piazzale che lo separava dalla portineria, appena visibile nel turbinare del nevischio, sentì inumidirsi prima, e ghiacciare poi, i piedi. Le scarpe erano troppo leggere e la neve troppo alta. Un paio di camion nei pressi del bilico slittavano e stentavano a ripartire. L’uomo lo salutò dicendogli di non preoccuparsi, che tutto sarebbe filato liscio. “Magari”, pensò Giovanni e ricambiò la stretta di mano. Entrò in portineria e riconsegnò il tesserino che gli avevano dato all’ingresso. Un’anziana guardia, dai capelli candidi, che gli altri chiamavano “brigadiere”, annotò sul registro l’ora d’uscita e poi gli chiese se doveva chiamargli un taxi. Giovanni ringraziò ma rispose che avrebbe aspettato il primo autobus. L’attesa diventò un tormento. Aveva bisogno d’una doccia calda e di dormire. Il “brigadiere”, gli si avvicinò, mentre Giovanni, per l’ennesima volta, rileggeva gli avvisi in bacheca e l’orario di lavoro. Gli fece qualche domanda e, come per caso, gli chiese se avesse già trovato un alloggio. Evidentemente sapeva che proveniva da lontano. Giovanni gli disse che, per il momento, stava all’Hotel EUR ma che, dal giorno dopo non avrebbe più potuto permetterselo. Il brigadiere gli consigliò di cercare a Novi Ligure, poiché a quell’epoca, c’era ancora qualche famiglia che faceva pensione. Oppure, suggerì, a Serravalle c’è un affittacamere. Vicino alla Chiesa Collegiata, con l’insegna “Alloggi”. Giovanni ringraziò. Si accorse all’improvviso che stava sudando


copiosamente. La portineria, malgrado il continuo va e vieni di gente era riscaldata in modo superbo. Arrivarono alla spicciolata i lavoratori che smontavano dal turno normale (dalle 8 alle 16,45). S’udì quasi contemporaneamente il clacson della corriera sul piazzale esterno. Giovanni salutò le guardie ed andò a sedersi nell’autobus. Durante il breve tragitto verso Serravalle notò che la maggior parte della gente si esprimeva in genovese. Si ricordò delle commedie di Gilberto Govi viste alla televisione qualche anno prima e senza accorgersene cominciò a sorridere. Giunse in albergo un quarto d’ora dopo. Poggiò le scarpe sotto il termosifone per farle asciugare. Ci vuol altro, pensò ; queste scarpe basse non si conciliano ne con la neve ne con i marciapiedi di questo paese , lisci come nu scigulàcchiu. Appese l’impermeabile, fradicio d’acqua, nel bagno, ed i vestiti, anch’essi bagnati, in ordine sulla spalliera della sedia presso il termosifone. Fece una doccia bollente e si sentì rinascere. Il continuo andirivieni dei treni ed il loro fischiare in prossimità della stazione lo infastidì per un po’, poi non ci fece più caso. Indossò il pigiama di flanella e trasse dalla valigia il resto delle provviste che gli erano rimaste. Sua madre pensando al lunghissimo viaggio, aveva abbondato in pane e carne di maiale. Quest’ultima era conservata in un vasetto a chiusura ermetica nello strutto. Poiché la chiusura non era evidentemente tanto ermetica, un po’ di grasso era colato ungendo lo scatolino di cartone, i fogli di carta paglia e lo stesso pigiama. Per fortuna le due camicie e il maglione restarono indenni. Tagliò due fette di pane e vi pose dentro un po’ di ciccioli e una salsiccia. Riempì un bicchiere d’acqua nel bagno e


mangiò e bevve a sazietà. Sbirciò dalla finestra la piazza della stazione ben illuminata. Delle ruspe stavano ammucchiando la neve in fondo alla piazza. Altri uomini con badili enormi liberavano i marciapiedi. Un vociare allegro di ragazzi attorno alla pala meccanica che cominciava a caricare un camion di neve. Chissà, si chiese, dove sarebbe andato a scaricarla ? Poi si dette dello stupido. Nel fiume l’avrebbe scaricata, nello Scrivia, certamente. I ragazzi, ora giocavano a lanciarsi palle di neve. Si ritrasse con un nodo alla gola. Solo quattro anni prima si divertiva allo stesso modo con Bruno, Vincenzo, Tonino e Ciccio sul sagrato di San Giacomo. Era l’otto dicembre del sessantaquattro, dopo la messa delle sei del mattino per l’ Immacolata : l’unica vera grande nevicata che ricordava. Tornò alla valigia canticchiando sottovoce : Mira il tuo popolo o Bella Signora, che pien di giubilo oggi T’onora... Trasse un libro consunto, regalo di don Fritz Caracciolo : Le Baccanti, di Euripide. Quante volte aveva tentato quella difficile lettura in agosto. Rilesse il prologo ed il primo episodio. Subito dopo s’addormentò, sfinito. Erano le venti di venerdì 15 novembre 1968. Nevicava da circa quattro ore. Presto il suo sonno fu agitato da strani sogni. Il suo ultimo professore di Elettrotecnica, il giovane ing. Borrelli continuava a ripetergli “possibile che tu non abbia saputo esprimere un concetto semplice come l’induzione ? E poi, cos’erano quelle esitazioni sul motore a corrente continua ?” Don Friz interveniva, intromettendosi, con la sua ridicola paglietta anni venti e le sue ghette perenni, impersonando Dioniso : Giungo, figlio di Zeus, a questa terra dei Tebani, Dioniso, che Semele, nata da Cadmo, un giorno partorì


tra le vampe del fulmine...”. Ora era il volto del Capo del Personale, con il suo mezzo toscano irrequieto tra i denti che, ridendo, gli chiedeva ancora una volta “Da dove ha detto che viene ? Quanti anni ha ? Chi è alla porta ? Chiama Cadmo il figlio di Agenore ! E’ lui che ha costruito la cerchia delle torri che recinge la città nostra, ed era venuto da Sidone... Sognò di immense macchine rutilanti, di narici di draghi colmi di ottone fuso, di laminatoi (che, non avendo mai visto, gli furono resi dalla sua immaginazione come la danza macabra di rossi serpenti metallici in un antro infernale). Poi si vide in attesa, alla stazione con la sua valigia di cartone completa di spago, mentre l’altoparlante annunciava “Si avvertono i signori viaggiatori diretti a Montalto Uffugo che il direttissimo Torino Napoli Reggio Calabria Palermo viaggia con un giorno di ritardo”. Si svegliò sudato e tremante. Brividi di febbre percuotevano il suo corpo come scariche elettriche. L’arsura gli raspava la gola e le labbra. Si alzò e bevve. Si ricordò del tubetto di aspirine che sua madre gli aveva dato all’ultimo momento e ne trangugiò una con un’altra abbondante bevuta. In attesa del prevedibile effetto della pillola ricominciò a leggere. Lo distrasse di nuovo il fischio di un treno. Che bellezza, pensò, hanno la stazione ferroviaria in paese. La nostra è a otto chilometri, allo scalo. Udì delle voci, dei “ciao” “as veghìmu” “arvertze”. Gente che usciva dal bar. Erano appena le undici e non notte fonda come aveva immaginato lui. Riprese a leggere dei dialoghi fra Tiresia e Dioniso. Questo fu il suo primo giorno in Piemonte.


VI Cosenza 20 marzo ’96 Ciao, Giò ! non ti nascondo che l’ultima tua lettera mi ha un sconcertato, oltre che incuriosito. Non ho potuto far a meno di pensare che non sei cambiato per niente in tutti questi anni. Hai sempre la testa colma di fantasia e di “scarpi vecchje”. Spiegami soltanto questo: come fai a trovare il tempo e la voglia per interessarti di queste cose? Perché continui ad essere legato, nel bene e nel male, a questa terra che ti ha così duramente punito ? Non sono passati che due anni dalle tue richieste di vocaboli e vecchie filastrocche montaltesi. Solo sei mesi fa mi hai spedito quelle venticinque poesie in montaltese purissimo e colme di segni fonetici nuovi e meravigliosamente efficaci. Ma tu come vivi ? Perché ti struggi per un paese che non hai mai sentito come tuo ? Prova ne sia che in ventotto anni e passa sei tornato solo tre volte ed ogni volta solo per un giorno ! Cos’è questa storia “di fare ammenda” per le colpe dei nostri padri ? Ti giuro che non so rispondermi e, perdinci, credevo di conoscerti bene e fino in fondo. Spiegami, fammi capire e, quando mi riscriverai, apriti un po’ col tuo vecchio Brunello. Lorenza e i ragazzi stanno bene e ti salutano. Anche loro si stanno dando da fare per trovare il materiale che hai chiesto. La relazione che ti allego l’hanno elaborata Lorenza e Remo Stillano, riordinando i dati fin ora reperiti. Ci hai contagiati. Il tempo libero di noi


tutti ormai è impegnato nelle ricerche e nella preparazione dei sunti sull’argomento. Qualcuno dei miei studenti è stato prezioso. Uno in particolare, Remo Stillano, di Rende, è riuscito a mettermi in contatto con un avvocato di ottantanove anni, il dottor Gaetano Bisignani, che è un cultore di storia locale ed ha una biblioteca fornitissima. Costui, malgrado l’età avanzata e i momenti d’assenza peraltro brevissimi, ha una conoscenza incredibile della storia del territorio di Cosenza. Parlando con lui dell’argomento che ci interessa, appena gli ho chiesto della strage dei valdesi, m’ha risposto, con la sua voce rantolante : “Sì, certo, professò, Voi vi riferite al giugno del cinquecentoventuno.... e a Montalto” Poi ha chiamato il nipote, Paolo, e gli ha chiesto di mostrarmi i documenti racchiusi in una certa cartella conservata certo armadio, “anzi no, in quello vicino..” Sorbendo un latte di mandorla ho cominciato a scorrerli e a selezionarli. Il vecchio Don Gaetano, cortesissimo, mi ha pregato (sic !) di tenere quella pesante cartella di cartone piena di laccetti e di portarmela a casa per poterla consultare con calma. Troverai un sunto di quanto ho potuto apprendere da quei documenti nella relazione acclusa. Appena sarà possibile parlerò con i parroci per la consultazione degli archivi, ma temo che sarà difficile trovare qualcosa. Ti è nota l’incuria che regna qui, vero ? Se davvero la cosa ti interessa tanto, potresti venire giù per qualche giorno : ritroveresti i vecchi amici e avresti la possibilità di parlare con don Gaetano.


Pensa : mi ha detto di aver conosciuto Benedetto Croce ! Sbrigati, però... è molto vecchio. Naturalmente, quando andrai nella Val Pellice farai il piacere di spedirci i tuoi appunti. Questa cosa sta prendendo la mano un po’ a tutti. Con Tonino ho avuto contatti recentissimi. Proprio ieri l’altro. Ha avuto l’incarico di preparare la regia di “Don Carlos” e di “Così fan Tutte” per la prossima stagione lirica del Rendano. E’ stato un paio di giorni qui, ospite a casa di Vincenzo. Gli ho mostrato la tua lettera e lui, con la sua voce pacatissima ha commentato : “Giovanni è sempre pieno di sorprese”. E’ ripartito in aereo, così com’era venuto ed ha maledetto la mancanza di tempo che gli ha impedito di fare sosta da te sia all’andata che al ritorno. E’ per questo che non ti ha detto nulla. Ha giurato che in dicembre passerà a trovarti e starà con te almeno un giorno. Del resto, queste cose te le dirà lui poiché, come mi scrivi, sarà probabile che lo rivedrai prima. I ragazzi hanno poi superato con un “brillante” ventuno il temuto esame di biologia. Telefonami. Stavolta tocca proprio a te ! Ricordami alla zia Marietta e a tua mamma. Saluta per me i tuoi fratelli e tutto l’ampio parentado che ormai ha colonizzato la valle Scrivia. Ti abbraccio fraternamente ricordandoti di telefonarmi. B.


Spunti di riflessione per Giovanni e la sua attuale febbre di conoscere tutto sulla strage dei Valdesi avvenuta a Montalto nel giugno 1521.

Sintesi degli appunti d’uno studioso di storia locale, l’Avv. Gaetano Bisignani di Rende (CS) preparata da Bruno Geraci Lorenza Codevilla Remo Stillani.



Cosenza 8 marzo ’96 APPUNTI SULLA IMMIGRAZIONE DEGLI ERETICI IN CALABRIA. Nel secolo XII un nuovo sentimento religioso si fa strada in molte anime : si tratta del desiderio del ritorno di una vita evangelica e di una Chiesa dalle linee semplici come quella descritta dagli Atti degli Apostoli. La reazione è contro la Chiesa d’allora, sempre più invischiata nei disordini morali e attività mondane. Le molte agitazioni per l’azione di rinnovamento furono definite “eresie” in quanto la principale negazione era proprio la Chiesa stessa qual era allora. La loro presunzione di rappresentare la vera fede e la vera Chiesa, diventerà per gli Inquisitori l’indice assoluto dell’”eresia in atto”. Pàtari, Càthari o Puri, Arnaldisti, Poveri di Lione (li Pouvres de Lyon) Poveri Lombardi, si muovono in un ambito comune di idee e di azione. A proposito dei “Poveri di Lione”, eccoti la trascrizione di un atto tratto dagli archivi dell’inquisizione francese della metà del ‘200: I Poveri di Lione ebbero origine intorno al 1170, da un tale, cittadino lionese, di nome Valdesio o Valdense, da cui furono detti poi “valdesi”. La persona in questione era ricca ma, abbandonati i suoi beni, volle osservare la povertà e la perfezione evangelica come gli apostoli. Fattosi tradurre in lingua


volgare i Vangeli, altri libri della Bibbia ed alcuni testi dei santi Agostino, Girolamo, Ambrogio e Gregorio (che definiva “sentenze”) si è messo a leggerli con grande impegno, senza, però capirci un gran che. Si tratta di un tipo pieno di sé e con scarsa istruzione, che ha finito con l’usurpare le prerogative apostoliche. Spinto dalla presunzione, ha avuto l’ardire di predicare il Vangelo per le strade e sulle piazze facendo molti discepoli d’ambo i sessi e li ha coinvolti nel suo atteggiamento presuntuoso, mandandoli, a loro volta a predicare. Questa gente, ignorante ed analfabeta, percorreva i villaggi, penetrava nelle case e perfino nelle chiese, diffondendo ovunque errori. Convocati dall’arcivescovo di Lione, che li diffidò, rifiutarono di obbedirgli trovando la scusa, per mascherare la loro follia, che bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini, perché Dio ha ordinato agli apostoli di predicare il Vangelo ad ogni creatura. E così finirono col disprezzare prelati e chierici incolpandoli di essere ricchi e di vivere una vita agiata, perché si attribuivano ciò che era riservato agli apostoli con la pretesa di esserne imitatori e successori in virtù del loro voto di povertà, e di una santità, finta. A motivo di questa disubbidienza e di questa usurpazione presuntuosa di un


compito che non compete loro, quello della predicazione, ed a causa della loro contumacia, sono stati scomunicati ed espulsi dalla loro patria. Sintesi delle notizie reperite nei documenti di don Gaetano Bisignani. I valdesi si diffusero nella Francia meridionale, e si propagarono in Italia ; stabilirono a Milano il centro della loro missione. Il Concilio Lateranense del 1215 li condanna con i Càthari e le altre sette ritenute ereticali. Già con editto del 1192, Alfonso II re d’Aragona e conte di Provenza, aveva espulso les Vaudois ou Ensambatés qui sont aussi nommés Pouvres de Lyon e aveva ordinato che nessuno desse loro ospitalità. Rimase non eseguito l’incarico conferito nel 1209 dall’imperatore Ottone IV al vescovo di Torino di distruggere i valdesi, quando una crociata di centomila armati assaliva, sterminandoli gli Albigesi (Cathari di Albi) di Linguadoca. Ma anche se l’ordine non fu eseguito, molti valdesi lasciarono le loro valli nella Francia meridionale e si rifugiarono in quelle del Pellice e del Chisone. Ai provvedimenti locali seguono quelli generali di Luigi IX per la Francia nel 1225.


Federico II nel 1220, 1222, 1224, 1231 (nel quale anno fu riconosciuta per la prima volta la presenza di eretici nell’Italia meridionale) 1232, 1238, 1239. Gregorio IX (1232-1235) istituisce l’Inquisizione, che affida ai Domenicani. La prima migrazione di valdesi e albigesi del territorio di Milano, verso l’Italia meridionale, documentata, avvenne tra il 1275 e il 1273. Li guidava il nobile milanese Bernardo( ?) Zunino( ?) del Poggio. Contrariamente a quanto comunemente si suppone, la prima migrazione dei valdesi in Calabria, non ebbe luogo a causa delle persecuzioni : Don Diego Bisignani in una lunghissima relazione spiega che la causa fu il lavoro. Una immigrazione rovescia rispetto a quella dei nostri giorni. Nel 1315 un gentiluomo montaltese, che a dire dell’avv. Bisignani, era al seguito di Ugo del Balzo, venne in contatto a Torino, con dei valdesi della Val Chisone che erano in città per lavoro. Chiese loro se si volessero recare in Calabria, dove c’erano terre da dissodare e coltivare. I valdesi subordinarono l’accettazione dell’invito a un sopralluogo che loro inviati avrebbero svolto nei territori di destinazione. Gli inviati riferirono di aver trovato condizioni molto favorevoli. I giovani valdesi, prima di partire contrassero matrimonio e quindi dopo venticinque giorni di marcia giunsero al luogo convenuto : Montalto. Qui edificarono un borgo, annesso al paese che fu chiamato “degli Oltramontani”.


Nel 1365 c’erano comunità di “oltramontani” sparse in tutte le località vicine : Sansisto (oggi Sansisto dei Valdesi) Vaccarizzo, San Vincenzo (oggi San Vincenzo La Costa) e Guardia, sul mare, presso Fuscaldo. La migrazione successiva, per causa delle persecuzioni interessò varie località della Campania e della Puglia. Nel 1500 il signore di Voltura, nella Capitanata, Alberico Caraffa, ne ospitò nelle sue terre una vera e propria moltitudine. I valdesi vissero in mezzo a una popolazione locale poco numerosa, sparsa nell’enorme territorio dei monti e del piano. I rapporti, si suppone, non furono mai stretti. Li presiedeva un capo detto Camerlengo. Usavano il loro dialetto e dissimulavano, cautamente, quanto le proprie credenze avevano di diverso da quelle dei cattolici ; ostentavano, invece quanto avevano in comune. Frequentavano le chiese, lasciavano battezzare i figli dai preti cattolici. Per moltissimi anni attorno ai loro insediamenti giunse l’eco e, qualche volta la voce, di guerre e lotte tra Angioini, Durazzeschi e Aragonesi, tra Aragonesi e Baroni Angioini di Francia e Aragonesi di Spagna, per cui i sentimenti religiosi, per tutti, passavano in second’ordine. Gli “oltramontani” erano ottimi coltivatori, non si immischiavano nelle lotte locali, di costumi irreprensibili e perciò giudicati meritevoli delle concessioni e dei privilegi confermati anche da Ferrante d’Aragona e da Carlo I re di Napoli. Luigi Paschale (Jean Louis Paschale)


Pastore valdese, libraio ed editore di Cuneo, venne a predicare pubblicamente il Vangelo a seguito di altri Pastori i cui nomi speriamo di aver ben decifrato : E. Gilles, S. Negrino, (morto nelle prigioni di Cosenza), Uschenghi( ?) e insieme a J. (Jacopo ?) Bonello che da quanto decifrato negli appunti di Bisignani, deve essere morto sul rogo non abbiamo capito se a Messina o a Palermo (vedi di chiarire tu se vai a Torre Pellice.) La figura di questo Paschale è importante, perché tra le carte di don Gaetano, abbiamo trovato la trascrizione di brani di alcune sue lettere dal carcere. La sua libera predicazione aveva messo in allarme la Curia Vescovile di Cosenza. Lo zelante marchese Salvatore Spinelli, per compiacere il Vescovo, fece arrestare il predicatore che, con una ignara delegazione di Guardia si era recato da lui, a Fuscaldo, per pagare i diritti di casalinagio. Un nobile pisano, Odoardo Galandi, gran Vicario di Cosenza e legato pontificio fu il primo ad interrogarlo e a torturarlo (dovresti approfondire per tuo conto i temi dell’inquisizione a Cosenza, perché, a quanto pare non fu quella “spagnola” ma quella curiale con un legato pontificio) “Hora, benché la causa di mia cattività mi renda sicuro di essere una delle pecore destinate al macello, non di meno il timore che ha il signor Salvatore Spinello, che ‘l darmi nelle mani de’ nostri più duri avversarij, di Cosenza o di Napoli non apporti qualche danno ai suoi


vassalli, potrebbe essere forse un mezzo del quale Iddio si volesse servire per la mia liberazione.” Questo è un brano della lettera, inviata l’8 maggio 1558, dal Paschale ai suoi amici di Ginevra. Nel gennaio del 1560 era stato trasferito dal Gran Vicario, nelle carceri di Cosenza. “Con mille beffe ed oltraggi ci misero in una carcere puzzolente, fredda ed angusta che non ci era fattibile il distenderci due a un tempo ; e per maggiore comodità ci legarono due assieme a dei ferri, in modo che l’uno non poteva muoversi senza l’altro, ci concessero una pessima coperta, tutta piena di pidocchi, e ci diedero in custodia ad un prete di Fuscaldo, per nome Messer Francesco De Scita, il quale non pago di avermi tolto la mia camiciuola ed un pajo di pantoffole, mi tolse una delle mie camicie ; ed allorquando ci lagnavamo che i pidocchi ci divoravano, se ne rideva e ci gridava dietro : Ah ! perversi, cani mastini, traditori, nemici di Cristo e dell’uman genere ... Per le consolazioni che il buon Padre dà ai suoi nelle loro applicazioni, noi dimorammo sempre allegri, cantando con una gioia inestimabile” Il Bonello e il Paschale furono i primi a predicare in pubblico “a mostrar ch’era necessario più tosto morire che offendere Dio idolatrando” Anche il Paschale fu arso vivo a Roma e le sue ceneri disperse nel Tevere. Era il 16 di settembre del 1560.


(Queste notizie e i brani delle lettere, sono state tratte dal Bisignani, che non manca mai di annotare le fonti, nei suoi appunti, dall’opera “Historia delle grandi e crudeli persecutioni fatte ai tempi nostri in Provenza, Calabria e Piemonte contro il popolo che chiamano Valdese” di Scipione Lentolo. Ma di quel libro non abbiamo trovato traccia in nessuna libreria ne don Gaetano sa dove possa essere finita la sua copia. Anzi, non ricorda nemmeno di averla posseduta.)

Fra Valerio Malvicino di Piacenza. Fu l’inquisitore che, a quanto pare, provocò l’eccidio dei valdesi a Montalto. Il frate domenicano, consultore del Santo Uffizio diocesano di Napoli e Deputato della S. Sede per la Calabria (sempre dall’Historia di Lentolo...) giunse a Cosenza nel Novembre del 1560. Costituì un tribunale misto composto da un commissario governativo, dal Vicario di Cosenza e da lui stesso (Valerio Inquisitore). La descrizione di questo monaco che si trae dagli scritti del Bisignani (e del Lentolo, naturalmente) è, a dir poco rivoltante. “Comandò per un messo a posta agli abitanti di Sansisto che gli mandassero tre cavalcature, perciocchè egli volea andar da loro per convertirli alla fede. Il che essendo stato eseguito se ne venne a Montalto


città di un miglio discosta da Sansisto : et quivi si riposò ancora da tre giorni, sempre tra quel mentre cercando di sapere chi fossero gli Oltramontani” Ebbe le notizie che cercava da fra Bernardino Alimena, “Non ignobile huomo, ma il più goloso e dissoluto che fosse in Calabria, et inimico mortalissimo di quei fedeli di Sansisto”. “Fra Valerio Inquisitore, comandò che oltre all’ordinario in ciascun pasto gli fosse sempre apparecchiata una gallina, la qual mangiava tutta con tante spetie ch’era meraviglia come potesse sopportarle.” Ordinò a tutti gli oltramontani di abjurare la propria religione e di indossare un “Habitello” (quasi la stella di David per gli ebrei di questo secolo) ottenendo un netto rifiuto “questo habitello è un’insegna di rinnegamento... quei di Sansisto ricusarono di ubbidire a così fatto comandamento, e dichiararono di essere più tosto apparecchiati a morire che fare simili cose” Fu una vera insurrezione. I valdesi si ritirarono sui monti che conoscevano come le proprie tasche. Restarono sordi alle sollecitazioni di presentarsi al governatore spagnolo di Montalto, Castagneto, e all’ordine del viceré di Calabria di presentarsi dal lui a Cosenza. Era il maggio del 1561.


Ogni giorno furono emessi bandi con i quali si ordinava “che tutti coloro i quali ritrovassero di tal gente li pigliassero o morti o vivi ... che qualunque tenesse alcuno di costoro nascosto in casa, o piccolo o grande o maschio o femmina, gli rivelassero, e non gli rivelando, incorressero nella medesima pena ch’era di quelli”. Fu la caccia all’uomo. In uno scontro i valdesi uccisero anche Castagneto e circa cinquanta dei suoi uomini. La morte del governatore generò la vendetta. La soldataglia incendiò le case e stuprò le donne. Dei montaltesi furono arrestati e imprigionati nelle galee spagnole. Il Duca Alcalà incaricò il Governatore della Calabria, Marino Caracciolo di distruggere i focolai dell’eresia. Salvatore Spinelli il 5 giugno del 1561 prese Guardia. Nello stesso giorno quelli di Sansisto furo catturati e sottomessi. Quanti ancora tentarono di opporre resistenza, quelli catturati in possesso di armi, quelli che comunque non vollero abjurare furono torturati e quindi uccisi in maniera atroce. Le case furono incendiate. Solo pochissimi riuscirono a fuggire. Trecento uomini e cento donne furono condotti a Montalto. “Furono menati ad un piano grande e spatioso, dove si fa il mercato, avanti la Chiesa di San Francesco” Le donne furono inviate alle carceri di Cosenza. Gli uomini furono imprigionati e torturati, nel castello di Montalto. A questi tormenti assistevano Fra Valerio ed altri tre auditori (Pansa, Barone, Cove). “Costoro non cessavano dalla mattina alla sera di tormentare quei poveretti con tanto rigore, che mai


si ricorda essere stato fatto il simile contro qual si voglia ladrone et assassino di strada. Non si contentavano di farli star pendenti alla corda e dar loro dei tratti da alto in basso, ma con le lor proprie mani i sopraddetti presidenti, senza riguardare che cosa si convenisse alla dignità della lor persona, battevano quelli con grossi bastoni. Et come tutti facessero a gara l’un dell’altro in usare maggiore crudeltà, non di meno il Malvicino superava di gran lunga tutti gli altri. Egli non si faticava mai di dar bastonate, schiaffi, pugni, calci e pelar barba a quei meschini...” Fra Valerio Inquisitore ripeteva i gesti già compiuti a Piacenza, poiché era suo costume torturare gli imputati prima della loro esecuzione, addirittura sul palco del boia.

Lo scannamento in piazza del mercato dell’11 giugno 1561.

Cronaca del massacro così come copiata dal Bisisgnani dalle pagine 239,240,241 dell’Historia di Lentolo. “Pronunziata la sentenza, furono tutti rinchiusi dentro una casa terrena, ch’era sul mercato, chiamata il fondaco : dalla quale poi il manigoldo, cavandoli fuori ad uno ad uno, gli conduceva sulla piazza, dove, fattili inginocchiare e posto loro una benda dinanzi agli occhi, con grandissimo stento loro gli scannava. Il quale stento ancora


maggiormente crebbe quando il taglio del coltello, per haverne il manigoldo scannati molti, s’ incominciò a rintuzzare. Per la qual cagione, havendo un gran martello in mano e vedendo che stentava a far morire i poveri pacienti secando loro la gola, onde il tempo gli mancava per poterne spedir tanti, alle volte per far più presto, mettea loro il coltello alla nuca del collo (ch’è quella giontura ch’è posta nella parte di dietro del collo) e dando su gran colpi a quel modo cercava di levarli di vita Ma ciò non era che farli più stentare e più crudelmente morire. Mentre erano così sacrificati i figlioli di Dio, il Procuratore Fiscale, che chiamano, se ne stava sopra le scale del tempio, con una canna in mano sollecitando l’esecutione, et allora si facea le maggior risa del mondo quando si udiva che i martiri del Signore invocavano il nome di Giesù Christo, e raccomandavano lo spirito nelle mani di Dio lor Padre Celeste. Frattanto s’andò oltre all’esecutione cominciata, ma il giorno non bastò a scannarne tanti. Per la qual cosa i vivi furono posti insieme coi morti dentro alcuni carri, e strangolati tutti, e posti con gli altri in pezzi, li quai pezzi furono poi appiccati lungo la strada, che va da Cosenza a Morano per una giornata e mezza.

Trascrizione dell’ Avviso redatto il 12 giugno 1561, a Montalto, da due gesuiti (Lucio Croce e Giovanni Xavierre) per il loro Padre Generale e pubblicate


nella serie dei Monumenta Hist. Soc. Jesu Litterae Quadrimestres VII, 371-377. “Piacque al Signor ch’ tutti questi che sono stati sentenziati mentre siamo stati qui, si sonno ridotti ; et poi li habbiamo confessati et accompagnatili al suplitio uno per uno, forno tutti scannati et squartati ; oltra di quelli, che prima forno abrusciati et precipitati da una torre della altezza della nostre torre rossa ; altri li quali non vollero rendere, forno ammazzati nella campagna. Il numero delli presi tra donne e huomini , me dicono che passano mille et secento, delli quali sono stati sentenziati centocinquanta, delli quali heri ne morsero octanta e octo, li quali tutti sono stai redotti et confessati da noi.

Trascrizione dell’ Avviso conservato nell’archivio Mediceo di Firenze (negli appunti di Bisignani ve ne è una riproduzione fotografica) : “Hoggi a buon hora, si è incominciato a fare l’horrenda justittia di questi Luterani, che solo in pensarvi è spaventevole, a così sono questi tali come una morte di castrati. Erano tutti serrati in una casa e veniva il boia et li pigliava a uno a uno, e gli legava una benda avanti agli occhi e poi lo menava in un luogo spatioso poco distante da quella casa, e lo faceva inginocchiare e co’ un coltello gli tagliava la gola, et lo lasciava così di poi pigliava quella benda così insanguinata, e col coltello sanguinato ritornava a pigliar l’altro, e faceva il simile, ha seguito quest’ordine fino al n. 88, il qual spettacolo


quanto sia stato compassionevole, lo lascio pensare et considerare a voi.�


CRONACA SECONDA Capitolo primo Nina, il 5 gennaio del millecinquecentocinquantanove, compiva sedici anni. Terza dei quattro figli di Ignazio Spatafora e Lucia Chiapperino, da quattro anni era a servizio nelle cucine del Castello di Montalto. Del che genitori e fratelli andavano fierissimi. Suo padre, era un “mastro d’ascia” e godeva, nella città di Montalto, del rispetto, a quel tempo dovuto ad un ottimo artigiano facente parte degli Onest’huomini (eletti dal popolo, per l’assemblea consiliare della città) in rappresentanza del Borgo del Piano del Duca1. La sua carica gli permetteva di frequentare due volte all’anno i Gentil’huomini (gli eletti dei nobili) e lo stesso Governatore, per deliberare sulle attività del fiorente Comune. Aiutato dai figli Ruggero, Bernardo e Francesco (appena tredicenne ma col “mestiere” nel sangue), fabbricava attrezzi agricoli, gioghi, carri con maestria ineguagliabile. La sua popolarità derivava anche dal fatto che il Governatore spagnolo, il Barone Castagneto in persona, si era recato nella sua bottega ad ammirare un carro da lui costruito e artisticamente decorato dai figli. Di questi, Bernardo, era diventato un falegname, capace di costruire pure pezzi di arredamento artisticamente decorati, con intarsi di pregevole fattura e una verniciatura speciale che faceva della cassapanca o dello stipo qualcosa di veramente splendido. Il primo, invece, aveva seguito il mestiere


paterno in tutto e per tutto, aggiungendo di suo la capacità di ferrare cavalli, asini e muli. Un maniscalco meticoloso che stava acquistando la nomea di bravo artigiano, con gran dispetto del vecchio fabbro che aveva bottega non molto distante dalla loro. Nina era una ragazza molto intelligente oltre che bella. Quando, dodicenne, cominciò il suo lavoro al castello era, come tutte le sue coetanee e la maggior parte del popolo, completamente analfabeta. Oggi sapeva leggere e scrivere molto bene, anche se custodiva gelosamente e timorosamente questo suo segreto. Una delle cuoche, la più anziana, Porzia Beza, le aveva insegnato quel mistero, esortandola a non parlarne con nessuno. Porzia era una “tramontana”2. Si esprimeva con un accento dolcissimo e sapeva tante di cose di cui Nina ignorava persino l’esistenza. Spesso si sedeva in un angolo a pregare recitando giaculatorie che nessuno capiva. Sulle prime, Nina, ne ebbe paura, poiché s’era messa in testa che si trattasse di una “magara”3. Questo suo timore diventò una certezza quando, un giorno, scoprì che Porzia, nello stanzino delle ceneri4, stava leggendo un libro. La ragazza sapeva da lungo tempo - glielo aveva insegnato sua madre - che i libri erano robe di Satanasso, salvo i Vangeli che leggono i preti e quelli che leggono i nobili, e che a farne uso, tra il popolo, erano i giudei, le magare e i negromanti che, come tutti sanno, hanno tre dita tinte di nero. Il terrore si impadronì di Nina. Il cuore prese a galoppargli nel petto e la paura le impedì di muoversi.


Porzia, accorgendosene, la fece entrare quasi con forza nello stanzino, richiudendo la porta. «Cos’hai, figlia mia ? Perché tremi così ? » Non riusciva ad articolare parola. Porzia intuì la ragione dello spavento e con pazienza e dolcezza le mostrò il libro. Era un Vangelo, e non era scritto in latino ma nella lingua di tutti i giorni, le spiegò. «Non devi aver paura del sapere » le disse. E prese a leggerle alcune delle storie sacre. Le dimostrò che, nel libro, non le parole del diavolo erano trascritte ma quelle di Dio. Nei giorni che seguirono, il leggere e lo scrivere, furono i loro argomenti di discussione. Porzia le spiegò che con lo scrivere potevano essere annullate le distanze. Le raccontò della sua vecchia madre che ancora viveva in un paese molto lontano, ad oltre un mese di cammino da Montalto, alla quale una volta ogni tanto poteva raccontare della sua vita. La lettera custodiva le sue parole e le ripronunciava quando la madre la riceveva, leggendole. Lo stesso accadeva a lei, sapeva quel che capitava nella sua patria lontana : un borgo chiamato Bobbio, che si trovava in una valle chiamata Pellice, ai piedi di monti che toccavano il cielo. « Sapere leggere e scrivere non è stregoneria, ma un dono di Dio, come la parola. Del resto, pensaci, bambina mia : le verità che conosciamo sul Nostro Signore Gesù Cristo, anche i preti le hanno apprese dai libri.» concluse. « Sì, ma loro possono, anzi devono.» « E noi perché no ? Non siamo persone come loro ? E non ha forse detto il Signore a tutti di predicare la Sua


buona novella ? E come potremmo farlo se non potessimo studiarla, capirla ?» Nina esitò. Perché c’erano i preti ed i monaci, se non per predicare il Vangelo ? La curiosità la indusse a chiedere :« Chi porta le tue parole a tua madre e quelle di tua madre a te ? » L’anziana valdese cambiò discorso ed evitò di risponderle. Nina volle imparare e Porzia le insegnò. Per oltre un anno, ogni minuto del loro tempo libero fu assorbito da questo esercizio. La ragazza apprese così bene e rapidamente che stupì la maestra. Leggeva velocemente, senza mai sbagliare una parola, per difficile che fosse. Quanto allo scrivere, fu un vero miracolo. I segni tracciati da quella ragazza prodigiosa erano perfetti al punto che Porzia se ne meravigliava. Un vero dono della natura : una grafia chiarissima, tonda, essenziale ed elegante, ottenuta con esercizi miserabili su qualsiasi materiale. Il fatto più straordinario era la memoria della fanciulla, capace di ripetere senza il minimo errore ciò che aveva letto una volta sola, anche dopo parecchi giorni. Porzia non aveva mai visto una cosa simile. Il loro diventò anche un gioco. Quando non volevano essere capite dalle altre, bastava tracciare pochi segni, le parole, nella farina, nella cenere, nella polvere, o sullo sterrato del vaglio5. Nina diventò avida. Dopo aver letto, con l’aiuto di Porzia, il Vangelo secondo Matteo, in italiano, (com’erano diverse le parole rispetto a quelle che usava ogni giorno, erano quelle usate dai predicatori, bisognava capirle una alla volta) divorò tutti i libri, fogli


e scritti che la vecchia le passava. Imparò a pregare, non ebbe difficoltà, finalmente, a comprendere il significato delle prediche e, pian piano imparò ad esprimersi nella lingua dei signori. Non solo, ma nell’ultimo periodo s’accorse di pensare in quella lingua e di essere capace, pur non desiderandolo consciamente, di comporre frasi del tutto originali, pensieri, poesie. A ferragosto dell’anno precedente, Porzia, di ritorno dalla Guardia6, le portò un libro nuovo, che spiegava il significato vero delle parole e la loro origine. Nina lo considerò un tesoro e lo conservò per tutta la vita. Quel volumetto diventò per la ragazza l’equivalente d’una sorgente d’acqua fresca alla quale prese l’abitudine di dissetarsi molte volte al giorno. Divenne critica e ne ebbe paura. Quasi mai, i religiosi, parlavano dell’evidente bontà di Dio. Sempre, invece, della sua terribile ira e delle fiamme dell’inferno. E di quelle altrettanto roventi del purgatorio. Non lasciavano altra speranza alla povera gente che quella di ubbidire supinamente anche alle cose più assurde che, ne era certa, Gesù non si sarebbe mai sognato di imporre. Minacciavano la prossima fine del mondo in ogni loro discorso, facendo perdere alla gente che li capiva la gioia di vivere. Domenica dopo domenica raggiunse la convinzione che Dio, secondo i preti, ce l’avesse particolarmente con i miserabili come i suoi paesani. Presto, però, lei si convinse del contrario, poiché le sue letture, ed il suo pensiero autonomamente formatosi l’avevano portata a concludere che l’essenza di Dio fosse l’amore e non altro. La prima conseguenza delle letture, per Nina, fu quella di non sognare più l’inferno.


Porzia le prestò due piccoli libri (stavano nella tasca del grembiule) che contenevano racconti e poesie, alcune delle quali, Nina, mandò immediatamente a memoria, tanto le piacquero. In particolare spesso ne ripeteva tra se e se, una la cui melodiosa ritmica la estasiava ed il cui significato così lampante condivideva : La vecchierella peregrina e stanca se ‘l dì cammina almen posa la sera ; el villanel la notte se rinfranca se ‘l giorno s’afatica alla riviera ; se quando al sole el bove mena l’anca, quando è la luna almen posar si spera ; ma s’io patisco el giorno affanno e doglia, assai la notte son de peggior voglia7.

Poi lesse di valli e di pastori. Di monti così alti che nessuno ne aveva mai varcato la cima, di nevi perenni, di ghiacciai e di animali favolosi. Del baco da seta, dei follatori di lana e delle filande così numerose da non poterle contare e di paesi dai nomi inconsueti, Lyon, Albi, Torino, Ginevra, Milano e Bergamo. Lesse di bellissime storie d’amore tra giovani che, dopo aver coronato il loro sogno, si posero in viaggio per tentare la fortuna lontano lontano.


E lesse di guerre terribili e di persecuzioni. Di gente che, stranamente, non rifuggiva la povertà ma la cercava, per vivere come Cristo aveva insegnato agli apostoli. Proprio come San Francesco. Ma perché loro erano perseguitati ? Si commosse e pianse leggendo una poesia8 : un mattino, riordinando la stanza della Baronessina Cristina - sostituiva una cameriera malata - vide il libro aperto sul leggio presso la finestra. Si lasciò vincere dalla tentazione era un manoscritto, con miniature. La carta era pesante e lacerata ai bordi, la grafia era meravigliosa. Lesse, velocemente come suo solito : La bella donna che cotanto amavi subitamente s’è da noi partita, e, per quel ch’io ne speri, al ciel salita sì furon gli atti suoi dolci soavi. Tempo è da ricovrare ambo le chiavi del tuo cor, ch’ella possedeva in vita, e seguir lei per via dritta espedita ; peso terren non sia più che t’aggravi. Poi che se’ sgombro de la maggior salma, l’altre puoi giuso agevolmente porre, salendo quasi un pellegrino scarco. Ben vedi omai sì come a morte corre ogni cosa creata, e quanto all’alma bisogna ir lieve al periglioso varco. Dunque era questo l’amore ! Sentiva suoi quei versi, li sentiva morderle l’anima. Oltre la morte, oltre la gioia, oltre il dolore. Solo questo, e non altro, può essere l’amore. Frenò le lacrime che le rigavano le guance e vinse la tentazione di leggere altro, poiché sentì


giungere la Baronessina. Aprì la finestra e sprimacciò i morbidi cuscini senza ch’ella si fosse accorta della sua curiosità. Sognò che il suo innamorato, un giorno scrivesse per lei parole così belle. Il desiderio di essere chiesta in sposa, normale per le ragazze della sua età, s’arricchì di due nuove determinazioni : il suo avrebbe dovuto essere un uomo gentile e, soprattutto, rispettoso della sua dignità di donna. Avrebbe rifiutato qualsiasi uomo che non l’avesse chiesta in sposa direttamente. Suo padre e sua madre non avrebbero potuto fare progetti su di lei. La madre le spiegò che sarebbe rimasta zitella, con quel suo atteggiamento. Da che mondo era mondo, un montaltese non avrebbe fatto una richiesta così importante direttamente alla ragazza. Tutti sapevano che ciò era proibito dall’uso. Come il costume insegna, avrebbe rispettosamente fatto chiedere dai suoi genitori, o da Donna Speranza, la paraninfa, il benestare dei genitori di lei e, se lo avesse ottenuto, la seconda cosa sarebbe stata certamente la trattativa per la formalizzazione del matrimonio. « Va bene, se è così... vuol dire che resterò zitella » era la determinazione di Nina. Gentile, poeta e... innamorato, naturalmente. Così sognava il suo principe azzurro. *** Taddeo Polimena non aveva nessuna di queste qualità. Ma era schietto, fiero e, purtroppo, anche violento e bestemmiatore. Era bello, però, ed il suo sguardo aveva un fondo di bontà. Forse il suo atteggiamento di spavalderia serviva a celare la timidezza, la gentilezza che pure dovevano albergare


nel suo cuore. Tutto questo era estremamente improbabile, Nina se ne rendeva conto. Taddeo era insofferente e permaloso ed aveva l’abitudine di cacciar fuori il coltello di tasca per un nonnulla. Quante volte ne aveva sentito parlare dalle donne al castello e dai suoi fratelli in casa. Bernardo aveva detto un giorno che Taddeo, con un colpo da maestro - del resto faceva il macellaio - aveva “allargato il sorriso9” ad un soldato che aveva osato barare a carte con lui. Eppure, nel suo sguardo, Nina non leggeva cattiveria. Anzi, così più volte le era parso, leggeva devozione per lei, amicizia, forse... amore. *** Il cinque di gennaio era la vigilia di una grande festa al castello. I preparativi fervevano già da qualche giorno. Stava per arrivare a Montalto un alto dignitario da Napoli. Le donne arrivarono in cucina alle sei del mattino. Era nevicato durante la notte e, le sìliche10, s’erano ricoperte in una sottile lastra di ghiaccio. Nina salutò Porzia, che stava accendendo il fuoco nell’enorme camino. (Su queste fiamme d’inferno con l’aiuto degli uomini si può far cuocere un intero bue, le disse una volta Smena, la tiranna delle cucine). Nina aveva il volto e le mani arrossate per il freddo e gli occhi lucidi. « Come sei bella stamattina » le disse Taddeo Polimèna, il macellaio, scaricando sul grande tavolo tre oche già spiumate. Nina arrossì ancora di più e si rifugiò verso il camino ad aiutare Porzia.


La vecchia la guardò con occhio complice e mormorò sorridendo « Hai visto come ti guarda ?» Inaspettatamente Nina le rispose con durezza di badare agli affari suoi. Porzia dispiaciuta, non le parlò per l’intera mattinata. Taddeo si fermò a discorrere con Ismene dei norcini che sarebbero arrivati da lì a poco per collaborare ad uccidere il maiale e a macellarne le carni. Aiutò Porzia ad attaccare ad uno dei ganci del camino un enorme paiolo di rame, che fu presto riempito d’acqua dalle altre donne. Controllò con occhio critico le varie madie che erano state disposte la sera prima sul pavimento, i recipienti di terracotta per raccogliere il sangue del porco, senza trascurare di cercare lo sguardo di Nina. Questa, sembrava dopo qualche minuto, essersi dissolta nel nulla. Taddeo divenne nervoso e uscì nel cortile innevato per controllare il gancio e le corde attaccati alla grande trave della forca11. Poi, rientrò e si mise ad affilare i coltelli ancora una volta. Nina aveva portato, come tutte le mattine, il latte, i biscotti, il meli i cùpulu12, il mel’i ficu13, di sopra e li aveva consegnati alla gnu’14 Genoveffa, la dama di compagnia della Baronessa Eleonora. Mentre ripercorreva il corridoio per tornar dabbasso, s’inchinò, come le aveva insegnato Porzia, a Madamigella Cristina, nel frattempo uscita dalla Cappella dopo le orazioni del mattino. La giovane figlia del Governatore era una ragazza molto bella. Coetanea di Nina e, come lei, molto più alta di tutte le altre signorine di quell’età, era sempre sorridente e gentile, a differenza dei genitori. Come sua madre aveva i capelli gialli15.


« Buongiorno, Nina. Tira su quella testa. Tutto bene laggiù ? » « Buongiorno a vossignoria. Mi benedica. Sì, si va tutto bene. Tra qualche momento sentirà le urla del porco.» « Oh mio Dio che strazio. Tu lo sopporti quello spettacolo ?» « Cosa vuole che sia ? A me non ha mai fatto schifo ne paura. E poi, la carne di maiale è così buona. Taddeo è bravissimo, un colpo secco e zac ! Il maiale non s’accorge nemmeno di morire.» «Si ? Ma allora perché urla così ? » « Urla prima di morire, quando gli uomini lo immobilizzano e lo legano. Credo che l’istinto gli faccia capire che guaio stia per passare...» Sobbalzarono. Quasi a sottolineare il dialogo, uno strillo acutissimo si levò di fuori. Un grido quasi umano, prolungato e piangente. « Ecco che cominciano. Mi perdoni, col Suo permesso devo correre di sotto. » « Vai pure » Nina s’inchinò di nuovo e, di corsa, raggiunse le scale. « Nina !», la richiamò Cristina. Altrettanto velocemente la ragazza fece dietrofront, senza interrompere la corsa e tornò ad inchinarsi. « Ai Suoi comandi, Madamigella. » « Volevo solo dirti... dopodomani, a festa finita, perché non vieni su da me nel pomeriggio ?» « Da lei ? Di cosa ha bisogno ? Cosa dovrò fare ? Io sono pratica solo di cucina, di verdure e di làgane16...» si schermì lei. « Niente di particolare, vieni su e basta. Lo farò dire ad Ismene in modo che ti lasci libera per il pomeriggio.»


« Come lei desidera». Tornò di volata in cucina, ma giunta sull’ultimo pianerottolo si fermò, affascinata dal silenzio improvviso. Attraverso il portone spalancato vide che avevano appeso il maiale, il quale stranamente non urlava più. L’animale era stato legato per le zampe ed era tenuto fermo da due uomini, uno dei quali gli aveva immobilizzato la testa, mentre un terzo tirando la corda lo issava. Taddeo aveva avvicinato una giara di terracotta alla “forca”. Poi aveva brandito un enorme, affilatissimo coltellaccio e, avvicinatosi al malcapitato suino gli aveva gridato sul grugno, con una sonora risata : « A noi due ! Porco che non sei altro !» Si scatenò il finimondo. Il maiale, quasi avesse capito e raccolto la sfida, cominciò a strillare e a dimenarsi. Gli uomini furono scaraventati per terra ed ebbero il loro bel da fare per reggere la forca affinché non si rovesciasse. Per una buona mezz’ora dovettero lottare con quel mostro prima di ristabilire l’equilibrio. A quel punto, Taddeo affondò rapidissimo la punta del coltellaccio nella gola della bestia aprendogliela. Muovendo la lama si guardò intorno ed incrociò lo sguardo di Nina. Tanto bastò per distrarlo. Il porco, nello strepito della morte cacciò uno strillo che ricordava il frantumarsi del vetro. Poi, il maledetto, continuò a dimenarsi inondando letteralmente di sangue la neve del cortile. Umiliato, Taddeo, lo finì con un secondo colpo alla gola, nel senso opposto del primo. Dagli squarci il sangue fluiva velocemente nella giara. Il giovane macellaio lasciò completare l’operazione di dissanguamento agli altri e si recò in cucina, per


sollecitare le donne di versare l’acqua bollente nella madia grande. Si lavò le mani in un secchio, vicino alle scale. Si accorse che Nina stava osservandolo e indugiò. Era sudato, ma sentiva i brividi sotto la pelle. “Questa donna mi farà impazzire” pensò. In sei sollevarono il porco e lo adagiarono nella madia grande. Taddeo controllava il filo di un rasoio. Poi, mentre le donne si avvicendavano a versare acqua bollente sulla pelle del maiale, egli con grande destrezza ne rasava le setole. Cambiò strumento quattro volte. E mentre con fierezza, ridendo, affermava : « Guardate che meraviglia ! Sembra il culo d’un neonato tant’è liscio !”, avvenne un’ultima stranezza. In un estremo sussulto di vita, traendo l’energia chissà da dove, il maiale strepitò, rovesciando la madia e finendo sul pavimento per restarvi poi definitivamente immobile.. Taddeo imprecò bestemmiando il nome della Madonna. Le donne si segnarono. Nina non poté fare a meno di dirgli « Chi è il porco, lui o tu?» La replica di Taddeo fu ancora violenta : « Taci, donna, non provocarmi ! E voi, sbrigatevi !» gridò agli aiutanti. Gli avvicinarono il paiolo. Scuoiò il maiale della sua cotica e si accinse a preparare i tagli di carne come gli era stato richiesto dalla cuoca, Gnura Smena, mentre gli altri, velocissimi asportavano le interiora riponendole in una apposita madia (la merdona) e portandole subito all’aperto. Qui le ripulirono e dopo meticolosissimi lavaggi le riposero, separate per tipo, nei recipienti (limme) di terracotta smaltata. Il cuore, i polmoni, resti del fegato, della milza, le trippe i resti di


carne che Taddeo lasciava man mano da parte, vennero raccolti da Porzia e tagliuzzati a dovere. In una grande padella posata sul treppiede friggeva del grasso. Porzia vi versò i pezzetti di carne. Il lauro empì la cucina d’aroma. Ismene trasse dallo stipo una forma di pane fresco. Si fermarono tutti. Nina distribuì le ciotole. Porzia servì il “suffrittu” per la canonica mangiata degli “avanzi”. Ismene versò agli uomini un boccale di vino a testa. Le donne bevvero dalla caraffa. Taddeo s’era seduto vicino a Nina che però non lo degnava d’uno sguardo. Mangiavano tutti con appetito. “Scusami, per poco fa” avrebbe voluto dirle Taddeo. Invece se ne restò immusonito. Lei mangiava con grazia. Sembrava una signora. Era così bella che lo faceva star male. « Nina» le sussurrò con durezza, contraddicendo il desiderio che aveva provato solo un attimo prima, « perché mi tratti così?» Lei non rispose. S’alzò di scatto e uscì. Taddeo finì di mangiare. Incrociò lo sguardo di Porzia leggendovi compassione e s’irritò. Ripresero a lavorar le carni sul grande tavolo, mentre le donne s’affaccendavano per la preparazione del pranzo di mezzogiorno. Nina rientrò con due secchi colmi d’acqua. Si lavò le mani in un catino. Poi aiutò Ismene ad impastare la lagana. Guardò Taddeo maneggiare il coltello. Pensò ch’era proprio bravo nel suo lavoro. Per qualche momento osservò il volto bruno, i baffi spioventi, i capelli lunghi che sfuggivano da sotto il cappello. Il fazzoletto giallo legato al collo dava risalto ai lineamenti del volto che Nina, per la prima volta trovò bellissimi. S’era fermata d’impastare e fu ripresa da


Ismene che la redarguì dicendole di scendere giù dalle nuvole. Le altre risero. Taddeo si voltò a guardarla. Lei arrossì e abbassò lo sguardo. Il cuore dell’uomo si gonfiò di gioia. Aveva scorto qualcosa nei suoi occhi. Qualcosa di mai visto prima. Una scintilla durata un attimo. Si ferì ad un dito con la punta d’un disossatore. Di nuovo bestemmiò ad alta voce succhiandosi il dito. “Le donne !” pensò ; e si concentrò sul suo lavoro. Maria, una donnetta minuta, dal volto scavato e dalla bocca sfuggente, a differenza di quanto il suo aspetto indicava, era la più allegra di tutte. Come ogni mattina a quell’ora, cominciò a cantare ad alta voce. Presto, le altre si unirono al coro, continuando diligentemente a lavorare. Anche uno degli uomini, Giacomo Quatro, un quarantenne grande come un orso, con un vocione che ricordava l’eco del tuono, si divertì a dare ritmo alla sua azione di triturazione della carne per la salsiccia, canticchiando con le donne. L’andirivieni degli affilatissimi coltelli era molto rapido e, incrociandosi sul grande tagliere di legno riducevano i pezzi di carne in un trito finissimo che altri provvedevano ad asportare e ad infilare nelle budella del porco. La canzone, basata su evidenti doppi sensi, raccontava dell’amore tra una ragazza e un giovane frate e del loro espediente per restar da soli. La trovata consisteva nella simulazione della malattia da parte di lei, tanto da far disperar la madre al punto che, credendola moribonda, prega il fraticello, intanto sopraggiunto per chiedere l’elemosina, di confessare la figlia. Nel chiuso della stanza i due si amano e alla fine


la ragazza grida alla madre :« Mammà, lu Monachieddru m’ha sanàtu17 ! » Mentre la canzone stava finendo e su tutti i volti si disegnava un sorriso divertito, dalla porta sul cortile entrò fra Bernardino. Tutti tacquero immediatamente. Il frate, vagò nella cucina, spostando con fatica la sua prominente pancia che sembrava impalata sulle gambe corte, da nano. S’avvicinò ai norcini e, senza dire una parola, staccato un pezzo di salsiccia dalla corda che stavano formando, l’addentò riempiendosi l’enorme bocca di carne cruda, budello compreso. Spezzò del pane su un orlo, lacerandolo, e se lo infilò tra i denti. Masticando s’avvicinò alla credenza. Afferrata la caraffa scolò il vino che vi era rimasto, lordandosi l’abito bianco coi rivoli che gli colavano dagli angoli delle labbra. Il silenzio era gelido e assoluto, ci fossero state le mosche le si sarebbe sentite ronzare. Nessuno osava parlare. Porzia si rifugiò nello stanzino della cenere e vi restò fino a quando, il frate, dopo circa mezz’ora, se ne uscì da dove era entrato. Fra Bernardino, intanto, s’avvicinò alla pentola di terracotta dove erano stati messi a cuocere, sin dal mattino presto, i fagioli. Con un cucchiaio di legno se ne versò una ciotola. Nella padella utilizzata per il “suffrittu” era rimasto dello strutto rappreso. Con lo stesso cucchiaio lo asportò condendovi i fagioli. “Sono arrivato troppo tardi” pensò. Trangugiò i legumi facendo un rumore orribile nell’imboccarsi, tanto che tutti si voltarono a guardarlo. « Bene ! Bene !,» esclamò, finito di mangiare. La sua voce, avvezza a predicare, era stentorea.


« Benissimo !... Quante volte devo ripetervi, donne di malaffare, che quella canzone è licenziosa ed induce peccaminosi desideri nelle giovani ? Non dovete cantarla mai più !» Il tono si affievoliva man mano che procedeva nella frase. Diventava sfuggente, quasi un mormorio, preludio certo all’immancabilmente urlata severarum reprimenda che sarebbe seguita : « Pazze ! Voi siete peggio delle maledette tramontane che spregiano il sangue divino del nostro Signore Gesù Cristo ! Voi diffamate, cantando, l’onore d’una giovane, il dolore d’una madre, la reputazione di un Frate ! Pazze ! Il fuoco del rogo prima, e quello dell’inferno poi, consumeranno le vostre membra per omnia saecula saeculorm... Pazze !» Intanto s’era avvicinato ad Ismene, china sulla sfoglia e, sempre continuando ad inveire, le aveva posto una mano sulla schiena. Nina e Taddeo s’accorsero della manovra e distogliendo gli occhi dalla scena finirono con lo scambiarsi uno sguardo che li indusse a sorridersi. In quell’attimo non udirono più il frate. Il tempo parve dilatarsi. Fra loro si svolse un lunghissimo colloquio ch’era poi il riecheggiare di un’unica frase : “ti amo”. Nina arrossì violentemente, sentendosi sciogliere. Taddeo avrebbe voluto urlare dalla gioia. Sbigottì, invece, quando, tornando alla realtà, si rese conto che il frate avanzava minaccioso verso di lui. «... Ed eccoli i giovani laidi di oggi, che spendono le loro serate nella taverna di quella femmina indegna, che apparecchia loro il desco ed il letto ! e che li consuma come fuochi al vento. Eccoli questi peccatori ! degni della triplice bocca di Lucifero !»


proseguì il monaco puntando minaccioso l’indice destro contro Taddeo. Questi, irritato interloquì, a sua volta con veemenza : « Ma quando mai ! Ma voi che dite, Fra Bernà, è pura calunnia. Io ? E dove lo trovo il tempo d’andare alla taverna della Greca, io che lavoro notte e giorno ? Ma chi ve l’ha riferita un’infamia simile ?» « Taci ! Non ho bisogno di delatori ! T’ho visto io sgusciar via di notte, tu come mille altri, dalle calde coperte di quella meretrice ! T’ha visto il mondo trascinarti ubriaco e sfatto per le strade, dopo essere stato posseduto da quella donnaccia!» Tacque, smise d’agitarsi e s’avviò verso l’uscio, che socchiuse. Voltandosi assunse la posa di un comico angelo dell’Apocalisse. Col dito indice puntato verso l’alto tuonò « Maledetti peccatori ! Donne serve di Satana ! Magàre ! Miscredenti ! Giorno verrà che non avrete più voglia di cantare ! » Il sole faceva risplendere le macchie di vino e d’unto disseminate sul candido saio. Porzia Beza rientrò. Era pallida. Il reticolo di rughe s’era accentuato sul suo volto. Gli occhi sembravano più infossati del solito. Perle di sudore le ricoprivano la grigia peluria del labbro superiore. Nina, vedendola in quello stato, e temendo che stesse per svenire, le si avvicinò e la resse per un braccio. « Vieni, all’aperto respirerai meglio. Non angosciarti, Porzia » le disse sottovoce, mentre uscivano nel cortile. La “tramontana”, s’appoggiò alla panca presso il pozzo mentre la giovane attingeva dell’acqua. Erano in sospeso due argomenti di cui nessuna delle due aveva il coraggio di parlare.


Nina sapeva che gli oltramontani non erano cattivi cristiani, anzi, non ne aveva mai conosciuti di così buoni. Le infamie pronunciate da frate Bernardino avevano spaventato a morte Porzia. Altrettante coltellate erano state per Nina le sue affermazioni su Taddeo. Entrambe, però ritennero di non avere ragioni e coraggio a sufficienza per confidarsi i loro dolori. La ragazza porse a Porzia una ciotola d’acqua fresca. Lei ne bevve un sorso e la rassicurò : « Sto bene, non spaventarti, m’è soltanto girata un po’ la testa, sarà stata la cenere smossa.» Nina poggiò per un momento la testa sulla spalla di Porzia : « Ti prego di perdonarmi per stamattina, sono stata sgarbata ». « Non pensarci, vieni, rientriamo, tra breve scenderanno i valletti per prendere il pranzo.» Gli uomini stavano discutendo e Taddeo, al solito, lo faceva ad alta voce e gesticolando. Agitava due coltelli nell’aria mentre urlava « Quant’è vero Dio, a quella palla di grasso io gli taglio la pancia e gliela trito sul tagliere. Mangia quanto un esercito di lanzichenecchi e predica alla gente di osservare il digiuno. E’ il più grande puttaniere di Montalto e predica la castità ! E’ un mentitore , un giudascariota ! M’ha visto lui, dice ! E cosa cazzo ci faceva dalla Greca lui di notte ?» Gnura Smena lo redarguì : «Basta ! Finiamola. Al lavoro e poche chiacchiere. Tu guagliù, stai celiando col fuoco, guarda che potrai scottarti. E attento con quei coltelli !» « Sentitela ! » replicò Taddeo ormai irrefrenabile. « Ne ha paura e lo difende, anche se poco fa quel pancione non ha esitato a toccarle il culo davanti a tutti ! Dite, Smena... magari è per questo che lo difendete, non è


così?» chiese poi ridendo. La vecchia rise a sua volta e lo mandò al diavolo. Ismene e Nina, consegnarono il pranzo dei signori ai valletti. Maria e Porzia apparecchiarono per la servitù sul grande tavolo della cucina, sgomberato di ogni cosa. Attesero il ritorno dei valletti, quattro spagnoli taciturni (castrati, li definiva Taddeo) e delle cameriere. Porzia si alzò per la Preghiera. Gli uomini si levarono il cappello. O tu, lo nostro payre lo qual sies en li cel, lo teo nom sia santificà. Lo teo regne vegne. La toa voluntà enayma ilh es fayta al cel sia fayta en la terra. Dona a nos enquoy lo nostre pan quottidian, e perdona a nos li nostre debit enayma nos perdonem a li nostre debitor. E non nos menar in tentation, ma desliora nos de mal. Amen. Taddeo disse a Giacomo : « Lei sì, che sarebbe un bravo frate ! Il suo latino si capisce di più, ed è così buona, così...pia, ecco.» Consumarono tutti insieme il loro pranzo a base di lagane e fagioli, carne di porco e zampe ed interiora di oche. Arrivò poi il momento più difficile della giornata per Nina : il lavaggio delle pentole e delle stoviglie. Nel pomeriggio, infatti tutte le pentole dovevano essere


riutilizzate per la preparazione della carne per l’indomani e, a fine lavoro, per supplemento, dovevano essere bollite le cotiche e le parti grasse per lo strutto e li scarafuogli (ciccioli). Sarebbe servita la quadàra (il grande paiolo di rame). Alla cottura, come sempre avrebbero assistito Ismene (che dormiva stabilmente in Castello) e Giacomo il norcino, che se ne sarebbe tornato a casa a tarda notte, certamente ubriaco e sazio. La ragazza si rimboccò le maniche e slargò il grembiule sulla gonna. Indossò una giubba pesante e tornò in cortile. Le donne sparecchiavano e portavano fuori le stoviglie, presso il vascone addossato al muro delle stalle. Taddeo, Giacomo e i valletti (che badarono a non sporcare i loro vestitini rosa pieni di alamari con l’unto ed il nero delle pentole), portarono i paioli più grandi. Nina prese il secchio della cenere e un badile. Le si avvicinò Taddeo : «Lascia, vado io a prendertela.» Lei lo lasciò fare ma non gli parlò. Dispose sul bordo della vasca una serie di stracci e la ciotola con la sabbia fine. Le pentole erano così unte che l’odore, sebbene consueto, nauseò la giovane. Taddeo la raggiunse e dispose il secchio con la cenere direttamente nella vasca. S’accorsero d’essere soli. Il giovane faceva ruotare le falde del cappello tra le mani nervosamente. I raggi del sole sfaccettavano i suoi capelli e lo costringevano a stringere le palpebre, il che contribuiva a dargli un aspetto truce, a dispetto dell’atteggiamento di timidezza evidenziato dall’armeggiare col cappello. Aveva ormai ventitré anni. Non era mai stato uno stinco di santo, tutt’altro. Le sue avventure con le donne erano note come le sue


sbornie e le sue liti al coltello. Però non aveva mai sentito nel cuore, per nessuna, niente di paragonabile di quello che provava da un po’ di tempo per Nina. Desiderava quel corpo armonioso, quelle labbra color di rosa, adorava la sua voce, anche se non s’era mai rivolta a lui con gentilezza e men che meno con complicità. Gli mancava il fiato tutte le volte che la guardava, al punto che, spesso, si esortò a non rincitrullire per una femmina alla quale non interessava. Quello sguardo, però... Quel suo sguardo, finalmente libero da remore e da pose, gli aveva fatto intuire che anche lei... « Devo parlarti, Nina» La ragazza aveva temuto e, al tempo stesso, atteso quel momento. Si sentiva in subbuglio e le gambe parvero non sorreggerla più. Si sforzò di pensare alle terribili parole di frate Bernardino. Un nodo le serrò la gola e, suo malgrado s’accorse d’avere le lacrime agli occhi. Volse il capo in direzione delle stalle. Si terse gli occhi e replicò dimessa: « Meglio di no.» « Vuoi ascoltarmi, donna ?» Taddeo si cacciò il cappello in testa con furia e le si piazzò davanti. « Devo semplicemente chiederti se vuoi sposarmi. Maledizione !» Nina abbassò lo sguardo e tacque. “L’ha chiesto a me !” pensò con orgoglio. Poi cominciò a pompare l’acqua e a strofinare la stagnatura delle pentole con consumata esperienza. Taddeo impazziva dal desiderio. Senza guardarlo, infine, lei gli replicò sottovoce : «Non voglio essere la moglie di un poco di buono, di uno che si perde dietro alla Greca. » « Io... io mi perdo dietro a te e basta. Per la miseria ! Non dare retta a quella trippa ambulante. Sì... credimi,


da quando mi sono accorto di amarti, sono in preda alla febbre. Le altre non esistono e, meno che meno la Greca... Pensaci. Dimmi di si e parlerò a tuo padre.» Poi fece per andarsene, ma si fermò e guardò Nina diritto negli occhi. Il suo carattere fiero riprese il sopravvento : « Bada, donna ! Non te lo chiederò una seconda volta.» Nina si chiuse in un irritante mutismo. Taddeo rientrò. Rimasta sola, Nina continuò a lavorare alacremente, con meticolosità rabbiosa. Il suo pensiero vagava in spazi sconosciuti. Per la prima volta ebbe paura di scoprirsi debole. Sì, amava Taddeo. Era attratta da lui, malgrado tutto. Dentro si sé una voce le intimava “Attenta !”, ma quasi sempre prevaleva una sorta d’orgoglio per essere la causa della confusione di quell’uomo che tutti definivano durissimo. Era compiacimento e, al tempo stesso era amore, si disse, perché lontana da lui ogni briciola di tempo era riempita da sogni che lo riguardavano. Infine si confessò di desiderarlo. Mai aveva provato niente di simile. Sognava i suoi baci. La voce s’intrometteva : “Attenta !”. La giornata finì. Erano tutti stanchi e desiderosi di tornare a casa con il loro fagottello d’avanzi e di pane bianco. Ismene li congedò raccomandando alle donne d’essere al castello all’indomani prima del levar del sole. Ruggero, nel cortile, aspettava la sorella, in compagnia di Nunzio Alfieri, il marito di Maria. Porzia, come al solito avrebbe fatto un tratto di strada insieme a loro e avrebbe trovato Beppe Beza, suo marito, ad attenderla sul sagrato di San Giacomo.


Nel buio, Taddeo salutò i suoi amici, augurando la buona notte a tutti. Nina lo vide scendere di corsa la scalinata che portava alla piazza del mercato. Ai piedi di quella c’era la taverna della Greca. Più in là, pensò, proprio vicino alla Chiesa di San Francesco, però, c’è casa sua. Il buio pesto le impedì di constatare quale direzione avesse preso. Il nervosismo le indusse i brividi malgrado la serata, che, a differenza del mattino gelido, era quasi tiepida. Ruggero e Nina lasciarono Maria e Nunzio al Cièvuzu da’ Madonna18 e scesero verso “u chiànu”19 per tornare a casa loro. Nina, al contrario del solito, era taciturna. « Ti senti bene ?» le domandò Ruggero. « Sì. Però sono molto stanca. Oggi hanno ammazzato il porco. M’è toccato lavare le pignatte.» « Domani grande festa al castello, vero ?» « Sì, arriva un nobile da Napoli» « Ma stasera la festa è da noi.» « Come mai ?» « Non lo sai ? Si festeggia la ricorrenza di un evento straordinario» le disse sorridendo Ruggero, « La nascita di una grande persona.» « La nascita di chi ?» « Davvero te ne sei scordata ? Ma la tua, stupida.» « Ah... già !E non chiamarmi stupida...» Rientrarono in casa ridendo ad alta voce.


Capitolo secondo Beppe e Porzia giunsero alla loro casa silenziosi. Porzia era agitata e Beppe gliene chiese la ragione. « E’ passato fra Bernardino dalla cucina », spiegò Porzia, « Ha inveito contro le tramontane, definendoci spregiatrici del sangue di Cristo. Ho paura, Beppe. Credo che stiano per riprendere i tormenti. Questo spagnolo che viene domani pare che sia un inviato del Viceré. L’ho sentito mormorare alle stalle per diversi giorni. Ora, che ragione avrebbe il Viceré di mandare qualcuno dal Governatore che è uno dei suoi uomini più fidati ? Non si tratta d’un viaggio di piacere. E’ inverno. I nobiluomini non attraversano il mare o i monti d’inverno se non c’è la guerra. Sta tornando la disgrazia ti dico.» « Calmati, bene mio. Calmati. Domani andrò a Vaccarizzo. Parlerò con il Camerlengo.» « No, Beppe, non domani. Andiamoci subito » « Non è possibile, è pericoloso di notte. A Parantoro ci sono i briganti, non te lo ricordi ? E il freddo ? Dove lo metti il freddo ?» « Passiamo dal Gaglioppo. Ci copriremo bene.» « Mai più. Basta. Non ho mai fatto quella strada. E’ tutta una palude lo sai. Ho sessantaquattro anni e tu pure.» « Beppe, non ce lo perdoneremo mai. Avvertiamoli finchè siamo in tempo.» Per Porzia le esitazioni del marito erano incomprensibili. Da moltissimi anni gli oltramontani lo avevano riconosciuto loro riferimento. Di fatto era lui che i valdesi di Montalto cercavano per avere consigli,


redimere vertenze : la sua saggezza e il suo coraggio avevano fatto di lui il capo riconosciuto della piccola comunità. Stentava a riconoscerlo : essere indeciso era inconciliabile col carattere dell’uomo col quale viveva da quarantotto anni. Questi sembrava ci stesse pensando su. Poi, la sospinse in casa e, dopo aver acceso due lumi, ruppe il silenzio. Quasi sussurrando confidò a Porzia che, sia a Vaccarizzo che a Sansisto, i valdesi erano già stati informati. Erano giunti da Torino due Barba20 e le notizie che avevano portato non erano allegre. Tutti erano in preallarme. Anche quelli di San Vincenzo. Lui si sarebbe recato dal Camerlengo all’indomani, in pieno giorno, in modo da avere istruzioni per i valdesi di Montalto. Strinse a sé la moglie e le ingiunse di non piangere. Pregarono assieme recitando O tu, lo nostro payre lo qual sies en li cel.... La tenne stretta a sé tutta la notte e non per difenderla dal freddo questa volta. *** Quella sera, Taddeo, si rifugiò in casa, ombroso e inquieto come non mai. Mandò al diavolo un paio d’amici ch’erano venuti a prenderlo per star fuori fino al coprifuoco. Non riusciva a pensare che a Nina. Era come una maledizione, una fattura. Vorticavano nel suo capo immagini di quel sorriso quasi d’intesa del mattino, era angosciato dalla paura del suo rifiuto. “E’ molto orgogliosa” pensò. Più rifletteva, più la desiderava, più in cuor suo ingigantiva


la convinzione che la perentoria frase del pomeriggio “ non sarò mai la moglie di uno che si perde dietro alla Greca” fosse un rifiuto definitivo. Un rancore sordo per fra’ Bernardino, lo indusse a fantasticare sui modi che avrebbe escogitato per mettergli a nudo le viscere con una sola coltellata... Si convinse che stava diventando un debole. Si ritrasse in tempo : avrebbe voluto confidarsi con suo padre, ma questi non l’avrebbe certamente capito. La madre ? E cosa avrebbe potuto dirgli, quella povera donna timorosa e succube del marito ? “Non devo parlarne a nessuno”. S’attaccò al fiasco del vino e ne bevve una lunga sorsata. L’effetto dell’alcol fu quello di renderlo euforico. Nina lo amava, ne era sicuro ! I suoi occhi glielo avevano detto : lui le donne le capiva. “non devo parlarne a nessuno, rovinerei tutto”. Versò un’abbondante dose di vino in un boccale e, sempre rimuginando, la centellinò a lungo, finendo per scolarsela. Sua madre gli chiese qualcosa, lui non capì e fece finta di non aver sentito. Come avviene in quasi tutti gli uomini avvezzi al vino, al primo momento d’euforia si sostituì la tristezza e, a quest’ultima, la rabbia. L’incertezza lo prostrava, la consapevolezza d’essere indegno provocò l’ira che, in breve lo sopraffece. “Basta !”, si disse, “Devo andarmene da questa prigione ! Devo andar via ! Ora, però, non posso. Ora amo Nina. Ora voglio Nina ! Se mi risponderà di sì la vita sarà più sopportabile... Il guaio è che mi ribadirà quel no !... Se lo farà... Se mai dovesse rifiutarmi, la vita diventerebbe schifosa sia qui che altrove.... Odio questo paese, odio questa manica di benpensanti...”


Trangugiò un altro boccale. Il padre gli si sedette vicino e bevve a sua volta. Non si scambiarono neanche uno sguardo. Taddeo continuava a tormentarsi. All’improvviso, quasi con ribrezzo, realizzò di essersi messo a pregare la Vergine della Serra affinché lo aiutasse a cambiar vita, affinché lo rendesse degno ! ? di Nina. S’interruppe pieno di livore : “Degno ? E perché mai degno, imbecille !” pensò. “Che cos’ho che non va ? Ha poco da far l’altera, la damigella ! Sguattera, figlia d’un carriere..... E chi crede mai d’essere, Donn’Eleonora in persona ?....” Si riattaccò al fiasco, suscitando le proteste del padre. Un ultimo sorso prima d’alzarsi e buttarsi a peso morto sul giaciglio. Gli s’avvicinò sua madre per aiutarlo a spogliarsi. Ormai lui, ubriaco fradicio non era più capace di coordinare i movimenti e farlo da sé. La madre timorosa che il figlio si mettesse a blaterare e a bestemmiare tutti i santi del cielo, cercava quasi di non far pesare la sua presenza. Lasciò che Taddeo, con una lentezza esasperante si levasse la giubba da sé. Il grosso coltello a serramanico che teneva infilato nei calzoni cadde sul pavimento di legno, producendo un tonfo sordo. La madre rabbrividì alla vista. Lui si chinò per raccoglierlo e finì bocconi sul pavimento. « Sangue di Giuda !» imprecò. E continuò a farfugliare parole incomprensibili per la povera donna che, con grande sforzo cercava di ricollocarlo sul letto. « Lei... non t’ha... Lei non ha... mai detto che tu...» Dopo quindici anni dall’ultima volta, l’esterrefatta madre vide quel suo figlio forte come un toro e duro


come la roccia, sciogliersi in un pianto dirotto. Tra i singhiozzi percepì «... che tu... sei... indegno !» La donna non sapeva cosa pensare. Guardò il marito, in piedi dietro di lei. « Madre !» urlò Taddeo tra le lacrime, afferrandole un braccio. « Madre ! Aiutami, aiutami a cambiare... perché.... perché sono così schifoso ? Perché.... questa febbre mi squarta... le... viscere ? » «Povero figlio mio !» Ora anche la madre piangeva, carezzandogli i capelli. Come avrebbe potuto capire? « Vorrei morire, adesso, qui !» concluse tra i singhiozzi Taddeo, e s’addormentò. Il padre prese la moglie per un braccio aiutandola a rialzarsi. « Non preoccuparti, Carmè, non è niente... O qualche gallinella gli ha dato del largo... oppure, finalmente, s’è innamorato davvero. Su vieni via, non preoccuparti.» « E’... ancora tutto vestito, sta male, suda... non sta bene...» « E’ ubriaco e basta. Calmati. » Spensero il lume sul tavolo e si avviarono verso la loro stanza, al piano di sopra. Taddeo ronfava sonoramente. *** Nina era totalmente ignara delle sorprese che l’attendevano. Giunti a casa, si rallegrano di vederla illuminata a giorno : ai lati della porta ardevano due torce, come a Natale. Quando entrarono, Nina s’avvide che c’erano anche le cugine Silvia e Marta e sua zia Cecilia, la sorella del


padre. Fu baciucchiata da tutta la famiglia e dai parenti. Gli auguri di buon compleanno si sprecavano “come nelle case dei signori”, pensò. Cecilia le aveva portato in dono uno splendido scialle di lana, molto pesante, ornato di nastri multicolori. Nina ringraziò e non mancò di confrontarlo con quello che le cugine indossavano, arrivando alla conclusione che il più bello fosse il suo. E per questo ringraziò ancora con più calore di prima. Lucia Chiapperino aprì una cassapanca, ne trasse un fagotto ricoperto da una pezza di tela e porgendoglielo alla figlia disse semplicemente « E’ per te, da parte della famiglia ». Ignazio, Ruggero, Francesco, il più piccolo dei fratelli, e Bernardo le raccomandarono, ridendo, di aprire l’involucro solo quando fosse stata “nella sua stanza”. Più e più volte rimarcarono quel “nella tua stanza” che quasi Nina se ne irritò. Sapevano benissimo tutti, cugine e zia comprese, che lei non aveva una sua stanza. Il suo piccolo letto era sempre stato lì, ai piedi di quello dei suoi genitori. L’irritazione aumentò, diventando quasi sgomento, quando s’accorse che con una scusa o con l’altra, tutti cercavano di sospingerla verso la scaletta che portava in solaio. Ad un certo momento, il padre afferrò il più grosso lume ad olio e schermandone la fiammella con le mani affinché non si spegnesse, si inchinò esageratamente verso la figlia e pomposamente le disse : « Ed ora, mademingèla21, volete seguirmi ? Vi farò luce fino al vostro appartamento ». Ridendo le indicò la scala che portava al solaio. Lei pensò che quello scherzo fosse durato abbastanza.


Perché umiliarla davanti a Silvia e Marta che una stanza tutta loro ce l’avevano davvero ? Gli altri la sospinsero lungo la scala. Stava per protestare quando s’accorse che la vecchia scaletta non c’era più. La scala, infatti, era nuova, con i gradini piani e comodi e una balaustra di legno laterale che le dava un tocco di “lusso”. Il cuore cominciò a galopparle nel petto per l’emozione : troppo bello per esser vero ! Si trovò davanti ad una porta intarsiata, con una bella maniglia di ferro battuto. « ...E apri, su !..» la incitò Francesco. Aprì. All’interno, un lume acceso le mostrò la realizzazione di un suo antico sogno : le si presentò una stanza nuovissima, con pavimento, pareti e soffitto foderati in legno ; un letto alto con le trabacche22, più lungo di lei, completo di un morbido cuscino, lenzuola candide e coperta di lana rossa. La ragazza, incredula e felice, armeggiò con la brocca dell’acqua in terracotta smaltata e col bacile, dello stesso materiale, posto su un treppiedi di ferro battuto. Un lume acceso era poggiato su uno strano tavolo che, sulla parte larga vicina al muro al quale era addossato, recava una sorta di basso armadietto con sei cassettini, tre per lato. Un altro cassetto era inserito nel tavolo vero e proprio. L’arredamento era completato da una graziosa cassapanca e da una sedia impagliata. Francesco, sempre celiando le chiese ad alta voce : « Ti piace, damigella ?» Per tutta risposta, Nina li abbracciò tutti, uno per uno.


« Non so che dire. Siete tutti meravigliosi e buoni. Ma, com’avete fatto a fare tutto questo senza che io me n’accorgessi ?» « Già, come avete fatto ?» le fece eco la zia Cecilia incuriosita. Ignazio assunse la posa del Nobiluomo, ponendosi una mano sul fianco ed allungando il dito indice dell’altra per sottolineare ciò che stava dicendo : « In primis : tu lavori durante il giorno et erco23 non sei mai in casa. In secundis : i tuoi fratelli ed io abbiamo lavorato su, con l’aiuto di tuo zio Pasquale, il fravicatore24, durante il giorno, per quasi un anno, quanto ci è stato possibile. Sapevamo che tu in solaio non ci sei mai voluta andare perché hai paura, e che, quindi, non ci saresti mai salita comunque. Et dulcissimus in funnum25 : solo oggi abbiamo installato la nuova scala, già pronta a bottega, da una settimana. Come vedi, figlia mia, siamo dei ganci26 con il privilegio regale !» « Altroché ! Oh mamma, quasi me ne scordavo. Cosa c’è nel pacco ?» « Aprilo e vedrai. Ruggero, avvicinati con quell’atro lume.» Un coro di “Oooh !” sottolineò l’apertura dell’involucro. Nina restò senza parole. “Troppo in un giorno solo, troppo...” Era il più bel vestito che avesse mai visto : l’ampia gonna di velluto rosso, il corpetto dello stesso tessuto, verde smeraldo, la camiciola morbida e bianca, di seta, i laccioli neri, restituivano meravigliose iridescenze alla luce dei lumi.


La madre aveva cucito quel capolavoro, lavorando di nascosto dalla figlia, in oltre due mesi. Ignazio aveva comprato le stoffe al mercato di San Marco nell’agosto precedente. Scesero tutti in cucina, a gustare i dolci di mandorle e a bere il vino “speciale” che suo padre aveva serbato per l’occasione. Bernardo suonò sul liuto (acquistato a Bisignano da un summastro27) un antico motivo. Nina, adattandovi istintivamente le parole di una poesia letta nel libro di Cristina, cantò con voce sicura : Zefiro torna, e ‘l bel tempo rimena, e i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia, e garrir Progne e pianger Filomena, e primavera candida e vermiglia. Ridono i prati, e ‘l ciel si rasserena ; Giove s’allegra di mirar sua figlia ; l’aria e l’acqua e la terra è d’amor piena ; ogni animal d’amar si riconsiglia28. I parenti si meravigliarono della bellezza delle parole di quella canzone, mai sentita prima, e dell’armonia della voce della ragazza. Rimasero colpiti al punto che pregarono Nina e Bernardo di ripetere. I giovani, anch’essi entusiasmati, ripeterono volentieri. Gli altri ritmarono la musica battendo le mani sul tavolo e i cucchiai di legno sul dorso delle ciotole. Al canto di Nina s’aggiunse quello di Ruggero che stupì la sorella per la facilità con la quale ricordava quei versi, pur avendoli uditi una volta sola. Marta sospirando


domandò a Bernardo :« Chi sarà quella Filomena che piange?» « Non lo so proprio... », rispose il giovane. Intervenne Nina, arrossendo un poco : « Progne e Filomena non sono delle persone ma la rondine e l’usignolo. Li chiamavano così gli antichi.» Il discorso si stava facendo pericoloso. Infatti la zia Cecilia non mancò di sottolineare : «Quante cose sai ? Chi te l’ha insegnata quella strofetta ?» « L’ho sentita leggere a donna Cristina » mentì, piena di imbarazzo. « Tu e tuo fratello avete una grande memoria, è vero. Però, fammi capire una cosa : la baronessina oltre a leggere ti dava pure le spiegazioni su chi erano Filomena e Prugna ?» «Progne, zia, Progne... ma no, che dici ? So quelle cose perché ho ascoltato il precettore che le spiegava a donna Cristina. Mi ricordo che diceva che Giove era come Dio e abitava su un monte, e che sua figlia si chiamava Venere ed era la più bella donna dei tempi antichi...» « ...di prima di Cristo » sentenziò mastr’Ignazio. « Come siamo ignoranti... » si lamentò Francesco, « Io credevo che Giove fosse una bestemmia. Sai, papà, don Raffaele il Cerusico quando s’arrabbia dice sempre mannaggia a Giove pulvio29 !» Risero tutti alla battuta di Francesco. Dopo un po’, la zia Cecilia pregò Bernardo di riaccompagnarle, prima del coprifuoco. Ruggero accese una torcia di resina e la diede al fratello. Rimasti soli, Nina, raggiante di felicità, ringraziò ancora una volta tutti e abbracciò la madre, quasi soffocandola.


A loro volta, i suoi, traspiravano gioia da tutti i pori. La ragazza ringraziò in cuor suo il buon Dio per averla fatta nascere in una famiglia in cui regnava l’armonia. Una volta nella sua nuova camera, si fermò ad osservare quello strano e bellissimo tavolo. Sicuramente opera di Bernardo, così intagliato, in modo che i quattro piedi sembrassero altrettante teste di cani. Fu incuriosita dal grande numero di cassetti, ma non li aprì. Poi s’accorse delle tendine alla finestra. Tornò ad ammirare il vestito, aprì la piccola cassapanca e ve lo ripose con cura. La stanza era calda, poiché una delle pareti confinava con la canna fumaria del camino. Nina si spogliò. Nel mettersi a letto le tornò alla mente Taddeo. “Poverino”, pensò, “oggi l’ho trattato male. Dice d’amarmi e forse... anch’io lo amo. No, no, senza forse, lo so. Lo amo proprio” Sentì aprirsi e richiudersi l’uscio di casa. Bernardo era rientrato. Spense il lume, pregò la Vergine della Serra di proteggere i suoi cari e... di vegliare su Taddeo. S’addormentò tranquilla. Non avrebbe mai più dimenticato il giorno del suo sedicesimo compleanno. *** Don Felipe Alvarez aveva trentotto anni. Era il nobile più amato dalle donne e più odiato dagli uomini di Napoli. Aveva un passato di quelli da raccontare. Cugino del Re, era famoso, soprattutto, per aver portato alla Corte di Spagna il più cospicuo quantitativo


d’oro mai giunto dalle Indie e di averne trattenuto troppo per sé senza il consenso del Re. Scoperto, era stato allontanato dalla Corte e gli erano stati confiscati tutti i beni dalla Corona. Aveva conservato la fama, meritata, di grande amatore e forte guerriero. Nell’esilio di Napoli s’era adattato alle mollezze, conservando però le sue prerogative caratteriali. Era appena sopportato a Corte. L’esilio, però, non gli dispiaceva : tutte le belle dame erano passate dalla sua alcova ; non si era perduto nemmeno la più piccola scaramuccia, i suoi duelli erano diventati fatti quotidiani, su cui il popolo ricamava fantasie e componeva canzoni. Tutto, però, ha un limite : stava invecchiando. Il sei di gennaio, il Principe, era impaziente di lasciare il palazzo arcivescovile e Cosenza, città che trovava alquanto noiosa. L’appartamento che il Cardinal Gaddi, gli aveva messo a disposizione, era freddo e lo angustiava. Il Principe de San Jago era abituato agli agi del Palazzo Reale di Napoli e mal sopportava l’odore di muffa e l’abbaiare notturno dei cani. Il freddo, poi, era il suo nemico naturale. E lui, d’abitudine, considerava freddo il letto anche d’agosto, se non lo divideva con una bella donna. Ora gli sarebbe toccata “’a brutta faticata de jire ‘nsino a Montalto”. Ma forse, si diceva, ne sarebbe valsa la pena. Avrebbe conosciuto la donna che intendeva sposare per risolvere i suoi problemi. Questo matrimonio gli avrebbe consentito di ottenere il perdono del Re e, forse, di rientrare in possesso dei suoi beni, in Spagna.


Ora, se avesse sposato la figlia di Don Castagneto, pupilla della Duchessa d’Alcalà, era certo che le cose si sarebbero “normalizzate”. Il Viceré lo aveva mandato in missione a Montalto, con l’incarico di portare istruzioni al Governatore per l’applicazione di un suo ordine che riguardava gli eretici che dimoravano nel vasto territorio del feudo. Donna Claretta Cardona aveva ben esercitato la sua ascendenza sul Viceré per ottenere che fosse proprio il Principe a dover andare laggiù. Quando la Contessa Cardona, per la prima volta, gli aveva parlato della giovane Cristina de Castagneto, lui aveva continuato a baciarle i seni senza ascoltarla. Era risoluto a riprendere i focosi giochi d’amore appena terminati. La Contessa, invece, si sottrasse alle carezze di nuovo insistenti di don Carlos. Sedette sul grande letto e s’infilò la leggera camicia, che in luogo di nascondere le sue grazie le esaltava, nel chiaroscuro della stanza ancora illuminata dai raggi del tramonto. Don Carlos trasse a sé la donna e ricoprendola ancora di audacissimi baci, continuava ad accarezzarle le cosce e i fianchi. La donna si divincolò e lo costrinse ad ascoltarlo. Alla fine della conversazione Carlos avrebbe voluto innalzare un monumento alla saggezza della sua più focosa amante. Trovò il modo di esternarle la sua gratitudine facendole passare due ore d’amore assoluto. Il Principe e la sua scorta, composta di dieci cavalieri partirono da Cosenza alle sette. Attraversarono il piano in circa due ore. I palafrenieri staccarono i due cavalli


dalla carrozza. Si fermarono a riposare presso la solitaria locanda ai piedi della salita di sette miglia che li separava da Montalto. L’oste servì loro del pane salame e una vummula30 di vino. Il nobiluomo non entrò nella locanda né tocco cibo, infastidito dalla sporcizia, e dall’andirivieni di galline, cani e gatti. Accompagnato dal fido Basilio, si allontanò tra gli alberi a sgranchire le gambe. La mattinata a tratti era addirittura calda. E questo era un bene. Bevve da una sorgente una lunga sorsata d’acqua. Sul sentiero avanzavano due donne scalze con fascine di legno in equilibrio sulla testa. Una era grassa e sfatta, col labbro superiore ornato da baffi quasi maschili. La seconda, più giovane aveva il volto bruno affilato, il collo lungo e dritto ed occhi profondi. Era piccola di statura ma di fattezze armoniose. Procedettero col loro passo senza guardare i due uomini che le stavano osservando. Basilio, come suo solito commentò :« Muy graciosa !» « Jàmme, Basì, nun te ‘ncantà ! Verimme d’arrivà ‘mpressa, yo soy fastidiado. Rapido31 !» Ripresero il viaggio di buona lena. Non era ancora mezzogiorno, quando incontrarono gli armigeri di don Castagneto venuti loro incontro al piano della Madonna delle Grazie. Ormai Montalto era in vista. Il faticoso viaggio, cominciato il giorno dopo Natale stava per concludersi. Avrebbe conosciuto finalmente quella mocciosa che donna Claretta gli aveva descritto. Quando la comitiva giunse alla Manca, si accodarono i tamburini che ritmando la marcia, fecero accorrere il popolo. Don Carlos faceva ampi cenni di saluto dalla carrozza alla gente assiepata ai margini delle strade


che vociava per dare il benvenuto all’importante ospite. I cappelli piumati, gli abiti sgargianti dei cavalieri, gli ampi e pesanti mantelli, le loro armi, le cavalcature maestose e gualdrappate, affascinarono tutti. Finalmente, la carrozza affrontò la salita della prima porta e giunse sul vaglio antistante il casamento ove, ad attenderli c’era la famiglia del Governatore, fra’ Bernardino, Don De Scita, un altro Domenicano e Don Salvatore Spinelli, giunto al castello un’ora prima. *** “Il Castello di Montalto aveva una torretta grande, quadra ed altissima, pochi passi distante dall’ordinaria abitazione : e uno spazioso vaglio che circondava tutto il piano di quell’altura. Alla testa di esso, verso ponente, esisteva una orrida e sotterranea prigione di carcerati per gravi delitti, e verso mezzodì, a linea di circonferenza, altra piccola torretta di figura circolare, ove sventolava la bandiera in tempo di guerra, ed anche in tempo di pace ne’ giorni di festività solenne.


Il castello formava due braccia uno col prospetto settentrionale, e l’altro di levante. Lo componevano 36 membri, tra stanze nobili e bassi, così come si è rilevato da un’antica platea del Duca. Servì esso di abitazione a li diversi baroni che lo possedettero. La gran torretta del Castello serviva di rifugio alla famiglia del feudatario in casi estremi32”. Il Castello fu costruito da Giordano Ruffo dopo il 1327, ma le mura preesistevano in quanto, già nel 1283, Montalto aveva sostenuto l’assedio di Guglielmo Primarano33, quando Piero d’Aragona invase la Calabria. Le mura dovevano esistere già dal 1046, tempo in cui Drogone d’Altavilla scelse Montalto come sua residenza.


“Le mura principiavano da sotto il Castello verso mezzogiorno, e scendevano pel suo piano inclinato fino a Pietralta, ove era la prima porta del luogo che ne portava il nome. Indi proseguendo verso la parte inferiore fino a San Giovanni, colà era la seconda porta detta dello Spirito Santo. Da ivi, orizzontalmente circuivano li casamenti della Crocevia e giungevano fino a Santo Nicola, ove era la terza porta situata Da colà scorrevano per lo luogo detto Pozzillo e salivano fino a Cotissa, detta dal volgo Cozza, ov’era la quarta porta. Quindi, progredendo a forma di semicerchio, circondavano le case del Piano del Duca (chianu per il volgo, oggi monastrerio del Carmine), e si distendevano fino la strada denominata del Canalicchio, da dove salivano, in direzione obliqua e poi trasversalmente fino alla porta detta della Manca In seguito continuava a salire verso la porta superiore, arrivavano fino alla punta dell’antica piazza, ove era la sesta ed ultima porta. Finalmente dopo altro breve tratto, chiudevano l’ultimo lato della loro trapezial figura.”

All’albeggiare della mattina del sei di gennaio, sotto un cielo sereno ancora trapunto di stelle, le tre donne salivano verso il castello. La sagoma nera del “casamento” si stagliava quasi minacciosa contro l’orizzonte. Le accompagnava l’Alfieri. Per quasi cento anni al castello non avevano abitato i proprietari, (La famiglia Moncada a cui Montalto apparteneva, restava stabilmente in Sicilia, a differenza di tanti feudatari passati che avevano scelto


Montalto come luogo di residenza) per cui era finito in rovina a causa della cattiva manutenzione e dall’asportazione dei materiali da parte dei voraci amministratori che si succedettero nel tempo. L’attuale Governatore, al suo arrivo da Napoli, otto anni prima, aveva fatto ristrutturare a spese della collettività l’ala meridionale del “casamento” portandovi, appena ultimati i lavori, Donna Eleonora Galvez, sua moglie e la loro figlia Cristina. Abitava, inoltre nel casamento il dotto abate Fiorillo, precettore della Baronessina. La truppa del Governatore costituita da una soldataglia di ottanta mercenari comandati dal Capitano Teofilo Caracciolo, s’era acquartierata a nord, presso la grande torre nei bassi del casamento, trasformati in caserma. La temperatura, stranamente, era mite. Le cuciniere del Governatore e Carmine Alfieri erano stati alla prima messa34. Don Giacinto De Scita, un prete fuscaldese, era stato brevissimo. Del resto in chiesa, come al solito v’erano solo poche persone e lui aveva ancora sonno. Sul pianoro antistante l’ingresso alle cucine incontrarono Taddeo ch’era giunto dalla scalea del mercato. Taddeo salutò tutte e augurò “Buona giornata” a Nina. Ella rispose al saluto con dolcezza, « Buona giornata, Taddeo». In cucina, Gnura Smena sonnecchiava su una sedia, mentre Giacomo dormiva ancora con la testa appoggiata sui pugni, sul tavolo. Non li disturbarono.


Porzia ritirò il secchiello del latte e le ricotte che la pastora aveva portato un quarto d’ora dopo il loro ingresso in cucina. Taddeo dispose i vasetti cilindrici di terracotta smaltata sul tavolo. Controllò i coperchi di legno e i sassi che sarebbero serviti per peso sugli stessi. Vide Nina sbadigliare mentre s’apprestava a riaccendere il fuoco nel camino e si fermò ad osservarla come ipnotizzato. Lei lo guardò e gli sorrise. Un calore s’espanse nel cuore del giovane che lo ritemprò all’istante dalla notte piena di incubi che aveva passato. Alzò un sopracciglio in tono interrogativo, aspettando un cenno dalla donna che amava. Questa, invece, tornò al suo lavoro senza più badargli. Gnura Smena si svegliò del tutto e si lamentò per il male alle ossa. Poi prese a dare disposizioni alle donne. Taddeo stava provvedendo a mettere lo strutto nei vasetti e a recuperare le frittole (cotiche) nelle limme. Non poté far a meno di sentirsi orgoglioso del lavoro fatto il giorno prima, constatando l’assenza assoluta di setole. Giacomo appena sveglio uscì per orinare. Si lavò al pozzo e tornò in cucina con cinque grossi limoni prelevati dallo stipo posto “al freddo”35. Li tagliò e ne mischiò la spremitura con dell’aceto che aveva in una scodella, per preparare la triemula36 con la quale conservare le cartilagini e parte della testa del maiale. Nina si avvicinò a Taddeo. « Ti do una mano, se m’insegni.»


Il giovane sentì un fremito percorrergli la spina dorsale. Esitò per un momento, poi riacquistata la calma e badando che la voce non tradisse l’emozione, « Certo, se vuoi... ecco, dopo aver riempito di strutto il vasetto, immergivi dentro questi salamini, non più di tre, e poi fa in modo che il grasso li ricopra.... così » le rispose mostrandole il da farsi. Lavorarono fianco a fianco per una buona mezz’ora. Senza trovare il coraggio di scambiarsi uno sguardo, senza dirsi più una parola. Ogni tanto, sul tavolo, le loro mani si sfioravano. Lui decise di stringergliele. S’accorse che lei ricambiava la stretta, avvampando in volto e trattenendo il respiro. Bussarono. Ismene aprì l’uscio. Era il garzone decenne di Mastro Beppe, Turiddru d’Iduzza37 la tramontana del mercato. « Buongiorno ». « Buongiorno Turì, trasi ca fa friddu38 ! Cosa ci fai qui a quest’ora ?» Il ragazzino non si mosse dall’uscio. « Sono venuto a prendere a Gnura Mastra39 , perché Mastro Beppe dice che deve tornare subito a casa, che ha bisogno.» « E’ successo qualcosa ?» « Non lo so. Mi ha detto solo di dire che devo accompagnare Gnura Porzia a casa lesto lesto.» « Mmm... Porzia ! Porzia !» La tramontana s’avvicinò. « Devi tornare a casa. Ti vuole tuo marito... che guaio. Se devi restare a casa tua, vedi se puoi mandare qualcuna a sostituirti, qualcuna pratica, mi capisci ?»


« Se è per le oche che ti preoccupi, falle preparare da Nina. E’ capace di cuocerle come faccio io.» « Davvero ? Ma guarda. A me non hai mai voluto insegnare...» « Lo farò, te lo prometto. Ora, lasciami andare, te ne prego.» « Vai Po’, va ccu ra Madonna40» Porzia chiamò Nina e le diede le ultime raccomandazioni, incitandola a farsi onore con le oche e col patè. La tranquillizzò, sottovoce, sulla salute di Beppe. « Si tratta d’altro, poi ti racconterò. Ora devo proprio scappare... Ah !... Nina, senti... perdonami se m’intrometto. Volevo dirti, Taddeo non è un cattivo ragazzo come dice il monaco.» « Penso così anch’io » confermò Nina con un sorrisetto complice. Le oche, ben cotte, ricoperte della magnifica salsa che costituiva il segreto di Porzia, erano pronte per essere trasferite nei grandi vassoi. Il clamore della gente e lo scalpiccio dei cavalli fecero intendere che gli ospiti erano arrivati. Le cuoche, come tutta la servitù, s’affacciarono sull’uscio ad osservare i nuovi venuti. Poi rapide rientrarono per finire di preparare. Dopo la recita delle preghiere gli ospiti sarebbero andati nel grande salone per il pranzo. Ismene dispose il succulento cosciotto di maiale in un grande piatto oblungo, cospargendolo di una salsa che contribuiva a dargli un appetitoso lucore. Le decorazioni d’erbe e di limoni completavano il piatto dandogli il tono “nobile” che tanto piaceva alla Donn’ Eleonora.


Maria aveva preparato e disposto una capace zuppiera il cavolo cotto e le verze. Venti piccioni arrostiti tra i mattoni roventi vennero disposti su un asse di legno decorato e munito di manici. Tra loro il simulacro d’un fagiano dalle piume iridescenti occhieggiava invitante. Tutto fu portato di sopra nel più assoluto silenzio. Nina, una ad una, posò le sue oche sul grande tavolo di servizio ricoperto da una finissima tovaglia ricamata, sul quale già troneggiavano le altre portate. Entrarono Ismene e Genoveffa. La prima con la grande zuppiera d’argento colma di crema di funghi e la seconda con le tartine di pane abbrustolito. Genoveffa sollecitò Nina di non dimenticare il patè. Nella vicina cappella, Don Bernardino stava terminando la funzione in gran pompa. Ad un cenno di Genoveffa le cuoche tornarono silenziosamente in cucina. Taddeo apostrofò Ismene : « Oggi farai un figurone. E’ tutto molto bello e appetitoso. Gran giornata eh ? !» « Tornatevene a casa, tu e i tuoi amici, non c’è più bisogno di voi ormai.» « Ma come ?» replicò Taddeo, « Non ci lasci aspettare ? Non mangiamo tutti insieme, dopo ?» « A casa, a casa, che qui c’è solo lavoro da donne, adesso... Malanòva mija41 ! Abbiamo dimenticato il cesto della frutta. Nì, corri, portalo su, svelta.» La ragazza, rapida, portò al piano di sopra il cestino di vimini colmo di arance, mele, noci e melograni, badando a non rovinare la bella composizione che Ismene aveva preparato. Voleva tornare di corsa per rivedere Taddeo prima che quella magàra lo mandasse via, ma si immobilizzò affannata, appena scorse i nobili


uscire dalla cappella in fondo al corridoio. Genoveffa la fulminò con lo sguardo ; lei non trovò di meglio da fare che inchinarsi con grazia al loro ingresso. Nessuno la degnò d’attenzione, tranne Cristina, che le sorrise come al solito, e fra Bernardino che guardò con disapprovazione il suo sinale42 sporco di farina e d’unto. Appena l’uscio fu sgombro e i commensali s’avviarono al grande tavolo, Nina guadagnò l’uscita e a testa bassa corse lungo il corridoio per tornare di sotto. S’avvide troppo tardi di quel gran signore vestito di nero, con la gorgiera immacolata ed i lunghi capelli neri e lucidi, legati sulla nuca a coda di cavallo, e finì con l’urtarlo. Questi perse l’equilibrio e solo perché era un giovane agile e vigoroso evitò di cadere lungo disteso. Nina era impaurita : farfugliò delle scuse e restò immobile, a capo chino. Don Basilio la guardò a lungo. « Madre de Dios, piccerè, tu sì na trupèa !43» disse poi, ridendo. Il gentiluomo entrò nel salone. Un valletto richiuse l’uscio. Nina era letteralmente paralizzata dalla paura. Poi, piano, si risolse a ridiscendere in cucina. Taddeo le si avvicinò. « Cos’hai ? sembri stravolta.» « Oh, Taddeo, pensa, a momenti mandavo a gambe all’aria uno dei cavalieri napoletani. Non l’ho visto. Correvo. L’ho urtato, mentre tornavo giù e lui... lui m’ha sgridato parlando strano : ha detto che sono una tempesta.» Il cervello del giovane fu attraversato da un pensiero terribile, di rabbiosa gelosia. Fu un attimo che seppe superare con dolore.


Si frenò, e le sussurrò : « Non è niente... Nina, quando parlerai a tuo padre di noi due ?» « Dammi un po’ di tempo. Tra qualche giorno credo. Stai tranquillo, ti voglio bene » . « Pure io ti voglio bene Nì, e non ti so dire quanto !» « Va’, adesso, sennò cominciano le chiacchiere » « Quando ci rivedremo ?» « Non lo so, ma non preoccuparti, io sono sempre con te, notte e giorno.» A Taddeo quelle parole fecero l’effetto di una pioggia di miele. Sentì il cuore aprirglisi come un fico maturo. “Io sono sempre con te ! Notte e giorno !” Chi mai gli aveva detto una frase così colma d’amore ? Avrebbe voluto dirle la stesa cosa, ma non se ne sentì capace. Salutò e corse via, felice come un bambino. Quasi volava lungo le scalinate che conducevano alla piazza. Nina ne spiò l’andatura fino a quando lo vide scomparire oltre l’ultima arcata.Capitolo terzo


Beppe e Porzia Beza entrarono nella casa del Camerlengo44 di Vaccarizzo alle nove del mattino, accolti dalla moglie di lui, Norina. Mastro Luigi sarebbe tornato di li a poco. Norina servì ai due ospiti del latte e li fece sedere. Li informò che più tardi vi sarebbe stato un incontro con due Barba venuti dal Piemonte, nella stalla. Porzia era stanca e preoccupata e parlò a lungo con Norina dei suoi sospetti avendo la conferma da alcuni accenni della camerlenga che fatti gravi stavano maturando. « Tre giorni fa sono giunti due Barba. Sono giovani e pieni di entusiasmo e predicano in un modo vertiginoso. Ci hanno detto che le nostre idee di fede e povertà, di diritto di praticare il Vangelo senza fronzoli, stanno trionfando in Germania e in altri paesi del nord. Tutto questo, però ha rinfocolato l’azione dell’inquisizione che in Piemonte sta mietendo molte vittime. Credo che convenga aspettare la riunione per saperne di più. Ormai non manca molto. Stiamo aspettando anche amici da Guardia che non tarderanno ad arrivare. Ah, Porzia, questa è per te.» disse, consegnando all’amica un foglio di carta sigillato sui lembi : una lettera. « L’ha portata Jacopo Bonelli, da parte dei tuoi parenti di Bobbio» Beppe fece un cenno d’incoraggiamento alla moglie poi guardò fuori per vedere l’arrivo della gente. Sul volto della moglie leggeva l’angoscia. Esitava ad aprire la lettera. Porzia s’accostò al marito e ruppe i sigilli. Cominciò a leggere ad alta voce :


Carissimi e onorati zii, il Signore vi riempia di benefici e renda liete le vostre anime, malgrado le notizie che sto per darvi. La Mammagrande è tornata presso il Padre. Non rattristatevi : ella è morta bene, con la preghiera sul labbro fino all’ultimo e con una serenità così lucida che, sapendo prossima la sua ora, e vedendo noi affranti presso il suo letto, ci ha consolati con parole di speranza. Molte volte mi ha raccomandato di scrivervi di non rattristarvi, che la grazia del nostro Signore Gesù Cristo dimorava stabilmente nel suo cuore.... Porzia dovette sedersi. E pur cercando di vincersi, finì in lacrime. Beppe l’abbracciò e, con dolcezza le tolse la lettera di mano. Proseguì lui la lettura : La nonna, morendo, non ha visto ciò che sta accadendo nelle nostre valli. La persecuzione è ricominciata, a dispetto della passata tolleranza del Signor Emanuele Filiberto : oggi la nostra fede è condivisa in molti Paesi d’Europa e ciò non è tollerato dal Grande Inquisitore né dal Sovrano di Spagna. Il nostro signor Emanuele pare non sappia cosa decidere, per cui alterna momenti di magnanimità e tolleranza a periodi di netta chiusura. Così i nostri più illustri amici sono costretti a rifugiarsi a Ginevra o a morire in piazza del Castello a Torino. Ma il latore di questo scritto, Jacopo Bonelli, non mancherà di darvi più precisi particolari ed infondervi, così com’ha fatto con noi, nuovo coraggio ed entusiasmo. Il Signore ci dà ancora una volta la possibilità di dimostrare la purezza della nostra fede,


anche, e soprattutto, attraverso la sofferenza ed il martirio, che ogni valdese, come il nostro Barba Giaffredo Varaglia, considera un privilegio. Gratia e Pace dal nostro padre Dio, per il suo figliolo Giesù Christo, con la communicattione dello Spirito Santo, vi sia moltiplicata. Josephine Bobbio, 29 septembre 1558. *** Beppe vide molta gente dirigersi verso la stalla. Fra di loro il Camerlengo e tre uomini dagli abiti scuri. Li raggiunsero. « Amici, Siano benedetti il nostro padre Dio, il suo figliolo Gesù Cristo e lo Spirito Santo » esordì il più anziano dei tre. Gli astanti risposero “Lo siano in eterno ». « Il mio nome è Jacopo Bonelli ; questi è Marco Uscegli, che molti di voi conoscono già, e questi il nostro giovine aiutante Benedetto Morel. Noi veniamo qui per la prima volta, per raccontare ai nostri fratelli della diaspora, quanto grande è la fede che tutti ci accomuna nel nome dell’Evangelo e del nostro padre Valdo da Lione. Per confortare la nostra tristezza di perseguitati, con la Parola che l’aveva preannunciata tra le beatitudini. Per esaltare la nostra povertà, che oggi sta diventando la ricchezza del mondo. L’avanzata delle nostre idee in Europa è dovuta all’azione di un grande uomo : Giovanni Calvino. Egli vive a Ginevra, città che è divenuta ormai asilo sicuro


per quanti di noi siano costretti a sfuggire dagli inquisitori del Cardinale Alessandrino. Alla sua scuola ci siamo formati tutti. Il nostro itinerare in Italia ha rafforzato la fede nei nostri fratelli in Cristo che, senza sgomento, sono usciti allo scoperto, con fierezza, evidenziando, piuttosto che nascondere, i tratti che ci differenziano dai cattolici clericali. Abbiamo edificato i nostri templi in vari paesi del Piemonte. Celebriamo la santa Cena comunitariamente, anzicchè la messa latina ! Tutto questo, capite ?, non può essere sopportato da Roma. Definiscono le nostre chiese, con dispregio : “Ciabas”. E’ vero, noi non abbiamo ne vogliamo campanili, altari, ceri, pulpiti : ci basta come qui, un tetto di paglia e dello spazio per stare insieme, per ascoltare la Parola, per discuterla tra noi, per rinfrancarci delle pene d’ogni giorno con la certezza del paradiso. Una fede sempre più condivisa dagli uomini dal cuore puro. Tra breve, il nostro fratello Uscegli vi parlerà di un nostro grande martire, la cui vita era iniziata perseguitandoci : era figlio d’un Nobile che aveva partecipato nel 488 alle spedizioni contro di noi. Diventò francescano. Si distinse per capacità serietà e impegno. Fu destinato alla polemica anti-riformista e si applicò con rigore allo studio della nostra dottrina per meglio sconfiggerla. Bene, quest’uomo intelligente ed integerrimo, capì il fondamento biblico della nostra fede e rinunciò a combatterla, anzi, ne venne conquistato ! Piantò in asso il Nunzio, che stava accompagnando a Parigi, e si rifugiò a Ginevra.


Ti prego amico mio, narra tu il resto della sua storia.» Uscegli s’alzò e proseguì la storia con fervore. Teneva sotto il braccio una cartelletta rigida e dei fogli di carta. « Giaffredo, a Ginevra, studiò teologia con grande impegno e fu rimandato in Italia come predicatore destinato al Piemonte. Diventò coordinatore dell’opera missionaria della pianura piemontese. Egli non si nascose mai e mai dissimulò le sue certezze. Dopo aver partecipato ad un pubblico dibattito, a Dronero, per sostenere le nostre tesi, fu individuato dalla polizia ed arrestato. Restò in carcere a Torino per molti mesi. Poi fu processato e condannato a morte. Una storia come tante delle nostre, purtroppo. Ma, quel grande, ebbe l’ispirazione di fare la sua più bella predica dal patibolo, dove sarebbe stato strangolato ed arso, alla grandissima folla che s’era radunata, che rimase attonita e silenziosa fino alla fine del suo supplizio. Era lo scorso ventinove di marzo. Ho qui il resoconto di quella giornata, datomi da un confratello in Cristo, presente al martirio. Non con le mie, dunque, ma con le parole di chi era in piazza del Castello a Torino, quella mattina che vi racconterò i fatti.» Mentre estraeva i manoscritti dalla cartella, un mormorio di commenti si diffuse nella stalla. Poi tutti si disposero in silenzio per ascoltare la lettura :


”E’ piaciuto a Dio nostro Padre chiamare a se il nostro buon fratello e Ministro Giaffredo Varaglia, per la croce del martirio. Quando vennero ad annunciargli la prossima morte, rispose che non la temeva, e disse ciò con una costanza mirabile senza affatto turbarsi. Mentre veniva condotto al luogo del supplizio, un prete gli si accostò per esortarlo a convertirsi. Egli rispose ridendo : “Convertitevi voi ch’io sono per grazia di Dio già convertito” . Durante il tragitto che lo separava dalla catasta pronta nella piazza del castello, tra due ali di folla vociante, recitò ad alta voce il Salmo “In Te Domine esperavi”, con tanta serenità e solennità, che la folla ammutolì all’istante. Giunto ai piedi del patibolo e vedendomi tra la gente disse ad alta voce, senza tradire la mia presenza, “Non mancate di salutare in nome mio tutte le chiese che visiterete . Voi restate ed io vado alla gloria del mio Padre.” Il boia gli legò una corda al collo. L’ordine pietoso esigeva il suo strangolamento prima che fosse bruciato. Giaffredo sorrise all’energumeno e lo pregò di lasciarlo dire le ultime parole. Salì sul legnaio e rivolgendosi alla folla così disse : “Fratelli carissimi, primieramente io perdono a tutti quelli che sono cagione della mia morte, molto volentieri, percioché in vero non sanno quello che si fanno, e priego Dio che gli voglia illuminare. In quanto poi alla causa, per la quale io sono posto a morte, è per tenere e fare una medesima confessione di fede, che ha tenuto e fatto Santo Pietro e Santo Paolo e tutti gli altri Santi Apostoli e Martiri per la diffensione dell’Evangelo del nostro


Signore Giesù Christo, che vuol dire buona nuova, per la quale ci è annunciata la remissione delli peccata per esso Signor Giesù, il quale Iddio ha costituito solo Avvocato, Mediatore et Intercessore tra Lui e noi poveri peccatori. Quando servivo al Diavolo, io moriva ogni giorno per gli miei peccata enormi, bestemmiando il suo Santo Nome ; se fuossi io morto a quel tempo sarei morto dannato. Ma ora io muoio per vivere eternamente con Lui ; non già che io pensi che questa morte sia la cagione della mia salute, consistendo nel solo sangue di Giesù Christo. E se qui si trova alcuno ch’abbia cognitione dell’Evangelo e tutti gli altri ancora, vi esorto a ricercare la Sacra Scrittura e governarvi secondo quella, che sola contiene la regola del ben vivere ; lasciando li peccata come sono idolatria e fornicatione, detrattioni, furti et altre simili enormità. La quale regola ho sempre seguitata da poi che Iddio m’ha illuminato et al presente la ratifico con la mia morte, aspettando il guiderdone da colui che mi ha fatto tanta gratia et onore che dopo essere stato Araldo della Sua Parola, mi ha ora fatto un tanto Cavaliero dei suoi Martiri. E sappiate ch’io credo alla Parola e non ricevo alcuna inventione humana, ma mi appoggio alla sola parola di Dio. Alle quali humane inventioni vi priego di non voler credere, percioché sono molto dannose.” Dopo aver detto queste cose ed altre, nello spazio di un quarto d’ora, chiese alla moltitudine di pregare Dio insieme con lui. S’inginocchiò e pregò, poi in volgare italiano, ad alta voce, recitò gli articoli della nostra


fede. Nessuna paura traspariva dal suo atteggiamento. Il popolo si meravigliò di tanto coraggio. E, mentre Giaffredo recitava gli articoli di fede, su molti volti si distinse l’incredulità : “ma come ?” dicevano, “costui non era un miscredente ?. Poi, rivolgendosi al boia lo pregò di fare il suo ufficio a suo piacere. E il manigoldo, prima di strangolarlo gli domandò perdono. Fu prima strangolato e poi bruciato. In questa maniera è passato a miglior vita Giaffredo Varaglia, nostro fratello in Cristo e Ministro, martire del Signore il 29 di marzo, in Turino del 58. Preghiamo.» Un lungo silenzio sottolineò la commozione suscitata dalla lettura. Bonelli e Morel, raccontarono di storie simili che si ripetevano in Italia e oltralpe. Presto, erano convinti, vi sarebbe stata una recrudescenza contro i fratelli valdesi della Calabria. Stavano maturando tempi difficilissimi per tutti. L’unico consiglio che diede loro Bonelli, fu politico. « Non vi toccheranno perché li servite bene. Continuate ad essere remissivi, lavoratori, e a pagare puntualmente le reddite che dovete al vostro signore, sia esso il feudatario o l’Università che vi ospita sulle sue terre. Io credo che la mansuetudine sia da opporre alle angherie, anche se vi esorto a non abjurare, a non


rinunciare alla nostra certezza dell’unica verità della Parola, mai per nessun motivo ! Quel che vi dico è : non perdete la fiducia e siate certi del premio che Gesù ha promesso a chi soffre per il suo Santo Nome e applica il suo Evangelo. Presto conquisteremo la dignità di poterci riunire e praticare il nostro culto, anche fra questi monti, così com’è avvenuto al nord. Mi rivolgo a quanti, tra voi, diventati ricchi, ritengono quasi superflua ogni distinzione. Giorno verrà tra breve, in cui tutti noi saremo chiamati a rendere testimonianza, anche con la vita, se sarà necessario. Voi eravate valdesi e se la vostra coscienza non è completamente imbavagliata dall’oro e dal benessere, restate valdesi.» Negrin, il pastore di Guardia osservò Bonelli con tristezza : «Parli a vuoto, fratello mio... Quelli tra noi che sono diventati ricchi, non sono qui. Hanno abjurato da molto tempo oppure, semplicemente fingono di ignorare la loro origine. A Montalto, per esempio, cinque famiglie di valdesi su dieci si sono ormai integrate e sono diventate cattoliche. A Guardia le cose vanno un po’ meglio, ma i ricchi temono la repressione e la perdita dei beni, quindi odiano a morte le idee che provengono da Ginevra... A Vaccarizzo e a Sansisto nessuno ha mai sentito parlare di Calvino e di Lutero, ma l’antica fede viene professata con tranquillità. Qui nessuno di noi ha accumulato ricchezze...» Si discusse a lungo. Poi Uscegli disse che Morel e Bonelli avrebbero proseguito per la Sicilia a predicare apertamente il Vangelo. Lui sarebbe rimasto. Disse che all’indomani sarebbe andato a Guardia con gli amici.


A Primavera sarebbe arrivato in Calabria un altro Pastore, ormai divenuto famoso per la sua attività di libraio. Bonelli informò Negrin e pochi altri di questo. Avrebbero dovuto tenere nella massima considerazione il nuovo venuto, giacchè egli era uno degli allievi prediletti di Calvino e benchè fosse giovane, una fama di santità lo precedeva ovunque andasse : il suo nome era Jean Louis Paschale. Sarebbe stato tra loro a metà marzo. *** Durante il pranzo, Don Carlos de San Jago non levò gli occhi un istante da donna Eleonora. Quella donna era una meraviglia di grazia. Poche volte aveva avuto l’occasione di ammirare lineamenti così delicati, capelli così biondi e crespi ad un tempo, un corpo così armonioso e desiderabile. La figlia, al confronto era poca cosa. Invidiò di cuore l’anziano Castagneto, giurando a sé stesso che quella magnifica creatura sarebbe stata sua, a costo di precipitare all’inferno subito dopo. Il Governatore, alla fine del pranzo invitò gli ospiti nel salone attiguo. Don Alvarez fece un cenno a Basilio che gli porse un plico tenuto assieme con la ceralacca su cui spiccava il sigillo reale, e la porse all’ospite. Conteneva le istruzioni del Viceré. Don Castagneto lesse il foglio e lo riavvolse con aria triste. « Mio Dio !» Esclamò alla fine. « Speravo mi fosse risparmiata una cosa simile alla mia età.... Si trattasse di combattere i mori o i francesi, non mi tirerei indietro. Si trattasse di andare nel Nuovo Mondo a contendere le ricche terre, sarei pronto, anche a combattere contro


i selvaggi rivestiti d’oro che ci avete descritto non esiterei. Ma... gli ultramontani ? Io non conosco gente più mansueta e timorosa di Dio. Eretici pericolosi ? Ma quando mai ? E’ gente pacifica, povera, che prega dalla mattina alla sera e oltretutto sa farsi gli affari suoi. Dite, don Salvatore, hanno mai sgarrato nei pagamenti ? Hanno mai contestato l’imposta ? E voi, Don Bernardino, da nobile ed uomo di Chiesa, cosa pensate ?» Il marchese Spinelli esitò. Non voleva scoprire le proprie carte davanti all’inviato del Viceré. Fra Bernardino, invece, addirittura si alzò in piedi, nascose le mani nelle ampie maniche del saio e, alla solita maniera, seppe catturare l’attenzione dei presenti. « Per grazia di Dio, Sua Maestà il cattolicissimo Re di Spagna, nostro signore, ha vinto la guerra e giudica suo dovere liberare la Santa Chiesa di Cristo dai focolai d’eresia ovunque essi si annidino. Io trovo giusto che liberi il suo regno e le sue terre da giudei e mori, da senzacristo e soprattutto dai valdesi. Sì, dai valdesi, che dietro la loro apparente mansuetudine celano una protervia insopportabile. Dai Valdesi, che il loro nuovo capo Giovanni Calvino ha reso simili ai luterani. Non sono loro, credetemi i depositari della santa verità. Lo sa bene fra’ Michele Ghislieri, il Grande Inquisitore, anche se il suo sforzo per ricondurre all’ovile quelle che definisce le pecorelle smarrite è ben lontano dall’aver raggiunto lo scopo. Qui, nelle terre di Montalto da troppo tempo tolleriamo la presenza di piemontesi che non riconoscono la divinità della Vergine Maria, che minano dalle fondamenta l’autorità del Clero e trascinano alla


perdizione i nostri giovani, sempre più inclini a mettere in discussione l’ordine costituito....» « Non esagerate !» lo interruppe don Castagneto. « Sapete bene che la gente che viene d’oltre i monti, non ha mai fatto politica né sovvertito alcun ordine costituito. In quanto ai nostri giovani, beh... non mi risulta che frequentino valdesi, ne giudei ne mori... Io riterrei più saggio che di questa faccenda si occupasse la Chiesa.» « Mi meraviglio di Voi, Governatore !» interloquì don Carlos. « Vi rendete conto ? State mettendo in dubbio l’esecuzione di un ordine del Viceré ! » « Sangre y muerte ! Yo... Io non stavo mettendo in discussione ne stavo criticando l’ordine. Ho pregato ad alta voce, ecco tutto. Vorrei mi fosse risparmiata questa prova che nulla ha a che vedere con la gloria della Spagna !» « Vi sarà risparmiata se, come dite, questi vostri valdesi sono come li avete descritti. Presto verrà formato un Ufficio di Conversione, composto dal Vicario di Cosenza, da un Commissario Governativo e dall’Inquisitore.» Don Alvarez disse a don Castagneto che, se avesse ben letto anche il secondo foglio, si sarebbe evitato quella brutta angoscia. « Finalmente !» Esplose fra’ Bernardino, « sapevo che non sarebbe bastata l’insurrezione dei cosentini a fermare la Santa Inquisizione !» A quelle parole il Marchese Salvatore Spinelli rabbrividì. Immaginò perdute le cospicue rendite che gli procuravano gli ultramontani e perciò, con una


sagacia che il Governatore non poté far a meno di ammirare propose : « La nostra gente non sa di eresie, ne di conversioni. Il pericolo non è rappresentato ne dai contadini ne dai tessitori. Semmai sono i loro predicatori, che, del resto non abitano qui, ma vengono di tanto in tanto, la vera fonte di rischio. Sono loro che portano le idee di Lutero e di Calvino. Perciò, dico io, aspettiamoli al varco e mozziamogli quelle teste ripiene d’errori e lo scopo sarà raggiunto.» Alvarez sorrise : « Se è come dite, fatelo e renderete più facile il compito a fra’ Valerio da Piacenza45.» Quel nome ottenne l’effetto d’un terremoto. Spinelli e Castagneto sbiancarono, mentre fra’ Bernardino gongolava di soddisfazione. Il governatore ripose l’ordine reale in un cassetto del suo tavolo. Ad un suo cenno i valletti servirono del vino. Uno di essi, essendosi raffreddata di molto l’aria, provvide ad accendere la legna ben accomodata in precedenza nel grande camino. Fra’ Bernardino ed il Marchese Spinelli si congedarono lasciando soli i due nobiluomini. Don Felipe continuava a centellinare il vino. « Ora, mio caro Governatore, veniamo al vero scopo della mia visita : sono venuto qui soprattutto per farvi una richiesta personale. Io ho il grande onore, amico mio, di chiedere la mano di Vostra figlia, l’incantevole Baronessina Cristina.» Castagneto si strozzò col vino. Tossì a lungo. Esitò qualche attimo, poi quasi parlando da solo, mormorò : « E lei lo sa ?» poi, riprendendosi, proseguì ad alta voce : « Principe Alvarez, la Vostra richiesta mi onora oltre misura. Però era totalmente inaspettata. Di solito,


cose del genere si preannunciano con grande anticipo, rispetto alla richiesta ufficiale.... Permettetemi... di non rispondervi subito.» « La damigella ha, forse, altri pretendenti ?» « No, no... è quasi una bambina, non abbiamo mai discusso, ancora, del suo matrimonio. Siate paziente, don Carlos. Domani, domani ne riparleremo. Ma dite, perché non sfruttate questo bel pomeriggio per uscire e visitare il paese ?» *** Nina era affascinata dal nitore della neve accumulatasi sul davanzale e non completamente disciolta malgrado il pomeriggio soleggiato. Indugiava a guardare i cristalli liquefarsi lentamente di là dai vetri sotto il cocciuto e freddo sole di gennaio. Il suo pensiero vagava inquieto. Era turbata. Chissà perché quell’agitazione senza motivo ? Sentiva il cuore palpitarle nel petto in modo disordinato. Ne sentiva il poderoso battito nella gola. Una paura sconosciuta stava impadronendosi della ragazza. Taddeo ne era forse la causa. Forse. S’incupì a riflettere. Era qualcosa nelle viscere che l’angustiava. Un calore continuo, una voglia disperata. Un verme le vagava nel cervello eccitandole i sensi. Si struggeva pur sapendo che Taddeo l’amava. Qualcosa non andava per il verso giusto e ciò le procurava questa sconosciuta angoscia. Era stata precipitosa nel dire di sì ? Ancora quel presentimento : “attenta !” echeggiò nel suo cranio.


Non era questo, non era la paura della fama cattiva e del carattere violento del giovane, non era l’indecisione... Capì, infine. Fu sincera con se stessa e la paura divenne sconcerto. Così come l’eccitazione diventò vergogna. Pregò mentalmente Sant’Agnese affinché le evitasse quella sofferenza, ma fu inutile. Giganteggiavano nella sua mente due occhi neri, terribili, obliqui, profondi. Capelli corvini legati sulla nuca. Naso aquilino e bocca cattiva. Gorgiera bianca, farfalla diabolica sul prato nero d’un vestito aderente. Mano ferma sull’elsa della spada : Don Basilio. Pronunciò mentalmente quel nome e un incendio le scoppiò nel ventre, fino a farla star male. Desiderio bruto d’esser costretta da quelle braccia ad aderire a un corpo teso ed inflessibile. Rivide lo scherno e l’ironia di quel volto e catturò il desiderio maschio di quegli occhi non celato dalla cortesia. Bestiale, tangibile, vivo. “Tu sì na trupèa !”. Era dunque questo il modo dei cavalieri ? Tempesta, sì, si disse, lo sarebbe diventata davvero tra quelle braccia. Il vetro riflettè l’ectoplasma della sua immagine : gli occhi erano dilatati ed il respiro frequente. Gocce di sudore freddo le imperlavano la fronte. Passò una mano sui seni, ancora acerbi, e sorrise. Un attimo dopo inorridì di vergogna e corse di sotto. Non avrebbe mai più pensato in modo così peccaminoso. Don Basilio : un desiderio da dimenticare alla svelta. Sua madre s’accorse del turbamento e ne chiese la ragione. La ragazza non le rispose e restò in silenzio per dieci minuti buoni, durante i quali, con angoscia crescente, si domandò perché Taddeo non le facesse


un effetto simile. Lo amava, ne era certa, ma l’attrazione fisica che sentiva per lui sembrava tiepida adesso, nemmeno lontanamente paragonabile a ciò che l’aveva condotta al momento di follia solitaria nella sua stanza. « Mamma... mi hanno chiesta in sposa » Lucia sedette. « Chi ?» « Taddeo Polimena, il figlio del “chianchijere”46.» La madre soffocò un urlo di disappunto. Scosse la testa. Nina aveva previsto una reazione del genere. « E tu ? Ti sei mica impegnata ?» « Sì, lui aspetta che gli dica quando i suoi potranno venire a chiedermi ufficialmente.» Lucia tremò. Pensò alla reazione del marito e dei figli. Sarebbe finita la pace. Guardò Nina e non poté far a meno di constatare la mancanza di felicità dal suo volto. La consolò con parole dolci. Tutto si sarebbe aggiustato, il padre, i fratelli non avrebbero opposto divieti. Certo, sulle prime... sicuramente... sarebbero rimasti sconcertati. Forse avrebbero fatto una scenata, lei stessa, del resto, prima, quasi piangeva alla notizia. Ma tutti loro sapevano della grande saggezza di Nina, e quindi avrebbero rispettato la sua scelta. « Figlia mia, sei sicura di volergli bene ?» Nina aveva dimenticato, per un attimo, la sensazione di tenerezza che le ispirava Taddeo. Lo amava, sì lo amava tanto da voler diventare sua moglie, perché era certa dell’amore ch’egli provava per lei, malgrado quel perenne atteggiamento da spaccamontagne. Vicino a lei cambiava. La sua proverbiale violenza si tramutava in dolcezza, la sua superbia era tenuta a


bada naturalmente e diventava timidezza, cortesia, attenzione, devozione e passione. Taddeo era diverso dall’uomo che mostrava di essere. Aveva letto tutto questo nella sua anima attraverso quegli occhi perennemente inquieti. « Sì, mamma, sono sicura. E sono certa che mi ama. E poi, cosa ti ho sempre detto ? Io non avrei mai accettato nessuno che non avessi scelto, a ragion veduta. La ragione è che gli voglio tanto bene e lui ne vuole a me forse più di quanto io gliene voglia.» « E’ una scelta dalla quale dipenderà la tua vita. Riflettici.» Nina aveva le lacrime agli occhi. « Mamma, lo amo e mi ama e ciò è sufficiente. Lo so che ha una brutta nomea, ma mi ama. Capisci ? ... ed io saprò cambiarlo. Con me sarà felice, lavoreremo insieme, patiremo e gioiremo insieme. Non avrà il tempo per le altre o per il vino. Non lo cercherà quel tempo...» « Ninetta, vorrei poterti dire che hai ragione, ma sono tua madre... Chi nasci tunnu nun mora quatru ! Arricordati47. Pensa che vita sarebbe la tua se lui non cambiasse come tu speri... E poi, come fai ad essere sicura che lui voglia essere cambiato e che se anche tu ci riuscissi, non t’odierà in futuro per questo ?» « Oh mamma, basta ti prego. Stai facendomi tornare dubbi che avevo superato.» Tacquero, mentre la madre prese le castagne secche dallo stipo e le mise a bollire per la cena. Nina, come d’abitudine, le si avvicinò per aiutarla. Lucia sapeva che la figlia aveva fatto una buona scelta, ma temeva le chiacchiere del vicinato, dei


parenti e le ire del marito. Conosceva Taddeo da quando era un moccioso. Le era sempre stato simpatico per i suoi modi schietti. Poi arrivarono le chiacchiere in casa. I suoi figli lo vedevano come una specie di vendicatore degli umiliati ed un risanatore di torti. Però esageravano. Un pugno in faccia ad un soldato, un po’ di sangue e qualche dente sputato erano ben altra cosa rispetto ad un volto tagliato ! Le conseguenze per lui sarebbero state ben altre. Era, sì, uno sparviero con le donne. Non lasciava in pace nemmeno le maritate... Gli piaceva il vino, ma a chi non piaceva ?... Ma se Nina lo amava... Eh sì, di ragazze belle come Nina ce n’erano poche, assennate e... Chiaro che Taddeo si è innamorato. Del resto quanti altri giovani del paese e di fuori avrebbero voluto... Speriamo che la Madonna della Serra le dia consiglio. La ragazza ritemprava le sue certezze, ricordando gli occhi di fuoco di Taddeo. Erano bellissimi e limpidi. Vi si poteva leggere ogni sua emozione. Pensò ai baffi, folti e spioventi e alla mascella volitiva. La colse la voglia di andare a cercarlo che dominò a stento. Non avrebbe dovuto fare molta strada, poiché ne era certa, Taddeo era nelle vicinanze, lo sentiva. Per un attimo ripensò alle strane sensazioni provate prima pensando al nobile napoletano ed arrossì violentemente. Se solo Taddeo avesse immaginato i suoi pensieri l’avrebbe uccisa senza misericordia e con ragione. Cancellò dalla mente l’angoscia e si affacciò sull’uscio col secchio dell’acqua. Come aveva previsto, Taddeo era dall’altro lato della strada che discuteva, assieme al padre, con una specie di zingaro malvestito, ch’ella non aveva mai visto prima. Stavano ritornando forse


dalla masseria dei Carmelitani. Lei incrociò il suo sguardo. Si scambiarono un sorriso ed un cenno d’intesa. Il ragazzo troncò la discussione con quello strano personaggio, sputandosi su una mano e battendola su quella del suo interlocutore come a sancire l’accordo di un affare la cui trattativa era terminata. “Hanno comprato una bestia” pensò Nina. Mentre Nina attingeva l’acqua vide il gruppo separarsi in direzioni opposte. Più volte Taddeo si girò a guardarla, mentre continuava a discutere col padre. Giunto alla curva, prima di sparire dalla sua vista, rispose al suo ultimo saluto agitando la mano libera. Portò il secchio in casa. « Sì mamma, ne sono sicura. Stasera parleremo con gli altri. Aiutami, non darmi contro, te ne prego » « Non dirò una parola. Saranno gli uomini a decidere. » « Grazie, mamma », disse abbracciandola. Lucia sorrise alla figlia mentre, in cuor suo, continuava ad invocare la Santa Vergine affinché proteggesse la sua creatura. Alla spicciolata, un po’ più tardi, rientrarono il marito, Bernardo, Francesco e, per ultimo, Ruggero. Cenarono con le castagne in brodo, una fetta di lardo e qualche crucetta48. Nina sparecchiò velocemente e pose il grande lume al centro del tavolo. Il padre stava raccontando di un bell’ordine avuto al mattino da un fattore di Pianette. Ben due carri nuovi e due da riparare. Il lavoro non mancava grazie a Dio. La moglie gli si fece vicino e quasi sussurrando, gli disse :


« Nina deve parlarti » Ignazio Spatafora, gioviale come al solito, assunse un’aria comica : « E che ? Ora ci vuole la messaggera per parlare con me ? Ni’ è successo qualcosa di grave ?» concluse, preoccupato. La figlia non rispose e restò in piedi davanti a lui. A questa scena i fratelli più grandi, pronti ad uscire, rimisero i manti ed i cappelli sulle sedie e tornarono al tavolo. « Niente di grave, Ignazio... ti deve solo parlare » « Donna ! per favore. Lascia che sia lei a... ma che cosa è successo ?» esclamò con veemenza accorgendosi che sua figlia singhiozzava. Nina non trovava il coraggio di aprir bocca. Temeva una reazione diversa da quella che sperava. Guardò Bernardo che la esortò con lo sguardo a sciogliere il silenzio. Il padre s’alzò a sua volta e avvicinandosi a lei proruppe : « Se qualcuno ti ha fatto qualcosa giuraddio che lo scanno !» Nina cercò di calmarsi e afferrò le braccia che il padre aveva sollevato al cielo (come Taddeo - non poté far a meno di pensare -) e trasformò quell’atto in un abbraccio. Poi gli disse d’un fiato : « No, papà non è niente. E’ che sono emozionata e mi vergogno. Io devo solo dirti che... Taddeo Polimena mi ha chiesto di sposarlo e vuole venire con i suoi a parlarvi. Ecco... l’ho detto.» Ignazio restò interdetto per un momento. Guardò i figli e la moglie. Poi fissò Nina negli occhi : « Taddeo Polimena ?» « Sì » « Il figlio del macellaio ?»


« Sì » « Quello scavezzacollo ?» « Sì... cioè no ! Non è uno scavezzacollo ! » « Sentitela come lo difende ! Certo che non è uno stinco di santo, a quanto mi risulta !» « Lavora sodo ! E’ cambiato... cambierà, mi vuole bene.» « Sì, sì, lavora, per quello... lavora. Ma che gli resta in tasca ? Ma tu lo sai che compagnie frequenta ? Diglielo tu Bernardo... » Il giovane arrossì a sua volta : « Se è per quello ogni tanto sta pure in nostra compagnia » , disse accennando a Ruggero. « Lo so, ma voi dalla greca non ci andate, non tornate a casa ubriachi, non tagliate la faccia ai soldati... » Francesco, ridendo verso la sorella disse sovrastando la voce del padre : « Gli ha dato solo un pugno a quel baro... l’avrei fatto anch’io » « Fra’ Bernardino dice che gli ha squarciato il viso col coltello che ha sempre alla cintola » « E che ? c’era, lui ? Papà, credimi io c’ero.» Ignazio avrebbe voluto dare una bella strigliata a quell’impudente del figlio che confessava d’essere stato dalla greca la stessa sera della rissa, ma non era il momento. Tacque per qualche istante, poi s’informò : « Quando te l’ha chiesto ? » « Ieri al castello » « Come ? ! davanti a tutti ? !» « No, no papà, non davanti a tutti, eravamo soli. Solo Porzia forse se n’è accorta. E’ stato molto discreto e gentile, anche se, orgoglioso com’è, ha detto che non me lo chiederà una seconda volta. » « Non gli piace perdere. E tu, subito, gli hai detto sì ? »


« Ignazio !», interloquì la moglie, « in quanto ad orgoglio tua figlia non è seconda a nessuno. Figurati se gli ha detto sì, subito.» « No, papà non subito. Stamattina. » « S’unn’è zuppa è pani ‘mbusu49 !» « Era molto tempo che avevo capito e non si decideva mai. Del resto, io ho riflettuto a lungo prima di essere certa di amarlo. Ieri l’ho rifiutato. Stamattina è stato diverso, stamattina... Oh mamma, non so spiegarmi. Stamattina è stato meraviglioso, era gentile e pieno di attenzioni, col cuore in mano. Non potevo dirgli ancora di no, non volevo dirgli di no. Perdonatemi, avrei dovuto parlarvene prima, ma con la festa che mi avete fatto io... io non ne ho avuto il coraggio. C’erano la zia Cecilia, le cugine... Papà, cosa devo rispondergli ?», tagliò corto. L’uomo sospirò, si versò del vino e lo bevve, poi uscì con i ragazzi, poco coperto e senza cappello. Rientrarono dopo un interminabile quarto d’ora, durante il quale Nina non pensò a nulla ne parlò. Era stata come assente, immersa in una specie di bonaccia colma d’echi. « Che vengano, ne discuteremo...» Le esplose una gioia incontenibile nel cuore. ***

Pietro Polimena aveva colto nel segno la sera prima. Dunque, suo figlio s’era innamorato finalmente. E per giunta di una bella e bravissima ragazza. Dio sia ringraziato, pensò. Quel suo unico figlio era stato una


costante preoccupazione per lui, così mansueto e calmo. Era un’iradiddio, una mezza disgrazia ; la sua irrequietezza, quel perenne senso d’insoddisfazione, il suo atteggiamento da attaccabrighe, la superbia e la mancanza di rispetto per tutti erano in contrasto nettissimo con l’educazione che lui e la moglie avevano cercato di dargli. Non che fosse imbecille, mai detto questo, ma non si rendeva conto di precipitare lentamente nel baratro della chiacchiera. E da qui al carcere il passo, a Montalto, non era molto lungo. Non c’era quartiere ove non si parlasse di lui. Non c’era marito o padre che vedendolo presso la propria casa non angustiasse con scenate di gelosia la moglie e le figlie. Non c’era giovane che non ambisse a cambiargli i connotati per sostituirlo nell’interesse generale. Fin ora gli era andata bene, anche se qualche sua ubriacatura l’aveva messo in serio pericolo. Ma era forte. Fermava un toro con le mani, perciò ubriaco o no, doveva ancora nascere chi sarebbe riuscito a mettergli le mani addosso. Ora il Padreterno sembrava gli avesse posto un bel freno. Nina Spatafora. Ah, pensò l’uomo, quegli occhi saranno altro che un freno. Un ceppo a cui restar legato, se Dio vuole. Mentre giungevano alla piazza del mercato, Pietro articolò una risposta per il figlio : « E’ un’ottima famiglia e, a quanto ne so, Nina è una perla di figliola. Inoltre è molto carina, il che non guasta. Sono contento delle tue intenzioni e presenterò la tua richiesta a suo padre. Bada, però, Taddeo, che così facendo io impegnerò il mio onore e abbi sempre presente che Pietro Polimena non ha mai perso la faccia per nessuno, e non è intenzionato a perderla nemmeno per suo figlio.»


Il giovane divenne molto serio. Era cosciente del fatto che è difficile cambiare, dentro. Ma era forte. Aveva il carattere temprato e si riconosceva capace di dominare tutti i suoi impulsi meno nobili. Questa sua determinazione era accentuata dalla certezza dell’amore di Nina. « Nessuno perderà la faccia, pa’. Anch’io ho la mia dignità anche se in paese la gente pensa diversamente. » Sulla soglia di casa li accolse Carmela, beandosi dell’aria distesa che promanava dal volto dei suoi uomini.


Capitolo quarto Il Principe di San Jago, per quanto si sforzasse di osservare donna Cristina, era irrimediabilmente attratto dalla madre di lei. Durante la cena, alla luce di decine di candelabri accesi, il corpo di quella magnifica donna lo fece smaniare. La sua eccitazione era ben dissimulata ma non sfuggì a donn’Eleonora, la quale, però, non perse neanche per un momento il suo atteggiamento severo e la nobile indifferenza verso le discussioni tra il principe e il marito. Le occhiate del principe, così insistenti, la infastidivano e, al tempo stesso, le provocavano una sottile eccitazione che non osava confessare a sé stessa. Il disagio, per la donna, stava per diventare evidente. Le accadeva qualcosa di diverso rispetto a quando il capitano Caracciolo la scortava nelle sue rare passeggiate. L’uomo d’arme non aveva mai osato far il benché minimo cenno al suo stato d’animo. Ma Eleonora sapeva con certezza ch’era pazzo di lei. A trentasei anni si sentiva ormai vecchia. Il suo corpo era ben conservato ed il suo volto non aveva perduto lo splendore dell’adolescenza. Qua e là, a dire il vero, qualche piccola ruga aveva fatto capolino. Lei, lungi dal dispiacersene, si consolava con la convinzione della giustizia inesorabile del tempo. Il Capitano Caracciolo era un fedele cavalier servente, del quale aveva grande stima, che aumentava di giorno in giorno poiché quest’uomo non l’aveva angustiata ne messa a disagio rispettando il suo stato di donna maritata. Nondimeno, nel suo intimo era molto lusingata delle


sue attenzioni e dalla condizione di schiavitù d’amore e fedeltà che leggeva senza fallo negli occhi dell’uomo. Adesso, invece, lo sguardo insistente del principe la metteva in disagio. Ebbe netta la sensazione che lui la stesse spogliando con lo sguardo. Immaginò, e ne ebbe paura, la bocca dell’uomo alitare sulla sua gola. Si ricompose e spense le fantasie. Don Carlos notò con piacere che le si erano imporporate le guance. Donn’Eleonora trovò la scusa di sentirsi poco bene e rientrò nelle sue stanze, accompagnata dalla figlia. Castagneto seguì le donne con sguardo pensieroso. Carlos s’intrattenne col Governatore a parlare delle sue avventure d’oltremare. Poi fece tornare la discussione sull’argomento del matrimonio. Le resistenze di Castagneto erano sempre più deboli mentre le richieste del principe divennero incalzanti : doveva ripartire per Napoli entro una settimana e, lo comprendesse il Governatore, non l’avrebbe fatto senza la risposta alla sua richiesta di poter impalmare donna Cristina. Castagneto, col cuore immerso nell’avvilimento, promise al principe una decisione in merito entro due giorni. ***

Il giorno successivo, nel pomeriggio, Ismene chiamò Nina da parte. La informò che, entro mezz’ora, avrebbe dovuto tornar di sopra e recarsi dalla Baronessina, che desiderava vederla.


Nina si accomodò i capelli. Si lavò accuratamente le mani ed il viso. Ripose il grembiule sulla panca e spolverò i vestiti. Da un lato la curiosità stava per vincerla, dall’altro uno strano assillo le si andava insinuando nel seno. Qualcosa di indecifrabile, ma la sensazione era molto simile alla paura. Ripensò, per qualche momento ai fatti che Porzia le aveva raccontato di ritorno da Vaccarizzo. Ripensò a Taddeo e poi, con un sospiro, non seppe nemmeno lei se d’impazienza o di angoscia, salì le scale per recarsi da Madamigella Cristina. Attraversò velocemente il corridoio, badando a tener vigile lo sguardo. Non avrebbe investito nessuno questa volta ! Giunse alla porta bianca decorata con fiori dorati che introduceva nella camera della Baronessina. Bussò prima d’entrare e s’inchinò con grazia verso la ragazza dai capelli biondi, dalla carnagione bianca come il latte. Cristina le fece cenno di avvicinarsi e, con noncuranza, tolse il pesante volume dal leggio presso la finestra e lo depose aperto sul tavolo ingombro di carte. Nina avanzò e si fece scrupolo di vincere la tentazione che le imponeva di dare un’occhiata a quelle pagine aperte che su di lei esercitavano un fascino indicibile. Cristina sedette ed invitò a sedere anche lei su uno sgabello dal cuscino di velluto posto sullo stesso lato del tavolo. Nina si schermì ma Cristina le impose di sedersi accanto a lei. « Ora rispondimi » le disse a bruciapelo, « Io credo che tu sappia leggere, è vero ?» Nina ammutolì. Cosa avrebbe potuto dirle ? « Cos’hai, paura ? Perché ?... Sono convinta che sai leggere perché... t’ho vista leggere ! No, non dirmi che


guardavi le miniature ! Tu leggevi. Eri così concentrata che non ti sei accorta che stavo osservandoti. » « Le chiedo perdono se ho sbirciato il suo libro, Madamigella. Vossignoria non s’arrabbi. Tutte le persone ignoranti sono attratte dai libri. I suoi poi sono così belli... » Cristina avvicinò il libro aperto sul tavolo. « Era questo ?» Nina s’avvide che il libro era scritto in una lingua che non conosceva. Lesse poche righe e capì ch’era latino, la lingua della messa. « Non le saprei dire » mentì. Cristina le sorrise. « Non essere scaltra con me, non ne hai bisogno. Quante volte t’ho vista scrivere sulla polvere del cortile ! Perché mentire ? Io so che sei capace di leggere e scrivere, Nina. E di questo, ti garantisco, non devi provare vergogna. Anzi dovresti esserne fiera ! » La sguattera s’arrese e confessò a Cristina ogni cosa, tacendo di Porzia. Si, aveva imparato a leggere e questo, un po’ alla volta aveva cambiato la sua vita. Solo, si rammaricò, non aveva molto da leggere se non qualche bando appeso ai muri del paese e, di nascosto, qualche pagina d’un libro aperto sul suo leggio presso la finestra, tutte le volte che la sua cameriera personale non si presentava al lavoro. « Madamigella, per carità di Dio, non mi tradisca.» « Non essere così tragica, Nina. Leggere e scrivere non è peccato per nessuno.» Queste parole somigliavano in modo incredibile a quelle che aveva detto Porzia tanto tempo prima. Cristina porse alla ragazza un foglio di carta grigiastra e le avvicinò il calamaio e la penna d’oca.


« Scrivi qualcosa, per favore » le chiese con un sorriso d’incoraggiamento. « Cosa devo scrivere ?» « Quello che vuoi. Non è importante, è solo per vedere come scrivi.» Nina aveva poca dimestichezza con la penna d’oca. Ma dopo alcuni maldestri tentativi e alcuni consigli di Cristina, si estasiò al perfetto scivolare della punta sulla carta. Acquistò padronanza dello strumento e scrisse una lunga frase : Scrivere è come parlare a bassa voce ed essere capita tutte le volte che voglio ; scrivere è come parlare a se stessa milioni di volte ; leggere è capire i pensieri di chi, scrivendo, ha voluto dire qualcosa a tutti. Anche a me. Scrivere e leggere, insomma, aiutano a fermare il tempo, a raggiungere il futuro, a capire il passato. Perché queste cose così belle sono considerate dalla gente figlie del demonio ? Cristina lesse e sbalordì. Quella grafìa era qualcosa di totalmente nuovo ed affascinante : limpida, uniforme, chiara. La velocità con cui Nina aveva vergato quelle parole non era frutto di esercizio ma qualcosa di naturale, di inarrestabile. Quei pensieri, all’apparenza semplici, erano profondi come mai avrebbe potuto sospettare. Si alzò e prese un grosso volume da un ripiano presso il tavolo. Lo porse a Nina, aperto su una pagina a caso. Con estrema gentilezza le chiese di leggere per lei. Nina ubbidì :


Quali dal vento le gonfiate vele caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca, tal cadde a terra la fiera crudele. Così scendemmo nella quarta lacca, pigliando più de la dolente ripa che ‘l mal de l’universo tutto insacca. Ahi giustizia di Dio ! tante chi stipa nove travaglie e pene, quant’io viddi ? e perché nostra colpa sì ne scipa ? Come fa l’onda là sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s’intoppa, così convien che qui la gente riddi. Lo sbalordimento di Cristina crebbe a dismisura. Mai nessuno, nemmeno il precettore Fiorillo, aveva letto versi della Commedia con tanto cipiglio. Mai lettura era stata più chiara, mai pronuncia così adatta e precisa. Nel togliere il libro dalle mani della coetanea, notò il dubbio sul suo volto. « Cos’hai capito ?» « Quasi niente, per la verità. Le parole sono come musica, ma il senso di questi versi è così difficile. La storia non mi è chiara, sembra essere una piccola parte di un grande racconto di cui non conosco nulla.» La Baronessina le sorrise. « Nina sei un vero miracolo. E’ proprio così, è una grande storia. Tu stavi leggendo un brano del settimo canto di un poema. Qui si parlava dell’inferno. Nina rabbrividì : come potevano parole dal suono così incantevole descrivere l’inferno ? Certo la Baronessina stava burlandosi di lei. Oppure, ecco ! era


l’opera d’un negromante amico di Satanasso. La paura le serrò di nuovo la gola. Continuava a chiedersi il perché di quel pomeriggio. Come poteva essersi lasciata andare, malgrado il giuramento fatto a Porzia e a se stessa ? Era stata scoperta, è vero, ma perché quell’esaltazione, quel volere esibirsi ? Stupida ! Cento volte stupida ! Cristina sfogliò con competenza all’indietro le pagine di quel libro e giunse al punto desiderato. Riporse il libro a Nina e disse : « Quante storie contiene ? Nessuno può dirlo. Ecco, leggi qui : siamo all’inferno ma udrai riecheggiare una delle più belle storie d’amore che mai siano state vissute. » Non è possibile ! chi ama non va all’inferno ! Nina ebbe ancora più timore e non volle leggere. Cristina le toccò una mano e le disse : « Ascolta : leggerò io per te : I’ cominciai : «Poeta, volontieri parlerei a quei due che ‘nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggieri.» Ed elli a me : « Vedrai quando saranno più presso a noi ; e tu allor li prega per quello amor che i mena, ed ei verranno.» Sì tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce :« O anime affannate, venite noi a parlar, s’altri nol niega !» Quali colombe dal disìo chiamate, con l’ali aperte e ferme al dolce nido vegnon per l’aere dal voler portate ; cotali uscir de la schiera ov’è Dido, a noi venendo per l’aere maligno,


sì forte fu l’affettuoso grido. » Nina era in tralice. La sua fervida immaginazione le fece vedere la scena. I suoi occhi s’erano persi dietro la fantasia e brillavano di febbre. Cristina interruppe la lettura e porse il libro aperto alla ragazza : « Continua tu... ecco, da qui... » Nina cercò il segno e riprese : « O animal grazioso e benigno che visitando vai per l’aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de l’universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c’hai pietà del nostro mal perverso. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a vui, mentre che ‘l vento come fa, si tace. Siede la terra dove nata fui sulla marina dove il Po discende per aver pace co’ seguaci sui. Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta ; e ‘l modo ancor m’offende. Amor ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. Proseguì nella lettura e terminò solo quando le lacrime per la sorte di Francesca e Paolo le offuscarono la vista. Anche Cristina, pur conoscendo da tempo sia la storia di paolo e Francesca che il canto della Commedia che parlava dei due amanti fin nei suoi più


reconditi significati, era turbata e commossa : Nina nel leggere, riviveva così intensamente quell’esperienza, da sentirsi davvero nei tormenti dell’infelicità infernale. Dalla sua lettura promanava questo stato d’angoscia terribile. Cristina non domandò più cosa avesse capito. Era passata circa un’ora. La conversazione, ora, era basata sull’intera storia della Commedia. La ragazza era affascinata e pendeva dalle labbra di Cristina che le spiegava come la grande storia fosse una costruzione perfetta dei tre regni dell’aldilà. Cristina le spiegò che altri poeti, in passato avevano immaginato per i loro personaggi la stessa esperienza - le parlò di Omero e di Virgilio e concluse dicendole che nessuno di loro aveva saputo immaginare di vivere in prima persona quell’esperienza. Solo Dante, il poeta fiorentino, osò tanto, anche se ritenendosi incapace immaginò d’essere accompagnato da Virgilio prima e da Beatrice - la donna che amava, morta prima di lui poi. « Leggeremo assieme questo libro dal principio alla fine », promise Cristina. « L’Abate Fiorillo ci aiuterà a comprenderne le storie ed i personaggi. » Bussarono. Entrò donna Genoveffa mostrando tutto il suo disappunto nel vedere Nina seduta accanto alla Baronessina. Inarcò un sopracciglio quasi fino all’attaccatura dei capelli, ma lo sguardo deciso di Cristina le impedì di profferire il minimo commento. « Il Governatore aspetta Vostra Signoria nel salone. Vi prega di raggiungerlo subito.»


« Per favore, riferite a mio padre che sarò da lui tra qualche minuto.» Donna Genoveffa, prima di uscire fulminò una seconda volta la serva con lo sguardo. « Ti chiamerò ancora. Leggeremo e scriveremo insieme » promise Cristina. Nel congedarla le diede molti fogli di carta, un calamaio e la bellissima penna d’oca che aveva usato poco prima. Mise il tutto in una cassettina di legno. Nina ringraziò e disse che non poteva accettare. Come avrebbe giustificato, a casa sua, tutto questo ? « Semplicemente dicendo la verità. Scrivi amica mia, scrivi tutto quello che pensi sia giusto scrivere. Lo leggeremo insieme se vorrai.» « Amica mia ? Madamigella, io...» « Sì, amica mia ! Perché tu sei mia amica, non è vero ?» Concluse sorridendole, e s’avviò verso il salone senz’attendere risposta. *** L’irritazione aveva raggiunto il culmine. Non amava le decisioni affrettate, ne quelle imposte dalle circostanze. Un rancore sordo s’era fatto strada nel suo animo, al quale stava aggiungendosi la determinazione di opporre un rifiuto che avrebbe fatto storia e, sicuramente, gli avrebbe provocato grossi guai. Ma, quell’uomo era viscido, e indegno per la sua bambina. Era un senza terra, un senza scrupoli, un libertino. Con dolore cocente ripensò alle sue occhiate furtive verso donn’Eleonora. E quanto amore e pudore in sua moglie che, infastidita e offesa da quell’armeggiare,


non aveva esitato a lasciare il salone per non prolungare l’imbarazzo del marito. Eleonora. Quanto l’aveva amata. Era stato per lei, data la differenza di età, un padre premuroso oltre che un marito devoto. Ora questo viscido individuo, con una sfrontatezza che rasentava l’impudenza attentava apertamente contro l’onore suo e di sua moglie, mentre per ragioni che solo il diavolo riusciva ad immaginare, chiedeva reiteratamente la mano della sua bambina. Le domande lo incalzavano senza requie. Il perché aveva poca importanza. Le conseguenze... Un rifiuto netto, deciso come lui pensava di dover opporre avrebbe umiliato don Carlos. Procrastinare la risposta non sarebbe stato possibile. Non era sfuggita a Castagneto l’aperta sfida lanciatagli dal principe, non sarebbe andato via senza certezze... maledetto ipocrita. Le conseguenze... Non dovevano avere importanza nemmeno le conseguenze. Cosa avrebbe dovuto temere dal cugino del Re ? Da un principe di pezza che doveva la sua sopravvivenza alla cortesia del Viceré che lo tollerava alla Corte di Napoli ? Era lui, il malnato, che, piuttosto, sperava di trarre vantaggio dal matrimonio. Era nota la predilezione per Cristina della Duchessa di Alcalà.... Ecco ! finalmente capiva i fini politici della richiesta del principe ! Cristina era solo un mezzo per... Diablo ! Bastardo malnato : che vita avrebbe riservato alla figlia ? Le conseguenze... Al diavolo le conseguenze, avrebbe detto al principe il fatto suo, quant’è vero Iddio. S’aprì la grande porta del salone ed entrò Cristina. Il padre le fece cenno di sedere presso il camino. Sembrava molto preoccupato e, il fatto che non le


parlasse lasciava presagire grossi problemi. Sedette e tacque anche lei. Castagneto diede uno strappo ad un cordone appeso al soffitto. Un momento dopo apparve sull’uscio uno dei valletti che si inchinò rispettosamente. Gli ordinò di cercare ancora donna Genoveffa. L’anziana governante arrivò nel salone dopo quache minuto. Restò in piedi presso il tavolo dove era seduto il Barone ed attese ordini. La tensione era palpabile. Il governatore stava leggendo per l’ennesima volta il dispaccio inviatogli da Napoli. « Per favore, accendete qualche lume.» Genoveffa, con la solita efficienza, accese un candelabro a sei bracci e lo mise sullo scrittoio. Cristina sapeva bene come fosse difficile leggere alla fioca luce dell’imbrunire. « Vi prego, signora, cercate la Baronessa e ripetetele che desidero parlarle. Che venga qui al più presto.» « La Baronessa ha un forte mal di testa. » « Insistete e informatela che si tratta di un importante problema per il quale ho bisogno del suo consiglio. Fate presto. » Genoveffa uscì. Ad un cenno del Barone, il valletto gli si avvicinò. « Appena entra donn’Eleonora, chiudi la porta e resta di fuori. Non fare entrare nessuno fino a quando non ti darò un ordine contrario a questo. Bada anche che nessuno, ripeto nessuno, si avvicini alla porta.» « Sarà fatto.» La famiglia era riunita accanto al fuoco. Le sedie erano disposte in semicerchio. Il Governatore sorrise impacciato, si grattò il capo e decise di non


preoccupare più di tanto le donne che erano tutta la sua vita. Continuava a restare in silenzio, accrescendo la curiosità di entrambe. Eleonora si alzò e sistemò il ceppo nel camino che si era pericolosamente inclinato su un lato. Odiava il fumo acre che avrebbe provocato. « Come va il vostro mal di testa ?» « Meglio, non preoccupatevene.» « Ne ho piacere ». Rivolto alla figlia, con un largo sorriso, che comunque tradiva le inquietudini interiori, disse : « L’Abate Fiorillo è molto contento di voi, señorita... Il che mi inorgoglisce. Dice che avete grande predisposizione per le lettere e che, ormai ha poco da insegnarvi. Magari esagera, che dite ?» Cristina pensò che il padre stesse prendendo l’argomento che gli stava a cuore molto alla lontana. La pena era evidente e la sua simulazione di calma poco efficace. « L’Abate esagera certamente, padre. E’ vero il contrario : cerco di imparare da lui, la cui cultura è immensa, ma giorno dopo giorno, m’accorgo della mia persistente ignoranza. Vi sono argomenti ch’egli non vuole spiegarmi. Cita di continuo quelli che definisce i grandi pensatori dell’antichità, i filosofi, ma non mi dice con completezza ciò che pensavano. Solo lo stretto necessario per capire le frasi dei libri nei quali sono citati. Vorrei che gli parlaste, padre, affinché ampli il programma in modo ch’io sappia di Eraclito, di Socrate, di Anassimandro, di Platone, di Aristotele. Mi considera priva del necessario discernimento per addestrarmi alla filosofia e ciò mi angustia.»


Sul volto di Eleonora s’era dipinta una smorfia di stupore, mentre il padre, per un momento, invece, aveva dimenticato la pena che lo affliggeva. Era delizioso sentire parlare Cristina. Poi ricondusse il suo discorso sulla via che intendeva seguire. « Gli parlerò, statene certa. Ora... ehm... voglio dirvi una cosa molto importante che riguarda tutti noi, e voi in particolare, figlia mia : Don Carlos mi ha chiesto la vostra mano.» Quella frase aleggiò nell’aria, sospesa tra la sostanza e l’inconsistenza del suo significato. Su entrambe le donne, per cause diverse, ebbe l’effetto di una doccia fredda. Don Castagneto, notò il loro sconcerto ma non diede loro modo di interloquire. Proseguì esponendo tutte le considerazioni oggetto delle sue solitarie riflessioni di prima. « Il mio proponimento è, quindi, di rifiutare. A meno che... Donna Cristina non desideri il contrario.» concluse, guardando la figlia negli occhi. Cristina abbassò lo sguardo. Don Carlos per lei non rappresentava nulla. Lo considerava un vecchio vagheggino. Del resto, nella sua mente, non si era ancora formato il suo ideale di uomo, presa com’era dallo studio e dalla voglia di conoscenza che sovrastava tutti gli altri interessi. Ma era certa di aver letto negli occhi di quell’uomo il desiderio. Non per lei, no - Mio Dio perdonami ! - ma per sua madre ! Era un mostro di lussuria, di evidente lussuria. Il principe di san Jacopo non aveva qualità che avrebbero potuto indurla ad accettare la sua richiesta.


Guardò sua madre a lungo negli occhi e non si meravigliò dello sgomento che vi lesse. La Baronessa la precedette, impedendole di rispondere : « Mio signore, la vostra determinazione è assennata e giusta. Il principe e le sue mire politiche non rovineranno la vita di nostra figlia. Quanto alle conseguenze, non credo che ve ne saranno. E se pure ve ne fossero, sapremo affrontarle insieme.» Castagneto fu rinfrancato da quella frase. I genitori guardarono la figlia aspettando che dicesse qualcosa. La ragazza avvampò di rossore e, con una risolutezza inaspettata, concluse : « Molto volentieri mi rimetto alle vostre decisioni, padre, che se fossero state diverse mi avrebbero resa infelice. Il principe non ci onora con la sua richiesta, al contrario, ci umilia. Egli sa quale difficoltà comporterebbe rifiutare il cugino del Sovrano e se ne approfitta. Per questo sono felice, perché non lo voglio, e, se aveste deciso diversamente sarei stata io a rifiutare ed a scegliere volontariamente la via del monastero. Per questo vi amo. Per questo vi considero meraviglioso. Grazie, padre, per aver anteposto la mia felicità a tutto il resto. Ve ne sarò riconoscente in eterno.» *** Era notte. Le finestre dei casamenti del piano del Duca, un po’ alla volta, si abbuiarono, simili a palpebre che si richiudevano pesantemente su occhi stanchi. Il cielo era sereno e le costellazioni invernali scrutavano la terra infischiandone delle pene e delle gioie degli uomini. Il freddo intenso trasformò rapidamente il


fango delle strade e dei fossi in ghiaccio disuniforme dal profilo acuminato. Dai cornicioni della Chiesa e delle case, dagli archi della quarta porta, dalle sconnessure delle grondaie, le numerose stalagtitti di ghiaccio non gocciolavano più, acquistando un rinvigorito spessore. Cani randagi indrizziti per il freddo, si azzuffavano riempiendo l’aria di righi e guaiti. Passò la ronda di quartiere ed il grido “A ventidue ore tutto va bene !” zittì i cani e produsse un silenzio ancestrale. Nina non dormiva. Guardava la luna attraverso i vetri. Protetta dalla pesante coperta di lana rossa, si godeva il tepore del letto e rifletteva sui troppi avvenimenti che l’avevano vista protagonista negli ultimi tre giorni. Decisamente era una donna fortunata, si disse. Anche l’ultimo colpo di scena non aveva disorientato la sua famiglia. Quando, a cena, annunciò la notizia di saper leggere e scrivere, all’incredulità dei familiari si sostituì la meraviglia per la cassettina avuta in dono da Madamigella Cristina e per il suo contenuto che la giovine mostrò loro. La madre era esterrefatta e Nina la vide segnarsi più volte. Il padre era diventato taciturno e non la guardava. Bernardo, invece disse che lo sapeva già, che più volte l’aveva sorpresa a leggere ma non le aveva detto nulla, facendo finta di niente. Era per questo che le aveva costruito quello strano tavolino, affermò : un tavolo che i nobili e i preti chiamavano scrittoio. Nina ripensò al tavolo che aveva visto nella stanza della baronessina e capì. Francesco era felice e proruppe in un “allora insegna anche a noi !” che provocò l’angoscia della madre e l’allegria degli uomini. Altro che negromanzia ! Questa è una


benedizione del cielo ! fu l’affermazione solenne di mastro Ignazio. Nina raccontò loro la verità. Riferì della pazienza di Porzia e della sua grande voglia di imparare. Ruggero le si avvicinò : « Insegnerai anche a noi ? Io vorrei tanto imparare ma ho vergogna di chiederlo ai domenicani » La ragazza promise che avrebbe tentato di insegnare a tutti. « E Taddeo lo sa ?» chiese Lucia, con una espressione che sembrava quella della Mater Dolorosa. « No, non lo sa.» « Come la prenderà ? perché dovrai dirglielo, no ?» « Sono certa che sarà contento. Se vorrà insegnerò anche a lui » « Ascolta tua madre. Sii sincera, diglielo prima che faccia la richiesta ufficiale.» « Ha ragione tua madre», disse Ignazio, « non si sa mai come possono essere prese certe cose » « Avete ragione, lo farò domani stesso.» L’indomani avrebbe rivisto Taddeo al castello. Gli avrebbe confidato questo segreto, che non sarebbe stato più tale in breve tempo. Immaginò le chiacchiere non appena la cosa fosse stata risaputa. Non le importava. Era solo un po’ dispiaciuta per la madre che sarebbe diventata oggetto di pettegolezzo per le vicine, e sarebbe stata angustiata da un mucchio di domande. Taddeo... la felicità lo stava cambiando. Taddeo... il mio amore lo sta cambiando. Ti prego, amore mio, non perdere la tua fierezza, non lo sopporterei.


Pregò e, mentre stava per addormentarsi, dalla strada giunse un suono di chitarre ed un canto dolcissimo. Tese l’orecchio : Se io potessi far, fanciulla bella, la tela che tu tessi farei d’oro, e d’argento farei la cannella e lo scoletto che metti al lavoro : e di cristallo farei la panchetta, quella dove tu siedi, o fanciulletta. Quando nascesti, o fior del paradiso, fosti portata a Roma a battezzare, e il papa quando ti scoperse il viso, chiese di grazia d’esser tuo compare, e la tua madre graziosa e bella, Ti pose nome Nina, dolce stella. Il papa gli ha donato quarant’anni di perdonanza a chi ti può guardare, centosessanta a chi ti tocca i panni, di pena e colpa ; e chi ti può parlare e chi ti bacia, o cara, il tuo bel viso, in carne ed ossa sale in paradiso Riconobbe immediatamente la voce. Taddeo le stava cantando una serenata. Era nell’orto, certamente, sotto la sua finestra, incurante del coprifuoco e del gelo. Tutti gli innamorati, prima o poi facevano la serenata alla loro promessa. Ma questo accadeva d’estate non in pieno inverno col ghiaccio che tagliava mani e piedi e faceva stridere le chitarre. Taddeo, irruento com’era, bruciava i tempi come al solito. Udì movimento di sotto e borbottio ; s’aspettava una scenata che non ci fu :


evidentemente anche i suoi avevano riconosciuto Taddeo e si astennero dall’intervenire. S’affacciò ai vetri. Il suo innamorato, sotto la sua finestra, vedendola, aprì le braccia, continuando a cantare. La luna illuminava il suo sorriso e dava ai suoi occhi l’espressione che piaceva a Nina. Quello sconsiderato s’era levato il cappello ed indossava solo una giubba di fustagno che non poteva difenderlo dal freddo. Nina accese il lume. Taddeo, scorgendola dietro i vetri le mandò un bacio. Lei gli sorrise e gli fece cenno d’andare. Le chitarre, nascoste dietro gli alberi continuarono a suonare ed il giovane, come paralizzato, non riusciva a muoversi ; ripetè per intero la vecchia canzone che tutti gli innamorati cantavano alla loro bella, sostituendo, di volta in volta, il nome dell’amata nella strofa centrale; lei lo salutò con la mano e, a sua volta, gli inviò un bacio ; poi spense il lume e chiuse gli scuri. Era contenta, ma voleva che andasse prima che si buscasse un malanno. Alcune imprecazioni urlate dalle case vicine fecero cessare il concerto. *** L’indomani Nina fu al lavoro per le otto. Ismene, appena la vide l’apostrofò con malcelata acredine: « Cosa voleva da te, ieri, donna Cristina ?» « Voleva parlare di inferno purgatorio e paradiso » rispose Nina, felice per aver detto, in tutti i modi, la verità. Ismene si spazientì e la mandò ad attingere l’acqua. La ragazza provò inutilmente a calare il secchio, poiché l’acqua del pozzo era ricoperta dal ghiaccio. Più


volte fece cadere il secchio con violenza, ma ebbe paura di sfasciarlo e desistette. Mentre stava per rientrare giunse Taddeo. Vedendolo si fermò ad aspettarlo vicino al pozzo. L’aria era pungente ma i due giovani, nel ritrovarsi non vi fecero caso. Il ragazzo appoggiò sul vascone il pezzo di manzo duro come la pietra che aveva trasportato fin lì a spalle, si riassettò il manto e s’avvicinò a Nina. Si guardarono a lungo negli occhi sorridendo e tenendosi le mani. Poi l’attirò a sé e l’abbracciò. Nina non oppose resistenza e, incurante della possibilità di essere vista si abbandonò all’abbraccio del suo uomo e rispose al suo bacio con ardore. Il ragazzo sentì il suo corpo aderire a quello di lei e fu assalito dal desiderio, del quale Nina ebbe modo d’accorgersi. Indugiò, baciò Taddeo su una guancia e, infine, si ritrasse, ansante e controvoglia. « Pazzo che sei !» gli disse ridendo : « Volevi morire dal freddo questa notte ?» « Volevo morire d’amore, questa notte.» Questa frase compiacque Nina. Era bella ed inaspettata come il verso d’un menestrello. Si abbracciarono ancora per un minuto. Lei cercò le sue labbra suggellandole con un bacio. Taddeo le disse di aspettarlo lì. Portò la carne in cucina, salutò Ismene con un largo sorriso, si levò il manto e corse di nuovo verso il pozzo. Fece precipitare un sasso nel punto ove aveva scorto una fenditura e, dopo aver fracassato lo strato di ghiaccio, attinse l’acqua per lei. Prima di rientrare la informò che i suoi genitori avrebbero visitato quelli di lei il pomeriggio della prossima domenica. Suo padre avrebbe informato in tal senso mastr’Ignazio oggi stesso.


Nina s’arrestò sull’uscio e trattenne fuori Taddeo ponendogli una mano sul petto. Si fece molto seria : « Aspetta, non entrare ! devo confessarti una cosa... » Immediatamente i lineamenti del macellaio si indurirono e gli occhi divennero due fessure piccolissime. « Tu non sai che io... io » Esitava. « Parla, dunque, per la Madonna !» Nina sorvolò sull’urlo e sulla bestemmia. Continuò ad occhi bassi: « Vedi, io... so leggere e scrivere, da molto tempo. » Taddeo si rilassò. Gli tornò l’espressione felice sul volto. « Anch’io so leggere e scrivere da quando avevo dieci anni. Ma qual era la cosa che dovevi dirmi ?» « Era questa...Che so leggere. Pensavo che ti arrabbiassi... » Taddeo sorrise senza risponderle. Le carezzò un guancia , le tolse il secchio di mano e rientrò vuotandolo nel paiolo. Ismene guardò i due con curiosità e proruppe in una risata ironica, quasi sguaiata : « Eh... voi due non me la raccontate giusta, ultimamente !» Taddeo le andò vicino e la squadrò dall’alto in basso : « Gnura Smena : ditemela voi la cosa giusta, se vi piace. » « Via, e che ? T’arrabbi ? Si vede lontano le sette leghe che vi siete innamorati. Tu quando c’è Nina sembri un agnello, balbetti, sei agitato che se n’accorgono anche i mobili. Lei, la signorina, da un po’ di tempo profuma di lavanda, si spolvera le gonna ed il sinale in continuazione e si lava il viso in ogni


momento come una gatta... Sì cari miei, due più due fa sempre quattro... o no ?» Taddeo sorrise. Assunse un tono esageratamente minaccioso e mormorò : « Qualche volta no, qualche volta fa tre, alcune volte cinque... Attenta Gnura Cuciniera, che a ficcare il naso nei fatti degli altri può diventare poco piacevole.» Ismene s’offese e s’indaffarò nei preparativi della colazione senza dar più retta a nessuno. Taddeo con fare gioviale le andò vicino e le stampò un bacio sulla fronte. « Sei vecchia, Smena, ma ci vedi bene. Buona giornata.» Toccò le mani di Nina e uscì per tornare al suo lavoro, in paese. Lungo la silica incontrò Porzia e Maria che raggiungevano le cucine. *** Beppe Beza aveva visitato tutti gli amici durante il giorno. Era stato in tutte le turri50 ove i valdesi di Montalto prestavano la loro opera. Aveva contattato uno per uno gli artigiani, il panettiere e i tessitori, informandoli delle novità e istruendoli sul da farsi. Era esausto e molto triste. Sua moglie aveva preso veramente male la notizia della morte della madre ed era rimasta scossa per le violenze riferite dai predicatori. Bonelli, benchè molto giovane - Beppe lo aveva giudicato sui venticinque anni - aveva il dono della parola ed incuoteva rispetto ed ammirazione. Al contrario degli altri Pastori, però, era stato molto diretto ed essenziale, non aveva saputo o voluto indorare la pillola specialmente durante la riunione dei capi delle


comunità. Dipinse loro un futuro pregno di lacrime e sangue. Il suo suggerimento poteva solo tardare la catastrofe, ma era chiaro dai suoi discorsi che i tormenti sarebbero finiti soltanto quando la comunità valdese dei territori di Montalto fosse stata distrutta o completamente integrata. Pascale disse che non temeva tanto il feudatario, quanto l’arrivo di Fra Valerio Inquisitore. Narrò delle sconcezze che questo monaco aveva compiuto nella sua città natale, Piacenza. Era famoso in tutta l’Italia del nord per il piacere che provava a tormentare i malcapitati che finivano nelle sue grinfie, fino a pochi momenti prima della loro esecuzione, completamente dimentico di un altro condannato insultato prima di morire : Gesù Cristo ! nel nome del quale quello spirito immondo compiva le sue nefandezze. Fra Valerio Malvicino, doveva la sua fama anche all’acuta intelligenza ed alla preparazione teologica di cui aveva fatto il proprio vessillo, ritenute preziose da Fra Michele, il Cardinale Alessandrino, Grande Inquisitore. Fra Valerio aveva la fama di riconoscere Satana anche in Chiesa e inesorabilmente lo sconfiggeva con la sua incredibile padronanza delle verità. Per lui l’Anticristo preconizzato da San Giovanni era in ogni uomo o donna che mettessero in discussione la sua personale autorità. E l’Apocalisse trovava attuazione nelle celle e sui patiboli. Luterani, Evangelici Valdesi, Ebrei, o Cristiani Cattolici Romani che avessero guardato in modo strano nella sua direzione, erano trattati da quest’uomo alla pari di bestie schifose, anche se Bonelli dubitava che mai un uomo avrebbe potuto trattare in simile modo anche la bestia più immonda. Non era finita. Anche il vicario


Generale di Cosenza ed il rappresentante del Governo, il Principe Alvarez de San Jacopo erano noti, il primo per la crudeltà ed il secondo per l’ignavia. Non allarmate la gente, aveva raccomandato Bonelli ai capi accorsi a Vaccarizzo. Con l’aiuto di Dio è probabile che non accada nulla prima dell’estate e, anche allora, ricordate loro di essere mansueti. La voglia di martirio è vanagloria invisa a Nostro Signore. Il bene più prezioso di cui ci ha fatto dono è la vita e dobbiamo preservarla fino a quando piacerà a lui. Beppe aveva opposto al suo discorso quello della dignità dei poveri di Lione dai quali discendevano. Piuttosto morire che idolatrare. Certamente era così confermò Bonelli, ma mai morire inutilmente. Rendetevi conto, aspettano un pretesto per scatenare la crociata vera e propria. Non diamolo o ci cancelleranno per sempre e di noi non resterà traccia in Calabria. Promise che sarebbe rimasto con loro molto a lungo. E, per prima cosa si recò a Guardia, poi avrebbe completato la visita di tutte le Comunità. Benedì tutti e li esortò ad esercitare la pazienza ed il coraggio. Beppe non era sicuro di aver capito. S’agitava nel letto e trovava un po’ di pace pregando. Porzia piangeva, non per la morte della madre, spiegò, ma perché aveva capito che tutto sarebbe finito molto presto. La prova non era fatta per lei, era troppo vecchia. Pregò Dio di chiamarla a sé prima che l’orrore avesse inizio. Fu rimproverata dolcemente dal marito. No, Porzia, noi prima degli altri. Che ne sarebbe dei giovani se noi li abbandonassimo ? Siamo un popolo, Porzia, abbiamo nel sangue la fierezza dei montanari e la purezza dei figli di Valdo. Non ci sconfiggeranno, non ci


cancelleranno dalla faccia della terra. Noi resteremo Porzia, e daremo l’esempio, in nome della nostra fede nel Salvatore. La donna s’addormentò, finalmente tranquilla, sul suo petto.


Capitolo quinto Don Basilio e i Cavalieri, nel loro girovagare per Montalto, verso le quattro del pomeriggio, giunsero alla locanda della Greca. Era il locale più malfamato della città e, forse, non s’addiceva al loro rango far sosta tra i tavoli di quell’osteria di quart’ordine. Ma il profumo della cucina era appetitoso e gli occhi della bellissima proprietaria erano come due pozzi senza fondo. Proprio a lato dell’osteria era situata la bottega del vecchio maniscalco. Il gruppo di nobili si fermò là davanti, con la scusa banale - al castello c’era uno stalliere molto efficiente - di far dare un’occhiata agli zoccoli dei loro cavalli. Nello smontare di sella Basilio incrociò lo sguardo della greca fattasi sull’uscio della locanda, invitante. Si fermò ad ammirarne il corpo e le labbra vermiglie. La cascata di capelli neri le discendeva su un seno. Il caballero avanzò salutando quella femmina che trasudava sensualità da ogni poro. I suoi amici, dopo aver detto qualche parola al maniscalco, lo raggiunsero. Lo sguardo della donna si posò sugli abiti eleganti. Basilio entrò nel locale fumoso e sporco ed aspirò lo splendido aroma che proveniva dall’attigua cucina. « Che state cucinando, peccere’ ?» La greca cambiò espressione ed il suo sorriso fece posto ad una smorfia di rabbia. « Non chiamatemi piccirilla51, Cavaliere. Io sono Lucrezia e basta. Anzi, la Greca, se preferite.»


I suoi occhi, nerissimi come due carboni, si riaccesero di quella luce che provocava l’istantanea eccitazione di ogni uomo. « Stiamo preparando una quadareddra52» Basilio non capì. Con la sfrontatezza tipica delle puttane, la donna passò al tu e disse a Basilio di aspettare un paio d’ore e poi avrebbe sentito che delizia ; spiegare di cos’era fatto e come veniva cucinato quel piatto non le andava. Il napoletano sedette ed ordinò del vino per lui e per i suoi amici. Gli altri avventori, pochi per la verità, alla vista di quei notabili pensarono bene di eclissarsi. Una ragazza prosperosa portò il vino e mentre deponeva l’alta caraffa sul tavolo, il più vicino dei cavalieri le cinse la vita e l’attirò a sé. Implorava un beso. La ragazza si divincolò ridendo e tornò verso la cucina. L’atmosfera andava scaldandosi. « Don Pedro, fate una corsa al castello per avvertire che non torneremo per cena. E tornate presto, mi raccomando.» L’uomo uscì ridendo. Sedette sul tavolo e allungò il ginocchio verso Basilio. Ha le cosce più lunghe d’una canna, pensò quest’ultimo. « Ho paura che rischierò di annoiarmi o di ubriacarmi se aspetto qui che la cena sia pronta. Due ore sono tanto tempo » « E chi ti dice che devi stare qui ad abbuffarti e bere ?» fece lei con sempre più evidente impudenza. « Dove potrei andare ? Cosa potrei fare ?» finse di chiedersi Basilio, ormai carico come un torello.


« Vieni, sciocco.» Gli prese una mano e lo trascinò su per le scale tra gli evviva e i fischi di approvazione degli amici. Appena al piano di sopra, Basilio non ebbe la pazienza di aspettare di raggiungere la camera. Già sulla seconda rampa di scale aveva affondato le mani nella scollatura della ragazza. Questa lasciò fare e, anzi, ringalluzzì il giovane, se mai ve ne fosse stato bisogno, passandogli il palmo della mano sull’inguine. Ormai assatanato, Basilio s’avvinghiò alla donna baciandole, succhiandole, leccandole ogni millimetro di pelle accessibile. Entrarono. Malgrado il sangue gli ribollisse nelle vene e fosse completamente accecato dal desiderio, l’uomo ebbe modo di notare la differenza dell’ambiente rispetto al piano di sotto. Qui regnavano un nitore e un ordine inaspettato. La Greca gli fece cenno d’attendere. Lo sospinse sul letto. Si spogliò lentamente fino a restare completamente nuda. Basilio si estasiò davanti alle forme così prorompenti e sode di quel corpo. Dagli scuri accostati entrava tanta luce quanto bastava per dare a quelle fattezze un che di arcano, di misteriosamente eccitante. La pelle bruna delle cosce, delle natiche, dei seni sembrava brillare di luce propria. La ragazza si avvicinò al letto e, con sapienza spogliò Basilio. Indugiò con i seni sul suo volto. Poi con una lentezza esasperante gli baciò il torace ed il ventre. Infine divorò la sua virilità che tra quelle labbra eruppe senza preavviso, come il Vesuvio. L’uomo era avvilito per la sua scarsa resistenza. Ma pronto a ricominciare. Fu un’ora di libidine pura, di interminabili giochi di piacere che Lucrezia fu felice di insegnare al cavaliere.


Questi, esausto, si complimentò. Mai avuto un’esperienza così... completa. Tutto era andato ben oltre la normale fantasia. Promise che sarebbe tornato. La donna era conscia della sua bellezza e della sua arte. La vanità ebbe un trionfo e con orgoglio professionale si vantò « Certo che verrai a trovarmi ancora. E dove la trovi una bella come me in questo posto di merda ? Ne a castello ne in paese, te lo garantisco.» A Basilio venne da ridere. Dalle due stanze vicine provenivano risate e sospiri, gridolini ed imprecazioni. I suoi amici stavano dandosi il cambio e lasciavano malvolentieri il posto agli altri. « Anche le altre hanno la tua sapienza ?» domandò Basilio. « Nemmeno per sogno. Deve ancora nascere chi ne sa più della Greca in fatto d’amore.» « All’anima, peccerè ! E vabbè... chiamammolo ammore. In verità sei la più esperta baldracca che io abbia mai incontrato. E sei veramente molto bella !» « Grazie. Me l’hanno già detto in mille.» concluse, ridendo sguaiatamente, mentre si rivestiva. Portò all’uomo un boccale di vino. Questi, ancora nudo sedette sul letto e bevve un piccolo sorso. Come parlando da solo mormorò « ...però, io ho incontrato in questo posto di mierda una ragazza ancora più hermosa di te... No, non scherzo è la verdad ! » continuò Basilio per provocare la sua reazione. Lucrezia divenne furiosa come un cane arrabbiato. « Non ci credo. Non esiste ne qui ne in tutto il territorio una che abbia la faccia le tette e le gambe più belle delle mie. Me l’ha detto anche uno scolpitore, ma sì, uno che fa le statue...»


« Credimi esiste. Va’ al castello e la incontri. E’ giovane ma ti garantisco che è perfetta. Non aver paura, non avrà mai la tua sapienza. E’ bella, è molto bella, ma vicino a te è una bambola senza vene ...» Lucrezia lanciò uno sguardo d’odio in direzione di Basilio. Poi decise che l’imbecille doveva pagare subito quell’offesa. Si propose di annichilirlo. Gli si avvicinò e velocemente risvegliò più e più volte il suo desiderio. Lo portò all’acme e si sottrasse ogni volta che capiva di poter generare la disperazione in quell’uomo. Passò un’altra ora il cui contenuto Basilio non ebbe mai il coraggio di raccontare a nessuno. Infine, esasperato, divenne crudele. La afferrò per il collo, la girò con violenza e la penetrò da dietro con tanta forza da farla sanguinare. Si rivestì, lanciò sul letto una manciata di tarì ed uscì sbattendo la porta. Non sarebbe tornato mai più per essere deriso da quella troia. Lucrezia, rimasta sola, contò le molte monete d’argento che il cavaliere aveva lasciato sul letto sporco di sangue. Rivestendosi pianse di rabbia. Dunque, era vero. Taddeo non s’era più visto. Gli altri dicevano che s’era innamorato della bellezza in persona. Nina ! Maledetta, maledetta perché esisteva, perché era bella, perché le aveva portato via l’unico uomo per il quale faceva tutto gratis, tutte le volte che lui voleva, perché lo amava.


Capitolo sesto Alla luce del lume ad olio Nina trasse dal cassetto un foglio, la penna, il calamaio e il piccolo recipiente della cenere. Si trastullò un po’ con la piuma e poi, inarrestabile come un fiume in piena scrisse : “Ignoravo d’amore la bellezza, oggi son vinta dall’amor che provo. Ogni mia notte è come una carezza dell’uomo ch’amo, che mi vuole bene. Trasuda dal suo sguardo la fierezza, e senza tema sa strappare il rovo per coglierne le bacche e senza pene offrirle a me con tutta lor dolcezza.” Lasciò dello spazio e poi vergò a memoria alcuni dei versi che l’avevano commossa, quelli di Dante, delle “colombe dal desio chiamate”. Ridusse la struttura della sua bella grafia alla più piccola forma che il grosso pennino le consentisse di ottenere senza macchiare il foglio. Si beava della facilità con la quale stava prendendo dimestichezza con gli arnesi di scrittura. Rilesse le due strofe della sua poesia e se ne sentì insoddisfatta al punto di cancellarle con tratti spessi e nervosi. Fu distratta dal vociare che proveniva dalla stanza di sotto. Ripose tutto nel cassetto e cercò di decifrare ciò che Bernardo stava riferendo al padre concitatamente.


Percepì le parole rissa... spagnoli... quarta porta ... Taddeo... sangue. Allora il cuore prese a scalciargli nel petto. Si rivestì e corse di sotto. Il padre, appena la vide, fece cenno a Bernardo di tacere. Nina era pallida e come paralizzata. «Per amor di Dio, Bernardo, cos’è successo a Taddeo ?» Il fratello guardò il padre esitante, poi le andò vicino e le prese le mani. « Niente, ti assicuro, lui non c’entra.» « Ma, cos’è accaduto ?» « Una rissa, alla quarta porta, un duello, forse.» « Uno scannamento, figlia mia» interloquì sua madre. « E’ stato trovato uno degli spagnoli con la gola squarciata. Il capitano Caracciolo dice che deve essere stato un colpo di spada » proseguì Bernardo. « C’è gente che ha riferito di aver visto battersi tra loro due spagnoli ubriachi» Nina, suo malgrado, pensò a don Basilio e temette che il morto potesse esser lui. « Taddeo dov’è ora ? Lo sai ?» « Non l’ho visto per niente stasera, credo sia a casa sua.» L’agitazione della ragazza era evidente, com’erano evidenti i suoi timori. « Andrò a cercarlo» disse il padre. « C’è dell’altro, piccola mia : la gente pensa che quella gola l’abbia aperta un coltello.» « Madre di Dio !» urlò Nina. E svenne. ****


Ignazio bussò per due volte al portone di casa Polimena. Venne ad aprirgli Pietro che dopo averlo salutato lo fece accomodare in casa. Taddeo era seduto a tavola vicino a sua madre e stava ripassando i tagli dei suoi arnesi su una cote. Alla vista di Ignazio Spatafora, si alzò in piedi per salutare, e mostrò tutta la sua emozione e il suo impaccio. “Buona serata” rispose Ignazio e s’inchinò un poco in direzione della signora Polimena. Poi guardò a lungo Taddeo che sostenne il suo sguardo. Ignazio fu lieto di trovarlo sgombro da paure o quant’altro : era uno sguardo sereno, sincero. « Perdonatemi se sono venuto a quest’ora. Avete saputo cos’è accaduto alla quarta porta poco fa ?» « No», risposero all’unisono i tre. « E’ stato trovato un cavaliere del seguito del Principe con la gola squarciata, in un lago di sangue...» « Misericordia !» commentò Carmela « Dio ci aiuti ! » le fece eco Pietro. Taddeo restò immobile e silenzioso a quella notizia. « Il capitano Caracciolo pare abbia detto che si sia trattato di un fendente dato con una spada. Alcuni dicono di aver visto lo spagnolo battersi con uno dei suoi amici del seguito del principe. Ma chi ha visto il cadavere giura che la gola di quell’individuo è stata squarciata con un coltello ben affilato» proseguì Ignazio, mentre non poté fare a meno di indugiare con lo sguardo sull’esposizione di lame, asce e pietre per affilare poste in bell’ordine sul tavolo. Taddeo s’avvide della preoccupazione del padre di Nina e pensò di affrontarlo a cuore aperto.


« So cosa state pensando, mastro Ignazio. Ma vi sbagliate. Giuro sull’amore che porto per vostra figlia che io non c’entro con questa storia. Credetemi». « Ti credo, figlio mio, ti credo» rispose Ignazio, posando una mano sulla spalla del giovane. Il resto del discorso rimase come sospeso nel vuoto. Pesante come un macigno pronto a cadere. Carmela cominciò a piangere e a pregare in silenzio. Gli uomini si guardarono tra loro affranti. Nessuno si decideva a parlare. Sapevano tutti molto bene quel che sarebbe successo di lì a poco. Pietro si torceva le mani. Ignazio con le sopracciglia aggrottate strinse forte la spalla del futuro genero - al diavolo i convenevoli e i sospetti, era sicurissimo della sincerità del giovane e del bene che voleva a sua figlia - e mentre si accingeva a dire qualcosa, fu preceduto da Taddeo, il quale, con rassegnata tranquillità chiese : « Cosa dovrei fare ?» « Devi fuggire !» disse, con un grido soffocato, suo padre. « Sì,» confermò Ignazio, « devi sparire fino a che le cose non saranno chiarite» Tacquero ancora. Nella stanza s’udiva, in quell’irreale silenzio, solo il mormorio del piagnisteo di Carmela e le sue litanie alla Madonna della Serra. « Se me ne vado lascio liberi tutti di pensare che possa essere stato io» « Mezzo paese lo pensa già, anche se, fortunatamente, il capitano pare abbia visto giusto. Ma gli spagnoli a chi credi che daranno retta ? Chi ti dice che colui che ha scannato quel povero cristo confessi ? Allora per te diventerà un inferno. Sei ancora in tempo, forse.»


« Ma dove potrei andare ?» « Rifugiati dai Frati del Carmine» suggerì sua madre tra le lacrime. « Perdonatemi, Carmela, ma questa non mi sembra una buona idea. Taddeo dovrebbe allontanarsi da Montalto. Penso, invece, che sia più sicuro se si recasse molto lontano da qui, in Sila o, ancora meglio, a Cosenza. » La madre, alla parola Sila evocò le paure dei briganti, come Bernardone, che terrorizzavano i sogni dei bimbi e dei potenti. « No, in Sila no, per l’amore della Madonna !» si oppose. « Bene, andrò a Cosenza. Lì vive un mio amico, Francesco Zavarroni, che mi ospiterà senz’altro e mi terrà nascosto per il tempo necessario. Mastro Ignazio, io devo dirvi di me e di vostra figlia io...» « Lo so, lo so, ma non c’è tempo. Sbrigati, invece.» Raccolse le sue cose. Intanto i genitori stavano preparandogli un fagotto con i viveri per il viaggio. « Dite a Nina che io sarò sempre con lei, anche se ora devo andare via. Ditele che senza di lei la mia vita è come un sacco vuoto. Ditele di avere fede nell’onestà di quest’uomo, e datele questo. Non lo porterò mai più addosso» disse, consegnando il pesante coltello a serramanico a mastr’Ignazio. Pietro salutò il figlio raccomandandogli di aver cura di Struffia il loro cavallo. La madre proruppe in una scena isterica, tanto che Pietro dovette rinchiuderla in casa. Taddeo ed Ignazio si strinsero la mano. Il giovane partì al galoppo. CAPITOLO SETTIMO


Quando Ignazio s’avviò verso casa, l’ora del coprifuoco era già passata da un pezzo. Fu fermato dalla ronda. Grazie al suo lasciapassare, quale rappresentante del popolo, poté proseguire indisturbato il suo cammino. Nina stava male. La madre e i fratelli sembravano spaventatissimi. Ignazio si avvicinò alla sua bambina e, prese le sue mani per tranquillizzarla, le parlò con dolcezza : « Calmati, Nina, non devi preoccuparti. Non è niente, tutto si chiarirà. Ho visto Taddeo, sta bene e, se Dio vuole, entro domani mattina sarà al sicuro. Guarda... », continuò estraendo dalla tascapane il coltello di lui, « guarda, m’ha detto di dartelo. Mai più, ti promette, mai più ne porterà uno addosso. Ti vuole bene, figlia mia. Ti vuole bene ed è innocente, ne sono più che certo. Calmati, sii forte...» *** La salma di don Romero de Rosa Rubia era composta in uno degli acquartieramenti militari. Alla luce di numerosi lumi, il Capitano Caracciolo, don Basilio ed il Principe discutevano animatamente sulle cause della ferita che aveva lacerato la gola del malcapitato. Sopraggiunsero de Castagneto e fra’ Bernardino. L’aria era pesante, la tensione palpabile. Don Basilio stava riferendo al Principe che don Romero de Rosa Rubia era in possesso di una borsa colma di tarì che non gli era stata più ritrovata addosso e, quindi, ne deduceva, che doveva essere stato


scannato a tradimento da qualcuno per impossessarsene. Il capitano Caracciolo si spazientì : « Sapete bene, don Basilio che questa è una ferita inferta da una spada. Sapete bene che ci sono dei testimoni che affermano di aver visto duellare il morto, alla spada, con un altro cavaliere.» « Sono bugie ! Nient’altro che bugie dette per difendere uno dei paesani, solo un loco vi può prestare fede !» A quelle parole, così offensive e inopportune, la reazione di Caracciolo fu irruenta. « Signore ! Non permetto a nessuno di dubitare della mia sanità mentale ! Me ne darete ragione immediatamente», urlò mentre con la destra era già pronto ad estrarre la spada. Intervenne con altrettanta veemenza il Governatore : « Fermi ! Signori ! Non permetto che accadano di queste cose. Don Basilio fate immediatamente ammenda per l’offesa e voi, Capitano, rinfoderate subito la spada !» L’autorità di Castagneto era fuori discussione. I due divennero mansueti anche se continuarono a guardarsi in cagnesco. Il principe intervenne a sua volta : « Signor de Castagneto, vi renderete conto, spero, che la morte di un caballero non può e non deve restare impunita. Io esigo, in nome del Re, che venga fatta luce prima possibile sulla morte di don Romero e che al colpevole venga comminata la giusta pena!» « Chi sono i testimoni ?» chiese il Governatore al Caracciolo, ignorando del tutto il principe.


« In tre m’han detto la stessa cosa. Sono Lucrezia la Greca, una delle sue donne che di nome fa Carmenia Chiappetta ed infine il fabbro.» « Bene. Mandate subito una pattuglia a prelevarli e conduceteli immediatamente qui, li interrogheremo separatamente e sotto giuramento. Voi Frate Bernardino, restate qui.» Il Capitano diede gli ordini al capoposto. Il principe, irritato dall’atteggiamento di Castagneto, proruppe in una sequela di frasi mormorate, che alla fine ebbero l’effetto di far aumentare il malanimo del governatore nei suoi confronti. « Chiss’ è nu paijise senz’ordine, è na munnezza ! Valgame de Dios ! Un hombre senza juicio cummanna nu paijse e senza capo ! E don Romero viene accisu de nu piezz’e mmerda e issu chiama li testimoni ! Aviss’e ffa venì a fine do munno, altro che chiammà li testimoni !» L’irritazione del governatore era al culmine. Ciò malgrado con calma gelida disse al principe :« Tra breve identificheremo il secondo duellante e vedremo come si metteranno le cose. Principe, usatemi il garbo di dire a tutti i vostri cavalieri di raggiungerci nel corpo di guardia» e, così dicendo, senza attendere risposta, fece cenno a fra’ Bernardino ed al Capitano di seguirlo. *** Annesso al corpo di guardia vi era un salone enorme, con un grande tavolo al centro e delle panche ove gli uomini del cambio riposavano, giocavano a dadi o si rifocillavano. All’arrivo del governatore, il Capitano impartì secche disposizioni per cui tutto fu messo in


ordine immediatamente ed una sedia più comoda fu portata per de Castagneto. I muri erano anneriti da anni di fumo di torce e fuliggine ; il pavimento era sterrato. Dal soffitto pendeva una ruota con venti steariche spente, che uno dei soldati si affrettò a riaccendere. La maggior luce rese il posto ancora più lugubre. Lunghe ombre ora si stagliavano sulle pareti senza finestre, facendo assumere al luogo un aspetto di spelonca infernale. Don Bernardino s’affiancò al Governatore mentre questi ordinava al capitano Caracciolo di non introdurre i testimoni fino a quando lui stesso non glielo avesse chiesto. Entrarono il principe e gli uomini della sua scorta. Il governatore notò che Basilio aveva sciolto i capelli e s’era cambiato d’abito. I cavalieri aspettarono invano il permesso di sedersi. « Signor Principe, Signori Cavalieri», esordì il Barone, « il momento è grave. Stanno per essere introdotti in questa stanza dei testimoni che, forse saranno in grado di riconoscere chi tra voi ha duellato con don Romero, uccidendolo». De Castagneto ignorò il brusìo di protesta e prosegui : « Nel caso don Romero non sia rimasto ucciso in duello, io chiedo a ciascuno di voi di giurare sul santo nome di Cristo la propria innocenza ! » Fra Bernardino si recò presso il primo dei Caballeros e lo invitò a giurare. Costui, un truce individuo dal naso adunco e dalla barba folta si ritrasse indignato e, con lo sguardo domandò al principe il da farsi. Ottenuto il consenso giurò senza più esitare : « Nostro Signore Gesù Cristo è mio testimone : io nulla ebbi a che fare con la morte


di don Romero. Ch’io sia dannato in eterno se ciò che ho appena affermato è menzogna !» Il frate raggiunse don Basilio. Dall’esterno giunsero voci stridule di donne e fischi della soldataglia. La Greca imprecava ad alta voce : « Io non c’entro ! Che diavolo vi è preso ? Cosa volete da me ? Vi venga la peste, maledetti !» « Fateli smettere !» ordinò il governatore. Sul volto di don Alvarez si disegnò uno strano sorriso. Rassicurò con lo sguardo Basilio il quale, come tutti gli altri cavalieri che lo seguirono, non esitò a ripetere la formula del giuramento che fra’ Bernardino suggeriva. “ Che brutta frittata” pensò il governatore. Poi risoluto ordinò che fosse fatto entrare il fabbro. Questi entrando si tolse il cappello e non si preoccupò di nascondere l’enorme paura che lo sovrastava completamente : « Bacio le mani a vussuria, Signor Barone, e a voi tutti Nobili Pirsùni. Jiu un c’intru ppi nenti in chiddru chi succidìa !» « Tacete, e rispondete solo alla domande che il Barone si degnerà di farvi» intimò al poveruomo il capitano. Il terrore negli occhi del vecchio aumentava sempre più. « Il capitano Caracciolo mi ha riferito che tu hai visto quel che è accaduto alla quarta porta. Ora raccontalo a me.» L’uomo esitò e con lo sguardo basso sbirciava il volto degli spagnoli. Incrociò per un momento gli occhi di Basilio e se ne sentì fulminato. La paura gli paralizzava la lingua. De Castagneto, spazientito gli urlò di ripetere ciò che aveva visto. L’uomo si decise a dir qualcosa :


« Mi pirdunàssa Ccillenza, ma iju sugnu viecchiu. Haju vistu dui ca facìànu a lutta ccu ri spati e ppue unu è muortu.» Fra Bernardino ripetè in spagnolo la dichiarazione del fabbro in modo che fosse chiara per tutti. « E, sapresti riconoscere, in questa stanza, l’uomo che “ha vinto la lotta” ?» incalzò il governatore. « Gnurnò, nun l’haju vistu bbuonu intr’a faccia, era scuru» « Ma, se come dici, era buio, come fai a dire che l’altro era un cavaliere ? » « Perché li surdati ‘i canusciu e a Muntavutu nuddru tena ra spata» « Lo sai che ti aspetta se hai dichiarato il falso ?» « Diucinilibri ! Dissi ra virità ! Supra l’anima da bonanima di mamma !» Il Principe e don Basilio risero sguaiatamente. Il governatore ordinò al capitano di trattenere il vecchio e di introdurre Carmenia Chiappetta. La giovane entrò nello stanzone ostentando sicumera. « Donna ! Ripeti al signor Governatore quello che mi hai detto due ore fa’.» le disse il capitano. La ragazza, prima di rispondere si compiacque nel cercare gli occhi dei caballeros ch’erano stati suoi clienti nel pomeriggio e li gratificò d’un sorriso complice. « Gnorsì», rispose. « I nobili napoletani erano stati all’osteria nel pomeriggio. Verso l’imbrunire, dopo aver mangiato “a quadareddra” si sono allontanati e ci hanno pagate bene. Due di loro sono venuti a parole, proprio davanti all’osteria, non ho capito per che cosa, che parlavano strano, però erano molto arrabbiati. Io stavo scopando davanti alla porta e quando sono


arrivati alla cavareddra li ho sentiti urlare e poi li ho visti prendere le spade e cominciare a darsele di santa ragione. Sulle prime mi sono spaventata, perché ubriachi com’erano sbattevano dappertutto, poi si sono battuti con tanta eleganza che ho chiamato Lucrezia, la padrona, a venire a vedere lo spettacolo. Sembrava che ballassero. La storia è andata avanti per un po’ - io e Lucrezia - pensavamo quasi che fosse un gioco. Poi ad un certo punto quello più grosso ha cominciato a menare tali colpi che l’altro ha perso la spada ed è caduto lungo lungo a terra. Allora Diucinilibri ! quello più grosso si è avventato e ha tirato un colpo di taglio alla gola di quello ch’era caduto. Quanto sangue Madonna mia !» « Quello “più grosso” è presente in questa stanza ?» La ragazza capì in quale inghippo stava per cacciarsi e fu sopraffatta da una improvvisa paura. Guardò tutti i presenti e poi con un filo di voce rispose « Non so dirlo. Mi pare di no.» Don Castagneto perse la pazienza. « Guarda che non ti è consentito di mentire ! Se non ritrovi la memoria ti faccio sbattere nelle prigioni del castello fino a che la ritrovi... Come puoi dire di non essere in grado di riconoscere l’uccisore dopo aver dichiarato che i duellanti erano parte della compagnia ch’era stata da voi l’intero pomeriggio ? Credi proprio di parlare ad uno scemo ? Allora, peccerè... vediamo di arrivare al dunque. Quali di questi signori ha duellato col morto ?» « Nessuno di loro», rispose la giovine. «Non mi pare che in questa stanza ci sia quello che ho visto io. » Caracciolo non poté far a meno di notare l’espressione di trionfo sui volti di don Basilio e del Principe. E il


sorriso di compiacimento che Carmenia Chiappetta elargiva a don Basilio. “Brutta puttana !” pensò. Fu introdotta Lucrezia. Scarmigliata e affannata, alla fioca luce delle steariche e delle torce appariva bella come non mai. Tutti gli uomini presenti in quella stanza, compreso il frate, scoprirono di desiderarla. Per qualche istante regnò il silenzio. La Greca, conscia fino in fondo dello scompiglio che aveva creato gongolava fra sé di piacere. Poi inchiodò lo sguardo negli occhi di Basilio, nei quali lesse un poderoso desiderio e nessuna paura. Fra Bernardino si sentì in dovere di rompere gli indugi e, avvicinatosi alla donna le ricordò che mentire, in quella circostanza, le sarebbe costato la lingua ed il carcere. Lucrezia resse la scena con una risposta degna della sua innata fierezza : « Fra’ Bernà, vedete di non mentire voi. In quanto a me non ho mai avuto paura né peli sulla lingua». Quella frase provocò l’inopinata ilarità dei caballeros che vi colsero un disgraziato doppio senso. « Sai perché sei qui ? » le chiese il governatore. « Nossignore, nessuno me l’ha detto, Vostr’eccellenza. Però immagino che si tratti della morte del napoletano. Non è così ?» « E’ proprio così» affermò il governatore, divertito dalla prontezza di quella bellissima donna. « Puoi raccontare, dunque, quello che hai visto con i tuoi occhi ?» « E che ? Non vi ha già detto tutto Carmenia ? Eravamo insieme...» “ Ancora una domanda in risposta ad una domanda” pensò ammirato il capitano.


« Basta !» inveì de Castagneto « Non ti permetto questi giochetti ! Qui non siamo nella tua osteria ! Limitati a rispondere a tono» « Vossignoria mi perdoni, io sono fatta così, vi chiedo perdono. Sì, ecco, le cose si sono svolte in questo modo. Quel signore dai capelli lunghi che si trova vicino a voi, che se ho capito bene si chiama Basilio, già nell’osteria aveva cominciato a litigare con l’altro cavaliere che poi è stato ucciso» Si levò un mormorìo subito zittito dal governatore. « Vai avanti !» « Sì, Eccellenza. Si erano messi a litigare a causa mia. Il signor Basilio se l’era presa col signore ch’è morto perché questi aveva celiato sulla sua resistenza... ehm... nel fare all’amore. Erano tutt’e due ubriachi, ma l’alterco finì presto. Il signor Basilio lasciò l’osteria prima degli altri. Poi, quello ch’è morto si diresse dal fabbro per ritirare i cavalli della comitiva. Ero rientrata per riordinare quando, dopo un po’ di tempo fui chiamata da Carmenia perché si stavano battendo alla spada. Era un bello spettacolo a vedersi. Sembrava stessero giocando. Erano molto eleganti nei movimenti. Poi, quello più robusto.. » « Dimmi se riconosci l’uccisore fra le persone presenti in questa stanza.» Lucrezia esitò e deglutì a vuoto. La sua espressione si fece estremamente seria. Osservò con attenzione tutti i presenti, poi disse : « Sapete una cosa, Eccellenza ? posso giurarvi che l’altro duellante non era nessuno dei cavalieri qui presenti. Si trattava certamente di un nobiluomo avreste dovuto vedere con quale maestria maneggiava la sua arma - ma non è fra questi, ora lo so. Ne posso


dirvi di averlo mai visto prima. Era l’imbrunire, quindi la faccia non l’ho vista proprio bene, ma il corpo saprei riconoscerlo ad occhi chiusi. Era alto una canna ed aveva le spalle tanto larghe come non se ne vedono da queste parti.» « E così», concluse il governatore, « una sola cosa pare sia certa, e cioè che vi sia stato un duello. Bene capitano, fate accompagnare a casa loro i testimoni. Voi signori per il momento potete ritirarvi. » *** « Smettiamo questa buffonata ! Barone ! Credete davvero a questa congiura ? E la borsa dei quattrini ? Di quale nobiluomo vanno cianciando i suoi paesani ?» « Fino a prova contraria, questi sono i fatti» « Un corno ! Permettete che io e i miei uomini indaghiamo per conto nostro su questi fatti. La morte di don Romero deve trovar giustizia !» « E’ vostro diritto, principe, trovar le prove del contrario. Quindi indagate pure. Poi, però mi riferirete ogni cosa appurata, prima di prendere qualsiasi iniziativa. Ah, inoltre abbiate la bontà di riferirmi come mai gli altri cavalieri non sono intervenuti in difesa del loro sfortunato compagno, visto ch’era venuto a diverbio con uno sconosciuto...» lasciò la frase a metà, tanto per tenere sul chi vive il suo interlocutore. « Benissimo. Col Vostro permesso, Governatore, ora vado a riposarmi. Entro domani avrete tutte le risposte.» « Buona notte, don Alvarez.» Castagneto era soddisfatto. « Buona notte, governatore.»


CAPITOLO OTTAVO Don Alvarez e i suoi quella notte dormirono pochissimo. Durante la maggior parte del tempo prepararono un piano d’azione per l’indomani. Basilio fu incaricato di prelevare il frate dal suo giaciglio e portarlo al cospetto del principe con discrezione. « Fra’ Bernardino, perdonatemi se vi ho fatto svegliare, ma come immaginate il momento richiede azione ed io ho bisogno del vostro aiuto.» « Ai vostri comandi Signor Principe, per quello che posso indegnamente servirvi. » Il monaco era lusingato della considerazione che dimostrava per lui un personaggio di così alto lignaggio : il cugino del Re di Spagna ! In disgrazia d’accordo, ma di sangue reale ! « Quale dei nobiluomini montaltesi potrebbe corrispondere alla descrizione di quella sgualdrina ?» « Nessuno, mio signore» rispose il frate senza esitare. « Maledizione ! Non saremo mica d’avanti ad un fantasma o ad un bandito ?» « Io», azzardò il frate, « io un’idea me la sarei anche fatta....» « Ebbene ? cosa aspettate ad esporla ?» « Delle due una : o è stato un altro dei vostri cavalieri che quelle maledette meretrici hanno deciso di proteggere... il che ovviamente ! non è vero, o è stato qualcun altro, uno del paese intendo, che quelle pessime donne ed il fabbro proteggono per amore o per paura. E quindi, in questo caso, i fatti si sono svolti in modo diverso da quanto ci è stato riferito. Io penso che le cose siano andate così :


Don Basilio dopo il diverbio con don Romero, irritato ha lasciato l’osteria, si è recato dal fabbro, ha ritirato la sua cavalcatura ed è tornato al castello...» « Proprio così !» interruppe Basilio. « Bene,» proseguì il frate, ignorando l’interruzione. « Don Romero e il suo compagno sono venuti a paroloni mentre uscivano, così come ha riferito Carmenia, ma poi, solo don Romero si è recato dal fabbro a ritirare tutti i cavalli degli amici, mentre l’altro deve essere tornato nell’osteria a bere il bicchiere della staffa con gli altri... - il vino di Cozzo Cervello è pesante e gioca brutti scherzi a chi esagera, specialmente se non è abituato - e ha aspettato che Romero tornasse, senza avere, come gli altri nessuna cognizione precisa del tempo trascorso. Nei pressi della cavareddra, don Romero è stato affrontato dal nobiluomo misterioso, che ha agganciato con lui un duello, traendo un enorme vantaggio dal fatto ch’egli fosse ubbriaco... Il resto lo sappiamo.» « Sanrge y muerte ! Sappiamo un accidenti che ti spacchi, frate logorroico !» « Vi prego, mio principe, solo un momento di pazienza. Ascoltate la mia ipotesi : le donne hanno sicuramente mentito a proposito dell’aggressore. Hanno voluto portarci fuori pista. Il vecchio fabbro ci vede poco, quindi parla sì di spade ma - lui era il più vicino alla scena - ricordate ? “Haju vistu dui ca facìànu a lutta ccu ri spati e ppue unu è muortu.” Due che facevano la lotta e poi uno è morto ! Altro che duello, altro che spadaccini eleganti. Signori qui si tratta di una vera aggressione, d’un orrendo omicidio ai danni d’un uomo debole perché completamente ubriaco....


Per dimostrare questa tesi dobbiamo trovare, il motivo, l’arma del delitto e l’assassino. Ma mi sono fatto una certa idea che starà a voi dimostrare se è vera... il capitano crede alle puttane e non caverà un ragno dal buco...» Fra Bernardino si versò un boccale d’acqua e come al solito nel bere s’inondò il saio. Il principe era affascinato dalla logica del religioso, quindi attese con pazienza che riordinasse le idee e riprendesse a parlare. « ... Cerchiamo il motivo... la borsa con i tarì sarebbe già un ottimo motivo, ma il povero don Romero secondo me non è stato assalito da un grassatore... il motivo ... il motivo è la gelosia... una strana gelosia come vedremo... L’arma del delitto non è una spada come tutti credono, ma una lama lunga per scuoiare i vaccini, di quelle che usano... i macellai - avete notato spero che il taglio della gola del povero don Rosa Rubia è netto e senza ecchimosi sui bordi della ferità ? - Se sono vere le due ipotesi precedenti allora l’assassino non può che essere Taddeo Polimena !» « Qui es esto hombre ?» Il principe diventò improvvisamente impaziente. Vere o non vere, le ipotesi del frate erano affascinanti e logiche. « E’ , appunto, un macellaio. Ed è il più assiduo frequentatore della Greca ». « Vuestra suposicion es una burla, padre ! Non regge... Lucrezia es solo una puta. No se puede pensar de matar un hombre per gelosia de una puta ! Valgame de Dios !» « Sia benedetto il nome di Dio, cavaliere ! Si può, quando questa è Lucrezia la greca. Non sarebbe il


primo morto per causa sua, ve lo assicuro. Quel ragazzo deve aver perso la testa...» « Ma Rosa Rubia non era stato con la greca. Solo io e per l’intero pomeriggio sono stato con lei» « Cristo perdoni questo vostro terribile peccato, don Basilio... Non ha importanza. Lui doveva punire qualcuno, saldare un conto, avere la soddisfazione della vendetta, prendersi la rivincita. Non importava, avrebbe potuto benissimo matar a usted o qualunque altro dei vostri compagni... Come dicevo, le mie sono solo ipotesi. Questa mattina voi potreste trovare la conferma alle mie, chiamiamole così, supposizioni. Ah, dimenticavo, il giovane Polimena odia istintivamente gli stranieri. Ha già ferito due soldati della guarnigione, in passato, per futili motivi...» Il principe aveva ascoltato e valutato le ipotesi del frate. Ne era rimasto soddisfatto. Fra qualche ora avrebbe consegnato il colpevole al governatore e, perché no ? avrebbe fatto strappar la lingua alle due puttane. « Grazie, fra’ Bernardino. Le vostre indicazioni sono state veramente preziose. Dirò a Fra’ Valerio di tenervi nella massima considerazione nella lotta ai luterani che presto scateneremo.» Il frate era al settimo cielo. Trascinò la sua pesante pancia fino nella sua cella e si riaddormentò soddisfatto. *** Porzia fu la prima ad arrivare al castello. Quella mattina si era scatenata una pioggia battente gelida.


Era fradicia. Ismene aveva acceso un bel fuoco e le fece cenno di avvicinarsi al camino. Fuori si sentì il raglio d’un asino. Riaprirono la porta. Pietro Polimena, bagnato dalla testa ai piedi, s’affrettò a scaricare dal carretto il quarto di bue e, con sforzo evidente, lo depose sulla grande tavola. Con l’aiuto delle donne lo appese al gancio che pendeva dal soffitto. Poi, anche lui si avvicinò al camino per asciugarsi. Ismene gli chiese come mai non fosse venuto Taddeo. L’uomo non rispose e tornò fuori per ricoverare asino e carretto nella stalla. Nel frattempo sopraggiunsero, coperte da grandi scialli, Nina e Maria. Nell’aria il disagio era grande. Nessuno, al di là dei saluti, profferì parola. Nina era in un più che evidente stato di abbattimento, pallidissima, con gli occhi gonfi e rossi. Rientrò Pietro e cominciò a tagliare a pezzi la carne, secondo le indicazioni di Ismene. « Che brutta disgrazia» si lamentò Ismene e proseguì « Che brutta disgrazia ! Non ci voleva proprio ‘sto fatto del morto. Ieri sera qui c’è stato un via vai incredibile. Hanno portato dal governatore u furgiaru53, la Greca e la sua degna compagna Carmènia. Come urlavano quelle puttane...». Pietro e Nina si fecero attenti. La vecchia proseguì « E’ stato qui quel brutto ceffo di don Basilio. Cercava Taddeo. Mastro Pietro, mi ha detto di chiamarlo quando fosse arrivato.» Pietro sentì il calore improvviso promanargli dal petto e il sudore su tutto il corpo che lo gelò. Senza dire un parola si avvicinò nuovamente al fuoco, presso Nina che era indaffarata a far bollire il latte. «


Taddeo non è a Montalto», disse in un sussurro, facendo sì che Nina intendesse. «Come avete detto, mastro Pietro ? » chiese Ismene. « Ho detto che Taddeo starà via per qualche tempo. E’ fuori Montalto per acquisto di vaccini» La vecchia tacque. Nina respirava affannosamente. Guardò negli occhi Pietro e vi lesse la sua stessa tristezza. CAPITOLO NONO Docici frati intonarono il Dies Irae. Il Parroco, con gli ampi paramenti viola avanzò verso la bara per aspergerla con l’acqua benedetta. La messa funebre per il povero Rosa Rubia stava concludendosi. Il Governatore ed il Principe sedevano su alti scanni posti a lato sinistro dell’altar maggiore. Cristina e sua Madre, velate occupavano due posti sul lato destro. Attorno alla bara facevano corona otto dei nove cavalieri rimasti, vestiti di nero, coll’ampio manto dello stesso colore che ne ricopriva l’intera persona. Il gonfiore sul lato sinistro di ciascuno di loro era rappresentato dalla mano che cingeva l’elsa della spada. Il nono, don Felipe Garcia y Castro era stato inviato a Cosenza di buon ora perché riferisse la notizia dell’omicidio al rappresentante del Re di Napoli e all’Arcivescovo. Il “tavùtu54” era ricoperto da un drappo rosso su cui era stato ricamato un fiore bianco. Duilio De Ceci, che con gli altri nobiluomini di Montalto sedeva su sedie impagliate poste nella navata sinistra,


non potè far a meno di notare l’incongruenza “Non era del casato della Rosa Rossa ?” pensò. Nella navata di fronte, i gli Onest’huomini sedevano su una panca. Tra essi Mastr’Ignazio Spatafora, dal volto serrato in un morso a vuoto che, oltre a fargli ballare i denti gli conferiva un’espressione truce. Fra Bernardino Alimena, in piedi presso i fonte battesimale di pietra nera, non partecipava al canto che i suoi confratelli nel coro avevano appena iniziato “Libera me Domine de morte aeterna”. Nella sua mente poche parole ronzavano fino a farlo star male “si sta perdendo tempo” . Nell’enorme chiesa, echeggiava lo stonato salmodiare dei frati, perdendosi nel vuoto assoluto. A nessun altro montaltese, infatti, era stato concesso di assistere al rito funebre. All’esterno del Tempio, ai piedi della gradinata semicircolare che sembrava volesse cingere in un abbraccio l’intera piazza, un disadorno carro nero con due cavalli era in attesa di condurre Rosa Rubia alla sua ultima dimora, il cimitero che, alla fine dell’erta, era annesso al Santuario di Santa Maria della Serra. Ai piedi della gradinata s’era radunata una folla. Altra gente sostava ai margini dell’erta che menava alla Serra, in attesa di veder passare il corteo. Il sole di quello strano gennaio rendeva molle la terra e l’umidità che da essa scaturiva per il ghiaccio disciolto penetrava nelle ossa . Ad un iniziale brusio si sostituì il silenzio totale quando furono aperte le tende funebri e il grande portone fu dischiuso per dar varco a quattro Cavalieri che recavano a spalla il loro amico fino al carro funebre.


Pietro Polimena e sua moglie Carmenia oservarono la scena dal balcone di casa loro. Alla vista delle lunghe spade che i cavalieri portavano alla cintola la donna fu presa dal panico e rientrò piangente in casa. Sull’uscio della sua bottega, la Greca salì su uno sgabello per osservare la scena, mentre le altre sue compagne erano dietro i vetri della finestra del primo piano. Giacomo Quatro, il norcino amico dei Polimena fece un cenno a Pietro intanto riapparso sul balcone. Fu un veloce sguardo di reciproca solidarietà. Finalmente stava per formarsi il corteo. Fra Bernardino sgambettò in direzione del parroco, gli aprì i lembi del mantello in modo da dargli aggio di camminare senza sporcare di fango i paramenti sacri. Si avviarono. La piazza fu percorsa da un brivido che, come un serpente tra gli sterpi, giunse fino al Governatore : due uomini a cavallo, procedevano al galoppo dalla Manca urlando : “ Currìti, currìti... avìmu truvatu n’atru muot’ammazzatu ! Curriti, curriti55...” Il più giovane dei due spronò il cavallo facendosi largo tra la gente e fermandosi solo davanti al Capitano Caracciolo. Smontò da sella rapidissimo, mentre le volute di fiato condensato e l’evaporazione della schiuma sul dorso della bestia esausta si distinguevano da lunga distanza. “Vussurìa mi pirdunassa, gnur Capità... amu truvatu nu muort’ ammazzatu... dopp’a curva da’ Madonna da Grazzia56” Il Corteo, appena partito, fu bloccato per ordine di de Castagneto. Nessuno osò muoversi o parlare mentre il Governatore s’avvicinò al nuovo arrrivato.


Contemporaneamente, anche il secondo uomo smontò di sella lasciando le redini della sua stremata cavalcatura nelle mani di un astante. Si inchinò al cospetto del Governatore, scoprendosi il capo. “Vuccillenza binidicissa e pirdunassa, ma... lu fattu è bruttu57”. Si levò un mormorio tra la gente poiché erano sopraggiunti anche i soldati dal fondo della piazza che provvidero rapidamente ad allontanare i curiosi a debita distanza. Frà Bernardino s’avvicinò al Governatore mentre questi esortava i due a spiegarsi. Presero a parlare insieme. Intervenne il frate toccandoli più volte Affinchè la smettesero di sovrapporre le loro voci e parlassero uno alla volta. Finalmente il maggiore potè riferire più chiaramente di aver assistito ad uno scontro fra due cavalieri, giù tra “a Madonna da’ Grazzia” e “ru curvuni prima da scisa58”. Uno dei due era molto alto, robusto e con una faccia che faceva paura. L’altro, vestito di nero come i cavalieri presenti, pur essendo più piccolo era riuscito a ferire quasi subito il primo “ccu ra spata ‘ntra nu vrazzu59”, disarmandolo. Ma quest’ultimo una volta rialzatosi, malgrado il cavaliere in nero lo incalzasse aveva estratto dalla cintola due pistole e, sparando, aveva ucciso sia il cavallo che il cavaliere. Durante il racconto l’uomo gesticolava ampiamente e, per farlo meglio si era rimesso il cappello. Il principe e Don Basilio fremettero per ciò ch’era capitato certamente a Don Felipe Garcia sulla strada per Cosenza. Castagneto ordinò al capitano di far condurre i due al castello.


Tre soldati, armati di tutto punto, pistole comprese, scortarono don Basilio, il Capitano e fra’ Bernardino in partenza verso il luogo del delitto. Partirono al galoppo sollevando fango che inzaccherò alcuni dei presenti. Altri due, con un carro trainato da buoi, presero la stessa strada. Il rito fu concluso rapidamente. Il Principe e la famiglia del Governatore, scortati dai cavalieri e dai soldati della guarnigione risalirono la silica della quarta porta e rientrarono al castello. La notizia del secondo omicidio si diffuse rapidamente, il mormorio diventò fragore. I soldati rimasti dispersero le persone intimando loro di sciogliere ogni assembramento e di rientrare immediatamente ciascuno a casa propria. Dalla Cavareddra, un quarto d’ora dopo, quattro soldati attraversarono la piazza deserta e prelevarono Pietro Polimena e sua moglie dalla loro casa per portarli al castello. Un’ora più tardi il banditore fece rullare il tamburo e diede fiato al corno per annunciare, in ogni fuoco60, il nuovo ordine del Governatore : “ che si acchiappasse e si conducesse al Castello senza frappore freno alcuno, lo bandito Taddeo Polimena, unico figlio de lo chianchijere61 Pietro Polimena e de la sua donna Carmenia. A li bravi et honesti cittadini che avessero da dare notizie sicure per l’acchiappamento de lo fuggiasco saranno consegnate tre monete de oro zecchino da l’Eminentissimo Principe Don Alvarez de San Jago e trentacinque tarì de la Comunità de Montalto.


Sintìti, sintìti sintìti... Sicuramente severissima et justa pena sarà rogata a quelli che ospiteranno o ajuteranno Taddeo Polimena ovvero a queli che doppu chissu bannu62 daranno cibo, sordi o midicamienti ovverusìa altro conforto all’assassino de li due nobilissimi cavalieri.” L’indomani lo stesso bando fu emesso a Cosenza, Rende, San Sisto, Paola e Fuscaldo. Due giorni dopo Taddeo fu catturato dai soldati spagnoli, per essere stato venduto dal suo amico Zavarroni, e rinchiuso nelle carceri del castello di Cosenza. Dinanzi al Vescovo e al capitano spagnolo urlò d’esser un bravo figlio, di non aver mai ammazzato nessuno, e soprattutto, di non aver mai avuto fra le mani una pistola, di non esere un grassatore, di essere fuggito per paura dei danni provocati dalle chiacchiere, non dal rimorso per aver ucciso nessuno. Lo legarono per le mani e per i piedi ad un ceppo che lo costringeva a stare curvo o seduto, mai in posizione eretta. Chiusero a chiave l’uscio di quella fetida prigione e non si curarono dell’urlo disumano uscito dalla gola del giovane prima che, esausto svenisse rovinando a terra. **** Nina decise di combattere per l’uomo cui s’era promessa. Se avesse mai nutrito anche il più piccolo dubbio nell’innocenza di Taddeo, oggi questo sarebbe stato fugato dall’assurda accusa di aver usato contro il secondo cavaliere delle armi da fuoco. Era come


morta, ma decise di reagire, avrebbe ricordato a donna Cristina la sua promessa di amicizia confidandole i suoi dolori e chiedendole di intercedere per Taddeo presso il Governatore. Meglio, le avrebbe scritto, con calma e riflessione, di ciò che le stava a cuore al punto di non riuscire più a pensare al futuro se non prefigurandeselo come un’atroce maledizione, un’immensa pena da scontare per il fatto di essere la donna di un innocente ingiustamente imprigionato. Avrebbe implorato suo padre, Mastr’Ignazio, rappresentante del popolo di far sentire la sua voce al consiglio di giustizia. Avrebbe pregato ininterrotamente, fino a quando tutti i santi del cielo avessero deciso di esaudire la sua preghiera. Avrebbe sofferto le stesse pene di Taddeo, perché era con lui ogni momento della sua giornata, legata alla stessa catena, torturata dagli stessi pidocchi. Lucrezia decise di capire e si recò al Castello per chiedere udienza a Basilio o al Governatore se fosse stato necessario. Carmenia dopo due giorni morì di crepacuore. Ignazio e la sua famiglia furono vicini e solidali con Nina che assistette il povero Pietro Polimena, il quale annietato dal dolore e dalla vergogna, dopo la seconda disgrazia fu, a sua volta, colto da malore restando col braccio e la gamba destra paralizzati, la bocca storta e fuor di coscienza fino alla morte, che sopraggiunse il quattro di febbraio.


Giacomo Quatro corruppe il carceriere di Cosenza con un fagotto di salami e potè finalmente vedere Taddeo. Era il 22 febbraio. Fu condotto nella lunga cella sotterranea, stretta e fetida, e non fu in grado di riconoscere il suo amico subito. Ne Taddeo era in grado di riconoscere lui, poiché i capelli gli ricoprivano gli occhi ed i pidocchi gli divoravano le sopracciglia e i baffi e, ormai, sollevare le mani fino al volto era un dolore ancora più insopportabile del primo. Quindi Taddeo era come cieco, non osava aprire più gli occhi. A furia d’urlare per la paura e il dolore aveva pressochè perduto la voce. Era letteralmente immerso nei propri escrementi. Quando Giacomo associò la vista di quella larva infreddolita con la possanza che solo qualche settimana prima contraddistingueva il suo giovane amico, bestemmiò e pianse. Lo abbracciò, sussurrandogli soltanto “coraggio, non arrenderti” ma non ebbe la forza di raccontargli dei suoi genitori. Pregò il carceriere di procurare un po’ d’acqua calda e qualche cencio pulito, in cambio di un maiale che, parola d’onore, gli avrebbe portato prima di sera, quant’è vero Dio. L’uomo non si fece pregare più di tanto. Giacomo lavò e pettinò il prigioniero. Con un coltello affilatissimo gli regolò la barba, nel frattempo cresciuta molto folta, e i baffi. Come Dio volle riuscì a levargli di dosso i putridi pantaloni e la maleodorante maglia e a sostituirli con gli altri, avuti dal carceriere. Ripulì per quanto potè il pavimento e pregò il suo amico di restare ancora in quella dolorosissima posizione : il tempo necessario per raccoglire un po’ di paglia meno


lurida in giro, per preparargli un pagliericcio decente. I polsi e le caviglie erano ridotti a quattro piaghe profonde. Giacomo lo aiutò a sedersi e, piangendo di rabbia disse al carceriere che in quel modo non si poteva trattare nemmeno Belzebul in persona. Il manigoldo, confidando in una più cospicua promessa di Giacomo, finì per allungare le catene di Taddeo di quel tanto che gli consentissero di alzarsi completamente in piedi, defecare ad un estremo e rincattucciarsi nell’altro. Questo, subito, costò a Giacomo il prezioso coltello da norcino che l’avido carceriere pretese per il favore. Prima che Giacomo fosse costretto ad uscire, Taddeo gli chiese, con un filo di voce : “Dimmi dei miei, dimmi di Nina” Giacomo esitò. “Dimmi....” “Sono morti. I tuoi sono morti. Nina è stata con loro sino alla fine, ma non ha potuto far nulla, come del resto il cerusico. Lei sta bene, ma non lavora più al castello, anche se va spesso a trovare la Baronessina” “Maledetti spagnoli, maledetto paese... !” il resto fu ingoiato, con le lacrime che la disperazione gli faceva sgorgare dall’anima.


(NOTE)

1

Località ove, cent’anni più tardi sarebbero sorti la Chiesa ed il convento del Carmine. 2 Abitava nel quartiere degli Oltramontani : era una Valdese. Oltramontana : che viene da oltre i monti. I valdesi provenivano dal Piemonte. La loro lingua era il provenzale. Si esprimevano quasi tutti correttamente nel dialetto del luogo. 3 Strega 4 Ripostiglio annesso alla grande cucina ove si accumulavano le ceneri che le lavandaie usavano per il bucato. 5 Spiazzo, cortile. 6 Guardia Lombarda, oggi Guardia Piemontese, presso Fuscaldo, sul Tirreno, Possedimento degli Spinelli, era abitata da tempo immemorabile dai seguaci di Valdo provenienti dalle valli Piemontesi. 7 Versi di Panfilo Sasso (1455-1527) 8 Si trattava del 91° sonetto del Canzoniere del Petrarca 9 Aveva tagliato la faccia 10 le vie che s’inerpicavano verso il castello 11 Impalcatura appositamente issata per dissanguare il maiale. 12 Mele = Miele ; Cùpulu = Arnia : Miele d’api 13 Mel’i ficu = sciroppo di fichi, denso e dolcissimo, come il miele. Non marmellata, una specie di “vincotto”. 14 Gnura = Signora 15 biondi 16 Lagane = tagliatelle. La lagana e la sfoglia di pasta che si prepara per ottenerle. Il mattarello veniva detto laganatùru. 17 «Mamma, il Fraticello m’ha guarita !» 18 Il Gelso della Madonna. Così è detto il quartiere al confine con la Cananea, a quei tempo ghetto degli ebrei. (Tra le odierne via Pietralta Foscarini e la Piazza Vecchia) 19 il Borgo Piano del Duca. 20 Barba : Predicatore, Pastore. Da “barbanus”, lo zio materno. Indica nei dialetti dell’Italia settentrionale una persona anziana e degna di rispetto. Nella sua forma abbreviata “bar” (bar Maffè=


barba Maffeo) veniva usata nei dialetti valdesi. Da barba derivò barbetto, il soprannome dato ai valdesi a partire dalla metà del cinquecento, che diventò nei secoli successivi sinonimo di ribelle, bandito. 21 Madamigella 22 Spalliere di legno intarsiato. 23 erco= strafalcione maccheronico. Sta per ergo, quindi. 24 muratore 25 Dulcis in fundo 26 Furboni 27 Summastro = mastro liutaio (anche : artigiano in genere) 28 Parte del sonetto 311 del Canzoniere di Francesco Petrarca. Nina sottace le ultime due strofe perché tristi. 29 Per Giove Pluvio 30 brocca 31 “andiamo, Basilio, non sognare... vediamo di fare in fretta, mi sto annoiando. Rapido !” 32 Da un manoscritto di Panfilio Mollo. 33 Generale delle truppe di Carlo I° d’Angiò 34 Anche la valdese Porzia frequentava la chiesa cattolica, anche se per necessità di dissimulare la sua fede diversa. Rispetto ai cattolici, i valdesi di Montalto ostentavano quanto avevano in comune e dissimulavano cautamente quanto avevano di diverso. Frequentavano le chiese, lasciavano battezzare i figli dai preti cattolici... (Historia haereticorum et haeresum.) 35 Una credenza massiccia contenente il materiale più deperibile veniva lasciata all’aperto, allo scopo di conservarlo. 36 gelatina 37 Salvatorino figlio di Ida 38 Entra che fa freddo 39 la signora del maestro 40 La Madonna t’accompagni. Augurio fuori luogo, fatto quasi per provocare l’oltramontana che, a detta di fra’ Bernardino, non ne riconosceva la divinità. 41 Accidenti ! 42 grembiule 43 Madre di Dio ! Ragazza, tu sei una tempesta ! 44 Camerlengo : era detto così dalle comunità valdesi di Montalto il Capo riconosciuto del Territorio che comprendeva S Vincenzo, Sansisto, Montalto e Vaccarizzo, ove risiedeva.


45

Fra’ Valerio Malvicino, domenicano, consultore del Sant’Ufficio diocesano di Napoli e Commissario Deputato della Santa Sede per la Calabria. 46 Macellaio. 47 Ricordati : chi nasce rotondo non muore quadrato. 48 Fichi secchi con ripieno di noci, immerse nel meli i ficu e passate al forno. Molto croccanti e dolci. 49 Se non è zuppa è pan bagnato 50 cascine 51 ragazzina 52 Letteralmente : casseruolina. In pratica era così detto un piatto molto rustico a base di mazzacorde (budellini di maiale annodati, trippe, fegato) immerse in un brodo d’erbe aromatiche e di lauro. Il piatto era piccantissimo per via del peperoncino e di alcune spezie e predisponeva gli avventori a bere molto vino. 53 Il maniscalco - il fabbro 54 la bara 55 “Correte, correte... abbiamo trovato un altro morto ammazzato... correte, correte.” 56 “Vostra Signoria mi perdoni. Signor Capitano, abbiamo trova to un morto ammazzato presso il curvonr dopo la chiesadella Madonna delle Grazie” 57 “Vostra Eccellenza mi benedica e mi perdoni (se sono qui senza permesso) ma, (quel che ho da riferire) il fatto è veramente grave !” 58 il curvone prima della discesa (in direzione di Cosenza) 59 gli aveva trapassato il braccio con la spada 60 quartiere 61 macellaio 62 dopo questo avviso




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